Anche la scorsa notte è stata contraddistinta dal tintinnio della pioggia, a tratti confuso e/o intervallato con gli arrabbiati sibili dello scirocco.
Stamani, invece, per fortuna, residua solo il grigiore del cielo, una cappa, oltretutto, non compatta, bensì chiazzata di frammenti di timido azzurro, delimitati da nubi più o meno spesse. A differenza delle odierne temperature lette con riguardo al Nord, qui non fa per niente freddo, alle otto il termometro segna già un gradevole più dodici, valore destinato in breve ad accrescersi sino a quindici.
La scarrozzata a bordo della mia veterana Golf in direzione Marittima e Castro è agevole e tranquilla, nessun bisogno di premere sull’acceleratore, in giro non ci sono tantissimi veicoli e perciò, nell’arco della solita mezz’oretta, raggiungo la mia villetta del mare, che sarebbe più giusto, invero, qualificare come abitazione di una buona metà dell’anno, che si erge aggraziata sul fondo denominato Pastorizza.
Senza che la residenza nel capoluogo sia da disprezzarsi, tutt’altro, starsene al paesello, ai margini della rigogliosa pinetina, con il mare sul breve orizzonte, quando non a portata di mano, è, tuttavia, proprio un’altra cosa.
Secondo il rituale, via al giaccone e alle scarpe della città per infagottarsi in una giacca a vento blu, che ormai veleggia intorno alle trenta stagioni, e calzare scarponi campagnoli.
Difatti, la prima azione che ho da compiere nella presente trasferta marittimese è di recarmi alla Marina ‘u tinente, onde controllare se, dopo le recenti intemperie metereologiche e il forzoso abbandono protrattosi per circa due settimane, sia rimasta in piedi qualche traccia delle mie verdure, preziosità mangerecce che, in quest’occasione, conto di raccogliere completamente e definitivamente.
Pure il veicolo che adopero per andare a sbrigare detto servizio subisce un cambiamento, nel senso che, parcheggiata la Golf nella pinetina, mi metto al volante della mia mitica cinquecento, immatricolata nuova nell’anno 1966; come temuto, stenta a partire, quest’ultima, la sosta invernale prolungata, ancorché all’interno del garage, non le torna congeniale o gradita, la batteria, in particolare, si riduce ai minimi termini, mi tocca, giocoforza, ancora una volta, spingere il mezzo, a mano e con le braccia, sino alla strada provinciale oltre il cancello, fortunatamente il tratto è in discesa, non è poi una grande fatica.
Comunque, in tal modo, la minuscola e carinissima utilitaria riprende vita, inizialmente con qualche singhiozzo, ma il vecchio automobilista non esita, non si scoraggia di fronte alle imperfezioni del motore, dirigendosi, risoluto, a percorrere, accomodato nello stretto abitacolo, la strada litoranea Castro – Tricase che, è impossibile non sottolinearlo, è un autentico incanto naturale.
Forse a causa della giornata non bella, in aggiunta a una certa costante tipica della stagione invernale, lungo il tratto non si scorge anima viva, salvo un caso unico e isolato.
In concreto, a un certo punto, all’altezza di Porticelli, noto due amici e compaesani, Giovanni e Rocco, i quali, impegnati, come accade sovente, a svolgere qualche lavoro insieme, si trovano seduti su un piccolo scoglio, al confine fra un appezzamento di terreno e la litoranea in discorso, intenti pacificamente a consumare, secondo il costume campagnolo, la loro frugale e leggera colazione.
La sequenza, è di una sorta di film familiare che, senza bisogno di fermarmi, mi riempie dentro di una bella immagine, antica quanto si vuole e però sempre carica d’indicativi contenuti di semplice e sana umanità.
Oltrepassate le figure di Giovanni e Rocco, di lì a poco guadagno la mia meta ossia, la Marina ‘u tinente. Provvidenzialmente, ecco le mie ultime rigogliose pianticelle di cicoria, che sradico agevolmente, e una serie di minuscoli e teneri residui germogli di cavoli e rape.
Non impiego molto e due sacchetti di plastica sono ben riempiti, ad abundantiam integro il relativo contenuto con alcuni profumati rametti di rosmarino, arbusto di cui la predetta marina abbonda, sotto forma, addirittura, di una serie di vere e proprie siepi, in tal modo la contentezza della padrona di casa, al mio rientro a Lecce, sarà più completa.
Fatto ciò, ulteriore incombenza agricola, passo a spargere piccole manciate di fertilizzante organico ai piedi delle piante di cavolo, sì da sostenerle e irrobustirle ai fini della maturazione di ulteriori serie di germogli, nonché intorno a quattro talee di fico messe a dimora un anno fa, nella parte mediana della marina, nei pressi della vecchia e semi diroccata pajara, realizzata esclusivamente con pietre a secco.
Mentre vado attendendo a tali lavoretti, ho anche modo di guardarmi tutt’intorno, lo scenario o palcoscenico, in barba al grigiore dell’odierna giornata del mese corto, è attraente e coinvolgente, e ciò, non unicamente per la maestosità della distesa che, qui, fa da spartiacque fra Adriatico e Ionio, distesa, nella circostanza, non tranquilla, anzi assai movimentata da onde cavalcanti, residuo dei soffi dello scirocco che, è noto, non si evaporano ed esauriscono d’un tratto, ma persistono in genere, purtroppo, per tre giorni.
Insomma, mare a parte – che, come sempre, m’induce a riflessioni sull’ infinito e su orizzonti d’immensità, ancorché, da questa postazione, gli occhi abbiano talora agio di cogliere le delimitazioni delle coste meridionali dell’Albania e delle prime più vicine isole greche – anche semplicemente percorrendo o scalando i terrazzamenti della Marina ‘u tinente si ha la sensazione di vivere in una sorta di scenario surreale.
Nell’odierna circostanza regna un silenzio ben più assoluto del consueto, le stesse foglie dei giovani ulivi si muovono appena, non turbano la quiete, le familiari, diffuse tribù di lucertoline sono scomparse, verosimilmente rintanate all’interno delle buchette o orifizi che fungono da loro case, nemmeno un animaletto a far capolino e/o a guizzare sulla terra rossa o fra uno scoglio e l’altro.
Vie più precisamente, la solitudine e l’atmosfera ovattata dell’ambiente sono rotte, per un attimo, attraverso il fruscio momentaneo e il volo veloce d’un simpatico pettirosso che, in barba all’inclemenza della giornata e all’aria sciroccosa, non ho inteso saltare i suoi appuntamenti sui rametti di un sontuoso arbusto di mirto, per cibarsi piluccandone i minuscoli e gustosi frutti bruni.
Dicevo solo un baleno e, quindi, mi ritrovo lì unico essere vivo, appena accompagnato dai miei stessi passi, lungo il sentiero improprio e irregolare che mi riporta al terrazzamento più basso, a ridosso della strada provinciale.
Monto, lesto, sulla cinquecento per raggiungere la villetta circondata da pini, dimora permanente nella bella stagione e che, mi piace ricordare, è a lungo arricchita e rallegrata dalla presenza di figli e nipotini.
Oggi non mi va di restare da solo a Marittima e, perciò, intorno alla mezza, riprendo la Golf per far ritorno a Lecce.
Analogamente all’andata, un viaggetto lampo, quasi a occhi chiusi, si fa per dire, che ha sempre una sua speciale caratteristica: nel senso che, salvaguardando beninteso l’attenzione alla guida, mi lascia nella mente angoli di spazio per rivivere l’atmosfera delle ore trascorse fra Pastorizza, pinetina, Marina u tinente, nei panni di novello eremita del terzo millennio, in prossimità del mare sempre accattivante, anche quando non è azzurro ma grigio, non disteso e calmo ma imbronciato.
Trascorrono le stagioni, inevitabilmente, pure in capo al ragazzo di ieri, tuttavia il cammino lungo l’attuale tratto esistenziale non è affatto malinconico o spento, ma al contrario perennemente intriso di vivacità eccezionale, quanto a puntuale cattura d’immagini e a cascate di piccole emozioni. Esso ha il pregio di lasciarmi attivi e vivi, dentro, segni e sentimenti d’ideale gioventù.
In termini diversi, la somma degli anni si fa ineluttabilmente più consistente da un almanacco all’altro, almeno sul fronte anagrafico, ormai è divenuta ampiamente indicativa. Nondimeno, mi sembra di avere la fortuna o il privilegio di non cedere passivamente al tempo, di non preoccuparmi circa le dimensioni dell’arcobaleno che ancora sono capace di scorgere, con i suoi accattivanti colori, sulla volta azzurra.
Mi limito a pormi la domanda se siano grandi o piccole, ma non mi importa se la risposta possa essere affermativa o negativa in un senso o nell’altro.
Intanto il ragazzo di ieri, oggi comune narratore, vive e interpreta ogni singolo quotidiano risveglio alla stregua di un nuovo traguardo, se non proprio di una nuova vittoria, lungo l’arco dell’orizzonte definitivo a lui predestinato
Questa volta il titolo è costituito da cinque endecasillabi, ma vi poteva andare peggio, considerando quello chilometrico di tanti testi dei secoli passati. Però, non ho neppure finito di partorirli che già sento il bisogno di controbilanciare ogni loro velleità artistica (!) con i versi di un poeta autentico.
Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte ingenerò la sorte. Cose quaggiù sì belle altre il mondo non ha, non han le stelle. Nasce dall’uno il bene, nasce il piacer maggiore che per lo mar dell’essere si trova; l’altra ogni gran dolore, ogni gran male annulla.
(Giacomo Leopardi, Canti, XXVII, 1-9)
Dopo essermi reso ulteriormente conto che questa contrapposizione confonde ancor più il lettore, entro subito in argomento e mi auguro di svilupparlo così bene che alla fine ognuno si rimprovererà di non aver capito tutto da principio. Chi, invece, ha già capito dove andrò a parare, si affretti ad aprire uno studio di chiaroveggenza; vuol dire che, messa da parte la mia totale avversione a maghi, indovini e oroscopisti, diventerò un suo cliente assiduo …
Quando un intellettuale non esperto di un determinato campo della conoscenza (nel nostro caso la filologia) si lascia incantare da un’ipotesi (nel nostro caso di natura etimologica) formulata, tra l’altro in modo sicuro e perentorio, da un altro intellettuale, nemmeno lui esperto in quel campo, solo per asservirla ad un asserto, (in questo caso filosofico) senza sottoporre quell’affermazione a chi ne sa più di lui (nel nostro caso anche qualche vecchio professore di liceo che non sia il sottoscritto), si prepara il terreno per una spaventosa epidemia dell’errore, contro cui è difficile approntare una cura, anzi impossibile, visto che la rete consente la propagazione istantanea e continua della conoscenza e, ahimé, pure delle fesserie, qualunque ne sia la paternità.
Faccio subito nomi e cognomi, anzi, nome e cognome, visto che il suo portatore tirerà immediatamente in ballo l’altro. In Umberto Galimberti (non un Armando Polito qualunque), I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano, 2009, p. 16 si legge:
Non sto a discutere quanto fondamento abbiano le conclusioni cui Galimberti giunge utilizzando l’etimo del Brown, un filosofo scomparso nel 2002, sul quale per il lettore che ne sente parlare per la prima volta sarà sufficiente il necrologio che troverà in http://archiviostorico.corriere.it/2002/ottobre/05/Norman_Brown_filosofo_che_piaceva_co_0_0210052443.shtml. Né starò a discutere le conclusioni cui lo stesso Brown giunge sfruttando l’etimo da lui partorito. E sull’etimo in sé che voglio concentrare la mia attenzione.
Secondo il Brown amore sarebbe composto dal prefisso greco a– privativo=senza+il latino mors=morte. Alla difficoltà di immaginare questo accoppiamento greco-latino qualcuno potrebbe pensare di ovviare ipotizzando invece l’unione tra la preposizione latina a=lontano da+mors=morte. Quel qualcuno dovrebbe sapere (probabilmente Brawn lo ignorava) che le parole di origine neolatina derivano dall’accusativo della corrispondente voce latina. Ora l’accusativo di mors/mortis è mortem, per cui avremmo dovuto avere, da amortem, amorte e non amore. Quest’ultima voce, invece, deriva da amorem, accusativo di amor/amoris, dalla radice (am-) del verbo amare, come dolore è da dolorem, accusativo di dolor/doloris dalla radice (dol-) del verbo dolère.
L’amore e la morte, in greco Ἔρως καὶ θάνατος (leggi Eros cai Thànatos)1, sono (sensazionale intuizione!) divinità e fenomeni antichissimi e lo sono pure le loro intersezioni, come quella espressa nella vecchia locuzione neretina ti ògghiu tantu bbene ca ti ccitìa (ti voglio tanto bene che ti ammazzerei) e nel proverbio ci no bbuei cu mmuèri ccisu no ffare l’amore cu lli mmaritate (se non vuoi morire ucciso non fare l’amore con le donne sposate), oltre agli esempi concreti che la cronaca di questi ultimi anni premurosamente registra. Se le intersezioni esistono a livello antropologico, non si può, tuttavia, pretendere, per convalidarle, di estenderle anche a livello linguistico ipotizzando, come nel caso di amore, un etimo suggestivo sì, ma scientificamente improponibile.
Per capire quanto ulteriore danno possano provocare i copia-incolla o le attestazioni di stima basate sulla simpatia o sulla fiducia (fenomeno tanto più frequente quando i due attori, l’inventore e il citato, appartengono ad un campo di ricerca, è proprio il nostro caso, diverso da quello al quale pure appartiene il dato utilizzato; è più facile, insomma, trovare d’accordo due filosofi ai quali fa comodo lo stesso dato linguistico, piuttosto che due filologi disposti sempre, e non è certo un male, ad operare sottili distinzioni, che in qualche caso coinvolgono addirittura un singolo fonema), sono costretto a parlare di un fenomeno che, in atto già da tempo, sta proliferando in modo esponenziale perché fa leva sulla vanità umana, cioè sulla presunzione di dover lasciare qualche traccia del nostro passaggio terreno pubblicando qualcosa. Ecco, allora, il businnes delle case editrici che sono pronte a pubblicare qualsiasi schifezza tu abbia partorito a rappresentarti agli occhi degli altri. Puoi scegliere tipo di carta, formato di pagina, colore della copertina e tutti quei dettagli che contribuiscono a rendere più redditizio l’impatto visivo, nonché il numero di copie. Il contenuto, a qualsiasi argomento esso si riferisca, non è una discriminante, se non in rapporto al numero di pagine, cui sarà direttamente proporzionale il costo. Già, perché basta pagare per far sapere anche agli altri ciò che prima sapevano solo i familiari, cioè la nostra presuntuosa stupidità. Certo, bisogna pur dire che rimane ancora un’editoria seria (in grado, cioè di operare un controllo preventivo sulla bontà del prodotto: la censura è un’altra cosa …) sempre più soffocata, però, dall’esigenza, per sopravvivere, di spalancare e poi strizzare l’occhio alle esigenze del mercato e costretta troppo spesso a chiuderlo totalmente di fronte al merito.
Ecco alcuni esempi, con riferimenti concreti al tema di oggi. Mi è sembrato avvilente, pure per me stesso, commentarli, tant’è che, anche per non sprecare tempo, li riporto in formato immagine.
Maria Grazia Lopardi, La divina commedia e il simbolo nascosto, Il cammino alchemico dal caos all’armonia, Youcanprint Selph-Publishing, Tricase, 20072 (senza numerazione delle pagine):
Grazia Romei, Coppia con la mente e con il cuore, Wide edizioni, Milano, 2011, p. 403:
Ervin Lazslo, Pier Mario Biavia, Il senso ritrovato, Springer, Milano, 2013, p. XX4:
L’etimo del Brown oltre che sulla carta stampata non poteva certo mancare anche in questo o quel blog. Anche qui pochi esempi:
La parola è composta dalla A che è un alfa privativo greco, cioè un suffisso che nega la parola che segue, come morale/amorale seguito da MORS che significa morte. Significa sconfiggere la morte. L’amore è l’unica energia in grado di farlo perché da la vita, quindi non siamo noi a creare l’amore.. ma l’amore a creare noi.. e solo amando si è realmente VIVI – Dario Roselli
D’altra parte la parola latina Amor (Amore) è l’antitetico della parola Mors (Morte): a-mors (alfa privativa) ed entrambe le parole derivano dalle analoghe parole in sanscrito, la lingua originaria degli Indoariani.
“La parola “amore” deriva dal latino “a-mors”. Alpha privativo e “mors” morte. Letteralmente significa “senza morte”. Qualcosa che non muore mai.” cit.
a = alfa privativo (derivazione sicuramente greca). mors = dal latino mors,mortis (e cioè morte, infelicità). Pensare che la parola Amore sia un misto di greco e latino è una cosa affascinante… questa l’ipotesi etimologica della mia “stravagante” prof.ssa di italiano e latino, Annamaria Zizza.
La parola “amore” è composta dalla A che è un alfa privativo greco, cioè un suffisso [sic!] che nega la parola che segue, MORS che significa morte. Significa sconfiggere la morte.
L’etimologia della parola amore deriva dal sanscrito KAMA cioè desiderio, passione, attrazione. E il verbo amare ha proprio questa radice KA da cui (c)amare, desiderare in modo totale, in modo viscerale. Anche il verbo greco MAO traducibile come desiderare è considerato una possibile interpretazione etimologica della parola amore, intesa come un’attrazione totale senza razionalità, mentre l’attrazione razionale, mentale e spirituale era espressa dal verbo DILIGERE. Un’altra interpretazione etimologica di amore scompone questa parola in A MORS: senza morte. Dove A è un alfa privativo greco che nega la parola che segue. Questa interpretazione, quasi certamente la più improbabile è affascinante.
Unico a salvarsi, pur nella sua genericità, mi è sembrato quello che segue e col quale avrei chiuso, per così dire, quasi in bellezza se l’autore avesse chiarito il significato di quel finale anche grammaticalmente parlando sembrano essere legati a doppio filo, che, così com’è, sembra essere proprio (in linea con l’indirizzo …) un responso oracolare della Pizia …
Una leggenda metropolitana vuole però che il termine amore derivi proprio da questo sedicente alfa privativo unito al sostantivo mors, la morte; senza morte, dunque. Un’etimologia fantasiosa, palesemente costruita ad hoc, ma non per questo meno affascinante, così come lo è l’indubbia assonanza tra i termini amor e mors, che anche grammaticalmente parlando sembrano essere legati a doppio filo.
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1 Da lì Sigmund Freud trasse la teoria espressa nel 1920 in Jenseits des Lustprinzips.
Le ricerche sulla scultura napoletana in legno, pur avendo negli ultimi anni conosciuto un notevole incremento non si sono, se non in rare occasioni, ‘spinte’ oltre il Settecento. Ora possiamo considerare come i Verzella abbiano portato avanti il magistero degli scultori settecenteschi e, fino alla metà dell’Ottocento, realizzato opere chiaramente influenzate dal gusto neoclassico, ma anche ancorate alla tradizione tardobarocca. In questo secondo caso, al momento, non è agevole distinguere quanto la loro attività si possa liquidare come un semplice fenomeno di ‘attardamento’ e quanto invece sia una specifica componente, legata alle necessità della ‘devozione’ che richiedeva un’impronta necessariamente ‘realistica’ per muovere gli animi degli spiriti ‘semplici’ delle campagne, dove i culti erano capillarmente diffusi, a volte sovrapponendosi.
Questo lavoro dimostra che il territorio del Meridione offre ancora notevoli spunti di indagine e la ricomposizione del ‘clan’ familiare degli scultori Verzella attesta la necessità di allargare le nuove ricerche anche nel verso della ‘storia sociale’, una componente poco frequente negli studi meridionali. Il libro offre un primo spiraglio, aperto verso un periodo poco frequentato non solo per la scultura ma anche nelle altre ‘arti’ nei territori regnicoli, considerato che al di là della mostra sulla Civiltà dell’Ottocento a Napoli, tenutasi nell’ormai lontano 1997, gli aspetti della ricaduta ‘figurativa’ della restaurazione borbonica nell’immensa ‘periferia’ meridionale debbono ancora essere messe a fuoco.
Collana BCP (Biblioteca di Cultura Pugliese) n° 203 formato 17×24, pp. 144, illustrato a colori (oltre 60 illustrazioni)
Il testo è una sintesi della prefazione di Gian Giotto Borrelli
“Non possiedo galloni di penna da richiamo, né, tanto meno, di fonte di cultura e di opinione. Sono soltanto un comune narrastorie… e così osservo, rifletto su ciò che accade: chiaramente, snocciolo un rosario senza fine di vicende, minuscole ed enormi….”: questo scrive Rocco Boccadamo, in Spagine della domenica n. 60 (Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri di Lecce), parlando naturalmente di sé e m’ha fatto pensare, naturalmente, che se la Madonna di Marittima legge questa spagina – anche la Madonna, io penso, s’interessa ai fatti nostri – lei, la Madonna, rifletterà su questa storia e non sarà molto d’accordo con Rocco; infatti, prima di lui, nessun narrastorie con galloni di penna da richiamo l’ha mai notata e quindi descritta su trainella, mentre, davanti a puteca, gustava profumo di vino; chè là sostava, attendendo mesciu Miliu; lui sì chè s’era bagnate le labbra, parcheggiando Madonna su trainella. Bastano i particolari, a volte, per guadagnarsi tanto di galloni al merito, perché non ci si stanchi mai di snocciolare quest’altro “rosario senza fine di vicende, minuscole ed enormi” che Rocco Boccadamo ci regala e che oggi ha per titolo “L’asilo di donna Emma”. “Asilo”: chissà se deriva da auxilium, questo sostantivo; l’ho continuato a pensare mentre, pagina dopo pagina, incontravo le storie, i personaggi, i profumi di terra mia e non solo, le sfumature dei monti d’Albania, il sorriso di boccioli senza tempo, Abano e l’abbraccio dei fanghi mescolato all’abbraccio dei ricordi; asilo – auxilium della memoria; la scrittura in aiuto alla memoria, perché non svaniscano stati d’animo, sensazioni, emozioni, il passo di un nipote alla scoperta di mondi nuovi, mano nella mano del nonno osservatore e narratore; in aiuto alla memoria si snocciola il rosario di Rocco, che non annoia mai perché non è come un ripetere continuo di ave, padre e gloria, ma è un rinnovarsi di volti, luoghi, tradizioni e voci e sinfonie, quelle che per un istante gli sono appartenute e che Rocco decide di regalare agli altri perché diventino patrimonio di comunità e non se ne perda il profumo.
Ecco perché, io penso, la Madonna della trainella di mesciu Miliu, di tanto in tanto se la va a rileggere la sua storia a pagina 79 di “L’asilo di donna Emma”; ha voglia anche lei che tutto sa e tutto può, di staccare un attimo gli occhi dal male del mondo; di sorridere un attimo e di pensare ad “una notte leggera” prima che ritorni il rito d’una processione, d’un canto, d’una preghiera; rosario di nostalgie e di pensieri ed è ancora una volta scrittura di Rocco che se li guadagna sul campo i suoi galloni, in questo suo andare con la mente, con l’anima e col cuore, lungo le strade dell’esistenza che non stanca mai se si riesce a guardarla nella minuzia, appunto, di un particolare per scoprire quella smagliatura nella rete dei misteri che lei ci offre; così varia l’esistenza da meritare d’essere raccontata; in questo momento mi perdo nella nuvola di fumo del mezzo sigaro toscano che Stinu ‘u Pativitu “gustava, fumava e consumava col contagocce”; ritorno a leggere la storia per risentirne profumo; mi sarebbe piaciuto regalare a Stinu, giorno dopo giorno, la sua porzione di quel cibo che non ha mai potuto gustare, perché non glielo permettevano i suoi spiccioli….
Un’altra pagina, fra le tante, da leggere e meditare e snocciolare come grani di un rosario diverso, il rosario della vita.
Ci sono parole che in un attimo evocano ricordi dell’infanzia e molte di loro già oggi sono condannate a non essere ereditate dalla memoria dei più giovani. Il consumismo, tutto calato nell’edonismo del presente, ha fatto sì che considerassimo inutile guardare al passato e pensare al futuro, se non di quelli che verranno, almeno al nostro. Eppure, non guasterebbe riflettere ogni tanto, senza le altisonanti teorizzazioni filosofiche o sociologiche che puntualmente dobbiamo sorbirci da parte di tutti i media, tv in primis, ma impiegando solo un pizzico di buon senso, che, poi, è il padre della saggezza e senza vergognarci di trasmettere agli altri le nostre emozioni filtrate dal tempo, noi che non ci facciamo riguardo a pubblicizzare su facebook pure l’amorazzo del momento o l’andata al bagno di qualche istante prima …
È probabile che ciò che dirò distrarrà, ahimé per poco tempo, chi ha più o meno la mia età ed ho solo una fioca speranza che esso susciti nei più giovani una curiosità metodologica, cioè non strettamente connessa con un interesse contingente, che da quello trae il suo alimento momentaneo, sì, ma che, per dirlo in breve, consente con i successivi, nel rispetto dei diritti naturali di ognuno, lo sviluppo corretto della nostra umanità.
Solo un temerario come me poteva affidare questo compito così difficile, quasi disperato, ad un oggetto piccolissimo che credo non venga più fabbricato perché il progresso e il mercato hanno decretato, come per tanti altri suoi compagni di destino, l’inutilità e quindi la morte. Si verifica per loro un fenomeno nel quale ognuno di noi dovrebbe riconoscersi. Come la memoria di ogni essere umano “normale” dopo la sua morte dura sì e no il tempo della generazione successiva (ah, i vecchi comò con la loro bella carrellata dei ritratti degli ascendenti, magari fino alla quinta generazione …) e per riesumarne il nome bisogna recarsi all’anagrafe comunale o, per fare più presto, al cimitero, a patto che la sepoltura sia ad uso perpetuo (?) …, così parecchie voci, non solo dialettali, indicanti oggetti non più in uso, cioè morti, sopravvivono solo in vecchi dizionari o nelle opere letterarie in cui hanno avuto l’onore di essere utilizzate in passi particolarmente significativi. E quest’ultimo dettaglio le accomuna al destino non dei “comuni” mortali ma a quello dei “grandi”, per i quali il Foscolo spese l’idea di un’immortalità tutta laica. Sulla reale o presunta grandezza ci sarebbe, secondo me, da discutere, ma non è questo il tema di oggi, anche se ora parlerò della siminsella che certamente rispetto ad altre varietà della sua specie non brilla per dimensioni, tutt’altro, come dimostra, meglio dell’immagine di testa, quella che segue, in cui essa occupa l’ultimo posto.
La siminsella era un chiodo molto piccolo utilizzato dai calzolai nel processo di fabbricazione o di riparazione di una scarpa. Oggi c’è chi butta nella spazzatura un paio di scarpe praticamente nuovo e poi, magari, si reca in chiesa a partecipare alla messa dopo aver calzato il paio comprato il giorno prima … ah, se i finanzieri si appostassero presso i cassonetti e solo dopo accurate indagini consentissero ai poveri cristi di rovistarne il contenuto!
Negli anni della mia infanzia al bambino, che pure aveva un ruolo privilegiato, veniva comprato un paio di scarpe eccedenti di una o due misure (o numeri) perché esse sarebbero dovute durare almeno due anni. Nelle famiglie numerose, poi, c’era un ininterrotto passaggio di scarpe (e non solo di quelle; nemmeno le mutande erano indenni) dal fratello più grande al più piccolo e si comprende come questo oggetto tanto importante da diventare un’eredità, per quanto indesiderata, degli ultimi arrivati, dovesse per forza essere sottoposto ad un certo numero di interventi di restauro da parte del ciabattino. E in questo la siminsella aveva un ruolo fondamentale nella sostituzione della metà anteriore della suola (minzettu), che era la più soggetta ad usura, o della parte terminale del tacco (sobbrataccu).
Ho ancora davanti ai miei occhi di bambino l’immagine del signor Marzano che aveva la sua bottega in via Giacomo Matteotti, quando il cliente veniva accompagnato nel retrobottega e le sue richieste venivano ascoltate dal ciabattino che senza perdere un solo istante si era già rimesso a lavorare al suo deschetto su cui campeggiava, in una disposizione che quasiasi profano avrebbe giudicato confusionaria (mentre digito questa parola lancio, chissà perché, un fugace sguardo d’insieme alla mia scrivania …) una miriade di attrezzi del mestiere.
In quel piccolo ambiente, pervaso dall’odore di cuoio, colla e vernici, lo guardavo incantato, come si guarda un prestidigitatore, nell’atto di mettersi in bocca una manciata di siminselle e poi, con movimenti rapidissimi, estrarne una alla volta con la sinistra e, dopo averla leggermente infilzata al punto giusto, dare con la destra un solo ma decisivo colpo di martello per fissarla …
Mi chiedevo perché mai lui sì poteva correre il rischio di ingoiarne una (oggi posso dire di credere che non gli sia mai successo …) mentre a me era precluso pure da genitori forse un po’ troppo apprensivi (ma si era verificato più di un tragico caso …) di giocare con un palloncino per il rischio che nell’operazione di gonfiaggio e sgonfiaggio lo fagocitassi con le conseguenze facilmente immaginabili.
Se le due parole dialettali prima ricordate per indicare i due dettagli della scarpa fisiologicamente più soggetti al restauro (per l’abilità di certi artigiani, compreso il signor Marzano, mi pare riduttivo parlare di riparazione) non hanno bisogno di alcun commento pensando al loro teorico corrispondente italiano (rispettivamente sovrattacco e mezzetto), per siminsella voglio spendere qualche parola in più.
La voce trova, come il napoletano semmenzella1, il suo corrispondente formale nell’italiano obsoleto semenzella, diminutivo di semenza, che è dal latino medioevale sementia(m), dal classico sementis, variante di semen, a sua volta dalla radice sa/se del verbo sero/seris/sevi/satum/sèrere=seminare.
Tra siminzella e semenzella ho parlato di corrispondenza formale perché, mentre la voce salentina designa solo il chiodino da calzolaio, quella italiana era usata, insieme con la variante sementella come sinonimo di santonina, polvere vermifuga estratta dal fiore del santonico.
Mi servirò ora dell’immagine e non della trascrizione della fonte per rendere più agevole e rapida a me la fedele documentazione e più diretta al lettore la fruizione.
Semenzella appare pure come traslato nel significato di piccola creatura destinata a produrre essa stessa in Panormitana beatificationis et canonitationis venerandi servi Dei Aloysii La Nuza, Tipografia della reverenda Camera apostolica, Roma, 1756, p. 203:
come una varietà di grano nella zona di Catania (chissà se almeno i locali ne conservano il ricordo …):
come voce tecnico-militare (anche nella variante sementella oltre che nella forma seminella):
Il lettore ormai spossato si starà chiedendo: – Ma questo, quando la finisce? -. Lo accontento subito, dopo, non la pubblicità …, aver ricordato il simpaticissimo detto napoletano Quannu nu’ ssai fa’ ‘o scarparo nu’ rrompere ‘o cazz e semmenzelle (Quando non sai fare il ciabattino non rompere il cazzo ai chiodini).
