La voce nel vocabolario del Rholfs1 è registrata, nel terzo volume che funge da appendice, per Galatone col significato di spicchio d’arancia ma senza alcuna indicazione etimologica. Per Giovanni Siciliano2 è da portiunculus. Prima di avanzare la mia ipotesi intendo fare qualche osservazione su quest’etimo che il Siciliano propone senza ombra di dubbio. Anzitutto osservo sarebbe stato meglio far precedere portiùnculus (qui aggiungo io l’accento perché, fra l’altro, per evitare equivoci, in studi di questo tipo sarebbe bene segnarlo sempre quando la parola non è piana) da un asterisco3 perché è attestato solo il femminile portiùncula, diminutivo di portio=porzione, parte. Per accettare l’etimo del Siciliano è necessario ipotizzare, poi, su *portiùnculus un’aferesi devastante; uso questo termine piuttosto pittoresco per stigmatizzare la presunta perdita di una sillaba iniziale (por) costituita da ben tre fonemi, fenomeno da me mai prima incontrato nel dialetto salentino o in altri e del quale in italiano conosco un solo esempio4. Resterebbe da spiegare, inoltre, l’esito tiu->giu. A maggior ragione non è ipotizzabile (con caduta, questa volta sarebbe il record definitivo …, di ben quattro fonemi) la trafila *portiùnculus>*porgiùnculus>giunculu, in quanto l’intermedio porgiùnculus sarebbe inammissibile in quanto solo l’i– iniziale latino seguito da ia, e, u diventa, rispettivamente, gia-, ge-, giu-. Sul piano fonetico l’etimo del Siciliano appare, perciò, improponibile, anche se è senz’altro plausibile su quello semantico. D’altra parte non è detto che un’ipotesi plausibile su entrambi i piani sia quella rispondente alla realtà, ma almeno obbedisce a due principi filologici fondamentali.
Io ne avrei, addirittura, due e lascio al lettore il compito di respingerle entrambe o di abbracciare quella che gli appare più convincente.
Prima ipotesi: giùnculu potrebbe essere considerato diminutivo dell’italiano cionco che può significare troncato, sciancato ma anche spossato. La voce è da cioncare=troncare, che da alcuni è fatto derivare dal latino medioevale extruncare. In italiano, però cioncare significa pure bere smodatamente e questo secondo cioncare deriva dal tedesco schenken=mescere). Alcuni ritengono che anche il primo cioncare abbia lo stesso etimo (dal tedesco) perché chi beve smodatamente è preso da spossatezza. C’è, infine, chi crede che il primo cioncare=troncare (da extruncare) abbia subito l’influsso della voce tedesca, il che spiegherebbe il diverso esito della parte iniziale.
Seconda ipotesi: diminutivo deverbale da iùngere=congiungere, con riferimento al fatto che lo spicchio non è che una piccola parte del frutto che, congiunta con le altre, contribuisce a formarlo.
Ho già detto che il Rohlfs registra la voce solo per Galatone ma, dopo aver detto che essa è di uso corrente anche a Nardò, chiudo con una nota personale: mia madre, quando nei pomeriggi d’estate c’era l’abitudine, da me odiata, del pisolino postprandiale, usava metaforicamente (forse era un uso gergale assolutamente personale) la voce nella locuzione: sta vvo mmi fazzu nnu ggiùnculu=sto andando a farmi uno spicchio (di sonno). ______
1 Gerard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976.
2 Influsso delle dominazioni sul dialetto di Nardò in La Zagaglia, anno III, n. 10 (giugno 1961), p. 76.
3 Debbo dire che in tutte le sette pagine del lavoro citato l’asterisco mostra di essere un segno diacritico sconosciuto e che molti etimi non reggono all’esame fonetico; un esempio per tutti: scucchiàre vien fatto derivare dallo spagnolo escoger (che, aggiungo io, è dal latino excollìgere), quando il suo l’etimo è di una linearità fonetica e semantica esemplare, cioè da s– estrattivo (dal latino ex)+còcchia (voce salentina corrispondente all’italiano coppia, che è dal latino còpula.
4 Lemme (usato solo nella locuzione lemme lemme), che viene fatto derivare, peraltro dubitativamente, dal latino sollemne(m); il fenomeno dell’aferesi, a quanto ho potuto rilevare, di solito coinvolge: la sillaba composta da due fonemi che siano vocale+consonante, in cui la consonante è simile alla successiva (condizione, questa, che si verifica pure nel caso di lemme): innante>nante, allocco>locco, immondezza>mondezza, etc. etc.; la sillaba costituita da una vocale (aguglia>guglia, epitaffio>pitaffio, etc. etc.); la sillaba costituita da consonante+vocale (signornò>gnornò, dispacciare>spacciare, etc. etc.).
Giovedi 19 marzo scorso nell’inesauribile miniera di incontri che è il Fondo Verri, è stato presentato il libro “Pietro Marti (1863-1933)” di Ermanno Inguscio. L’autore ci ha raccontato, “la sua ricerca storica e documentale dedicata alla figura dell’intellettuale e operatore culturale salentino Pietro Marti e si presenta come un corpo unico ma non conclusivo perché, come lo stesso autore sottolinea, “traccia spunti di ulteriore approfondimento per gli studiosi che se ne vogliano occupare”. Il volume gode della prefazione dall’attuale direttore della Biblioteca Provinciale “Nicola Bernardini” di Lecce, Alessandro Laporta (avendo Marti ricoperto, tra altri, anche il ruolo di direttore di quella Biblioteca dal 1929 al 1933) che riconosce a Ermanno Inguscio “il coraggio nell’intraprendere le ricerche e la pazienza nel tentativo di ricostruire un ritratto quanto più possibile fedele all’originale”. Divisa in quattro parti principali, la monografia ha titoli che introducono il lettore nella poliedricità di Pietro Marti: uomo di cultura, fondatore di giornali, conferenziere, polemista, storico erudito e biografo, direttore del periodico La Voce del Salento, cultore d’arte e archeologia; sullo sfondo la realtà salentina nel passaggio tra fine Ottocento e primi del Novecento”, come ha scritto Mauro Marino presentando l’evento.
Sala piena e attentissima alla narrazione di questa figura complessa, poliedrica e importante nell’universo culturale leccese che, a cavallo fra ‘800 e ‘900 dava vita ad un universo di almeno 22 giornali stampati a Lecce e provincia, oltre la metà di quelli stampati nella Puglia intera.
Ermanno Inguscio – Pietro Marti (1863 – 1933) – Ed. Fondaz. Terra D’Otranto
Delle quattro stagioni la primavera è certamente quella che fin dai tempi più remoti e sotto tutte le latitudini ha avuto il ruolo di protagonista indiscussa, anche rispetto all’altra stagione intermedia, l’autunno; e ciò è avvenuto pure nell’arte (poesia, pittura, scultura e musica), nonostante la stagione della caduta delle foglie con la sua evocazione del riposo, sia pur provvisoriamente ciclico, sembri candidata con pari possibilità di successo rispetto alla stagione del risveglio, anch’esso ciclico, a simboleggiare uno dei due componenti del binomio sentimentale Amore e Morte, del quale, così dicono ma io non ci credo ciecamente …, solo noi umani conosceremmo il risultato.
Corredare questo post con immagini note potrebbe sembrare banale e scontato, nonostante non esista cosa nota, mi si conceda il gioco di parola, che non possa essere corredata di una nuova nota. Oltretutto sarebbe impossibile non fare torto a qualcuno e, anche se la scelta non comportasse, come qualsiasi selezione, questo rischio, l’operazione richiederebbe tempi biblici.
Mi limito perciò a presentare alcune stampe antiche sul tema, tutte custodite nella Biblioteca Nazionale di Francia, dal cui sito le ho tratte. Il lettore che lo desidera, cliccando sul link relativo, potrà godersele in ogni dettaglio grazie all’alta definizione con cui sono state digitalizzate. Per ognuna di loro, quando mi è parso opportuno, mi sono soffermato su qualche dettaglio significativo.
Dapprima due distici elegiaci in cui spicca la figura etimologica (oculos/oculis; Venus/Venerem; blando/blanda; colitur/coli): Cum viridi rident vernantes gramine campi,/et pictis pascunt horti oculos oculis; alma Venus colitur, Venerem genus omnium animantum/sentit: amat blando tempore blanda coli. Traduzione: Quando i campi in primavera sono ridenti della verde erba e i giardini con le dipinte gemme nutrono gli occhi, viene onorata l’alma Venere; ogni razza di esseri animati sente Venere: (lei) seducente ama essere onorata dalla seducente stagione.
Segue la dedica Ornatissimo solertissimoque Georgio Hueffnagello Belgae amicitiae et observantiae ergò Crispianus Passoeus sculptor dedic(at) consecratque (Al distinto e intelligentissimo Georg Hoefnagel belga, in segno di amicizia e rispetto perciò l’incisore Crispino De Passe dedica e consacra). Vale la pena ricordare che Georg Hoefnagel (1542-1600) fu un famosissimo pittore, cartografo ed illustratore fiammingo; questa incisione, dunque, rappresenta l’omaggio ad un collega.
In basso ai due estremi: Martin De Vos inventor (Martin De Vos ideatore) e Cr(spin) De Pass fecit et excudit (Crispino De pas disegnò ed incise).
La primavera; disegno di Antoine Watteau (1684-1721), incisione di Louis-Compagnon Desplaces (1682-1739).
Anche qui due distici elegiaci: Bruma vale, nivibus gelidisque fragoribus undae/indurata diu, succedit verna iuventus; floribus arrident horti; dant gemma campi,/succrescunt fruges, laetaeque in vitibus uvae (Inverno, addio! La primaverile giovinezza a lungo irrigidita subentra alle nevi e ai gelidi fragori dell’onda; i giardini son ridenti di fiori, i campi offrono le piante, spuntano i frutti, e le uve liete sulle viti).
La primavera; incisione di Abraham Bosse(1604-1676) stampata da Jean Le Blond (1635-1709).
Questa volta la didascalia è costituita da quattro quartine di ottonari in francese: L’ésprit et les yeux sont contans,/de voir peinte in cette figure,/où l’Art esgalle la Nature,/toutes les beautez du Printemps./Ici se voit une fontaine/dont le cristal est tousiours clair;/ et zephyr y parfume l’air/par la doucer de son haleine./Des fleurs dans ces beaux lieux escloses/les Amours sont les Jardiniers;/et recueillent à pleins paniers/des lys, des oeillets, et des roses./Mais ces jardins, bien que charmans,/nόnt rien d’esgal ny de semblable/aux plaisirs de ces deux Amans,/don’t l’Amour est incomparable (Lo spirito e gli occhi sono contenti di veder dipinte in questa figura, in cui l’Arte eguaglia la Natura, tutte le bellezze della primavera. Qui si vede una fontana la cui acqua cristallina è sempre chiara; e zefiro vi profuma l’aria con la dolcezza del suo alito. In questi bei luoghi chiusi i giardinieri sono gli amori dei fiori; e raccolgono a pieni panieri gigli, papaveri e rose. Ma questi giardini, per quanto affascinanti, non hanno nulla di eguale né di simile ai piaceri di questi due amanti, il cui amore è incomparabile).
La primavera (1727); disegno di Antoine Watteau (1684-1721), incisione di François Boucher (1703-1770).
Qualcuno si sarà già meravigliato perché non ho ancora parlato dell’origine della parola primavera. Provvedo prima che l’eccesso di meraviglia produca qualche brutto effetto. Primavera è adattamento popolare della locuzione latina primo vere (all’inizio della primavera). Infatti in latino primavera è ver (genitivo veris), di genere neutro, mentre estate è aestas, di genere femminile, autunno è autumnus, di genere maschile, o autumnum , di genere neutro e inverno è hiems, di genere femminile. La differenza di genere, alla ribalta in questi ultimi tempi, è un concetto antico ma nel caso delle stagioni confesso di non essere in grado di coglierne il significato. Non so nemmeno se il primo vere contenga un riferimento ad antichissimi riti di purificazione e/o propiziazione celebrati all’inizio della stagione.1
Se fossi più superficiale direi che importa poco visto che i cambiamenti climatici in atto hanno portato quasi alla scomparsa delle stagioni intermedie. Se fossi più cinico e non conservassi nella mia mente una fiammella di speranza, ribadirei che conta poco, tanto più che, alla luce anche dei rimedi proposti nell’illusione di liberare il nostro territorio dalla xylella, questa potrebbe essere l’ultima primavera, con i suoi colori ed i suoi profumi, vista dai nostri occhi. Auguro a tutti coloro che verranno dopo di noi di non incontrare da nessuna parte la parola ultimavera accompagnata da questa definizione: la primavera del 2015 che fu l’ultima per i Salentini, prima che lo diventasse per l’intera umanità.
E che il titolo, in culo a questa apocalittica definizione, abbia una funzione scaramantica o, come dicono quelli che sanno parlare, apotropaica!
____________
1 Io non ecluderei a priori un rapporto tra ver e vìridis [dal cui accusativo vìride(m) è l’italiano verde)]; quest’ultimo, poi, è sicuramente connesso con virère=essere vigoroso; e non è detto, per finire, che quest’ultimo non sia connesso con vis=forza.
20 Marzo. Domani comincia la primavera (veramente comincia oggi ma siete così pignoli e precisini :-D). Comincia anche il taglio degli ulivi ammalati. Sarà l’ecatombe. Chissà quei tronchi se sarenno triturati o serviranno per fare mobili, quelle fronde disseccate saranno abbastanza pulite da poter essere utilizzate per cuocere il pane nei forni a legna o conterranno troppi veleni anche per questo? Non volge al bello questa primavera, sento che anche i fiori sono tristi e l’er…ba non è fresca e croccante. Investigare sulle colpe forse è inutile … ma leggere:
“Vicino ad Alessano, e sulle sponde del mare Ionio sta Castro. La derrata di maggior utile di questa città è l’olio. Il mare dà puro vantaggio colla pesca dei pésci e con quella de’ coralli …” scritto soltanto duecento anni fa … scomparsi i coralli e quasi del tutto i pesci cosa scriveremo di Castro quando scompariranno gli ulivi?
Siamo nati nell’Eden e siccome non ci hanno cacciati lo stiamo distruggendo. Sempre nle medesimo testo è scritto:
“Io prezzo la fisica, e pur la chimica, ma non a tanto sublime grado, ed estensione, che se venisse in testa a persona da cavar dà metalli, o da fossili materia per
vitto, trovarebbe a nostri dì propensissimi molti à preferirlo al vitto vegetabile, o animale. Povera umanità attirata dall’insania e dalla impostura.”
Noi, finché è possibile, preferiremo prodotti vegetali e animali anche in disuso. Comincia la primavera, spero che a qualcuno torni l’idea di conservare il posto degli ulivi tagliati perché un giorno, qualcuno meno stronzo di questa generazione sciagurata possa ripiantarli quegli alberi e rivedere i tordi, gli storni e tutto il mondo che un albero di ulivo sa generare.
Buona primavera a tutti, anche a Maurizio Lupi e al suo figliolo, messi alla gogna perché il padre ha raccomandato il figlio e sono amici di una banda di presunti tangentari. In Italia si fa sempre pulizia nella casa altrui. Vedremo chi prenderà il posto di Maurizio Lupi.
Laudata sia la Zeppola … mi raccomando non fatevi mancare questo dolce meraviglioso della storia napoletana, rigorosamente fritto possibilmente nello strutto e guarnito con una amarena …
Sarà un buon giorno di sicuro. A noi è toccato alzarci molto presto per cercare di tener dietro agli impegni che entro domenica saranno esauriti, spero.
La cronaca è toccata agli assassinii di Tunisi, terrorismo che va ad ascriversi, secondo il tambureg…giamento mediatico, al califfato cosiddetto dell’Isis. Di certo una forma terroristica nuova rispettoi a quella a cui ci avevano abituato. I “kamikaze” che cercano la morte in combattimento non ci sono più. Questi colpiscono, uccidono e poi scappano … la cultura occidentale prene il sopravvento.
In Israele vincono i falchi e ci sarà presto una nuova guerra, temo …
In Italia da una parte scandali dall’altra l’OPA di Landini sulla CGIL.
Ieri ho visto gli ulivi di Palmariggi, Minervino e Giuggianello, ho sentito anche la preoccupazione di chi non può fuggire e si domanda perché ….
Anche oggi è intenso ma ce la faremo!!!!
Noi ce la facciamo sempre!!!
P.S.
La zeppola, vi prego, sia grande. Poi magari la dividete con chi vi piace ma non appropinquatevi alle “zeppoline al forno che sono più leggere!!!”
Manca poco. qualche giorno appena. Poi ufficialmente sarà primavera. L’aria si farà tiepida e l’attesa trepida. Nasceranno nuovi insetti e ci sarnno nuove possibilità di contagio per i nostri giganti impotenti verso la cattiveria e l’insipienza dell’uomo.
Il cinismo con il quale alcuni esseri, che l’umana specie dovrebbe rifiutare come membri, è indegno. Con la medesia felicità con la quale dei vigliacchi si fregavano le mani sapendo dei terremoti, allo stesso modo invocano l…‘ecatombe.
Sarà che siamo sbagliati noi, sarà che la malvagità ci segna da sempre (non fu forse Abele a soccombere e Dio stesso a proteggere il suo assassino?) ma non riesco a farmene una ragione. Ne scriveremo la storia un giorno di questa tragedia che consegnerà ai nostri nipoti un mondo fantastico che abbiamo vissuto.
La destra vince in Israele ipotecando altri dieci anni di guerra e di odio antisemita. Che non ci si può lamentare dell’antisemitismo se ci si ritiene “POPOLO ELETTO”.
Maurizio Lupi è incappato nelle maglie della magistratura per un’altra vicenda di corruzione che accarezza il di lui figliolo. Gli chiedono di dimettersi ma lui resiste. E fa bene. Non ha commesso nulla, non ha fatto nessun reato e non ha ricevuto nessun avviso di garanzia. In un luogo di pregiudicati che fanno i leader di partito e che vengono invitati al Quirinale quando sono in espiazione della pena, di lestofanti avvezzi a prescrizioni, amnistie, indulti, riti abbreviati e riduzioni della pena dovrebbe dimettersi. Proprio lui? E che è il figlio della serva? E’ solo il padre di un giovane raccomandato come tanti.
Nell’Italia divorata dagli Agnelli è arrivato il turno dei Lupi …
Il segretario di ANM ha alzato la voce e Renzi si è offeso. “Il Governo prende a schiaffi i magistrati e accarezza i corrotti” ha osato dire il magistrato.
E cosa vorrebbe? Le carezze anche lui? Ce ne sono magistrati che se le prendono le carezze caro il mio Sabelli e magistrati che, saltato il fosso, tirano anche calci e pugni a quelli che continuano a fare il loro dovere. Mai generalizzare.
Non tutti i politici sono corrotti (ne conosco almeno dodici che non lo sono, per ora …) e non tutti i magistrati sono onesti e capaci (ne conosco una dozzina che non lo sono, per ora ….). Il fatto è che nella classifica della corruzione siamo i primi d’Europa (ce la giochiamo con la Grecia) e, nel mondo, competiamo con Swaziland e Senegal … Magari abbiamo sbagliato tutto e dovremmo arrestare gli onesti e valorizzare i delinquenti. Magari cambiando nome. I primi possiamo chiamarli “rigidamente fissati a vecchie idee” e i secondi “pronti ad accogliere e sviluppare ogni opportunità”.
Buon giorno a tutti, rigidamente finché mi riesce …
17 marzo 2015. C’è luce, qualche acciacco e il segno indistinguibile che la vita ci riserva un altro giorno di croci e di delizie. Ho buone speranze che oggi le seconde prevarranno.
Giornali colmi di tintinnio di manette, ogni tanto una retata fa scoprire cose che tutti sapevano da tempo. Cose che facevano indignare alcuni e cercare amicizie che contano a molti altri. Il caso in questione riguarda alcuni corregionali che si distinguono, nella fattispecie, non tanto per lo spe…ssore criminale del quale non abbiamo contezza riservando anche per codesti signori la presunzione di innocenza fino a condanna definitiva, quanto per lo spessore etico. Frazione infinitesima dello spessore di un foglio di pellicola per alimenti.
Certo che i tanto vituperati partiti ne hanno coperti di culi. Per il partito c’è chi ha dato la vita e chi ha preso denari, e hanno vinto i malfattori … Inevitabile il pessimismo della ragione.
Anche domenica scorsa Renato ha scritto bene sugli ulivi del salento. Un olocausto che ha radice umana, se criminale, irresponsabile o, semplicemente, idiota non lo sappiamo né, temo, lo sapremo mai. Ma il timore che dopo i giganti dalle grandi chiome grigioverdi la malattia invada capperi, mirto, rosmarino ed altre piante della nostra terra non è infondato. Spero che molt amici fotografi conservino i loro scatti per raccoglierli nel volume di una terra feconda che c’era e che l’insipienza dell’uomo a reso deserta … Inevitabile il pessimismo della ragione.
In Israele si vota. Il Presidente in carica continua a fare professione di razzismo. Incredibile che chi ha più sofferto una pena sia pronto ad infliggerla ad altri … Inevitabile il pessimismo della ragione.
Si va dunque, sulla strada, a incontrare gente vera, a volte brutta, sporca, irriguardosa e piena di difetti e di guai. Gli sconfitti di ogni giorno ed ogni giorno condannati alla sconfitta. Alcuni di essi sono giovani e hanno tempo, forse qualcuno ce la farà a vincere. Non ci abbandoni mai l’ottimismo della volontà.
Ci siamo alzati alle 5 del mattino, pensando di arrivare al santuario tra i primi: siamo invece arrivati quasi per ultimi. Alle 6 la chiesa è gia’ affollata e in fondo alla navata il quadro tollera paziente le carezze dei fedeli, prima di essere portato in processione. Gli altri pellegrini giungono alla spicciolata: di fronte alla chiesa si intravedono già, ammucchiati, i loro rudimentali bordoni, caratterizzati dai segni secolari della devozione petrina (la canna, il ginepro, l’immagine di san Pietro).
Dentro la cappella procede la liturgia cantata, fuori è già una festa di volti, voci, colori. Arrivano i primi gruppi di fedeli che recano gli “altarini”, di squisita fattura artigianale. Nella paziente cura con cui sono stati confezionati, oltre che nel sacrificio con cui verranno trasportati, a spalla, per dieci lunghi chilometri, si esprime una devozione ancora fortemente radicata nei confronti del Principe degli Apostoli.
Questi gruppetti, stretti intorno alla loro macchina processionale, rappresentano l’altra faccia della socialità religiosa, quella spontanea, che ha deciso di organizzarsi per condividere, in maniera informale, questo importante momento di fede. Alle loro spalle, dietro lo stendardo e distinti dall’abito di pertinenza, procedono le confraternite, immagine della socialità religiosa istituzionale.
Nell’arcaico slancio emotivo dei primi e nell’ordinato procedere delle seconde si riassume buona parte della processione petrina, integrata naturalmente dai fedeli che procedono separatamente ai lati, e dal gruppo conclusivo, costituito dal clero, che si stringe intorno al quadro del Santo. All’altezza di C.da Piacentini si aggiungono infine i portatori di tronchi, coloro che hanno deciso di compiere lo sforzo penitenziale più grande e al tempo stesso più vistoso.
E’ una fatica non lieve: i portatori procedono a piccoli tratti, e la loro sosta è sottolineata dal tonfo greve dei tronchi, un “tunf” preceduto dal consueto “Ahi Maria!”.
Vivendo dall’interno questo momento collettivo di preghiera e penitenza, si comprende la specificità della processione petrina che, a dfferenza delle altre processioni manduriane, ha una struttura estremamente semplice, fortemente ripetitiva e cantilenante, “circolare”. Poichè essa è scandita nella quasi totalità del suo lungo percorso da un unico canto, quel “Dio ti salvi o Maria”, notissima preghiera semidialettale che la connota da tempo immemorabile.
Per noi, che l’abbiamo ascoltata l’ultima volta nella processione del 1989, cui partecipammo insieme all’indimenticabile padre Raffaele Bonaldo, risentirla ha costituito una grande emozione, come è stato per gli amici che ci hanno accompagnato durante il percorso e, crediamo, per tutti i partecipanti.
Nessuno era da solo nel compiere il lungo cammino di penitenza, da tutti effettuato in modo composto e lieto, con un occhio al tempo, clemente, e alla meravigliosa campagna circostante. All’arrivo nel paese i pellegrini ritrovano lo stesso mare di voci, suoni e colori lasciato a Bevagna, ma decuplicato.
Nei pressi della cappella della Pieta’ si rinnova il rito della “consegna” del quadro alle autorità cittadine. Poi San Pietro “andrà a trovare” la Madonna e San Gregorio e insieme saranno esposti nella Chiesa Matrice alla venerazione dei fedeli; tutto terminera’ con il rientro del quadro a Bevagna.Ce ne torniamo a casa rincuorati: nei momenti che contano, sappiamo ancora stare insieme.
Sono trascorse pochissime settimane dalle 12 di venerdì 27 febbraio 2015 (il corsivo lo si capirà dopo) ma solo un delinquente più o meno abituale potrebbe ricordare cosa stesse facendo (non solo lui …) a quell’ora; quello decisamente incallito ricorderebbe pure per associazione (a delinquere …) di idee che la data in corsivo era il termine ultimo del concorso pubblico bandito per assicurare a Nardò città d’arte il suo bravo logo e, anche se la cosa, provenendo da un delinquente non mi fa piacere, ricorderebbe anche che il sottoscritto aveva in merito fatto una proposta provocatoria il 4 febbraio (sarebbe in grado di dichiarare anche l’ora precisa …) in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/02/04/il-mio-logo-immaginario-per-nardo-citta-darte/.
Non conosco né m’interessa sapere quante sono state le proposte di logo presentate; mi riservo solo di fare, eventualmente, le mie osservazioni quando l’apposita commissione avrà formulato la sua scelta e presentato pubblicamente la creazione vincitrice dei 500 euro.
Nel frattempo debbo recitare il mea culpa cedendo momentaneamente la parola al nostro concittadino Francesco Castrignanò, del quale ho avuto già occasione di presentare parecchie poesie1. Lo faccio oggi con una non tratta, come le altre, da Cose nosce, Leone, Nardò, 1969 ma inserita ne La storia di Nardò esposta succintamente da Francesco Castrignanò, Mariano, Galatina, 19302. Riporto le pagine (49-57) originali, in cui ho sottolineato in rosso le parti che poi ho provveduto a commentare a fronte.
Metricamente la poesia è costituita da strofe composte ognuna da cinque endecasillabi a rima variabile (ad esempio: nella prima strofa ABABA, nella seconda ABBCC, nella penultima ABACC,nell’ultima ABABA come nell’iniziale). Come espressamente indicato dall’autore nella nota 1 della pagina iniziale il componimento è tratto dalla raccolta Il libro degli Acrostici: a turisti d’Italia, uscito nel 1929 a Matino per i tipi dei Fratelli Carra: il lettore avrà notato che le lettere iniziali di ogni strofa danno NARDO, l’acrostico, appunto. Tuttavia anch’esso, come già visto per le rime non è perfetto, nel senso che in alcune strofe le lettere iniziali non danno NARDO ma il suo anagramma (ODRAN nelle strofe 16, 20, 21, 22, 23, 24, 26, 34, e 38) Probabilmente nelle intenzioni del Castrignanò Odràn Nardò [udranno (parlare di) Nardò] doveva avere un valore beneaugurante.
Ora, per tornare al titolo e chiudere, l’acrostico è una tecnica di composizione antichissima (se ne rinvengono in alcuni testi sacri babilonesi), dunque il Castrignanò non ha inventato nulla; tanto meno io che proprio in un acrostico avevo condensato il motto per il mio logo-fantasma per Nardò città d’arte. Lo avevo fatto autonomamente, anche perché della poesia del Castrignanò sono venuto a conoscenza qualche settimana dopo per puro caso, collateralmente ad un’indagine che con l’acrostico, con Nardò e con tutti gli argomenti annessi e connessi non aveva nulla in comune.
Ciò che più mi dà fastidio, però, è che, insieme con l’acrostico, nulla di nuovo viene offerto, per quanto riguarda i contenuti, rispetto al passato stigmatizzato dal mio illustre concittadino nella sua poesia di quasi un secolo fa, dalla realtà odierna di Nardò provocatoriamente messa in risalto dal mio logo.
2 La Biblioteca comunale Achille Vergari di Nardò custodisce, oltre a questa, le seguenti altre pubblicazioni del Castrignanò: Saggio di traduzione de Le orientali di Victor Hugo, Tipografia nazionale, Trani, 1884; Antonio Caraccio: cenno biografico-critico, Tipografia garibaldi, Lecce, 1895); Fiori di neve : versi, Tipografia neritina, Nardò, 1897; Cose nosce, Tipografia neritina, Nardò, 1909 (ristampa, assente nella Vergari, per i tipi di Leone, Nardò, 1969); Patria mia: rime, Vergine, Galatina, (1923?): Il libro degli acrostici: a turisti d’Italia, Fratelli Carra, Matino, 1926; Lo Czar e il chimico: novella in versi e liriche sacre, Vergine, Galatina, (1926?); A Benito Mussolini, Mariano, Galatina, 1928; L’ acquedotto pugliese e il duce : canzone in dialetto neritino, Mariano, Galatina (1930 ?); Versi, Mariano, Galatina, 1935; Omaggio d’un settantenne a Mussolini : 25 marzo 1934, Gioffreda, Nardò, (1934?).
La storia di Nardò è l’unica opera del Castrignanò reperibile in rete in versione digitale e scaricabile all’indirizzo http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ABRI0333832&teca=MagTeca+-+ICCU. Come risulta dall’immagine che segue è stato digitalizzato proprio l’esemplare custodito a Nardò. Quanto bisognerà aspettare per fruire in rete delle altre opere del Castrignanò, dell’intero patrimonio librario non solo della Vergari ma di tutte le biblioteche d’Italia? Per non parlare degli archivi di Stato …
“Io sono là nelle parole greche, / dove la fine è il principio, /il silenzio l’insieme di ogni voce. Cosa aspetti Edipo, / cosa aspetti a muoverti, / che cosa aspetti a venire? Cosa aspetti Edipo, / cosa aspetti a muoverti, / che cosa aspetti a venire? Tí méllomen choreîn / Tí méllomen choreîn / Tí méllomen choreîn”
Esodo – Roberto Vecchioni
Dopo il mio articolo “Io sono greco” ( in “S/pagine”, 8 febbraio 2015 ), qualcuno, commentandolo, ha contestualizzato quanto scrivevo rispetto alla situazione attuale della Grecia, cioè alle contingenze economico-politiche che quel paese sta vivendo. Gli spunti di riflessione sono tanti e vasta è la materia di interesse. Ormai da molto va avanti un estenuante ping pong fra Grecia e Comunità Europea sul non più sostenibile debito ellenico. Da quando, con le elezioni politiche, si è insediato il nuovo Governo Tsipras, poi, il dibattito fra Atene e l’Eurozona si è fatto ancora più acceso, perché radicalizzato dalle opposte ed estreme posizioni del “compagno” Alexis Tsipras e della “marescialla” Frau Angela Merkel.
A 322 miliardi di euro ammonta il debito greco, al netto di un primo salvataggio avvenuto nel 2010. Il primo debitore fra i paesi europei è la Germania (c’erano dei dubbi?), con 60 miliardi, poi la Francia con 46 miliardi, l’Italia con 40 miliardi, la Spagna con 26 miliardi, l’Olanda con 12. Il negoziato si è arrestato sulla richiesta fatta dalla Grecia di un prestito ponte di 10 miliardi e di una ulteriore dilazione dei pagamenti per risanare l’enorme scompenso di quella nazione. La “Troika” valuta, ma è chiaro che qualunque decisione venga presa avrà delle ripercussioni su tutta la comunità europea essendo noi tutti, giocoforza, coinvolti in questa convivenza in cui, come nel domino (appunto, giocoforza), muovendo una tessera cascano tutte le altre. Ma attraverso il negoziato fra la Grecia e l’Europa – leggo dal Corriere della Sera del 19 febbraio 2015- , entra nella discussione qualcosa che apparentemente sembrerebbe molto lontano dalla politica, ma che invece vi è connesso: la Teoria dei giochi. Al tavolo delle trattative, in una animata discussione col ministro greco dell’economia, Yanis Varoufakis, il nostro Ministro Padoan avrebbe fatto riferimento a quella teoria. E allora, si chiede il Corrierone, il Ministro Varoufakis (muscoli, economia e camicie sportive), sceglierà la ragazza bruna o la bionda? Ma di che si tratta? È stato il filosofo Wittgenstein ad elaborare la teoria dei giochi linguistici. Su di essa si è poi basata la teoria di John von Neumann, elaborata a metà Novecento.
La Game Theory, come scrive Danilo Taino, è “la scienza che analizza la ricerca di decisioni strategiche in situazioni negoziali attraverso modelli matematici di conflitto e cooperazione fra esseri razionali”. Chi ha dato una ulteriore sistemazione alla teoria è stato il matematico John Nash (Premio Nobel Economia 1994), che noi tutti conosciamo per il film capolavoro del 2001 “A beautiful mind”.
Per chi, come il sottoscritto, non è un filosofo né un matematico, la teoria si può spiegare in maniera semplice facendo riferimento ad una scena del film, ricordato dal Corriere della Sera. “Nash, il protagonista, si rende conto, all’università, di fronte ad un gruppo di ragazze tutte brune eccetto una, che se lui e i suoi amici puntano tutti sulla bionda applicheranno una strategia perdente, nessuno la conquisterà. Meglio sarebbe distribuire le forze, i risultati sarebbero complessivamente migliori. Puntare alla scelta B invece che alla scelta A, perché strategicamente più vantaggioso, turba Nash, ma non gli impedisce di sviluppare in matematica il concetto, che alla fine verrà conosciuto come Equilibrio di Nash e non si limiterà a mettere in guardia dalle ragazze bionde, ma entrerà in una lunga serie di attività umane. Compreso il campo delle strategie negoziali”.
Così il ministro Varoufakis , secondo il giornale, non dovrebbe puntare all’obbiettivo massimo, perché quasi certamente perderà, ma dovrebbe usare un approccio diverso, nelle trattative con Bruxelles. Cioè, se il ministro (che è uno che alle ragazze piace molto), sceglierà la bionda, fallirà quasi certamente; se invece sceglierà la bruna, avrà più possibilità di successo. Tuttavia, come detto sopra, la teoria dei giochi si estrinseca fra soggetti intelligenti e razionali. Ora, parlando di politica (tutto il mondo è paese), chiaro che la cosa diventa ardua, quasi impossibile. Nell’incontro di Bruxelles, il ministro Pier Carlo Padoan avrebbe detto al collega greco “Ma qui non stiamo mica discutendo del dilemma del prigioniero!” .
