La narrazione di Rocco Boccadamo, dal resistere all’esistere

coperta compare per blog

 

di Eliana Forcignanò

 

È esistenza e resistenza la narrazione. Si tratta dell’atto più felice che l’individuo possa compiere nei confronti di se stesso e della propria comunità di appartenenza, un atto dovuto anche quando ciò che s’intende narrare non sembra avere contorni allegri, tuttavia, se attribuiamo credito alla nozione cassireriana di uomo quale “animale simbolico”, il raccontare e il raccontarsi, collocando il proprio Io in un contesto spazio-temporale ben definito, costituiscono linfa vitale che ci consente non soltanto di riesaminare il nostro passato, bensì anche di comprendere le radici del presente e di progettare i sogni del futuro, ma – come scriveva Agostino – il passato non è più e il futuro deve ancora venire, dunque solo il presente esiste: esso ha un’entità, com’è inscritto nel participio praesens il cui suffisso prae- è seguito proprio dal sostantivo ens la cui traduzione è univoca: “ciò che è”. Ora, se il presente è ciò che immediatamente è, anche il passato può tornare all’essere e l’unica strategia per ottenere questo passaggio è la narrazione, vero luogo di presentificazione del passato, benché – secondo quanto insegnato dalla scuola psicoanalitica freudiana – il passato non sia mai davvero morto: esso dimora sovente nell’abisso dell’inconscio che, liberandosi a volte dalle strette maglie della censura, riesce a provocarne l’emersione. Jung è, invece, del parere che non la censura di per sé, bensì la nostra attenzione, rigorosamente selettiva, lasci in ombra determinati contenuti associati a complessi profondi o a costellazioni archetipiche irrisolte.

Uno psicoanalista alle prime armi interpreterebbe, forse, i racconti di Rocco Boccadamo come un tentativo di riscatto dalla modesta vita di provincia che l’Autore ha condotto fino al termine dell’adolescenza, ma sbaglierebbe il nostro psicoanalista a pensarla in questo modo, poiché ciò che a tutta prima appare un morso al freno del passato è esattamente il contrario. Boccadamo ricorda la sua infanzia e adolescenza trascorse nel piccolo, modesto borgo di Marittima non per compiacersi dei successi professionali e sociali ottenuti in seguito, bensì tentando di proporre al lettore un quadro veridico della vita dei piccoli ceti contadini e manifatturieri che, pur vivendo con poco, riuscivano a esprimere costantemente la loro creatività e la gioia di esserci (l’heideggeriano Dasein) di stare al mondo.

C’era davvero poco allora per molti, ma prevaleva il senso di comunità che rendeva il borgo una grande famiglia come l’Autore scrive chiaramente nel racconto dedicato a Valeria e Angelo, una modesta coppia di lavoratori che, al pari dei vicini, lasciavano la porta di casa aperta quasi a voler accogliere l’altro nella piena osservanza del rituale di ospitalità vissuto nell’antica Grecia e infranto da Paride che rapì la stupenda Elena per portarla a Troia. I riferimenti mitologici, per il racconto di Angelo e Valeria, sono d’obbligo: questa donna che non ha potuto concepire un figlio e ora cuce la dota per la prole delle altre compaesane ha in sé, pur nell’estrema semplicità con la quale è tratteggiato il personaggio, qualcosa di ancestrale che richiama due figure mitologiche: Penelope, moglie del viaggiatore Ulisse, e Lucrezia, moglie di Collatino. Penelope rappresenta la figura dell’attesa e del rimpianto che non può trovare argine quando si vede improvvisamente costretta a sposare uno dei Proci; Lucrezia rappresenta, invece, la figura della dignità: questa donna, violentata brutalmente dal figlio di Tarquinio il Superbo, è costretta a darsi la morte, non prima di aver denunciato al marito la vergogna che ha dovuto patire. Attesa e dignità, dunque, sono i tratti peculiari del carattere di Valeria, benché occorra precisare che anche gli uomini, nei racconti di Boccadamo, siano parimenti capaci di attendere per anni un figlio disperso in guerra o di mantenere la dignità nonostante manchino i soldi per ricomprare un paio di scarpe. L’estrema curiosità del titolo di questo libro – Compare, mi vendi una scarpa? – meritoriamente edito da Capone, non è semplicemente un paradosso, un motto di spirito, ma la simbolizzazione della necessità. La trama del racconto che dà il titolo al volume è semplice, ben costruita, perché Boccadamo ha uno stile che è, nel medesimo tempo, fluido e ricercato quanto basta per non cadere in un linguaggio arcaico che toglierebbe vitalità alle narrazioni.