Se il detto al momento potrebbe riguardare me … non v’è dubbio che la precedenza (e la do volentieri) spetta ai tanti politici, e loro manutengoli, disonesti, anche se, per come siamo combinati, l’utilizzo di questo cataplasmo, previa applicazione di un potentissimo apparecchio acustico a questi signori (?) abituati, soprattutto per colpa nostra, a fare orecchio da mercante, dovrebbe durare qualche decennio …
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1 In Dante assume il significato traslato di stirpe: Considerate la vostra semenza:/fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza (Inferno, XXVI, 18-20).
2 Nel napoletano semmenzella e semmentella (quest’ultimo diminutivo di semente) sono usati nello stesso significato della voce salentina (chiodino da calzolaio) ma anche come sinonimo di santonina (vedi il citato semenzella); in quest’ultimo significato in una testimonianza letteraria antica (XVI-XVII secolo) compare sementella (che credo italianizzazione di semmentella dovuta ai copisti):
A riprova, infine, dell’origine tutta meridionale della voce ricordo il siciliano simintedda:
Il mondo delle idee nella dimensione platonica dell’essere e la sua rappresentazione attraverso l’oggetto.
“Un oggetto che può essere posseduto da tutti non ha un’anima perché l’anima è ripartita tra mille oggetti”, mi torna in mente questa massima di Maestro Carlo mentre mi accingo ad entrare nella sua officina. Raggi, ruote dentate, ticchettio allucinante, mi consegna a una pace mistica, sovrumana. Un paradiso di meccanica dai movimenti perfetti, che si apre in un prospetto scalcinato, attraverso una saracinesca che sembra l’ingresso di una crew di graffitari.
Disegni, progetti, lo studio di un ingegnere che non ha un computer e, sembra, nemmeno un tavolo da disegno, ma mille chiodi infissi alle pareti reggono una quantità di disegni ed elaborati grafici, un archivio che è solo un ponte, una passerella proiettata in un universo prodigioso.
“Ogni capriccio che passa per la testa di un uomo può essere trasferito alla testa di una forcella”.
Maestro Carlo è un genio, la sua anima vive per strada, nei luoghi visitati con le emozioni del ciclista, nella sintonia con il mezzo. Persona assolutamente fuori dall’ordinario, la sua magia può essere sentita pedalando oppure può essere notata in dettagli tecnici prima che estetici di pregio, il suo incantesimo entra nell’anima di chi possiede una sua bicicletta e regala paesaggi ed emozioni, benessere e piacere.
“..alla bicicletta ci si affeziona. La bicicletta è la protesi meccanica e mentale di un uomo”.
La storia della bicicletta Carlà nasce con Gialma Carlà, che iniziò l’attività di costruttore di biciclette a Monteroni nel 1936.
La figura paterna è sempre stata al centro di ogni cosa per Carlo. Dal padre, Gialma, Carlo apprese l’arte della costruzione di biciclette su misura iniziando a frequentarne l’officina già all’età di 6 anni. “Mio padre mi ha insegnato a mettere le toppe alle camere d’aria quando avevo sei anni. Il primo telaio avevo sedici anni, mio padre si metteva le mani nei capelli ma non volle darmi consigli affinchè imparassi a mie spese. Infatti, quel telaio si ruppe dopo quindici giorni. Quando avevo 18 anni costruivo già buoni telai”.
In una vita dedita alla ricerca ciclistica, realizza numerosissime invenzioni. La sua officina è testimone delle visite delle più importanti personalità del settore. Memorabile l’incontro con Tullio Campagnolo che rimane sorpreso ad osservare il suo Centraruote, un dispositivo meccanico destinato a chi si cimenta con il non facile esercizio di centrare le ruote di una bicicletta. Molti i prototipi di telai che aiutano il ciclista ad assumere una postura aerodinamica. Numerosi e ancora attuali i suggerimenti alle principali industrie di componenti ciclistiche per perfezionare i prodotti immessi sul mercato.
Una cura maniacale dei particolari, sorprendenti finezze tecniche, soluzioni avanzate, rivoluzionarie, sono tratti distintivi ripercorribili su autentici gioielli cromati a due ruote.
Le attuali leggi sul lavoro e sulla sicurezza, il suo stesso laboratorio, non gli consentono di trasferire le sue infinite conoscenze ad alcun allievo.
Un uomo. Un oggetto. Unico come chi l’ha creato, pensato con l’anima, per l’anima di un uomo.
Ci sono fenomeni sui quali i sociologi, e non solo loro, versano fiumi d’inchiostro e durissimo è lo scontro, per così dire, tra chi dà vita al fenomeno e chi è costretto a subirne le conseguenze. Recentissimo è il caso che ha visto protagonista la maggior parte dei vigili urbani a Roma e dei netturbini a Napoli, episodio che, almeno a caldo, sembrerebbe in procinto di scatenare un altro capitolo di quella pantomima di guerra tra governo (locale o centrale, che differenza c’è?) e sindacato (il colore conta poco …), il primo ostinato nel suo programma di disintegrazione di diritti fondamentali, il secondo altrettanto protervamente e criminalmente testardo nel volerne difendere l’uso improprio o il loro abuso. Eppure, basterebbe poco a risolvere la questione: sedersi ad un tavolo insieme e stilare ex novo (cioè senza il rompicapo di rinvii a commi di norme precedenti …) una legge apposita (cioè non miscelata, come spesso succede, nell’osceno calderone di provvedimenti pomposamente definiti organici) con pochissimi articoli redatti con parole tutte aventi un significato univoco, tale, cioè, che nemmeno il migliore avvocato-filologo sarebbe in grado di sfruttarle a vantaggio del proprio cliente disonesto.
Bisognerebbe, perciò, bandire da ogni testo legislativo non solo quelle parole che hanno un significato sfumato ma anche quelle che nativamente si prestano all’equivoco. Una di queste è l’aggettivo feriale, che dal significato del latino ecclesiastico feria ha assunto quello di (giorno) non festivo della settimana ma anche quello opposto, per esempio nella locuzione periodo feriale o ferie, connesso col significato di festa che feria aveva nel latino classico.
Sembra che il principio fondamentale ignorantia legis non excusat (in cui oggi ignorantia va preso, oltretutto, con beneficio d’inventario) sia stato disintegrato da quello dell’impunibilità per incapacità d’intendere e di volere (reale, presunta, dubbia o fasulla …) fino alla sublime giustificazione a mia insaputa. C’è da meravigliarsi, perciò, se lo sport nazionale non è il calcio ma, insieme con la corruzione, l’assenteismo, parolaccia calunniosa che andrebbe sostituita con prolungamento delle ferie (da cui andrebbe dedotto, però, il tempo perso per timbrare il cartellino e subito dopo uscire non per andare a prendersi un caffè, per quanto lungo …, ma per fare la spesa, andare in palestra e tornare sul posto di lavoro mezz’ora prima, giusto per senso di responsabilità …, della fine del turno)?
Posso permettermi il lusso di queste osservazioni, e chi è in grado di farlo mi smentisca, perché nella pratica professionale, e non solo in quella, la puntualità è stato il mio difetto peggiore, tant’è che un bidello, traumatizzato dal fatto che puntualmente quando avevo la prima ora mi sorprendeva davanti al cancello della scuola chiuso, una volta ebbe a sbottare simpaticamente – Professò, quasi quasi ti to li chiai a ssignuria – (- Professore, quasi quasi do le chiavi a lei -); e un preside, peraltro puntuale (perché se così non fosse stato non si sarebbe sviluppato il purgatorio, come avvenne, ma l’inferno …), ebbe ad accusarmi di zelo eccessivo.
Non rimpiango di essere stato puntuale e mi dispiace pure, nella mia perversità, di essermi assentato solo per licenza matrimoniale, per due lutti familiari e, in trent’anni di carriera, non più di un mese per motivi, non fasulli, di salute. Anche mentre mia moglie partoriva io facevo lezione, non so come, ma la facevo. E, se non posso illudermi che per la mia costante presenza in classe i ragazzi tra loro mai abbiano usato frasi tipo – Ma quistu mai more? – (- Ma questo mai muore? -), posso garantire che sicuramente sarà circolata la frase (anche se non l’ho sentita) – Ma a qquistu no llu pigghia mancu nna fursione? – (- Ma questo non lo colpisce neppure un’influenza? -).
Quando, però, certi fenomeni, sempre esistiti, assumono dimensioni notevoli e nulla o poco si fa per stroncarli si corre il rischio che il cittadino corretto a lungo andare si senta come il povero fesso che non ha capito nulla di come va il mondo, pur sapendo benissimo come dovrebbe andare. E questo, purtroppo, non vale solo per l’assenteismo ma anche per le raccomandazioni, l’evasione fiscale, etc. etc.
La rivoluzione, è risaputo, è avvenuta sempre dal basso (anche se in alcuni casi fomentata strumentalmente da porzioni di alto alla ricerca di maggior potere …) ma bisogna attendere che il livello di sopportazione si riduca ai limiti estremi, che la maggioranza, cioè, reagisca, anche violentemente, per fame. Cosa c’è da aspettarsi da un potere politico preoccupato solo di mantenere in vita se stesso se non annunci e riforme che strizzano l’occhio ora all’una ora all’altra parte nel tentativo disperato (mi auguro illusorio …) di mantenere un artificioso consenso?
Nella fattispecie, poi, l’accampata esiguità delle risorse si è tradotta nella riduzione dei controlli a livelli ridicoli ed è risaputo da tempi immemorabili che quandu la muscia non c’è li sùrici bbàllanu (quando la gatta non c’è i sorci ballano).
La compiacenza del medico attestante la malattia resterà sempre presunta e difficilmente dimostrabile, a meno che in ogni studio o in ogni abitazione non vengano installate microspie che registrino battute di questo tipo:
– Tottò, osce no sta mmi vae cu mmi llèticu cu llu principale –
(- Dottore, oggi non mi sta andando di litigare con il principale -)
– Aggiu capitu; ti segnu nnu ggiurnu pi ffursione, siccomu aggiu istu ca sta tti cola lu nasu –
(- Ho capito; ti segno un giorno per influenza, siccome ho visto che ti sta colando il naso -)
– Nnu ggiurnu? Tottò, puttana pi nna faa puttana pi nn’ungulu: sègnaminde cinque! –
(- Un giorno? Dottore, puttana per una fava, puttana per tutto il baccello: segnamene cinque! -)
– Allora tocca mmintimu no ffursione ma stitichezza cucciuta ti na sittimana –
(- Allora dobbiamo mettere non influenza ma stitichezza ostinata e perdurante da una settimana -)
– Tottò, minti cce bbuei, tantu no ppensu ca lu mièticu ti controllu, sempre ci mi troa, mi quarda an culu –
(- Dottore metti quello che vuoi, tanto non penso che il medico di controllo, sempre che mi trovi, mi guarda in culo -)
Anche il medico destinato al controllo, salvo casi eclatanti, per esempio quello di uno colpito ufficialmente da stitichezza ma sorpreso mentre si sta scolando una boccetta di astringente, dovrà giocoforza avallare la diagnosi e la prognosi del collega. Vogliamo, allora, almeno eliminare l’idiozia e la presa in giro delle fasce orarie di reperibilità? Se uno è ammalato è bene che, finché non guarisce, si riguardi e che se ne stia a letto o in poltrona, ma in casa, a meno che non sia stato costretto (lo stato di necessità è diventato fratello dell’incapacità d’intendere e di volere e del a mia insaputa …), proprio nel momento della visita fiscale (che, per essere seria, dev’essere sempre incombente, senza preavviso, pure di notte …, per tutta la durata della presunta malattia), a uscire di casa per andare a dare l’ultimo saluto alla madre morente o per soccorrere il povero passante che chiedeva disperatamente aiuto a cinque isolati di distanza …
Quis custodiet ipsos custodes? (chi controllerà gli stessi controllori?), si chiedeva desolatamente poco meno di duemila anni fa Giovenale nella sesta satira. Chi controllerà, mi chiedo io oggi altrettanto desolatamente, che quel miserabile almeno 5% sia stato rispettato o no? E, soprattutto, quale sanzione è prevista a carico di chi si è aggiudicato la gara d’appalto, nel caso in cui tale oscena percentuale non sia stata rispettata?
Già, si diceva, l’esiguità delle risorse: ma con quale spudoratezza viene messa in campo questa locuzione quando ad ogni finanziaria, puntualmente, accanto ad ulteriori prelievi fiscali subdolamente nascosti tra le righe, ci si sciacqua la bocca con locuzioni tipo lotta agli sprechi e, addirittura ogni volta viene costituito un apposito nuovo team d’esperti per individuare questi rami secchi, che continuano a succhiare linfa vitale imperterriti, perché evidentemente i potatori, pur lautamente pagati, hanno fatto un lavoro (ammesso che non siano stati anche loro assenteisti …) che non è tenuto in nessun conto da chi ha il dovere di farlo?
Il quadro è desolante e, poiché ogni popolo ha il governo che si merita, in attesa che arrivi la fame diffusa di cui sopra, l’unica alternativa sarebbe una svolta autoritaria che, per il nostro bene, col tempo si riveli anche e soprattutto autorevole (e l’autorevolezza può venire solo dall’esempio …). Sulla scena politica, purtroppo, non vedo ombra di chi potrebbe interpretare questa parte, tutto sommato, ingrata ma salvinifica, chiedo scusa (l’ironia e il sarcasmo sono le due componenti essenziali, mi auguro inesauribili, del mio kit di sopravvivenza …), salvifica.
Il giorno feriale (in cui, a scanso di equivoci, feriale assume il suo significato meno gradito, cioè lavorativo) nel nostro dialetto è uttisciàna. Per il Rohlfs la voce deriva dalla locuzione latina die(m) quotidiana(m), a sottolineare anche la sua originaria contrapposizione all’eccezionalità della festa (perfino il Padreterno nel settimo giorno si riposò …).
Rispetto a tale etimo, sostanzialmente corretto, ritengo, però di dover fare qualche piccola integrazione/precisazione. Intanto analizzo il primo componente del nesso messo in campo dal filologo tedesco. Quotidiana (di cui quotidianam è l’accusativo femminile singolare) è aggettivo dall’avverbio quotidie=ogni giorno, formato dall’indeclinabile quot=quanti+die=giorno (formazione analoga quotannis=ogni anno). Va pure detto che già nel latino classico è attestata l’alternanza cotidianus/quotidianus/cottidianus per l’aggettivo e quotidie/cotidie/cottidie per l’avverbio.
Nel latino degli umanisti , oltre alle tre forme appena indicate, compare pure quottidianus: Guarino Guarini (XV secolo), De linguae Latinae differentiis: Octavianum Augustum quottidiano sermone “simus” pro “sumus” usurpasse legimus (Leggiamo che Ottaviano Augusto aveva usato nella lingua di ogni giorno simus invece di sumus); Lorenzo Valla (XV secolo), Ars grammatica: …separat in binas hominum sollertia voces, exceptis paucis, certa ratione, quod aut sint quottidiana domi aut oculis insignia nostris: quottidiana caper sunt et capra sive capella … (… la solerzia degli uomini separa in due le voci, ad eccezione di poche, per un motivo sicuro, poiché o sono cose quotidiane in casa o nobili ai nostri occhi: sono quotidiane caper e capra o capella …); Francesco Filelfo (XV secolo), Epistola a Lorenzo il Magnifico: … num putemus oratores vel in senatu, vel in foro, vel apud populum alia usos oratione quam latina, hoc est quottidiana vulgarique …? (Forse dovremmo considerare oratori o nel senato o nel foro o presso il popolo quelli che usano una lingua diversa dalla latina, cioè quella di ogni giorno e popolare …?).
Da quottidianus e cottidianus i volgari quottidiano e cottidiano: Giovanni Sabadino degli Arienti (XV secolo), Novelle Porretane, XXIV: Advenne dunque uno giorno che, dolendose del sinistro portava per el tardo advenimento del famiglio cum uno miser Piero Goso scolaro savonese, suo quottidiano compagno, omo callido, astuto e piacevole gabatore oltra modo, li disse il dicto miser Piero che non se pigliasse affanno …
Baldassar Castiglione (XVI secolo), Il libro del cortegiano, II, 17: Ma in somma non bastaranno ancor tutte queste condizioni del nostro cortegiano per acquistar quella universal grazia de’ signori, cavalieri e donne, se non arà insieme una gentil ed amabile manera nel conversare cottidiano.
Con ellissi di febbre come in terzana e quartana: Pietro Crescentio (XVI secolo), Opera di agricoltura: Ancora diamo la sua polvere assolvere et vale alla cottidiana e alla terzana … contro la cottidiana di flegma falsa et contra la rogna si pesti … et cotale oximelo vale contra la quartana et cottidiana se non fosse già di flegma falsa …
Il nostro uttisciana ha seguito la seguente trafila partendo non da (diem) quotidiana(m), come vuole il Rholfs, la cui proposta non dà conto della caduta di qu– e della geminazione di –t-), ma da (diem) cottidiana(m) per passare a cottidiana(m) (ellissi di diem), poi a ottidiana (affievolimento di c-, compensato con v– nella variante vuttisciana in uso nel Leccese a Alessano e Castrignano dei Greci e nel Brindisino a Carovigno e Ostuni), quindi a ottisciana [da notare il normalissimo sviluppo -dia->-scia- come in sciàna=disposizione d’animo, umore (da Diana, per cui vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/12/16/lu-spilu-e-la-sciana/])>uttisciana] e, infine, a uttisciana.
Come non ricordare il detto Nana, nana, comu la festa l’uttisciana, riferito genericamente al trascorre sempre uguale del tempo e in particolare a persona che nel giorno feriale vestiva allo stesso modo di quello festivo? Si trattava di qualcosa di eccezionale, dati i tempi. Proprio feriale è l’aggettivo che il Boccaccio (XIV secolo) usa a tal proposito nell’Elegia di Madonna Fiammetta, V, 31: Semplicemente, e di feriali vestimenti vestita, vi vado.
E il riferimento, questa volta diretto, alle ristrettezze economiche non manca neppure nella ninna nanna, di cui il detto precedente sembra essere la versione riveduta ed ampliata: E Ninina e Ninana/comu la festa l’uttisciana./Ci turnisi no ‘ndi tegnu,/comu àggiu ffare tti mantegnu? (E Ninina e Ninana, come la festa così il giorno feriale. Se non ho soldi, come devo fare a mantenerti?).
Da notare come il Ninina (che già si era evoluto per ragioni di rima in Ninana), diminutivo di Nina (a sua volta abbreviazione di Antonina, ma come non ricordare lo spagnolo niña=bambina?) e pure foneticamente vicino alle voci infantili ninni (=bambino) e ninna nanna, diventa nel primo detto Nana, abbreviazione di Antonia. Bella la domanda che conclude la ninna nanna, paradossalmente proprio perché retorica: il genitore avrebbe dato la vita pur di non far mancare al bambino l’indispensabile.
Già, l’indispensabile; ma non solo quello alimentare e di prima necessità, anche quello affettivo, sensoriale ed emozionale. E oggi? Oggi, probabilmente, il genitore (o chi per lui), ammesso che avesse il tempo e la voglia di farlo, canterebbe così: E Ninina e Ninana/comu la festa l’uttisciana./Pi llu pane non c’è nn’eurinu/ma tieni nu beddhu telefoninu (E Ninina e Ninana, come la festa così il giorno feriale. Per il pane non c’è un centesimo di euro ma hai un bel telefonino).
Sarebbe già tanto, ma meno male che qualcuno (regressione infantile?) può contare, prima che la fame dilaghi, sull’aiuto di un amico veramente … insospettabile.
Abbiamo bisogno del vostro aiuto nella realizzazione di una piccola ma importante tessera di quel mosaico sempre più esteso, rappresentativo e, se ci consentite, veramente democratico, che ormai è la fondazione. L’appello è rivolto soprattutto ai concittadini perché riguarda proprio uno scorcio del paesaggio neretino.
Per un lavoro che uscirà a breve ci sono indispensabili alcune foto del gruppo di alberi di gelsi che si trovano in prossimità della chiesa dell’Incoronata e del municipio incompiuto. Una foto che consenta di vedere i tre soggetti sarebbe l’ideale, ma vanno bene anche tre foto distinte. Un dettaglio importante: le foto devono essere state scattate nel periodo tra primavera ed estate, cioè gli alberi non devono apparire spogli.
Non potendo, per inderogabili esigenze non dipendenti dalla nostra volontà, attendere la prossima primavera per provvedere personalmente, la vostra partecipazione diventa determinante. Chiunque abbia una o più foto con le prerogative descritte, può contattare la redazione o darne notizia con un commento. Il nome dell’autore degli scatti prescelti sarà citato nella pubblicazione.
Vi ringraziamo fin da ora se ci renderete possibile una scelta, ancor di più se dovessimo averne il classico imbarazzo.
La tradizione novolese è inserita nella Rete Italiana di Cultura Popolare e sostiene la “Dieta Mediterranea”, patrimonio dell’Unesco.
Il fuoco buono, il falò più grande del mediterraneo, alto 25 metri e largo 20 sta per illuminare la notte di Novoli nel cuore della Valle della Cupa.
La Fòcara è costruita con circa 80mila fascine di tralci di vite secchi provenienti dai feudi del Parco del Negroamaro, sapientemente posate con tecniche tramandate di padre in figlio da almeno quattro secoli. Col tempo sempre più imponente e maestosa, è un rito che si perde nella notte dei tempi.
Negli anni, questo rituale millenario e propiziatorio, ha saputo superare i confini del Salento per conquistare un pubblico sempre più vasto, crescendo fino a superare i centomila visitatori. L’evento, conosciuto in tutta la Puglia, attrae migliaia di spettatori da tutto il sud d’Italia ed è stato oggetto anche di un documentario del National Geographic.
L’edizione del 2015 è legata al nome di Jannis Kounellis, pittore e scultore di fama internazionale. Con l’aiuto degli uomini del Comitato Festa, l’artista di origine greca ha arricchito la montagna di fascine con un’opera densa di significati simbolici.
“I Giorni del Fuoco” profumano poi di enogastronomia con la mostra mercato dei prodotti tipici del Salone Cupagri del Gal valle della Cupa e la Rassegna delle Cantine con i vini doc del Parco del Negramaro e delle Città del vino di Puglia.
All’interno della rassegna infatti e nell’ambito del Festival della Dieta Mediterranea CUPAGRI, il giorno 15 siete invitati a partecipare alla tavola rotonda “Dieta Mediterranea e sviluppo territoriale: identità, stile di vita, cultura e sostenibilità tra tradizione e innovazione”. Vi aspetto per parlare di agrobiodiversità e delle eccellenze agroalimentari alla base del nostro modello nutrizionale e della tradizione enogastronomica salentina.
L’evento, programmato nell’ambito del Progetto di cooperazione “LEADERMED”, Mis 421, Asse IV Azione comune 4.2.3 ( Organizzazione di un Festival della Dieta Mediterranea in Puglia nella Provincia di Lecce), è volto alla tutela e valorizzazione delle culture locali sulla Dieta Mediterranea.
Nello spazio tenda “CUPAGRI – festival della dieta Mediterranea”, durante le giornate del 15, 16 e 17 Gennaio 2015 sono predisposti ed allestiti, spazi espositivi per operatori agroalimentari provenienti da tutti i territori dei GAL partner di progetto.
Il sistema dieta Mediterranea è rappresentato quale stile di alimentazione sano e stile di vita coniugato con gli elementi storici, culturali e sociali legati al cibo stesso.
In occasione del Festival sono pianificati, anche in collaborazione di Campagna amica di Coldiretti, laboratori e concorsi enogastronomici che metteranno insieme chef, giornalisti di Puglia e non solo, studenti e operatori locali, e tutti insieme, nei diversi momenti programmati, saranno chiamati a sperimentare con le proprie mani ricette e tecniche tradizionali che danno origine allo stile alimentare mediterraneo.
15 – 16 – 17 Gennaio 2015 – Piazza Tito Schipa – Salone dell’Agro alimentare CUPAGRI durante i festeggiamenti della Focara di Sant’Antonio a Novoli
PROGRAMMA
GIOVEDI 15 GENNAIO 2015
Ore 9.30 Allestimento salone CUPAGRI
Ore 10.00 “Penne al Dente” Concorso di cucina della Dieta mediterranea con la partecipazione di chef e giornalisti regionali e nazionali.
La cucina a “chilometro zero” interpretata eccezionalmente per la grande kermesse della fòcara di Novoli, dai giornalisti. Squadre formate da una rappresentanza di cronisti delle varie testate pugliesi e non solo, capitanate da cuochi e pasticceri, metterà da parte per un giorno pc, penne, taccuini e microfoni e si cimenterà nella preparazione di piatti tradizionali, utilizzando ingredienti appartenenti rigorosamente alla Dieta Mediterranea.
Ore 18.00 Taglio del nastro del Salone dell’agroalimentare CUPAGRI
Ore 18.00 Apertura degli stand enogastronomici delle aziende
Ore 18.15 Saluto delle Istituzioni:
Fabrizio NARDONI, Assessore alle Risorse Agroalimentari Regione Puglia
Oscar MARZO VETRUGNO, Presidente Fondazione Focara di Novoli e Sindaco di
Novoli
Giuseppe Maria TAURINO, Presidente del GAL Valle della Cupa
Domenico TANZARELLA, Presidente del GAL Alto Salento, Capofila del progetto di cooperazione LEADERMED
Cosimo VALZANO, Presidente del Consorzio Comuni Nord Salento Valle della Cupa
Ore 19.00 Convegno/tavola rotonda: “Dieta Mediterranea e sviluppo territoriale: Identità, stile di vita, cultura e sostenibilità tra tradizione e innovazione”
Gabriele PAPA PAGLIARDINI, Autorità di Gestione PSR Puglia 2007-2013
Pier Federico LANOTTE Responsabile scientifico Re.Ge.Vi.P., Re.Ger.O.P., e
Re.Ge.Fru.P. per la conservazione della biodiversità delle colture arboree pugliesi.
Olga BUONO, Confagricoltura Ricerca e Consulenza Srl
Moderatore: Roberta GRIMA, Direttrice di www.sanitasalento.net
VENERDI 16 GENNAIO 2015
Ore 9.30 Introduzione del laboratorio dei Bambini “L’importanza di una merenda sana” da parte della dietologa Barbara FRISENNA.
Ore 10.00 LABORATORIO per i bambini che giocheranno con la Dieta Mediterranea, con attività ludiche e di apprendimento, imparando come si prepara una merenda sana.
Obiettivo del laboratorio è quello di insegnare ai più piccoli come preparare merende sane senza rinunciare alla bontà. I bambini sperimenteranno da loro come si preparano le merende che poi in seguito mangeranno tutti insieme. Il laboratorio durerà due ore all’incirca e sarà formato da max 30 bambini.
Ore 17.30 Introduzione dei laboratori di degustazione “L’olio e il vino di Puglia: colori profumi e sapori ”
Ore 18.00 LABORATORIO di degustazione vini a cura dell’agronomo/degustatore Valentino VALZANO.
Ore 19.00 LABORATORIO alla scoperta dell’extravergine di oliva, con degustazione a confronto fra Leccina, Ogliarola, Coratina etc. a cura dell’agronomo/degustatore Valentino VALZANO e l’imprenditore Francesco BARBA.
I laboratori di degustazione di olio e di vino, saranno delle vere e proprie sessioni di degustazione, dove si assaporeranno diverse etichette di olio e di vino provenienti alle aree di diversi GAL di Puglia e di queste se ne comprenderanno, grazie al prezioso apporto tecnico di un degustatore, le proprietà organolettiche ed i possibili abbinamenti con i cibi e prodotti provenienti dal nostro modello alimentare, quello mediterraneo.
SABATO 17 GENNAIO 2015
Ore 10.00 LABORATORIO per adulti a cura della masseria didattica “LU CANTIERI”
Introduzione del laboratorio di adulti “Le paste Lievitate, le proprietà del lieviti, confronto tra lievito madre, lievito di birra e lievito chimico” da parte di Barbara NATALIZIO e Roberta OSTUNI, Biologhe Nutrizioniste.
Obiettivo del laboratorio è quello di far conoscere un metodo di lievitazione sana e sostenibile, cercando di ridurre il più possibile le problematiche alimentari legate all’utilizzo di lieviti chimici. Si faranno conoscere diverse tipologie di farine con cui si prepareranno tarallini e biscotti. Il laboratorio durerà due ore all’incirca e sarà formato da max 20 adulti.
Nel quasi cuore della stagione invernale, qui, madre natura, offre un mattino assai bello, sole splendido, luce sfolgorante del tipico genere salentino, nemmeno una nube in cielo, aria fresca e frizzantina, leggera a respirarsi e che ti rigenera dentro. Cornice ideale e stimolante, dunque, per una passeggiata in direzione del centro cittadino.
Oltre che l’effetto dei propizi elementi atmosferici di cui anzi, l’appagamento del pedone narratore va man mano arricchendosi grazie, anche, a un piccolo rosario d’immagini e situazioni che si ha casualmente modo di incontrare e visionare.
All’interno della villa comunale, nell’agorà delimitata da una serie di busti in pietra leccese raffiguranti concittadini illustri, lo sguardo si volge verso due panchine quasi contermini. Sulla prima, sostano tre giovani uomini dall’aspetto gioviale e tranquillo, tratti d’origine mediorientali o arabi, verosimilmente facenti parte della nutrita colonia d’immigrati che vive da queste bande. Sembrano intenti a una conversazione così semplice e pacata che, a osservarli, danno la parvenza, quasi, di vecchi amici.
Sedute sull’altra, invece, due ragazze carine, intorno ai sedici/diciassette anni, trucchi appena accennati, capigliature garbate, niente sigarette o gomme da masticare in bocca, con accanto i rispettivi zaini. Anche loro, calme e distese.
S’accosta, il curioso, e non riesce a trattenere la domanda: “Niente scuola, oggi?”. Al che, le interessate, non modificano l’espressione e si mantengono sorridenti; all’ulteriore domanda:
“C’è, forse, un compito in classe?”, una di loro precisa di buon grado: “Si, di matematica”. E così, via allo scambio di un ciao.
Nei pressi della Basilica di Santa Croce, proprio tra Palazzo dei Celestini e Palazzo Adorno dove hanno sede gli uffici dell’Amministrazione Provinciale, nel mezzo della strada, si nota un gruppetto di persone chiaramente intente a dar vita a una manifestazione.
Dagli agenti di polizia presenti in zona, si apprende che trattasi di prestatori d’opera precari, della categoria dei cosiddetti lavoratori socialmente utili, i quali, a fronte di servizi resi al citato ente, a causa della dichiarata mancanza di fondi nell’attuale fase di ridimensionamento delle Provincie, lamentano di non aver ricevuto il corrispettivo previsto e spettante. A loro sostegno, un uomo con piccolo microfono in mano, si sbraccia affinché sia dato il misero pane a quei poveri, arrivando a proporre, se proprio c’è completa assenza di danaro in cassa, il taglio del dieci per cento sulle retribuzioni alte, ossia a dire dei dirigenti e dei capi dell’Ente, i quali incasserebbero cinque/sei mila euro netti al mese.