Il “dilemma del prigioniero” è uno dei casi più conosciuti della Game Theory. Ci riporta alla mente il lungo periodo della guerra fredda fra Usa e Urss. “Si prendono due spacciatori di droga che vengono arrestati e chiusi in due celle separate. Viene detto loro che si faranno due anni di prigione. Il magistrato si accorge però che sono responsabili anche di un reato più grave, un furto d’armi. Ma non ha le prove. Quindi fa la stessa proposta ai due ma tenendoli separati. ‘Se confessi il furto, diamo un anno di carcere a te e dieci anni al tuo compare; se neghi, e l’altro confessa, i dieci anni li prendi tu e lui uno. Se ambedue confessate, vi diamo tre anni ciascuno. Se entrambi negate, restate con i due anni per spaccio’. Quest’ultimo è lo scenario più vantaggioso per entrambi. Lo sarebbe. Ma dal momento che i due non si fidano l’uno dell’altro, faranno un calcolo diverso, che rientra nella teoria, e decideranno di confessare perché quello è il rischio minore tenendo conto di cosa potrebbe decidere l’altro.
È un caso di gioco non cooperativo nel quale l’equilibrio (di Nash) si raggiunge quando ciascuno dei protagonisti fa la scelta migliore per se stesso tenendo conto della decisione dell’altro. Se sarà questo il finale fra Atene e Bruxelles si vedrà”. Comunque Varoufakis è un esperto della teoria dei giochi e quindi sarebbe interessante sapere cosa abbia risposto alla provocazione di Padoan , un economista altrettanto brillante. Il dilemma del prigioniero, secondo il giochino prima esposto, riflette una situazione di grande rilievo in campo economico e sociale, e cioè la scelta fra “cooperare” che corrisponde alla strategia di “negare”, e “non cooperare”, che sarebbe a dire “confessare”. Dalle ultime riunioni fatte, sembra che il governo greco stia prendendo la strada della collaborazione, che è quella più auspicabile.
L’opinione pubblica europea si divide in due scuole di pensiero in merito al debito greco: quelli che ritengono doveroso salvare la Grecia e quelli che invece vorrebbero lasciarla sprofondare nel default, sostenendo che, essendo causa del proprio mal, la Grecia ha solo da piangere sé stessa. Vero che, come alcuni commentatori sostengono, la Grecia non faccia molto per rendersi simpatica a Bruxelles. Infatti, di fronte alla bulimia europea, che vorrebbe far entrare anche la Turchia nell’Eurozona, la Grecia non si impegna minimamente per risolvere la disputa epocale sull’isola di Cipro, il cui territorio è diviso in due fra i possessi di Atene e quelli di Ankara. Non solo, lo “scravattato” Tsipas flirta pure pericolosamente con la Russia di Putin e, in un momento in cui la tensione internazionale è massima per via della situazione ucraina, questo non depone a suo favore. Alcuni amici, dopo il mio articolo, mi hanno scritto di non avere nessuna com-passione, veruna partecipazione emotiva per la crisi greca. Altri invece hanno sostenuto di esserne particolarmente scossi, di sentirsene coinvolti. Qualche giorno fa ho trovato, con mia sorpresa, una interessante presa di posizione da parte di una testata tedesca, la Bild, riportata dal Corriere della Sera. Il giornale più letto in Germania lancia una sorta di appello alla memoria e ai sentimenti, scrivendo: “Cara Grecia, se perdiamo te, non se ne vanno in fumo solo i nostri miliardi di euro, ma anche il nostro cuore. Il greco si parla da 4.000 anni ed è la lingua più antica d’Europa, tutti la parlano” ( ed elenca una serie di termini di derivazione greca). “Il Nuovo Testamento è stato scritto in greco, quando il resto d’Europa (compresi i Germani) si aggirava con le schiene coperte da pelli”. E ancora, in un accorato appello alla Cancelliera Merkel, “Dobbiamo salvare la Grecia.
Che cosa sono i miliardi contro Omero, Aristotele, Socrate? Il denaro è niente, il pensiero conta, la Grecia vale più di tutti i miliardi”. Gli dei salvino la Grecia, insomma, da Socrate alla bionda di Varoufakis! E se “Parigi val bene una messa”, stando all’autorevole parere della Bild, la Grecia dovrebbe valer bene qualche miliardo. Lo sapremo presto.
Fra le tantissime iniziative per Mons 2015, Capitale europea della Cultura al Thèatre le Manège di Mons il 17 marzo e a Flagey, a Bruxelles, il 18 marzo nell’ambito del Klara Festival, sarà eseguita in prima mondiale la nuova composizione di Ivan Fedele su testo di Brizio Montinaro dal titolo Calimerìta. Lamento d’amore di una donna di Calimera.
Un altro mattone (l’ultimo?) si aggiunge al monumento che ho sognato di costruire al grico per prolungare la memoria e la presenza nel tempo della mia lingua materna inesorabilmente in via di estinzione. E quale strumento migliore se non quello di legare testi in grico alla musica colta contemporanea?! CALIMERITA. Lamento d’amore d’una donna di Calimera, per tre voci femminili e orchestra da camera, è la sesta opera musicale su testi grichi composta da autori sparsi in Europa. Questa volta il testo consiste in una poesia scritta per questa occasione da me stesso (e non ripresa dal compositore dal mio libro CANTI DI PIANTO E D’AMORE come è avvenuto le altre volte) ispirandomi alla poesia orale di tradizione greca.
E’ il lamento d’amore di una donna di Calimera, sedotta e abbandonata, che perde nello stesso atto d’amore la verginità e il suo amante: un seduttore appassionato e sbruffoncello che aveva conquistato mezza Grecìa con il suo canto ma che il lavoro poi porta lontano dalla sua terra senza fargli fare più ritorno. Per comporre questo testo ho usato la stessa tecnica che adoperavano le lamentatrici funebri: ho disposto in un ordine tutto mio dei moduli della poesia orale grica e gli ho adattati, a volte appena modificandoli a volte componendo io stesso degli interi versi che mi mancavano per portare avanti il mio disegno creativo.
La musica è stata scritta ancora una volta dal maestro Ivan Fedele (salentino di origine), uno dei compositori italiani più stimati ed apprezzati in Italia e all’estero. Accademico di Santa Cecilia è ora direttore della Biennale Musica di Venezia, La casa editrice che ha pubblicato l’opera è la prestigiosa SUGAR MUSIC di Milano.
La prima esecuzione mondiale avverrà il 17 marzo al Théatre Le Manège di Mons, in Belgio, nell’ambito di Mons 2015 Capitale europea della Cultura e, subito dopo, il 18 marzo, al Flagey di Bruxelles nell’ambito del Klara Festival. Eseguirà l’European Contemporary Orchestra.
Dal Programma di sala:
Calimerìta di Ivan Fedele per tre voci femminili e orchestra da camera
Scritta da Brizio Montinaro a partire da un testo in grico, un dialetto greco del Salento, la composizione musicale Calimerita è una classica storia d’amore popolare.
Il personaggio principale è interpretato da un trio di voci femminili che, riverberando e doppiando il testo, dà alla storia un cammino un po’ più complesso, cosa che non avrebbe consentito l’uso di una sola voce. La possibilità di raddoppiare la voce e creare un coro o un’ eco promuove e sostiene la trama della storia catturando di volta in volta sia l’emozione del presente che quella del passato.
La composizione è divisa in quattro movimenti e segue la struttura del testo, spesso simmetrica. Ci sono quindi delle ripetizioni di testo sia nelle parti acustiche che in quelle elettroniche. Il testo cantato si sente spesso dietro il testo parlato creando così un sottile contrappunto. Allo stesso modo, gli strumenti dell’orchestra, in particolare il vento, raddoppiano le voci con freschezza, come eco a briciole di melodia. La partitura utilizza anche materiali etnici della tradizione albanese (il testo parla di un amore che è dall’altra parte del mare) elaborati, moltiplicati e integrati ad un ricchissimo contesto armonico. Ancora una volta, la musica che forma una “memoria” trova le sue origini nell’essenza stessa delle sue radici popolari.
Questo è il mio tributo a questa lingua affascinante, il grico, che caratterizza la cultura della mia regione natale: il Salento.
Lunedi 16 febbraio la Giunta regionale pugliese ha approvato il Pptr, Piano paesaggistico territoriale regionale. Sull’importanza e il significato di questo evento il giornalista Gabriele Invernizzi ha intervistato Angela Barbanente, vicepresidente della Regione e assessore all’Assetto del territorio. Gabriele. giornalista di lungo corso, per molto tempo a L’Espresso, è un amico “innamorato” del Salento, in particolare di Cisternino. Con il locale comitato si batte contro la diabolica scelta degli amministratori di violentare il territorio con una strada assolutamente inutile, la cosiddetta “Strada Dei Colli”. Dello scempio ci eravamo occupati in tre occasioni: art. unoart. 2art. 3.
L’intervista all’assessore Barbanente è di estrema attualità anche per il Salento leccese dove altre scelte amministrative sembrano cozzare con il buon senso. Parliamo di TAP, della sciagura chiamata Strada 275 con la quale si vogliono decimare gli ulivi, parliamo delle scelte di irrorare con pesticidi chimici altamente tossici il territorio, le campagne e i paesi del basso Salento con l’alibi della xylella. Insomma, ringraziamo Gabriele per questo prezioso contributo. (Gianni Ferraris)
Intervista a Angela Barbanente vicepresidente della Regione Puglia
Un Piano per salvare la Puglia “bene comune”
di Gabriele Invernizzi
Signora Barbanente, può spiegarci in poche parole che cos’è un Pptr?
E’ un piano paesaggistico finalizzato alla conoscenza, tutela, valorizzazione e riqualificazione del paesaggio, approvato in attuazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004 e conforme alla Covenzione europea del paesaggio adottata a Firenze nel 2000 e ratificata dal Parlamento italiano nel 2006.
Tutte le regioni italiane devono dotarsi di questo strumento di governo del territorio, ma la sola Puglia per ora l’ha fatto. Tanto zelo si spiega soltanto con una particolare sensibilità della giunta Vendola oppure cela anche un’urgenza dettata dalla gravità dei problemi del territorio pugliese?
C’erano entrambe le ragioni. Già nel presentare il programma di governo, nel giugno 2005, il presidente Vendola aveva parlato di un nuovo ciclo di sviluppo attraverso la valorizzazione delle risorse materiali e immateriali, costituite da donne, uomini, giovani e dai beni ambientali e culturali del territorio. Il nuovo ciclo doveva investire tutti i settori produttivi: dal settore agricolo, che prevedeva un modello di sviluppo basato non solo su una maggiore e migliore produzione ma soprattutto sulla capacità di cogliere le opportunità offerte dalle politiche di tutela e salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio; al settore turismo, per il quale si prefigurava un rilancio incentrato su tutela dell’ambiente, valorizzazione del patrimonio culturale e integrazione nell’area del Mediterraneo. Intanto in Puglia è cresciuta la consapevolezza collettiva della gravità dei problemi ambientali prodotti dalla politica dei poli industriali promossa dalla Cassa per il Mezzogiorno, con l’Ilva di Taranto o la centrale a carbone di Cerano, insieme al dissesto idrogeologico e all’erosione costiera provocati dalla urbanizzazione selvaggia dei versanti, delle aree naturali, dei litorali e dei corsi d’acqua superficiali e sotterranei.
E’ dunque evidente che il Pptr avrà un forte impatto sul piano economico. A quali modelli di sviluppo vi siete ispirati?
A modelli autosostenibili e durevoli che fondano le prospettive di sviluppo sulla salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio territoriale e paesaggistico, inteso quale bene collettivo prodotto nei tempi lunghi della storia e nel quale si intrecciano indissolubilmente natura e cultura, risorse materiali e immateriali, compresa la sfera sociale e culturale e la capacità dei soggetti di attivarsi e autoganizzarsi.
Le ho fatto questa domanda pensando a quanto accade in Val d’Itria, dove un gioiello paesaggistico come i Colli di Cisternino è minacciato dall’insensato progetto di farci passare una nuova strada: ancora asfalto e cemento, e in prospettiva nuove case “a schiera”, alberghi e magari campi da golf e tutto quanto va insieme alla solita speculazione edilizia. Il vostro Pptr rappresenterà un baluardo capace di allontanare queste minacce?
Il Pptr è stato concepito proprio per evitare tali minacce agendo su un doppio fronte. Un fronte è la tutela, appunto, dei “gioielli paesaggistici” come i Colli di Cisternino che vengono descritti nell’Atlante del patrimonio e nelle Schede d’ambito molto più accuratamente di quanto faceva il vecchio Piano paesaggistico. Il secondo fronte è quello delle scenario strategico, prima del tutto assente, che assume i valori patrimoniali del paesaggio pugliese e li traduce in obiettivi di trasformazione per contrastare le tendenze di degrado e costruire le precondizioni di forme di sviluppo locale socioeconomico autosostenibile mediante progetti territoriali regionali, linee guida, progetti integrati.
La lotta contro questa famigerata Strada dei Colli ha dato per la prima volta una voce a migliaia di cittadini, dai giovani ai vecchi agricoltori, che non si limitano a dire “no!” e chiedono progetti di sviluppo alternativi, dall’agricoltura biologica al turismo sostenibile, dai parchi naturali al paesaggio come “bene comune”. Nel vostro Pptr vi è traccia di tutto questo?
Il Pptr, nel suo Scenario strategico, comprende cinque progetti territorali che, supportati anche da coerenti programmi di finanziamento, intercettano tutti i progetti di sviluppo come quelli che vengono richiesti dai cittadini di Cisternino che si oppongono alla Strada dei Colli.
Ci può descrivere questi cinque progetti?
Uno è la Rete Ecologica Regionale, per rafforzare le relazioni con le politiche di conservazione della natura e tutela della biodiversità. Due, il Sistema Infrastrutturale per la Mobilità Dolce, per rendere fruibili i paesaggi regionali sia per gli abitanti che per il turismo escursionistico, enogastronomico, culturale e ambientale, grazie a una rete integrata di mobilità ciclopedonale, ferroviaria e marittima che recupera strade panoramiche, sentieri, tratturi, ferrovie minori, stazioni, attracchi portuali. Tre, il Patto Città-Campagna per rafforzare le funzioni pregiate delle aree rurali e riqualificare i margini urbani. Quattro, la Valorizzazione e Riqualificazione integrata dei pasaggi costieri. Cinque, i Sistemi Territoriali per la fruizione dei beni culturali e paesaggistici…
Peccato che la vostra giunta si avvicini alla fine del mandato… Ma il Pptr risulterà vincolante anche per i nuovi governi?
Finchè resterà in vigore così come è stato approvato, certo che risulterà vincolante. Ovviamente un piano può sempre essere cambiato… Ma difendere questo Pptr non spetta solo alla Regione, ma anche a tutti coloro che ne condividono la visione e la strategia. Per renderlo ancora più profondamente patrimonio comune e garantirne un’attuazione efficace, occorrerà bilanciare sapientemente l’applicazione delle norme volte alla regolazione e al controllo delle trasfiormazioni, con l’uso degli strumenti volti a promuovere la qualità del paesaggio e la valorizzazione dei patrimoni identitari della Puglia attraverso gli strumenti della produzione sociale del paesaggio…
Come?
Dando impulso alla progettualità locale… Incentivando l’uso degli strumenti di democrazia partecipativa per la comunicazione sociale e l’arricchimento delle conoscenze sul patrimonio paesaggistico… Promuovendo forme di coprogettazione locale per sviluppare la coscienza di luogo e la cura del territorio…
Ha visto che cosa è successo in Toscana? Lì il Pptr non è stato ancora approvato e già il Pd, che pure è al governo della regione, ha proposto un maxiemendamento per trasformare le sue direttive “vincolanti” in semplici “indirizzi”. Anche il Pptr pugliese va incontro a rischi del genere?
Il nostro Piano ormai è stato approvato e quindi non vi è un rischio di maxiemendamento. Tuttavia anche noi abbiamo attraversato momenti di vivace contraddittorio sul sistema delle tutele, degenerato in aspra polemica nei giorni immediatamente successivi all’adozione, nell’agosto del 2013. Il fatto che non si fosse in vigilia di elezioni, com’è la Toscana oggi, ci aveva consentito di superare le tensioni grazie a un intenso confronto con le parti politiche, gli enti locali, i produttori di paesaggio, le associazioni e i cittadini, in innumerevoli incontri in giro per la Puglia. E’ stato un lavoro faticoso che ha rischiesto molta tenacia e pazienza, ma che ha consentito di superare l’impasse solo con qualche lieve modifica che non ha snaturato la filosofia e il rigore del nostro Piano.
Eh sì, è la tendenza del momento quella di avere un cane, meglio se di piccola taglia (perché fa più chic e tenerezza ) da portare a passeggio, possibilmente nelle vie principali del paese o della città, quelle maggiormente frequentate, in modo da esibire, o per meglio dire ostentare, la propria cinofilia agli occhi del mondo, come scrive il maestro Melanton, al secolo Antonio Mele, sul numero 3 del quindicinale “Il Galatino”(Galatina, 13 febbraio 2015, “Costume malcostume”). Aggiungo che la moda stupida quanto inutile di esibire il proprio cane porta con sé il triste e conseguente fenomeno del randagismo. Ormai non si può più camminare a piedi nei nostri paesi, non solo per strade di campagna, ma anche nei centri abitati, senza imbattersi in mute di cagnoli fastidiosi e abbaianti. Io, per fare jogging, percorro spesso sentieri di campagna e non c’è volta in cui la mia corsa non sia accompagnata, per non dire interrotta, da quadrupedi che mi sbucano da ogni dove. Non si tratta solo di meticci ( quelli che in gergo vengono chiamati “bastardi o bastardini”, “cani vagliò”, oppure “cani minchia”), ma anche di cani di razza; a volte si incontrano splendidi esemplari che quegli stessi viziatissimi padroncini di cui parla Melanton hanno abbandonato.
Alcuni animali, quelli di più piccola taglia, sono facilmente aggirabili, altri, quelli più grossi e minacciosi, mi costringono a fermarmi. Non c’è niente di peggio, per chi corre, che interrompere la propria marcia quando si è entrati nel ritmo giusto, e dovere poi riprendere da capo! Certe volte la cosa mi fa talmente arrabbiare che li sterminerei tutti, se non avessi paura, per ritorsione da parte delle associazioni animaliste, di essere crocefisso nella pubblica piazza. Il problema del dilagante randagismo è addebitabile agli sciocchi e vanesi umani che abbandonano i propri cani ma anche al fatto che i nostri Comuni, avendo tutti problemi di bilancio e quindi finanziari, non rinnovano le convenzioni con i canili, con la conseguenza che nessuno si cura di questi animali. Ed essi scodinzolano incontrollati per strade e stradine di ogni città.
Giovedì 12 Marzo 2015 il Club UNESCO di Galatina, in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura del Comune di Galatina, organizza presso la sede del Cinema Teatro Tartaro una giornata interamente dedicata alla celebrazione della Giornata Mondiale della Poesia 2015: “La Poesia alleata della Vita” rivolta agli studenti e alla cittadinanza.
L’appuntamento è stato istituito dalla XXX Sessione della Conferenza Generale UNESCO nel 1999, e viene celebrato ogni anno, il 21 marzo, primo giorno di primavera, con l’obiettivo di evocare la poesia come mezzo di promozione del dialogo interculturale, della comunicazione e della pace.
Questo il programma che si svolgerà presso il Cinema Teatro Tartaro:
Nella mattinata, alle ore 10:00, lo scrittore- poeta Davide Rondoni incontra gli studenti delle Scuole Superiori della Città.
In serata, alle ore 19.00 sarà presentato il libro di poesie di Nico Mauro “LA POLVERE E L’ACQUA parole lungo le vie della croce” (edito da L’Officina delle Parole – Lecce) alla quale parteciperà lo stesso Davide Rondoni.
Alla presentazione, moderata da Valentina Chittano, interverranno: l’Assessore alla Cultura, Daniela Vantaggiato, il Presidente del Club UNESCO Galatina, Salvatore Coluccia e il Parroco della Chiesa di San Biagio, Don Pietro Mele; parteciperanno, inoltre, il poeta Nico Mauro, la pirografista Silvana Bissoli, l’editrice Pompea Vergaro. Durante l’incontro, saranno interpretate letture tratte da “LA POLVERE E L’ACQUA”con Marco Graziuso.
La raccolta poetica “LA POLVERE E L’ACQUA” di Nico Mauro, racchiusa in 56 preziose pagine, è arricchita dalla riproduzione delle opere della pirografista imolese, Silvana Bissoli, la quale con le incisioni di fuoco su legno, ha “narrato” il percorso biblico e poetico della Via Crucis.
L’opera offre al lettore, in una complicità di linguaggi, un attraversamento tutto personale: sostare accanto alle 15 Stazioni poetiche di Nico Mauro per entrare nella scrittura e soffermarsi presso opere d’arte, simili ad acquerelli, di Silvana Bissoli per condividerne emozioni e suggestioni. Così le 16 tavole pirografate dell’artista imolese accanto al lavoro del poeta galatinese è divenuto, un interessante strumento di indagine, in una sorta di affinità elettive, dove la scrittura poetica di Nico e la scrittura col fuoco di Silvana, coincidono e si intrecciano appieno, partendo, entrambi, da una cognizione universale per tradurla in una nuova ricerca, senza scalfire, ciascuno, la propria identità.
Davide Rondoni è fondatore e direttore del Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna. Lo scrittore-poeta romagnolo ha pubblicato numerosi volumi, è presente nelle più importanti antologie di poesia italiana del Novecento; ha scritto diverse raccolte di poesia, pubblicate in Italia, nei principali Paesi europei, nonché negli Stati Uniti. Rondoni ha tenuto e tiene corsi di poesia e di letteratura negli atenei di Bologna, Milano Cattolica, Genova, allo Iulm, e negli Stati Uniti (all’Università di Yale e alla Columbia University). Dal 2006 cura e conduce sull’emittente televisiva TV2000, canale 28 digitale terrestre, Antivirus, il programma dedicato alla grande poesia internazionale del novecento.Tra le opere in prosa, ricordiamo l’ultima pubblicazione “Gesù. Un racconto sempre nuovo” (Piemme 2013).
Nell’immaginario di chi conosce il significato della parola l’incunabolo assume un valore esclusivamente economico legato essenzialmente, più che al suo contenuto, all’età e alla rarità, due caratteristiche che rendono l’oggetto unico o quasi e, perciò, prezioso, almeno per il bibliofilo con risvolti pratici da antiquario. Per lo studioso, comunque, esso è molto, molto di più, perché segna lo spartiacque tra il manoscritto e la cinquecentina, che sancisce l’affermazione definitiva (poteva essere altrimenti?) e la diffusione della stampa. Bisognerà aspettare mezzo millennio per passare (forse fra pochissimi anni qualcuno dirà ancora una volta: poteva essere altrimenti?) dal libro a stampa al libro digitale o, come oggi è obbligo dire se non si vuol fare brutta figura …, e-book. Ma torniamo all’incunabolo. Incunabula1 i latini chiamavano le fasce dei neonati e, per traslato, il luogo di nascita, l’infanzia, il principio, l’origine, le prime prove. Sottintendete di stampa a quest’ultimo significato ed avrete la definizione più sintetica di incunabulo. E si capirà pure perché gli incunaboli per lo più seguono fedelmente la stessa struttura del manoscritto e, almeno all’inizio, pure i caratteri di stampa adottati imitano quelli adoperati dal copista.
È tempo di abbandonare la teoria e di passare alla pratica. L’oggetto oscuro del desiderio di oggi (si capirà dopo perché mi sono espresso in questo modo) è l’incunabolo così schedato da Maria Pia Vergine in Incunaboli e cinquecentine della Biblioteca comunale A. Vergari di Nardò, a cura di Marcello Gaballo, Congedo, Galatina, 2002:
Bersuire, Pierre
Bersuire, Pierre
Dictionarius seu Repertorium morale perutile Praedicatoribus
c.[1r], titolo: Prima pars Dictionarij // continet dictiones his // litteris incipientibus // A. B. C. D.
c.[1v]: bianca.
c.[2r], con segn. a2, incipit epistola: Iohannes Bekenhaub Moguntinus Lectori Salutem. // … explicit, l. 33: Vale. Ex officina impressorie An//thonij Koberger civis Nurenbergensis. Anno xri(sti) I.4.9.9. mensis Februarij. die quarto. // segue: Dictionarij ad lectorem epygramma.
c.[2v – 3v]: Ordo dictionum prima pars.
c.4r, con n. I e segn. a4, col. 1: In nomine trinitatis individue: Repertorium morale // p(er)utile p(re)dicatoribus. Editum p(er) fratrem Petru(m) bercharij // pictavien(sis) ordinis sancti Benedicti. meritoq(ue) Dictionari//us appellatu(m). q(uonia)m quodlibet vocabulum (saltem p(re)dicabi//le) s(ecundu)m alphabeti ordine(m) dilatat. distinguit auctoritates di//vidit. applicatq(ue) exe(m)pla naturalia. figuras & enigmata. In//cipit feliciter. //…. col. 2, l. 70: Finis prologus.
c.4v, col. 1: Prima pars Dictionarij: ordine alphabetico (ut p(ro)lo//go….
c.263v, col.1 ( unica ), l. 27: Finit prima pars Dictionarij.
Formato risultante: mm. 320×215. Manca l’ultima carta, probabilmente bianca.
Legatura: ottocentesca, in pergamena rigida con dorso nervato. Taglio di testa fortemente rifilato.
Iniziali: solo la “A” iniziale del prologo e quella dell’incipit è disegnata in rosso.
Note manoscritte: rare postille marginali; in rosso qualche segno di paragrafo.
Note di possesso: sotto l’occhietto: “e(st) s. antonij à nerit.o “.
Stato di conservazione: ottimo, carte leggermente imbrunite.
c.[1r], titolo: Secunda pars Dictionarij // Incipit in littera E finiturq(ue) // in littera O inclusive.
c.[1v – 2v]: Ordo dictionum secunde partis.
c.3r, con n. I e segn. A4, col. 1: Secunda pars Dictionarij. De littera E. ante A. In//cipit feliciter.
c.319v, col. 2, l. 70: Explicit littera .D.
Formato risultante: mm. 320×215. Manca l’ultima carta, senz’altro bianca.
Errori nella segnatura delle carte: A4 A3; G3 I3.
Legatura: ottocentesca, in pergamena rigida con dorso nervato. Taglio di testa fortemente rifilato.
Iniziali: solo la “E” dell’incipit disegnata in rosso, per le restanti spazio con e senza letterina guida.
Note manoscritte: rarissime. Qualche segno di paragrafo in rosso.
Note di possesso: sotto l’occhietto:”Est Sancti Antonij Civitatis Neritinae”.
Stato di conservazione: quasi ottimo, carte imbrunite.
Collocazione attuale: RD – IV – A – 3.
Collocazione precedente: N 140 (sul dorso).
Inventario: 4608
Vol. III
car. got. magg. min., cc.[2], 254, coll. 2, ll. 74, segn. AA – ZZ8, aA – iI8, tit. corr., tab.
c.[1r], titolo: Tercia pars Dictionarij // Incipit in .P. littera usq(ue) // ad fine(m) durans alphabeti.
c.[1v – 2v]: Ordo dictionum in tercia & ultima parte dictionarij.
c.3r, con n. I e segn. AA3, col. 1: Incipit littera .P.
c.256r, con n. CCLIII, col. 2, l. 50, explicit: Regnat p(er) secula seculo(rum). Amen. // Deo gratias.
c.256v: bianca.
Formato risultante: mm. 320×215.
Legatura: ottocentesca, in pergamena rigida con dorso nervato. Taglio di testa fortemente rifilato.
Iniziali: La “P” dell’incipit è disegnata in rosso, per le restanti spazio bianco con e senza letterina guida.
Note manoscritte: rarissime postille marginali e qualche raro segno di paragrafo in rosso.
Note di possesso: sotto l’occhietto: “est S. antonij à nerino”.
Stato di conservazione: buono, carte imbrunite con qualche piccolo foro da tarlo.
Collocazione attuale: RD – IV – A – 4.
Collocazione precedente: N 141 (sul dorso).
Inventario: 4609
Dico subito che fino a cinque giorni fa di Pierre Bersuire non conoscevo neppure il nome e che la scelta di parlarne, dopo aver fatto la prima indagine, è maturata quando, nello scrivere il recente post sul tablet2 (complemento di argomento, non di mezzo e, in parte, di luogo …), mi sono imbattuto in rete in un altro incunabolo, in un’edizione diversa, custodito dalla nostra biblioteca. A quel punto chiedere a Marcello l’elenco completo tratto dall’opera da lui a suo tempo curata era un obbligo.
Eccomi, così, dopo l’assaggio del Supplementum Chronicarum di Iacopo Filippo Foresti da Bergamo del 1485 per i tipi De Boninis (Nardò possiede l’edizione veneziana del 1486 per i tipi di Benagli), ad annotare di un autore e di un testo quel poco che ho potuto racimolare, grazie alla rete, in questi ultimi giorni. E, siccome l’appetito vien mangiando, potrebbe venirmi lo schiribizzo di fare la stessa cosa con gli altri incunaboli Il massimo, poi sarebbe che nel frattempo a qualcuno (non necessariamente qualche colosso tipo Google …) venisse in mente di immetterne in rete la versione digitale di tutti (l’operazione, oltretutto, non richiederebbe troppo tempo essendo, debbo dire sfortunatamente, solo cinque); se ciò avvenisse, questa volta mi sentirei obbligato a perfezionare l’indagine già fatta e ad estenderla agli altri esemplari (che fino ad ora non ho visto nemmeno da lontano … ecco spiegato l’oscuro oggetto del desiderio di prima).
Chi era Pierre Bersuire (s’incontrano, fra le altre, anche le scritture Berceure, Bercheure, Berchoir, Bercheur)? Intanto il nome latinizzato era Petrus Berchorius. Nacque a Saint-Pierre du Chemin nel dipartimento della Vandea. S’ignora la data precisa di nascita ma in base a certe circostanze della sua vita e alla testimonianza del Petrarca, suo contemporaneo, con il quale ebbe occasione di incontrarsi, con una buona approssimazione si può affermare che nacque intorno al 1290. Ancora giovane divenne prima frate francescano, poi passò ai benedettini nell’abbazia di Maillezais. Prima del 1330 era ad Avignone, al seguito del cardinale Pierre Du Prat che era vice-cancelliere del Papa Giovanni XXII. Ad Avignone nel 1340 inizia la scrittura prima del Reductorium morale (il libro XV, come estratto, avrà vita autonoma a partire dal 1362 col titolo di Ovidius moralizatus3) e poi (ed è l’opera, la cui scheda ho riportato prima, che mi ha ispirato questo lavoro preparatorio) del Dictionarius seu repertorium morale (sarà completato nel 1359;. Nel 1342 è a Parigi dove corregge le due opere e verso il 1352 inizia la traduzione delle Storie di Tito Livio per incarico del re di Francia Giovanni II, lavoro probabilmente terminato nel 1355. Muore nel 1362.
Delle sue opere (soprattutto della traduzione di Livio) esiste un numero impressionante di manoscritti conservati in varie biblioteche. Comincio proprio da un esemplare del XIV secolo del Dictionarius seu repertorium morale custodito nella Biblioteca Nazionale di Francia, dal cui sito ho tratto le immagini che seguono riproducenti la a copertina e la prima carta di testo di ogni volume (quella del terzo, purtroppo, è vandalicamente mutilata (http://gallica.bnf.fr/Search?ArianeWireIndex=index&p=1&lang=EN&q=PETRI+BERCHORII&x=29&y=7).
Ecco ora il dettaglio del lemma ABIATHAR come è trattato nel primo volume (A-E; dipartimento manoscritti latini n. 8862; per il secondo, F-O, n. 8863; per il terzo, P-Z, n. 8861) dell’esemplare manoscritto e a p. 6 del primo volume dell’edizione uscita a Venezia in 3 volumi per i tipi di Geronimo Scoto nel 1574 (primo e secondo volume) -1575 (terzo volume).
Il modello manoscritto dei tre volumi continua nelle opere a stampa. Di seguito i frontespizi dei tre volumi dell’edizione uscita a Venezia, sempre per i tipi di Geronimo Scoto, nel 1583.
Ecco ora le carte iniziali di alcuni manoscritti del XIV secolo della traduzione delle Storie di Tito Livio custoditi nella stessa biblioteca (dipartimento manoscritti francesi):
L’importanza del nostro autore è sancita oltre che dal notevolissimo numero di manoscritti da quello altrettanto cospicuo delle edizioni a stampa delle sue opere, dei cui frontespizi offro una breve panoramica.
1 Il vocabolo, neutro plurale, è composto da in=dentro+cunàbula (anche questo neutro plurale)=culla e, per traslato, nido, nascita, origine; a sua volta cunàbula è da cunae=culla. Cunàbula è connesso con cùmbula o cýmbala=barchetta; cuna con cumba o cymba=barca. Evidente il valore diminutivo di cùmbula/cýmbala rispetto a cumba/cymba. In tutto questo c’è lo zampino del verbo cubare=giacere a letto, sedere a mensa, mangiare, giacere (in senso biblico) essere calmo, cullarsi. Cubare, a sua volta, presenta la radice senza infisso nasale presente invece nei composti recùmbere=tornare a letto, coricarsi, stendersi, cadere, incùmbere=stendersi sopra, applicarsi, mettersi all’opera e succùmbere=cadere o cedere sotto. Lascio al lettore indovinare le voci italiane derivate (decubito, con le sue piaghe, compreso) e concludo dicendo che cumba/cymba è in rapporto strettissimo col greco κύμβη (leggi kiùmbe)=coppa, tazza, piccola barca, testa.
3 Dell’Ovidius moralizatus abbiamo due manoscritti illustrati della seconda metà del secolo XIV, uno conservato a Gotha (Forschungsbibliothek, I 98), l’altro a Bergamo (Biblioteca civica Angelo Mai, Cassaf. 3, 4). Nell’immagine che segue un’illustrazione (carta 11 r.) del primo:
Unde abii redeo: torno al punto di partenza, cioè riprendo a parlare dei ditteri galatinesi, di quei proverbi che riguardano le donne e mettono in luce le loro virtù, i loro pregi e soprattutto i loro difetti.
D’altra parte
Nuddhra lingua aggiu ‘mparatu
de nuddhra sacciu nienti
ma viddhra de lu tata
sta mi scioca ‘nthr’alli dienti
Non ho imparato nessuna lingua, di nessuna so niente, ma quella di mio padre, in dialetto, mi sta giocando e ballando in bocca tra i denti.
Fèmmana culimpizzata né pe mujere né pe cagnata
Bisogna stare alla larga, ammonisce il popolo, da donne dal sedere a punta, perché oltre ad essere maliziose, sono seminatrici di zizzanie e di calunnie.
Pe’ na bbona maritata né socra né cagnata
La suocera e la cognata spesso sono artefici del cattivo andamento in un matrimonio. Loro peccano di egoismo e non tollerano la presenza di una donna estranea, che considerano come un’intrusa nella loro casa. Perciò è necessario evitarle, rinunciando ad una compagnia, che, quasi sempre, è equivoca.
Fèmmana ca lu susu si pitta è segnu ca lu sotta ffitta
Un tempo si riteneva che la donna la quale si imbellettava il viso e passava il rossetto sulle labbra fosse una donna di malaffare e desse in affitto parte del suo corpo. Immaginate voi se, oggigiorno, avesse riscontro questo proverbio. In che mondo vivremmo?
Signore de li signuri, quante cose sapisti fare! Alla fèmmana la cunucchia, allu masculu lu mmargiale
Mio buon Padre, quante cose hai saputo fare tu! Hai donato alla donna la conocchia per torcere la lana e poi filarla, all’uomo il manico della zappa per dissodare il terreno. Fuor di metafora lascio ai lettori qualsiasi altra interpretazione di questo ditteriu.
L’ommu cu lla pala e la fèmmana cu lla cucchiara
Spesso succede che in una famiglia si invertano le parti: l’uomo vuol vestire la gonnella e la donna pretende di infilare i pantaloni. E’ un controsenso, dice il popolo. Lasciamo le cose come stanno. L’uomo è nato per lavorare e dare sostentamento alla famiglia, la donna è nata per fare la massaia e per attendere alle faccende e alle cure domestiche.
Donna onurata nunn esse mai de lu talaru
Il telaio è una delle più importanti e più assidue occupazioni della donna. Il popolo da questa occupazione fa risaltare l’onestà della donna. Infatti colei che ci tiene al suo onore, che vuol essere rispettata, non fa la pettegola con le altre donne, non prende parte a certi discorsi: bada solo ai fatti suoi. La sua famiglia è tutto, il lavoro è la sua unica occupazione.
‘Na fèmmana e ‘na pàpara paranu ‘na chiazza
L’oca, quando starnazza, fa un chiasso infernale. Il popolo la mette insieme con la donna; la donna, infatti, per indole, è chiacchierona e troppo loquace. Quindi, unendo l’una all’altra, esse hanno la forza di creare da sole tutto quel chiasso, fastidiosissimo, che tu puoi sentire in piazza nei giorni di mercato.
La fèmmana nasuta ede puntusa, pittècula e cannaruta
Un naso grosso, lungo, appuntito, un naso aquilino deturpa la bellezza del corpo di una donna. Però per rivalsa questa donna, dice il popolo, è puntigliosa, pettegola e golosa.
Fèmmane e sarde su’ bbone quando su’ piccicche
Le donne giovani e le sardine sono molto appetibili e appetitose, mentre la fèmmana de quarant’anni, mènala a mare cu tutti li panni. Questa è una vera cattiveria verso il gentil sesso; ma un tempo, quando la donna raggiungeva quest’età, incominciava a percorrere la parabola discendente verso il tramonto della vita. Le cause erano molteplici: mettere al mondo figli e allevarli, badare alle faccende domestiche, lavorare nei campi, tessere al telaio, scarso nutrimento. Ecco perché invecchiavano precocemente. Però buttarla a mare con tutti panni, in modo che perisca più presto, sarebbe un’infamia!
Fèmmana curta, maliziusa tutta.
Non so perché il popolo si ostini a concentrare tutta la malizia su una donna di bassa statura. Forse vuol compensare la scarsa altezza con una dose abbondante di malizia? Ma se già le donne, in generale, son tutte maliziose, tanto che un altro proverbio recita: la fèmmana la sape cchiù longa de lu diàvvulu! Quest’ultimo potrebbe anche rappresentare un elogio per la donna se si rapportasse alla virtù della prudenza, di cui, è bene confessarlo, spesso le donne sono abbastanza fornite. Si tentano tanti mezzi, anche segretamente, per commettere qualche marachella all’insaputa della donna; ma lei è tanta brava a investigare, è tanta brava a darsi da fare, che scopre tutti gli altarini, viene a conoscenza di tutto e il maschio si trova impigliato nella rete come un pesce, proprio nel momento in cui pensava di averla fatta franca.
Donna bbeddhra e pulita senza dote se mmarita
La bellezza e la pulizia sono le due meravigliose attrattive di una donna. Sia l’una che l’altra sprigionano un fascino e un profumo inebriante, che conquistano i cuori. Non ha importanza se la donna sia povera: essere bella e pulita vale più della ricchezza di questo mondo. I suoi genitori non le hanno dato nulla in dote per il matrimonio? Pazienza! La bellezza, la semplicità, i nobili sentimenti bastano e avanzano.
Né fèmmana né tela a lluce de candela
Non si può esaminare alla flebile luce di una candela la qualità e il colore di una tela; puoi constatarne la consistenza e la fortezza, mai il colore. Lo stesso dicasi di colui che, al buio del tumulto di una passione, voglia giudicare una donna. E la passione per la donna ha tale potenza sul cuore dell’uomo da accecarlo fino all’aberrazione nei suoi giudizi, che meglio si potrebbero definire capricci. Volesse il cielo che i giovani, prima di apprestarsi al matrimonio, studiassero attentamente questo proverbio! Auguro loro, soltanto che li guidi non la pallida e smorta candela della passione ma la vivida luce della ragione.
In conclusione dedico quest’ultimo ditteriu alle donne: La fèmmana ede comu la menta: quantu cchiù la friculi cchiù ndora.
Est modus in rebus, sunt certi denique fines/ultra quos citraque nequit consistere rectum.
Sono due esametri di Orazio, il celebre poeta latino di più di duemila anni fa, come non sa chi, invece, leggendo e pronunciando Ora zio, crede di avere a che fare con il titolo di qualche commedia all’italiana, a compensazione, per la par condicio di Grazie, zia!, il film con Lisa Gastoni, che fece scandalo e furore nella mia verde età …
La traduzione in italiano dei versi orazioni è la seguente: C’è un limite nelle cose, ci sono, insomma, confini precisi al di là ed al di qua dei quali non può esistere il retto.
Dopo aver precisato, sempre per chi aveva letto Ora zio, che retto non sta per la parte finale dell’intestino, mi permetto di violentare il testo oraziano sostituendo rectum con vita e risparmiando, questa volta, la traduzione per l’esemplare di lettore (?) precedentemente indicato, anche se c’è sempre il rischio che egli, confondendo vita con Vita, si metta a terrorizzare pure con la citazione qualche ragazza con questo nome che lo ha respinto …
In realtà la violenza fatta ad Orazio è un pretesto per rendere ancora più attuali, se fosse possibile, le parole del poeta latino, alla luce dell’eclatante e per nulla esaltante (ma non per tutti …) fenomeno della moria dei nostri ulivi.
Senza girare attorno all’argomento, senza se e senza ma, senza bizantini distinguo, senza sofistici espedienti formali e concettuali, pronuncio il nome del colpevole corredandolo del suo bravo attributo, come si conviene nei resoconti di cronaca nera: non imprevedibile calamità o casuale incidente ma, più semplicemente, bieco profitto.
Profitto di per sé è una bella parola, perché ogni nostra azione, da quando siamo comparsi sul pianeta, è stata strumentale all’acquisizione di un vantaggio. Se l’uomo, provando e riprovando, non avesse scoperto che una scheggia di selce gli consentiva di squartare più facilmente gli animali catturati o … di eliminare un rivale, noi oggi troveremmo, se non tenessimo conto delle ere geologiche e dei loro sommovimenti, tutte le rocce del mondo inutilizzate ed esattamente com’erano milioni di anni fa.
Quel provare e riprovare ha consentito lo sviluppo della civiltà e del progresso nelle forme che conosciamo. Il nostro imperdonabile e, secondo me, esiziale errore è stato quello di pensare che tutto ciò fosse inarrestabile, tanto meno rallentabile e, comunque, controllabile, e che il metodo sostanzialmente di rapina delle risorse naturali fosse corretto e senza conseguenze immediate per la nostra vita e, paradossalmente, per lo stesso progresso.
La stessa ricerca scientifica, che sul prova e riprova si basa, per volere del mercato e, dunque del profitto, ha subordinato il suo aspetto puro (la cosiddetta ricerca di base) al principio imperante del tutto e subito (la cosiddetta ricerca applicata) e, siccome bisogna recuperare con gli interessi quanto più presto è possibile le somme investite, sarebbe inimmaginabile per la legge del bieco profitto che qualsiasi prodotto (quello che volete: un conservante, un colorante, un diserbante …) venisse testato per un numero ragionevole di anni al fine di verificarne indesiderabili effetti collaterali.
Da quando poi la chimica ha preso piede i rischi che la natura reagisse al corpo estraneo sono aumentati in maniera esponenziale e, è risaputo, certe sostanze possono manifestare i loro effetti a distanza di decenni (non parliamo di quelle radioattive …). Una multinazionale creatrice di una nuova molecola può attendere tanto tempo prima di immetterla nel circuito commerciale? E se per un farmaco anticancro la trafila è abbastanza rigorosa prima del suo impiego clinico generalizzato, pretendete che lo stesso rispetto venga riservato, per esempio, a tutte le forme di vita presenti in un campo infestato dalla gramigna?
Siamo sicuri che tutto il nostro olio e tutto il nostro vino (parlo di quelli non sofisticati …), grazie ai quali faticosamente negli anni abbiamo acquisito il ruolo di protagonisti sul mercato mondiale del cibo, non presentino tracce di sostanze nocive per la salute passate dal terreno alla pianta, dalla pianta al frutto e da questo al prodotto finale?
E la pratica continuata per anni di usare i diserbanti per tenere pulito lo spazio sottostante gli ulivi e per velocizzare, di conseguenza, la raccolta del frutto non ha finito, fra l’altro, per trasformare la parte superficiale del terreno in una sorta di pellicola impermeabile avvelenata e velenosa?
Vorrei sbagliarmi ma vedo nella gran parte dei ricercatori di oggi dei geni (?) che giocano al piccolo chimico da una parte e, per quanto riguarda la biologia, dei geni (?) che giocano con i geni (stavolta senza punto interrogativo, perché mi riferisco a quelli delle cellule), per cui dobbiamo sorbirci, tra le altre amenità, l’impudica, sfacciata, ipocrita e criminale promessa che l’agricoltura transgenica risolverà il problema della fame nel mondo. E intanto si è già innescato, complice anche una legislazione in modo certamente non disinteressato compiacente, un processo sulla cui funesta irreversibilità non c’è stato un controllo serio, cioè scientificamente fondato (mica si può perdere tempo …).
Naturalmente, per chi ha fatto del bieco (come non definire così quello informato al metodo prima indicato?) profitto lo scopo della sua vita, l’allarme lanciato, e da tempo, dai naturalisti e da ricercatori indipendenti (razza in estinzione per fame, visto che anche quelli dipendenti non navigano certo nell’oro dei componenti del consiglio di amministrazione delle multinazionali al cui servizio hanno prostituito la loro intelligenza) è solo un assordante ed osceno stridere di gufi, come se la lenta morte del pianeta non riguardasse anche i loro figli (a meno che non abbiano già pronto il loro bunker di sopravvivenza …).
Mi sembra ingeneroso, poi, vista la commistione tra scienza, profitto e potere di cui ho parlato prima, mettere sotto accusa il comportamento degli agricoltori (il loro cervello è fino, ma quello degli scienziati, dicono, è un’altra cosa …) imputando loro l’abbandono di antiche tecniche certamente più rispettose dell’ambiente. Non si può pretendere che si mantenga eroe chi è stato inesorabilmente costretto a diventare vile per poter sopravvivere. E, per passare dai diserbanti ai pannelli solari, cosa si può rimproverare al contadino che per diecimila euro ha venduto il suo ettaro di terreno, dal quale non avrebbe potuto guadagnare tale somma nemmeno dopo venti anni di duro lavoro, all’affarista che tra qualche anno fruirà (lui sì …) del contributo statale per lo smaltimento del silicio, sempre che non gli convenga smantellare il tutto dopo che quel terreno è diventato, per opera e virtù di qualche spirito non (Mon)santo, suolo edificabile?
Per tornare ai nostri ulivi. Al di là delle conseguenze apocalittiche che gli interventi decisi provocherebbero sull’intero ecosistema (paradossalmente il rimedio proposto potrebbe essere stato, se non la causa principale, almeno una concausa del male), siamo veramente sicuri di poter impedire in questo modo la diffusione della malattia? E i cervelloni della comunità europea sono veramente sicuri che non si tratti di un’epidemia (pandemia mi pare esagerato) che, al pari di quella umana, dopo un periodo di picco si estingue naturalmente, anche perché nel frattempo alcuni soggetti son diventati immuni? E nel frattempo (senza gettare il bambino insieme con l’acqua sporca, cioè senza fare terra bruciata) non sarebbe il caso di intensificare gli studi in tal senso?
Sì, ma dovremmo farlo noi salentini. E chi potrebbe finanziare una ricerca indipendente (si spera che almeno quella statale in qualche misura lo sia) al fine di recuperare, per giunta in tempi lunghi, un profitto già da tempo precipitato e oggi annullato dalle sciagurate politiche di questi ultimi anni?
E, sebbene sia uno stupido sentimentale e anacronistico lodatore del tempo che fu, mi sono limitato a considerare solo l’aspetto economico dell’ulivo. Per il resto mi auguro che la nostra umanità recuperi in generale il senso dell’aldi là,dell’al di qua e del retto oraziani, e che non confidi, per quanto riguarda quest’ultimo, in quella sua trasposizione metonimica che si chiama culo, solo perché destinato al su…ccesso.
Lettera aperta al Commissario speciale sulla “presunta” e nebulosissima emergenza “Xylella” in Salento!
Converta l’attuale folle piano anti-xylella, da “Piano BOIA” quale è oggi, a “Piano di SALVEZZA” per il Salento!
E operi per scoprire tutta la Vera Verità sottesa dietro un piano tanto assurdo, impopolare, astorico e illogico!
Si stanno manifestando, intanto, le prime virtuose e responsabili obiezioni di coscienza all’attuazione del piano biocida anti-xylella. In un convegno nei giorni scorsi in un comune del Parco naturale dei Paduli nel cuore del basso Salento, un forestale di alto grado ha dichiarato pubblicamente: «io mi rifiuterò di spandere pesticidi sulla macchia mediterranea!»
E intanto sui social network si condivide tantissimo in queste ore un video toccantissimo estratto dal film intitolato “Il Segreto del Bosco Vecchio” del regista Ermanno Olmi, cui la voce popolare ha aggiunto il seguente commento eloquentissimo: Il Governo ha chiesto ai Forestali di distruggere il Salento, ma la Forestale lavora per la Natura! Dal film “Il segreto del bosco vecchio”, saggezza e speranza nel dramma della maxi Frode della “Xylella”, link video: https://www.youtube.com/watch?v=bqR7h5ej89k
Uno scandalo ormai dilagante a livello internazionale con inchieste giornalistiche, non più solo locali, ma da parte di testate estere ed internazionali, alla ricerca dei retroscena che possono spiegare tanta operazione illogica e astorica a innumerevoli fondi pubblici!
Si indaga su possibili interessi e forzature che possono avere indotto il sistema Italia e Puglia, per il fomentato caso “xylella”, a portare il Salento sull’ orlo di un tale apocalittico baratro, economico, sanitario ed ecologico assolutamente da scongiurare! Si considerino in merito gli spunti provenienti dalla eloquentissima e dettagliata denuncia da parte di senatori salentini attraverso interrogazioni parlamentari (vedi: http://parlamento17.openpolis.it/atto/documento/id/65873, dove leggiamo: «nel Salento il caso “Xylella” potrebbe celare interessi speculatori»), e anche il recente rapporto Eurispes intitolato “Agromafie. III Rapporto sui Crimini Agroalimentari”, coordinato dal giudice Giancarlo Caselli e in cui si trova un paragrafo proprio dedicato a “Lo Strano Caso della Xylella” in Salento (vedi: http://eurispes.eu/content/agromafie-eurispes; qui capitolo dedicato al Salento: http://www.csvsalento.it/upload/doc/notizie/libro-agromafie2015.pdf).
Un’ operazione, quella dell’ odierno piano anti-xyella, tanto palesemente illogica, con contraddizioni continue, ben visibili anche ad un bambino di scuola elementare, da sfociare nel RIDICOLO, se non fosse per la tragicità delle conseguenze del folle piano Biocida, Genocida e Geocida per i suoi effetti e per le sue previsioni operative sproporzionate rispetto ad ogni punto di vista.
Ad esempio questi aneddoti, ahinoi legati alle parole pronunciate in pubblico da protagonisti di questo scandalo Xylella:
-) il grosso della legna di alberi tagliati detti “infetti”, che in un primo momento si diceva di fare seccare in loco per abbattere l’eventuale presenza batterica, prima di asportarli, oggi si dice che possono essere subito asportati via e usati quindi come biomassa, come già in alcune denunciate occasioni è scandalosamente avvenuto, sotto gli occhi delle telecamere e di giornalisti, in questi mesi nella farsa della “xylella”;
-) i polloni verdi e forti dalle radici vivissime degli ulivi oggi in ripresa, e che avevano avuto sintomi di rami secchi, definiti come la barba che continuerebbe a crescere per un po’, si dice, sui cadaveri! Spacciati così per sintomo di morte, quando son invece sintomo massimo di Vita e rigenerazione! E’ la costruzione e diffusione della mistificatoria “mitologia della Xylella”, funzionale alla maxi-frode della “Xylella”, che usa il fantomatico microorganismo in tutte le salse come cavallo di Troia;
-) il divieto-consiglio di tenere chiusi in estate i finestrini delle auto quando si dovesse transitare nella provincia di Lecce, a sud della città di Lecce, area tutta bollata oggi dall’ ente Regione come “rossa”, infetta, quando così assolutamente non è! Questo perché degli insetti graziosissimi innocui e minuti, i cicadellidi, potrebbero entrare in auto ed essere trasportati nel resto d’Italia. Aggiungendo che già un cicadellide avrebbe fatto così il viaggio clandestino dal Salento a Roma in un’auto dove poi a Roma sarebbe stato ritrovato … e di certo poi lì schiacciato!
E a tali insetti autoctoni si vorrebbe fare ora la guerra irrorando ovunque tonnellate di pesticidi delle multinazionali; multinazionali presso i convegni delle quali, organizzati nel mondo ora per il montato, anche senza solidi fondamenti scientifici, caso xylella-olivi, scandalosamente partecipano protagonisti regionali di questo brutto affare, come si è scoperto da link di questi convegni, con foto che li ritraggono, diffusi in rete, e che stanno destando enorme indignazione popolare!
Finestrini chiusi poiché potrebbero entrare in auto i cicadellidi ed esser così trasportati altrove. I Cicadellidi, si dice, potrebbero veicolare da un albero all’altro la Xylella, che ben si legge negli studi scientifici odierni non essere la causa prima, ma al più potrebbe al limite essere un cofattore, non dimostrato, della sintomatologia osservata sugli ulivi con alcuni rami e fusti disseccatisi nel Salento; rami in realtà seccati dall’opera di funghi ed insetti fondamentalmente, si dice nei medesimi studi!
Ma la Xylella fa comodo mettercela dentro perché per le leggi attuali europee permette di fare scattare “quarantene” dei pieni poteri e dei molti denari, per distruggere e non per curare, anche se si dimostra presente la Xylella in maniera asintomatica per le piante, e questo è ancor più assurdo, e fa riflettere sulla follia dell’attuale scandalo pugliese!
Chissà, forse qualcuno, con rimorsi di coscienza, spera così di minimizzare l’aspirazione nei polmoni dei bambini in auto dei pesticidi nocivissimi che con queste scuse folli si vorrebbero irrorare senza alcun senso per il bene delle multinazionali dell’agro-chimica. E già dicendo che potrebbe persino essere tale chimicizzazione forsennata un intervento agronomicamente inutile!
Pesticidi che si vorrebbe irrorare anche sulla macchia mediterranea e sui muretti a secco, e siamo dal punto di vista naturalistico così in una delle massime vette di crimini progettati contro la natura!
La LILT lega Italiana per la Lotta ai Tumori con il famoso oncologo Giuseppe Serravezza ha fortemente denunciato la pericolosità per la salute umana e per l’ ecosistema di tale piano anti-xylella.
Grandi lacune naturalistiche per scadere in tali insane e ridicole prescrizioni che non fanno altro che alimentare la psicosi che con innumerevoli osceni “convegni del terrore” si continua a spandere da mesi e ancora in questi giorni nella Provincia di Lecce, portando in un Salento verde e vivissimo i contadini ad un altissimo livello di esasperazione, e sull’orlo di crisi di nervi e di speranza, che possono portarli a diventare essi stesi esecutori di tagli scriteriati di olivi vivi sanissimi, o in ripresa! Trasformati così in esecutori materiali, in suicidi boia, di un piano boia!
Contadini e operatori di attività agricole e biologiche, apicoltori, imprenditori agro-turistici e turistici portati all’esasperazione da questa condotta fraudolenta immorale, che potrebbe condurre persino a insani pensieri autolesionistici persone più emotivamente fragili! Possibile che non si abbia un minimo di senso di pubblica responsabilità!?
Convegni che indignano e da stigmatizzare con piena forza!
La stragrande maggioranza degli ulivi nella zona che oggi “loro” dicono infetta, rossa, son verdissimi e sanissimi; quella frazione di ulivi colpita da sintomi di disseccamento, son in gran parte non certo disseccatisi completamente ma in ripresa vegetativa, almeno dalla radice con polloni forti e rinnestabili, quando non anche dai fusti, che si erano spogliati, con l’emissione di nuovi getti, (aspetti che il “regime xylella” cerca di negare e minimizzare in tutti i modi!).
Come ogni patologia, anche quella del neo-battezzato CODIRO degli ulivi in questione, acronimo di “Complesso” del disseccamento solitamente parziale dei rami degli alberi, (complesso perché vi si osservano vari patogeni come funghi e insetti), fa la sua parabola: compare, si diffonde, e poi scompare nella ripresa della maggior parte degli alberi, come ogni raffreddore o influenza per l’uomo. Da qui la fretta di “eradicare”, togliere le radici e dunque non solo tagliare, con la scusa della quarantena da xylella eventualmente presente sebbene potenzialmente innocua, altrimenti si scoprirebbe che gli olivi sopravvivono e ritornano in produzione!
—————————–
IL COMMISSARIO PRESO ATTO ORA DELLA “VERA” SITUAZIONE
(e dello tsnunami popolare di manifestazioni e denunce contro il piano anti-xylella a base di nociva agro-chimica ed eradicazioni, piano definito senza mezzi termini “CRIMINALE” sui media da stessi esponenti politici della maggioranza in Regione Puglia) “FERMI” CON LA SUA AUTORITA’ :
-) ogni uso di erbicidi e pesticidi in tutto il Salento ;
-) la realizzazione di inutilissimi cordoni desertificati artificialmente con la scusa di limitare la diffusione di Xylella più a nord, quando già si dice che “Xylella” sarebbe già persino ben oltre quel limite!)!
-) fermi ogni eradicazione di Olivi come di ogni altra essenza (Oleandri inclusi, meritevoli di massima tutela, come ogni altra specie animale e vegetale che sia, insetti naturalmente inclusi!), fermi questo ovunque in tutto Salento!
-) sblocchi le attività vivaistiche ingiustamente bloccate dal vendere in provincia di Lecce diverse piante persino autoctone!
-) tolga i divieti sacrileghi immorali e assurdi di impianto di piante della nostra tradizione agricola e della nostra storia naturale!
E soprattutto
-) dalla sua posizione privilegiata, operi per scoprire tutta la Vera Verità sottesa dietro un piano tanto assurdo e astorico, illogico come agli occhi di ogni persona saggia coscienziosa e soprattutto ad ogni naturalista subito appare; un piano in cui si nega nella comunicazione la presenza di innumerevoli alberi d’olivo, la stragrande maggioranza, del tutto sani, e si cela la ripresa di innumerevoli alberi di olivo che hanno presentato sintomi di disseccamento, (ripresa spontaneamente come anche dopo cure agro-ecologiche), dando così l’ idea distorta di un Salento con piante affette e moribonde che è lontanissimo dalla verità verde e ubertosa di questa terra in questi mesi!
Il Commissario diventi da responsabile potenziale avallatore di distruzione ed avvelenamenti dannosi per ecosistema, economia e cittadini, il “salvatore del Salento” invece, nel buon nome di chi ha scelto come professione quella di difendere la Natura sopra ogni cosa!
Si all’ Agroecologia – cura e non tortura per olivi ed ecosistema del Salento !
Espliciti e affermi con forza la necessità di fermare il piano attuale a base di chimica (ergo speculazione a favore delle multinazionali dei pesticidi), e a base di eradicazioni forsennate e biocide (ergo a favore delle centrali elettriche delle biomasse del sud Italia, e della liberazione di suoli per varie speculazioni cementificatorie o per manovre agro-speculative),
nel verso invece della attuazione di un sostitutivo piano virtuoso fondato sull’AGROECOLOGIA per la cura delle piante e dell’ ecosistema salentino, dove la biodiversità è elemento prioritario da tutelare, contro chi pensa di inseguire soluzioni distruggendo anelli (insetti, piante, ecc,) dell’intricata catena alimentare dell’equilibrio della Natura e dell’agro-natura.
Salento in cui vietare per sempre e del tutto l’ uso dei pesticidi contro erbe ed insetti!
Per gli uliveti Salentini e Pugliesi tutti abbiamo bisogno dell’impegno di ognuno di noi per il loro riconoscimento come agro-foresta e patrimonio UNESCO dell’ Umanità, e in tal senso siamo certi si impegnerà anche il Commissario, fermato ora e subito con tutta la sua autorità e autorevolezza questo piano infernale ridicolo e tragico al contempo!
Il Forum Ambiente e Salute
——————–
Info:
Forum Ambiente e Salute del Grande Salento
rete apartitica coordinativa di movimenti, comitati ed associazioni a difesa del territorio e della salute delle persone
Lecce, c.a.p. 73100 , Via Vico dei Fieschi – Corte Ventura, n. 2
Con il termine di prodotti fitosanitari viene compreso un vasto gruppo eterogeneo di principi attivi di sintesi dalle diverse proprietà chimiche e tossicologiche che svolgono numerose funzioni (insetticidi, acaricidi, fungicidi ed erbicidi), che da oltre mezzo secolo utilizziamo in agricoltura per poter vincere la concorrenza di erbacce insetti e parassiti vari sui nostri prodotti ortofrutticoli. Per ottenere sempre più un prodotto “migliore” e commerciabile e anche introiti maggiori, abbiamo modificato in nome del “progresso”, equilibri ecologici, che hanno portato alla sterilizzazione del suolo e ad un impoverimento della biodiversità, e per avere le “ angurie in inverno e i gli agrumi in estate“, gli equilibri temporali, facendoci perdere il gusto dell’attesa delle stagioni che venivano sancite da quel frutto o da quell’ortaggio caratteristico ed esclusivo che maturava durante quel periodo temporale. In più abbiamo ingerito e accumulato nel tempo nel nostro organismo tutta una serie di sostanze chimiche estranee che hanno interagito con le nostre cellule incidendo sulla nostra salute.
L’azione dei fitofarmaci sulla salute umana
L’esposizione ai prodotti fitosanitari assume un particolare rilievo dal punto di vista sanitario e sociale data la grande diffusione in agricoltura. I principi attivi in essi contenuti possono avere proprietà genotossiche, teratogene, immunotossiche, ormonali e cancerogene sia per gli operatori agricoli, che per la maggior parte dei casi non utilizza i dispositivi individuali di protezione (mascherine idonee, ecc.), sia per la gente che vive nell’ambito delle aree agricole ove i pesticidi sono usati, ma anche per la gente che vive nei paesi che inala diretta i principi attivi dei fitofarmaci dispersi nell’aria o negli aerosol trasportati. Per non parlare dell’uso di acqua e alimenti contaminati. Gli effetti esercitati sugli organismi da parte di queste molecole son molto complessi e difficili da valutare, possono essere di tipo acuto, cronico, e in particolare cancerogeni, riproduttivi e anche neurologici. Si registrano effetti anche a dosi infinitesimali (per l’atrazina sono descritti effetti a dosi 30.000 volte inferiori ai limiti di legge) anche se siamo esposti a veri e propri cocktail di molecole tossiche. Nel nostro paese il consumo per ettaro di pesticidi è il più alto d’Europa.
Breve sintesi delle conseguenze dei fitofarmaci sull’ecosistema
Una delle matrici ambientali più sensibili e vulnerabili ai prodotti fitosanitari è rappresentata dall’ambiente acquatico, sia superficiale che sotterraneo, che può essere contaminato per dilavamento superficiale, drenaggio o percolazione.
L’uso degli insetticidi ha inciso sulla diminuzione delle popolazioni di un elevato numero di specie di insetti impollinatori, tra cui le api e le farfalle, ecc., oltre ad una moltitudine di insetti che si nutrono a loro volta di quegli insetti fitofagi “dannosi alle colture” e probabili vettori di batteri fitopatogeni; venendo a mancare i “predatori” aumentano le popolazioni degli insetti che aggrediscono ancor di più le colture, così dobbiamo utilizzare sempre più gli insetticidi per cercare di debellarli! Di conseguenza anche le popolazioni stanziali di pipistrelli e di uccelli insettivori sono diminuiti nel tempo nelle nostre campagne e nei nostri paesi.
Gli insetticidi inoltre hanno sterilizzato il terreno eliminando migliaia di batteri, vermi, nematodi, lombrichi,ecc., importanti per la degradazione della sostanza organica, dei sali minerali e degli scambi gassosi. Il terreno è diventato sterile e asfittico. Un vero e proprio collasso eco-sistemico ! Anche gli esseri più forti e tenaci come i nostri olivi millenari ne stanno risentendo, avendo compromesso le proprie difese immunitarie; indebolendosi, sono stati aggrediti e sopraffatti da una serie di attacchi congiunti, da batteri xilematici mai osservati o studiati prima d’ora in Europa come la Xylella fstidiosa, funghi lignicoli che occludono i vasi xilematici, larve xilofaghe del lepidottero Zeuzera pyrina che scavando gallerie nei rami e nel tronco contribuiscono ulteriormente al disseccamento e al decadimento del legno!
L’utilizzo degli erbicidi ha ridotto o fatto scomparire del tutto dai terreni coltivati una ricca biodiversità vegetale, che da sempre è stata cibo e cura per generazioni di salentini.
La Comunità Europea ai fini dell’utilizzo sostenibile dei pesticidi ha emanato la
Direttiva 2009/128/CE
recepita dallo Stato Italiano con D. L.vo 14 agosto 2012 n° 150
All’Art 1 si legge: Il presente decreto definisce le misure per un uso sostenibile dei pesticidi, ridurre i rischi e gli impatti sulla salute umana, sull’ambiente e sulla biodiversità, promuovere l’applicazione della difesa integrata e di approcci alternativi o metodi non chimici.
Cos’è la Difesa integrata
Gli Stati membri adottano tutte le necessarie misure appropriate per incentivare una difesa fitosanitaria a basso apporto di pesticidi, privilegiando ogni qualvolta possibile i metodi non chimici, affinché si adottino le pratiche o i prodotti che presentano il minor rischio per la salute umana e l’ambiente tra tutti quelli disponibili per lo stesso scopo.
Principi generali di difesa integrata La prevenzione e la soppressione di organismi nocivi dovrebbero essere perseguite o favorite in particolare da: – rotazione colturale, utilizzo di tecniche colturali adeguate (ad esempio falsa semina, date e densità della semina, sottosemina, lavorazione conservativa, potatura e semina diretta), — utilizzo, ove appropriato, di «cultivar» resistenti/tolleranti e di sementi e materiale di moltiplicazione standard/ certificati, utilizzo di pratiche equilibrate di fertilizzazione, calcitazione e di irrigazione/drenaggio, protezione e accrescimento di popolazioni di importanti organismi utili, per esempio attraverso adeguate misure fitosanitarie o l’utilizzo di infrastrutture ecologiche all’interno e all’esterno dei siti di produzione (guarda caso le ancestrali pratiche agronomiche da sempre utilizzate dai nostri Avi !). Ai metodi chimici devono essere preferiti metodi biologici sostenibili, mezzi fisici e altri metodi non chimici se consentono un adeguato controllo degli organismi nocivi. I prodotti fitosanitari sono quanto più possibile selettivi rispetto agli organismi da combattere e hanno minimi effetti sulla salute umana, gli organismi non bersaglio e l’ambiente.
Aree sensibili e l’uso dei fitofarmaci
L’uso dei pesticidi può rivelarsi particolarmente pericoloso in aree molto sensibili, come i SIC, siti di importanza comunitaria appartenenti alla rete Natura 2000, caratterizzati da una serie di habitat peculiari e rari e che sono protetti a norma delle direttive 79/409/CEE e 92/43/CEE, i parchi naturali dello Stato, i parchi regionali, le Riserve Naturali Orientate, le oasi di protezione, che tutelano gli ecosistemi e la BIODIVERSITA’ animale e vegetale in essi presenti! Ma oggi le linee guida della Regione Puglia per contenere e far regredire le popolazioni degli insetti della famiglia dei Cicadellidi, che veicolerebbero la diffusione del batterio Xylella fastidiosa, indicherebbero l’utilizzo degli insetticidi anche su aree prative e/o coperte da macchia mediterranea!!! Che controsenso ! Ma ci pensate ? Sarebbe un vero e proprio ecocidio! Per farvi comprendere scomparirebbero migliaia di specie di insetti, di cui alcuni impollinatori specifici di particolari piante come le orchidee spontanee, fiori enigmatici ed evoluti che crescono nei nostri prati. Ogni specie di orchidea spontanea viene impollinata da un insetto specifico. Se spariscono gli insetti automaticamente sarà il declino per queste piante! Nel nostro Salento ne fioriscono oltre 50 specie differenti !