Digressione nella cronaca, a proposito di dieci per cento, viene alla mente la medesima aliquota, calcolata a valere su commesse e/o appalti di dimensioni rilevanti, che un manipolo di ufficiali, sottufficiali e dipendenti dell’Arsenale Militare di Taranto, per fortuna testé scoperti, inquisiti e finiti in carcere, sono andati a lungo pretendendo, a titolo di tangenti e mazzette.
All’inizio del salottino buono del centro storico, via Vittorio Emanuele, tre giovani turiste cinesi passeggiano beate, completamente a loro agio, quasi fossero di casa. Una volta tanto, un positivo risvolto della globalizzazione.
Sul percorso del ritorno, rallento, al solito, all’altezza della Sala Bingo (un tempo, il glorioso Teatro Ariston), l’unica esistente nella capitale del barocco. E però, nella circostanza, eccezionalmente e per la prima volta, mi fermo e ardisco tirare la maniglia dell’uscio ed entrare. Nell’anticamera o hall dell’esercizio, un impiegato è pronto a mettermi garbatamente in mano un talloncino numerato.
Ma io, più che altro, passo lesto a chiedergli se, rispetto agli anni passati e lontani, la crisi abbia o meno fatto sentire i suoi morsi anche lì. L’addetto, sempre gentilmente, mi risponde che l’attuale situazione non è proprio identica a quella dei primi tempi, ad ogni modo la gente affluisce tuttora nel locale in buona quantità, tutti i giorni, con la speranza d’imbattersi nella fortuna, in ciò insistendo, in parte, proprio perché il ménage della vita è diventato difficile.
Non manca, l’uomo, d’accennare anche a situazioni di dipendenza ludica evidenziate da taluni soggetti, cosa che, del resto, accade non unicamente nella Sala Bingo e si nota chiaramente mettendo piede nei tabacchini e ovunque si giochi o scommetta con gratta e vinci o strumenti similari.
A completamento della breve conversazione, l’interlocutore fa presente che il suo datore di lavoro offre agli avventori soluzioni di confort durante la permanenza nel locale, compresi pasti, preparati da servizi di catering e/o ristoranti esterni, davvero a buon mercato: cita, ad esempio, per la colazione meridiana, il primo e il secondo piatto al prezzo di soli due euro ciascuno.
Dopo la Sala Bingo, nell’ultimo tratto di strada, manco a dirlo, l’incrocio con una signora sfoggiante una tuta di lavoro dai colori accesi e vistosi: di nuovo sull’altare della curiosità, la domanda circa l’attività svolta e la relativa risposta “operatrice ecologica”. Piccolo ma indicativo particolare, la donna ha finito il suo turno odierno e, al momento, servendosi di una moneta da due euro, è impegnata a grattare su un mucchietto di tagliandi sazia popoli, anzi forieri di ricchezze e mirabilia.
I rintocchi di mezzogiorno segnano il riguadagno del mio portone di casa: con l’animo appagato e contento, in virtù sia del bel mattino sotto il sole, sia degli stimolanti incontri.
TAP o non TAP, pannelli solari al top della tecnologia o lunari (per questi ultimi bisognerà attendere gli ultimi studi sulla luce riflessa …), vuoi azzardarti a tentare un improponibile paragone tra il calore affascinante ed evocativo emanato da un caminetto, beninteso a legna, visto che la tecnologia ne offre anche di virtuali …, e quello senza nome (che non sia un marchio …) né anima di un qualunque radiatore? O tra un arrosto alla brace ed uno alla griglia … del forno elettrico o di quello a microonde, magari accompagnato, quest’ultimo, per il tempo di utilizzo dalla registrazione della frusciante carezza della risacca? Parafrasando un recente spot sulla pasta mi sento di affermare senz’ombra di smentita: per riscaldarti o per cuocere l’importante è la legna, anzi, come diciamo noi neretini, li lliòne.
Lascio ad altri più competenti di me, se lo vorranno, il compito di disquisire sull’ottimale connubio tra cibo da cuocere o ambiente da riscaldare da una parte e, con riferimento alle dimensioni e all’essenza, tipo di legna da utilizzare dall’altra e passo a parlare di altri aspetti forse meno accattivanti, e non solo perché non legati direttamente alla pancia …
Tanto legna che lliòne hanno lo stesso etimo: dal latino ligna, plurale di lignum; però, mentre li lliòne col suo articolo plurale (li è un’unica forma valida sia per il maschile che, come nel nostro caso, per il femminile) conserva l’originario numero, legna dall’originario neutro plurale con valore collettivo ha sviluppato il suo numero singolare ma del numero originale di ligna ha conservato, comunque, un certo ricordo, tant’è che al plurale può fare sia le legne che le legna, a parte legni usato metonimicamente per indicare gli strumenti musicali, le xilografie e, in poesia, le navi. Per quanto riguarda, poi, la scomparsa di –g– nel passaggio ligna>llione vedi la parte finale di https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/06/fraume-ovvero-prima-che-casinu-prendesse-piede/.
È una delle pagine di una grammatica greca manoscritta risalente al 1501-1525 custodita nella Biblioteca Angelica a Roma. Il manoscritto è vergato da un’unica mano, quella del cosiddetto copista di Sergio Stiso di Zollino (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/03/da-casole-a-parigi/ con particolare attenzione ai commenti) e di altra mano presenta postille saltuarie in greco e in latino.
Dal foglio traggo il dettaglio che ci interessa (nell’originale seconda colonna) con la mia trascrizione a fronte e mi affido ad espedienti grafici per mettere in risalto le varie sezioni.
Qualsiasi studente che frequenti la prima classe del liceo classico dovrebbe facilmente riconoscere nel rettangolo rosso la declinazione del singolare, in quello celeste quella del duale, nel verde quella del plurale. Superfluo dire che il lignum, una delle postille di altra mano che si legge in alto a destra nel primo rettangolo, è il corrispondente latino del greco ξύλον.
E mi piace chiudere con una nota nostalgica. Mi chiedo come i miei ragazzi mi avrebbero accolto se a suo tempo avessi spiegato i nomi neutri della seconda declinazione portando in classe una copia di quello che oggi, grazie alla rete, ho potuto presentare. La risposta è facile: a legnate …
“La viaggiatrice che attraversò le Halles alla fine dell’estate/ camminava in punta di piedi / la disperazione innalzava al cielo i suoi gigari così belli” . Leggo Breton, fondatore del movimento surrealista francese e di fronte alla mia finestra c’è un cantiere, uno dei pochi ancora in piedi, in questo periodo di crisi edilizia ed economica. Vedo delle impalcature, ormai le 16.30, i muratori hanno staccato e regna la calma assoluta. “La scrittura è tutta una porcheria” dice Antonin Artaud, uno degli esponenti di punta del surrealismo. La poesia fa parte della raccolta “I campi magnetici”(1920), di Breton e Soupault, e penso all’ ècriture automatique, nella quale questi poeti si cimentarono. Oggi sarebbe difficile ripetere certi esperimenti letterari, senza sembrare ridicoli. Non solo per le mutate condizioni storiche e per la mancanza di geni visionari come Picabia,Eluard, Renè Crevel, Max Ernst, ma proprio perché ormai la mort difficile nell’arte si è consumata. Tutto è già stato scritto. “E nella borsetta c’era il mio sogno, quel flacone di Sali / respirati solo dalla madrina di Dio/ i torpori si diffondevano come la nebbia/ al “can che fuma”/ dove erano entrati il pro e il contro/”. Fa scuro e le impalcature davanti a me anneriscono con tutto il resto. Vedo decine di tubi modulari a formare i ponteggi. Così apro Internet e su Google scrivo “tubi”, per vedere cosa viene fuori. Azzardo commistioni (l’ho sempre fatto nelle porcherie che scrivo), come quella “della macchina da cucire e l’ombrello su una tavola anatomica”, su cui Battiato (con Sgalambro) ha costruito un album molti anni fa. Ma non posso tentare di imitare la tecnica degli accostamenti analogici casuali propugnata da Breton.
La prima voce che consulto è: “Il tubo di Pitot”. Esso “è uno strumento utilizzato per misurare la velocità macroscopica di un fluido (tipicamente un gas). Fu inventato nel 1732 dallo scienziato francese Henri Pitot.”(Wikipedia). Pitot in francese si legge “pitò” e solo a pronunciarlo un po’ più lentamente (“ pitooo..”) mi vengono in mente i cartoni animati per adulti “Southpark “(quelli che fanno vedere i sorci verdi al Moige) e il tipico intercalare di uno dei loro scorretti e volgarissimi personaggi: lo psicologo della scuola Mackey. Poi c’è il tubo multistrato: utilizzato dagli idraulici per l’installazione dell’impianto idrico o degli impianti di riscaldamento e idrosanitari o anche per la distribuzione del gas metano. Essi sono di quasi esclusiva competenza degli installatori autorizzati e devono rispondere a determinate normative europee. Non così invece il semplice tubo monostrato, di plastica o di gomma, utilizzato per l’irrigazione e nel nostro dialetto comunemente (e orrendamente) chiamato “suga”(dal latino sucare, “succhiare” perché serviva per aspirare il liquido, generalmente il vino, dal recipiente). Come molti della mia generazione, sono nativo dialettale, e ricordo le difficoltà e l’imbarazzo, da piccolo, di tradurre in italiano questo sconcio sostantivo. Però penso che un tubo, una “suga”, potrebbe essere oggetto di un quadro di Duchamp come ready made, cioè quegli oggetti banali del quotidiano elevati ad opera d’arte e potrebbe avere la stessa dignità del famoso “Orinatoio”.
Se passiamo alla biologia, Il tubo neurale è presente sia negli embrioni animali che negli embrioni umani. In questi ultimi, “durante il corso dello sviluppo, l’estremità cefalica del tubo neurale perde la forma cilindrica e si allarga in vescicole encefaliche, abbozzi delle diverse parti dell’encefalo;la restante parte del tubo neurale, discostandosi in misura minore dalla forma originaria, dà origine al midollo spinale.”( da: Wikipedia)
Poi c’è il tubo di Venturi o venturimetro che “è uno strumento che serve a misurare la portata di una condotta. Questo strumento sfrutta l’effetto Venturi e prende il nome proprio dal fisico Giovanni Battista Venturi.” Venturi però a me fa pensare a due cose diverse ed entrambe variamente collegate all’estetica: ad un manuale sui pittori italiani e alle tette. Sì, il manuale “Pittori italiani d’oggi” (1958), giace riposto e mai aperto nella mia libreria, lascito chissà di quale circostanza della vita, e sul frontespizio c’è scritto “ a cura di Lionello Venturi”. Le tette invece sono quelle di Alessia Venturi ( in realtà Ventura), modella e showgirl che ogni tanto rivedo sgambettante in qualche trasmissione televisiva.
“ Il tubo di Crookes è un particolare tubo a vuoto di vetro, a forma di cono, che presenta 3 elettrodi : 1 anodo e 2 catodi. Deve il suo nome al suo inventore, il fisico William Crookes, e rappresenta l’evoluzione del tubo di Geissler e il precursore del tubo catodico”. Crookes mi riporta per assonanza ai cookie del pc, quelli che indicano tutte le preferenze di navigazione che abbiamo e che si usa disattivare per mantenere una certa privacy; ma anche al Cuki, cioè il contenitore di fogli di alluminio per alimenti, ma anche agli adesivi per dentiere di una vecchia pubblicità (Kukident).
Di fronte al tubo catodico, ovviamente, si apre un mondo, solo a pensare a quanta e quale fantasmagorica varietà abbia accompagnato negli ultimi cinquant’anni la vita degli italiani, elettrizzati, annoiati,stimolati,infreddoliti,depressi, felici, addormentati o catatonici, davanti all’elettrodomestico amico (“ la televisione, che felicità, nuova dimensione della civiltà”- Edoardo Bennato). E mi vengono in mente, come in un Blob schizoide montato dai più diabolici Ghezzi e Giusti: Fantastico 8, Mondiali di Argentina dell’86, Che tempo fa, Almanacco del giorno dopo, Sanremo ‘87, Aboccaperta, Mi manda Lubrano, Il postino, Avanzi, Maurizio Costanzo show..
Ma quando uno dice tubi, quelli a cui immediatamente pensa sono i cosiddetti “tubi Innocenti” (dal nome della famosa ditta meccanica milanese,poi anche produttrice automobilistica con la prima Mini Minor): i tubi cioè comunemente utilizzati in edilizia nella costruzione di ponteggi. E quando guardo il cantiere edile di fronte a me il mio cervello va a quel famoso scatto in bianco e nero in cui si vedono degli operai in un grattacielo di New York sospesi su una trave d’acciaio ad una altezza vertiginosa. La foto è del 1932 e gli operai, in pausa pranzo, erano quelli che lavoravano alla costruzione del Rockfeller Center. I tubi possono avere mille usi. E a questi si è ispirato il gruppo musicale italiano “Marta sui tubi”.
Poi abbiamo i tubi led, cioè le lampade tubolari al neon che, sebbene poco attraenti esteticamente, hanno il vantaggio di illuminare a giorno qualsiasi ambiente, di un bianco che più bianco non si può. Un tubo è quello che porta, o meglio dovrebbe portare, il gas dall’est europeo in Italia, via Grecia e Albania, attraverso il Canale d’Otranto: e questo mi fa pensare alla TAP e alla guerra ideologica che si è scatenata qui nel Salento fra sostenitori del gasdotto, cioè la join venture delle multinazionali che lo realizzeranno e chi lo avversa, cioè quasi tutto il territorio con in testa il comune di Melendugno. Il dibattito è aperto e le telecamere dei tg pronte a immortalare scontri verbali e fisici fra i manifestanti. Torno a Breton: “I piccioni viaggiatori i baci di soccorso / si univano ai seni della bella sconosciuta / dardeggiati sotto il crespo dei significati perfetti / una fattoria fioriva dentro Parigi / e le sue finestre si affacciavano sulla via lattea/”
“Tube”, cioè “tubo”, comunemente chiamano nel Regno Unito la metropolitana, underground: un termine quest’ultimo ( coniato da Duchamp negli anni Sessanta)che mi fa immediatamente pensare alla cultura “underground”, cioè a quel vasto movimento giovanile di controtendenza che fra gli anni Sessanta e i Settanta dagli States al Regno Unito, ma anche all’Italia, ha fatto sfaceli, fra fiori e cannoni, sesso e mariuana, radio libere ma libere veramente e stampa alternativa. E cogitando così, mi viene in mente il gruppo dei Velvet Underground e la copertina del loro primo album con quella famosa banana disegnata da Warhol. Con la testa che penzola fra tubi e tubi, mi sovviene lo Youtube su cui posso rivedere le puntate perse delle trasmissioni televisive, soprattutto i litigi e le risse, i video musicali, convegni e presentazioni di libri, interviste e filmati amatoriali di svalvolati in cerca del loro quarto d’ora di celebrità.
Elucubrando, attraverso una serie infinita di tubi, esco infine dal tunnel della mia neurolabile serata e mi ritrovo, non so come, a mangiare una pizza e bere una birra al pub “Al tubo” di Catania.
Forse l’argomento scelto è solo un pretesto, sentimentalmente sano, per ribadire un consolidato gemellaggio1. Sui danni che il Vesuvio, croce e delizia di Napoli e suo simbolo nel bene e nel male, fece in quel fatidico anno 1631 e sull’ampia letteratura in materia rinvio il lettore al blog al quale resterò sempre affettuosamente legato perché fu il primo a tenermi a battesimo sul web, Vesuvioweb, dove questo post esce in contemporanea con il blog della Fondazione Terra d’Otranto, con la quale ho l’onore, ormai da parecchio tempo, di una stabile collaborazione. All’indirizzo http://www.vesuvioweb.com/it/?s=1631 troverà una serie di lavori, l’uno con un taglio diverso dall’altro, la cui lettura varrà a soddisfare ogni curiosità. Prima di iniziare, però, dal momento che i creatori e responsabili non lo farebbero per pudore nemmeno sotto tortura, debbo far notare a chi ci segue che un dettaglio per me importantissimo contraddistingue l’uno e l’altro blog: l’assenza totale di qualsiasi sponsor, come di qualsiasi retribuzione per i collaboratori, il che è garanzia di totale liberazione reciproca da ogni condizionamento, anche il più innocente. Così, dopo aver messo al sicuro le gemme nella scarpa da dove altri, se conservano un minimo di rispetto per se stessi, spesso sono costretti a togliersi il classico sassolino, comincio.
Il poeta salentino (del napoletano dirò, estesamente, dopo) è Giuseppe Battista nato a Grottaglie in provincia di Taranto l’11 febbraio 1610 e morto a Napoli il 6 marzo del 1675. Ecco due suoi ritratti.
Il primo è un’incisione di anonimo, tavola a corredo di Lettere di Giuseppe Battista, opera postuma, et ultima, estratte alla luce da Simon-Antonio Battista nipote dell’Autore, Combi & La Noù, Venezia, 1678.
Il secondo ritratto, probabilmente derivato dal primo, è una tavola a corredo di Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, tomo III, Gervasi, Napoli, 1816. Vi si legge Morghen inc., ma l’assenza del nome e la qualità del manufatto mi fanno pensare, nonostante la compatibilità cronologica, che autore non sia Raffaello Morghen (1758-1833) ma uno della sua scuola, forse il fratello Antonio che era stato uno dei suoi allievi all’Accademia di belle arti a Firenze, della quale Raffaello era stato nominato maestro d’incisione sin dal 1803.
Da notare Terra di Grottaglie Prov. di Lecce, errore giustificabile solo in parte con la posizione di Grottaglie quasi sul confine tra le provincie di Taranto e Brindisi.
Credo, tuttavia, per motivi cronologici che entrambi abbiano assunto a modello la tavola, di anonimo, che è a corredo di Lorenzo Crasso, Elogi d’huomini letterati, Combi e La Noù, Venezia, 1666, p. 3342:
Le poesie che ora riporterò in formato immagine, con a fronte la trascrizione per agevolarne la lettura e in calce le mie note di commento, sono due sonetti facenti parte della raccolta Delle poesie meliche, quarta parte, Abbondio Manafoglio e Valentino Mortali, Venezia, 1665 (di seguito il frontespizio).
Nel 1631 il Battista aveva 21 anni ed è difficile, direi impossibile senza il supporto di qualche altro documento, per esempio una lettera, individuare la data, sia pure approssimativa, di composizione dei due sonetti nell’ampio intervallo cronologico 1631-1665. Per quel che può contare la mia opinione personale: pensando alle movenze enfatiche tipiche dello stile barocco ed al loro modico impiego da parte del grottagliese3, pensando al clima tragico (non mi azzardo a dire quanto sincero …) dominante in altri poeti che cantarono l’evento pure per loro contemporaneo (evento che, va detto, era diventato quasi un argomento da salotto, un obbligo cui nessuno di loro poteva sottrarsi …) c’è da pensare che nel momento in cui egli scrisse i due componimenti l’esperienza era stata già per gran parte metabolizzata.
Le due variazioni sul tema appena lette appaiono accomunate, oltre che dal consueto bagaglio mitologico in ossequio al gusto letterario dell’epoca, da uno stile ancora libero dai fragori e dagli eccessi che di lì a poco esploderanno e improntato ad un’estrema coerenza, diremmo oggi, ideologica, perché in entrambi l’evento catastrofico viene inteso (mandando, più o meno inconsapevolmente, all’aria il concetto cristiano di Dio somma bontà) come uno strumento della giustizia divina che, con l’annientamento violento, sia pure per cause naturali, fa pagare all’uomo i suoi peccati.
Siffatta interpretazione è una costante in tutti coloro che in quel periodo cantarono la catastrofe. Mi piace, però, ricordare Giambattista Basile (1566-1632) che in uno stile più sobrio (non a caso precede il Battista di una generazione abbondante) e con una visione più “laica” (non è scomodato nessun dio, né pagano né cristiano) dedicò all’evento tre sonetti4 che furono pubblicati in Rime d’illustri ingegni napoletani, raccolte dal dottor Gio. Domenico Agresta insieme con le sue rime, et coll’argumenti d’un verso, in fronte di ciaschedun componimento. Date in luce dal sig. D. Gioseppe Macrino, Ciera, Venezia, 1633. Del testo, stando ai dati OPAC, si conservano solo due esemplari, uno a Napoli nella Biblioteca della Società napoletana di storia patria, l’altro a Gubbio nella Biblioteca comunale Sperelliana. La speranza di trovare in rete il testo digitalizzato è andata delusa5 ma la stessa rete mi è venuta in soccorso consentendomi dapprima di recuperare il testo di uno dei tre sonetti6. E qui la storia della letteratura s’intreccia con quella della musica ed entra in campo Michelangelo Rossi (1602-1656). Dei madrigali a cinque voci che egli compose sopravvivono solo i primi due libri in due manoscritti (University of California, Berkeley Music Library – MS 176 e Oxford, Bodleian Library – Tenbury MS 1160). La sedicesima composizione del secondo libro dal titolo Mentre d’ampia voragine tonante ha come testo proprio quello di uno dei tre sonetti ricordati del Basile. Come faccio a saperlo? Semplice, è bastato usare il mio jet privato e fare una capatina a Berkeley. Poi, siccome sono un tipo molto pignolo, mi son recato pure ad Oxford per dare una controllatina (quella che i filologi pomposamente chiamano collazione). Naturalmente, insieme con la collazione ho fatto pure colazione nel migliore ristorante che ciascuna città potesse vantare. Non ci crede nessuno per il fatto che mi sarebbe stato più facile recarmi a Gubbio o, ancora più facile, a Napoli? Oppure per la mia innata idiosincrasia per i viaggi (esclusi, beninteso, quelli con la fantasia) o per il fatto che non mi sarei potuto permettere un jet privato neppure se in più di trent’anni di carriera (?) ad ogni mio allievo, dal più bravo al meno, avessi chiesto, proporzionalmente, del denaro in cambio della promozione? Niente di tutto questo. Con un po’ di fiuto e di quella il cui nome è usualmente e icasticamente sostituito con quello che identifica le parti basse posteriori, ho trovato grazie alla rete ciò che cercavo in Brian Mann, The madrigals of Michelangelo Rossi, University of Chicago, 2002, v. 10, p. 527:
E siamo giunti alla sorpresa finale del titolo. Qualcuno probabilmente la considererà come il solito annuncio fatto con lo stesso intento miserabile con cui i detentori del potere fanno quasi quotidianamente da qualche anno a questa parte i loro; con la differenza, si dirà, che nel mio caso non è in ballo il consenso elettorale ma qualche lettore o, come oggi si dice, qualche contatto in più. Non perdo tempo a difendere la mia, presunta da me o reale, buonafede; rendo partecipe il lettore di quella che mi sembra una straordinaria coincidenza.
Il primo è il ritratto già visto del Battista; il secondo è quello del Basile, tavola (tratta da http://www.e-rara.ch/doi/10.3931/e-rara-8289) a corredo del poema Teagene uscito postumo nel 1637, su disegno di Giovan Battista Caracciolo (1578-1635) e incisione di Nicolas Perrey, uno dei più famosi incisori attivi a Napoli nel XVII secolo, autore, fra l’altro, delle tavole di Theatrum omnium scientiarum, Mollo, Napoli, 1650 (http://books.google.it/books?hl=it&id=CzZm0vJz8PAC&q=lll#v=onepage&q&f=false). Ricordo che del Perry è anche l’immagine di testa di questo post e anche il frontespizio di parecchi volumi di argomento religioso tra cui Vita, e miracoli di S. Gregorio arcivescovo e primate d’Armenia, Scoriggio, Napoli, 1655. Non vorrei che si pensasse che sia stato solo il campanilismo a spingermi a ricordare questo titolo, visto che San Gregorio Armeno è il patrono di Nardò, in cui risiedo da quando avevo pochi mesi, perché famosa in tutto il mondo è pure l’omonima via di Napoli, la strada degli artigiani del presepe).
Tenendo conto solo del volto non trovate, naso aquilino a parte del Battista, una certa rassomiglianza tra il grottagliese e il napoletano? Bel gemellaggio fisico-letterario, anche se più di una generazione separa i due. E che dire della coincidenza G(iuseppe) B(attista) e G(iambattista) B(asile)? Meglio smetterla qui …
2 Avvocato e letterato napoletano della seconda metà del secolo XVII. Oltre a celebrare il Battista in uno degli elogi dell’opera citata fece murare nella chiesa di S. Lorenzo Maggiore in Napoli, dove vicino la porta minore il grottagliese fu sepolto, la seguente epigrafe: IOSEPHO BAPTISTAE/PHILOSOPHO THEOLOGO ORATORI ET POETAE/NOSTRAE AETATIS CLARISSIMO/VIRO MAXIMO ET INCOMPARABILI/MAXIMUM INCOMPARABILIS AMICITIAE TESTIMONIUM/LAURENTIUS CRASSUS B. P./ANNO MDCLXXV/DIE X MARTII
3 Non condivido, perciò, ripromettendomi in un prossimo lavoro di dimostrarne, con riferimenti testuali precisi, l’eccessiva severità, il giudizio di Giovanni Mario Crescimbeni che in L’istoria della volgar poesia, Chracas, Roma, 1698, a p. 163 scrive: Tutto vago della turgidezza non fa pompa d’altro che di traslati arditissimi, d’iperboli gagliardissime, di voci nuove, e risonanti, di spessi superlativi, e di continua erudizione, di maniera che in questo affare si crede universalmente non esservi stato alcuno che l’abbia emulato, massimamente se si guardano i suoi Epicedi, ove diffuse con maggior abbondanza i suoi mentovati ornamenti. Ma questa scuola anch’essa molto piacque al secolo; ed infiniti ingegni si perderono per farne acquisto. La dose successivamente fu rincarata da Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, s. n., Venezia, 1796, tomo VIII, parte II, p. 757: … fu cattivo poeta, che tutti riunì in se stesso i vizi del secolo, ma fu buon precettore.
4 Furono probabilmente gli ultimi versi che scrisse, per quanto sarà detto in nota 6 .
5 D’altra parte Benedetto Croce a p. LXI dell’opera che cito nella nota successiva scriveva in nota 1: Due di questi sonetti furono stampati nella Scelta di poesie nell’incendio di Vesuvio fatta dal SIg. Urbano Giorgi, Segretario dell’Ecc.mo Conte di Conversano; ded.ta al cardinal Antonio Barberini (in fine: Roma, MDCXXXII), pp. 41-2. Tutti e tre nelle Rime di illustri ingegni nap., pp. 133, 135-6. Debbo l’aver potuto vedere questi rari volumetti, conservati nella Bibl. Del Club Alpino, alla cortesia del cav. Luigi Riccio.
6 In rete ho recuperato anche il testo di un altro sonetto citato da Benedetto Croce come un bello, anzi un brutto saggio del più puro seicentismo in Lo cunto de li cunti (il Pentamerone) testo conforme alla prima stampa del 1634-1636 nel volume L della Biblioteca napoletana di cultura e storia, Napoli, 1891, pp. LX-LXI:
Con vomero di foco, alto stupore/mostruoso arator solca il terreno,/e il seme degl’incendii accolto al seno/vi sparge, e ‘l riga di fervente umore./E, quindi, a fecondarlo, in rapid’hore,/di cenere ben ampio, il rende pieno;/onde, quanto circonda il mar Tirreno,/messe raccoglie di profondo horrore./Ma, se danno produce a noi mortali/cotanto aspro Vesevo; ond’ogni loco/arde, né scampo ei trova in mezzo al verno,/pur raccoglier ne giova in tanti mali/dal cener sparso, e dal versato foco,/membranza de la Morte, e dell’Inferno.
A proposito dell’eruzione del 1631 subito dopo il Croce aggiunge: Ma “erano appena terminati i flagelli dell’incendio, – dice un cronista -, quando il giusto Dio, scorgendo, che non erano ancora emendati, volle darli altra sorte di gastigo, poiché insorse un male di canna così crudele e contagioso, che parve peste, del quale in pochi dì morsero infinite genti!”. Morirono anche moltissimi dell’aristocrazia; e “tuttavia ne van morendo dì per dì, – seguita il cronista -, e ne sono morti di subito D. Giovanni d’Aquino, Principe di Pietralcina, e Giovan Battista Basile, dei primi poeti di questo tempo, e Gio. Girolamo di Tomaso, medico assai celebre”. Le due parti virgolettate rinviano ad una nota dove si legge: Bucca, Aggiunta, ms. c, sub febbr. 1632.
Sempre la rete mi ha consentito, infine, di recuperare il testo dell’ultimo sonetto, che trascrivo da una tesi (pp. 164-165) di dottorato di ricerca di Elisa Castorina (Università Federico II di Napoli), integralmente leggibile in http://www.fedoa.unina.it/3220/1/Vesuvi_Ardenti_CASTORINI.pdf, lavoro il cui pregio non è minimamente scalfito da alcuni refusi tipografici fra cui nel testo che ci interessa spicca, molto simpaticamente, Fetente per Fetonte …
Rispetto agli altrui due in quest’ultimo sonetto l’evento del 1631 rappresenta solo un pretesto per cantare la durezza del cuore di una donna che, a differenza del Vesuvio, non si è sciolta: Bella donna real, che al viso porte/le fiamme a incenerirne accese, e pronte;/fiamme, che rinovar già di Fetonte/mille volte ne’ cor l’acerba morte./Fiamme, onde fassi, e più possente, e forte/opre a mostrarne amor leggiadre, e conte/del vasto ardor, che dal sen versa un monte,/movi tremante il piè, le guance smorte./Ah dove? Ove ne vai?, che tu non spiri/foco maggior da l’amorose luci/ A far de l’alme altrui dolente gioco./ Ogni parte è Vesuvio, ove t’aggiri; temi tu le ruine, e’l rischio adduci;/l’incendio fuggi, e teco traggi il foco.
Quasi infinite sono le opportunità di conoscenza o di approfondimento della stessa che la rete offre e qualsiasi contributo dato con la consapevolezza dei limiti delle proprie capacità, cioè seriamente e, comunque, sempre in buona fede e non con la voglia di esserci a tutti i costi nel tentativo, non destinato a durare a lungo, di spacciarsi per quello che si vorrebbe essere ma che probabilmente non si sarà mai, qualsiasi contributo, dicevo, sia il benvenuto. Particolarmente interessante è nella fenomenologia della rete il proliferare di gruppi accomunati da un interesse settoriale. Tale proliferazione, però, secondo me, di per sé non è un bene poiché raramente la quantità va d’accordo con la qualità e vale relativamente l’obiezione che il raggiungimento della qualità dovrebbe essere stimolato proprio dalla concorrenza. Temo che, salvo rare eccezioni, in tempi in cui il merito continua ad essere avvilito e la serietà, ahimè non solo quella scientifica, ad essere un optional che nessuno sceglie, anche in questo campo si verifichi quello che in economia si chiama cartello, cioè un accordo che, qui, però, non solo è tacito e inconsapevole ma comporta un livellamento, secondo me verso il basso, della qualità.