In altre aree come i parchi e giardini pubblici, i terreni sportivi e le aree ricreative, i cortili delle scuole e i parchi gioco per bambini, nonché in prossimità di strutture sanitarie, i rischi derivanti dall’esposizione ai pesticidi sono elevati. In queste aree, l’uso di pesticidi dovrebbe essere vietato o ridotto al minimo. Qualora siano utilizzati pesticidi, è opportuno definire adeguate misure di gestione del rischio e prendere in considerazione, in primo luogo, pesticidi a basso rischio così come misure di controllo biologico.
L’irrorazione aerea è vietata
L’irrorazione aerea può essere autorizzata dalle Regioni, previo parere favorevole del Ministero della Salute, sentiti il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali e il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, solo in casi particolari, qualora siano soddisfatte le seguenti condizioni: a – non devono esistere modalità di applicazione alternative praticabili dei prodotti fitosanitari, oppure l’irrorazione aerea deve presentare evidenti vantaggi in termini di riduzione dell’impatto sulla salute umana e sull’ambiente; b– i prodotti fitosanitari utilizzati devono essere già registrati in seguito ad autorizzazione rilasciata dal Ministero della Salute per l’impiego nell’irrorazione aerea.
Riporto per completezza idati del Gruppo di lavoro fitofarmaci delle Agenzie Ambientali relativo al solo anno 2011relativi ad alcuni fitofarmaci venduti in Puglia
SOSTANZA ATTIVA AZIONECONSUMO Kg/anno
Glifosate ( Roundup –Monsanto) diserbante 255.230 Kg
Diquat diserbante 1713 kg
Imidacloprid insetticida 2524 kg
Mancozeb fungicida 99.109 Kg
Tiofanato-metile fungicida 2509 Kg
Ossicloruro di rame fungicida 77.604 Kg
Rame ossicloruro tetraramico fungicida 75.534 Kg
Clorpirifos insetticida 41.065 Kg (revocato dal M.S c 12 giugno 2012, fortemente liposolubile nell’olio d’oliva)
2,4 D fenossiderivati Nufarm erbicidi ampia scala 18.728
Clorpirifos-metile insetticida a largo spettro 18.179 Kg
Ziram dimetilditiocarbammato fungicida 9.109 kg
Metiocarb Insetticida e lumachicida 8.734 Kg
Cimoxanil fungicida 85.08 Kg
Folpet fungicida 7.419 Kg
Dove sono andati a finire tutte queste tonnellate di fitofarmaci? Quale futuro vogliamo per la nostra salute, dei nostri figli e del territorio?
Cosa vogliamo mangiare? Un mela col bruco o una mela integra e luccicante al cocktail di 40 pesticidi differenti?
Il futuro dipende solo dalle scelte che faremo oggi !Io dico basta all’uso dei fitofarmaci!
Salviamo il Salento, la nostra salute, le colture e i nostri olivi, straordinari e irripetibili opere botaniche, adottando le buone pratiche agricole e di difesa integrata!
* Tecnico per la Tutela dell’Ambiente, Naturalista
La giovane età dell’autrice conferma la mia inveterata opinione che, se i vecchi non sono a priori da rottamare, insieme con il loro prezioso carico di esperienza di vita, dai giovani, questi ultimi possono, checché si dica di loro (come se non costituissero il frutto dell’educazione, in senso etimologico …, da noi proposta con l’esempio e non rozzamente imposta), fungere da momento di ispirazione per chi è avanti negli anni, da catalizzatore per fare di uno stanco vecchio, per quanto ancora potenzialmente creativo, un vecchio concretamente creattivo (inutile cercare questa voce sul vocabolario, l’ho inventata io).
L’articolo di Alba mi ha dolcemente costretto, con il suo responsabile e motivato entusiasmo, a proporre una sorta d’integrazione divulgativa tesa a mettere in risalto della nostra essenza non solo l’innegabile bellezza e la sua importanza per la probabile natura autoctona ma la sua presenza nella storia antica dell’umanità (con risvolti, come vedremo, estremamente pratici perché attinenti al bene più prezioso, la salute), sia pur in varietà per le quali già per gli addetti ai lavori (figurarsi per me …) appare difficile l’identificazione rispetto alle attuali. Alba non me ne vorrà se per l’immagine di testa mi sono permesso di utilizzare una delle sue macro-stupende foto.
Ho pensato, così, di raccogliere le principali testimonianze degli autori greci e latini nella mia traduzione, riportando, però, in nota il testo originale in modo da consentire a chi ne ha voglia e competenza un agevole controllo (in politichese si chiamerebbe trasparenza e, proprio perché è alla base dell’autentica democrazia, tutti ne parlano, nessuno la rispetta …). Insomma un vecchio che funge da intermediario, generazionalmente e … grammaticalmente parlando, tra il passato remoto e il presente-futuro, intromettendosi con la sua competenza (almeno si spera …) settoriale tra la fresca sensibilità poetica di Alba De Pascali e l’umana e umanizzante acribia del professore Piero Medagli.
Qualcuno si ostina ancora nell’assurda idea della contrapposizione tra le due culture, c’è pure chi, scimmiottando i rigurgiti politico-economico-religiosi (non a caso ho messo questo segmento per ultimo …) in corso, va predicando la superiorità della poesia sulla scienza o viceversa. C’è chi, forse più intelligentemente, asserisce che probabilmente ci salverà la bellezza; condivido pienamente ma dico pure che anzitutto bisogna rispettarla e che per rispettarla bisogna conoscerla. Mi auguro di aver reso un po’ concreto l’astratto e se qualcuno nel corso di qualche sua passeggiata incontrando il “nostro” iris (ma il discorso vale anche per quello “altrui”; e non solo per l’iris …) si soffermasse a contemplarne la bellezza, a riflettere sulla sua storia millenaria e, soprattutto, a lasciarlo vivo e intatto nel suo habitat, allora sì queste mie parole, e quelle di Alba prima delle mie, non sarebbero state scritte invano.
Teofrasto (IV-III secolo a. C.): Quasi tutti gli aromi e odori eccetto quelli dei fiori sono secchi, caldi e astringenti, avendo pure una qualche amarezza, secondo quanto ho detto prima, come l’iris, la mirra, l’incenso … 1; Diminuisce meno il vigore dell’essenza per quelli che riscaldati assumono nobili aromi a differenza di quanto succede con quelli freddi, poiché i riscaldati si mescolano alcuni con vino profumato, altri con acqua; infatti assorbono meno. I freddi, invece, essendo seccchi, assorbono di più, come l’iris pestata. Dicono infatti che se un’anfora di iris pestata si unisce ad un medimno e due sestari, l’essenza perde molto del suo vigore, se si fa macerare moderatamente se ne ricavano due congi, il minimo. L’unguento di iris poi riesce meglio se l’iris è secca e non cotta; il vigore infatti si riduce se viene macerata e cotta2; Calda ed astringente è pure l’iris; quando è fresca è pungente oltre misura e ulcera la pelle di quelli che la maneggiano3; Molto durevoli sono l’unguento egizio, quello di iris, quello di maggiorana e quello di nardo, tra tutti di gran lunga quello che trasuda; infatti dura per moltissimo tempo. Un profumiere raccontava di aver conservato l’egizio per otto anni, quello di iris addirittura per venti e ancora risultava migliore di quelli che erano al culmine del loro vigore. In essi dunque c’è una lunga durata4; Infatti anche l’iris, come si disse, stimola l’intestino5; Alcune (radici) sono profumate, come quelle dell’iris6; Tra le aromatiche nessuna è tra queste, eccetto l’iris in Illiria e intorno all’Adriatico; qui infatti è buona per l’uso e di gran lunga migliore delle altre7; Il gladiolo è simile ad una spada, dettaglio da cui prende pure il nome; l’iris invece è più simile ad una canna8; Anche l’iris fiorisce in estate9; Le piante che si utilizzano per estrarre aromi sono pressappoco queste: cassia, cannella, cardamomo, nardo, nairon, balsamo, aspalato, storace, iris, narte, costo, panacca, croco, mirra, cipero, giunco, canna, maggiorana, loto, anice. Di questi (si usano) ora le radici, ora la corteccia, ora i ramoscelli, ora il legno, ora i semi, ora il succo, ora i fiori10;
Dioscoride (I secolo d. C.): L’iris illirica ha foglie simili a quelle del gladiolo, ma più grandi più larghe e più grasse, fiori paralleli sullo stelo, curvi, variopinti; se ne vedono infatti o di bianchi o di gialli o di purpurei o di colore azzurro cupo, donde per i vari colori viene paragonata all’arcobaleno del cielo. Le radici sono simili a ginocchia, solide, profumate e dopo il taglio bisogna seccarle all’ombra e riporle composte nel lino. Migliori sono l’illirica e la macedone e di queste la migliore è quella dalle folte radici, nana, difficile da rompere, di colore giallastro, molto profumata, alquanto bruciante al gusto, dal profumo inconfondibile, che non inumidisce e che stimola lo starnuto mentre viene pestata. La libica è di colore bianco, pungente al gusto, di minor pregio per quanto riguarda le sue proprietà. Quando invecchiano vengono divorate dai vermi e allora diventano più profumate. Tutte hanno proprietà riscaldante, astringente, sono efficaci contro la tosse e riducono i liquidi difficili da espellere. Purificano la pinguidine e la bile bevute con idromele nella dose di sette dracme. Sono anche sonnifere, fanno lacrimare e curano le coliche. Bevite con aceto sono utili contro i morsi velenosi, a chi soffre di dolori di milza, a chi soffre di convulsioni, o a chi ha brividi e a chi ha perdite spermatiche, bevute con vino favoriscono le mestruazioni. E il loro decotto è utile negli impacchi femminili ammorbidendo e dilatando le parti, come infiltrazione contro la sciatica e fa crescere la carne delle piaghe fistolose e delle cavità. Applicate come pessario con miele facilitano l’espulsione del feto e applicate in cataplasmo bollite ammorbidiscono le escrescenze e i vecchi indurimenti. Secche rimarginano le ferite e con il miele le ripuliscono e riempiono di carne le parti di ossa che ne mancano. Giovano anche contro i dolori di testa applicate in cataplasmo con aceto e acqua di rose, spalmate con elleboro bianco in doppia dose e miele schiariscono le voglie e le efelidi. Si usano anche con i pessari, con i cataplasmi, con gli impacchi defatiganti e in generale hanno una molteplice utilità11; Quelle che sono chiamate pastiglie di rosa si preparano in questo modo: quaranta dracme di rose verdi asciutte un po’ appassite, cinque dracme di nardo indiano, sei dracme di mirra. Sminuzzate vengono impastate in pillole del peso di tre oboli e vengono seccate all’ombra. Vengono riposte poi in un vaso di creta non spalmato di pece e chiuso accuratamente. Alcuni vi aggiungono anche due dracme di costo e di iris illirica mescolando il tutto con miele e vino di Chio. Sono usate dalle donne appese al collo invece di una ghirlanda profumata per affievolire la puzza del sudore. Le usano anche pestate come cipria e per le unzioni dopo il bagno e dopo esersi scaldate si lavano con acqua fredda12; Viene preparato il vino contro il catarro, la tosse, l’indigestione, la flatulenza, l’acidità gastrica: due dracme di mirra, una di pepe bianco, sei di iris, sei di anice; dopo averli avvolti interamente sminuzzati in una tela di lino immergili in sei sestari di vino. Dopo aver filtrato tre volte il vino versalo in un fiasco e dopo una passeggiata dallo a bere somministrandolo puro nella misura di una tazza13.
Celso (I secolo d. C.): Riscalda il cataplasma fatto con qualsiasi farina, di farro o di orzo o di ervo o di loglio o di miglio o di panico o di lenticchia o di fava o di lupino o di lino o di fieno greco, quando essa è stata fatta bollire e viene applicata calda. Tuttavia più efficace a questo scopo è ogni farina cotta in vino con miele piuttosto che in acqua. Inoltre l’unguento di ligustro, quello di iris, il midollo, il grasso con fiele, l’olio, soprattutto se è vecchio, il nitro, la nigella, il pepe, la cinquefoglie14; Se ci sono dolori di testa bisogna mescolare rosa con aceto e insistere in questo; poi avere due impiastri che coprano la fronte in lunghezza e altessa e di questi tenerne a turno uno immerso nell’aceto e rosa, l’altro in fronte; oppure applicare lana appena tisata intinta in essi. Se l’aceto dà fastidio bisogna usare solo rosa; se è la stessa rosa a dare fastidio bisogna usare olio aspro. Se questi rimedi giovano poco può essere pestata o iris secca o noci amare o qualsiasi erba tra quelle rinfrescanti; una certa loro quantità applicata insieme con l’aceto diminuisce il dolore … 15; Per coloro che sono in preda alla febbre il sonno è difficile ma necessario: grazie ad esso parecchi guariscono. Giova a ciò e pure per riportare alla normalità la mente l’unguento di crocoapplicato al capo insieme con quello di iris16; Sembrano poi avere questa proprietà [di favorire la diuresi] l’iris, il nardo, il cinnamomo …17; [In caso di rigidità cervicale] bisogna guardarsi soprattutto dal freddo; perciò nella stanza dell’ammalato il fuoco dovrà essere continuo, soprattutto nelle ore antelucane in cui si avverte di più il freddo. Sarà utile avere il capo intonso, riscaldarlo con unguento di iris o di ligustro e coprirlo con un berretto18; [In caso di difficoltà respiratoria] il capo poi dev’essere tenuto alto nel letto, il torace dev’essere trattato con impacchi e cataplasmi caldi o secchi o anche umidi e poi dev’essere applicato anche un emolliente, ovvero un cerotto medicato con ligustro o con unguento di iris. Poi a digiuno dev’essere bevuta acqua con miele ne4lla quale sia stata cotto issopo o radice di cappero pestata19; [In caso di dolori epatici] bisogna applicare cataplasmi che dapprima li smorzino, poi col calore li facciano scomparire; ad essi correttamente va aggiunta l’iris o l’assenzio; dopo di ciò va applicato un unguento20; [Contro un disturbo femminile difficilmente identuificabile] bisogna frizionare quotidianamente il corpo, soprattutto il ventre e le ginocchia. Dev’essrre somministrato cibo di media consistenza, sul basso ventre ogni tre o quattro giorni dev’essere applicata senape finché il corpo non diventa rosso. Se permane la rigidità sembra opportuno che la rammollisca l’erba mora intinta nel latte, poi pestata, e cera bianca e midollo di cervo con unguento di iris o grasso di toro o di capra mescolato con rosa21; Purificano il verderame, la tintura di oro [solfuro d’arsenico], che i Greci chiamano arsenico; questo e la sandracca hanno la stessa efficacia in tutto ma è più efficace la scaglia di rame, la pomice, l’iris … 22; Per eliminare quelle croste che sono concentrate in qualche parte del corpo sono molto efficaci l’abrotono, l’elenio, l’amaraco, la viola bianca, il miele, il giglio, la maggiorana di Cipro, il latte, la sertola campana, il serpillo, il cipresso, il cedro, l’iris, la viola purpurea, il narciso, la rosa … 23; Rammolliscono le incrostazioni del rame bruciato la terra eretria, la lacrima del papavero, l’incenso ammonio, il bdellio, la cera, il sebo, il grasso, l’olio, il fico secco, il sesamo, la sertola campana, la radice e il seme del narciso, le foglie di rosa, il caglio, il tuorlo d’uovo crudo, le noci amare, tutti i midolli, l’antimonio, la pece, la lumaca cotta, il seme di cicuta, le scorie di piombo (i Greci le chiamano σκωρίαν μολύβδου), il ligustico silvestre, il cardamomo, il galbano, la resina, l’uva tamina, lo storace, l’iris, il balsamo, il sudore degli atleti raccolto nelle palestre, lo zolfo, il burro, la ruta24; Purifica la pelle il miele, ma di più se è usato insieme con la galla o con l’ervo o con la lenticchia o col marrobio o col nitro o con l’iris o con il verderame25; Se il fegato fa male va usato quel cerotto nel quale cisono dodici parti di lacrima di balsamo, sedici parti di costo, di cinnamomo, dicorteccia di casia, di mirra, di croco, di giunco rotondo, di seme di balsamo, di iris illirica, di cardamomo … 26; Contro il dolore dei fianchi poi c’è il preparato di Apollofane, nel quale ci sono resina di terebinto, fuliggine d’incenso, in quattro parti per ciascuno … Contro lo stesso inconveniente c’è anche l’unguento di Andrea, che pure assorbe e trae fuori l’umore, matura il pus, rompe la pelle dov’è maturo, favorisce la cicatrizzazione. Giova applicato agli ascessi piccoli e grandi, allo stesso modo alle articolazioni e perciò anche alle anche ed ai piedi dolenti; allo stesso modo giova se nel corpo c’è una contusione; rammollisce pure i visceri duri e gonfi, pone in trazione le ossa, insomma vale per tutto ciò al quale il calore può giovare. Esso ha … dieci parti di pepe rotondo e lungo, incenso ammonio, bdellio, iris illirica … 27; Ma se [nel gonfiore] compare abbastanza sangue giustamente vengono applicati quei rimedi che sono efficaci anche contro i foruncoli. Tra questi è conosciuto quello così composto: due parti ciascuno di bdellio, storace, incenso ammonio, galbano, resina di pino secca e liquida, allo stesso modi di lentisco, incenso, iris28; Se sulla superficie contusa l’annerimento è un po’ sanguinolento, lo elimina questo preparato applicato giorno e notte: quattro parti per ciscuno di aristolochia, d’incenso ammonio, di galbano, di resina secca e liquida dii lentisco, di incenso maschio, di iris illirica, di cera29; Per gli indurimenti c’è il preparato di Aristogene così composto: … 6 parti di iris macedone … Poi c’è per le articolazioni e per ogni dolore, anche quello della vescica, e per le articolazioni contratte da una cicatrice recente, che i greci chiamano ancili, quello di Euticleo che ha: … proprio per le dita 13 parti per ciascuno di iris, incenso ammonio, galbano …30; Oltre a questi [empiastri emollienti] c’è quello di Filocrate che ha: sette parti di sale ammonio, …. alle quali, per far maturare pure il pus, si aggiungono quattro parti di iris … Tuttavia per l’estrazione è ottimo quello che i Greci chiamanoripodi per la somiglianza col sudiciume. Ha quattro parti per ciascuno di mirra, croco, iris, propoli … 31; Unico è l’antidoto che ha … due parti per ciascuno di iris illirica, gomma, …32; Famosissimo poi è l’antidoto di Mitridate, assumendo il quale quotidianamente si dice che quel re rese il suo corpo immune a tutti i veleni: … due parti per ciascuno di iperico, succo di acacia. Iris illirica, cardamomno … Tutti questi ingredienti pestati insieme vengono mescolati col miele e il preparato viene dato contro il veleno nella misura di una noce greca col vino33; Anche i farmaci che alleviano il dolore sono utili ai nervi, com’è quello che ha due parti di fiore di giunco rotondo … quattordici parti per ciascuno di iris illirica, cera … un bicchiere di unguento di iris34; Il rimedio per la trachea si prepara così: una parte per ciascuno di casia, iris, cinnamomo, nardo, mirra, incenso, una parte di croco, trenta grani di pepe; vengono cotti in tre sestari di passito finché non raggiungono la densità del miele35; [In caso di infiammazione agli occhi] conviene prima radere il capo fino alla pelle, poi nel bagno riscaldare il capo e gli occhi con quanto più è possibile di acqua calda; a quel punto pulirli con una spugna e ungere il capo di unguento di iris, mantenersi a letto finché tutto il calore che si è sviluppato si esaurisca e cessi il sudore che si è raccolto sul capo36; Per colui al quale si è annebbiata ci sarà bisogno di molto movimento ed esrcizio fiswico, di bagni frequenti, dove tutto il corpo dev’essere frizionato energicamente, soprattutto il capo e snza dubbio con l’unguento di iris finché sudi e poi dev’essere coperto né va scoperto prima che il sudore e il calore abbiano finito di esaurirsi. Allora debbono essere usati cibi di gusto aspro e che saziano subito e passato qualche giorno devono essere fatti gargarismi con senape37; Nell’uno e nell’altro caso, cioè nell’indebolimento e nella dilatazione della pupilla si deve combattere con tutti gli stessi rimedi che sono stati prescritti per l’appannamento della vista, cambiando solo pochi dettagli, dal momento che sul capo all’unguento di iris dev’essere aggiunto ora aceto, ora nitro, è sufficiente che poi il capo sia splamato di miele38; Dunque non appena qualcuno sente dolore [d’orecchio] non deve fare nulla e deve stare calmo; il giorno successivo, se il dolore è più forte, deve rasare il capo, ungerlo con unguento caldo di iris e coprirlo. Ma il grande dolore tormenta con febbre e veglia esige che sia operato un salasso; se qualche causa lo impedisce, va liberato l’intestino. Cataplasmi ripetutamente rinnovati giovano, sia di fieno greco, sia di lino, sia un’altra farina cotta in acqua e miele e correttamente pure si usano ripetutamente spugne strizzate in acqua calda. Allora, alleggeritosi il dolore, dev’essere applicato un cerotto fatto di unguento di iris o di olio di ligustro; in certi casi tuttavia va meglio quello fatto di rosa39. Se il canale auricolare è intasato e dentro c’è pus spesso bisogna applicare miele della migliore qualità. Se questo giova poco, ad un bicchiere e mezzo di miele bisogna aggiungere due parti di raschiatura di rame, cuocere e usarlo. Giova anche l’irtis col miele40. Se questa sporcizia è molle dev’essere tolta con lo stesso specillo; se è dura dev’essere instillato aceto e con questo un po’ di nitro; quando la sporcizia è diventata molle isogna che l’orecchio sia lavato e purgato. Se permane la testa pesante bisogna rasarla, delicatamente e spesso frizionarla con l’aggiunta di unguento di iris o olio di alloro, in modo che con entrambi si mescoli un po’ di aceto41; Se [le ulcerazioni orali] presentano croste come di solito avviene nelle ustioni devono essere usati questi composti, che i Greci chiamano antere: pari dosi di giunco quadrato, mirra, sandracca, allume. Oppure una parte ciascuno di croco, di mirra, quattro di iris, allume in polvere, sandracca42; Se poi qualche volta il cancro ha invaso le ulcere della bocca, bisogna anzitutto considerare se non sia un cattivo stato del corpo e bosogna aiutarlo; poi devono essere curate le stesse ulcere. Se il male è nella parte superiore, giova abbastanza l’antera secca sparsa sull’ulcera umida, sulla secca spalmata con una piccola parte di miele; se uil male è un po’ più in alto, due parti di foglio di papiro bruciato, una di solfuro d’arsenico; se il male è sceso in profondità tre parti di foglio di papiro bruciato, un quarto di solfuro d’arsenico o pari dosi di sale abbrustolito e di iris abbrustolita o allo stesso modo pari dosi di calcitide, calce, solfuro d’arsenico43; Se la membrana [del cervello] si è gonfiata per un’ifiammazione bisognerà infondervi rosa tiepida; se si gonfierà a tal punto da elevarsi pure al di sopra delle ossa, opportunamente la conterrà la lenticchia pestata o la foglia di vite pestata e mista con burro fresco o grasso di oca fresco; e la testa dovrà essere ammorbidita con un cerotto fatto di unguento di iris44.
Plinio (I secolo d. C.): Non si deve omettere anche un’altra differenza, cioè che molte delle essenze profumate non hanno nulla a che fare con le ghirlande, come l’iris e la saliunca, sebbene entrambe abbiano un odore meraviglioso. Ma l’iris è lodata solo per la radice, nascendo per unguenti e medicine. Apprezzatissima è quella che nasce in Illiria, non nelle zone in prossimità del mare ma nellse selve di Drinone e di Narona. Poi viene quella che nasce in Macedonia, lunghissima, bianca e sottile. Il terzo posto lo occupa quella africana, la più diffusa tra tutte e amarissima al gusto. L’illirica inoltre è di due generi: rafanitide per la somiglianza [con il ravanello] e rizotomo che è migliore. Ottima è quella rossiccia, che a toccarla stimola lo starnuto. Ha il gambo lungo un braccio, ritto; fiorisce in diversi colori,come l’arco celeste, donde anche il nome. Nemmeno la pisidica [della Pisidia, in Turchia]è tenuta in poco conto. Quelli incaricati di svellerla tre mesi prima, come se volessero placare la terra, la trattano dolcemente spargendo intorno acqua e miele; dopo aver tracciato intorno ad essa con la punta di un coltello tre cerchi la raccolgono e subito la sollevano al cielo. La sua natura è calda e se toccata genera pustole simili a quelle dovute a scottatura. Si raccomanda anzitutto che siano persone pure a raccoglierla. Soffre rapidissimamente i tarli non solo quando è secca ma anche quando si trova nella terra. Prima ottimo unguento di iris proveniva da Lecade e da Elide – già da tempo infatti veniva anche seminata -, ora dalla Pamfilia, ma è apprezzato soprattutto quello proveniente dalla Cilicia e dalle regioni settentrionali45: L’iris rossa è migliore della bianca. È salutare legarla intorno ai bambini, soprattutto nel periodo della dentizione e quando hanno la tose e somministrarla a quelli che soffrono di elmintosi. Gli altri suoi effetti differiscono poco da quelli del miele. Purifica le ulcere del capo e soprattutto le vecchie suppurazioni. Bevuta col miele nella dose di due dracme libera l’intestino, elimina la tosse, le coliche, la flatulenza, bevuta con aceto giova alla milza. Con acqua e aceto è efficace contro il morso di serpenti e ragni; contro gli scorpioni viene assunta col pane o con l’acqua nella dose di due dracme; contro il morso dei cani e contro le escoriazioni viene applicata con olio. Così viene anche spalmata con resina sui fianchi e sulle cosce contro i dolori dei nervi. Ha proprietà riscaldante. Messa soto il naso suscita lo starnuto e purifica il capo. Viene applicata in empiastro con mela cotogna o una sua specie contro il dolore di testa. Elimina anche l’ubriachezza e l’asma. Assunta nella dose di due oboli stimola il vomito. Applicata con miele mette in trazione le ossa rotte. Usano la sua farina contro i panerecci, col vino contro le escrescenze e le verruche e viene tolta prima di tre giorni. Masticata profuma l’alito e deodora le ascelle. Col succo ammorbidisce tutti gli induruimenti, concilia il sonno ma riduce lo sperma. Guarisce le screpolature del sedere e i porri e tutte le escrescenze che si manifestano nel corpo. C’è chi chiama xiri l’iris selvatica. Essa elimina le scrofole o i gonfiori o i tumori dell’inguine. Si raccomanda per questi usi di raccoglierla con la sinistra e che coloro che la raccolgono dicano per chi e per cosa lo fanno. Sarà svelato l’inganno degli erboristi in quanto sto per dire: essi conservano una parte di questa e di certe altre erba, come la piantaggine, e, se credono di aver guadagnato poco e vogliono rifarsi, sotterrano nello stesso luogo quella parte che hanno conservato, perché, credo, facciano ritornare le malattie che hanno sanato46;
14 De medicina, II, 33, 5: Calefacit vero ex qualibet farina cataplasma sive ex tritici sive farris sive hordei sive ervi sive lolii sive milii vel panicii vel lenticulae vel fabae vel lupini vel lini vel feni Graeci, ubi ea defervuit calidaque inposita est. Valentior tamen ad id omnis farina est ex mulso quam ex aqua cocta. Praeterea cyprinum, irinum, medulla, adeps ex fele, oleum, magisque si vetus est, iunctaque oleo sal, nitrum, git, piper, quinquefolium.
15 De medicina, III, 10, 1-2: Si capitis dolores sint, rosam cum aceto miscere oportet et in id ingerere; deinde habere duo pittacia, quae frontis latitudinem longitudinemque aequent, ex his invicem alterum in aceto et rosa habere, alterum in fronte; aut intinctam iisdem lanam sucidam imponere. Si acetum offendit, pura rosa utendum est; si rosa ipsa laedit, oleo acerbo. Si ista parum iuvant, teri potest vel iris arida vel nuces amarae vel quaelibet herba ex refrigerantibus; quorum quidlibet ex aceto inpositum dolorem minuit …
16 De medicina, III, 18, 17: Omnibus vero sic adfectis somnus et difficilis et praecipue necessarius est: sub hoc enim plerique sanescunt. Prodest ad id atque etiam ad mentem ipsam conponendam crocinum unguentum cum irino in caput additum.
17 De medicina, III, 21, 7: Videntur autem hanc facultatem habere iris, nardum, crocum, cinnamomum …
18 De medicina, IV, 6, 5: Cavendum vero praecipue frigus; ideoque in eo conclavi, quo cubabit aeger, ignis continuus esse debebit, maximusque tempore antelucano, quo praecipue frigus intenditur. Neque inutile erit caput adtonsum habere idque irino vel cyprino calido madefacere et superinposito pilleo velare.
19 De medicina, IV, 8, 1-3: Caput autem etiam in lecto sublime habendum est; thorax fomentis cataplasmatisque calidis aut siccis aut etiam umidis adiuvandus est, et postea vel malagma superimponendum, vel certe ceratum ex cyprino vel irino unguento. Sumenda deinde ieiuno potui mulsa aqua, cum qua vel hysopus cocta vel contrita capparis radix sit.
20 De medicina, IV, 15, 2: Imponenda extrinsecus cataplasmata, primum quae reprimant, deinde calida quae diducant, quibus recte iris vel apsinthium adicitur; post haec malagma.
21 De medicina,IV, 21, 1: Frictione cottidie utendum totius quidem corporis, praecipue vero ventris et poplitum. Cibus ex media materia dandus; sinapi super imum ventrem tertio quoque aut quarto die imponendum, donec corpus rubeat. Si durities manet, mollire commode videtur solanum in lac demissum, deinde contritum, et cera alba atque medulla cervina cum irino, aut sebum taurinum vel caprinum cum rosa mixtum.
22 De medicina, V, 5, 1: Purgant aerugo, auripigmentum, quod arsenicon a Graecis nominatur huic autem et sandaracae in omnia eadem vis, sed validior est squama aeris, pumex, iris …
23 De medicina, V, 11, 1: Ad discutienda vero ea, quae in corporis parte aliqua coierunt, maxime possunt habrotonum, helenium, amaracus, alba viola, mel, lirium, sampsychus Cyprius, lac, sertula Campana, serpullum, cupressus, cedrus, iris, viola purpurea, narcissus, rosa …
25 De medicina, V, 16, 1: Cute purgat mel, sed magis si est cum galla vel ervo vel lenticula vel marrubio vel iride vel ruta vel nitro vel aerugine.
26 De medicina, V, 18, 2: Si iecur dolet, id in quo est balsami lacrimae P. XII; costi, cinnamomi, casiae corticis, murrae, croci, iunci rotundi, balsami seminis, iridis Illyricae, cardamomi …
27 De medicina, V, 18, 5-7: Ad laterum autem dolores compositio est Apollophanis, in qua sunt resinae terebenthinae, turis fuliginis, singulorum P. IV … Ad idem latus Andreae quoque malagma est, quod etiam resolvit, educit umorem, pus maturat, ubi id maturum est, cutem rumpit, ad cicatricem perducit. Prodest impositum minutis maioribusque abscessibus, item articulis ideoque et coxis et pedibus dolentibus: item, si quid in corpore conlisum est, reficit; praecordia quoque dura at inflata emollit, ossa extrahit, ad omnia denique valet, quae adiuvare calor potest. Id habet … piperis et rotundi et longi, hammoniaci, thymiamatis, bdelli, iridis Illyricae … P. X …
28 De medicina, V, 18, 22: At si satis sanguis subit, recte imponitur quod adversus phymata quoque potest. Constat ex his: bdelli, styracis, Hammoniaci, galbani, resinae aridae et liquidae pineae, item ex lentisco, turis, iridis, singulorum P. II.
29 De medicina, V, 18, 24: Quod si facie contusa livor subcruentus est, haec compositio nocte et die imposita tollit: aristolochiae, Hammoniaci thymiamatis, galbani, resinae aridae et ex lentisco liquidae, turis masculi, iridis Illuricae, cerae, singulorum P. IV.
30 De medicina, V, 18, 27-28: Ad spissa autem Aristogenis fit ex his: … iridis Macedonicae P. VI …. Igitur Euthyclei est ad articulos, et ad omnem dolorem et ad vesicae, et ad recenti cicactrice contractos articulos, quas ancylas Graeci nominant, quod habet: … Ad eosdem digitos iridis, Hammoniaci, galbani …
31 De medicina,V, 19, 14-15: Praeter has est Philocratis, quod habet: salis Hammoniaci P. VII … quibus, ut pus quoque moveant, iridis P. IV …. Optimum tamen ad extrahendum est id, quod a similitudine sordium rhypodes Graeci appellant. Habet murrae, croci, iridis, propolis …
32 De medicina, V, 23, 1: Unum est, quod habet iridis Illyricae, cummi, singulorum P. II …
33 De medicina, V, 23, 3: Nobilissimum autem est Mithridatis, quod cottidie sumendo rex ille dicitur adversus venenorum pericula tutum corpus suum reddidisse. In quo haec sunt: … hyperici, cummi, sagapeni, acaciae suci, iridis Illyricae, cardamomi, singulorum P. II … Haec contrita melle excipiuntur, et adversus venenum, quod magnitudinem nucis Graecae impleat, ex vino datur. In ceteris autem adfectibus corporis pro modo eorum vel quod Aegyptiae fabae vel quod ervi magnitudinem impleat, satis est.
34 De medicina, V, 24, 1: Acopa quoque utilia nervis sunt. Quale est, quod habet floris iunci rotundi P. II … iridis Illyricae, cerae, singulorum P. XIV … unguenti irini cyathum.
35 De medicina, V, 25, 17: Arteriace vero hoc modo fit: casiae, iridis, cinnamomi, nardi, murrae, turis, singulorum P. 1, croci P. 1, piperis grana XXX ex passi tribus sextariis decocuntur, donec mellis crassitudo his fiat.
36 De medicina, VI, 6, 8: Sed ante tonderi ad cutem convenit, deinde in balineo aqua calida quam plurima caput atque oculos fovere, tum utrumque penicillo detergere, et ungere caput irino unguento; continereque in lectulo se, donec omnis calor, qui conceptus est, finiatur desinatque sudor, qui in capite collectus est.
37 De medicina, VI, 6, 34: Cuicumque vero oculi caligabunt, huic opus erit multa ambulatione atque exercitatione, frequenti balneo, ubi totum quidem corpus perfricandum est, praecipue tamen caput, et quidem irino, donec insudet velandumque postea nec detegendum antequam sudor et calor domi conquierint. Tum cibis utendum acribus et extenuantibus, interpositique aliquibus diebus ex sinapi gargarizandum.
38 De medicina, VI, 6, 37: In utraque parte vero id est et paralysi et mydriasi pugnandum est per eadem omnia, quae in caligine oculorum praecepta sunt, paucis tantum mutatis, siquidem ad caput irino interdum acetum, interdum nitrum adiciendum est, melle inungui satis est.
39 De medicina, VI, 7, a: Ergo ubi primum dolorem aliquis sensit, abstinere et continere se debet; postero die, si vehementius malum est, caput tondere, idque irino unguento calido perunguere et operire. At magnus cum febre vigiliaque dolor exigit, ut sanguis quoque mittatur; si id aliquae causae prohibent, alvus solvenda est. Cataplasmata quoque calida subinde mutata proficiunt, sive feni Graeci sive lini sive alia farina ex mulso decocta et recte etiam subinde admoventur spongiae ex aqua calida expressae.Tum levato dolore ceratum circumdari debet ex irino aut cyprino factum: in quibusdam tamen melius quod ex rosa est proficit.
40 De medicina, VI, V7, 2: Sin foramen auris compressum est, et intus crassa sanies subest, mel quam optimum addendum est. Si id parum proficit, mellis cyatho et dimidio aeruginis rasae P. II adiciendum est incoquendumque, et eo utendum. Iris quoque cum melle idem proficit.
41 De medicina, VI, 7, 7, 8c: Si sordes haeque molles sunt, eodem specillo eximendae sunt: at si durae sunt, acetum et cum eo nitri paulum coiciendum est; cumque emollitae sunt, eodem modo elui aurem purgarique oportet. Quod si capitis gravitas manet, attondendum; idem leniter sed diu perfricandum est, adiecto vel irino vel laureo oleo, sic ut utrilibet paulum aceti misceatu.
42 De medicina, VI, 11, 2 Si iam crustas habent, quales in adustis esse consuerunt, adhibendae sunt hae conpositiones, quas Graeci antheras nominant: iunci quadrati, murae, sandaracae, aluminis pares potiones. Aut croci, murrae, singulorum P. I, iridis, aluminis scissilis, sandaracae, singulorum P. IV.
43 De medicina, VI, 15, 1: Si quando autem ulcera oris cancer invasit, primum considerandum est, num malus corporis habitus sit, eique occurrendum; deinde ipsa ulcera curanda. Quod si in summa parte id vitium est, satis proficit anthera umido ulceri arida inspersa; sicciori cum exigua parte mellis inlita: si paulo altius, chartae combustae partes duae, auripigmenti pars una: si penitus malum descendit, chartae conbustae partes tres, auripigmenti pars quarta, aut pares potiones salis fricti et iridis frictae, aut item pares potiones chalcitidis, calcis, auripigmenti.
44 De medicina, VIII, 4, 19: Quod si membrana per inflammationem intumuerit, infundenda erit rosa tepida; si usque eo tumebit, ut super ossa quoque emineat, coercebit eam bene trita lenticula vel folia vitis contrita, et cum recenti vel buturo vel adipe anserina mixta; cervixque molliri debebit liquido cerato ex irino facto.
45 Naturalis historia, XI, 21: Illa quoque non omittenda differentia est, et odoratorum multa nihil adtinere ad coronamenta, ut irim atque saliuncam, quamquam nobilissimi odoris utramque. Sed iris radice tantum commendatur, unguentis nascens et medicinae. Laudatissima in Illyrico, et ibi quoque non in maritimis, sed in silvestribus Drinonis et Naronae, proxima in Macedonia, longissima haec et candicans et exilis. Tertium locum habet africana, amplissima inter omnes gustuque amarissima. Illyrica quoque duorum generum est: raphanitis a similitudine, quae et melior, rhizotomos. Subrufa optima, quae sternumenta tractatu movet. Caulem habet cubitalem, erectum; floret versicolori specie, sicut arcus caelestis, unde et nomen. Non improbatur et pisidica. Effossuri tribus ante mensibus mulsa aqua circumfusa hoc veluti placamento terrae blandiuntur, circumscriptam mucrone gladii orbe triplici cum legerunt, protinus in caelum adtollunt. Natura est fervens, tractataque pusulas ambusti modo facit. Praecipitur ante omnia, ut casti legant. Teredines non sicca modo, verum et in terra celerrime sentit. Optimum antea irinum Leucade et Elide ferebatur – iam pridem enim et seritur – , nunc e Pamphylia, sed Cilicium maxime laudatur atque e septentrionalibus.
46 Naturalis historia, XXI, 81: Iris rufa melior quam candida. Infantibus eam circumligari salutare est, dentientibus praecipue et tussientibus taeniarumve vitio laborantibus instillari. Ceteri effectus eius non multum a melle differunt. Ulcera purgat capitis, praecipue suppurationes veteres. Alvum solvit duabus drachmis cum melle, tussim, tormina, inflationes pota, lienes ex aceto. Contra serpentium et araneorum morsus ex posca valet; contra scorpiones duarum drachmarum pondere in pane vel aqua sumitur; contra canum morsus ex oleo inponitur et contra perfrictiones. Sic et nervorum doloribus, lumbis vero et coxendicibus cum resina inlinitur. Vis ei concalfactoria. Naribus subducta sternumenta movet caputque purgat. Dolori capitis cum cotoneis malis aut strutheis inlinitur. Crapulas quoque et orthopnoeas discutit. Vomitiones ciet duobus obolis sumpta. Ossa fracta extrahit inposita cum melle. Ad paronychia farina eius utuntur, in vino ad clavos et verrucas, triduoque non solvitur. Halitus oris commanducata abolet alarumque vitia. Suco duritias omnes emollit, somnum conciliat, sed genituram consumit. Sedis rimas et condylomata omniaque in corpore excrescentia sanat. Sunt qui silvestrem xyrim vocent. Strumas haec vel panos vel inguina discutit. Praecipitur ut sinistra manu ad hos usus eruatur colligentesque dicant cuius hominis vitiique causa eximant. Scelus herbariorum aperietur et in hac mentione: partem eius servant et quarundam aliarum herbarum, sicuti plantaginis, et si parum mercedis tulisse se arbitrantur rursusque opus quaerunt, partem eam, quam servavere, eodem loco infodiunt, credo, ut vitia, quae sanaverint, faciant rebellare.
“Ah, formidabile / Il tuo avvocato è proprio un asino /no, certe cose non si scrivono / che poi i giudici ne soffrono” . Parole d’amore scritte a macchina – Paolo Conte
Nel numero precedente parlavo di asini. In senso proprio e in senso figurato, nel senso degli animali e nel senso degli uomini. Dalla parte degli animali, sempre. Infatti, come si fa a non amare il simpatico ciuchino, non fosse altro che per solidarietà con la sua vita non certo facile, maltrattato e angariato come è sempre stato. Per quanto riguarda gli esseri umani poi, ce ne sono di simpatici e ce ne sono di detestabili. Ma non sarei coerente e credibile se non cominciassi da me medesimo. Il mio libro “NeroNotte. Romanza di amore e morte”, pubblicato qualche tempo fa, contiene un certo numero di svarioni, grammaticali intendo, che tacer non posso. A farmeli notare è stato il solito professore del tempo che fu, di quelli che oggi bisogna cercare col lanternino come faceva Diogene: un professore vecchio stampo, rigoroso quanto severo, che sulla forma giustamente non transige e al quale porto in visione il libro sempre troppo tardi (ossia quando è già pubblicato), per paura del suo implacabile giudizio. Ebbene, anzi purtroppo, di fronte a “un idiota” scritto con l’apostrofo, “sovrappensiero” scritto con una sola “p” e “orticarie” invece di “orticaria” (queste le perle collezionate da quello sciagurato mio libercolo), non ci sono scuse. Hai voglia ad attribuire la responsabilità alla tipografia oppure alla casa editrice, a dire che di vere case editrici non esistono qui nel Salento, con un comitato di lettura e un editor preparato che eviti all’autore certe figuracce. Hai voglia a chiamare in causa il titivillus, cioè il demonietto delle tipografie (Antonio Verri ci intitolò anche una rivista), quel folletto dispettoso che porta i refusi, oppure ancora dar la colpa al computer o alla trasmissione elettronica che fa sballare i dati. La firma sul libro è mia e mia la responsabilità di quegli strafalcioni. Asino io, dunque, prima e più di tutti. Pagato questo debito di onestà intellettuale, passiamo alla categoria degli asini pubblici, cioè dei personaggi famosi la cui asinità, a loro maggior danno, viene accentuata proprio dalla sovraesposizione mediatica: tanto più è in alto la posizione che occupano nella scala sociale, tanto più sarà fragorosa la caduta. Ma così va la vita (“O quam cito transit gloria mundi“).
Avevo proposto ai lettori di scegliere fra i tre personaggi più di spicco nella vita pubblica del 2014: Papa Francesco, Matteo Salvini e Matteo Renzi. Da un sondaggio molto poco professionale (non sono mica la Ghisleri!) condotto fra i lettori e gli amici, al primo posto assoluto è risultato essere Matteo Salvini. Il super arrabbiato esponente della Lega Nord, infatti, oltre a collezionare una serie incalcolabile di errori grammaticali, lessicali e di organizzazione delle frasi nei suoi interventi pubblici, dovuti forse alla foga con cui esala la propria vis polemica, ha conquistato il poco invidiabile record di politico che legge di meno nella media già sconfortante degli altri. Premesso che la nuova classe politica nazionale, se l’ attentato alla consecutio temporum fosse un reato, sarebbe già tutta agli arresti, Salvini ha innescato in mondovisione una polemica con Renzi proprio sui rispettivi livelli culturali. Nel suo intervento al Parlamento europeo,in occasione della chiusura del semestre di presidenza italiana, Matteo Renzi ha citato Dante Alighieri, esattamente il canto di Ulisse nell’Inferno. E subito cori di “buuu” si sono sollevati dalle file della Lega Nord. «Capisco che leggere più di due libri è difficile, per alcuni…» ha velenosamente osservato Renzi. E Salvini, di rimando, gli ha rinfacciato il fatto di poter leggere perché non avrebbe nulla da fare, mentre lui, novello Atlante che porta il mondo sulle spalle, sarebbe impegnato tutto il giorno a risolvere i problemi del paese. E come? Schizzando a velocità supersonica da una trasmissione televisiva all’altra, da mattina presto fino a notte inoltrata? Egli infatti è, fra i leaders politici, il più presente sui media. Ma per non farsi passare la mosca sotto il naso, il “celodurista” Salvini, che è pure collegato permanentemente in contemporanea su tutti social network del globo, ha inserito l’immagine dei due ultimi libri che avrebbe letto: “Sottomissione» di Michelle Houellebecq e «Mondo nuovo» di Aldous Huxley. Passi per Huxley ( ma il dubbio viene), ma come avrebbe potuto leggere il libro di Houellebecq (che immagina nell’immediato futuro una Francia conquistata dall’Islam con un presidente musulmano) che era appena stato quel giorno distribuito in Italia? Lettura veloce? “Ma mi facci il piacere!” . Il cappello con le orecchie d’asino dunque è super meritato dal Salvini nazional popolare. E a proposito di asinerie televisive, davanti al confronto, svoltosi qualche giorno fa nella trasmissione televisiva “Di Martedi”, fra Massimo Dalema e Marine Le Pen, ovvero l’astro decaduto della sinistra italiana e quello nascente della destra francese, chi, dico chi, non ha immediatamente pensato al noto detto popolare “l’asino dice al bue cornuto”? . Peccato che il siparietto sia durato molto poco perché poi la trasmissione condotta da Giovanni Floris è tornata ad occuparsi di politica interna e di corruzione e malaffare. Il somaro, inteso come equide, ci fa sbollentare la rabbia e ci riporta il sorriso (guardare in rete il filmato dell’asino che ride per credere). Nel film “Asini” con Claudio Bisio, la storia è ambientata in un collegio francescano dove si trovano ragazzi un po’ disagiati, asini a scuola, insieme ad asini veri, e dove il protagonista Bisio viene mandato a fare l’insegnante di ginnastica. Ma, come ho già scritto, ci sono somari e somari. Ci sono quelli simpatici, che ispirano affetto e tenerezza e ci sono quelli antipatici,pedanti: la carota ai primi, il basto ai secondi. E quelli simpatici possono decorare spillette, magliette e gadgets vari ed anche aiutare l’uomo multiproblematico. infatti esiste la onoterapia. Il ciuchino dunque sia la mascotte delle giornate più liete.
Era tra i principali ferri del mestiere del calzolaio e del ciabattino, sempre a portata di mano sul suo deschetto. Oggi fa mostra di sé in qualche museo di archeologia artigianale e il ricordo stesso della parola è destinato ad affievolirsi nel trapasso generazionale. La voce italiana subbia sopravvive ancora ad indicare uno scalpello a punta piramidale, quadrangolare o conica, adoperato dallo scalpellino per sgrossare le pietre, distaccandone scaglie abbastanza voluminose.
Sùbbia è dal latino sùbula(m)=lesina, scalpelletto, a sua volta da sùere=cucire, come fàbula=racconto da fari=parlare. Subbia suppone un passaggio intermedio con sincope [*subla(m)], come nebbia deriva da nèbula(m) attraverso *nebla(m). Nel neretino ssugghia, a parte la geminazione espressiva di s-, l’originario gruppo -b(u)l- si è sviluppato normalmente in –gghi-, come a nebbia corrisponde nègghia.
Anche il sinonimo lèsina (probabilmente dal gotico alisna con errata discrezione dell’articolo) è condannato allo stesso destino di sùbbia, ma, almeno fino ad ora, ha il piacere di vedere ancora in vita, cioè in uso, il verbo derivato lesinare usato nel significato di risparmiare quanto più è possibile.
È difficile immaginare che ieri, come oggi, un artigiano, per quanto bravo, navigasse nell’oro; è altrettanto difficile, però, intravvedere un qualche rapporto tra la sua situazione e il verbo appena messo in campo, che sembra concettualmente sconfinare nella taccagneria. Infatti tutto nasce da Della famosissima Compagnia della lesina, un libro di grandissimo successo, come dimostrano le edizioni succedutesi in poco meno di un secolo:
Eredi di Perin libraro, Milano, 1589
Colaldi e Aquilini, Orvieto, 1598
Bordone & Tradate, Milano, 1599
Barezzi & C., Venezia, 1600
Colaldi, Orvieto, 1600
Cislagho, Milano, 1601
Fratelli De Cavalleris, Torino, 1601
Alberti, Venezia, 1603
Spineda, Venezia, 1610
Spineda, Venezia, 1613
Bonfadino, Venezia, 1619
Fratelli Imberti, Venezia, 1627
Baglioni, Venezia, 1647 e 1664
Armanni, Venezia, 1666
Brigonci, Venezia, 1666
Curti, Venezia, 1677
Indrich, Venezia, 1693
Protagonista del libro è una compagnia di avari che aveva assunto come proprio simbolo la lesina perché, tra le altre spilorcerie, aveva l’abitudine di ripararsi le scarpe da sé.
Nell’immagine che segue il collage dei frontespizi di alcune edizioni.
Addirittura la fama del libro varcò i confini nazionali, come dimostra il frontespizio di un’edizione francese del 1618; e quel traduction nouvelle de l’Italien (in cui nouvelle potrebbe anche indurre a tradurre non recente ma ultima traduzione dall’italiano) fa pensare ad una diffusione all’estero anteriore a tale data.
Da notare il motto della marca tipografica OMNIA VINCIT SUBULA. Non so quanto sia voluta l’equivocità di vincit che in latino può essere terza persona singolare del presente indicativo attivo di vìncere=vincere ma anche di vincìre=legare. Certamente l’uso del verbo vìncere, molto diffuso nelle marche tipografiche e il celeberrimo omnia vincit amor (Virgilio, Bucoliche, X, 69) spingono a privilegiare l’amara traduzione La lesina vince ogni cosa [cioè la taccagneria soffoca lo sviluppo della conoscenza, dell’arte e del valore, simboleggiati, rispettivamente, dal mappamondo e dai libri, dal liuto e dalle armi; è difficile, infatti, immaginare che scienziati, artisti ed eroi siano accomunati dalla taccagneria e che il motto vada, perciò inteso, ancor più amaramente, come La lesina unisce ogni cosa].
E, chiusura altrettanto amara, come faccio, in tempi in cui l’ombelico rischia di unirsi alla spina dorsale, a non pensare alla locuzione stringere la cinghia? La morte delle parole, come quella di chi mi è caro, mi riempie di tristezza. Torneremo ad usare la ssùgghia per fare un ulteriore buco alla nostra cinghia? Non era, però, questo il tipo di sua riesumazione che avevo in mente quando ho cominciato a scrivere queste poche righe …
“Italia si’ Italia no Italia gnamme, se famo du spaghi. Italia sob Italia prot, la terra dei cachi. “ – La terra dei cachi – Elio e le Storie Tese
“Paese di zucchero, terra di miele / Paese di terra di acqua e di grano / Paese di crescita in tempo reale / E piani urbanistici sotto al vulcano / Paese di ricchi e di esuberi / e tasse pagate dai poveri
Paese di banche, di treni di aerei di navi che esplodono / Ancora in cerca d’autore
Paese di uomini tutti d’un pezzo / Che tutti hanno un prezzo / e niente c’ha valore!”
Tempo reale – Francesco De Gregori
Capita di passare mattinate intere dietro alla burocrazia. La legislazione degli ultimi anni in materia di semplificazione amministrativa avrebbe dovuto rendere la vita più facile al cittadino, invece l’ha complicata ulteriormente. Ci vuole una marca da bollo anche per andare al gabinetto. “Chi siete? Cosa portate? Un fiorino!”. Come fotografava bene, questa scena esilarante del film “Non ci resta che piangere” (già il titolo era profetico), l’ottusità del burocrate tipo il quale, quando non è a casa per malattia o a donare il sangue, ti presta attenzione e si premura di evadere la tua pratica solo se gli allunghi una generosa mancia. Ma è l’Italia, bellezza, e il supermagistrato Cantone dovrà farsene una ragione (già uno che si occupi di lotta alla corruzione con l’accento napoletano è un ossimoro, vogliamo dirlo?). Certo, il politicamente corretto impone di non generalizzare, per rispetto nei confronti di quei dieci onesti su un milione di mariuoli, e noi allora, che siamo sensibili alle minoranze protette, non generalizziamo ( e viva la foca monaca!). Comunque nel fotti fotti endemico di questo paese, ognuno cerca di arrabattarsi come può. E imbrogli, malaffare, raccomandazioni e bustarelle hanno talmente inquinato il sistema che uno non pensa nemmeno che ci potrebbe essere un’altra via, diciamo più trasparente, per ottenere le cose. Chiunque dà per scontato che ci si debba rivolgere all’amico, al compare, insomma al facilitatore di turno, per ottenere qualcosa che gli spetta di diritto, e la filosofia del “ tirare a campare” sembra connaturata al modus vivendi italiano. Un giorno della settimana scorsa, mi trovo a Lecce per l’odioso quanto consueto disbrigo di pratiche amministrative. Quando è ormai mezzogiorno, dopo essermi sciroppato tre file in tre diversi uffici, mi accingo a scalare il quarto. “Scalare”, in senso letterale, poiché in mancanza di ascensore, fermo per un guasto, devo percorre ben cinque piani a piedi. Lungo i gradini essudanti in un’umidità davvero mefitica che conferisce alla tromba delle scale un odore nauseabondo, penso che prima o poi mi trasferirò in Svizzera o in Germania, insomma in uno di quei climi freddi e secchi del nord che ti riconciliano con la vita. “Burocrazia” è un termine coniato nel Settecento dall’economista Vincent de Gurnay, (da “bureau”, ufficio e “crazia”, potere). Giunto nella sala d’attesa dell’ufficio in questione, trovo a precedermi un gruppuscolo disassortito di varia umanità. C’è l’anziana signora che in un deliquio mistico impiega il tempo recitando preghiere a mezza voce, il pensionato affetto da Parkinson che sfrega furiosamente il braccio sul cappotto liso, lo pseudo intellettuale che legge un libercolo di cui non riesco a intravedere il titolo. Un giovane ciccio bombo col cappellino, che assomiglia a Chris, il figlio dei Griffin, solo che questo è marezzato e allupato e non stacca gli occhi dalle gambe generosamente accavallate della “gnocca” di turno. E su tutti si staglia giunonica lei, la vamp, una bambolona dipinta e vanesia, con minigonna e tacchi a spillo (come cavolo avrà fatto ad arrampicarsi sulle scale per cinque piani..) che ascolta il vaniloquio di un ruffiano accompagnatore (capisco che i due sono insieme perché esibiscono un unico numerino), un giovinastro ben vestito e pettinato, che mi ricorderebbe un dandy fuori stagione se non ostentasse un atteggiamento alquanto effeminato. E ad una battuta di quello, la bambolona prorompe in una risata uterina. Tutti volgono lo sguardo nella direzione dei due e nell’espressione del cicisbeo si coglie un moto di imbarazzo per aver destato quella malvoluta attenzione. Un avventore esce dall’ufficio e subito il pensionato tremens infila il corridoio per prenderne il posto. Altri stami infecondi di esistenza vanno e vengono. Poi è la volta della Circe col suo Ulisse all’acqua di rose, ma l’attesa per me è ancora lunga. Non ho l’abitudine di smanettare col telefonino se non il minimo necessario e dunque mi cerco qualcosa da leggere per poter ammazzare il tempo. Ma, a parte una copia spiegazzata del Quotidiano di Lecce, che io ho già letto la mattina presto, sul tavolino malfermo della saletta giacciono, in ordine sparso: un “Oggi” vecchio di qualche mese, un “Vero” ancora più vecchio, un “Di più” e una”Diva e donna” di cui non leggo la data. Ok, mi connetto col telefonino. Apro e da “Il Fatto Quotidiano on line”, su cui ho impostato da qualche tempo la mia home page, leggo che l’Italia è prima in Europa per corruzione, sopra la Bulgaria e la Grecia, dati 2014. La classifica, Corruption Perception Index, è stilata da una non meglio precisata Transparency International, che riporta le valutazioni degli osservatori internazionali sul livello di corruzione di 175 paesi del mondo. L’indice 2014 colloca il nostro paese al 69esimo posto nella classifica mondiale, come negli anni precedenti. La corruzione ammonterebbe a 60 miliardi di euro. Non so se questa cifra (riportata anche dal blog di Beppe Grillo) sia esatta. Infatti su “Corriere.it” c’è una secca smentita. Si tratta di una cifra inventata, dice il Corriere, che non si basa su dati scientifici tanto che anche il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, ne ha confermato l’infondatezza . Purtroppo questa curiosa storiella continua a circolare di bocca in bocca, o meglio di media in media, e finisce per essere accreditata come ufficiale. Certo è che, se fosse vera, o anche verosimile, sarebbe una notizia stratosferica. Quante cose si potrebbero fare con 60 miliardi? Quante opere pubbliche si potrebbero completare? Quante strade, quanti asili, quanta nuova edilizia popolare in quartieri meno degradati? E quanta ricerca scientifica si potrebbe finanziare nella lotta a quelle malattie, come il cancro, che non hanno ancora una cura certa? Viene il mal di testa. Invece di migliorare i trasporti pubblici, eliminare le barriere architettoniche nelle città, creare servizi più efficienti, alcune migliaia di funzionari e politici pensano ad ingrassare alle spalle dei milioni di pirla che invece tirano la carretta. E si dedicano ai loro loschi affari, alle piccole e grandi convenienze, alle scalate a banche e società di Stato. Intanto guardo il presunto intellettuale chino sul suo libercolo e penso che per avere successo dovrei scrivere dei libri per quel genere di persone che, quando leggono, muovono le labbra. Escono la vamp in minigonna e tacchi a spillo con accompagnatore, ed entra il ragazzotto simile a Crhis Griffin che lancia un’ultima infuocata occhiata alla signorina tutta curve.
Ad un certo punto, mentre credo di dover ancora attendere, odo una voce oltretombale che richiama la mia attenzione. La voce fa proprio il mio nome. Ma mi inganna la tromba di Eustachio o è reale? Nessuno mi aspettava, o almeno nessuno dovrebbe conoscermi in questo posto. Percorro il corridoio e mi sento un po’ Fantozzi quando sale nell’ufficio all’ultimo piano del mega direttore galattico. Ad un certo punto, un viso conosciuto mi viene incontro. Un mio vecchio amico, che è diventato direttore di quel posto e, avendomi visto entrare, ha pensato bene di favorirmi mettendomi un impiegato a disposizione. Lassù qualcuno mi ama. Dopo i convenevoli di turno, mi infilo nell’ufficio indicatomi. Il depravato impiegato, che evidentemente non era al corrente della mia vista, spegne fulmineo il pc su cui stava guardando un porno e si mette a mia disposizione. In breve, evado la pratica, ringrazio la mia buona stella e mi affaccio all’ufficio del direttore per un ultimo saluto. “Entra, entra” mi invita l’amico e io penso che aver usufruito di una corsia preferenziale è stato del tutto inutile. “Come va, come va?”, mi si rivolge mellifluo. Così ci aggiorniamo sulle rispettive vite privare. Mi dice di essere spostato anche lui ma separato, con due figli piccoli. “Mi dispiace” asserisco, “sono cose che capitano. È davvero preoccupante quanto sia aumentato il numero di separazioni e divorzi negli ultimi anni.” “Già”, fa quello con un’espressione trita e contrita. “Comunque io e la mia ex moglie manteniamo un rapporto civile, almeno fino a domenica scorsa”. “Perché, cosa è successo?” domando. “Sai, ci siamo riuniti per il pranzo. Ogni tanto lo facciamo, per amore dei figli”. “Eh..” “ Solo che io ho avuto un lapsus freudiano e lei è montata su tutte le furie. Invece di dire <Carla passami il sale>, ho detto < maledetta puttana mi hai rovinato la vita!>”. “Urka!” strabilio. Si crea un silenzio di imbarazzo e, dopo un po’, quello inizia a digrignare i denti e quindi prorompe in una risata grassa “Ma sto scherzando, minchione, ahhhaahh.!. è una battuta, l’ho sentita ieri sera in televisione, a Zelig!” . “Ma vaffanculo!”. Il silenzio si squaglia come cera che ci cola sulle teste. Avevo dimenticato, dopo averlo perso di vista per alcuni annetti, quanto questo amico fosse un buontempone e un amante degli scherzi pesanti. “Con mia moglie andiamo d’amore d’accordo”, mi rassicura, “ ed è tutto ok!” “Bene”. Finalmente ci salutiamo e io mi metto in macchina per ritornare a casa. I dati sulla corruzione in Italia continuano a ballonzolare nella mia testa. “Ladri, ladri, ladri!”, una vocina esce dai precordi ed ha la voce di Pannella. È davvero una vergogna detenere un primato del genere. Quel che è peggio, ma non voglio fare vieta retorica, è che questo sistema continua ad alimentarsi da sé, come dire per partenogenesi, nella connivenza, collusione, compiacenza di molti, e nell’acquiescenza, nella supina accettazione di altri ( “si è sempre fatto così. Munnu era e munnu ete”). È la mentalità della gente che dovrebbe cambiare. Ma si sa, tra il dire e il fare c’è di mezzo “e il”, come dicono Elio e le storie tese. Il paese dovrebbe cambiare con atti concreti, dal basso, non con pistolotti come rischia di apparire questo mio articolo. Così non si può continuare. Per dirla con Corrado Guzzanti , “per cambiare veramente le cose ci vogliono le idee. Io ci metto questa”.
Che il Salento sia una terra ricca di meraviglie e molto ancora ci sia da scoprire, è un pensiero che riempie di gioia ma più di ogni altra cosa dovrebbe solleticare la curiosità dell’intera collettività. Se questo spesso non avviene, uno dei motivi credo si possa rintracciare nell’appartenenza del singolo ad una società utilitaristica ed antropocentrica che quotidianamente ci logora. Il gran da fare che abbiamo, da mattina a sera, in ogni giorno della settimana rende difficile godere del contatto con la natura: gli habitat naturalistici così ci sfuggono e di conseguenza ci sfugge anche la conoscenza delle relative specie autoctone che li popolano. Talmente presi nell’inseguire il potere, soddisfare i nostri bisogni, prevalicare l’uno sull’altro, che il paesaggio naturale, laddove non soggetto a tutela, sovente viene da noi distrutto o fortuitamente, in alcuni casi, dimenticato. Ed è proprio in uno smarrito angolo di paradiso che, poche settimane fa durante un’escursione, ho avuto la fortuna di osservare e fotografare una particolare chicca botanica…
A prima vista un giardinetto di macchia arcaica popolato dalle consuete specie, ma a guardar bene tra cisti, querce spinose, lentisco e perastri, ecco far capolino numerosissimi fiori che esulavano dall’ordinarietà: quasi bramavano d’essere riconosciuti e si affacciavano fieramente azzurri!
Mai prima d’allora avevo osservato questo fiore, motivo per cui decido di condividere uno degli scatti che avevo realizzato, su facebook, nel gruppo pubblico “Fra le Scrasce”: uno spontaneo e partecipato laboratorio a cielo aperto in rete, dove si condividono bellezze e conoscenze del territorio e ci si incuriosisce nell’identificazione delle piante salentine e non solo. Amanti della natura, fotografi e naturalisti partecipano attivamente e nei casi di identificazione più complessi si può godere, con fortuna, anche del parere di esperti. Nello specifico, anche in questo caso, grazie al prezioso contributo del prof. Piero Medagli, è stato possibile identificare la pianta che si osserva in foto come:
Un’identificazione di notevole importanza se si tiene presente che in diversi luoghi in Italia si può individuare l’Iris unguicularis, specie originaria del nord Africa ed introdotta nella nostra penisola come pianta ornamentale, ma nel caso in questione, nel nostro Salento, la questione è ben diversa trattandosi invece dell’Iris unguicularis subsp. cretensis che cresce nella vicina Grecia, soprattutto nelle isole di Creta e Corfù, e si distingue per le foglie più discrete, corte e sottili, e per il fiore a lacinie più strette e di un colore un po’ più inteso, molto vicino al viola-malva.
Al riguardo,scrive infatti il prof. Piero Medagli: “ Secondo le ultime acquisizioni la subsp. di Iris unguicularis presente nel Salento è proprio la cretensis. In effetti la presenza in aree antropizzate come la periferia di Otranto e villa Tamborrino a Maglie hanno fatto ipotizzare ad alcuni studiosi trattarsi di specie introdotta e spontaneizzata, ma trattandosi proprio della subsp. cretensis di provenienza balcanica il tutto andrebbe riconsiderato partendo dal presupposto che il Salento è ricco di specie trans-adriatiche e trans-ioniche.”
Per l’Iris unguicularis subsp. cretensis sembrerebbe dunque si possa parlare di origine spontanea e non è poco considerando che si tratta di una sottospecie balcanica tipica della Grecia segnalata in Italia, ad oggi, nel Salento. Non a caso la penisola salentina è la regione che più di tutte guarda e si protende a oriente, attirata dal richiamo arcaico di quelle terre al di là del canale d’Otranto, dove son le nostre radici identitarie e culturali oltre che botaniche.
Curiosa e singolare poi come coincidenza, se si pensa che il nome di questo genere deriva dalla parola greca Iris (dea della mitologia greca, il cui compito era quello di consegnare le missive degli dei dall’Olimpo sulla Terra) e significa arcobaleno: quale ponte più bello per antonomasia si potrebbe mai sognare quale ricongiunzione simbolica di due terre tanto vicine, quanto lontane che si guardano e si cercano da sempre ma son separate dal mare?
Considerazioni personali e riflessioni mitologiche a parte, mi ritrovo qui a scrivere perché credo e spero fortemente nel radicarsi nel Salento di una cultura naturalistica essenzialmente volta a migliorare la gestione del territorio con l’obiettivo di contrastare il degrado ambientale in favore della salvaguardia della biodiversità. Mi auguro si possa comprendere che l’Iris unguicularis supsp. cretensins è da considerarsi una specie botanica di pregio, dall’alta valenza fitogeografica, facente parte della vegetazione spontanea autoctona salentina da tutelare e specialmente ridiffondere. E’ nostra responsabilità civica preservare e tutelare le risorse e i valori paesaggistici che il territorio ci offre. Salvare il paesaggio rurale salentino, così come lo conosciamo, farlo conoscere, con la sua caleidoscopica diversità è quanto si deve fare, e si può fare, per conservare la ricca biodiversità del nostro territorio insieme alla nostra identità storica e culturale.
Latino classico TABULA=asse, quadro, carta geografica, quadro votivo, tavoletta per scrivere, scritto, registro, contratto, testamento, editto, avviso di vendita all’incanto, banco di cambio, scacchiera, riquadro di terreno, panneggio. Il corrispondente greco, il πίναξ (leggi pinax), aveva una gamma ancor più vasta di significati: plancia usata nella costruzione di navi, vassoio, tavoletta per scrivere, catalogo, carta geografica, tavola di astrologia, quadro, quadretto votivo, tavola di lavoro dei cuoiai, teatrino per le marionette. Come strumento scrittorio la tabula latina ed il pinax greco comportavano, rispettivamente, l’uso dello stilus e del γραφίϛ (leggi grafìs), una cannuccia appuntita da un lato con cui s’incideva la cera spalmata sulla tavoletta.
Latino medioevale TABULETA
Italiano TAVOLETTA francese TABLETTE inglese TABLET
Se il diagramma relativo alla nostra parola di oggi è relativamente corto (anche in senso cronologico) è molto meno corta la storia visiva degli antenati del nostro oggetto, che ho sintetizzato essenzialmente nelle pagine che seguono.
Lettera su argilla spedita dal religioso Lu’enna al re di Lagash (2400 a. C.), custodita al Museo del Louvre.
Papiro di Ani (circa 1200 a. C.), custodito al British Museum.
Scrittura con stilo su tavoletta di cera, dettaglio da una kylix decorata da Duride (circa 500 a. C.), conservata nel Museo di Berlino.
Uno dei rotoli del Mar Morto (II secolo a. C.-I secolo d. C.), pergamena custodita nel Museo d’Israele a Gerusalemme.
Affresco da Pompei (I secolo d. C.) custodito nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
La pagina 358 (è la penultima) dell’incunabolo Supplementum Chronicarum di Iacopo Filippo Foresti da Bergamo stampato, come recita il colophon (dettaglio in basso), il 1-12-1485 a Brescia per i tipi di Bonino De Boninis di Ragusa1.
Inizi XXI secolo.
Non è facile rispondere, cioè prevedere cosa ci riserverà il futuro. Mi piace, però, riproporre l’ultima immagine con a fronte una delle precedenti.