Si rimane, perciò, piacevolmente sorpresi quando si scopre che in un gruppo, che magari si è conosciuto casualmente, c’è un faro sicuro, cioè competente, sulla cui luce gli iscritti possono contare. È il caso del gruppo Fra le “SCRASCE”1 nel quale in Facebook mi sono imbattuto casualmente e le cui notifiche sono tra le pochissime da me controllate (non lo dico per spocchiosa sufficienza ma perché il tempo per le cose serie è sempre troppo poco …). La schermata che segue rappresenta, per così dire, la cronistoria di un incontro e di un’amabile conversazione.
Conclusione provvisoria: ringrazio la signora Gilda Cordella che ha posto il quesito e tutti coloro che hanno postato il loro commento, tra i quali solo un pazzo potrebbe non definire decisivo quello di Piero Medagli. Non mi vergogno di dire, infatti, che senza l’identificazione da lui avanzata difficilmente sarei andato a cercare la voce dialettale, peraltro mai sentita, sul vocabolario del Rohlfs, come, invece, ho fatto e riportato.
L’appetito, come si sa, viene mangiando; e questo vale anche per le buone erbe, tra le quali il salaccione.
Eccomi, così, a proporre una sorta d’integrazione alla scheda ideale che, compilata sulla scorta dei soli dati desumibili dalla schermata, e peraltro conciliabilissimi tra loro, poteva apparire già completa.
Tale integrazione sarà giocoforza correlata con le mie competenze che non rientrano certamente tra quelle botaniche ma, almeno teoricamente, tra quelle linguistiche.
Al nome dialettale passerò dopo; ora mi soffermo sul nome scientifico, nella speranza di aver imbroccato la varietà: Nasturtium officinale R. Br.
Nasturtium e la sua variante nasturcium è attestata in parecchi autori latini; per brevità ne citerò solo due.
Cicerone (I secolo a. C.), Tusculanae disputationes, V, 99: Persarum a Xenophonte victus exponitur, quos negat ad panem adhibere quicquam praeter nasturcium (Il vitto dei Persiani viene descritto da Senofonte e dice che essi non aggiungono nulla al pane oltre al nasturzio). Cicerone traduce con nasturcium l’originale di Senofonte (Ciropedia, I, 2, 8) κάρδαμον (leggi càrdamon), il cui composto καρδάμωμον (leggi cardàmomon), formato dall’unione di κάρδαμον con ἄμωμον (leggi àmomon)=amomo, ha dato vita in italiano a cardamomo.
Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, XIX, 44 : … Eruca quoque et nasturtium vel aestate vel hieme facillime nascuntur … nasturtium nomen accepit a narium tormento, et inde vigoris significatio proverbio usurpavit id vocabulum veluti torporem excitantis. In Arabia mirae amplitudinis dicitur gigni (… anche la ruchetta e il nasturzio nascono facilissimamente in estate o in inverno … il nasturzio prende il nome dall’irritazione delle narici e da qui il significato del vigore fece in modo tale che questo vocabolo entrasse in un proverbio come cosa in grado di cacciare via il torpore).
Plinio, dunque, propone per nasturtium un etimo che andrebbe così descritto con un discorso filologicamente più articolato: la voce sarebbe composta da un primo componente (nas-) dalla radice di nasus=naso e da un secondo (-turtium) dalla radice tort– del supino (tortum) del verbo torquère=torcere; insomma, alla lettera nasturzio significherebbe (erba) che fa storcere il naso.
Più avanti (XX, 49): E contrario nasturtium Venerem inhibet, animum exacuit, ut diximus. Duo eius genera. Alvum purgat, detrahit bilem potum pondere in aquae VII, strumis cum lomento inlitum opertumque brassica praeclare medetur. Alterum est nigrius, quod capitis vitia purgat [visum compurgat], commotas mentes sedat ex aceto sumptum, lienem ex vino potum vel cum fico sumptum, tussim, ex melle si cotidie ieiuni sumant. Semen ex vino omnia intestinorum animalia pellit, efficacius addito mentastro. Prodest et contra suspiria et tussim cum origano et vino dulci, pectoris doloribus decoctum in lacte caprino. Panos discutit cum pice extrahitque corpori aculeos et maculas inlitum ex aceto; contra carcinomata adicitur ovorum album. Et lienibus inlinitur ex aceto, infantibus vero e melle utilissime. Sextius adicit ustum serpentes fugare, scorpionibus resistere, capitis dolores contrito, alopecias emendari addito sinapi, gravitatem aurium trito imposito auribus cum fico, dentium dolores infuso in aures suco, porriginem et ulcera capitis cum adipe anserino. Furunculos concoquit cum fermento. Carbunculos ad suppurationem perducit et rumpit, phagedaenas ulcerum expurgat cum melle. Coxendicibus et lumbis cum polenta ex aceto inlinitur, item licheni, unguibus scabris, quippe natura eius caustica est. Optimum autem Babylonium; silvestri ad omnia ea effectus maior (Al contrario [della ruchetta] il nasturzio inibisce il desiderio sessuale, stimola lo spirito. Due sono i generi. Purifica l’intestino, bevuto in acqua nella proporzione di 1 a 7 assorbe la bile, applicato in cataplasmo con farina di fave sulle scrofole e coperto da un cavolo le guarisce. L’altro è più scuro e purifica i mali del capo [rischiara la vista], assunto con aceto calma le menti sconvolte, bevuto col vino o assunto col fico la tosse , se lo si assume ogni giorno a digiuno col miele. Il seme assunto col vino espelle tutti i parassiti intestinali, più efficacemente se viene aggiunto mentastro. Giova anche contro l’asma e la tosse con origano e vino dolce, ai dolori di petto cotto nel latte di capra. Con la pece rimuove i gonfiori e applicato in cataplasmo elimina dal corpo le spine e con aceto le macchie; contro i carcinomi viene aggiunto bianco d’uova. E viene applicato in cataplasmo per la milza, utilissimo col miele per i bambini. Sestio aggiunge che bruciato mette in fuga i serpenti, tiene lontani gli scorpioni, tritato i dolori di testa, che aggiunto a senape cura l’alopecia, applicato tritato sulle orecchie col fico la pesantezza di orecchi, col succo infuso nelle orecchie il mal di denti, la tigna e le ulcere del capo con grasso d’oca. Con il lievito fa maturare i foruncoli. Conduce a suppurazione e rompe gli ascessi, con il miele spurga le ulcere corrosive. In sieme con la polenta viene applicato come cataplasmo in aceto contro la sciatica e la lombaggine, anche per l’impetigine e per le unghie ruvide, poiché la sua natura è caustica. Ottimo è quello babilonese; quello selvatico è più efficace in tutti gli usi).
A Plinio si rifà certamente, lo dice lui stesso!, Erasmo da Rotterdam (XV-XVI secolo). L’umanista olandese nel proverbio n. 754 (Ede nasturtium) di Adagiorum collectanea così scrive: Ede nasturtium. Ἔσθιε κάρδαμον, id est “Ede nasturtium”. In socordem, ignavum, hebetem, stupidum, olim dicebatur, propterea quod huic efficaciam inesse credant erucae contrariam, vim enim vigoremque animi suscitare, venerem coercere, cum illa e diverso venerem acuat, vim mentis hebetet, unde et nomen apud Graecos habere videtur κάρδαμον, quasi “cor domans”. Plinius libro decimonono, capite octavo “Nasturtium” inquit “nomen accepit a narium tormento et inde vigoris significatio proverbio id vocabulum usurpavit veluti torporem excitantis”. Graecis a corde nomen habet. Dioscorides tradit nasturtio vim esse similem erucae et sinapi, quod attinet ad acrimoniam in nares erumpentem. Ceterum quod ait nasturtio stimulari venerem, dissentit a Plinio. Aristophanes ἐν Θεσμοφοριαζούσαις: Ἐχθές ἔφαγον κάρδαμα./Τί καρδαμίζεις; id est “Edi heri nasturtia. Quid nasturtiaris?”. Idem in Vespis: Ὁξυθύμων καὶ δικαίων καὶ βλεπόντων κάρδαμα, id est “Acrium ac iustorum et oculis qui exhibent nasturtia” (Mangia nasturzio. Mangia nasturzio, cioè “Mangia nasturzio”2. Si diceva un tempo ad un ottuso, ignavo, ebete, stupido, poiché si crede che il nasturzio abbia una proprietà contraria a quella della ruchetta e che susciti infatti vigore di spirito e freni il desiderio amoroso, mentre quella al contrario suscita il desiderio e indebolisce la forza della mente, per cui sembra che in greco si chiami cardamo, quasi “che doma il cuore”. Plinio nel libro diciannovesimo capitolo ottavo dice: “Il nasturzio prende il nome dall’irritazione delle narici e da qui il significato del vigore fece in modo tale che questo vocabolo entrasse in un proverbio come cosa in grado di cacciare via il torpore”. Per i Greci trae il nome dal cuore. Dioscoride tramanda che il nasturzio ha una proprietà simile a quella della ruchetta e della senape per quanto riguarda l’irritazione che provoca alle narici. Per il resto dissente da Plinio, poiché dice che il desiderio d’amore è stimolato dal nasturzio. Aristofane ne Le donne alle Tesmoforie: Ieri ho mangiato nasturzio. Perché parli di nasturzio?”. Allo stesso modo ne Le vespe: Di quelli severi e giusti e che vedono i nasturzi, cioè “Di quelli severi e giusti e che vedono i nasturzi2”).
Nella prima citazione da Aristofane (V-IV secolo a. C.) Perché parli di nasturzio? equivale a Perché parli di una cosa di poca importanza? Nella seconda il vedere i nasturzi significa assumere quell’atteggiamento serio indotto dalla vista di un pericolo o , comunque, di qualcosa di non gradito.
Come Plinio aveva proposto l’etimo per nasturtium così fa Erasmo per κάρδαμον e questa volta il discorso filologico articolato comporterebbe la voce composta da καρδία (leggi cardìa)=cuore+δαμάω (leggi damào)=domare.
Siccome Erasmo cita, come prima abbiamo visto, pure Dioscoride (contemporaneo di Plinio) vale la pena riportare quanto l’autore greco dice a proposito del cardamo: (De materia medica, II, CLXXXIV): Κάρδαμον [οἱ δὲ κυνοκάρδαμον, οἱ δὲ ἰβηρίς, οἱ δὲ καρδαμίνη, Αἰγύπτιοι σέμεθ, Ῥωμαῖοι ναστούρκιουμ] κάλλιστον μὲν εἶναι δοκεῖ τὸ ἐν τῇ Βαβυλῶνι κάρδαμον. Παντὸς δὲ τὸ σπέρμα θερμαντκὸν, δριμὺ, κακοστόμαχον, κοιλίαν ταράσσον καὶ ἕλμινθας ἐκτίνασσον, σπλῆνα μειοῦν, ἔμβρυα φθεῖρον, ἔμμενα κινοῦν, συνουσίαν παρορμῶν, ἔοικε δὲ σινήπει καὶ εὐζώμῳ· ἀποσμήχει λέπρας, λειχῆνας· σὺν μέλιτι δὲ σπλῆνα ταπεινοῖ καταπλασσόμενον καὶ κηρία ἀποκαθαίρει, καὶ τὰ ἐκ θώρακος ἀνάγει ἐγκαθεψόμενον ῥοφήμασιν· ἑρπετῶν τέ ἐστιν ἀντιφάρμακον πινόμενον· θυμιαθὲν δὲ ἑρπετὰ διώκει· τρίχας τε ῥεούας ἐπέχει, καὶ ἄνθρακας περιῤῥήττει πυοποιῦν· σὺν ὄξει δὲ καὶ ἀλφίτοις καταπλασθὲν, ἰσχιαδικοῦς ὠφελεῖ, καὶ οἰδήματα καὶ φλεγμονὰς διαφορεῖ, δοθιῆνάς τε ἐκπυοῖ σὺν ἅλμη καταπλασθὲν· καὶ ἡ πόα δὲ τὰ αὐτὰ ποιεῖ, ἔλασσον μέντοι δύναται (Il cardamo [alcuni lo chiamano cinocardamo, altri iberide, altri cardamine, gli Egizi semeth, i Romani nasturzio] migliore sembra che sia quello che cresce a Babilonia. Il seme di ognuno è riscaldante, acre, dannoso per lo stomaco, fastidioso per l’intestino, efficace contro gli elminti, contro la milza inglossata, provoca l’aborto, stimola le mestruazioni, stimola al rapporto sessuale, somiglia alla senape e alla ruchetta; cancella la scabbia e l’impetigine; applicata in cataplasmo con il miele sgonfia la milza, purifica l’antrace e cotta nella minestra favorisce l’espettorazione; bevuto è un antidoto contro il morso dei serpenti e bruciato li tiene lontani; arresta la caduta dei capelli e fa scoppiare l’antrace portandolo a suppurazione; applicato in cataplasmo con aceto e farina d’orzo giova contro la sciatica, elimina gli edemi e i flemmoni, applicato in cataplasmo con acqua salata fa suppurare i foruncoli e la stessa erba giova, ma ha minore efficacia). Da notare nella testimonianza di Dioscoride il diverso nome che la nostra erba assume in rapporto al luogo e alla diversa popolazione. Questo, aggiunto all’assenza di dettagli descrittivi che non ne riguardino l’uso terapeutico (cosa che avviene anche in Plinio), complica il problema dell’identificazione precisa dell’erba da loro descritta con la nostra.
R. Br. è l’abbreviazione di Robert Brown (1773-1858), famoso botanico inglese al quale William Aiton (in Hortus Kewensis, v. IV, editori vari, Londra, 1812) attribuì l’identificazione dell’essenza.
Dopo il nome scientifico è la volta di quelli italiani comunemente usati, credo non correttamente, come sinonimi3: nasturzio, crescione e senecione. Per nasturzio vale quanto detto per la relativa componente del nome scientifico. Crescione deriva dall’antico francese cresson, che nel latino medioevale darà cresso e derivati (crisonium, cressonaria, cressonnaria, cressoneria). Crescione potrebbe perciò essere derivato non direttamente dal francese ma dall’intermediario latino cressone(m), accusativo del citato cresso, incrociato con crescere. Per quanto riguarda, infine, senecione, esso deriva dal latino senecione(m), accusativo di senecio, attestato come nome di pianta in Plinio (Naturalis historia, XXV, 87), quale sinonimo di erigero: Erigeron a nostris vocatur senecio. Hanc si ferro circumscriptam effodiat aliquis tangatque ea dentem et alternis ter despuat ac reponat in eundem locum ita, ut vivat herba, aiunt dentem eum postea non doliturum. Herba est trixaginis specie et mollitia, cauliculis subrubicundis. Nascitur in tegulis et in muris. Nomen hoc Graeci dederunt, quia vere canescit. Caput eius numerose dividitur lanugine, qualis est spinae, inter divisuras exeunte; quare Callimachus eam acanthida appellavit, alii pappum. Nec deinde graecis de ea constat. Alii erucae foliis esse dixerunt, alii roboris – at minora multo – , radice alii supervacua, alii nervis utili, alii potu strangulante. E diverso quidam regio morbo cum vino dederunt et contra omnia vesicae vitia, item cordis et iocineris. Extrahere renibus harenam dixere. Ischiadicis drachmam cum oxymelite ab ambulatione propinavere, torminibus quoque et in passo utilissimam, praecordiis etiam cibo ex aceto eam praedicantes serentesque in hortis. Nec defuere qui et alterum genus facerent nec quale esset demonstrarent, contra serpentes in aqua bibendam edendamque comitialibus dantes. Nos eam Romanis experimentis per usus digeremus. Lanugo eius cum croco et exiguo aquae frigidae trita inlinitur epiphoris, tosta cum mica salis strumis (L’erigero dai nostri è chiamato senecione. Se uno la cava dopo che è stata circondata da un ferro e con essa tocca un dente, sputa tre volte alternativamente e la ripone nel medesimo luogo in modo che l’erba viva, dicono che dopo il dente non gli farà male. L’erba è simile alla trissagine di aspetto e di mollezza, con gambi rossicci. Nasce tra le tegole e nei muri. I Greci le diedero il nome di erigero poiché diventa bianca. Il suo capo è armoniosamente diviso dalla lanugine uscente, com’è quella della spina, dalle fessure; perciò Callimaco la chiamò acantide, altri pappo. Né altro dicono i Greci concordemente. Alcuni dissero che le foglie sono simili a quelle della ruchetta, altri della quercia – ma molto più piccole -, altri che la radice è inutile, altri utile ai nervi, altri che strangola a berla. Certi al contrario la somministrano col vino contro l’ittero e contro tutte le malattie della vescica, come del cuore e del fegato. Dissero che estrae la renella. La somministrarono ai colpiti da sciatica nella dose di una dracma con miele e aceto dopo che hanno camminato dicendo che è utilissima anche contro la dissenteria nel vino cotto, nonché all’intestino con aceto nel cibo e seminandola negli orti. Né mancarono quelli che ne fecero un’altra varietà, senza mostrare quale fosse, somministrandola da bere in acqua contro il morso dei serpenti e da mangiare agli epilettici. Noi ne parleremo secondo l’uso sperimentato dai Romani. La sua lanugine pestata con zafferano e in poca acqua fresca viene applicata come cataplasmo contro il catarro, tostata con un granello di sale sulle scrofole).
Oltre che come nome di pianta in Plinio (con tutti gli ulteriori dubbi identificativi che quest’ultimo passo suscita; comunque, il senecione propriamente detto dovrebbe essere il Senecio vulgaris L. di seguito riprodotto da http://it.wikipedia.org/wiki/Senecio_vulgaris#mediaviewer/File:Senecio_vulgaris_002.JPG) senecio è attestato col significato di vecchietto in un frammento della commedia Proditus di Afranio (II-I secolo a. C.) tramandatoci da Prisciano (V-VI secolo), Institutiones oratoriae, III, 7, in cui il grammatico mostra chiaramente come senecio sia derivato da senex : … catulus catulaster, homo homuncio, senex senecio (Afranius in Prodito: “tu senecionem hunc satis est si servas, anus” (cagnolino, adolescente4, uomo, omiciattolo5, vecchio senecione, (Afranio nel Tradito: “Tu, vecchia, già è tanto se stai al servizio di questo vecchietto).
Per dare un’idea della fortuna di certi vocaboli aggiungo che Senecio è anche un cognomen (soprannome) ampiamente attestato nelle epigrafi in tutto il territorio romano. Siccome l’argomento non è allegro mi limito a riportare un solo esempio proveniente da Valencia (CIL II, 3741).
M(ARCO) NUMMIO/SENECIONI AL/BINO C(LARISSIMO) V(IRO) P(ONT(IFICI)/LEG(ATO) AUGG(USTORUM) PR(O)/PR(AETORI) VALENTINI/VETERANI ET/VETERES PATRONO/CUR(ANTIBUS) BRIN(IO) MARCO ET LIC(INIO) QUINTO
(A Marco Nummio Senecione Albino chiarissimo uomo, pontefice, legato propretore degli Augusti, i veterani e gli anziani di Valencia al patrono, a cura di Marco Brinno e Licinio Quinto).
Ho lasciato volutamente per ultimo il nome dialettale, per chiudere, cioè con il dettaglio da cui è partito tutto. Riassumo le varianti (escluse quelle letterarie meno, come vedremo una) riportate nelle schede del Rohlfs e che ho riprodotto nella schermata catturata da Facebook:
salacciòne (Aradeo), salacciùne (Melendugno), sannacciòne (Manduria, Maruggio, San Giorgio sotto Taranto), sannacciòni (Sava, Oria), sannacciùne (San Pancrazio Salentino), sanaciòne (Taranto), sanacciuòle (Massafra).
Da notare che il Rohlfs registra per il salacciòne di Aradeo il significato di stupido e la cosa si ripete con una leggera sfumatura per sannacciòni di Brindisi (dove il connesso B10 indica l’attestazione letteraria della voce, nella fattispecie nella farsa Nniccu Furcedda scritta intorno al 1730 da Ciommo Bàchisi e pubblicata in Storia di Francavilla di Pietro Palumbo,Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1869, pp. 533-626; per chi ne avesse l’interesse segnalo il link https://archive.org/stream/storiadifrancav00bachgoog#page/n639/mode/2up) col significato di fannullone).
Siamo giunti alla fine del nostro viaggio e concludo con un dubbio, fratello di quelli identificativi via via incontrati: senecione (e, dunque, anche tutte le varianti dialettali che di esso sono deformazione) certamente, essendo derivato, come abbiamo visto da senex=vecchio, contiene un riferimento al suo pappo6; al di là della confusione col nasturzio il significato traslato di fannullone è connesso con una scarsa considerazione di quest’erba (vedi il fessacchiotto del commento di Giulia Stefanizzi nella schermata tratta da Facebook, col suo carattere più o meno infestante o evoca la mancanza di forza (e quindi la scarsa voglia di fare) tipica (o, almeno, considerata tale …) dell’età senile? Io propendo, nonostante la mia età non me la renda conveniente, per l’ultima che ho detto.
2 Ripetizioni inevitabili nel tradurre in italiano le locuzione latine di Erasmo quando sono a loro volta traduzione di una locuzione greca.
3 Non c’è da meravigliarsi di questa confusione per cui un’essenza può avere, addirittura un nome diverso a seconda del luogo o se lo stesso nome indica specie diverse. Le stesse denominazioni scientifiche pongono spesso dubbi identificativi, rischi che oggi si ridimensionano notevolmente grazie alla documentazione fotografica, dato certamente di fruizione più immediata e chiara della descrizione o del disegno, per quanto accurati, unici elementi delle schede botaniche del passato.
4 Catulaster nel latino medioevale conserverà accanto al significato di adolescente anche quello di cane selvatico; il processo si completa nel dialettale salentino cagnulastru=ragazzotto, usato in una sfumatura dispregiativa, dove cagnul– è da cagnùlu=piccolo cane, cucciolo, che a sua volta è da un *canèolu(m), aggettivo sostantivato con valore diminutivo di canis, così come catul– di catulaster è da càtulus, sempre diminutivo di canis.
5 Homuncio, poi, troverà un ulteriore sviluppo dispregiativo già in epoca classica in homùnculus.
6 Anche erigero [dal greco ἡριγέρων (leggi erighèron), composto da ἔαρ (leggi ear)=primavera+γέρων (leggi gheron)=vecchio, evoca (vecchio di primavera) la stessa immagine in un poeticissimo quasi-ossimoro.
Se la prima voce non ha bisogno di alcun commento (anche perché la sua etimologia è chiarissima ed universalmente accettata), è la seconda che richiede qualche delucidazione. Intanto ufanetà1 è parola salentina e, più precisamente, brindisina e significa vanagloria. Essa è derivata da ufane2=vanitoso, a sua volta dallo spagnolo ufano=orgoglioso, presuntuoso, borioso; la parola spagnola, infine, è di origine incerta, forse dal catalano ufana e questo dal gotico ufiò=abbondanza, eccesso3. Le immagini, quelle connesse col tema, che seguono sono stampe custodite nella Biblioteca Nazionale di Francia, dal cui sito, come spesso è avvenuto in altre occasioni, le ho tratte.
Questa prima è un’incisione di Jacques Callot (1592-1635) ed è una rappresentazione canonica della visita dei re Magi a Gesù Bambino. Sull’incisore francese mi piace aprire una parentesi per ricordare in questa circostanza l’opera più famosa, Les Misères et les Malheurs de la guerre (Le miserie e i mali della guerra), una serie di diciotto tavole. Ecco la prima (come le successive è tratta da http://commons.wikimedia.org/w/index.php?search=Les+mis%C3%A8res+et+les+malheurs+de+la+guerre+&title=Special%3ASearch&go=Go&uselang=it), quella contenente il titolo.
Le successive sedici rappresentano le violenze perpetrate dalla soldataglia ai danni delle popolazioni civili (siccome odio la violenza ne riproduco solo una).
Nell’ultima, in un tragico ma eloquentissimo contrasto, è rappresentata la distribuzione delle ricompense ai generali e ai nobili.
Chiudo qui la parentesi su Jacques Callot e riprendo l’argomento principale con la seconda tavola con esso connessa.
L’incisione, questa volta, è di Nicolas De Poilly (1627-1696). Nel dettaglio che segue il titolo.
La Royalle et précieuse naissance de Monseigneur le/Daufin présentée pour Estrene à la France par leurs Majestez/Comme l’unique sujet de leur Joye, et de leur Esperance,/ou sont aussy représenté les homage des Province (La reale e preziosa nascita del Signor Delfino presentata per strenna alla Francia dalle loro maestà come l’unico motivo della loro gioia e della loro speranza, in cui sono rappresentati anche gli omaggi delle provincie).
Per celebrare se stesso il potere non perde l’opportunità di mescolare il sacro con il profano e, anticipando di secoli gli almanacchi pubblicitari, sfodera il suo per il 1662 (vedi il dettaglio che segue), destinato probabilmente a impreziosire le collezioni dei ceti più abbienti o più titolati ma, nonostante questo, a non perdere il suo potere di suggestione, anzi, di rincoglionimento delle masse (funzione oggi assolta da quasi tutte le tv e da quasi tutti i giornali).
Credo che il lettore condividerà questa mia riflessione avendo riconosciuto in questa tavola la trasposizione identitaria e, di conseguenza, onomastica dei personaggi della prima come di qualsiasi altra rappresentante l’Epifania. Capirà meglio i motivi della parentesi che mi è sembrato doveroso dedicare al Callot e converrà che non sarebbe stata audacia la mia intitolare, con l’uso di un neologismo, questo post Epifania e epofania …
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1 Ofanità in siciliano e in napoletano, ufanarìe in abruzzese.
2 Ofanu in siciliano, ofano in napoletano, ufanu in calabrese, ufane in abruzzese.
3 Nel Vocabolario degli Accademici Filopatridi, Porcelli, Napoli, 1789 si propone, dubitativamente, la derivazione dello spagnolo ofano dal latino vanus.
Capita di incappare in certi libri (o in certi fatti, non importa) navigando intorno a una domanda. Poi, nelle varie circonvoluzioni in cui passano i mesi, e talvolta gli anni, può accadere che le correnti e tutto ciò che le determina e muove (esperienze, incontri, discorsi, il caso, o quello che si vuole insomma) ci portino di nuovo tra le stesse pagine (o gli stessi eventi, non importa), facendoci ritrovare quasi esattamente al punto di partenza, quasi, perché nulla si ripe…te veramente, nemmeno una volta. Ripassare da lì non è come passarci per la prima volta, e tornarci in futuro sarà ancora un po’ diverso. Nel nuovo passaggio, ci pare come se la comprensione della prima volta fosse rimasta acerba, non sbagliata, ma come stordita, immatura, parziale rispetto alla nuova. E in questa perfetta spirale, ripassando quasi sempre dalle stesse parti nel passare dei giorni, godiamo degli unici veri benefici che regala nel tempo ogni domanda inappagabile: ci vediamo acerbi in ciò che eravamo, e con ciò vediamo chiaramente che in futuro questo nostro comprendere attuale apparirà di nuovo e sempre acerbo. Tutto ciò continua solo però nella misura in cui non si ferma il nostro domandare, è solo quest’ultimo che ci permette di vedere acerbo domani quello che oggi si ritiene maturo. Navighiamo ogni giorno nello specchio delle stesse acque, finché continuiamo a guardarvi dentro, accettando il movimento, quelle rifletteranno a ogni nuovo tentativo un altro volto, quasi lo stesso di ieri, quasi. Quel quasi ci da la misura di una soddisfazione momentanea che deve invecchiare in fretta per non diventare ottusa fissazione, ignoranza del saccente: quella della peggior specie, quella che non si sa tale, quella a cui è esposto chi, giunto in cattedra, lì sta come un punto di arresta e non di nuove ripartenze.
Non intendo qui stilare una piccola storia della gestione della prostituzione dalle origini (valle a trovare, almeno quelle verosimilmente definitive! …) fino al 20 febbraio 1958, data dell’entrata in vigore della legge Merlin che sanciva la chiusura delle cosiddette case di tolleranza (alias case d’appuntamento o case chiuse o casini o bordelli). La parola tolleranza tradiva, a mio avviso, una sorta di debolezza delle istituzioni nel rassegnarsi a considerare la prostituzione un male inestirpabile, anche se poi esse si impegnavano nella regolamentazione del fenomeno con ricadute senza dubbio positive, soprattutto sul piano sanitario (a patto, però che i controlli fossero seri e regolari …).
La targa mi ha incuriosito (sarebbe successo con qualsiasi altro oggetto …) per saperne di più su questa Madam Sitrì. Per soddisfare la sua curiosità, come ho fatto con la mia, segnalo al lettore il link http://www.comune.livorno.it/_cn_online/index.php?id=441, dove troverà anche il ritratto di questa famosa maitresse fatto tra il 1930 e il 1935 dall’artista livornese Renato Natali. Siccome m’immagino già la ressa, per evitare l’intasamento del sito riporto di seguito l’immagine in questione.
Capisco che il lettore si aspettava chissà che cosa, ma prima di continuare, in un attacco di deformazione professionale, non posso trascurare quel franella per flanella. È pur vero che l ed r sono entrambe due consonanti liquide, ma, siccome non credo che franella sia voce di un verbo franellare quasi diminutivo di franare (per cui il messaggio sarebbe valso , anche pubblicitariamente, come garanzia, grazie all’avvenenza delle ragazze, da qualsiasi pericolo di brutta figura da parte del cliente …), debbo dire che l’espressione corretta è (anzi era …) fare flanella, locuzione gergale per intrattenersi nel casino senza richiedere alcuna prestazione.1
Con l’avvento delle legge Merlin le case (quelle controllate dalle istituzioni …) sparirono ma la tolleranza rimase anche nei confronti della prostituzione esercitata a cielo aperto. Insomma anche in questo campo è successo qualcosa di tipicamente italiano e c’è da rimpiangere perfino il gattopardesco (tra gattopardi e giaguari da smacchiare siamo messi proprio bene …) perché qui le cose non sono cambiate perché tutto restasse come prima ma perché la situazione diventasse peggiore della precedente. Stessa fine ha fatto la pur sacrosanta legge Basaglia, che pure, sulla carta, prevedeva la costruzione di una adeguata rete assistenziale per gli sfortunati che fino ad allora (?) avevano subito un trattamento da lager nazista o quasi. L’elenco a riprova dell’inadeguatezza del legislatore, cioè del politico, non in grado di prevedere le conseguenze pressoché inevitabili o di rendere veramente operativo un provvedimento, sarebbe lunghissimo e, passo perciò, ad altro.
Scomparsi, almeno giuridicamente, i casini controllati dallo stato, la parola casino è sopravvissuta nel suo significato metaforico di confusione, disordine, che tradisce, comunque, un giudizio morale negativo su un ambiente che, tuttavia, non credo fosse contraddistinto dalla confusione e dal disordine, improntato com’era, ad una struttura gerarchica che, per definizione, è basata, male che vada, sul rispetto della forma (che poi ciò rappresenti una garanzia per la bontà del contenuto è tutto da dimostrare). Si è conservato, invece, il suo gemello col significato di villino signorile utilizzato specialmente per battute di caccia o di pesca ma per la serie il male trionfa, il casino1 (villino) è stato surclassato nell’uso dal casino2 (confusione).