Nello spazio di circa 2500 anni l’età dell’alfabetizzazione si è drasticamente abbassata ma non mi sento di dire se la sua qualità, grazie anche agli innegabili progressi tecnologici, sia migliorata. È in atto, come si sa, a tal proposito, un acceso dibattito, anche politico (sul coinvolgimento reale degli operatori della scuola nel processo decisionale evito di dire la mia opinione …); mi limito a dire che l’uso di qualsiasi strumento (tanto più quando, come nel caso del tablet, la versatilità è altissima) comporta un preventivo, o almeno parallelo, processo educativo per fare in modo che sia sempre il nostro cervello il padrone della situazione.
Gli strumenti (pinax e grafìs) utilizzati dallo scriba giovinetto evocano sorprendentemente l’immagine di un portatile a schermo tattile e della penna grafica.
Sarebbe la riconferma dei corsi e ricorsi storici vichiani (in cui, com’è noto, il ricorso fa sempre tesoro della pregressa esperienza del corso) e sarebbe l’occasione per recuperare un pizzico di manualità. Non mi conforta, tuttavia, il sapere che nemmeno il più sofisticato OCR (cioè il programma di riconoscimento ottico dei caratteri) attualmente è in grado di convertire correttamente, cioè senza bisogno di controllo ed eventuale correzione, il testo tracciato sul display con la penna grafica per utilizzarlo con un programma di videoscrittura. E con il riconoscimento vocale implementato anche le dita potranno riposarsi ancor di più. Però il nostro bravo tablet correggerà automaticamente il nostro qual’è con qual è o accellerare con accelerare ma non sarà in grado di farlo con un costrutto sgangherato e, meno ancora, con qualche nostra fesseria concettuale. Forse …
______________
1 Ragusa, capitale della repubblica ragusea in Dalmazia, ove il De Boninis era nato. Del testo del Foresti la Biblioteca comunale Achille Vergari di Nardò conserva un altro incunabolo stampato a Venezia il 15 dicembre 1486 per i tipi di Bernardino Benagli; nell’immagine in basso la pagina 295 con il colophon che ho evidenziato in rosso ed ingrandito nel dettaglio.
Rivangando le ormai antiche mie consuetudini con i fumetti, rammento che non ho mai avuto in simpatia il personaggio di Paperon dei Paperoni, l’arci ricco ed avaro per eccellenza, senza peraltro che, nei suoi confronti, nutrissi sentimenti di particolare repulsione o disistima: in sostanza, mi pareva che il miliardario ignorasse completamente la generosità, e però che non danneggiasse il prossimo.
Inoltre, ai miei occhi di ragazzino e adolescente, il fatto che egli si trovasse continuamente costretto a contare e misurare i propri tesori valeva alla stregua d’una sorta d’espiazione morale per l’assoluta mancanza in lui, giustappunto, di generosità e altruismo.
Oggi, non esistono più figure di autentici Paperon dei Paperoni. Volgendo lo sguardo intorno, ci si rende conto che è, soprattutto, tempo di cicale, anzi di un universo di cicale, oltre che di manipoli d’approfittatori arraffa soldi senza ritegno. Infatti, su un fronte, è diffusa la tendenza a non dare più valore, neppure minimamente, al denaro, mentre, su quello opposto, nugoli di avvoltoi si muovono a man bassa: effetto di ciò, il veloce e rapido svuotamento delle tasche e del portafogli della gente comune (cicale per niente avvedute) e l’ingiusto, indebito e truffaldino accumulo di guadagni a dismisura da parte degli altri (ossia i manovratori, i venditori di certi beni e servizi).
Qualche esempio concreto.
Chi scrive, prova rabbia per quanti, fra gli immigrati clandestini, esercitano il ruolo di negrieri e sfruttatori, imponendo ai ragazzini e alle donne, distribuiti ai semafori, di incassare un minimo giornaliero, pena pesanti punizioni o soverchierie. Trova maggiormente odiosi tali loschi individui al pensiero che, nel chiuso dei tuguri o tende o roulotte, esercitano a tutto spiano, a suggello della loro malsana concezione di possesso, il rito quotidiano della “monta”, il che è testimoniato dalla circostanza che almeno tre donne su quattro, a cominciare dalle appena adolescenti, si presentano permanentemente incinte.
Come pure, è pervaso da disappunto e rabbia per i quattro minuti e mezzo di dondolio dei bimbi su cavallucci o altri animali elettrici o per i due minuti di giro in trenino al prezzo di un euro; e ancora, all’atto dell’acquisto di pesce azzurro a cinque o sei euro al chilogrammo, quando tale prodotto è pagato ai pescatori da uno a due euro, per non parlare, infine, della frutta che, sui banchi del supermercato, quota sovente cinque o sei volte la cifra corrisposta ai produttori.
In fondo, dietro al comportamento del vecchio, a miei occhi antipatico, Paperon dei Paperoni, non allignava la disonestà; essa, al contrario, sembra costituire, oggi, una vera e propria costante.
Come già detto, la tradizione del passaggio di San Pietro in Puglia è considerata da alcuni storici come sostanzialmente leggendaria. Eppure , il grande archeologo M.Cagiano de Azevedo ribadiva che “le molte tradizioni , salentine in specie e pugliesi in genere, che vogliono di età apostolica o subapostolica la introduzione del cristianesimo in Puglia non possono venire accantonate troppo semplicemente “.Lo stesso studioso, nel ribadire che “la vivacità dei commerci con l’Oriente e la leggenda dello sbarco di San Pietro in Puglia indicano come vi fossero molte e buone possibilità che il Vangelo venisse direttamente dall’Oriente”, sottolinea l’importanza decisiva dell’elemento portuale come luogo di contatto e scambio di uomini, merci e idee[1]. La Puglia, in epoca romana, era caratterizzata da una fitta rete di realtà portuali, di piccole, medie e grandi dimensioni. I porti erano collocati a breve distanza l’uno dall’altro: tra due grossi porti era collocata una serie di porti più piccoli., dei quali, nella gran parte dei casi, non conosciamo il nome. Nel mondo antico “si cura il più piccolo attracco, purchè sia vicino al luogo di produzione”[2]. Ed uno di questi piccoli attracchi doveva certamente essere quello di Bevagna, le cui dimensioni ci sono sconosciute, per mancanza di dati archeologici .Si trattava, come sostenuto da alcuni, di un semplice approdo di fortuna, oppure è lecito pensare ad una realtà meglio organizzata? Per ricostruire la geografia dei porti , occorre comunque tenere conto anche dei naufragi, poichè “i relitti marini sono significativi anche per i commerci di transito, ossia per l’appoggio che i porti locali potevano offrire alle navi dirette in altri porti. I naufragi, nel loro aspetto negativo, indicano che si tentava, in caso di necessità, di ripararsi in questi porti minori. Così la nave (…..) naufragata dinnanzi a Torre San Pietro a 300 metri dalla foce del Chidro, contenente sarcofagi sbozzati destinati ad essere rifiniti nel luogo terminale del viaggio”[3].
A Bevagna esisteva dunque una realtà portuale, che verosimilmente accolse l’imbarcazione che trasportava Pietro, ma a cui non fece in tempo ad appoggiarsi il naviglio che recava con sè il carico di sarcofagi, ancora inabissato davanti alla foce del Chidro. Pietro era comunque un viaggiatore del tutto particolare: non era un “turista” ,ma uno straniero, e un cristiano che si recava ad evangelizzare una terra sconosciuta. Egli si mosse probabilmente in una condizione di semi-clandestinità, ben consapevole di essere inviso alle autorità romane. Non è improbabile che, per giungere in Italia, abbia utilizzato una nave deputata al trasporto di derrate e merci varie. Navigando lentamente e sottocosta, l’Apostolo giunse dunque a Bevagna , come vuole la tradizione, nell’Aprile del 44 D.C. La data cronica del suo arrivo trova un riscontro positivo nella logica della navigazione antica , che suggeriva di mettersi in mare , soprattutto per i viaggi lunghi, in un periodo climaticamente favorevole, evitando di muoversi in periodo di “mare clausum” (da Novembre ai primi di Marzo)
CONCLUSIONI
Focalizzando la nostra attenzione su tre elementi salienti della leggenda petrina di Bevagna, abbiamo voluto verificare quanto può esservi di verosimile nel narrato riportato da padre Domenico Saracino. Abbiamo dunque proceduto su base congetturale, fornendo al lettore tre indizi, che però a noi paiono, per usare un’espressione del linguaggio giuridico, “gravi , univoci e concordanti”. Tre indizi che, quindi, potrebbero costituire una prova, quella del reale passaggio di San Pietro per le nostre contrade. Concludiamo le nostre note con un auspicio: che nell’area in cui sorge il santuario di San Pietro in Bevagna si possano avviare, finalmente, scavi archeologici organici ed approfonditi, al fine di poter comprendere cosa è realmente successo in quel luogo così carico di valenze mitiche. Quanto alla leggenda petrina, è certo che nessuno di noi possiede il filmato del delitto di cui cerca l’autore, ma grande deve essere stata la sorpresa di quello studioso che, dando credito al racconto di un indigeno, scavò un giorno su un’isola lontana, scoprendo che tutto, di quel racconto, corrispondeva al vero.
[1] Cfr. M.Cagiano De Azevedo, Quesiti su Gallipoli tardoantica e paleocristiana, in “Vetera Christianorum”, 15 (1978), pp.363-364.
E’ molto importante il ruolo che esercita la potatura in un processo produttivo che punta alla qualità delle produzioni. Si parla tanto di emergenza, in questi ultimi mesi, ma si sta trascurando il fatto che nella coltivazione di una pianta così complessa come l’olivo sia indispensabile, oltre che fondamentale, che tutto proceda per il meglio, senza mai trascurare nulla, perché anche il minimo particolare contribuisce di fatto a fare la differenza. Un albero si ammala se non riceve le necessarie cure. Un albero non produce come dovrebbe se a mancare è anche una qualità e puntualità degli interventi colturali. Ci vuole professionalità: l’olivo, anche se pianta rustica e di facile adattamento, la richiede.
La potatura è tra le pratiche colturali più urgenti e necessarie. Un oliveto non curato porta con sé i segni nelle olivagioni e non ci si può certamente lamentare del calo di produzione. A volte possono esserci esiti anche disastrosi. L’incuria è il grande nemico. L’assenza di attenzioni nei confronti della pianta, ma anche l’esercizio di una potatura condotta in modo approssimativo, se non addirittura in maniera errata, condiziona inevitabilmente il futuro agronomico della stessa pianta.
Potare, dunque, è importante, ma farlo costantemente è giocoforza inevitabile. Non basta, tuttavia: occorre farlo anche bene, giacché non tutti i potatori sono in grado di garantire buoni risultati. Nasce proprio da questa esigenza, e con tali intenzioni, il corso di potatura dell’olivo organizzato dal centro culturale Casa dell’Olivo, giunto, con il 2015, alla sua quarta edizione.
Il corso è rivolto non soltanto a chi non conosce la materia e vuole iniziare a intraprendere un percorso conoscitivo di formazione, ma anche, se non soprattutto, a coloro che pensano di sapere tutto ma poi ignorano le evoluzioni di tale pratica colturale, in una visione d’insieme che tragga opportuna ispirazione da esperienze professionali nuove, ispirandosi nel contempo a una visione altrettanto nuova dell’olivicoltura, sempre nel pieno rispetto delle esigenze più necessarie e urgenti che la pianta dell’olivo volta per volta va manifestando.
La potatura, dopo la raccolta delle olive, è la pratica più onerosa. La grande questione centrale poggia oggi su un interrogativo sul quale è bene riflettere: è possibile concepire delle innovazioni anche in termini di una riduzione dei costi? E con quali esiti?
ISCRIZIONE AL CORSO: direzione@casadellolivo.it – segreteria@casadellolivo.it
Programma IV edizione
CORSO INTENSIVO DI POTATURA DELL’OLIVO E TECNICHE COLTURALI
25 – 28 marzo 2015
DOCENTI DEL CORSO
Salvatore Camposeo, Dipartimento di Scienze agro-ambientali e territoriali della Università degli studi Aldo Moro di Bari
Francesco Caricato, direttore centro culturale Casa dell’Olivo
Pardo Di Tommaso, esperto di potatura
Enrico Maria Lodolini, Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali della Università Politecnica delle Marche
Davide Neri, Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali della Università Politecnica delle Marche
SEDI DEL CORSO
Casa dell’Olivo, piazza del Popolo 1, San Pietro in Lama (Lecce)
Istituto di istruzione secondaria superiore “Giovanni Presta – Columella”, via San Pietro in Lama, s. n., Lecce
Mercoledì 25 marzo 2015
Sede: Casa dell’Olivo
Ore 14.30 – 15.00 – Registrazione dei partecipanti
Ore 15.00 – 17.00 – Lezione teorica su caratteristiche dell’olivo ed eco-fisiologia radicale (NERI)
Ore 17.00 – 18.15 – Lezione teorica su basi biologiche della potatura dell’olivo, con particolare riferimento agli areali olivicoli pugliesi: ciclo vegetativo e riproduttivo (CAMPOSEO)
Ore 18.15 – 19.30 – Lezione teorica su tecnica di potatura dell’olivo in allevamento, produzione e riforma/ricostruzione (LODOLINI)
Giovedì 26 marzo 2015
Sede: Istituto di istruzione secondaria superiore “Giovanni Presta – Columella”
Ore 09.00 – 13.00 – Lezione tecnico-pratica di potatura agevolata su alberi monumentali (NERI, CAMPOSEO, LODOLINI, DI TOMMASO, CARICATO)
Pausa pranzo
Ore 14.00 – 17.00 – Esercitazione di potatura agevolata su alberi monumentali (NERI, CAMPOSEO, LODOLINI, DI TOMMASO, CARICATO)
Ore 17.30 – 19.30 – Lezione teorica
Sede: Casa dell’Olivo
Sostenibilità ambientale ed economica dell’olivicoltura meridionale. Gestione del suolo, concimazione, irrigazione. Interventi agronomici a difesa del disseccamento rapido dell’olivo (CO.di R.O.) (NERI, CAMPOSEO, LODOLINI)
Venerdì 27 marzo 2015
Ore 09.00 – 11.00– Lezione pratica in campo
Sede: Istituto di istruzione secondaria superiore “Giovanni Presta – Columella”
Lezione teorico-pratica di potatura su impianti tradizionali ed intensivi
Ore 11.00 – 13.00– Esercitazione pratica di potatura
Sede: Istituto di istruzione secondaria superiore “Giovanni Presta – Columella”
Esercitazione pratica di potatura su impianti tradizionali ed intensivi (NERI, CAMPOSEO, LODOLINI, DI TOMMASO, CARICATO)
Pausa pranzo
Ore 15.30 – 17.00– Esame valutativo
Sede: Casa dell’Olivo
Prova valutativa scritta valida per il conseguimento dei titoli formativi (NERI, CAMPOSEO, LODOLINI, DI TOMMASO, CARICATO)
Ore 17.30 – 19.00– Programmazione
Sede: Casa dell’Olivo
Programmazione e descrizione delle modalità di esecuzione delle prove in campo per il conseguimento del titolo abilitativo e l’accredito dei titoli formativi.
Sabato 28 marzo 2015
Ore – 09.00 – 11.00 – Esame valutativo
Sede: Istituto di istruzione secondaria superiore “Giovanni Presta – Columella”
Prova valutativa tecnico-pratica valida per il conseguimento dei titoli formativi (NERI, CAMPOSEO, LODOLINI, DI TOMMASO, CARICATO)
Ore 11.00 – 13.00– Prove in campo con piattaforme aeree semoventi, omologate per spostamenti in quota con attrezzature per la potatura: elettriche, pneumatiche e idrauliche tali da garantire la sicurezza dell’operatore durante le fasi lavorative.
Sede: Istituto di istruzione secondaria superiore “Giovanni Presta – Columella”
I corsisti potranno impiegare le attrezzature messe a disposizione delle aziende espositrici.
Pausa pranzo
Ore 14.30– Consegna degli attestati di partecipazione e dei titoli formativi
Sede: Casa dell’Olivo
Saluti delle autorità presenti
Presentazione dei volumi: Atlante degli oli italiani, di Luigi Caricato, edizione Mondadori; Succo di olive. Guida ragionata alla conoscenza degli oli, dalla produzione al consumo consapevole, autori vari, a cura di Luigi Caricato, Stefano Cerni, Lorenzo Cerretani, Giovanni Lercker, edizione Olio Officina
QUOTA DI PARTECIPAZIONE
E’ previsto un contributo di partecipazione al corso di 200,00 euro Iva inclusa. Tale quota comprende:
E’ uscito in questi giorni l’ultimo lavoro di don Giuliano Santantonio, direttore dell’Ufficio Beni culturali della diocesi di Nardò-Gallipoli, Quel fierissimo tremuoto. Nardò e le vittime del sisma del 1743. 28 pagine, stampate dalla tipografia Biesse di Nardò, che rileggono le vicende del funesto sisma del 20 febbraio 1743, che tanti danni arrecò a molti centri di Terra d’Otranto e alla città di Nardò in particolare.
Un sisma di magnitudo M=6.9 che fu avvertito in tutto il Regno di Napoli e che causò danni ingenti e centinaia di morti, tra cui anche donne e bambini, dei quali elencati in dettaglio dall’autore nella pubblicazione.
“Gran parte del tessuto urbano – scrive Santantonio – fu sconvolto e gli apprezzi dei danni, fatti da lì a qualche mese, vanno dai 260.000 ducati circa ad oltre 400.000 ducati, somma ingentissima se si tiene conto che il salario medio annuo di un bracciante agricolo all’epoca ammontava a circa 30 ducati. Il Liber mortuorum della Chiesa Cattedrale registra per quell’evento 112 vittime, due delle quali rimaste insepolte sotto le macerie: si tratta di una rilevazione assolutamente certa e attendibile, mentre alcune fonti parlano di 150 vittime e altre addirittura di 349, numeri che appaiono piuttosto inverosimili per la sola Città di Nardò, dove se vi fossero stati dei dispersi rimasti sotto le macerie sarebbero stati sicuramente individuati e citati nel Liber mortuorum, come fu per i due riportati.
La statua di S. Gregorio Armeno, che dall’alto del sedile si vide ruotare per tre volte con la mano benedicente protesa quasi a fermare il flagello, diede da subito origine al convincimento che fu la protezione del Santo Patrono ad evitare un epilogo ancora più doloroso”.
Nella prima parte del volumetto, seppur già note, si riportano le fonti notarili che descrissero l’evento:
“Tra quelle che presentano maggiore interesse vi sono gli atti e le annotazioni di alcuni notai dell’epoca, testimoni diretti dell’evento, le cui particolareggiate descrizioni ci lasciano intuire quale impressione ebbe a destare nell’animo dei contemporanei un evento così drammatico.
Scrive il notaio Oronzo Ippazio De Carlo:
“Nel giorno di mercoledì venti febbraio, giorno più tosto estivo che d’inverno, a circa ore 23 nell’occaso si suscitò un vento gagliardissimo che fece stupire ogn’uno ed intimorire, poiché pareva che per l’aria correvano centinara di carrozze unite, tale era lo strepito, s’offuscò l’aria e pareva che mandasse fuoco, l’acqua ne pozzi saltava e si riconcentrava. Si oscurò il sole, e sopra le ore 23 traballò per causa d’un tremuoto Nardò, tornò a traballare, e finalmente muovendosi la terra à guisa dell’acqua che ferve nella pignatta, operò che cascasse dalle fondamenta Nardò. Morirono dà 349 cittadini, la maggior parte però furono bambini. Tutto rovinò, ogli, grani, etc.. I mobili e suppellettili dall’ingiurie delle pietre, polveri, e de tempi che susseguirono, restarono di minor momento e valore. La statua della Beatissima Vergine Maria del vescovado sotto il titolo dell’Assunta sudò. La statua di San Gregorio Armeno che steva sopra del publico Sedile si vidde con la mano sinistra far segno al vento di ponente che fiatava che si quietasse. Le altre statue di San Michele e Sant’Antonio cascarono. Il danno ascese ad un milione sento settantacinque mila docati. Fu inteso il tremuoto da tutta l’Europa, anzi dal mondo tutto” (ASLe, Sezione notarile, protocollo del notaio Oronzo Ippazio De Carlo)”.
Sempre Santantonio scrive:
“Lo stesso notaio ripropone nel medesimo protocollo un’altra descrizione dell’evento, con qualche discrepanza rispetto alla prima:
“Successe un fierissimo tremuto, che durò secondo la comune, sette minuti, e ruinò dalle fondamenta la Città di Nardò [….] morirono duecentoventiotto persone, oltre centinara di figlioli e quattrocento e sette persone restarono in gran parte della persona offese e ferite. Quali morti e feriti furono tutte quasi persone basse a riserba del canonico D.Tommaso Abbate Piccione, del suddiacono Giuseppe Nociglia e del Padre fra’ Michele Talà Carmelitano. La fedelissima città di Lecce mandò per carità à detti infermi con il suo maestro di piazza settecento rotola di pane, quattro castrati e contanti. L’eccellenza del Signor marchese di Galatone ò sia il Principe di Belmonte colla sua solita pietà provedè del necessario detti poveri avendo dato ricovero alle religiose dette del Conservatorio, ed à più e più persone che erano fuggite in Galatone, dove dimora detto Eccellentissimo duca di Cerisano preside e da dove giornalmente si porta per provedere agli bisogni di detta città. Varii furono gli eventi che precedettero à detto tremuoto e frà questi il Tutelare Padre S.Gregorio Armeno, la di cui statoa di lecciso esisteva sopra del Publico Sedile nella piazza nell’atto che la terra si scoteva, invocato dal popolo si voltò visibilmente verso il ponente dà dove s’insorse il tremuoto, e la mano che prima steva in atto di benedire ora si vede tutta aperta ed in atto che impedisce il flagello: a continua a star voltata verso di detto vento di ponente, avendo perduto la mitra, che era tirata à tutto un pezzo con la statoa, ma non già lo pastorale. Cascarono poi le statoe di S.Michele, e di S.Antonio, che tenevano in mezzo detta statoa di esso S.Gregorio…” (ASLe, Sezione notarile, protocollo del notaio Oronzo Ippazio De Carlo) “.
E completa con l’altra annotazione:
“Il notaio Vincenzo Fedele, sotto la dicitura “Notizia a’ Posteri” inserita nel suo protocollo del 1742-1743, racconta circa la statua di San Gregorio posta sul Sedile:
“trè volte si vidde dal popolo che presente era in Piazza nell’atto di precipitare, e nello stesso istante li caschò la midra dà testa […] onde considera ò mio lettore che forsa hà il nostro Gran Protettore davanti Sua Divina Maestà à liberare il suo popolo dà i suoi giusti castighi per le nostre colpe. Gran Protettore Gregorio quanto ti deve la Città neretina” (ASLe, Sezione notarile, protocollo del notaio Vincenzo Fedele)”.
Riguardo l’entità dei danni nella sola Nardò l’autore riporta quanto scrisse il notaio Nicola Bona a distanza di qualche mese in un elenco sicuramente incompleto:
“la intiera chiesa del venerabile convento di S.Francesco di Paola; la mettà del venerabile monastero di S.Teresa; il quarto di quello di S.Chiara; il terzo del venerabile Conservatorio di donne monache sotto il titilo della Purità assieme colla gubola della chiesa frantumata; la chiesa del venerabile convento de Scalzi di S.Agostino sotto il titolo della Coronata divisa pe il mezzo; il vescovado tutto conquassato e parte rovinato; la catedrale tutta servata col campanile precipitato in due de suoi ordini; il campanile della chiesa dei PP.Predicatori frantumato l’ordine superiore e la chiesa minacciante rovina; le case della Città nella publica piazza colle carceri nella parte inferiore tutte tirate a terra colla morte di sette infelici carcerati…” (ASLe, Sezione notarile, protocollo del notaio Nicola Bona).
E per completezza vengono anche riportati i pareri di alcuni mastri muratori, chiamati a redigere una stima dei danni subiti dal campanile della chiesa di S.Domenico e del Seminario ricostruito da Ferdinando Sanfelice, di cui fu danneggiata “specialmente la facciata, furono ruinati da sotto le fondamenta, la scala che si sale sopra e l’ambulatorio precipitati à terra et anche la chiesa, con havere solamente rimasta in piedi lo pariete della strada, e tutta aperto, e le officine desolate…” (ASLe, Sezione notarile, protocollo del notaio Angelo Tommaso Maccagnano)”.
Molto interessante, ma anche questa cronaca già nota agli studiosi, la perizia giurata dei mastri muratori Nicolantonio de Angelis di Corigliano e Lucagiovanni Preite di Copertino, che quantifica nel modo seguente l’entità complessiva dei danni:
ducati 62.512 per gli immobili appartenenti ai benestanti;
ducati 50.829 per gli immobili delle persone povere;
ducati 108.982 per gli edifici ecclesiastici;
ducati 8.000 per trasportare fuori le mura i materiali degli edifici crollati e di quelli da abbattere;
ducati 30.000 per ricostruire le mura e le torri
ducati 6000 per le case del Governatore e le carceri;
ducati 800 per il Sedile;
altre somme non quantificate per riparare il cappellone di San Gregorio nella Chiesa Cattedrale e le case, appartenenti alla Città e dati in uso ai Ministri regii di passaggio (ASLe, Sezione notarile, protocollo del notaio Angelo Tommaso Maccagnano).
La novità della pubblicazione è data proprio dall’elenco delle 112 vittime, riportato nel Registro dei Defunti della Chiesa Cattedrale di Nardò, vol. 18 – dal 1742 al 1766 in quel “Giorno di mercordì a 20 febraro 1743 ad’ore ventiquattro meno un quarto sortì un terremoto così grande che non solamente precipitò tutta la Città ma vi morirono sotto le pietre li sottoscritti videlicet 112″.
Lo studioso non solo trascrive i nominativi, ma riporta delle utili notizie genealogiche e anagrafiche proprie di ognuno dei defunti, contribuendo così a colmare un’altra lacuna della storia cittadina.
Nota informativa: la pubblicazione potrà essere ritirata presso la Cattedrale di Nardò.
La struttura delle proprietà fondiaria nell’Italia romana era piuttosto diversificata, ma la terra era sostanzialmente concentrata nelle mani di pochi individui. A parte l’imperatore, che ne possedeva una quota cospicua, il resto era diviso tra i singoli membri delle famiglie aristocratiche, molti dei quali originari di Roma, che entrarono in possesso dei rispettivi “latifundia” dopo la sottomissione dei popoli italici. Alla fine delle campagne belliche, i Romani sostituirono alle più importanti città italiche i loro “municipia”; ad ogni “municipium” corrispose un “ager”, cioè un contado di pertinenza. L’”ager” era a sua volta costituito di vari “latifundia”, cioè vaste estensioni di terra di proprietà di un signore. All’interno di ogni “latifundium” si inserivano i villaggi rurali, i “pagi”. Come sottolineano gli studiosi, ”nel centro agricolo si creava automaticamente una società a piramide, in quanto tutti dipendevano , in diversa misura, dal padrone della masseria: per ogni divergenza occorreva rivolgersi a lui, che decideva secondo i propri interessi e la propria umanità”[1]. Il padrone di Felline era, secondo la leggenda, Fellone. Il personaggio, che può essere storicamente esistito, è forse da identificarsi con un membro della gens dei “Philonii”,attestata a Brindisi fin dall’età repubblicana , ed emergente a livello di governo locale.Le fonti epigrafiche documentano l’esistenza di un Q. Philonius Rufus, decurione a Brindisi[2], e di un C.Philonius , anch’egli decurione della stessa città[3]. I loro nomi compaiono su una lapide calcarea di età tardorepubblicana scoperta nel 1955 nei pressi di Latiano. Inoltre , alcuni bolli anforari documentano l’esistenza di un altro personaggio, tal Philonicus Appullei, che in età tardorepubblicana risulta essere proprietario di fornaci per la produzione di anfore nelle località di Apani e Giancola (BR).Tutti e tre gli individui menzionati erano persone importanti, potenti e facoltose. I primi due, consiglieri del “municipium” di Brindisi, erano certamente proprietari terrieri ed avevano forse parte non piccola nei commerci. Il terzo era un affermato imprenditore. Non è improbabile che il Fellone manduriano convertito e guarito da San Pietro fosse strettamente legato a questi personaggi , o fosse un loro discendente. Si attende, in questo senso, che emerga qualche elemento storico in più per definire meglio la sua figura, ma una cosa è indiscutibile: il “pagus” di Felline , storicamente esistito, ha di certo avuto un proprietario , di cui ci è stato tramandato il nome ,e che, oltre che della terra , aveva naturalmente anche il possesso dell’impianto anforario, e non è da escludere che gestisse anche l’attività commerciale vera e propria. In attesa di ulteriori elementi che ci permettano di far luce sul personaggio, affidiamo ai linguisti la verifica delle nostre congetture su Fellone.
(“La bella lavanderina che lava i fazzoletti per i poveretti della città ” – Tradizionale )
Da qualche tempo, il fenomeno delle lavanderie a gettoni si è allargato e dal Nord Italia ha preso piede anche qui da noi al Sud. Non c’è paese che non abbia almeno una lavanderia self service. Dici bubble wash e pensi all’America, naturalmente. Tutti ricordano quel famoso spot della Levis trasmesso negli anni Ottanta, in cui il modello Nick Kamen entrava in una lavanderia a gettoni e, sotto lo sguardo stupito e imbarazzato dei presenti, si spogliava e metteva a lavare i suoi jeans, mentre in sottofondo andavano le note di “I heard it through the grapevine” di Marvin Gaye. All’epoca le lavanderie a gettoni non esistevano ancora qui da noi ma esistevano già le lavanderie industriali. E dire lavanderie industriali, per uno che è cresciuto davanti alla tv negli anni Ottanta, riporta subito alla mente un nome: quello di George Jefferson. La serie “I Jefferson”, trasmessa dalle tv della Fininvest, era molto seguita e riscuoteva un enorme successo di pubblico grazie ai siparietti comici fra il sulfureo e intrattabile George ( star indiscussa della serie) e la governante Florence, con la moglie di lui, Louise-Wizzie, a far da paciera. Esilaranti anche i diverbi fra l’inimitabile George e i vicini di casa, la famiglia bianco nera dei Willis, sui quali l’imprenditore (tipico self made man americano) esercitava la propria pesante ironia, definendoli “zebre” per il fatto che si trattava di un matrimonio misto (un caso dunque di razzismo inverso, esercitato dai neri sui bianchi). Inoltre, per sommo disappunto del vulcanico omino, il figlio Lionel era fidanzato proprio con la figlia dei Willis.
Se volessimo andare alle origini del settore delle lavanderie, troveremmo le lavandaie. Dal Medioevo fino all’Ottocento, non esistevano certo le lavatrici, e quello di lavare i panni era un compito manuale ed un’occupazione esclusivamente femminile. Lungo le rive dei fiumi, dove si incontravano per lavare il bucato, le donnine chiacchieravano allegramente fra di loro oppure si scambiavano informazioni di ogni tipo e molto spesso intrecciavano canti della tradizione popolare. Il lavare infatti è sempre andato molto d’accordo con il cantare. ” E cadenzato dalla gora viene/lo sciabordare delle lavandare/con tonfi spessi e lunghe cantilene” scrive Giovanni Pascoli nella poesia “Lavandare”.Un mestiere duro ed umile ma molto diffuso, e continuò ad esserlo anche quando comparve la prima forma rudimentale di lavatrice meccanizzata nel 1850. Le lavandaie eseguivano il lavoro a domicilio, oppure presso i lavatoi pubblici. Le loro forti mani, sformate dall’artrite, operavano energicamente sull’asse di legno (“lu lavaturu” era chiamato qui da noi) per smacchiare e sbiancare indumenti di ogni tipo. Nel Salento arcaico, le massaie facevano lu cofanu (dal nome del contenitore di creta che conteneva il bucato). Sistemavano nella parte bassa del recipiente le robe bianche e in quella superiore le colorate, separate da uno strato di teli su cui veniva messa la cenere. Con un recipiente più piccolo versavano più volte colate di acqua bollente procedendo a successivi risciacqui, fin quando i panni non ritornavano come nuovi. Dall’acqua di scolo poi, che fuoriusciva da un foro praticato nel cofanu, veniva ricavata la lissìa (lisciva) riutilizzata per lavare gli abiti più scuri e come shampoo per i capelli delle donne. Oggi questa pratica sopravvive solo nei musei delle tradizioni popolari e in alcune messe in scena tenute durante i presepi viventi a Natale. il mestiere delle lavandaie viene rappresentato dall’impressionista Gauguin nelle opere “Lavandaie a Pont-Aven” del 1886 e “Lavandaie al Canal Roubine du Roi” del 1888 e in letteratura da Verga ne “I Malavoglia”. Più o meno nello stesso periodo, anche Zola fa di una lavandaia e stiratrice, l’umile Gervaise, la protagonista del suo romanzo “L’ammazzatoio”. Honoré Daumier dipinge molto realisticamente nel 1863 “La lavandaia”.Ma forse il più bel dipinto che ritrae le dure condizioni di vita di queste lavoratrici è “Il ponte di Langlois” di Van Gogh.
La lavatrice moderna viene inventata in America nel 1906 e introdotta in Italia solo nel 1946. Dunque passa tanta acqua sporca sotto i ponti prima che il progresso della tecnica possa affrancare la massaia da una fatica tostissima. La prima lavatrice che io ricordi a casa mia, fine Anni Settanta, è una Zoppas. Come quasi tutte, si caricava dalla finestrella centrale (pochissime avevano la carica dall’alto), ed era bianca zincata. Essa, insieme al frigorifero e alla cucina Ariston, rappresentava plasticamente il sopraggiunto benessere economico nella mia famiglia. Gli anni Duemila hanno portato enormi trasformazioni sociali, oltre che economiche e politiche. Sono cambiate le abitudini della gente, cambiato il modo di vivere le nostre giornate. L’ultima frontiera del lava e asciuga è la lavanderia self service, che da principio era appannaggio degli studenti universitari fuori sede, dei militari o degli extra comunitari, così massicciamente stanziati nelle nostre città. Ora invece tante famiglie ricorrono alla lavanderia a gettoni, e non solo per il cambio stagionale (piumoni, coperte, giubbotti voluminosi) ma anche per la biancheria, per il cambio di ogni giorno. È il segno dei tempi (si dice sempre così no?). il segno, in semiotica, è l’unione di significato e significante. E se il significato è il contenuto, quello di lavare ed asciugare panni e biancheria, il significante è la forma, dunque le bolle blu delle speedy wash, che diventano addirittura una nuova icona pop (come il gruppo delle dj svedesi Caroline Hjelt e Aino Jawo, quelle che cantano “I love it!”).
Alcune lavanderie a gettone sono veramente spoglie ed essenziali, altre invece sono attrezzate anche per intrattenere i clienti in quel lasso di tempo necessario alla lavatura ed asciugatura dei capi. Ecco dunque, in alcune bubble wash, l’angolo giochi per i bambini, la tv sempre accesa che trasmette i cartoons, o la musica in filodiffusione, altre ancora addirittura posseggono un angolo lettura, dove l’utente può sfogliare il giornale o leggere un testo dalla piccola libreria che è all’interno. Sono sicuro, si finirà per fare delle presentazioni di libri nelle lavanderie self, e alla lunga, anche delle conferenze o dei piccoli raduni e convegni. Diverranno luoghi di ritrovo sociale, o i templi di una nuova popsophia, che qualche giovane e rampante pensatore nipotino di Derrida non tarderà a formulare. Viva le bubble wash, dunque, e viva la filosofia pop!
Ricordato nella leggenda come “Castello vicino all’antica Manduria, distante dal Fiume tre miglia chiamato Fellini, oggi però i Castelli”, il villaggio rurale di Felline è storicamente esistito.Lo studioso E.Dimitri vi ha dedicato un interessante saggio[1], sostenendo che l’identificazione del sito in cui esso sorgeva presenta problemi di non facile soluzione, definendo la questione come un vero e proprio “ mistero archeologico”, meritevole di approfondimento. In realtà, al di là del cosiddetto “mistero”, esistono alcuni elementi storici, archeologici e topografici per ricostruire le origini della piccola comunità rurale. I primi elementi di chiarificazione sono forniti dal toponimo stesso. Alcuni storici locali sostengono che il toponimo derivi dal greco, e significhi “canneto” o “luogo paludoso”. Questa congettura ha permesso a qualcuno di credere che il villaggio sorgesse nei pressi del litorale manduriano, caratterizzata effettivamente, prima delle recenti bonifiche, da impaludamenti e da fitti canneti, alcuni dei quali ancora visibili. In realtà, il toponimo “Felline” deriva con ogni probabilità dal latino, ed ha tutt’altro significato. Come per l’altra Felline, quella ubicata in provincia di Lecce, il nome centro demico deriva da “figlinae”, con il significato di “luogo deputato alla produzione di ceramica”, caratterizzato dunque dalla presenza di fornaci per la produzione di manufatti fittili. Gli scavi del Prof. Cosimo Pagliara dell’Università di Lecce, effettuati nel 1967,hanno appunto appurato che a Felline (Le) il nucleo abitato si strutturò in epoca romana proprio intorno alle fornaci , finalizzate alla produzione di anfore per il commercio delle derrate alimentari rivenienti dallo sfruttamento del “latifundium” circostante. Anche nel piccolo villaggio di Felline presso Manduria, che dall’impianto delle fornaci prese il nome, vigeva la stessa dinamica economica, basata essenzialmente sull’agricoltura, sul pascolo, sulla caccia, e sull’industria fittile. Si trattava di un’economia diversificata, e, come accadeva negli altri “pagi” dell’Italia romana, le anfore prodotte servivano a inserire nella rete dei commerci il surplus della produzione agricola. Come vedremo, la posizione particolare del villaggio di Felline, a poca distanza dalla costa, facilitava queste operazioni di scambio. C’è poi il problema dell’esatta ubicazione del villaggio rurale. Non concordiamo, in questo senso, con quanto sostenuto dallo studioso R. Jurlaro, il quale afferma che il centro abitato di Felline era collocato “presso la costa , alle spalle di Torre Columena, là dove ancora resiste il toponimo rurale “Feddicchie”[2]. Tra “Felline” e “Feddicchie” non esiste probabilmente alcuna relazione, derivando il primo , come già detto , dal latino “figlinae”, ed il secondo quasi certamente dal latino “feliciae”. La contrada che attualmente prende il nome di “Feddicchie”, infatti , è indicata con l’appellativo di “ Fielici” in una vecchia carta topografica del sec. XVII, ora in proprietà privata. La maggior parte degli studiosi ritiene che il villaggio di Felline fosse ubicato , sin dalla sua fondazione nei pressi della collinetta de “Li Castelli”, sita a metà strada tra Manduria e il mare. In effetti, vi sono indizi significativi che il piccolo “pagus” romano si sia strutturato nei pressi della collinetta, in particolare alla base occidentale dell’altura. Tutta l’area della collinetta de “Li Castelli” presenta infatti tracce di prolungata frequentazione umana, dal Neolitico, all’età messapica, romana e medievale. Le ricognizioni di superficie hanno rilevato la presenza di materiale ceramico in riferimento a tutte le epoche segnalate[3]. Ed in effetti, dopo le originarie frequentazioni di sparuti nuclei di capannicoli, cui segui, in età storica, la colonizzazione della collina di Castelli ad opera dei Messapi, che vi fondarono una città anonima, in età romana sorse il villaggio di Felline, che recuperò certamente strutture abitative preesistenti. Felline era uno dei tanti “pagi” inserito all’interno di un più vasto “latifundium”, la cui proprietà era detenuta, come era tipico dell’Italia romana, da un ricco patrizio, forse un romano stabilitosi in provincia. E fu di certo il proprietario del “pagus” ad incentivare la realizzazione di quella industria figula che avrebbe contrassegnato il nome del borgo , distinguendolo dai villaggi vicini, caratterizzati da un’economia esclusivamente agricola. Il “pagus “ di Felline, che sorgeva nei pressi di una via di comunicazione (l’antichissimo tratturo Manduria-mare, oggi strada comunale Manduria-San Pietro) ed era collocato a non molta distanza dalla costa. Perciò, esso si poteva agevolmente inserire nella rete commerciale destinata a smaltire il surplus agricolo. Ciò che distingueva il villaggio era, come detto, la presenza delle “figlinae”, cioè delle fornaci per la cottura delle anfore. L’impresario dell’industria figula “era sempre un grande proprietario terriero, che impiantava la sede dell’opificio nelle sue terre (….) In genere gli affari erano appannaggio dei proprietari, i quali però spesso demandavano le incombenze ai loro schiavi o liberti capaci, dividendo gli utili”[4]. Spesso , il proprietario terriero si recava di persona nel luogo di produzione e controllava tutta l’attività. Non di rado, infine, il padrone, che spesso era anche “mercator”(mercante) deteneva una carica politica, la cui importanza era direttamente proporzionata al censo. I nomi di questi personaggi eminenti dell’Italia romana non ci sono tutti pervenuti. Ci è però pervenuto il nome del padrone del “pagus” di Felline, che si chiamava Fellone: su questo nome faremo alcune considerazioni.
[1] Cfr. Guida-Annuario di Manduria (1984-85), pp.69-78.
[2] Cfr. R. Jurlaro, San Pietro in Bevagna(TA). Il sacello e la chiesa altomedievale nel quadro dell’architettura salentina , in “Studi in memoria di Padre Adiuto Putignani” (Cassano Murge 1975), p.64.
[3] Cfr. R.Scionti – P.Tarentini, Emergenze e problemi archeologici. Manduria-Taranto-Heraclea (Manduria 1990), p.204 e ss.
Vari storiografi fanno riferimento, nelle loro opere, al passaggio di San Pietro nel Golfo di Taranto: ricordiamo tra tutti Antonio De Ferrariis , detto il Galateo, il quale scrive che “a dodici miglia da Saturo si incontra una chiesa dedicata a San Pietro, il qual luogo dicono che San Pietro venendo dall’Oriente toccasse per primo in Italia, ed ivi sacrificasse”[1]. Il luogo menzionato dal Galateo dovrebbe coincidere con il lido di Bevagna, presso Manduria. In seguito, vari altri storici locali hanno liberamente ampliato il riferimento galateano. Di fatto, però, l’unico narrato che riporta per intero la leggenda dello sbarco dell’Apostolo a Bevagna rimane quello dell’erudito Domenico Saracino o.p., che dedica alla vicenda alcune pagine della sua opera manoscritta sulla storia di Manduria. Dell’opera del Saracino esistono due copie, di diverso titolo, data e collocazione. La copia più antica si intitola “Brieve descrizione dell’Antica città di Manduria, oggi detta Casalnovo, 1741”, ed è in proprietà privata. La copia più recente è invece conservata nella Biblioteca Comunale “Marco Gatti” di Manduria, e si intitola “Antichità di Manduria oggi detta Casalnovo Raccolta da moltissimi autori, così Paesani, come Greci, e da Manuscritti più antichi che si trovano sparsi per la Provincia d’Otranto. Alla memoria dè Posteri MDCCLXXVIII 1778”. Il manoscritto è liberamente consultabile in Biblioteca. Per la stesura del presente contributo abbiamo fatto riferimento al testo riportato nel manoscritto del 1741, già pubblicato dagli storici locali e un tempo riprodotto in un grande pannello cartaceo all’interno del Santuario di San Pietro in Bevagna, a beneficio dei fedeli. La leggenda è quella da noi precedentemente riportata. Nel redigere la sua opera storiografica, il Saracino si è avvalso della consultazione di numerose fonti ,la gran parte delle quali sono a noi sconosciute, perchè l’autore non le ha citate. Essendo un consacrato, avrà verosimilmente consultato le biblioteche monastiche del Salento. Per ciò che riguarda la leggenda petrina, il frate non ha comunque citato la fonte di riferimento. Al fine di verificare se il narrato riportato dal Saracino presenta qualche elemento di verosimiglianza, focalizzeremo dunque la nostra attenzione su alcuni elementi del narrato leggendario.
[1] Cfr. Galateo, Liber De situ Japigiae (Basilea 1558), pp.27-28.
L’evento fondativo del cristianesimo nel Salento, come è noto, è fatto risalire dalla tradizione alla evangelizzazione delle nostre terra da parte dell’apostolo Pietro, svoltasi a partire dal 42-44 d.C., cioè nel periodo immediatamente successivo alla partenza del santo da Antiochia, prima chiesa cristiana d’Oriente da lui stesso istituita. Tutte le narrazioni riguardanti la presenza dell’apostolo in terra d’Italia, Salento compreso, costituiscono l’ampio corpus letterario noto come “tradizione petrina”: si tratta di una cospicua mole di racconti, considerati spesso leggendari, ma in cui è in realtà difficile distinguere il vero dal falso, anche in considerazione dell’epoca lontanissima in cui sono collocati i fatti narrati.
Le leggende costituiscono per definizione un misto di elementi autentici e fittizi, spesso strettamente intrecciati : occorre capire se al loro interno si cela un nucleo di verosimiglianza. In questo senso, ci pare utile richiamare l’assunto del Croce, il quale considerava le leggende alla stregua di documenti storici, e sosteneva che “il primo dovere è di rispettarle come documenti”[1]. Lo storico locale A.P. Coco, dal canto suo, sosteneva che “è vero che ci sono delle leggende ovvie, puerili, piene di anacronismi, per questo, però, c’è bisogno di molta circospezione e accortezza nel ritenerle, e anche nel rigettarle”(….) e che” tante volte si perviene finanche a scoprire il nucleo delle leggende, attestanti verità fondamentali”[2].
Con ogni probabilità, il racconto più avvincente che la tradizione ha consegnato ai manduriani, e di cui ogni concittadino, devoto e non, conosce le linee fondamentali , è la leggenda dello sbarco di San Pietro Apostolo sul lido di Bevagna nell’anno 44 D.C., a seguito di un naufragio indotto da un forte vento di scirocco. La leggenda racconta che egli avrebbe convertito al cristianesimo Fellone, il signore del vicino villaggio di Felline, permettendogli, dopo il battesimo avvenuto nelle acque del fiume Chidro, di guarire all’istante dalla lebbra che lo aveva colpito. In seguito, il santo avrebbe convertito, battezzato e guarito dalla malattia le genti vicine, fino a Oria e a tutto il Salento, per poi proseguire il suo viaggio fino a Roma.
La leggenda di Bevagna si inserisce nel più ampio problema storico dell’effettiva attività evangelizzatrice di San Pietro sul suolo pugliese, ancora dibattuto tra gli studiosi. In questo senso, si distinguono due posizioni: v’è chi sostiene che la tradizione petrina (di Bevagna, di Taranto, di Brindisi, ecc.) documentata da fonti altomedievali, “è da ritenere pur sempre leggendaria, perchè non è possibile desumere da queste narrazioni alcun dato storico certo”[3]. Altri ritengono , invece, che “quando esistono in una tradizione una serie di elementi concomitanti di natura storica e geografica che la possono rendere probabile almeno in parte , non è corretto continuare a ritenerla del tutto fabulosa e assurda (almeno fino a quando non saranno stati realizzati studi più approfonditi sull’argomento e sistematiche ricerche archeologiche) e annullare qualsiasi valore alla tradizione orale”[4].
Più di recente, si è sostenuto che “pur essendo una realtà inconfutabile l’inquietante silenzio delle fonti scritte nei primi secoli del cristianesimo, tuttavia, la Storia dovrebbe fare i conti con una così diffusa e radicata tradizione , vantata in maniera insistente anche nel tarantino e a Manduria”, e che , dunque, “torna utile, in tal senso, un atteggiamento di cauta sospensione del giudizio su questa vexata quaestio , non negare in maniera ottusa e non avallare con qualunquismo, in attesa che la voce dei secoli possa parlare, in un verso o nell’altro”[5]. Infine, non si può tacere l’autorevole parere di C.P. Thiede, il quale ha sottolineato che ”non è possibile scartare la possibilità geografica, pratica e storica di questa tradizione, anche se le sue più antiche tracce documentarie risalgono al Medioevo”[6].
Della “vexata questio” petrina ci siamo occupati per la prima volta in occasione della stesura della nostra tesi di laurea in Agiografia, discussa nel 2005 presso l’Università degli studi di Perugia , intitolata “La tradizione dello sbarco di San Pietro in Puglia. Aspetti e problemi”(Relatrice la chiar.ma Prof.ssa Giuliana Italiani). Dopo aver esaminato tutta la bibliografia prodotta fino ad allora sull’argomento, concludemmo che quella del passaggio dell’Apostolo in terra pugliese restava semplicemente un’ipotesi, che andava vagliata con attenzione. In realtà, ci eravamo convinti che sarebbe stato preferibile relegare la vicenda , per dirla con il Lenormant, “dans le domaine des fables”. Ma il desiderio di fare luce su una vicenda dai contorni ancora nebulosi rimaneva: le ricerche personali dell’ultimo decennio, condotte tenendo conto degli studi più aggiornati, ci portavano allora , inaspettatamente, a ribaltare il nostro vecchio convincimento, aprendoci uno scenario del tutto nuovo, che in questa sede vogliamo proporre al lettore.
[2] Cfr. A.P. Coco, Francavilla Fontana nella luce della storia (Taranto 1941), p.69.
[3] Cfr. C. D’Angela, La chiesa di Taranto, vol.1 (Galatina 1977), p.30.
[4] Cfr. V. Farella, La cripta del Redentore di Taranto, in “Le aree omogenee della civiltà rupestre nell’ambito dell’impero bizantino: la Serbia” (Galatina 1979), p.231.
[5] Cfr. V. Musardo Talò, San Pietro in Bevagna. Un bene culturale da salvare (Manduria 2011), pp.11-12.
[6] Cfr. C.P. Thiede, Simon Pietro dalla Galilea a Roma (Milano 1999), pp.17-18.
Sconsiglio vivamente la lettura del post di oggi a chi è debole di stomaco e non mi assumo responsabilità alcuna se qualcuno, fidando, invece, nel suo fegato come sufficiente compensazione, si farà sopraffare dalla curiosità.
Tra questi probabilmente la mosca è il più ricorrente nel nostro linguaggio, sempre, poveretta, con riferimenti negativi. Una prima prova è data da locuzioni tipo andare a caccia di mosche, non sentir volare una mosca, rimanere con un pugno di mosche, far saltare la mosca al naso, non lasciarsi passare mosca davanti al naso, non far male ad una mosca. L’unica degna di rispetto appare la mosca bianca, che, però, non esiste ma mi auguro che la natura (o qualche mutazione genetica indotta, magari, da noi stessi) provveda al più presto per dare una bella botta alla nostra presunzione …
Una seconda prova è data dal numero veramente impressionante di proverbi in cui la mosca è protagonista involontaria. Quelli che seguono, e che non costituiscono certamente un elenco completo, sono tutti tratti da Raccolta di proverbi toscani nuovamente ampliata da quella di Giuseppe Giusti e pubblicata da Gino Capponi, Successori Le Monnier, Firenze, 1874. Il testo è datato ma non credo che molti di loro siano obsoleti, dal momento che il nostro insetto non costituisce, almeno per ora, una specie in via di estinzione. Per alcuni di loro ho segnato in parentesi quadre il corrispondente salentino.
I veri amici son come le mosche bianche. (p. 25)
Casa di terra, caval d’erba, amico di bocca, non vagliono il piede d’una mosca. (p. 39)
Si pigliano più mosche in una gocciola di mele che in un barile d’aceto. (p. 45) [Cu nnu cigghiu ti mele pigghi centu api]
Ai cani e ai cavalli magri vanno addosso le mosche. (p.56) [Li mosche vonu alla mula scurciata]
Le mosche si posano sopra le carogne. (p. 56)
Coda corta non para mosche. (p. 58)
Anche la mosca ha la sua collera. (p. 67).Avrà ispirato il titolo della fortunata serie di Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano, di Gino & Michele(Luigi Vignali e Michele Mozzati), che ha visto la sua prima uscita per i tipi di Einaudi nel 1991?.
La mosca tira calci come può. (p. 67)
Chi fa mercanzia e non la conosce, i suoi denari diventan mosche. (p. 79)
Ognuno si pari le mosche con la sua coda. (p. 81)
Tanto va la mosca al miele che ci lascia il capo. (p. 87)
Coda corta non para mosche. (p. 89)
Ognun si pari le mosche con la sua coda. (p. 91)
Non si può avere il mele senza le mosche. (p. 99)
Non viene mai estate senza mosche. (p. 128)
Alla prima acqua d’agosto cadono le mosche. (p. 178)
Alla prim’acqua d’agosto cadono le mosche, quella che rimane morde come cane (p. 179)
Quando si senton morder le mosche le giornate si metton fosche. (p. 195)
Non si può aver il mele senza le mosche. (p. 201)
Pietra che va rotolando non coglie mosche. (p. 206)
Sasso che non sta fermo non vi si ferman mosche. (p. 206)
Ogni mosca ha la sua ombra.
Cappello di villano ombra di mosche. (p. 220)
In bocca chiusa non c’entran mosche. (p. 236) [A occa chiusa no ttràsinu mosche]
Chi si guarda dal calcio della mosca tocca quel del cavallo. (p. 238)
In cibo soave mosca spesso cade. (p. 245)
Non si vuol pigliare tutte le mosche che volano. (p. 268)
Un torso di pera cascata è la morte di mille mosche. (p. 246)
Uomo senza moglie, è mosca senza capo. (p. 271)
Val più un’ape che cento mosche. (p. 296)
Nel latte si conoscono meglio le mosche. (p. 322)
Chi uccella a mosche morde l’aria. (p. 329)
Qualcuno probabilmente si starà chiedendo come mai ancora non abbia fornito l’etimo della parola. Lo accontento subito, anche perché ciò mi darà l’occasione di approfondire e integrare l’argomento.
Mosca è dal latino musca(m), voce di origine onomatopeica, così come la greca μυῖα (leggi mùia). A questo punto la gamma di proverbi si arricchisce con aquila non capit muscas o aquila non captat muscas. Esso è registrato negli Adagia di Erasmo da Rotterdam (XV-XVI secolo) nella prima formula nell’edizione del 1519:
Trascrizione: Aquila non capit muscas. ἀετὸς οὐχ ἁλίσχει τὰς μυίας. Significat summos viros in rebus leviculis labi nonnumquam, non quod parum assequantur, sed quia negligant.
Traduzione: L’aquila non cattura le mosche. [la traduzione della proposizione in greco non la riporto perché è assolutamente coincidente con quella appena fornita per la latina; da un punto di vista grammaticale, però, c’è da notare l’utilizzo del presente indicativo ἁλίσχω (leggi alischo) in forma e significato attivi mentre nel greco classico è attestata solo la forma medio-passiva ἁλίσχομαι (leggi alìschomai) con significato passivo]. Significa che gli uomini grandissimi mai si affaticano in cose di poco conto non perché le seguono poco, ma perché le ignorano (cioè non ritengono opportuno perdere tempo a tener loro dietro).
La seconda forma, che poi sarà quella definitiva, in quella del 1536:
Trascrizione: Aquila non captat muscas. Ἀετὸς οὐκ θηρέυει τὰς μυίας. Summi viri negligunt minutula quaepiam. Animus excelsus res humiles despicit. Effertur et citra negationem adagium. Aquila venatur muscas, quoties magnis minima sunt curae.
Traduzione: L’aquila non tenta di catturare le mosche [da notare la sostituzione di capit (da càpere) con captat (da captare, forma conativa di càpere); nella locuzione greca, probabilmente accortosi dell’errore, Erasmo ha sostituito ἁλίσχει con θηρέυει (leggi therèuei)]. I sommi uomini trascurano qualsiasi cosa di poco conto. L’animo eccelso guarda dall’alto (in ultima analisi disprezza) le cose basse. Il proverbio è tramandato anche senza negazione. L’aquila va a caccia di mosche ogni volta che le cose minime sono di interesse per le grandi.
Premesso che Erasmo diligentemente annota ai margini la fonte quando essa è disponibile, debbo aggiungere che essa è assente per il nostro proverbio.
Credo però che la sua paternità sia da attribuire proprio ad Erasmo che ha tradotto nel latino umanistico ciò che secondo me ha letto in un testo in volgare di dubbia attribuzione degli inizi del XIV secolo, cioè il Fiore di virtù. Riproduco la parte che ci interessa da un incunabolo del 1477 (https://archive.org/stream/ita-bnc-in2-00000964-001#page/n113/mode/2up):
Sancto Augustino dice: lo Lione non fa guerra cum le formiche e l’aquila non pia mosche: la citazione dell’anonimo non trova conferma da una ricerca fatta sulle opere del santo che, tuttavia, adopera l’immagine della mosca nel De duabuas animabus contra Manichaeos, IV: Atque hic si forte turbati a me quaererent, num etiam muscae animam huic luci praestare censerem: responderem: Etiam; nec me terreret musca quod parva est, sed quod viva firmaret. Quaeritur enim, quid illa membra tam exigua vegetet, quid huc atque illuc pro naturali appetitu tantillum corpusculum ducat, quid currentis pedes in numerum moveat, quid volantis pennulas moderetur ac vibret. Quod qualecumque est, bene considerantibus, in tam parvo tam magnum eminet, ut cuivis fulgori perstringenti oculos praeferatur (E ora se per caso sconcertati mi avessero chiesto se pensavo che anche l’anima di una mosca fosse superiore a questa luce, avrei risposto: – Anche; né mi avrebbe condizionato la mosca per il fatto che è piccola, ma l’avrei confermato perché è viva. Ci si chiede infatti che cosa dia vigore a queste membra così piccole, che cosa guidi qua e là un così piccolo corpuscolo secondo la tendenza naturale, che cosa muova con armonia i suoi piedi che corrono, che cosa regoli e faccia vibrare le sue piccole ali mentre vola. Checchè sia ciò, a chi ben considera in una cosa così piccola splende una cosa così grande da essere preferita al fulgore che abbaglia gli occhi di chiunque).
Ribadisco quanto prima ipotizzato: Erasmo ha espresso in latino ciò che in volgare aveva detto l’anonimo, il quale, a sua volta, aveva sintetizzato con parole e similitudine sue il pensiero del santo.
Facciamo ora un salto indietro nel tempo dal latino rinascimentale di Erasmo a quello classico della Naturalis historia di Plinio (I secolo d. C.), alla ricerca di brani interessanti sul nostro insetto:
X, 41 Romae in aedem Herculis in foro Boario nec muscae, nec canes intrant (A Roma nel tempio di Ercole nel foro Boario non entrano né mosche né cani).
XI, 143: Muscis humore exanimatis, si cinere condantur, redit vita ([Nei pressi del fiume Ipani nel Ponto] tornano in vita le mosche morte per l’umidità se vengono ricoperte di cenere).
XXIX, 34 Et muscarum capita recentia, prius folio ficulneo asperatas. Alii sanguine muscarum utuntur. Alii decem diebus cinerem earum illinunt cum cinere chartae vel nucum , ita ut sit tertia pars e muscis. Alii lacte mulierum eum brassica cinerem muscarum subigunt. Quidam melle tantum. Nullum animal minus docile existimatur, minorisve intellectus: eo mirabilius est, Ollympiae sacro certamine, nubes carum immolato tauro, deo quem Myiodem vocant, extra territorium id abire ([Sono efficaci contro la tigna] anche le teste fresche delle mosche prima strofinate con foglia di fico. Alcuni utilizzano il sangue delle mosche. Altri per dieci giorni applicano come cataplasmo la loro cenere con cenere di papiro o di noce in modo che quella delle mosche sia un terzo. Altri applicano la cenere delle mosche con latte di donna e con cavolo. Altri solo col miele. Si creda che non ci sia nessun animale meno docile e di minore intelligenza: per questo è abbastanza strano che nei giochi sacri d’Olimpia interi nugoli di mosche se ne vanno via da quel territorio dopo che è stato immolato un toro al dio che chiamano Miiode).
Quest’ultima testimonianza di Plinio con il dio Miiode mi consente di fare due considerazioni partendo proprio dall’etimo. Myiodes (di cui il Myiodem del testo è nominativo) è trascrizione del greco μυιοειδής (leggi miuioeidès)=simile a mosca; la voce [composta dal già citato μυῖα=mosca+εἶδος (leggi èidos)=immagine] è attestata in Cassio Iatrosofista (nulla si sa su di lui e gli studiosi sono tutt’altro che concordi sulla cronologia, che va dal II al VII secolo d. C.), Problemata, XIX, quando parla dei sintomi di una malattia degli occhi: Διὰ τί ἐπὶ τῶν μελλόντων ὑποχεῖσθαι, συμβαίνει ὁρᾶσθαι κωνωποειδῆ καὶ μυιοειδῆ καὶ μυρμηκοειδῆ, καὶ ὅσα παρακολουθεῖν πέφυκεν; ἢ δῆλον, ὅτι ὁποίαν τὴν πῆξιν λάβοι τὸ ὑγρόν, τοιαῦτα καὶ ὑποπίπτειν ἀνάγκη ἅμα τῷ ἄρξασθαι πήγνυσθαι τὸ ὑγρόν. Καὶ ἔτι, κατὰ τὴν αὐτὴν ἐπιβολὴν ἐνεργεῖ τὸ ὁρατικὸν διὰ παντὸς τοῦ ὁρατικοῦ· ἀλλὰ γὰρ ἐμποδίζεται κατ ‘ἐκεῖνα τὰ μέρη, καθ’ ἃ μάλισταἡ πῆξις γίνεται. Οἷον οὖν ἂν συμβῇ τὸ πρωτοπαγὲς τοῦ ὑγροῦ σχῆμα, τοιαῦται καὶ αἱ ἀντιλήψεις γίνονται τῶν ἐκτὸς ὑποκειμένων (Perché a quelli che sono in procinto di soffrire di cataratta accade di vedere cose simili a coni e a mosche e a formiche e a quanto per natura è portato ad accompagnarsi? O è chiaro che a seconda della solidificazione assunta dall’umore è necessario che si verifichino siffatti fenomeni man mano che l’umore comincia a solidificarsi. E ancora: sotto questa condizione agisce la capacità visiva nel suo espletarsi, ma viene impedita in alcune parti, soprattutto quelle in cui si verifica la solidificazione. A seconda dunque della figura che dell’umore si formò per prima, nascono anche siffatte percezioni di cose come se si trovassero all’esterno).
Cassio ha appena finito di descrivere l’eziologia di quella che con parola moderna è detta miodesopsia [da μυιοειδής+ il segmento –opsìa (dal greco ὄψις (leggi opsis=vista)]. Direi che l’individuazione della causa nell’alterazione del corpo vitreo è perfetta. Il lettore non si meravigli se Cassio non fa parola di terapia: a distanza di tanti secoli la nostra sofisticatissima microchirurgia oculistica che si avvale anche di laser di millesima generazione non offre la soluzione definitiva del problema.
Il dio Miiode mi consente pure di ipotizzare il culto di un dio-mosca e che gli insetti non entrassero nel suo tempio non perché i sacerdoti vi spruzzassero essenza di piretro o simili ma per la presenza di un amuleto rappresentato dalla stessa immagine del dio, cioè quella di una mosca. La presenza di amuleti nei templi è cosa accertata e nota e nella fattispecie ci potrebbe essere una conferma nella leggenda della mosca di Virgilio tramandataci dal vescovo inglese Giovanni di Salisbury nel Polycraticus, I, 4 scritto nel 1159: Fertur vates Mantuanus interrogasse Marcellum, cum depopulationi avium vehementius operam daret, an avem mallet instrui in capturam avium, an muscam conformari in exterminationem muscarum. Cum vero quaestionem ad avunculum retulisset Augustum, consilio eius praelegit ut fieret musca, quae ab Neapoli muscas abigeret, et civitatem a peste insanabili liberaret. Optio quidem impleta est (Si dice che il poeta mantovano abbia chiesto a Marcello, mentre questi era impegnato a fare strage di uccelli, se preferiva che fosse fatto un uccello per la cattura degli altri uccelli o una mosca per sterminare le altre. Dopo aver riferito della cosa allo zio Augusto, Marcello su suo consiglio scelse che si realizzasse una mosca perché scacciasse da Napoli le mosche e liberasse la città dall’insanabile flagello. Il suo desiderio venne esaudito).
Siccome non è mia intenzione fare concorrenza a Luciano di Samosata (II secolo d. C.) e al suo Elogio della mosca, faccio una piccola pausa con alcune citazioni, due moderne, una contemporanea, lasciando al lettore di condividerle o meno (io contesterei solo la seconda che, detta da uno scienziato, mi sembra di una gravità inaudita).
Tommaso Campanella (XVI-XVII secolo): Et in vero dov’è freddo l’amore dal senno vien svegliato, perché l’amore non desidera le mosche et le formiche: ma quando il senno considera l’arte con chi et a chi son fatte, fa amar tanto magistero. (Epilogo Magno, 182); Io imparo dalle formiche, dalle mosche e da tutte le minutezze naturali sempre qualche cosa, e V. S. può vedere ch’aborrisco l’imparar dagli huomini (Lettere 1595-1638; lettera del 2 luglio 1635).
Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon (XVIII secolo): Une mouche ne doit pas tenir dans la tête d’un naturaliste plus de place qu’elle n’en tient dans la Nature (Histoire naturelle, générale et particulière, avec la description du Cabinet du Roi, tomo IV) (Nella testa di un naturalista, una mosca non deve occupare più posto di quanto ne occupi in natura).
Alda Merini: Le mosche non riposano mai perché la merda è davvero tanta. (da Alla tua salute, amore mio, Acquaviva, Acquaviva delle Fonti, 2007, p. 45).
È giunto il tempo di dare spazio a quel poco di bambino che mi auguro sia rimasto in ciascuno di noi. Trai giochi dell’infanzia di un tempo un posto privilegiato occupavano quello del nascondino e della mosca cieca. Sono sopravvissuti per millenni, come fra poco dimostrerò, e la loro morte recente testimonia, a mio avviso, il livello di abbrutimento cui abbiamo ridotto la nuova generazione, senza che io scomodi per questo qualche suo criminale (ma ancor più criminali sono i genitori …) rappresentante, che per combattere la noia dà fuoco ad un barbone o dileggia un omosessuale senza rendersi conto che lui è più anormale del da lui presunto anormale …
Per la mosca cieca, invece, la più antica attestazione che conosco è in due passi di Polluce (grammatico greco del II secolo d. C.), Onomasticon, IX 113 e 123: Ἡ δὲ μυίνδα, ἤτοι καταμύων τις φυλάττου βοᾷ, καὶ ὃν ἂν τῶν ὑποφευγόντων λάβῃ ἀντικαταμύειν ἀναγκάζει· ἢ μύσας τοὺς κρυφθέντας ἀνερευνᾷ μέχρι φωράσῃ· ἢ καὶ μύσας, ἂν τις προσάψεται ἢ ἐάν τις προσδείξῃ, μαντευόμενος λέγει, ἐστ’ ἂν τύχῃ (La mosca cieca: uno tenendo gli occhi chiusi grida: – Attento! – e se cattura uno di quelli che fuggono questi è obbligato a subentrargli ad occhi chiusi; ovvero dopo aver chiuso gli occhi cerca quelli che si sono nascosti finché non li scopre, oppure indovinando dirà il nome di chi lo toccherà o lo mostrerà a dito).
Ἡ δὲ χαλκῆ μυῖα, ταινίᾳ τὼ ὀφθαλμὼ περισφίγξαντες ἑνὸς παιδὸς, ὁ μὲν περιστρέφεται κηρύττων χαλκῆν μυῖαν θηράσω, οἱ δ’ἀποκρινόμενοι θηράσεις, ἀλλ’οὐ λήψει σκύτεσι βυβλίνοις αὐτὸν παίουσιν, ἕως τινὸς αὐτῶν λάβηται (La mosca di bronzo: dopo aver coperto gli occhi di un fanciullo con una benda, questi grida: – Andrò a caccia della mosca di bronzo -, mentre gli altri rispondono: – Ne andrai a caccia, ma non la prenderai -; lo percuotono con corde di papiro finchè non cattura uno di loro).
Numerosi sono i derivati di mosca e tra loro mi piace ricordare: l’accrescitivo moscone molto usato anche metaforicamente in passato per indicare i corteggiatori di una bella ragazza, nonché come sinonimo di pattino, il notissimo tipo di piccola imbarcazione; i diminutivi moscerino (formatosi come ballerino da ballo), moschetta (piccolo dardo da balestra e poi pezzo d’artiglieria di piccolo calibro), moschetto (specie di fucile) e da questo l’accrescitivo moschettone (in origine solo gancio per assicurare il moschetto alla bandoliera): moschito o mosquito, dallo spagnolo mosquito (denominazione di varie specie di zanzare tropicali, aereo impiegato dall’aviazione inglese durante la seconda guerra mondiale, pinza di piccole dimensioni utilizzata negli interventi di microchirurgia, bicicletta a motore [il mitico antenato del mitico Ciao]. Tutti già schierati nell’immagine di testa.
Per fare onore completo al titolo e per chiudere dirò che il dialetto neretino accanto a mosca (tal quale la voce italiana) annovera i derivati muscone (moscone), muschillu (moscerino) e muscugghione (moscerino un po’ più grosso). Muschillu è un diminutivo (sul tipo di pupu/pupiddhu, con mancato passaggio –ill->-iddh-), muscugghione (è l’accrescitivo di un diminutivo sul tipo di scuèffu(lu)>scuffugghione).