Se oggi l’uso di casino per confusione gode di una disinvoltura che è forse frutto, nei più giovani, di ignoranza, non sempre è stato così. Fino a pochi decenni fa essa faceva parte dell’elenco delle parole, per così dire, proibite e che tassativamente non potevano essere usate in presenza di giovanissimi. Io, per esempio, non ho mai sentito pronunziare tale parola, nel senso letterale e metaforico, neppure una volta dai miei nonni e dai miei genitori e l’unico casino messo in campo era il villino di campagna.
E, allora, si chiederà qualche giovane stranamente curioso …, quale voce dialettale veniva usata come sinonimo di confusione, chiasso, fracasso? Si usava fraùme.
Fraùme che assumeva pure il significato (che, come tra poco vedremo, è quello nativo) di miscuglio di residui, ammasso disordinato di oggetti. Segue l’esempio eloquente dello stato della mia scrivania mentre battevo queste righe; però, dopo il passaggio di mia moglie (cui appartiene pure la voce fuoricampo della vignetta precedente) per “mettere ordine”, ho dovuto perdere un quarto d’ora solo per ritrovare il monitor …
Fraùme nel vocabolario del Rholfs è registrato senza alcuna proposta etimologica ma con un semplice rinvio a fracàme (usato ad Otranto col significato di miscuglio di piccoli pesci, fragaglia); da qui, in un loop senza fine, c’è il rinvio a fraùme. Probabilmente il maestro ha ritenuto sufficiente il fragaglia perché il lettore giungesse all’etimo di fraùme. Ma cosa sarebbe costato in termini di spazio e di precisione, pur sottintendendo che fragaglia deriva dal latino fràngere=fare a pezzi, scrivere che fraùme è dal latino medioevale fragùmen=fragore, strepito (dalla radice frag– di fràngere). attestato nel glossario del Du Cange, dal quale riproduco di seguito il relativo lemma, al quale ho aggiunto, come al solito, la mia traduzione a fronte?2
Mi pare abbastanza evidente che in fragaglia si è conservato il significato originario di fràngere, cioè fare a pezzi, mentre in fragore, fracasso (in quest’ultimo c’è stato l’incrocio con sconquasso) l’effetto (il rumore) ha finito per prevalere sulla causa (il fare a pezzi). Nel nostro fraùme, infine, come s’è detto, sopravvivono il significato originario e quello traslato. Da notare da un punto di vista fonetico, rispetto a fragùmen, la lenizione, fino alla scomparsa, di –g-, fenomeno che ricorre pure, per fare solo qualche esempio, nei leccesi leùme (da legùmen)=legume e lèune=legna (da ligna) e, per quest’ultimo, in modo meno lineare, nel neretino lliòne.
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1 Flanella non ha nulla a che fare col tessuto (che è dal francese flanelle, deformazione dell’inglese flanen, a sua volta dal gallese gwalen=sorta di vestito di lana); l’intera locuzione è dal francese faire flanelle, in cui flanelle è connesso con flâner=bighellonare.
Caro amico ti scrivo così mi distraggo un po’ e siccome sei molto lontano più forte ti scriverò. Da quando sei partito c’è una grossa novità, l’anno vecchio è finito ormai ma qualcosa ancora qui non va.
(“L’anno che verrà” – Lucio Dalla)
E l’anno che è venuto è solo un anno che è venuto e l’anno che è venuto è solo un anno che è passato e l’anno che è passato è solo un anno che ho vissuto e l’anno che è passato è solo un anno che se n’è andato via.
(“L’anno che è venuto” – Roberto Vecchioni)
di Paolo Vincenti
“Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?” . Confesso che per un momento mi ha sfiorato il dubbio amletico di Nanni Moretti in “Ecce Bombo”, quando ho declinato gli inviti di amici e parenti a festeggiare la notte di San Silvestro in grande stile, fra cenoni in case private o in locali à la page. Ma per quest’anno ho preferito restare a casa, dando a ciascuno di essi delle motivazioni differenti e il più possibile credibili. Agli amici che so essere votati ai valori della famiglia e della tradizione e amanti del calore del focolare domestico, ho detto: “no, non vengo, preferisco godermi le gioie degli affetti famigliari quest’anno”. A quelli che hanno i genitori molto anziani oppure li hanno perduti da poco, ho fatto sapere che preferivo restare a far compagnia ai miei anziani genitori ( i quali invece sono andati a divertirsi insieme ai loro amici ad un cenone organizzato). Agli amici scapoli impenitenti, che mi invitavano a festeggiare in un locale da ballo, ho risposto con aria finto sconsolata: “ehh.. sapeste che invidia mi fate! Purtroppo a me, con moglie e figli piccoli, certi divertimenti sono preclusi “( e mentre lo dicevo, i miei ragazzi si scatenavano con lo stereo acceso al ritmo di vari balli latini). Con gli amici colti, intellettuali di sinistra, ho sentenziato: “ma lo sapete che disdegno queste feste caciarone e volgari, io resto a casa a guardare un bel film di Nanni Moretti, come ‘Aprile’ ( lo rivedi ed è sempre nuovo), oppure di Gillo Pontecorvo, come il bellissimo ‘Kapò’”. Agli amici intellettuali di destra, ho notificato: “me ne frego delle feste e dei veglioni, resto a casa a guardare un film di Pasquale Squitieri, anzi meglio, di Renzo Martinelli, e penso che sceglierò ‘Barbarossa’. Sì, proprio così”. Agli amici simpatizzanti del Movimento Cinque Stelle ho fatto sapere: “rimarrò fra le mura domestiche a guardare un vecchio film di Beppe Grillo, “Cercasi Gesù”, uno dei migliori della cinematografia italiana, un film profetico!”(coi Cinque Stelle bisogna sempre calcare un po’ la mano). Infine, convincere mia moglie è stato facilissimo, puntando sul costo eccessivo delle quote di partecipazione alle cene organizzate ( “e che, di questi tempi, mica si possono buttare i soldi, eh..!”)
Così, raggiunto lo scopo prefissato, il 31 dicembre mi predispongo ad una tranquilla serata casalinga e alle 20.30 ascolto il discorso di fine anno del Presidente della Repubblica, trasmesso a reti unificate, in cui Napolitano annuncia le sue dimissioni per avanzati limiti di età. L’ultimo dell’anno è sempre tempo di bilanci, consuntivi, e troppo spesso questi sono in rosso, dunque meglio evitare il colpo apoplettico del default rinnovando, per una sera, la bolla euforica speculativa e mantenendo nei confronti del futuro una dotta ignoranza poiché di esso, come di Dio, non si può dire nulla. (Maghi astrologi e santoni esibiscano regolare dispensa prima di vaticinare). E dopo il messaggio presidenziale, via alla musica e ai sorrisi e canzoni con la trasmissione di Rai 1 “L’anno che verrà”, condotta da Courmayeur da Flavio Insinna ( uno che, per varietà di linguaggio, pare un Accademico della Crusca in confronto a Carlo Conti, il negro di Viale Mazzini). Per il deficit di bilancio di cui sopra, meglio evitare la trasmissione di Rete 4 “Terra”, che propone un resoconto dell’anno 2014 (da dimenticare). Su Rai 2, un film di fantascienza, che però i ragazzi non sembrano apprezzare (riescono a pronosticare se un film piacerà oppure no già dal primo frame, incredibile..). Purtroppo, non avendo nessuno dei dvd dei film di cui ho parlato agli amici e nemmeno l’abbonamento a Sky Cinema, c’è davvero poco da scialare, televisivamente parlando. Su Canale 5, una trasmissione omologa di quella di Rai 1: la festa organizzata da Gigi D’Alessio e Anna Tatangelo, nella centrale Piazza Plebiscito di Napoli. Su Rai 3, il solito circo di Montecarlo, di una tristezza infinita. E mentre sui canali generalisti, cantanti intrattengono, comici cantano, soubrette conducono e conduttori soubretteggiano, mi rimane Sky tg 24 a manetta, pressappoco come tutte le altre sere. E dunque via ai commenti più disparati al discorso presidenziale appena pronunciato, alle immagini della tragedia a bordo del traghetto Norman Atlantic nel canale d’Otranto e alla notizia dell’ennesimo bambino, Simone, scannato dalla madre a San Severino Marche. A questo punto, la depressione comincia a lambirmi. Mia moglie mi guarda fra il contrito e l’indispettito, per il fatto che pure la notte di capodanno le è toccato spadellare e lavare piatti; i miei figli mi guardano torvi perché avrebbero preferito stare a divertirsi con gli amichetti in qualche serata danzante e sfogano la loro vivacità repressa dando fondo a tutte le scorte di rauti e mortaretti di cui dispongono: in un impeto di euforia sansilvestrina fanno anche tremare i vetri ed esplodere due vasi di gerani della casa dirimpetto alla nostra, tanto che devo subire al telefono l’ira funesta degli anziani vicini bruscamente destati dal placido sonno. Inoltre, dei parenti che telefonano dopo la mezzanotte per dare gli auguri, suocera, sorelle, fratelli, cognati, nipoti, nessuno chiede di me, tutti evidentemente offesi dal mio rifiuto di unirmi a loro per i festeggiamenti. A questo punto, non so da quale andito della memoria,mi vengono in mente i versi del Dies irae di Tommaso da Celano (XIII Secolo): “Dies Irae, dies illa/solvet saeclum in favilla:/ teste David cum Sybilla. “Il giorno dell’ira, quel giorno che / dissolverà il mondo terreno in cenere / come annunciato da Davide e dalla Sibilla. /Quanto terrore verrà /quando il giudice giungerà/ a giudicare severamente ogni cosa”.
Quando si avvicina la fine dell’ anno, o di un evo, è facile che l’umanità venga condizionata da paure, timori ancestrali, e risulti più sensibile ad oscure profezie (le più gettonate, nel giro di boa del 2000, sono state quelle di Nostradamus). Per i cristiani in passato, c’era (ma c’è ancora) l’Apocalisse di Giovanni: “ed ecco si fece un gran terremoto, e il sole si fece nero, e la luna si fece tutta sangue, e le stelle caddero dal cielo sopra la terra […] e ogni monte e le isole si mossero dai loro luoghi. E i re della terra e i principi e i tribuni e i ricchi e i forti e ogni servo e libero si nascosero nelle spelonche e nelle pietre dei monti. E dicono ai morti e alle pietre: Cadete sopra noi e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sopra il trono e dall’ira dell’Agnello, poiché è venuto il grande giorno dell’ira”. Per i pagani, vi erano le profezie della Sibilla Cumana, a cui si richiama appunto Tommaso da Celano: “Teste David cum Sibylla”. Ogni passaggio importante, ogni svolta epocale della storia, porta con sé psicosi difficili da vincere. San Cipriano, nel 250 d.C. , voleva offrire la prova scientifica che le profezie, sia cristiane che pagane, erano prossime ad avverarsi, “il giorno del giudizio si avvicina”. Cipriano affermava che la secolare lotta fra Dio e il Diavolo era giunta all’ esplosione finale e che bisognava aspettarsi le trombe del Giudizio. L’umanità , nel Medioevo, si fece condizionare dalla suggestione che il dies irae fosse vicino e ad ogni nuova invasione barbarica, ad ogni epidemia, guerra o sconvolgimento politico, si faceva concreta la psicosi dell’Anticristo. In realtà, nell’anno Mille non risuonarono le bibliche trombe del giudizio universale, come non sono risuonate qualche anno fa, nel Duemila, e il mondo non è ancora precipitato nelle fiamme dell’Apocalisse. “La tromba diffondendo un suono mirabile/ tra i sepolcri del mondo / spingerà tutti davanti al trono. / La Morte e la Natura si stupiranno / quando risorgerà ogni creatura / per rispondere al giudice.”
Per il capodanno del 2000, torme di futurologi e cialtroni mediatici si scatenavano a prevedere apocalissi tecnologiche ( ricordate il millennium bag?). Quest’anno invece, a movimentare l’attesa della vigilia, solo le profezie sull’imminente fine del mondo di Ali Agcà, l’attentatore di Papa Woityla, lui sì una macchietta, che fa ridere più dei comici insipienti di Rai 1 e Canale 5. E mentre in tv cantano Fedez e Albano, Francesco Renga e Raf, e fra ricchi premi e cotillons scatta il countdown per la mezzanotte, ritorno ancora ai versi di Tommaso da Celano: “ Sarà presentato il libro scritto / nel quale è contenuto tutto, / dal quale si giudicherà il mondo. / E dunque quando il giudice si siederà, / ogni cosa nascosta sarà svelata, / niente rimarrà invendicato.”. I telegiornali trasmettono le immagini della nave Blue Sky che arriva a Gallipoli con 800 migranti clandestini, uno degli sbarchi più imponenti degli ultimi decenni, e intanto informano che va stringendosi il cerchio intorno alla madre assassina del piccolo Loris Stival, inchiodata alle proprie responsabilità. Così vado a dormire, fortemente scosso, mentre gli spari che risuonano nelle strade, nel mio blob onirico, si frammischiano ai rumori dei bombardamenti di qualche guerra nel medio oriente, e dei morti e feriti vittime ogni anno dei botti di San Silvestro. E fra “male erbe e sterile zizzania che ricoprono i campi”, come scriveva nell’XI Secolo il monaco Rodolfo il Glabro, in una orripilante descrizione della carestia che aveva colpito in quel tempo la Borgogna, “e viandanti che vengono assaliti e poi tagliati a pezzi, cotti col fuoco e divorati, persone che vagano per sfuggire alla carestia, trovano ospitalità lungo la strada e poi vengono sgozzate durante la notte e servono da nutrimento a coloro che le hanno accolte”, chiese che sono spogliate dei loro ornamenti, abitazioni depredate, invasione di cavallette, piaghe e pestiferi bubboni, singhiozzi, afflizione, gemiti disperati, il mio sonno è più agitato che mai. Basta, l’anno prossimo, al cenone organizzato, mi prenoto fin da novembre. Qualsiasi cosa, meglio degli incubi apocalittici, anche le stelle filanti, le marcette, i trenini e “ ay ay caramba” e “il mio amico Charlie Brown”! Molto meglio le trombette sfiatate pepperepè, che le trombe di Giosafatte!
La «strina» o strenna (parola sabina che significa salute, buon augurio) è il regalo di Capodanno.
De Santu Sulivesciu porta la strina allu mesciu. L’uso dei regali reciproci nel primo dell’anno è antichissimo e risale, secondo alcuni, al re Tito Tazio che andava a raccogliere in quel giorno foglie di verbena, che poi regalava agli amici, nel bosco della dea Strena, la dea della salute. I Romani erano soliti scambiarsi in dono focacce, fichi secchi, miele e datteri o, i più ricchi, tessere di metallo sulle quali facevano incidere la formula augurale «annum novum faustum felicem »: «felice e prospero anno nuovo».
Bon capu d’annu e bon capu de mese / apri la ursa e damme nnu turnese, recitavano invece fanciulli e giovanetti del nostro volgo nella case dei signori per fare gli auguri e ottenere regali in denaro o anche in cibarie…
Ci chiange a Ccapudannu, chiange tuttu l’annu; al contrario ‘chi a Capodanno ride, riderà per tutto l’anno’, come canta D’Amelio: Sienti a mmie ca nu te ‘ngannu / de llegrìa osce è llu puntu / quandu è lliegru Capudannu / l’autri giurni lliegri suntu./ Statte lliegru, canta e ssona, / nu ppenzare a malatìa/ca la prima cosa bbona, / è llu scecu e lla llegrìa.
L’uso delle strenne creò poi un personaggio simbolico: la Befana, immaginata come una brutta vecchia, sdentata e dal naso adunco, ma benefica e dispensatrice di doni, che va in giro per il mondo cavalcando una scopa e penetra nelle case per la canna del camino. Quest’uso forse è sapravvivenza di qualche rito magico pagano associato poi alla festa cristiana. La parola Befana è corruzione di Epifania, che vuol dire manifestazione divina (adorazione dei Magi, nozze di , etc.).
Fu considerata, insieme con la Pasqua, la festa più solenne dell’anno. Ancora oggi, qui nel Salento, il nostro popolo la chiama prima Pasca o Pasca Bbefenìa. Con essa si chiudono le grandi feste di dicembre, da cui il proverbio: De Pasca bbefenìa / tutte le feste vannu via.
Tutti i signori in quel giorno si vestivano a nuovo: Te Pasca Bbefenìa se mmuta tutta la Signurìa.
Gennaio è il mese più freddo, anzi è bene che sia freddo, perché se la temperatura è mite, pochi frutti resteranno sugli alberi in primavera: Mandulu ci fiurisce de scennaru / unne ccoji allu panaru. L’annata sarà buona, invece, se il mese sarà freddo e asciutto: Scennaru siccu, massaru riccu; secondo il suo carattere dovrà essere un mese rigido, perché se scennaru nu scennariscia, febbraru male penza.
Il rigore invernale però non distoglierà i nostri contadini dal lavoro dei campi: essi toglieranno col sarchiello le erbe cattive, perché solo la zappudda de scennaru inchie lu ranaru (il granaio), perché, solo se si zappa e si pota la vigna in gennaio, l’uva nel panaru (cesto) sarà abbondante: zzappa e puta de scennaru: l’ua intru a llu panaru.
Esordisco con una banalità dicendo che tutto ciò che annualmente si stampa è direttamente connesso con il trascorrere del tempo e col bisogno di fermarne il ricordo (anche di quello che verrà, come succede quando si pubblicizza un evento), dall’aspirante scrittore che arde dal desiderio di vedere il suo nome su una copertina (che importa se lo vedrà solo lui o, tutt’al più, coloro ai quali ha regalato una copia del suo capolavoro?) all’agenda del grande manager e del piccolo studente, ai calendari di ogni dimensione che puntualmente proliferano nel periodo di transizione da un anno all’altro.
Ai miei tempi il diario scolastico era costituito da un quaderno come tutti gli altri, sui fogli del quale si annotavano solo i compiti per il giorno dopo. Poi sappiamo cos’è venuto. Dei calendari della mia giovinezza ricordo solo la disarmante semplicità, poiché erano per lo più costituiti da un’unica immagine, sfondo su cui era incollato, per lo più in basso in posizione centrale, un blocchetto-datario dal quale giorno per giorno si staccava un foglio. Non era certo una delizia per gli occhi; lo era però, ma anche per il naso, il calendario che il barbiere regalava in prossimità del capodanno ai clienti più affezionati e maggiorenni; e io, che all’epoca potevo avere non più di dieci anni, dovevo accontentarmi di qualche sguardo fugace lanciato, grazie alla benevolenza saccentemente maliziosa di qualcuno un po’ più grande che l’aveva sottratto al padre …, alle signorine discinte (?; il punto interrogativo è astorico, nel senso che oggi quelle immagini non scandalizzerebbero neppure un eremita) che ne animavano le pagine, mentre nell’aria si spargeva, emesso sempre da quelle pagine, un ingrediente niente affatto secondario di quel momento peccaminoso e proibito (?; come sopra …): un meraviglioso e persistente profumo (altro che feromoni o ferormoni!). Per i clienti più acculturati, poi, non mancava la versione più dotta, come mostra la seconda immagine.
Non si dice forse che il presente è figlio del passato e questo nonno del futuro? Perciò propongo qui all’amico lettore questa apparentemente strana strenna (come sciolingua non è male …) che ho confezionato utilizzando (e traducendo in italiano le didascalie, non senza qualche difficoltà lì per lì incontrata con qualche termine obsoleto) immagini tutte tratte dalla Biblioteca Nazionale di Francia (sezione Stampe e fotografia), dove sono custodite: una serie di dodici stampe d’epoca (1621-1622) dal titolo Les douze mois de l’année (I dodici mesi dell’anno), facenti parte di una collezione di Michele Hennin (1728-1807), visibili e scaricabili all’indirizzo http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84018805/f1.item.r=les%20mois
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1 Ho voluto mantenere nella traduzione letterale l’inusitata forma di ipallage presente nell’originale; altrimenti avrei dovuto tradurre con si vendemmia in pianura e in montagna.
2 Anche qui ho mantenuto in traduzione al singolare il soggetto che nella proposizione precedente era al plurale.
Sento l’odore di legno e di carta. Una stanza di impronte in bianco e nero e di libri antichi con il prezzo in poche lire. Una libreria di fronte ad un’altra. Cornici sottili e foto di altri tempi in colletti di pizzo e cappelli di feltro.
Fuori è freddo, un inverno audace s’intravede appena. Le luci di Natale scaldano di rosso e nostalgia. Respiro il senso di una vita fatta di pensieri messi tra le pagine, rilegati in contrasto tra colori e pelle bordeaux, tra titoli in oro e manoscritti fotocopiati. Le vetrinette opache proteggono dalla curiosità ma lasciano intendere il valore di ciò che accolgono.
Non ero mai entrata qui. Quanta vita mi pare di intuire. E quanto travaglio. Quanta forza in quella passione e quanto entusiasmo da tramandare. Quanti fogli ancora da leggere, inediti e sconosciuti, accennati da frasi interrotte, cancellate o a matita. E quante attese mai pubblicate. La grande scrivania a fianco a me fa pensare a un vecchio disordine, fogli da inventare, ricerche da confrontare, dizionari l’uno sull’altro con matite per tenere il segno, luci basse a buio inoltrato e notti di letture senza sonno.
I racconti fanno la storia di un vissuto a me ignoto, lo sguardo di un ritratto a colori ne è la voce. Non so bene quale emozione io senta. Essere lì mi appartiene, mi appartiene il ritrovarmi in un posto riconosciuto senza essere mai stato mio. Somiglia a strade da non tradurre, a un cammino tra ricordi sopiti, tra banchi di scuola vuoti, fuori dall’età per rientrarci. Un luogo che invoglia a domande ma chiede l’ascolto per farsi capire e sapere cosa è stato il percorso di una vita che non ho incontrato.
Leggere, avrei voluto, toccare quelle impronte che della cultura son state maestre ed alunne. Visitare gli spazi tra i libri a scalare, ripercorrere il tempo che li ha riempiti di inchiostro.
Ad esserci prima, cosa avrei detto? Nulla. Avrei taciuto la meraviglia e l’ammirazione. La stessa di adesso. Il pensiero è irrequieto e impaziente, ma sa come stare zitto. Ed io lo assecondo, ne seguo ogni fantasia, ne libero i passi.
Non so quali sensazioni porterò con me. Forse la grandezza di quel silenzio ingiusto o l’infinitezza di un attimo, mio per sempre. La dolcezza mai conosciuta o il desiderio di scriverne.
Le luci di questa grande casa sanno di caldo. Fuori piove quasi e fa ancora più freddo.
Mentre vado via guardo chiudersi il portone. Il lampione sulla strada è fulminato.
Qualcuno qui tornerà. E non solo per farlo aggiustare.
Il capro espiatorio era in origine un povero animale innocente destinato a placare con il sacrificio della sua vita, voluto dall’uomo, la furia degli dei per colpe, tanto per cambiare, non sue ma umane. Poi la locuzione assunse il significato metaforico e generico di vittima, anche umana, destinata a pagare, non necessariamente con la morte, per le colpe altrui. Così, giusto per fare qualche esempio, pare che Agamennone un giorno si fosse vantato di aver abbattuto una cerva con una freccia scagliata da lunga distanza esagerando nel dire: – Quanto sono bravo, nemmeno Artemide ci sarebbe riuscita! -. Il condottiero sarà stato pure coraggioso, forte e intelligente ma in quella circostanza l’aveva fatta veramente grossa dimenticando che la cerva era l’animale sacro proprio ad Artemide. E la dea non tardò a vendicarsi scatenando venti tanto forti (secondo un’altra versione del mito l’impedimento venne provocato da una prolungata bonaccia) da sconsigliare la partenza della spedizione per Troia. L’indovino Calcante fece sapere che Artemide per risarcimento pretendeva il sacrificio di Ifigenia, la figlia più giovane e bella (le altre saranno state delle cozze?) di Agamennone. Dopo vari rifiuti da parte del condottiero greco (amore di padre o strategia dilatoria?) fu la stessa Ifigenia ad offrirsi, ma al momento del sacrificio la ragazza scomparve e al suo posto Artemide fece comparire una cerva. L’avventura o la sventura (?) di Ifigenia così come l’ho sintetizzata (ma depurata delle incrostazioni ironiche …) sarà immortalata all’inizio del V secolo da Eschilo in Ifigenia in Aulide e da Euripide in Ifigenia in Tauride, dove, però, il topos della morte apparente ci fa sapere che Ifigenia vive come sacerdotessa di Artemide, anche se condannata (nessuno, nemmeno una dea dà niente per niente …) ad eseguire il sacrificio rituale di ogni straniero che fosse sbarcato in Tauride. A parte la sottile e discutibile apparente generosità della dea, c’è da dire che a distanza di millenni lo scambio donna-animale (preferibilmente tigre) o viceversa diventerà un classico negli spettacoli degli illusionisti …
E come non ricordare il racconto biblico di Abramo la cui obbedienza Dio mette alla prova chiedendogli il sacrificio di Isacco? Anche qui non manca il lieto fine con una divinità ancor più generosa della pagana Artemide, perché non solo esonera Abramo dal sacrificio ma lo gratifica pure della sua benedizione senza riserve o condizioni.
Cosa dire, poi, dei popoli come gli Aztechi e i Maya (ma il fenomeno riguarda pure Cartagine e Roma), presso i quali il sacrificio umano era abbastanza diffuso?
Oggi tale pratica probabilmente non sopravviverebbe neppure presso qualche sconosciuta popolazione della foresta amazzonica (pure questa ormai ridotta agli sgoccioli …) e, comunque, sarebbe molto più rispettabile di quel fenomeno dilagante in quella giungla inestricabile che si chiama corruzione, perché almeno agirebbe alla luce del sole e non attraverso la pratica occulta della tangente e, a voler essere cinici, il numero di morti sarebbe irrilevante rispetto a quello provocato dalla scarsa qualità dei servizi (in primis quello sanitario), a sua volta provocata non dall’esiguità dei fondi ma dalle ruberie di ogni tipo, favorite, a loro volta, dalla natura politica e non meritocratica di certe nomine …
I sacrifici umani continuano, ma se in passato il sacrificio, indotto, soprattutto quand’era, per così dire, pubblico, prevalentemente da esigenze di natura economico-militare, era destinato a questo o a quel dio, oggi il beneficiario è questo o quell’individuo e l’unico dio ispiratore, destinato a restare occulto finché qualche sacerdote-magistrato non gli accende, certamente non per devozione, una lampada, è il dio-denaro.
A questo punto il lettore si chiederà: – Cosa ha a che fare tutto questo con S. Silvestro? -.
Ha a che fare, ha a che fare, perché l’ultimo giorno dell’anno, a parte il cenone e il clima di buonismo che lo circonda, credo lasci qualche nostalgia solo in chi, per un motivo o per un altro, sospetta che quello potrebbe essere l’ultimo per lui. Per i più, invece, rappresenta uno spezzone di tempo da archiviare, il vecchio e il passato da lasciarsi alle spalle per cedere alle lusinghe del nuovo e del futuro, che legittimamente ognuno di noi spera almeno più sereno. E in questo consumismo della memoria non c’è tempo per trarre insegnamenti dalle esperienze vissute,
Ora S. Silvestro si trova a dover simboleggiare suo malgrado e per pura coincidenza (morì, a quanto pare, il 31 dicembre del 335) tutto questo e ad accollarsi, per giunta, il sentimento dell’incontentabilità umana (chi non si prefigura un futuro più felice di un recente passato, anche se quest’ultimo è stato felicissimo?). Uno già santo, insomma, che, ogni anno!, diventa il capro espiatorio della nostra fragilità. Un motivo in più per rendermelo particolarmente simpatico, a parte il suo nome che evoca come Silvano e Silverio (Silvio, almeno in me, no; e non certo per motivi etimologici …1) quel ritorno alla natura che appare ormai come l’ultima nostra spiaggia incontaminata del nostro mondo in sfacelo.
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1 Silvestro è, con la regolarizzazione della desinenza, dal latino silvestre(m)=silvestre; Silvano è da Silvanu(m)=Silvano, dio dei boschi; Silvio è da Silviu(m)=Silvio, nome di un figlio e di un nipote di Enea. Tutti sono derivati da silva=selva.
L’ultima volta che nevicò tra Lecce e provincia, cioè da queste parti, era il dicembre di non so quale anno, forse il 2002. Facebook non c’era ancora ed erano i giorni del passaggio dalla lira all’euro. Nonno aveva sul tavolo il kit completo della nuova moneta. Se ne strafotteva dei fiocchi di neve là fuori, dei prati bianchi e dei bambini. Non toglieva lo sguardo preoccupato da quei soldi. Voleva subito prendervi confidenza perché temeva di essere fregato da baristi, pizzicagnoli e tabaccai. Adesso che la neve rischia di tornare qui tra domani e dopodomani, stavo pensando a questo: agli euro nuovi di zecca che ritirammo dall’ufficio postale e al pragmatismo dei vecchi.
In risposta alla domanda del titolo qualcuno dirà: – Matematico! -. Speriamo che lo sia per tutti …
2015 è il prodotto dei numeri primi 5, 13 e 31. Il lettore scelga tra i significati per ciascun numero riportati dalla smorfia napoletana quello che più gli aggrada e che questo gli sia di buon auspicio. Va da sé che la buona forchetta, rinviando sempre a domani ogni buon proposito al fine di recuperare il peso ideale perduto nei giorni precedenti, sceglierà senz’ombra di dubbio per il 5la gallina cotta, per il 31la cotoletta di vitello e per il 13, rinunziando alla coscia poiché sotto sotto è un romanticone, per le candele…
5 l’alba, l’albergatore, l’amido, l’argenteria, il lavare, i bicchieri, il borsaiuolo, i bottoni, la cambiale, il canonico, la cassapanca, la cerbottana, la chiesa, iconfetti, il contare, la fabbrica, la formosa,la fossa, il gabelliere che perquisisce, la gallina cotta, il gallone verde, la gamba di uomo, la ganascia, la gazzetta del popolo, l’impiccato, il gelone alle orecchie, l’ improvvisare, il nano e i nani, il prezzemolo.
13 l’arco trionfale, l’allattare, gli amanti, la barbabietola, la borsa piena, la botte, le candele, il cappuccio, il chirurgo, il colmare, la coppa, la coscia, il decollare, il digerire, il disgusto, la doccia, il gallo che mangia, il gelone, l’invecchiare.
31 l’avvocato, il burro, il cappello, il cocomero, il colorare, il compare, il concerto, la conchiglia, la confessione, la cotoletta di vitello, il dissetarsi, il duro, l’enormità, la farfalla, il favore, il fiabesco, il flipper, la forchetta, la gabbia, la gatta bianca, la gatto con il topo.
Per conoscere il significato di cutrèu suggerisco ai non salentini la lettura del relativo post in https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/05/10/dialetti-salentini-cutreu/. Lo stesso invito, però, lo rivolgo anche ai miei conterranei per evitare di credere che il titolo alluda all’improbabile ritorno alla solidità perduta di un vecchio ormai rammollito nelle carni, nelle ossa, ma, credo, non nello spirito …
Per farla breve le cose stanno così: nel lontano 10 maggio 2010 apparve su Spigolature salentine, il blog progenitore di quello attuale della fondazione, una mia breve nota sull’etimo di cutrèu. A distanza di più di quattro anni, pochi giorni fa, precisamente il 3 dicembre 2014, il signor Peppino Martina ha inserito il seguente commento che chiunque può leggere al link già segnalato, ma che qui per comodità del lettore riporto integralmente e fedelmente:
gent. prof. Polito, per quanto riguarda la significazione di “crudo”- cotto o meno cotto- di alcuni cereali in particolare-piselli e ceci, Le riporto ciò che si dice -nell’agro di:Arnesano -Magliano -Carmiano -Monteroni -Novoli -ancora oggi -es.” su crutiuli”-che tanto fisionomizzano la lessicalità latina, adducendo poi per questi, motivo di coltura su particolari terreni : con l’occasione Le porgo profondi segni di attenzione e stima.peppino martina
Ringrazio il signor Martina perché mi consente di dimostrare ancora una volta in concreto come l’approfondimento della conoscenza non può fare a meno del contributo di chicchessia.
Le sue parole mi hanno fatto riflettere sull’etimo ipotizzato quattro anni fa e indotto a prendere in considerazione, invece, un probabile collegamento tra la qualità del terreno e la scarsa attitudine alla cottura del prodotto, sapendo che soprattutto i legumi, e tra questi il cece per primo, tollerano poco i terreni calcarei e argillosi, col risultato di dare un frutto di difficile cottura.
Mi son ricordato, così, che in greco esiste χύτρα (leggi chiùtra) che recentemente ho messo in campo per il probabile etimo di Cutrofiano (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/30/cutrofiano-e-un-suo-conte-del-xix-secolo/). Sulle questioni fonetiche che χύτρα pone rinvio al link appena segnalato; qui mi limito a dire che la voce greca significa pentola, che il suo derivato χυτραῖος (leggi chiutràios) significa di terracotta, che con la terracotta si fanno le pentole e che la terracotta richiede l’impiego dell’argilla. Tutti questi intrecci non escluderebbero, da un lato, il riferimento alla cottura tradizionale, ma prolungata, dei legumi nella pignata, dall’altro, al terreno argilloso che produce gli effetti ricordati.
Per concludere: accanto alla trafila di origine latina*crudivu(m)>*crutivu(m)>*crutìu>*crutèu>cutrèu ipotizzata quattro anni fa (e per la quale il segnalato crutìuli, che rispetto a cutrèu non presenta alcuna metatesi crut->cutr- costituirebbe una conferma) non mi sentirei di escludere senz’ombra di dubbio l’altra, di origine greca ma con intermediario latino, χυτραῖος>*cutrèu(m)>cutrèu.
E, può sembrare strano, integro la riconoscenza iniziale per il signor Martina e lo ringrazio in particolare per aver fatto aleggiare l’ombra del dubbio nell’aureola di certezza che, grazie anche all’autorità del Rohlfs, avvolgeva l’etimo di cutrèu.
Ho conosciuto Paolo Guido circa un paio di mesi fa mentre passeggiavo per Lecce. Francesca, la mia ragazza, si è accostata al tavolino dove le stampe raffiguranti alcune opere dell’artista erano in bella mostra e lui, con sarcasmo disinvolto e ironico ci ha invitati a sfogliarle: “non mordono mica!”.
Sono immagini moderne e al tempo stesso pregne di classicismo, qualcosa che sin da subito mi appare come una novità. Prima di avere il tempo di domandare Paolo ci travolge con una infinita valanga di informazioni in merito alle rappresentazioni e all’inusuale tecnica artistica. Ne resto trasportato e al momento dei saluti ci scambiamo i contatti nella promessa di risentirci.
A distanza di qualche mese eccoci qui a chiacchierare nel salotto di casa sua. Anche in questa occasione sono in compagnia di Francesca. Appena giunti in casa si comincia a respirare Arte: ci sono quadri appesi ovunque ma non riconosco in nessuno di essi il tratto di Paolo. Chiedo. Sono opere della madre e del nonno, anch’essi artisti.
Ci accomodiamo nell’ampio salone, lui arrotola una sigaretta e io poggio il registratore sul tavolo.
D.:
Dunque, Paolo, entrando in questa accogliente abitazione ho appurato immediatamente che l’Arte vibra rumorosamente sulle pareti e nel sangue della tua famiglia. Immagino tu l’abbia dentro come una sorta traccia genetica.
R.:
A parte mio padre, che è un geometra (razionalità pura), altre persone importanti nella mia famiglia hanno contribuito inequivocabilmente a sviluppare, consciamente o meno, la mia creatività; mia madre, come mio nonno prima di lei, ha sempre dipinto e lo ha fatto sino a poco tempo fa.
A loro devo il mio attaccamento alla rappresentazione figurativa.
In questo senso posso dire di possedere un percorso di studi che suffraga solo in parte la mia inclinazione artistica. Ho frequentato il liceo scientifico e dopo mi sono trasferito a Pescara per studiare Architettura. Nonostante gli apprezzabili voti a metà esami ho preferito rientrare a Lecce dove mi sono iscritto all’Accademia dei Beni Culturali facendomene convalidare alcuni. Anche in questo caso non ho terminato l’università, probabilmente perché questi ambienti di studio hanno disatteso le mie iniziali aspettative. Di certo c’è che ho sofferto molto il mondo dell’istruzione, con la sua organizzazione approssimativa nella quale l’individuo è prevaricato dall’istituzione stessa che lo dovrebbe forgiare.
D.:
In che modo la scuola dovrebbe forgiare l’individuo?
R.:
In realtà esistono già istituti rientranti all’interno della tipologia a cui mi riferisco, scuole che esaltano e affinano le potenzialità del bambino affinché egli crescendo si immetta nel mondo del lavoro dopo avere preventivamente acquisito una certa manualità. È giusto che il ragazzo scelga fisiologicamente il proprio futuro e non gli venga quasi imposto come spesso accade. Ognuno al proprio posto, dico io: se da piccolo hai la passione di fare il calzolaio quel desiderio deve essere incoraggiato e sviluppato perché un giorno tu possa divenire il migliore del mondo.
Più pratica e meno teoria, quindi: l’intelligenza parte dall’abilità delle mani.
D.:
Forse azzardo ma credo di cogliere una connessione tra questo pensiero appena espresso e le giovani figure rappresentate nei tuoi quadri. È così?
R.:
Sì, hai colto in maniera esatta. I soggetti che io amo rappresentare sono bambini perché credo siano figure da recuperare. L’infante racchiude in sé una completezza che gli adulti hanno perduto crescendo e questi ultimi cercano di estirpargli a loro volta in un masochistico circolo vizioso.
Il secolo che viviamo ha coniato terminologie precise per circoscrivere questa delicata età: “infanzia” l’hanno chiamata, ne hanno curato i bisogni e fabbricato in poco tutte le strutture per poterla ‘contenere’ (istruzione, pedagogia, pediatria).
Nella maggior parte dei casi, questa attenzione è stata tutt’altro che disinteressata; si è voluto togliere più che dare poiché, quella del “bambino” è una figura confezionata in funzione del suo potenziale da “grande consumatore”.
D.:
Potremmo dire che al “bambino interiore” non ci ha pensato nessuno?
R.:
A tal proposito a me piace ricordare un passo del Vangelo di Marco dove si narra di un misterioso ragazzino che scappa nudo al momento dell’arresto di Gesù. È un’immagine meravigliosamente evocativa, nella quale ci vedo lo spirito liberato, la parte spirituale che ognuno di noi possiede, quella che non può essere imprigionata in alcun modo… un exemplum da tenere presente nel portare avanti la propria arte.
D.:
Per riutilizzare quel termine che tanto mi è piaciuto, quali sono stati gli artisti che hanno “forgiato” la tua fantasia?
R.:
Intanto bisognerebbe capire cosa si considera con l’appellativo di “artista”.
Ho un tenero ricordo di Edoardo De Candia, pittore leccese negli ultimi periodi della sua vita terrena quando viveva emarginato, alienato dalla società.
Poi, tra i grandi maestri rinascimentali, Giorgione e Lorenzo Lotto rappresentano per me un solido riferimento. Mi piace fantasticare che tra le loro opere ce ne siano alcune ancora da scoprire.
E infine, ma non certo per importanza, ti sembrerà bizzarro ma le mie seduzioni artistiche erano anche a strisce. Mi hanno catturato e folgorato infatti i fumetti che leggevo da bambino: dall’intramontabile Topolino passando per Felix e Geppo, e perfino Jacovitti. Insomma, cose molto popolari e vintage. In quest’ultimo elemento si rintraccia certamente una connessione con ciò che faccio.
D.:
Devo ammettere che conosco veramente poco di questa corrente artistica Pop nella quale ti identificano. Me ne parli?
R.:
La chiamano Pop Surrealism. Quest’arte giustappunto popolare e surreale nasce dal il pittore statunitense Robert Williams, fondatore della rivista-manifesto Juxtapoz. Si è sviluppata nella cultura underground dove fioriscono tra gli altri il graffitismo, i tatoo, il fumetto, ecc.; un’arte, almeno nella sua fase iniziale, non certa da galleria ma da strada. Infatti anche per questa ragione veniva definita “lowbrow art” proprio per evidenziarne lo stacco con quella che si considera “highbrow” e che deteneva quotazioni molto più elevate. Oggi, non è più così poiché opere come quelle di Mark Ryden, Joe Sorren e lo stesso Williams, tra i capostipiti della suddetta corrente, raggiungono prezzi oggettivamente poco accessibili all’uomo della strada.
D.:
A proposito di grafica computerizzata: che valore ha un’opera realizzata con l’ausilio di PC e software?
R.:
Partiamo col mettere in evidenza che è sempre la creazione, l’idea, ad avere un valore e non il supporto sul quale essa viene espressa, oppure lo strumento con cui si elabora e si sviluppa.
Immagino che se Michelangelo si trovasse tra noi oggi, avendo a disposizione i nostri stessi mezzi, li userebbe tranquillamente come al suo tempo nella fase preparatoria di un dipinto si utilizzavano i cartoni per lo spolvero.
Ognuno nella propria epoca impiega ciò che ha a disposizione ma sempre con un occhio al passato perché non si può solo guardare in avanti, si deve anche necessariamente attingere dalle precedenti scoperte.
D.:
E come la si gestisce la questione della facile riproducibilità?
R.:
Che un’opera possa essere clonata, per me come artista, non ha rilevante importanza.
Certo è che ci possano essere acquirenti interessati a possedere, diciamo così, il cliché ma questa è solo una questione di prezzo di mercato e di parametri prestabiliti.
Nel mio caso spesso le opere nascono da un progetto realizzato in digitale e così si concretizzano. Ci sono casi in cui questa fase è solo preparatoria terminata la quale le riporto su tela dipingendo con tecniche della tradizione pittorica classica come ad olio. tipiche del ‘500 e ‘600. Ma anche l’incisione a punta metallica (piombo, rame e argento) o la sanguigna sono tecniche che utilizzo con diletto.
D.:
Le opere in digitale possono essere considerate come serigrafie?
R.:
Il termine esatto è giclée, sono delle stampe di fine art, eseguite con inchiostri Epson su carta d’archivio museale. Realizzazioni importanti che garantiscono un indice alto di durata nel tempo. Chiaramente per tributare prestigio all’opera una tiratura bassa è fondamentale.
D.:
Il mercato come risponde di fronte a questa innovazione?
R.:
Il ‘mercato’ predilige ancora le opere uniche, meglio se pittoriche. Come per tutti i mutamenti culturali anche l’avvento del digitale ha bisogno del tempo necessario affinché possa essere compreso e accettato da chi acquista arte. Di certo però io non sono il primo né l’unico a muovermi in questa direzione ma al contrario mi trovo in ottima compagnia; per esempio nel 2011 i miei lavori sono stati esposti a Roma presso la Dorothy Circus Gallery durante la mostra “Would you be my Miracle” affianco a quelle del londinese Ray Caesar e della lituana Natalie Shau, due dei maggiori esponenti di questa contemporanea corrente artistica.
D.:
Quanto è importante la funzione della galleria per un artista?
R.:
Gli atelier rappresentano un punto di passaggio per l’artista che vuole misurarsi col mercato e ritracciare un proprio spazio all’interno di esso.
Ovviamente ciascun artista racconta la propria esperienza. Io devo molto alla Dorothy Circus Gallery che citavo pocanzi per avermi permesso di uscire fuori dai confini locali e considerare il mondo come piazza di confronto. Una rivista settoriale l’ha recensita recentemente classificandola all’ottantesimo posto di una graduatoria… un bel risultato se consideri che al primo posto vi è il Louvre. Però non disdegno la strada dove torno col mio banchetto sotto braccio ogni volta che ne avverto il bisogno.
D.:
Che poi è proprio lì che ci siamo conosciuti. Cosa ti da in più l’esporre per strada?
R.:
Mettendomi per strada appago il personale bisogno di relazionarmi con la gente. È giusto ogni tanto abbassare il tono dell’Arte, per questo immagino sia più giusto di fare delle mostre in luoghi non esattamente deputati all’arte, dove in una mattinata le opere siano alla mercé della gente comune e non di critici esperti… c’è bisogno, oggi, che l’artista non sia dove te lo puoi aspettare, occorre trovare nuovi posti. C’è anche che nei weekend intercetto le famiglie che passeggiando per il centro storico di Lecce si fermano a osservare le stampe economiche che espongo. Assisto persino a scenette divertenti di bambini che vorrebbero avvicinarsi al banchetto e genitori che li trattengono dal farlo. Allora in questi casi un’immagine la regalo ben volentieri.
D:
Com’è il rapporto tra l’Arte e il territorio?
R.:
Decisamente pessimo! Occorre che rifiorisca e maturi quel senso poetico dell’Arte che pare stia estinguendosi. In questo le istituzioni hanno colpe inespiabili. Bisognerebbe cominciare col ridisegnare le città secondo criteri a misura d’uomo e non solo per finalità economico-cementizie.
Si avverte la mancanza di figure competenti a ricoprire incarichi pubblici e istituzionali; magari, lo dico come esempio e a mo’ di provocazione, bisognerebbe tornare al tempo in cui si diventava professori dell’Accademia per merito acquisito all’interno della bottega.
D.:
Ti piacerebbe, come in un film di Woody Allen, tornare indietro nel tempo e vivere in un’epoca più confacente al tuo modo di intendere la società?
R.:
Chi vive bene la propria contemporaneità in qualche modo vive dentro di sé anche altre epoche. Qualcuno sostiene che si possa viaggiare attraverso il tempo. Io credo che lo si possa fare spiritualmente penetrando in questa maniera altri mondi e segnarne le mappe attraverso l’arte.
D.:
Sono inquieti i mondi che rappresenti?
R.:
L’Arte dovrebbe produrre bellezza intorno ma io non ce ne vedo poi tanta. La situazione che viviamo non è delle più floride e certamente questa inquietudine si riflette e ripercuote nella struttura delle mie composizioni. Cerco di dirmi che l’inquietudine è movimento, una modalità con cui si può uscire dalla stasi… cerco di vederne il lato positivo. Solo i bambini ne sono immuni, custodi quali sono di una naturale purezza.
D.:
Si può sperare che l’Arte cambi questa cruda realtà?
R.:
Noi viviamo nell’epoca delle immagini e di esse siamo schiavi. Ho lavorato per alcuni anni nella grafica editoriale e pubblicitaria e credo estremamente nella simbologia e nei messaggi che una determinata raffigurazione può contenere e trasmettere. Bisogna solo cambiare il flusso dell’attenzione affinché sia la bellezza a sovrastare la bruttura del consumismo imperante. Spero di contribuire, con le mie opere, a questo auspicato cambiamento.
Si è celebrato il 140° anno della morte di Giuseppe Libertini, noto personaggio del Risorgimento salentino, insieme a Sigismondo Castromediano, Bonaventura Mazzarella, Epaminonda Valentino, Antonietta de Pace ed altri illustri uomini di stampo liberale.
Giuseppe nacque a Lecce il 2 aprile 1823 da Luigi, ricco proprietario terriero, e da Francesca Perrone. Sin da studente si distinse per i suoi pensieri libertari che gli costarono gridate e punizioni a scuola. Ultimati gli studi inferiori, rimase per qualche tempo nella sua città natale ed ebbe modo di conoscere, frequentando il caffè Persico e la legatoria Bortone, alcuni noti esponenti liberali leccesi, come il medico Gennaro Simini, Gaetano Madaro, Pasquale Persico, Salvatore Stampacchia, Domenico Lazzaretti, Epaminonda Valentino, Carlo D’Arpe e Bonaventura Forleo. In questi luoghi, in verità non molto sicuri, i liberali leccesi discutevano della politica asfittica dei Borbone e dei fermenti liberali provenienti da varie nazioni europee, in particolar modo dalla Gran Bretagna e dalla Francia. Si leggevano e si commentavano i proclami e le epistole di Giuseppe Mazzini, che, erano per buona parte condivise.
Nel 1844 il giovane liberale si trasferì a Napoli e frequentò, senza grande profitto, le lezioni di Economia all’Università. Data la sua intensa attività politica, uscì fuori corso e finì per abbandonare gli studi. Dopo aver conosciuto il De Sanctis, lo Spaventa e il d’Ayala, Giuseppe compose un dramma a sfondo patriottico, ma le autorità non gli concessero la diffusione e la rappresentazione teatrale. Tornato a Lecce nel 1847, Giuseppe riprese i contatti con gli esponenti del liberalismo salentino.
A fine gennaio 1848, Re Ferdinando II concesse finalmente la tanto invocata Costituzione. In ogni parte del Meridione furono organizzate in pompa magna feste in onore del grandioso evento. A Lecce fu proprio Giuseppe a promuovere l’iniziativa il 21 febbraio in Piazza Sant’Oronzo, che per l’occasione era gremita da una marea festosa di salentini. Ma le promesse del Re, però, per buona parte furono osteggiate dai nobili e dai vari funzionari dell’amministrazione statale. La situazione cominciò a degenerare e i rapporti tra costituzionalisti liberali e i monarchici andarono sempre più inasprendosi. Ciò nonostante, furono indette le elezioni per la costituzione della Camera dei Deputati. Il clima era teso in tutto il Regno perché si temevano eventuali brogli elettorali. Infatti fu proprio Giuseppe uno dei firmatari della protesta presentata al ministero dell’Interno contro alcune irregolarità riscontrate nelle votazioni da parte di alcuni ufficiali della Guardia Nazionale.
Il clima si fece rovente ed incerto. Il Re tentennava ed era mal disposto a concedere alcune riforme costituzionali ai deputati liberali. Per questo motivo Giuseppe, insieme a Bonaventura Mazzarella, Achille Dell’Antoglietta, Antonietta de Pace ed altri liberali, si recò nella capitale a seguire da vicino l’incerta evoluzione del momento.
All’alba del 15 maggio 1848, non avendo il Re concesso quanto richiesto dai deputati, scoppiò la scintilla della rivoluzione. Le vie intorno al Palazzo Reale furono sbarrate da barricate erette dai liberali, soprattutto in via Toledo e via S. Brigida. La sommossa durò alcune ore, ma i rivoltosi, inferiori per numero e per armamento, furono costretti ad abbandonare le postazioni e a darsi alla fuga. Le guardie svizzere, in modo particolare, si macchiarono di orrendi delitti nei confronti anche della gente inerme. Alla fine rimasero sul terreno i corpi senza vita di quasi mille persone. Giuseppe e i suoi compagni, che avevano combattuto con estremo coraggio sulle barricate, rimasero fortemente scossi da simili efferatezze e giurarono vendetta.
Rientrati a Lecce, i salentini non intesero perdere l’appena nata Costituzione e fondarono immediatamente il Circolo Patriottico provinciale, al fine di tutelare l’ordine pubblico e difendere le libertà conquistate. A presidente fu eletto Bonaventura Mazzarella, mentre a segretario Sigismondo Castromediano. Giuseppe fu tra i promotori, insieme ad altri influenti cittadini salentini
Il 12 giugno dal circolo partì un atto di Protesta (da alcuni storici l’atto è attribuito allo stesso Libertini e, forse anche, a Carlo D’Arpe e Pasquale Persico) in cui si dichiarava “illegittima, incompatibile, vergognosa la dominazione di Ferdinando II” e si affermava il diritto della nazione di affidare il governo a un comitato provvisorio.
Il 25 giugno 1848, insieme con Giuseppe Simini, Libertini prese parte, come delegato della città di Lecce, all’adunanza convocata dal Circolo costituzionale lucano per promuovere una sorta di federazione fra la Lucania e le province di Salerno, Foggia, Bari e Lecce.
Alla fine della seduta fu redatto un Memorandum (anche questo è attribuito al Libertini), in cui si invocava il mantenimento del regime costituzionale e s’insisteva su un’interpretazione progressiva e dinamica della costituzione. Dopo un infruttuoso peregrinare in alcune province della Calabria e della Lucania, Giuseppe tornò a Lecce, dove organizzò una dimostrazione popolare (15 agosto 1848) in favore della repubblica democratica. Il tentativo non determinò alcun effetto positivo, anzi fu l’inizio della fine. Le truppe borboniche entrarono a Lecce ed arrestarono alcuni noti esponenti liberali salentini, tra cui Sigismondo Castromediano e Epaminonda Valentino. Quest’ultimo morrà di crepacuore nelle fredde prigioni leccesi, dopo qualche mese di detenzione.
Giuseppe fuggì e venne ospitato da alcuni amici, che rischiarono di grosso.
Tornato a Napoli, visse in clandestinità, finché il 16 novembre 1849 fu arrestato e rinchiuso nel carcere di Potenza con l’accusa di “cospirazione per distruggere o cambiare il Governo e di eccitare i sudditi e gli altri abitanti del Regno ad armarsi contro l’Autorità Reale, in maggio, giugno e luglio 1848“.
Venne processato dalla Gran Corte speciale di Potenza e difeso efficacemente dall’avvocato Bodini, tanto che fu assolto. Il successivo e fortuito rinvenimento di documenti compromettenti portò tuttavia a un nuovo processo per cospirazione (febbraio – marzo 1854), che si concluse con la condanna a sei anni di reclusione, commutati in seguito nella pena del confino.
Relegato nell’isola di Ventotene, Giuseppe diede vita in maniera fortunosa e rocambolesca a un lungo carteggio con il vecchio amico Silvio Spaventa (allora detenuto, insieme con Carlo Poerio, nella vicina isola di Santo Stefano) al quale scriveva una volta la settimana sui fatti che accadevano a Napoli e nel Regno. A sua volta lo Spaventa gli forniva altre importanti notizie.
Ottenuta la grazia nel 1856 e fatto ritorno a Lecce, il Giuseppe non tardò a prendere contatto con il comitato napoletano, di ascendenza mazziniana, guidato da G. Fanelli e L. Dragone. Ebbe così modo di svolgere un ruolo importante nella spedizione di Carlo Pisacane a Sapri. Anzi, fu proprio il Libertini a farsi carico di garantire l’appoggio da parte delle province del Salento e della Basilicata, assicurando che “al momento dell’azione diecimila e forse più saranno in campo“. Però gli eventi si svolsero in altro modo e Giuseppe non poté mantener fede alla promessa. La polizia borbonica trovò addosso al Pisacane l’epistola del Libertini, nella quale il nostro esprimeva il pieno appoggio alla causa comune di liberare il Meridione dai Borbone.
Giuseppe fu costretto a fuggire e a rifugiarsi a Corfù (settembre 1857) sotto il falso nome di Enrico Barrè.
Prima di andar via, stipulò un compromesso con il fratello Vincenzo, il quale assunse l’impegno di inviargli 40 ducati al mese, impegno che non fu sempre onorato. Infatti, nei mesi di esilio greco, per poter sopravvivere Giuseppe si barcamenò tra mille difficoltà finanziarie.
Nel marzo 1858, si trasferì a Malta, e qui Nicola Fabrizi, dopo averlo spronato a scrivere un opuscolo sulla situazione politica nel Sud d’Italia, lo spinse ad andare a Londra per incontrare Giuseppe Mazzini. Giunto in Inghilterra nel luglio del 1858, incontrò l’eroe genovese, che lo nominò redattore del periodico Pensiero e azione. Nel primo numero (settembre 1858), Libertini pubblicò l’articolo “I nostri a Salerno”, in cui si scagliava contro i giudici che avevano condannato alla pena capitale i superstiti della spedizione di Sapri.
Molto efficace fu anche un blocco di articoli, pubblicati tra febbraio e marzo 1859, sull’imminente conflitto dei Franco-Piemontesi contro l’Austria.
Nell’agosto 1859, Giuseppe Libertini, insieme a Rosolino Pilo e Alberto Mario, fece finalmente ritorno in Italia, con l’obiettivo di suscitare un movimento rivoluzionario insurrezionale nel Mezzogiorno, ma senza ottenere alcun esito. Il nostro fu costretto a rientrare in Inghilterra in quanto la sua presenza in Italia era a forte rischio. Nell’isola rimase per poco tempo, dopo le buone notizie che giungevano dall’Italia sul felice progetto di Garibaldi. Nell’agosto 1860 si trasferì a Napoli, stavolta da uomo libero, poiché Re Francesco II gli aveva concesso l’amnistia, cancellandogli la condanna all’ergastolo, inflittagli dalla Corte speciale di Salerno per i fatti di Sapri.
Agendo di concerto con Garibaldi, Giuseppe organizzò e coordinò diversi gruppi d’azione insurrezionali in Puglia, Basilicata e Calabria, in appoggio alle truppe garibaldine. In seguito, costituì con G. Pisanelli (settembre 1860) il Comitato unitario nazionale, che s’interessò, dopo la fuga di Francesco II a Gaeta, di governare per poche ore Napoli sino all’arrivo di Garibaldi (7 settembre 1860). Il dittatore, per ricompensa, gli affidò la conduzione del Banco di Napoli. Il nostro, però, rifiutò senza troppo pensare, asserendo che il suo impegno era dettato esclusivamente dall’amor patrio.
Qualche mese dopo, fondò insieme a Ricciardi, Nicotera ed altri, l’Associazione Unitaria Italiana, i cui fondamenti programmatici erano l’Unità nazionale e Roma capitale, da conseguire mediante l’azione rivoluzionaria e non quella diplomatica. Anche questo intento fallì miseramente e, addirittura, Giuseppe fu arrestato, ma dopo pochi giorni fu rimesso in libertà.
Il 27 gennaio 1861 Libertini venne eletto deputato al Parlamento nazionale per il collegio di Massafra. Si schierò con la sinistra, ma non prese mai parte attiva ai lavori, anche perché limitato da una leggera balbuzie. Nei primi anni successivi, Giuseppe riversò il suo interesse all’azione extraparlamentare.
Fu uno dei più abili ed efficaci organizzatori dell’impresa garibaldina di Aspromonte (agosto 1862), che, però, non sortì l’effetto sperato. Accettò il ruolo di intermediario nei rapporti segreti intercorsi nel 1863-64 fra Mazzini e Vittorio Emanuele II, in vista di una possibile azione per la liberazione del Veneto, ma anche questo impegno non conseguì alcun effetto positivo. Per questo motivo, Giuseppe rassegnò le dimissioni da deputato e si ritirò a Lecce insieme alla moglie Eugenia Basso.
Da quel momento abbandonò poco per volta la politica, interessandosi di fatti prettamente provinciali.
Nel 1864 fondò la loggia massonica “Mario Pagano” e ne diventò il Gran Maestro Venerabile. Da questo momento in poi s’impegnò con ogni energia a diffondere l’importanza della massoneria in Terra d’Otranto e riuscì a creare una rete articolata di logge massoniche, tanto che nella pubblicistica locale si cominciò a parlare, sempre più convintamente, di “Terzo partito” repubblicano, dopo quello liberale moderato e quello dei neri, filoborbonico e clericale.
A partire dal 1868 Libertini e i suoi incontrarono la durissima opposizione del prefetto Antonio Winspeare, inviato in provincia proprio per combattere il suo potere o quanto meno sminuirlo. Ma invano.
All’inizio degli anni settanta Libertini, un po’ malandato e svuotato d’ogni entusiasmo, soprattutto per la morte del suo caro Mazzini, si chiuse in se stesso e in un silenzio che lo accompagnò sino alla morte, che lo colse all’età di soli 51 anni. Tutti i leccesi si strinsero attorno alla sua bara in un corteo di migliaia di persone, a testimonianza dell’amore e della stima a lui riservata. Attestazioni che arrivarono non solo da parte di amici, ma anche di coloro che gli furono i rivali politici più accesi.
Oggi il grande risorgimentista è ricordato a Lecce con un monumento, eretto nella piazza a lui intitolata, sita alle spalle del castello Carlo V. Anche altri paesi salentini gli hanno dedicato strade e piazze.
La radice massonica da lui costituita e, soprattutto, fatta crescere e sviluppare oggi conta sul territorio varie diramazioni.
Devo molte di queste notizie al libro di Mario De Marco (discendente del Libertini per parte di madre) intitolato Giuseppe Libertini. Patriota e Fondatore delle Logge Massoniche in Terra d’Otranto/ Testi e Documenti (Lecce, Edizioni del Grifo, 2009, pp. 704)
Ben volentieri richiamo l’attenzione sul grande livello qualitativo di un gruppo statuario che è presente nella parrocchia del Sacro Cuore di Gesù in Nardò. Ogni anno, ormai da oltre otto lustri, la comunità esibisce il complesso figurativo in originali e mai ripetitivi presepi, seguendo le volontà del sacerdote che volle commissionare le opere, don Salvatore Leonardo (1939-1997), primo parroco, il cui ricordo e la cui sensibilità restano ancora vivi tra quanti lo ebbero pastore.
Questi ebbe grande cura della comunità e dell’edificio sacro a lui affidato, preoccupandosi di dotarlo di ottimi arredi, tra i quali le statue presepiali di cui si scrive in questa nota.
Attento cultore dell’arte popolare e particolarmente devoto al grande evento della Natività di Cristo, francescanamente innamorato del presepe di Greccio, don Salvatore volle dotare il suo gregge di quanto meglio potesse rievocare la lieta Novella.
Si rivolse dunque al più valido artefice della cartapesta leccese vivente, il maestro per eccellenza, Antonio Malecore,[1] ultimo esponente della celebre bottega ancora attiva sino a qualche decennio fa nel cuore della Lecce antica, impiantata dallo zio Giuseppe nel 1898.[2]
Il sacerdote aveva notato la finezza e la valenza artistica del Malecore in numerosi lavori sparsi nelle diverse chiese salentine, cogliendone la cura meticolosa dell’esecuzione, il sorprendente realismo dei personaggi e la perizia tecnica esercitata in ogni particolare delle statue. Era soprattutto attratto dalla dolcezza dei volti del maestro, dall’anatomia, dal panneggio e dalla delicata cromìa, mai esagerata, non translucida, ben accostata.