E con quest’ultimo etimo per muscugghione è scongiurato il pericolo di mettere in campo una seconda componente che, al plurale, è pari pari ciò che mi auguro di non aver rotto con questo post. Meno male che il rischio è da escludersi a priori con le gentili lettrici …
(“Spero che fai l’asino sul serio, per un po’/ e se fai il ballo dell’asino, io ci sto” Donkey Tonkey – Zucchero)
“A e i o u: l’asino che sei tu”: non ci stava metricamente ma da piccoli ripetevamo spesso questa tiritera. Era indirizzata, a scuola, ai compagni più negligenti e sfaticati, o meno versati per lo studio, i quali venivano fatti oggetto di scherno dai più bravi e volenterosi. Tuttavia se la scuola, come la morte per Totò, non è proprio “na livella”, molto facilmente mutano le umane sorti, e dunque poteva succedere che almeno una volta nel corso dell’anno scolastico anche i più bravi prendessero qualche cattivo voto: ecco allora consumarsi implacabile la vendetta a lungo covata dei più asini.
“Chi non sa leggere la sua scrittura, è un asino di natura”: questa veniva riservata a chi, come me, era un po’ disordinato ed aveva una calligrafia non tanto kalé quanto piuttosto kaké. Per fortuna, almeno ai miei tempi, il peggiore della classe non era costretto come una volta ad indossare il cappello da asino o ad essere additato all’attenzione generale come esempio negativo; altrimenti sai che danni sulla psiche dei miei compagni già minata da una spaventosa sottocultura e dalle miserande condizioni di vita delle loro famiglie? Cioè questi, piuttosto che tossicodipendenti, come quasi tutti sono diventati, sarebbero stati dei potenziali serial killers e maniaci. Benedetta la droga che, rinchiudendoli nelle comunità di recupero, li ha sottratti ad un destino di follia omicida. Infatti ,alcuni di essi oggi sono cittadini esemplari, ottimi genitori ed addirittura educatori e catechisti. Ma torniamo al nostro asinello, inteso non come il simbolo del partito dei Democratici di Romano Prodi che lo presero a prestito da quello più noto del partito democratico statunitense, ma come il famoso mammifero quadrupede della famiglia degli equidi. Chissà se l’asino abbia mai sofferto di essere la brutta copia del cavallo. Il cavallo altero, di nobile figura, cantato da scrittori e poeti, l’asinello umile, dimesso, sfruttato e da tutti trascurato. Il cavallo nitrisce, l’asino raglia, il cavallo bizzoso, superbo, amato e corteggiato, presente nell’araldica delle nobili famiglie del passato, l’asino mite, lavoratore, schivo e represso, bistrattato dalla storia e dagli uomini. Nei primi secoli del Cristianesimo, durante le persecuzioni nei confronti dei cristiani, questi erano accusati dei più infami delitti ed orribili misfatti. Minucio Felice, un autore del III secolo, nella sua opera Octavius, riferisce che fra le accuse vi erano quelle di sacrifici umani al momento dell’iniziazione, di rendere onore ad un uomo punito con la crocifissione, e di adorare una testa d’asino. In un graffito inciso sulla parete di una casa sul Palatino a Roma, è raffigurato proprio un uomo crocefisso con la testa d’asino. Alla sinistra è rappresentato un ragazzo con la scritta in greco: “Alexamenos adora il suo dio”. Leggiamo nell’opera di Minucio Felice: “Sento dire che essi consacrano e adorano la testa dell’animale più vile, l’asino, spinti da non so quale credenza..”. In una favola di Esopo, “Il leone e l’asino selvatico”, l’asinello si vanta di aver messo in fuga alcune capre e il leone risponde che quelle sono scappate solo perché ingannate dal suo raglio, non sapendo che in realtà il verso provenisse da un mite animale. L’asino, bestia da soma, è sempre stato utilizzato per i lavori più pesanti e come mezzo di trasporto, anche se dà un latte molto buono e simile a quello della donna. “Sei proprio un asino”: quante volte abbiamo sentito, se non ricevuto, questa offesa da qualcuno adirato con noi. Ciò a causa della testardaggine tipica di questo animale, “o ciucciu” come dicono i napoletani. Quanto alla distribuzione geografica degli asini, l’animale è molto più presente nel continente asiatico che in quello europeo. Solo in Cina si contano circa 11 milioni di asini e in India 1 milione e mezzo. In Europa , il Portogallo e la Grecia hanno il maggior numero di capi. Ogni razza d’asino ha le sue particolarità. Basta non confonderlo con il mulo o bardotto, che è dato dall’incrocio fra asino e cavallo.
Queste le principali razze italiane. Amiata: razza originaria della Toscana e per l’esattezza del Monte Amiata, provincia di Grosseto, di colore grigio chiaro con riga mulina e croce scapolare (di particolare bellezza). Poi abbiamo l’asino dei Monti Lepini, a cavallo tra la province di Latina e Roma, di colore grigio scuro, con o senza riga mulina. L’asino calabrese, dal colore del mantello grigio marrone. L’Asino Grigio Siciliano. Il nostro Asino di Martina Franca, uno dei più pregiati, con mantello morello e con addome, interno delle cosce e muso chiari. In Sardegna c’è un’isola che da loro prende il nome, l’Asinara, dove i bei ciuchi bianchi dagli occhi azzurri fanno compagnia agli ergastolani della colonia penale. Ancora, l’Asino di Pantelleria, con mantello morello, riga mulina e muso chiaro. L’asino del Ragusano che a differenza degli altri ha un pelo molto più folto. L’asino romagnolo (in particolare Provincia di Forlì), uno dei più belli e imponenti, dal pelo prevalentemente chiaro. L’asino sardo con riga mulina crociata, bordo scuro delle orecchie. L’Asino Viterbese – Asino di Allumiere, uno dei più piccoli, bicolore, grigio chiaro e bianco.
E’ abbastanza presente, o ciucciariello, anche in letteratura. Nella sua opera “Metamorfosi”, altresì conosciuta come “L’asino d’oro”, lo scrittore Apuleio (II Secolo d.C.), che si rifà a Lucio di Patre, di poco precedente, racconta la storia di Lucio il quale in Tessaglia conosce una signora esperta di arti magiche e, spinto da forte curiosità, cerca di carpirne i segreti. Introdotto dalla servetta Fotide nella camera della maga, egli, sbagliando ad utilizzare un unguento, si trasforma in un perfetto asino che però conserva i sentimenti umani. Dopo una lunga serie di peripezie, Lucio si ritrova in riva al mare, dove prega la Dea Iside che metta fine alla animalesca trasformazione e viene ascoltato dalla dea che gli chiede in cambio che egli diventi un adepto del suo culto. Lucio, mangiando una corona di rose, ritorna uomo. La stessa storia, che attinge molto alla novellistica orientale ( come “Le mille e una notte”), viene ripresa dallo scrittore greco Luciano di Samosata, in “Lucio o l’asino”. Questa storia ci ricorda anche quella di Pinocchio che, insieme all’amico Lucignolo, viene trasformato in ciuco e poi si ritrasforma in burattino, mentre il suo cattivo compagno rimane asino. Insomma, la letteratura non riserva un buon trattamento a questo animale, come è confermato da Verga quando in “Rosso malpelo”, a proposito del carattere cocciuto dell’asino, scrive: “ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se li pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare modo loro.” E ancora: “L’asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi.”
Ma il riscatto dell’asino viene dalla religione cristiana, precisamente dalla natività di Nostro Signore (“L’asinello lemme lemme lungo la via di Betlemme,con Giuseppe e con Maria per la lunghissima via”). Infatti chi c’è nella grotta di Betlemme a riscaldare col suo fiato il Bambin Gesù, insieme al bue? Il Nostro, smentendo il detto popolare “Raglio d’asino non giunse mai in cielo”, da quella posizione privilegiata ogni anno ne può ridere su di tutte le beffe e umiliazioni patite. Ma anche Ih-Oh, l’asinello di peluche amico di Winnie the Pooh, almeno per chiunque abbia figli piccoli, fa la sua parte nel rendere amabile questo equino, così come Ciuchino, l’asino parlante dei film di animazione della serie “Shrek”.
Ora proviamo a fare un gioco e stabiliamo, fra i personaggi che hanno maggiormente influenzato la vita pubblica in Italia nel 2014, chi sia il più asino. Offriamo tre risposte. 1: “Papa Francesco”, il quale continua a non andare d’accordo col nostro idioma, collezionando strafalcioni ( che a così alti livelli si trasformano tosto in incidenti diplomatici) nella lingua che fu proprio di quel santo di Assisi da cui Bergoglio prende il nome. 2: Matteo Salvini, leader della Lega Nord. E qui entriamo nel campo minato della pubblica istruzione e della scuola, ritornando così all’argomento da cui siamo partiti. Che cosa hanno fatto le coalizioni Pdl-Lega in anni e anni di governo per la scuola nel nostro paese? Nulla, se non peggiorare le cose con avventate e improvvide riforme, tipo Gelmini. Ora Salvini rinfaccia al presidente del consiglio Matteo Renzi di aver promesso molte vagonate di euri per risistemare le scuole italiane che versano in condizioni del tutto precarie. Ma questi soldi non sono stati ancora stanziati e quindi dà al presidente rottamatore del bugiardo. 3: Il Matteo superstar, Renzi forever, il quale viene dalla stessa terra di Pinocchio ( Collodi, Pistoia, patria dello scrittore Carlo Lorenzini, è a pochi chilometri da Firenze). Sarà un caso? Renzi -Pinocchio, tra le tantissime cose, ha promesso dei criteri di premialità per gli insegnanti, un congruo aumento degli stipendi e la fine del precariato; inoltre di aprire almeno un migliaio di asili. Ma pure in questo, ancora, il bischeraccio Matteo non s’è dato da fare. Dunque, chi sarà il più asino di questi tre mostri sacri della vita pubblica italiana? Siete invitati a scegliere. L’importante è farla, una scelta, per non correre il rischio di morire di fame nell’incertezza, come l’asino di Buridano.
a cura dell’Ufficio Pubbliche Relazioni Conservatorio di Lecce
I CONCERTI DEL CONSERVATORIO “TITO SCHIPA” DI LECCE
“IL CARNEVALE DEGLI ANIMALI, PULCINELLA E…”
in collaborazione con COMUNE DI LECCE
ORCHESTRA DA CAMERA del Conservatorio “T. Schipa” di Lecce
Solisti PIERLUIGI CAMICIA e VINCENZO RANA
Voce recitante VINCENZA DE RINALDIS
Direttore GIOVANNI PELLEGRINI
MARTEDÌ 17 FEBBRAIO 2015 – ORE 20:45
LECCE – TEATRO PAISIELLO
Proseguono con grande partecipazione di pubblico gli appuntamenti musicali promossi dal Conservatorio di Lecce. In sintonia con lo spirito del Carnevale, martedì 17 febbraio 2015, al Teatro Paisiello di Lecce (ore 20:45), in collaborazione con l’Amministrazione Comunale di Lecce, si terrà un concerto dal titolo “Carnevale degli animali, Pulcinella e…”. La serata è affidata ai solisti al pianoforte PIERLUIGI CAMICIA e VINCENZO RANA, alla voce recitante VINCENZA DE RINALDIS e all’ORCHESTRADA CAMERA del Conservatorio “T. Schipa” di Lecce, diretta dal M° GIOVANNI PELLEGRINI.
Il programma si aprirà con il celebre Carnevale degli animali (Le carnaval des animaux) di Camille Saint-Saëns, suite zoologica dai toni umoristici e canzonatori la cui comicità sta nei riferimenti satirici e nell’uso di citazioni esplicite di brani o motivi noti. La prima esecuzione privata del brano si tenne in occasione della festività del martedì grasso del 1887, mentre la prima esecuzione pubblica si ebbe nel febbraio 1922, un anno dopo la morte dell’autore, nel rispetto delle sue volontà.
La serie di 14 brani, tutti assai brevi, va dalla solennità della Marcia reale del leone (Introduction et marche royale du lion)al chiocciare di Galline e galli (Poules et coqs), alla corsa frenetica degli asini selvatici o Emioni (Hémiones – animaux véloces), parentesi virtuosistica affidata ai due pianoforti in Presto furioso. L’ironico brano sul tema del celebre Can-can dell’Orfeo all’inferno di Offenbach, adattato all’andatura lenta delle Tartarughe(Tortues), è seguita dal goffovalzer dell’Elefante (L’éléphant), descritto dal timbro grave del contrabbasso, nella citazione del noto tema della Danza delle silfidi di Berlioz.
La suite prosegue con i salti improvvisi dei Canguri (Kangourous), con l’ambiente soave dell’Acquario (Aquarium),il raglio degli asini o Personaggi dalle lungheorecchie (Personnages à longues oreilles) che allude all’aria saccente dei critici musicali del tempo, i colori e le sensazioni della foresta del Cucù nel bosco (Le coucou au fond des bois) e il rapido volo di uccelli in Voliera (Volière). Nella serie di animali è anche la divertente parodia della “razza” dei Pianisti (Pianistes), costretti a ore di ripetitivi ed estenuanti esercizi alla tastiera.
Al brioso brano dei Fossili (Fossiles) che prende in giro i critici musicali, spesso vecchi e antiquati, su temi tratti dalla Danza macabra dello stesso Saint-Saëns e dal Barbiere di Siviglia di Rossini, segue il celebre dolcissimo temadel Cigno (Le cygne), esposto dal violoncello. Chiude, e ricapitola l’intero lavoro, l’allegro rondò Finale (Finale) che alterna un nuovo divertente tema alla citazione di temi proposti nei brani precedenti.
Il programma proseguirà con la Suite n. 1 (1915-25), per piccola orchestra, di Igor Stravinskij: Andante, Napolitana, Española e Balalaïka.
Chiuderà la serata Pulcinella, suite per orchestra di Stravinskij, da Giovanni Battista Pergolesi: Sinfonia (Ouverture), Serenata, Scherzino, Allegro e Andantino, Tarantella, Toccata, Gavotta con due variazioni, Vivo, Minuetto – Finale. Soppiantando nel repertorio il balletto originale (del quale ripropone pagine e caratteristiche salienti), la suite da concerto che Stravinsky elaborò nel 1922 e revisionò nel 1949 (con le parti vocali sostituite da brani strumentali) consente di apprezzare le capacità parodistiche del compositore. Pulcinella è tra le più riuscite realizzazioni di quell’idea che l’autore spiegò più avanti: «Credo che l’unico esercizio critico valido debba compiersi nell’arte e per mezzo di essa, vale a dire nel pastiche o nella parodia. Il Baiser de la fée e Pulcinella sono critiche musicali di tale sorta, sebbene siano anche qualcosa di più».
PIERLUIGI CAMICIA
Inizia la carriera concertistica sulla scia di premi conseguiti in Concorsi Nazionali (Treviso) e Internazionali di grande prestigio (Busoni, Ciani, Chopin) e con l’ammirazione e la stima di artisti quali Rostropovitch, Ferrara, Ciccolini. Particolare attenzione rivolge a repertori inusuali, con direttori di fama (Ferro, Friedman, Haronovitch, Biscardi, Gusella) e con orchestre europee e americane; e insieme con Michael Flaksman, Ruggiero Ricci, Angelo Persichilli, Felix Ayo, Nina Beilina (tra gli altri) l’attività cameristica diventa occasione di proposte musicali poliedriche e affascinanti. Titolare di cattedra al Conservatorio “N. Piccinni” di Bari dal ’73, chiamatovi dall’allora Direttore Nino Rota, Pierluigi Camicia è maestro di una schiera di talenti alla ribalta del concertismo internazionale; ha inciso musiche di Chopin, Giuliani, Rota, Grieg, Brahms, Franck, Faurè e Van Westerhout per la Farelive, la Abegg e Bongiovanni. Dal 2003 è Direttore Artistico della Camerata Musicale Salentina di Lecce, la più importante Associazione Musicale del Salento. Ha ricevuto nel 2000 il Premio per la Musica “Nelo Freni”. Nel 2007 è stato nominato Direttore del Conservatorio “T. Schipa” di Lecce, per “meritata fama”, dal Ministro per l’Università, e confermato nella carica per il triennio successivo. Attualmente è docente di Pianoforte nello stesso Conservatorio.
VINCENZO RANA
Si è diplomato in pianoforte con lode presso il Conservatorio “N. Piccinni” di Bari sotto la guida del M° G. Binetti. Ha poi studiato con Rodolfo Caporali, Pierluigi Camicia e Aldo Ciccolini. Premiato in concorsi quali il “Cata ed Ernesto Monti” –Trieste, il “Premio Rendano” –Roma, “E. Porrino” –Cagliari, Ciem –Ginevra, ha tenuto recital solistici e concerti con orchestra in Italia e all’estero. Svolge intensa attività di collaboratore al pianoforte e direttore musicale di palcoscenico per diversi Teatri di tradizione e Festival: Teatro Petruzzelli di Bari, con le sue tournée in Egitto e in Francia, Teatro V. Emanuele di Messina, Teatro Verdi di S. Severo, Teatro Cilea di Reggio Calabria, Politeama Greco di Lecce, Festival della Valle d’Itria di Martina Franca, Wexford Opera Festival in Irlanda, Opera Giocosa di Savona. Ha curato la revisione della partitura del 1777 di un lavoro di G. Insanguine per il Conservatorio “N. Rota” di Monopoli e, nell’ambito del repertorio vocale ha inciso un CD Ricordo di Musicisti Pugliesi e diverse Petite Messe Solennelle di Rossini. È docente di Spartito presso l’Accademia del Belcanto presso la Fondazione P. Grassi di Martina Franca e di Lettura della partitura presso il Conservatorio “T. Schipa” di Lecce.
VINCENZA DE RINALDIS
Cantante, studia Canto Lirico presso il Conservatorio “T. Schipa” di Lecce. Attrice, speaker radiofonica, presentatrice. Ha collaborato con le più importanti compagnie teatrali presenti sul territorio. Laureata in Lettere Moderne, vanta premi e collaborazioni in ambito poetico e giornalistico. Vincitrice di vari concorsi canori a livello regionale e nazionale. Si sta perfezionando nella tecnica vocale del crossover con il M° Ida Decenvirale. Direttrice responsabile dell’Accademia d’Arte Thymos di Miggiano. Ospite in varie manifestazioni e in tv locali e nazionali. Ultimamente ha collaborato per Accademia Tv Talent, un programma ideato da Antonella Tauro su Canale 7.
GIOVANNI PELLEGRINI
Nato a Polignano a Mare (BA), compie gli studi musicali presso il Conservatorio “N. Piccinni” di Bari. Formatosi alla scuola di composizione del M° Fabio Cellini, si perfeziona con G. Serembe, M. Atzmon e F. Nagy, Donato Renzetti, conseguendo il diploma di alto perfezionamento. Ha diretto concerti con l’Orchestra Sinfonica della Provincia di Bari, l’Orchestra Sinfonica della Fondazione ICO “T. Schipa” di Lecce, l’Orchestra Sinfonica della Magna Grecia di Taranto, l’Orchestra Sinfonica MAV di Budapest, l’Orchestra della Fondazione Lucana, l’Orchestra Sinfonica M. Gusella di Pescara, l’Orchestra del Conservatorio “T. Schipa” di Lecce, l’Orchestra di Puglia e Basilicata, l’Orchestra Saverio Mercadante, l’Orchestra da camera di Durazzo e l’Orchestra da camera Paisiello di Lecce. Ha diretto in prima esecuzione l’opera “Ghetonia” di F. Muolo, il concerto inaugurale del Festival Internazionale di Avignon (Francia) e l’opera “Il Matrimonio Inaspettato” di G. Paisiello con la regia di Elena Barbalich, l’opera “L’Elisir d’Amore” di G. Donizetti con la regia di Katia Ricciarelli, i Carmina Burana di C. Orff. Diplomato in Strumentazione per Banda, è docente di Master e Corsi di Perfezionamento per Ensemble di Fiati, e titolare della cattedra di Musica d’Insieme per Fiati e di Musica da Camera Vocale e Strumentale presso il Conservatorio di Musica “T. Schipa” di Lecce. Dal 2007 è fiduciario della sede distaccata di Ceglie Messapica (BR).
Il popolo salentino ha personificato anche i mesi dell’anno e da molte generazioni si tramanda questo breve raccontino, nel quale Febbraio chiede una cortesia al fratello Marzo:
frate Marzu, frate Marzu
damme tò giurni
e bbiti a ‘sta ‘ecchia cce lli fazzu!
Ca ci li giurni mia
l’abbìa tutti
facìa cuajare
lu mieru intra ‘lli ‘utti.
(fratello Marzo, fratello Marzo/ prestami due giorni dei tuoi/ e vedrai cosa farò a questa vecchia./ Avessi tutti i miei giorni/ farei congelare il vino nelle botti).
Ma a questa considerazione bisogna aggiungere anche un proverbio, che si recita a Scorrano:
Lu tàccaru cchiù gruessu
àzzalu pi marzu
(la legna più grande riservala per marzo).
Ogni commento si può risparmiare, visto che le temperature di questi giorni confermano la secolare esperienza in fatto di metereologia.
Ancora una conferma?
Ci fribbaru no fribbarèscia
marzu mmalepensa
(se febbraio non porta il suo freddo, marzo potrebbe pensar male riguardo la sua reputazione di mese più freddo dell’anno).
“I am Elivis Presly / I am a macho man / Sono Napoleone /Io sono un’impressione / Io sono un super deejay /Yo soy el matador /Yo soy marinero /Yo soy el capitan /I am dynamite /I am wrong, I am right /Sono disorientato /I am looking for love /I am Frank Sinatra /I am Spiderman /Ich bin der Kommissar /I do the best I can” – La medicina Jovanotti
In seguito ai fatti di cronaca internazionale di queste ultime settimane, agli attentati di Parigi e alla conseguente scomposta reazione dell’Europa di fronte all’ennesimo rigurgito di intolleranza religiosa e fanatismo omicida, abbiamo sentito sui mezzi di informazione commenti di ogni tipo, affermazioni schizofreniche e deliranti, prese di distanza, acute analisi politiche e filosofiche insieme a grossolane rivendicazioni di appartenenza. È Il villaggio globale massmediatico, che ci rulla ogni giorno nelle orecchie. In particolare, abbiamo letto quelle sdilinquite e retoriche espressioni di solidarietà globale che, trasformate in slogans, fanno presto a diventare merchandising. E via dunque con i vari Je suis Charlie, Je suis Ahmed, ecc. Come sovente accade, si è allestito un grande circo in cui tanti, rispolverando la teoria dello scontro di civiltà, ballavano una pericolosa danza con i fantasmi del passato. Da “Io sono Malala”, il libro di Christina Lamb e Malala Yousafzai, sulla ragazzina pakistana vincitrice del Nobel per la Pace 2014, tutte queste espressioni di identificazione con l’altro, si rifanno alla celebre frase, “Ich bin ein Berliner”, pronunciata da J.F. Kennedy nel 1963 a Berlino che però, sebbene fosse un capolavoro di retorica, cadeva in un contesto storico completamente diverso.
Comunque, sull’onda emotiva del dibattito ideologico apertosi, anch’io ho provato a fermare su un foglio bianco una personale presa di posizione, una mia testimonianza di impegno civile, oggi che quel muro nella città in cui il Presidente Kennedy parlava cinquant’anni fa, è crollato. Ci ho rimurginato a lungo ma non mi riusciva di scrivere alcunché. “ Io sono… Io sono …”. Ho provato più volte, ma dopo il pronome personale e il verbo mi uscivano solo i puntini di sospensione.
A proposito, pare che nel linguaggio 2.0 , quello dei social network e dei telefonini, i puntini di sospensione siano i più usati fra i segni di interpunzione, anche se ne servirebbero tre ma alcuni ne mettono due e altri dieci. Tutto ciò, al netto degli acronimi e delle sigle che sono usati soprattutto dai giovanissimi e dei tantissimi strafalcioni o solecismi che ormai sono entrati nel linguaggio comune, come per esempio, la x al posto di “per”, o la k (e non sembri una facezia ricordare il noto detto “per un punto Martin perse la cappa”) al posto di “chi” o “che”. L’altro giorno ho scoperto (o dovrei dire “sgamato” per usare il gergo studentesco) mia figlia che scriveva “xké” su “Whatsapp” (il computer mi segnala in rosso questa parola, segno che non è ancora stata acquisita). “Tuoni e fulmini!”: ho avuto una reazione incontrollata. Le ho detto: “No, questa è una pugnalata! Non me la dovevi dare! Qualsiasi cosa, ma non questo!” . La ragazza è rimasta basita e mi ha giurato sul Devoto Oli che non lo farà mai più.
Ma tornando alla mia monca professione di fede, vano è stato esercitarmici tutto il giorno, fra una pausa e l’altra del lavoro. Dopo soggetto e copula, per completare la frase, non mi sovveniva nessun pertinente nome del predicato. Provato anche in altre lingue: Je suis, j am, oppure yo soy, ma stesso risultato. La sera, tornato a casa, mollo la borsa di lavoro sulla sedia accanto alla scrivania e una vocina interiore mi sorprende. Mi guardo intorno e la voce si fa sempre più reale e mi ripete: “Tolle lege, tolle lege!”, proprio come racconta Sant’Agostino con le Lettere di San Paolo. “Prendi e leggi, prendi e leggi!”, e il mio sguardo cade su un libro impilato sulla scrivania che mi ero promesso di rileggere, scosso dalla recente scomparsa del suo autore: “Paflasmos. Il battito del Mar Egeo. Viaggio nell’anima della Grecia”, di Cesare Padovani (Diabasis Editore 2010). Ma è davvero un’illuminazione celeste, una accensione mistica, un prodigium!
Il libro tratta di un viaggio nel cuore della Grecia moderna alla ricerca però di quella passata, sulle tracce delle vestigia dell’antica civiltà classica, di quelle testimonianze della grandezza del pensiero filosofante nato proprio in quella terra, culla della civiltà occidentale. Ecco completata la frase, allora: “Io sono greco!”. Sì, finalmente ho trovato il modo di completare quanto scritto sul foglio bianco. E d’altro canto, l’ho sempre saputo. Come mai non me ne rendevo conto? Il libro di Cesare Padovani, studioso e saggista riminese, è un diario di viaggio alla ricerca della propria anima, di quello che di sé si è perduto. Un ritorno alle origini,alla sorgente vera della propria cultura, per abbeverarsi a quelle fonti da cui sgorga acqua pura e cristallina. E anche se si sa che quell’acqua non esiste più, che la si è perduta per sempre, tuttavia ci si rivolge indietro, la si cerca con la memoria, con tutto il dolore per il non ritorno, “con quella malinconia”, dice l’autore, “che già Aristotele avvertiva come sofferenza culturale, o eccesso di consapevolezza, e che certamente aveva riconosciuto nel sorriso ironico di Socrate, anche quando Socrate stava per andarsene da questo mondo. Andarsene da qualcosa che si ama è provare nostalgia ancor prima del momento del distacco. Come la vita, un viaggio del genere non può non mantenere in sé quel residuo malinconico”. Eppure, nonostante la sorgente non esista realmente, ci sgorga dentro, fluisce nelle nostre vene, la avvertiamo anche se non odiamo più il suo gorgoglio, questo basta a farci dire a noi stessi che è ancora viva.
Cesare Padovani, che mi addolora sapere scomparso, profondo conoscitore del mondo classico, sull’attualità dei miti ha condotto parecchi seminari e conferenze. E questo suo romanzo è proprio una riscoperta dei miti di cui è piena la letteratura greca, dei simboli di cui essa pullula. Paflasmós” per l’autore significa quel particolare sciabordio del mare che «accompagna il lettore tra odori, rumori, visioni e anfratti di sapienza della Grecia meno conosciuta, per scorgerne il tragico vigore antico, ma anche il pigro dormiveglia delle attese. “Paflasmós rinvia all’“andimámalo”, parola magica nella lingua greca moderna, per raffigurare l’andirivieni dolce delle onde che si spengono sulla battigia e subito tornano verso il mare». “Perché sospiri? A cosa stai pensando?” gli chiede la moglie Giovanna. “Ti sembrerà sciocco ma, lasciando questo paradiso, sto pensando al Paflasmos” E alla moglie che gli chiede cosa significhi, risponde: «Prova a ripeterlo, scandendo le tre sillabe senza però staccarle: Pa-flas-mós”. Quale immagine ti suscita? / “Pa-flas-smòs”? Non saprei, forse il “pa” e il “flas” riproducono il rumore dell’acqua che si riversa sulla riva… / Appunto, quell’onda leggera e sottile che spegne i suoi bisillabi sulla battigia e sulle fiancate delle barche…» .
Le varie tappe toccate dalla sua Periegesi della Grecia sono i pretesti per rispolverare altrettanti miti e scoprire quanto essi siano ancora attuali, quanto il pensiero dei primi filosofi greci abbia ancora validità nel mondo supertecnologico di oggi. Con la leggerezza di un volo di farfalla, come per il suo successivo e ultimo libro “Farfalle Aforismi” (Il Vicolo Editore 2011), passando da una sentenza ad una massima tratta dall’epica di Omero o dalle tragedie di Euripide, Sofocle ,Eschilo, la cultura mediterranea arcaica viene portata alla luce dell’attualità del nostro quotidiano sociale e politico.
Ed è proprio questa la mia formazione, sui classici greci e latini anch’io mi sono costruito. Ho iniziato al Liceo e non li ho più lasciati. E allora di fronte al dibattito in corso, fra cristiani e musulmani, pacifisti e guerrafondai, xenofobi ed esterofili, posso piantare anch’io un seme di appartenenza, crociare una casella, apporre una bandierina nella sconfinata terra di nessuno del deserto intorno. “Io sono greco!”.
La prima venne alla luce nel lontano 1904, l’ultima nel 1984
di Carlo Caggia
Galatina ha una tradizione di giornali satirici che conferma il carattere di questa popolazione allegra, spiritosa e talvolta caustica.
Non per niente i galatinesi sono conosciuti in provincia con il soprannome di “carzilarghi”, [“guance gonfie” (ndr)]. L’espressione è stata motivo di dotte disquisizioni sul suo significato, ma tutte inequivocabilmente confermano il carattere un po’ chiacchierone e guascone della popolazione.
Nel nostro archivio conserviamo due numeri di pubblicazioni satiriche che risalgono al 1904, intitolati “L’Ago”, stampato il 21 febbraio e (pronta risposta!) “Lo Spillone”, uscito solo quattro giorni dopo, cioè il 25 febbraio.
La lettura dei due giornali, per noi posteri, è difficile perché i personaggi presi di mira non hanno lasciato particolari tracce. Si può solo dire che erano tutti appartenenti al ceto alto della città (Mongiò, Tanza, Mezio, Congedo, Cadura ecc.) e molto spesso le rappresentazioni teatrali, con contorno di coriste e ballerine, fanno da sfondo.
Era, quindi, una satira circoscritta alla aristocrazia anche se, in concreto, non mancava quella popolare che aveva, però, la caratteristica della oralità e non aveva, naturalmente, l’”onore” della carta stampata.
Sia chiaro che, in questa sede, non trattiamo della satira in forma poetica, che ebbe le sue massime espressioni in Fedele Salacino (Cino da Porta Luce) e Nino Campanella (Pinna de Lindaneddhra).
Perciò dobbiamo fare un salto al 1940, in pieno periodo fascista, anno in cui si pubblicò un fascicolo satirico – “Le Vesciche e gli Spilli” – a cura del G.U.F. (Giovani Universitari Fascisti). Il compilatore fu Salvatore Ferrol, che poi sarà uno dei migliori docenti del Liceo classico “Colonna”.
Nella presentazione (non firmata ma redazionale) del numero si ha la riprova, ove ce ne fosse bisogno, che la “cultura” in cui vivevano questi giovani era a senso unico, prodotto naturale e logico di un regime che non permetteva termini di paragone, fonti diversi, dibattiti aperti. Erano giovani (absit iniura verbis) allevati “in batteria”, ideologicamente e culturalmente parlando, ed erano tutti in buona fede.
Dice il fascicolo: “(…) L’allestimento dei numeri unici rientra nel programma che la Segreteria del G.U.F. stabilisce per l’attività culturale. Oggi, più che mai, esso deve avere un aspetto sociale, risanatore, antiborghese. Se quest’ultimo termine (…) non da tutti è pienamente compreso non è cosa nostra (…)”, eccetera, eccetera. “Oggi, che si opera in profondità per incidere l’animo, lo spirito per creare l’individuo fascista, ognuno sappia che il G.U.F. seguendo gli ordini indefettibili del Duce, è in linea con questa lotta (…)”.
Come si vede la confusione è grande. I conati antiborghesi dei regimi totalitari (fascisti e nazisti) sono una congerie di Nietzsche, Sorel, Futurismo, Arditismo che sul piano effettivo rimangono velleitari e, di fatto, sconfitti.
Conclude la presentazione: “Numero unico, nostra cara creatura (…) tu ora va’, vedrai che il bravo ed intelligente pubblico galatinese saprà accoglierti con tutti gli onori, perché in te vedrà tutta la giovinezza, l’ardimento, la gioia della lotta ed il gusto della polemica: le armi con cui gli universitari fascisti combattono per vincere nel nome dell’Italia, come il Duce comanda”.
Il lungo viaggio attraverso il Fascismo, secondo la felice definizione di Ruggero Zangrandi, a proposito di questa generazione, tra qualche anno si concluderà, spesso tragicamente.
Nel dopoguerra, dal 1953 al 1984, vedono la luce numerosi giornali satirici, quali la “Cuccuvàscia” (1953), che poi si chiamerà “La Civetta”, organo dei giornalisti di Galatina che si pubblicava in occasione degli annuali, magnifici, “Veglioni della Stampa”.
Nel 1970 si pubblica “La Racchietta”, in occasione del Circolo Tennis.
Altri numeri sono legati alle festività di Natale, come ad esempio “Lu Presepiu” (1983) e “La Befana” (1984) o alle feste patronali di fine giugno, come ad esempio “La Taranta” (1971 e 1984).
La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione
al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.
C.F. 91024610759 Conto corrente postale 1003008339 IBAN: IT30G0760116000001003008339
www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.
Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi: Gestione contatti e invio di messaggi MailChimp Dati Personali: cognome, email e nome Interazione con social network e piattaforme esterne Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo Servizi di piattaforma e hosting WordPress.com Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio Statistica Wordpress Stat Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo Informazioni di contatto Titolare del Trattamento dei Dati Marcello Gaballo Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com