Ne commissionò ben sei, con costi non indifferenti per quel periodo (1979) e per le limitate risorse degli offerenti, sempre ripromettendosi di ampliare la scena con successive committenze, come effettivamente avvenne nei decenni successivi da parte del suo successore e dei parrocchiani.
Maria, Giuseppe, il Bambino con la mangiatoia, il pastore in ginocchio, l’umile contadina con il cesto di mandarini, il pifferaio. Meravigliose opere gelosamente custodite nel corso dell’anno, tolte dal luogo “proibito” solo alla vigilia, per essere collocate nel presepe allestito, ultimo atto da compiersi poco prima della Veglia della Santa Notte.
Nel 1998 alcuni fedeli, desiderosi di incrementare il patrimonio scultoreo, commissionarono al medesimo maestro, ormai al termine della carriera, i tre Magi, l’angelo e un terzo pastore.
La diversa cronologia delle opere non si ravvisa in modo netto, è evidente per lo più nella crescita artistica del Malecore: è il caso ad esempio degli alteri Magi, particolarmente interessanti rispetto alle restanti statue per la capacità manuale che senz’altro supera il limite dell’artigiano.
Non è da meno il bel pastore genuflesso sull’arto destro, figura che si volge delicatamente verso destra, con un atteggiamento devoto che nulla ha da invidiare ai simili dipinti nelle più belle opere del Seicento. La raffinata resa delle mani, i lineamenti del volto, l’andamento della barba e la garbata posa forse potrebbero designarlo come il miglior pezzo della collezione.
Non esiste tuttavia competizione tra le figure, rispettando ognuno il suo ruolo ed esercitando un fascino che solo Malecore poteva attribuire loro. E quanta dolcezza nel volto di quel giovin suonatore di piffero, le cui mani stringono con incredibile eleganza l’umile strumento che sembra davvero diffondere un melodioso suono nell’angusta stalla.
Lo stile del gruppo statuario senz’altro richiama ai leccesi altari zimbaleschi, infinite volte ammirati dal maestro nella chiesa del Rosario in particolare, la sua “maniera” tuttavia si distingue dallo stile accartocciato barocco, prediligendo una composizione più sobria e più vicina al gusto del contemporaneo. L’angelo del presepio neritino, per esempio, nulla ha a che fare con gli angioletti paffuti e giocosi degli altari di S. Irene o di Santa Croce e di tanti altri altari barocchi salentini, offrendosi allo spettatore in posa severa, consapevole dell’evento che si celebra, fiero di esibire quel cartiglio che esorta alla Gloria al Padre per tutti gli uomini nel più alto dei Cieli, in eterno.
E quella che potrebbe apparire come la statua più semplice, raffigurando un contadinello con la legna nella saccoccia, ancora una volta conferma l’abile modellazione plastica del Malecore, evidente nella realizzazione di caratteri somatici sempre differenti, marcati, tipici della gente del Sud, con uno standard che non tradisce mai la sua inconfondibile arte scultorea.
La semplice carta, ridotta in poltiglia secondo tecniche centenarie, diventa pregevole materia capace di competere con i più nobili materiali, alla ricerca della perfezione e della bellezza classica che indossa le vesti del popolo salentino. Ma anche quando deve trattare “reali” personaggi, come i tre Magi, l’artista riesce a conservare la dolcezza dei loro volti, l’umile posa, rendendoli esuberanti solo per le vesti degne del loro status, impreziosite dall’abile collocazione di gemme e minuterie in metallo dorato.
Il risultato è dato dall’insieme di undici figure a tutto tondo, di grandezza proporzionatamente ridotta (la più alta è di circa 120 cm), colorate a pennello, dal peso alleggerito grazie alla struttura impagliata.[3] Il contesto presepiale in cui vengono annualmente inserite – anche questo mai ripetitivo – conforme al mondo contadino di fine Ottocento, esalta la bellezza dei manufatti, esprimendo egregiamente il bimillenario racconto della Natività nell’angusta stalla.
Non ci vuole molto a capire che il maestro Antonio Malecore qui, come per altri presepi sparsi nelle sedi più prestigiose del mondo, è andato ben oltre la tradizione leccese, con risultati che lo inseriscono di diritto nella storia della cartapesta. Un catalogo delle sue opere, a mio parere, è più che mai auspicabile, a dispetto degli scettici che si ostinano a ritenere quella della cartapesta un’arte di livello inferiore.
Il gruppo statuario neritino, per la sua singolarità e il gusto realistico, meriterebbe una collocazione stabile nel sacro edificio, magari in un’apposita cappellina laterale. Questo eviterebbe gli immancabili guasti delle opere, in più punti già riscontrabili con le cadute di colore e la frattura di alcune parti più deboli, come purtroppo ho potuto constatare.
Plaudo comunque alle sagge scelte della fervente comunità, che ha saputo ben scegliere, investendo attentamente sulla cultura dell’arte popolare a Nardò e nel Salento.
(“Quando verrà Natale, tutto il mondo cambierà” – Antonello Venditti)
Fra pochi giorni, tutto il mondo festeggerà il Natale. E del resto, come sfuggire ad un evento così importante e sentito? Se si pensa che il Natale si è innestato su una festa pagana come quella del Natalis Solis Invicti o che la nascita di Cristo ha soppiantato quella del dio persiano Mitra, qualche dubbio viene, ma lasciamo ai dotti e ai razionalisti queste rilevazioni e per noi sia vivo il Natale con annessi presepe e albero. Tuttavia, perché il dì di festa sia davvero speciale, bisognerebbe adottare delle precauzioni e osservare alcune semplici ma importanti prescrizioni tese a evitare che giorno sì gaudioso tosto si trasformi in giorno funesto. Prendetelo come un personale prontuario di autodifesa, un vademecum, una posologia, una ricerca del giorno perfetto, una strategia di evitamento degli effetti collaterali del Natale. E dunque la prima regola da osservare sarebbe quella di tenere ben spenta la tv. E se si pensa che, in mancanza di argomenti di discussione, un silenzio tombale calerebbe sulla tavola, e non si può fare a meno dell’elettrodomestico amico, evitare almeno telegiornali e trasmissioni di cronaca nera.
Sapere di guerre che ancora funestano tante parti del mondo o di omicidi-suicidi o sgozzamenti di casa nostra, certo non stuzzica l’appetito (come le pizzette catarì delle quali ringhiava, in un vecchio spot,un famelico Giorgio Bracardi). Sapere di gente scannata e buttata in qualche fosso non va molto d’accordo con quel piacevole languorino pre abbuffata natalizia.
La seconda regola di questa personale precettistica è quella di evitare la Messa del Papa il quale, più che alzare la voce ( vox in deserto clamantis) di fronte alle guerre e ai crimini contro l’umanità, non può fare. Una volta era diverso. Nel Medioevo lo sceriffo del mondo non erano certo gli Stati Uniti, ma era lui, il successore di Pietro, il vicario di Dio in terra, il Pontefice Massimo. Quando un popolo minacciava la pace e la tranquillità di un altro, ancor peggio poi se attentava al Patrimonium Sancti Petri, il Papa mandava il suo santo esercito a sterminare i manigoldi e farne pasto per gli uccelli. Vecchia storia quella della divisione dei poteri temporale e spirituale e dei due soli in cielo: a che cosa portano due immensi termosifoni che ardono contemporaneamente se non all’effetto global warming ,con la conseguenza che ormai festeggiamo il Natale in t shirt e maniche di camicia?
Dove è finito il bel freddo di una volta, quando a Natale si indossavano cappelli e cappotti e, se si era molto fortunati, al risveglio la mattina si poteva trovare anche la neve? Sembra il Pleistocene, ma si parla di venti, trenta anni fa. Altra cosa da evitare, nel giorno in cui nasce il divin bambino, sono gli sms di auguri sul telefonino, quelli stupidissimi e preconfezionati senza il nome del destinatario, trionfo di una banalità che, al confronto, i baci perugina sembrano “ La fenomenologia dello spirito” di Hegel. L’anno scorso ho mandato a quel paese coloro che me li avevano inviati. Quest’anno, per non cadere in tentazione, terrò accuratamente spento il telefonino. Se c’è ancora qualcosa da cui sottrarsi, è di andare a Messa la mattina del Natale. Chi è un fervente devoto può sempre farlo nel pomeriggio. Non solo, come tutti potrebbero immaginare, per non affogare nel vaniloquio della trita omelia del parroco, perché a quel polpettone indigesto si può resistere opponendogli altri più ludici pensieri o pregustando le leccornie che si mangeranno a pranzo. Ma soprattutto per scansare lo scambio di auguri all’uscita della messa e più in generale in tutti i luoghi di ritrovo sociale, quando adoranti parenti e amici vi verrebbero incontro per salutarvi e baciarvi. A che varrebbe ritrarvi e allungare la mano? Quelli, con forza raddoppiata dall’impeto buonista, vi stringerebbero a sé e via a slinguazzarvi le guance, mentre formulano logore espressioni propiziatorie. Ad eludere dunque tali bavose dimostrazioni di affetto, ed anche che qualcuno, vedendovi scappare a gambe levate, creda siate affetti dalla sindrome di Michael Jackson, ossessionato dai microbi, evitate di uscire di casa, e per una mattina fingetevi agorafobici. Anche perché, a frequentare pubblici consessi, si corre un altro rischio, ovverosia quello che, di fronte a mendici ed extracomunitari imploranti carità, avendo consumato tutti gli spiccioli fra l’offertorio in chiesa e l’acquisto di stelle di natale, bonsai, oleandri e baobab contro ogni tipo di malattia, si passi per spilorci, non potendo più elargire alcuna elemosina.
Qualcuno potrebbe credervi intolleranti e xenofobi e un bel giorno potreste vedervi recapitare a casa qualche simpatico omaggio, tipo una felpa della Lega Sud con la scritta: “più terroni meno negroni”. Ma continuando con questa posologia, se c’è una cosa da veramente tenere alla larga quel giorno sono i parenti serpenti.
Degli amici mi hanno riferito di pranzi di Natale che si sono trasformati in liti furibonde per questioni di interesse, con il tavolo diventato un ring di pugilato. Perché è chiaro, succede soprattutto con i parenti con i quali non ci si frequenta molto, magari emigrati in Svizzera e tornati per le feste , che quella del pranzo di Natale o del cenone della vigilia diventi l’occasione per risolvere, o cercare di risolvere, vecchi problemi, per saldare conti rimasti in sospeso. Emergono così invidie, celati malumori, sopite gelosie, sottaciute delusioni, striscianti rammarichi per questioni di eredità, che, ad un nonnulla, possono deflagrare in violenti alterchi. E magari, un’offesa tira l’altra, saltano fuori i coltelli o le pistole e il Natale finisce in una carneficina, con il faccione esanime dello zio o del cognato spiaccicato sulla lasagna al forno.
Largamente preferibile dunque festeggiare il giorno sacro fra parenti stretti, rimanendo nell’alveo, forse monotono ma rassicurante, della propria famiglia. E se proprio si potesse chieder tanto alla Provvidenza, ma questo decalogo si tramuta così in un libro dei sogni, allora sarebbe da scansare anche la moglie perché, è risaputo, nessuno più di una coniuge testarda, attaccabrighe e petulante, è capace di rovinare le feste e rendere nefasto un giorno fasto. E lo diceva già Seneca “perché all’uomo saggio non convenga prender moglie”, confermando quanto espresso da Epicuro, e lo ribadiva, da scapolo impenitente, Alberto Sordi (“ e che, me metto n’estranea in casa?”).
Se poi tutte queste pre condizioni dovessero realizzarsi e il giorno di Natale rivelarsi radioso, e la sera, confortati da tanta pace, si volesse uscire a far due passi, consiglio vivamente di rifuggire sagre paesane e presepi viventi. Basta col maniscalco, col ciabattino col berretto Nike, col ferraciucci che per noia gioca col telefonino, con la filatrice con le Hogan ai piedi (alla faccia della ricostruzione storica) e con le pittule che non sono mai gratis come ti dicono all’entrata (“ un’offertina, prego”)! Vieppiù,sconsiglio di frequentare i cinema. Cioè perché nel migliore dei casi ci si imbatte nel duecentocinquantesimo cine-panettone di quei guru della vecchia destra pecoreccia, ovvero ostricara e shampagnara , che sono i Vanzina, col loro portato di flatulenze, rutti, sbroccamenti e volgarità varie. Nel caso migliore, dicevo. Nel peggiore, invece, in qualche cinema d’essai, ci si può imbattere nel film straniero con sottotitoli, di quelli pluripremiati cinesi o coreani, che fanno tanto radical chic e piacciono a certi intellettuali di sinistra che ne riferiscono entusiasti ai colleghi d’Università (“ sai, ho visto “Lanterne scese” di Fan kul ‘ho, a Natale, non ho capito un cazzo ma è stato bellissimo!”).
Insomma, fra tricche e ballacche, il mio manuale di sopravvivenza si avvia al termine. Con impegno e convinzione, parte di questi desiderata possono diventare cosa concreta, e si può riuscire a schivare ogni iattura. Nell’ambito poi dei desideri iperbolici, megagalattici, si potrebbe chiedere di essere teletrasportati per quel giorno in un’altra dimensione, in un platonico iperuranio, evitando noie e affanni, e saltando a piè pari direttamente al giorno dopo. Il risveglio sarebbe traumatico e duro l’atterraggio. Ma quello astrale, sarebbe certo il Natale più bello.
“Se qualcuno ruba un fiore per te, sotto sotto c’è crisi”
Toromeccanica
di Paolo Vincenti
Come ogni anno, arriva Natale, dopo che la spoliazione fiscale di acconti e saldi ha ridotto sul lastrico gli italiani e che la legge di stabilità ha spento anche quel barlume di speranza che pochi incorreggibili ottimisti conservavano. L’augurio che sovente si fa è che il Natale possa durare tutto l’anno. Beh, di questi tempi, oserei dire che non sia una prospettiva auspicabile. Anzi, c’è da augurarsi che il periodo natalizio passi al più presto senza troppo ferire, almeno dal punto di vista economico. Perché fra allestimenti natalizi, regali e regalini da dispensare a destra e a manca, spese per pranzi e cene dei giorni festivi, andrebbe in fumo ben più della tredicesima che gli italiani hanno già consumato prima di ricevere. Ad esser cattivi, si potrebbe dire, come lo Scrooge, di Dickens: “Buon Natale! In giro ad augurare Buon Natale! Che cos’è il Natale per te se non il momento per pagare i conti senza avere i soldi, il momento in cui ti trovi più vecchio di un anno e non più ricco di un’ora? Un momento per fare il bilancio e vedere che ogni voce, nel giro completo di dodici mesi, è in passivo? Se potessi fare di testa mia, ogni idiota che va in giro con Buon Natale in bocca dovrebbe esser bollito insieme al suo pudding e sepolto con un paletto di agrifoglio che gli trafigga il cuore. Proprio così!”.Ma chi è buono, come il Tenerone del Drive In, come fa a rinunciare a quelle consuetudini, a quei simboli, che da sempre fanno parte del Natale, la festa più magica dell’anno? Oggi esistono i presepi preconfezionati o elettronici che non richiedono alcuno sforzo di fantasia e di realizzazione. Si tirano fuori dal cellophane nel quale erano stati impacchettati e si sistemano ai piedi dell’albero di Natale o, a mo’ di soprammobile, su qualsiasi componente d’arredo della casa. Tutt’altra cosa, il presepe tradizionale, realizzato dalle amorevoli mani di papà e mamma, magari con l’aiuto dei figli, ed esposto in una posizione centrale della casa. Vuoi mettere la soddisfazione (non frustrata, come quella di Eduardo in “Natale in casa Cupiello”) ed anche la componente aggiunta di poesia e romanticismo, di fronte ad una scala che non tiene, al laghetto di carta stagnola un poco raggrinzita, alla fontana da cui, mentre dovrebbe farlo, l’acqua non zampilla, proprio quando si vorrebbe esporre, fieri, a parenti e amici, i frutti del proprio lavoro? Quand’ero ragazzo, il presepe si sistemava nell’angolo più in vista della casa e sembrava un patchwork , perché i pupazzi erano quasi tutti di colore e grandezza diversi , in quanto riciclati o frutto di regali negli anni da parte di nonni e parenti, e quando proprio veniva a mancare un pezzo importante, come un re magio, o una pecorella o la fontana dell’acqua, allora si andava a comprali dal maestro puparo (almeno uno per paese ve ne era, mentre oggi questo mestiere sopravvive solo a Lecce). Così anche per l’albero di Natale, che non aveva niente a che fare con quelli sintetici e stilizzati che compaiono oggi nelle nostre case, ma era sempre un albero naturale, agghindato con grossi e lunghi nastri e grandi palle, tutte rigorosamente disassortite perché ereditate dagli anni precedenti; e quanto più passavano gli anni e le decorazioni si usuravano, più queste apparivano meravigliosamente fuori dal tempo e da ogni moda. Io li contemplavo con gli occhietti luccicanti come il cielo di carta stellata, mentre con tutta la famiglia eravamo seduti intorno al tavolo a mangiare. Ma oggi che c’è crisi, non ci si può permettere l’essenziale, figurarsi il superfluo. Dunque, a quanto pare, bisogna ritornare proprio a quei tempi del passato in cui si viveva più semplicemente, prima del grande boom pacchiano e omologante che ha ingrassato la società fino agli anni Duemila, affogandola in una melassa di cibo spazzatura e trigliceridi, ricchi premi e colesterolo, centri benessere e finanziamenti a pioggia. Bisogna rivalutare le vecchie ricette povere, quei dolci della tradizione che si possono realizzare in casa con poca spesa e molto resa. E per fare di necessità virtù, un ottimo rimedio sono le pittule (e a chi non le sa fare, mal gliene incolga). Te la Maculata, la prima pittulata: già dall’8 dicembre si può iniziare a preparare queste gustose sfizierie. Vero che oggi le pittule (orrendamente italianizzate in pettole) si trovano in tutti i periodi dell’anno perché per i turisti fanno tanto “love Salento”, quindi hanno un po’ perso il valore tradizionale natalizio, ma pazienza. Le pittule possono essere semplici o ripiene di cavolfiore lesso, di cime di rape lesse oppure , con pomodorini, cipolla olive nere e peperoncino, oppure ancora, e sono quelle che io preferisco, dolci, zuccherate e ripiene di mela. Non possono mancare i caranciuli,dei bastoncini grossi quanto un dito, tagliati a tocchetti, avviluppati di miele e cosparsi con cannella e confettini ( questi, fino ad ora, a luglio ce li hanno risparmiati). I caranciuli, anche detti purciddhuzzi, perché hanno la forma del muso di un porcellino, fritti in olio bollente e decorati con confettini, sono una ricetta di derivazione persiana, portata dagli Arabi in Spagna e poi dagli Spagnoli in Puglia. Dunque, meno Pandori (troppo costosi) e più carteddhate (così economiche)!. Straordinariamente buone sono pure le pucce e i taraddhi che hanno il doppio vantaggio di potersi fare in casa e di unire intorno alla loro preparazione, la suocera con la nuora, la sorella maggiore con la sorella minore, magari il marito con la moglie, la nonna con la commare o la vicina di casa, ecc. E per brindare? Lo spumante costa troppo (non parliamo dello shampagne), e allora più rosoliu per tutti! Se ne è perduta la memoria, ma il rosoliu era un liquore zuccheroso fatto in casa, che suggellava l’abbondantissimo cenone della vigilia. E per quanto riguarda il cenone? Federconsumatori fino a qualche anno fa snocciolava delle cifre folli, quelle di media che spendono gli italiani per la cena della vigilia. Ma oggi c’è crisi e bisogna economizzare (i taccagni sorridono compiaciuti, come Bruno Vespa davanti al plastico di Cogne). Meno apparenza e più sostanza. Per mascherare le ristrettezze economiche si potrebbe essere oltranzisti e darsi arie da intellettuali snob e per niente esterofili (ma in epoca di globalizzazione appare anacronistico e soprattutto la vedo difficilissima farla passare ai figli). Si potrebbe cioè, in un rigurgito nazionalista e farisaico, richiamarsi all’ortodossia, al rispetto delle tradizioni autoctone, mettersi a inveire contro le mode importate come l’albero di Natale, affermando che in casa propria un simbolo dello spreco, dell’opulenza e della colonizzazione culturale americana non lo si vuole. Il rischio che si corre è che i famigliari possano chiedere un t.s.o. urgente e i vicini denunciarvi con furore maccartista come spia sovietica. Ci si potrebbe spingere ancora più in là: per eludere l’attesa notturna di Babbo Natale e la conseguente distribuzione di doni, elucubrare che il simpatico e rubicondo vecchietto dalla barba bianca altri non è che il Santa Claus statunitense inventato ed inviato dalle multinazionali americane in the world per incentivare i consumi e che quindi noi non siamo mica dei sudditi inermi e proni ad avallare un sistema perverso, in una resa totale ai padroni del vapore. E se poi la moglie o i figli chiedono di andare a fare una visita ai mercatini di Natale, a scoraggiare eventuali velleità consumistiche, si potrebbe rispondere che sì, va bene la passeggiata in giro per le bancarelle, ma tenendo conto che i mercatini sono una tradizione nordica (tedesca e austriaca ), solo importata qui da noi. Che c’azzecca il vin brulè con la nostra terra salentina negramara? Meglio un buon bicchiere di malvasia. E i wurstel ? Meglio un panino con i pezzetti di cavallo. E ancora, in tema di utile dulci, ci si potrebbe professare ferventi sostenitori della tradizione e al tempo stesso secondare folklore e superstizione, mangiando le castagne, che si dice favoriscano la nascita della prole e la fecondità della terra, chiamandole magari marron glaces per nobilitarle quel minimo, oppure, in mancanza del panettone, i chicchi di uva passa che richiamano l’immagine delle monete e che quindi porteranno ricchezza, come le lenticchie che si mangiano l’ultimo dell’anno. Ai tempi della crisi bisogna industriarsi e lavorare di fantasia. E se proprio le finanze sono disastrate, leva Ferrero, Pernigotti e Nestlè e metti il pesce di pasta di mandorla fatto da mammà . Fingi di snobbare il Grand Marnier a vantaggio del liquore al cioccolato dell’anziana zia Uccia. Potresti ostentare che alla Vecchia Romagna preferisci di gran lunga il limoncello o il finocchietto realizzati dalla commare Assunta. Disdegnare lo spritz, perché trendy e senz’anima, e decantare, con impeto reazionario, l’anisetta fatta in casa. Coraggio allora, e Buon Natale!
Il culto degli alberi ha un ruolo importante nelle culture e nelle religioni di tutto il mondo! Esistono su quest’argomento innumerevoli notizie o leggende. Gli alberi entrano in questo modo a pieno titolo tra gli elementi spirituali oggetto di venerazione.
Molti uomini hanno sempre creduto che gli alberi fossero governati da spiriti e divinità: tra i primi furono i greci che adoravano la quercia come dimora di Zeus e la consideravano, come l’ulivo, pianta il cui sacrilego atto di sradicarlo era punito severamente.
Per alcune popolazioni africane, nella creazione del mondo, l’albero è protagonista perché contiene la forza spirituale e materiale di un dio arcaico che si manifesta a tutti gli altri esseri proprio attraverso radici, foglie e rami. È consuetudine per alcuni popoli africani radunarsi sotto la chioma di alberi sacri per prendere decisioni d’interesse collettivo.
L’albero è conoscenza, sopravvivenza e nutrimento per ogni popolo. Il legame con gli alberi era per i Celti così forte tanto che si sentivano parte di essi. Per questi popoli, l’albero era il collegamento tra terra e cielo, un riferimento cosmico che appellava perfino i cicli lunari, i luoghi e le famiglie.
Quando le missioni di altre religioni iniziarono la loro opera di conversione su questi popoli, in nome di decisioni supreme, per impedire il perdurare dei loro culti arborei, rasero al suolo le loro foreste sacre. Si può facilmente immaginare cosa sarebbe accaduto dopo, a coloro che, in segno di venerazione portavano offerte agli alberi o chiedevano protezione per i propri familiari o per i propri beni.
Singolare è la storia di San Martino vescovo, che con il grado di difensore di tali editti, si fece legare a un immenso pino da abbattere per sostenere e comprovare la virtù della sua fede alle popolazioni pagane; dopo il suo segno di croce, l’albero cadde graziandolo e il miracolo favorì le conversioni.
Le storie di alberi tagliati e di proclami che proibivano i riti pagani si susseguirono in tutta Europa durante tutto il medioevo. Emblematici furono i tagli d’albero eseguiti per sancire la fine o l’inizio di nuove epoche. La storica decisione nel 1188 di Goffredo di Buglione, feudale della prima crociata, di far tagliare un olmo a Gisors alla presenza di due sovrani decretò la fine di un’alleanza e l’inizio di un dissidio. Gli eroici abitanti di Capannori in Toscana salvarono l’ultrasecolare “quercia delle streghe”dalla scure nazista che la gradivano come legname; poi cittadini di ogni luogo in difesa di ulivi, querce, lecci, pini di carattere monumentale da ricorrenti minacce antropiche.
Non esiste simbolo più rappresentativo dell’albero per le festività di Natale. L’alberello del nostro focolare è un singolare documento di fede, certamente assorbito da primitivi simbolismi e antiche tradizioni.
La scelta di un sempreverde per celebrare una nascita, in grado di trasferire il messaggio d’immortalità e di rinnovamento era già diffuso tra i romani che ricorrevano decorando le loro case con coccarde di rami di pino. I druidi (dal gaelico querce) e i vichinghi , invece, per il giorno più breve dell’anno si auspicavano fertilità e rinascita vegetativa addobbavano i loro sacri abeti rossi con diversi frutti.
Qui si presenta il confronto dell’albero natalizio con la mitologia nordica dell’albero cosmico detto Yggdrasill, albero invisibile e simbolico fonte della vita, origine della sapienza e dell’immortalità, simile a quello raffigurato nel mosaico del Duomo di Otranto, splendido esempio uscito nel 1165 d.C. per opera del monaco Pantaleone che era riuscito a ramificare natura e mitologia in una delle prime missive ecologiche che il Salento ricordi.
Anche nella pittura G. Klimt con il suo “albero della vita” rievoca un riferimento alla naturale combinazione tra spirito e materia tramite l’amore e la conoscenza, mentre nella letteratura, H. Hesse, con la sua favola trasforma il protagonista Pictor, giunto nell’Eden, in albero, per descrivere e completare l’uomo con una metafora arborea.
Il termine albero della vita era menzionato nei riferimenti biblici della genesi e nell’apocalisse: “E in mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del fiume si trovava l’albero della vita, che fa dodici frutti e che porta il suo frutto ogni mese; le foglie dell’albero sono per la guarigione delle nazioni”. Altri riferimenti si rintracciano sorprendentemente anche tra popoli egizi, assiri, mesopotami nel buddismo, induismo e nella cabalà ebraica.
Da qui potrebbe essere nata la tradizione dell’albero di Natale, che le prime missioni cristiane chiamarono “albero del paradiso” sul quale comparivano mele e ostie come simbolo di redenzione poi nel tempo sostituite da candele, frutta secca, dolci e doni vari.
I sempreverdi più utilizzati sono il peccio, il pino e l’abete, specie incensate dai colori intensi che dovrebbero essere, di rigore, veri e vegeti se si vuol dare significato e continuità all’allegoria cristiana.
Con un albero artificiale, quindi, non si avrebbe alcuna percezione; il senso della ricorrenza sarebbe relegata a effimero consumismo. Agli italiani pare incanti il falso albero, perché assicura la prontezza dell’installazione, risolve le gestioni economiche durante le feste e poi si può usare per più anni. In genere sono fatti in PVC, polietilene, derivati del petrolio, materie, spesso non degradabili, che in futuro dovrebbero finire in discarica.
Gli scandinavi hanno stimato e paragonato i consumi energetici e di produzione tra un albero vero e uno falso (anche utilizzati a lungo termine) dalle stesse forme e dimensioni ed hanno riscontrato che il primo ha un valore etico e ambientale cinque volte maggiore.
Procurarsi un albero vero da un vivaio specializzato rigenera la coltivazione della specie e favorisce l’assorbimento della CO2 dall’atmosfera durante il suo accrescimento.
È convinzione diffusa che gli alberi di natale provengano da deforestazioni e che ogni anno avvenga uno sterminio di alberelli; grazie ai controlli o alle certificazioni ambientali (Forest Stewardship Council) che garantiscono il rispetto e la conformità tecnica, si può stare tranquilli.
Ovviamente la preferenza di utilizzare alberelli autoctoni, acquistati da vivai locali (km 0), possibilmente a produzione bio, sarebbe una buona scelta e magari, dopo la festività, ripiantare gli stessi in habitat idonei, per contribuire a mitigare le cause della desertificazione.
Allora alla luce di queste considerazioni potremmo confermare che ogni albero, a prescindere dal suo rito, è certamente, un luogo di ricerca e di riflessione, una relazione di valori ed emozioni e di unione tra terra e cielo; ecco perché non dovrebbero essere mai tagliati. Questo potrebbe essere il primo augurio per il Natale.
Dai fautori, tutti opportunisti, e dalle fautrici, che secondo me non hanno capito un tubo, delle, pure per me che sono un uomo, umilianti quote rosa, mi sarei aspettato, se non un ricorso all’autorità garante, almeno una protesta contro l’evidente maschilismo che da un po’ di tempo a questa parte permea la pubblicità di una nota marca di caffè.
Così in Paradiso in cui i ricordi della sorella si vedono (https://www.youtube.com/watch?v=nKGdfwJk60Y) ultimamente è il fratello che imperversa con le sue occhiate lubriche all’indirizzo di un’ammiccante santarellina, prontamente redarguito dal moderno San Pietro che, pure, poco prima, aveva marxisticamente (gli stessi principi, però, li aveva enunciati duemila anni prima Cristo che, dunque, aveva bruciato sul tempo anche il San Pietro autentico …) affermato che in Paradiso tutto è di tutti (https://www.youtube.com/watch?v=vAzBXB4y6u0).
ll noto marchio nel rispetto della par condicio, per farsi personare, dovrebbe mandare in onda uno spot con personaggi invertiti, con la fittizia sorella di Brignano che concupisce un santarellino-stallone …
Non mi rimane, nella fattispecie, per contrastare una pubblicità i cui effetti subliminali sono, di regola, peggiori di quelli del sublimato corrosivo, che ricordare il nome di un marchio tutto salentino, e pure femminile stando alla desinenza, di caffè. Per un pelo, e solo per il suo nome, non sale sul podio, ma, almeno, non rompe le scatole con messaggi pubblicitari a noi salentini e agli altri italiani. Sarà perché, una volta tanto, ciò che è veramente buono non ha bisogno di raccomandazioni pubblicitarie?
Dichiaro, e sfido chiunque a dimostrare il contrario, che tra me e il produttore salentino, che conosco solo di nome, non è in atto (e credo che, purtroppo per me, non lo sarà mai) nessun contratto di qualsiasi natura, tanto meno pubblicitaria.
Se tre anni fa mi sono occupato (https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/09/20/quando-provare-ad-eliminare-significa-recuperare-ovvero-il-capitone-e-il-compositore/) di Benedetto Serafico di Nardò, città nella quale vivo da quando avevo pochi mesi, per la par condicio mi è parso opportuno non lasciarmi sfuggire l’occasione di parlare di Antonio De Metrio di Manduria, città nella quale sono nato. Al di là della faccenda personale, che da sola non avrebbe avuto nessuna importanza, altri particolari ben più sostanziali uniscono i due personaggi temporalmente separati da una generazione di differenza. Entrambi furono musici famosi del loro tempo e composero madrigali a cinque voci. E, come per il neretino è disponibile nel locale Centro di servizi culturali e bibliotecari la copia fotostatica della pubblicazione originale (custodita nella biblioteca estense di Modena; la versione digitale è reperibile all’indirizzohttp://bibliotecaestense.beniculturali.it/info/img/mus/i-mo-beu-mus.g.147.html) uscita a Venezia nel 1575 per i tipi di Gugliemo, così per il compositore di Manduria presso la locale biblioteca è disponibile il microfilm dell’originale, che si conserva nella Biblioteca Nazionale di Francia, uscito in ristampa a Napoli per i tipi di Vitale nel 1618. Ecco il frontespizio tratto dal sito della citata biblioteca (http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84260096/f6.image).
Ignoro la data in cui l’opera uscì la prima volta ma dovrebbe essere, comunque, anteriore al 1612, anno di morte di un personaggio, Davide Imperiali, ricordato nel testo come vivente e del quale avrò occasione di parlare più avanti.
Il madrigale come genere musicale ebbe notevolissima diffusione tra il XIV ed il XVII secolo e non ripeto qui quanto ebbi a suo tempo a dire parlando del musico di Nardò.
Sono passati tre anni e le mie conoscenze musicale oggi come allora si limitano al numero delle note ed al loro nome, ragion per cui rimane attuale e rinnovato l’invito rivolto a qualche competente che mi faccia capire se, ascoltando la loro esecuzione, tali composizioni sono più vicine a quella cantilene soporifere che negli anni della mia infanzia dovetti sorbirmi trasmesse da Radio Tirana e tollerate solo per gli effetti luminosi (!) che l’occhio magico offriva nel processo (manuale, naturalmente) di sintonizzazione, oppure al ritmo ossessivamente monotono (artisticamente non mi pare che ci siano grosse differenze rispetto alle ricordate nenie albanesi …) di un rap dei nostri giorni. Spero che questa volta qualcuno dia soddisfazione alla mia curiosità. Nel frattempo faccio, nei limiti della mia competenza specifica, qualche osservazione di natura testuale.
Le pagine 3-4 contengono alcuni elogi di illustri contemporanei (nativi tutti di Manduria eccetto il primo che era di Melfi e con qualche dubbio per il secondo) espressi in versi nei riguardi dell’autore. Li riproduco integralmente con in calce le mie note. A chi dovessero sembrare troppo altisonanti faccio presente che, per quanto riguarda la sostanza, a quei tempi era una moda irrinunciabile e che, per quanto riguarda la forma, non sono questi gli esempi più ampollosi, nonostante anche questo fenomeno fosse, sempre all’epoca, normalissimo. E poi, pensando a tante recensioni, prefazioni e postfazioni recenti, sarà coerente infierire su certe abitudini del passato? Almeno nel XVII secolo si tentava di stupire con giochi di parole (non sempre riusciti, come vedremo …) ed ardite metafore; oggi lo si fa con parole roboanti, citazioni più o meno oscure e termini tanto ambigui che possono contemporaneamente significare un concetto e il suo esatto contrario, tutto e niente.
Del musicista di Manduria riproduco di seguito, a mo’ di assaggio, due testi, uno più convenzionale, l’altro un po’ più spinto (?).
Il lettore avrà notato i nomi di donna evocanti la mitologia e le ripetizioni quasi ossessive nella miscela di endecasillabi e settenari; sono dettagli che oggi assicurerebbero l’insuccesso a chi volesse conquistare una donna, fosse anche la più romantica del pianeta …
Probabilmente avrà pure pensato che componimenti simili sarebbe in grado di comporne mille in una sola ora. Anche io sarei capace, ma solo per la parte testuale che nel Serafico, fra l’altro, era costituita da versi di Petrarca, Sannazzaro ed altri (non per questo l’originalità del De Metrio rappresenta una nota di merito …). Per quella musicale, che, dunque, in questo genere riveste un ruolo dominante rispetto alla testuale, rinvio il mio giudizio (beninteso, da uomo del mio tempo) a quando la mia trepida attesa di lumi sarà stata soddisfatta …
Per ora dico solo che un ipotetico festival del madrigale a cinque voci con la partecipazione allargata anche ad altri concorrenti non avrebbe previsto, come avviene (non sempre opportunamente …) oggi, l’attribuzione del premio per il miglior testo e che l’eventuale vittoria del De Metrio, anche se motivata con i versi in latino (quattro distici elegiaci, oggi cinque parole su quattro sarebbero inglesi …) del primo elogio, sarebbe stata accolta con una bordata di fischi. E non lo dico per campanilismo: lo stesso sarebbe successo se avesse vinto Benedetto Serafico, ma almeno gli spettatori si sarebbero risparmiato la motivazione, visto che la pubblicazione del neretino non contiene elogi di sorta ma solo un’umile e dimessa autopresentazione.
Che si scriva per rabbia o per amore, si scrive, che si scriva per colmare un vuoto, per una mancanza o per un empito, per un eccesso di vita, si scrive. Che si scriva per fare i conti con i propri demoni, si scrive; oppure si dipinge, come fa la protagonista di “La pittora dei demoni” (2014), ultima prova narrativa di Antonio Errico, per Manni Editore. Ambientato nel Seicento, fra Napoli e altre località non meglio precisate dell’Italia meridionale, questo romanzo affronta un periodo caratterizzato da grande fermento artistico, attraverso le cupe e tormentate vicende dei suoi personaggi. Una pittrice e un violinista: vite parallele seminate di luci e ombre, inseguite da rimorsi, tallonate da colpe. Due vite parallele, di amore e morte, che ne sussumono altre, nell’ampia orchestrazione creata dall’autore, che è anche raffinato intellettuale, saggista, dirigente scolastico. Due vite, quelle dei due artisti , destinate a correre come due rette parallele senza incrociarsi mai, se non intervenisse invece il fato, l’elemento insaputo, l’arcano, a sconvolgerle e renderle perpendicolari. La scrittura di Antonio Errico scorre piana, circolare, e anche stavolta il senso di questo romanzo è negli aggettivi, nei sinonimi e nei contrari, e soprattutto negli spazi bianchi fra una parola e l’altra, tra una frase e l’altra. Anche stavolta si tratta di un libro che si impone all’attenzione non solo per la sua resa artistica ma anche per la sua proposta originale nell’indagine psicologica così attenta a cogliere ogni emozione dei suoi personaggi, ogni sussulto, ogni momento rivelatore della coscienza.
Il genere letterario nel quale si colloca il libro infatti è quello del romanzo psicologico, nato agli inizi del Novecento in seguito agli studi di Sigmund Freud, il padre della psicanalisi. Da Svevo a Pirandello, il punto di forza di questa forma di romanzo è lo scandaglio interiore, l’attenzione ai moti dell’animo dei personaggi che si muovono sulla scena, alle loro pulsioni, alla loro vita interiore. Così nei romanzi di Errico la narrazione si frantuma, si disgrega in una sorta di flusso di coscienza ininterrotto, alla Joyce. La descrizione del mondo esterno, se c’è, non è mai oggettiva, ma sempre filtrata dalla sensibilità di chi lo guarda. E’, la sua, una narrazione di odori, colori, pensieri, memorie, riflessi, fortemente impressionista. Non una scrittura di cose, insomma, ma di sensazioni. Questa tecnica narrativa si serve del monologo interiore, diventa sospesa, rarefatta , onirica, vagamente metafisica.
Una grandiosa impalcatura sorregge la storia di questa pittrice, Marianna, donna che deve fare i conti con i propri demoni interiori. La tensione drammatica contrappunta le pagine del romanzo, bilanciato in perfetto equilibrio fra dato storico e dato inventivo. Una meditata e lunga fase preparatoria, come rivela lo stesso autore, e poi l’abrupto, l’accensione della fantasia, resa con plastica evidenza nella trama complessa della sua fabula. Tutti i libri di Errico sono, per così dire, romanzi storici, il ché sottrae l’autore dai rischi che si corrono quando si scrive di contemporaneità, vischiosa, fluida, insidiosa, proprio in quanto tale. Errico invece mette al centro del suo racconto l’uomo, con le alterne fortune, il cumulo di speranze, di vittorie e sconfitte, con le sue passioni, rabbie, gioie, dolori, incongruenze. Per questo, i suoi sono drammi universali, scardinate anche le categorie di tempo e di spazio, a volte il protagonista non ha nemmeno un nome, oppure lo si apprende molto dopo, verso la fine del libro, come nel caso in questione. La sintassi viene spezzata in mille proposizioni brevi che, se non fanno a meno della punteggiatura, certo la riducono all’essenziale, del tutto inesistenti i punti esclamativi ed interrogativi, i puntini di sospensione, ecc. Così pure non sono mai presenti, nel libro, dei sottotitoli o la classica divisione in due tempi della narrazione, che invece consta di capitoletti brevi, tutti quasi della stessa lunghezza. Come ho già avuto modo di scrivere, lo stile di Antonio Errico è ormai del tutto riconoscibile per via della sua originalissima prosa lirica, di cui caratteristiche sono: l’ossimoro, “histeron-proteron”, cioè il paradosso intrinseco alla sua scrittura, di vita-morte, presenza-assenza, fuga-ritorno; poi l’anafora, l’iterazione , le numerose rime interne, assonanze, consonanze, e i neologismi. E poi ancora, la sua scrittura si caratterizza per alcuni “sconfinamenti,” per usare un termine caro allo stesso Errico, per un “dereglement de sens”, cioè una libera fluttuazione delle parole sulla pagina e, a volte, in ceri passaggi di più vorticoso narrare, direi quasi che rasenta la scrittura automatica, nel senso heideggeriano secondo il quale non è l’autore a dominare la scrittura ma la scrittura a dominare l’autore, il significante che predomina sul significato.
Quandoquoque dormitat Homerus, diceva Orazio: a volte sonnecchia Omero, cioè non sempre produce capolavori. E anche se questa massima non è applicabile in alcun modo al presente volume di Errico, a mio modesto avviso, il suo capolavoro finora insuperato resta “Stralune” del 2008. Ciò detto, “La pittora dei demoni” è un colpo messo a segno, un ulteriore tassello nella pluripremiata carriera letteraria del suo autore. Da leggere e meditare.
Non sono un grande frequentatore di facebook e di solito neppure apro le sue notifiche pervenutemi nella mia posta elettronica. Da qualche tempo a questa parte, però, l’eccezione è d’obbligo, quando è coinvolto come protagonista Piero Barrecchia, un mio ex allievo con l’hobby della fotografia e con l’occhio del grande fotografo, quello che riesce a cogliere sempre il dettaglio più eloquente, destinato a trasmettere a chi guarda la foto l’esigenza di non limitarsi ad uno sguardo fugace ma, addirittura, di partecipare agli altri le sue emozioni filtrate dalla riflessione (non guasta mai …). Così ho pensato bene di rubare da https://www.facebook.com/groups/fralescrasce/permalink/838450959511782/ l’immagine di testa e le altre e di commentarle con riferimento non casuale al clima natalizio attualmente turbato (solo chi ci governa sembra non accorgersene pensando, fra l’altro, ad un futuro … olimpico mentre il presente è disperato) da una crisi, economica e morale, senza pari tra quelle vissute dalla mia generazione.
Risalta immediatamente l’assoluta simmetria degli elementi che compongono il dettaglio e che ne costituiscono l’anima: il portale, ai lati le nicchie con le immagini di soggetto religioso (quasi un larario esterno),
in alto (che scoperta!…) la caditoia.
Tre elementi che simboleggiano la casa (intesa come rifugio, famiglia, ma anche accoglienza), la fede e il diritto alla difesa della propria vita e dei propri beni (il che presuppone l’esistenza di una controparte ostile per avidità, spirito di conquista o, semplicemente, stato di necessità). Nuovi simboli sono subentrati a rappresentare questi valori di una società totalmente cambiata e le stesse azioni si sono ribaltate insieme con i valori: così (per limitarmi all’ultimo, altrimenti il post richiederebbe un post…eggio) per la difesa di sé e delle proprie cose, conquistate queste ultime per lo più onestamente, dai malintenzionati violenti prima c’erano l’olio bollente, i proiettili infiammati o le pietre da lanciare dalla caditoia, oggi per la difesa personale ci sono i gorilla e, agli alti (?) livelli, le scorte, per quella dei propri fondi neri non più olio bollente o pietre ma basta farli atterrare in uno dei tanti paradisi fiscali dove la Finanza, anche per carenze legislative non certamente involontarie, non potrà mai mettere piede e così nessuno tra i pochi poveri e onesti sopravvissuti potrà lanciare quel grido entusiasta che inevitabilmente fremeva nelle sale cinematografiche della mia giovinezza all’arrivo degli eroici rinforzi che decimavano quei fottuti indiani. Solo che fottuti, col passare degli anni e con la conoscenza della storia, ha acquistato ai miei occhi un significato diametralmente opposto e che oggi mi spingerebbe a trasformare l’usuale arrivano i nostri! in arrivano gli infami e genocidi!. Il primo significato di fottuti, però, magra consolazione, rimane valido per gli evasori ma anche la magra consolazione va a farsi fottere quando pensiamo che, in ultima analisi, sono gli onesti a restare fottuti …
La foto mi ha evocato tutto questo; e pure lo stato di degrado (anche se non rilevabile dal dettaglio) e, credo, di abbandono dell’intera fabbrica rappresentano una metafora del nostro passaggio terreno, ma nello stesso tempo, attraverso i pensieri di comparazione attualizzante che il dettaglio ha suscitato in me, un monito a voler cambiare una rotta ormai millenaria che ci sta portando al naufragio non solo del corpo ma, cosa ancor più grave, di quell’animo (lascio perdere l’anima che è stata, chiedo scusa a chi ci crede, l’alibi per nefandezze di ogni tipo …) la cui esistenza, insieme con la ragione, presuntuosamente neghiamo negli altri animali che, però, non si comportano come noi …
SE IL SEGNO TENTA DI CONVINCERE, LE PIEGHE CONFERMANO
Ipotesi sull’individuazione dell’ambito di appartenenza della tela dell’Incoronata di Nardò
di Paolo Marzano
Si tratta di un confronto e, della riflessione a margine, dei tratti del dipinto della Madonna del Carmine, nella chiesa conventuale si San Francesco d’ Assisi, a Manduria, attribuita a fra’ Francesco da Martina e la tela dell’ Incoronata, della quale è ancora ignoto l’autore (XVI – XVII sec.), nella sala Consiliare del Comune di Nardò. Ma osserviamo con attenzione.
L’impianto generale, nelle due opere, evidenzia il riconoscibile schema che la tradizione pittorica dell’epoca, prevedeva. Si divide, dunque, l’episodio del tema compositivo principale, dall’ imago urbis, sulla quale ‘governa’ l’ellisse di nubi, contenente l’azione, utile ad alimentare lo spirito devozionale.
Tra le caratteristiche noto la particolare e folta capigliatura con i boccoli, comune ai due dipinti, che incornicia il viso di tutti gli angeli. Anche se probabilmente ripreso (quello di Manduria) in epoche più tarde, i caratteri principali, non si allontano, dalla forma originale di una scena popolata da coppie di putti in conversazione.
Il viso della Madonna, nelle due tele, mostra un accentuato (stessa mano!?) modo di tracciare i caratteri dei lineamenti del volto. Infatti, osservando meglio quei particolari, ritengo interessante, l’elemento comune del deciso profilo del naso (tra setto e narice) ‘segnato’ dallo stesso bagliore luminoso, che si legge anche sul labbro superiore e sul mento.
Il putto con spada, in primo piano, nella tela neritina, ripropone, un giovanissimo, scomposto e “antigrazioso” S. Michele Arcangelo, fittamente riccioluto, nella sua disarticolata anatomia, riportato secondo la diffusa iconografia, mentre obbliga, l’immancabile Lucifero, sotto i suoi piedi, a rientrare nelle fiamme da dove è uscito. La figura sottolinea, ancora una volta, l’approssimato studio della postura e degli arti, ‘elementarmente’ giustapposti.
Nelle pieghe dei panneggi, invece, esiste qualche conferma in più. Lo sviluppo dei tessuti o mantelli, infatti nel loro svolazzare distribuiscono dei zig – zag di certo improbabili e innaturali, ma per questo ritengo, riconoscibili e attribuibili a qualche frate francescano allievo (come tanti) di Francesco da Martina. Tale singolare panneggio potrebbe ritengo indicare e definire altre tracce da evidenziare nello studio di un gruppo di pittori, che in effetti, conosciamo già attivi in questa zona.
Ulteriori ricerche e studi più accurati, potrebbero ampliare, eventuali contatti tra gli autori o l’autore delle due tele.
E’ stata inaugurata nei giorni scorsi una interessantissima mostra di icone, che val la pena visitare sino al 23 dicembre. Il patrimonio esposto comprende icone, testi liturgici d’epoca, arredi sacri, oreficeria religiosa e medaglie.
Il materiale esposto proviene dal Museo delle Icone e della Tradizione Bizantina di Frascineto, un piccolo centro arbëreshe in provincia di Cosenza, che è senz’altro una realtà culturale di primaria importanza nazionale dal punto di vista artistico e religioso dell’Oriente cristiano. Notevole il valore delle opere esposte e particolarmente delle icone di varie epoche, in gran parte provenienti dalla Russia, Grecia, Bulgaria e Romania.
La mostra “Icone, luci d’Oriente”, ospitata presso la Sala Convegni del vecchio Seminario, è stata organizzata dal Comune di Lecce, Arcidiocesi di Lecce e dalla parrocchia di San Nicola di Mira (Chiesa greca).
Curata dalla prof.ssa Caterina Adduci, responsabile del Museo delle Icone e della Tradizione bizantina di Frascineto, vede la collaborazione dell’esimio prof. Gaetano Passarelli, uno dei più autorevoli studiosi di iconografia bizantina.
In Nardò, verso la metà degli anni ’50, sulla strada “ti mare”, proprio di fronte a “lu torrino” (cisterna sopraelevata dell’acquedotto) viveva un ricco signore molto conosciuto per la sua stazza, ben oltre i duecento chili, che lo costringeva a stare sempre seduto su una “poltrona” appositamente costruita per lui e lo limitava nei movimenti.
All’epoca la zona era ai margini della città, quasi in aperta campagna, e la sua abitazione era situata al centro di un podere di terra coltivata prevalentemente a vigneto e frumento che si estendeva per oltre cinque ettari.
Alla casa, di stile colonico,si accedeva attraversando un lunghissimo “stradone”, i cui margini erano delimitati da un rigoglioso pergolato di uva bianca a “candellino”, alberi di albicocche, cachi, prugne, pesche e terminava davanti ad una spaziosa aia ombreggiata da un secolare albero di “zezzi” (gelsi) che, innestato da mani sapienti, produceva due varietà di frutto: quello bianco più comune e quello rosso più raro, molto grosso e più gustoso.
Aveva preso in moglie una delle cinque sorelle di mio nonno, le altre quattro erano rimaste zitelle, e mia madre, la più vicina di casa fra i nipoti, non mancava di andare di tanto in tanto nei pomeriggi estivi a trovare gli zii.
Io, ragazzetto, l’accompagnavo spingendo la carrozzina con mio fratello Luigi e, mentre la mamma aiutava la zia in qualche faccenda domestica come ad esempio separare i fagioli dai “mammuni” (gorgoglioni, bachi delle leguminacee) per poterli cucinare “alla pignata”, le noci appena raccolte dal mallo o stirare le lenzuola fresche di “cofanu”, mi intrattenevo a giocare sull’aia rincorrendo lucertole o cercando di acchiappare qualche cavalletta fino a quando lo “zio panzone” non mi affibbiava qualche incarico.
“Salvatò, e nno ti faci dare ti la zia lu cestinu e mi ccugghi to zezzi ti quiddhri russi? Però, mi raccumandu, cunnossia va ti li mangi ca cinò ti tingi l’occa ti russu e bisogna cu ti llavanu la lengua cu lu sapone!”.
Detto fatto. Felice per l’incarico, mi arrampicavo sul gelso, agile come uno scoiattolo e cominciavo la raccolta.
“Salvatò, cce scola faci?”.
“Aggiu spicciatu la prima e mo’ a ottobre ccumenzu fare la seconda”.
“Bbrau, bbrau, e ci ete lu mesciu tua?”.
“Lu mesciu Spanu”.
“Naaah, quiddhru ca sona lu violinu. E canzuni no’ bbi ‘ndae ‘mparate?”.
“Sine, tante, puru l’innu di Mameli”.
“Bbrau ,bbrau, l’innu ti Mameli lu sacciu puru iò. E no’ mmi lu canti cu bisciu ci ete lu stessu?”.
Ed io, a squarciagola, “Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta, dell’Elmo di Scipio …………………. ……. dov’è la vittoria ………………….. stringiamoci a coorte ……………. …… l’Italia chiamò”.
“Bbrau, bbrau, ete comu quiddhru ca sacciu iò. Lu cestinu no’ ll’hai chinu ancora?”.
“Sine l’aggiu chinu”.
“Beh, bastanu bastanu, scindi e mi raccomandu attentu quando scindi cu no’ ti cadinu li zezzi, ci no addiu fatica”.
Sceso velocemente e consegnato il cestino colmo…
“Lu sai ca tieni ‘na beddhra voce! Cce t’hannu tagghiutu li tonzille?”.
“No, no, li tegnu li tonzille”.
“Non ci creu! Fammile itire”
Spalancavo così la bocca e il furbo “tricheco” poteva controllare che la mia lingua non avesse preso lo stesso colore delle dita divenute violacee per la raccolta “ti li zezzi”.
Verso la metà di ottobre di quell’anno, l’avaro rese l’anima a Dio.
“Li ‘enne ‘nu corpu”, dissero, e da morto diede più fastidio che da vivo.
Intanto toccò alla moglie e alle sue quattro sorelle il gravoso compito di lavare la salma e di rivestirla con l’abito “da morto” e data la mole del de cuius possiamo immaginare quanto il compito debba essere stato “pesante”; poi la veglia funebre recitando rosari, Ave Maria e atti di dolore intervallati ad arte dalle “lodi” al defunto, urlate da qualche “prèfica” e dagli isterici scoppi di pianto della neo vedova.
Com’era allora usanza, per tutto il pomeriggio, la notte e il mattino del giorno successivo alla dipartita la casa rimase aperta per permettere ai familiari di ricevere le visite di condoglianze da parte di amici e conoscenti. Poi, verso le 15.30, iniziarono le “grandi manovre” per il funerale.
La bara costruita in fretta e furia risultò essere un po’ strettina e i parenti, a cui era devoluto l’arduo compito di sistemarlo nella bara, oltre alle ovvie difficoltà del “peso morto” dovettero ingegnarsi non poco a farlo “entrare” nel “tautu”; ma alla fine “’ncarra ti qua e ‘ncarra ti ddhra”, riuscirono nell’intento (qualcuno raccontò che dovettero persino salire in due sulla salma e saltarci sopra con i piedi per farla entrare e permettere al coperchio di chiudersi).
Le maledizioni lanciate durante l’operazione di “incassamento” si moltiplicarono quando fu data la notizia che lo “stradone” era troppo stretto e che “lu carru fuci fuci” (il carro funebre), trainato da quattro cavalli, non riusciva a passare attraverso le due colonne che reggevano il cancello d’ingresso.
Il feretro doveva essere trasportato a spalla sino alla strada e, siccome la chiesa dei Cappuccini dove si sarebbe officiata la messa funebre era proprio accanto a “lu torrino”, i malcapitati avrebbero dovuto pure allungare il percorso di un altro centinaio di metri.
In quel momento qualcuno degli astanti avrebbe voluto scomparire, ma non potette, così sei tra le persone più giovani presero in spalla il feretro e si avviarono lentamente verso la chiesa.
Il trasporto non fu facile soprattutto perché i sei baldi “volontari” non erano tutti della stessa altezza e oltretutto ogni tanto qualcuno sbagliava il passo. Sui due più bassi, posti sul davanti, gravava quasi tutto il peso del “tavutu” e così, tra un “ahiaiai la spaddhra”, “no’ spingiti ca mo casciu”, “sciati chianu chianu ca sta’ scinucchiu”, “spetta pocu pocu cu spostu lu pisu”, “cu pozza scoppiare, quantu pesa”, si riuscì a depositare la salma in chiesa.
Dopo la Messa, l’operazione per sistemare il feretro nel carro fu molto più facile, e il funerale si concluse al cimitero con l’ennesimo conferimento delle condoglianze alla vedova e ai parenti più stretti, ma… ma quel “cu pozza scoppiare”… arrivò a buon fine.
Qualche giorno più tardi, infatti, i parenti furono informati che, a causa della gran quantità di gas prodotto dalla decomposizione, il de cuius era letteralmente esploso e che l’esplosione aveva danneggiato anche alcune tombe adiacenti.
… e a me, grazie alla “tirchiaggine” di un furbacchione e alla mia ingenuità, dopo tanti anni, non fu mai dato a sapere “cce sapore tiniànu ddhri zezzi russi!”.
Ingr. : 700- 800 g di seppie, 450 g di riso per risotti, 6 dl di brodo di pesce, 2 dl di vino bianco secco, 1 dl di olio extravergine d’oliva, 1 cipolla, 50 g di burro, q. b. formaggio canestrato pugliese o parmigiano grattugiato, prezzemolo, sale.
Fate scaldare in una casseruola piuttosto larga l’olio con la cipolla tritata finemente, unite le seppie pulite e tagliate a listarelle. Rosolatele per bene, bagnatele con il vino e quando questo sarà evaporato unite il riso crudo. Mescolate per bene, unite il prezzemolo tritato e portate a cottura governando con piccole aggiunte di brodo. A fine cottura mantecate con il burro, spolverizzate con il formaggio grattugiato e servite immediatamente.
Seppie ripiene
Ingr. : 1,5 kg. di seppie, 600-700 grammi di patate, olio extravergine d’oliva, 150 g di pangrattato, 60-70 g di pecorino grattugiato, 2 uova, 2 spicchi d’aglio, prezzemolo, pepe nero, sale.
Procuratevi delle seppie di media grandezza, l’ideale sono quelle intorno al mezzo chilogrammo di peso. In una terrina mescolate il pangrattato con il formaggio, il pepe, l’aglio e il prezzemolo tritato e mettete da parte un terzo del miscuglio. Amalgamate ai due terzi rimasti le uova e mezzo dl. di olio, con il composto ottenuto riempite le seppie senza eccedere, quindi cucitele con del filo di cotone bianco. Tagliate le patate a fettine, ponetele in un tegame con un filo di olio sul fondo e su di esse sistemate le seppie, aggiungete un bicchiere di acqua. Cospargete il tutto con il miscuglio di pangrattato tenuto da parte, irrorate con il restante olio e ponete in forno a 180°C per circa mezz’ora.
Seppie con i carciofi
Pulite nel modo consueto un chilogrammo e mezzo di seppie, spellatele e tagliatele a listelle. In una casseruola fate riscaldare in un filo di ottimo olio extravergine d’oliva due tre spicchi d’aglio, e prima che questi imbiondiscano eliminateli ed unite le seppie. Saltatele a fiamma allegra salando ed aggiungendo un pizzico di pepe, quindi bagnate con un bicchiere di vino bianco secco e appena questo avrà evaporato la frazione alcolica unite sei sette carciofi ben mondati e tagliati a spicchi. Portate il tutto a cottura a casseruola coperta aggiungendo un po’ acqua se c’è ne fosse bisogno e servite ben caldo.
Insalata calda di seppie, fagioli e cime di rapa
1 kg di seppie, 1 kg di cime di rapa, 500 grammi di fagioli cannellini già lessati con gli aromi (sedano, aglio e alloro), 2 spicchi d’aglio, 1 peperoncino, olio extravergine d’oliva, sale, pepe nero.
Mondate le cimette di rapa e fateli cuocere per cinque minuti in acqua bollente salata. In una casseruola fate riscaldare in ottimo olio extravergine d’oliva mezzo peperoncino con due spicchi d’aglio contusi. Appena questi accennano ad imbiondire unite le seppie pulite e tagliate a listarelle e saltatele a fiamma allegra per qualche minuto, quindi unite le cimette di rapa precedentemente sbollentate ed i fagioli e portate il tutto a cottura. Servite l’insalata ancora calda spolverizzata di pepe nero macinato al momento.
Frittata di uova di seppia
Questa è una vera particolarissima, quanto rara, curiosità gastronomica. Preparata sino a non molto tempo addietro, e forse ancor oggi, nelle famiglie dei pescatori di Manfredonia. Era preparata con le uova di seppia che gli stessi recuperavano salpando le nasse, sui rametti di mirto che erano stati posti al loro interno appositamente per attirare le seppie (vedi paragrafo introduttivo). Inutile rimarcare la dannosità ecologica di questa pratica, per cui non ci soffermeremo a illustrare le modalità di raccolta e preparazione delle uova di seppie già deposte che, oltre che una pratica deprecabile è certamente anche proibita. Però spesso, pulendo le seppie, specialmente nel periodo primaverile, vi si trovano ugualmente dei grossi grappoli di uova. E’ questo il caso di rendere giusto onore a questi molluschi mai nati ammannendoli, sulla scorta di quanto fanno i pescatori di Manfredonia, in una deliziosa frittata. Amalgamate le uova di seppia ad un uguale quantitativo di uova di gallina insaporite il tutto con formaggio grattugiato, pepe nero, prezzemolo tritato, sale e aromatizzate con un po’ di scorza di limone grattugiata. Friggete il composto ottenuto come una comune frittata e servitela come originale antipasto.
Minne te seccia
Durante le operazioni di eviscerazione delle seppie, vengono messe a nudo delle sacche bianco latte che vengono denominate in vernacolo salentino: minne te seccia. Queste, non sono, come spesso si crede la sacca spermatica delle seppie e nemmeno le uova, bensì le gonadi femminili, sostanzialmente, uova non fecondate. Quando, la pulizia delle seppie viene effettuate da pescatori o comunque da mani ugualmente esperte, le gonadi vengono accuratamente recuperate per poi essere gustate crude, oppure grigliate o sbollentate. Talora, vengono anche inserite nelle insalate di mare.
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