Un contadino accompagna in treno fino a Napoli il figlio che deve arruolarsi. A bordo del treno che lo ricondurrà a Lecce, il padre del ragazzo tenta, esausto, di prender sonno e si slaccia le pesanti scarpe di cuoio che gli servono per il lavoro ed, eventualmente, per le rare volte in cui si concede una passeggiata. È il suo unico paio di scarpe e può considerarsi fortunato, perché la maggior parte dei contadini cammina a piedi scalzi. Al risveglio, ancora a bordo del treno, il contadino si accorge di avere una scarpa sola. L’altra gli è stata sottratta e non c’è modo di riaverla. Si reca, allora, al mercato sperando di trovare chi sia disposto a vendergli una scarpa sola. Nessuno intende spaiare le scarpe in vendita e il protagonista rimane per lungo tempo “monco” di una scarpa. Un racconto, uno squarcio di vita – giacché è questo l’atteggiamento letterario di Boccadamo: non una scrittura di lungo respiro, ma squarci brevi e incisivi, non la novella ma il quadro che l’Autore ritocca con abili pennellate stilistiche – uno squarcio di vita, si diceva, che suscita ilarità e tristezza insieme. Perdere una scarpa può apparire agli occhi di un lettore contemporaneo una situazione limite fra divertissement letterario e antico dramma satiresco. Boccadamo, però, racconta la verità: una verità dolce e amara al tempo stesso. Se è dolce questo padre che accompagna il figlio fino a Napoli per salutarlo prima che sia arruolato, è struggente la descrizione di quest’uomo che chiede di poter comprare una scarpa sola, perché, probabilmente, non ha i soldi per comprarne un paio. Eppure, vi è lievità nel racconto, spira una calma olimpica che scaccia ogni patetismo. Rocco Boccadamo sembra dirci: “Un tempo era così, ma non angustiatevi troppo, perché alla povertà materiale odierna che insiste in forme più larvali e subdole, era preferibile quella del Secondo dopoguerra in cui la speranza di un cambiamento era all’ordine del giorno”. Oggi non speriamo più: il panorama di macerie è costantemente sotto i nostri occhi. Da lì dobbiamo trarre la forza per ricostruire, ma quando?

Chiudo il mio intervento con una nota di colore suggeritami dal racconto Una matinée al Santa Lucia: dietro i due adolescenti protagonisti che marinano la scuola per rifugiarsi in questo cinema, da qualche anno, purtroppo dismesso, c’è tutto il profumo dell’amore in tenera età: le attenzioni, la voglia di un’innocente trasgressione, la leggerezza che solo quell’età vissuta in quella particolare temperie storica potevano garantire. E poi, Lecce – secondo il racconto di Boccadamo – era una città diversa: il Santa Lucia è chiuso da non molti anni, ma confesso che, pur avendolo vissuto poco per ragioni anagrafiche, ogni volta che mi accade d’incrociarlo sulla mia strada, percepisco una stretta al cuore. Quante estati sono trascorse e quanto rimpiango le proiezioni all’aperto, i cineforum, le rassegne! Chiudono i cinema, le biblioteche, i teatri. Chiudono. Ecco perché raccontare è resistere alla piattezza di una vita che ci vorrebbe consumatori felici e ordinati o macchine da guerra dietro a un computer.  Di fronte a quest’alienazione, dobbiamo trovare non una forma di sopravvivenza, ma di esistenza: io credo, con l’amico Rocco Boccadamo, di averla individuata nel racconto. E voi?

SERGIO TORSELLO 1965-2015

sergio torsello di Paolo Vincenti

 

Se ne è andato Sergio Torsello, storico, giornalista, saggista e operatore culturale. Una grave perdita per il Salento e per la comunità degli studiosi di tradizioni popolari. Una voce autorevole, la sua, una  penna raffinata, una presenza costante accanto a giovani studiosi e ricercatori, docenti ed editori, musicisti e artisti in genere. “Un uomo serio. Sono in molti a dovergli tanto”, scrive Eugenio Imbriani sul “Corriere del Mezzogiorno” del 21 aprile 2015. “Sergio è stato uno studioso serio, maniacale compilatore di preziose bibliografie, esploratore di testi sconosciuti, autore e curatore di testi importanti, direttore di collane editoriali, collaboratore di riviste prestigiose” . Il suo cuore ha smesso di battere improvvisamente, lasciando sgomenti parenti e amici. Si è spento a 49 anni, nella sua città natale, Alessano, Finibusterrae. “La sua tela infinita si è spezzata, ripariamola insieme”, scrivono Andrea Carlino e Giovanni Pizza sempre sul “Corriere del Mezzogiorno” del 21 aprile 2015, facendo riferimento al titolo di una delle sue opere maggiori, appunto “La tela infinita” ( Besa Editore2006). Il giorno delle esequie ad Alessano,  c’era una folla immensa, come era prevedibile per uno che ha ricoperto gli importanti incarichi di componente dell’Istituto Diego Carpitella e di direttore artistico della Notte della Taranta. Ma accanto ai politici e ai tantissimi artisti venuti  a rendergli  omaggio, c’era tanta gente comune, cioè i suoi concittadini, gli amici di Alessano tutti “percossi e attoniti” per dirla col Manzoni,  ancora traballanti per lo scossone ricevuto. Il suo funerale è stato semplice e sobrio, come lui avrebbe voluto. Un lungo e mesto corteo che in un silenzio religioso si è dipanato dalla casa di Sergio fino alla stupenda chiesa di Sant’Antonio dove si sono celebrate le esequie, passando per la piazza del paese ed il Municipio dove lui prestava servizio da molti anni. Niente strepiti, niente musica sparata a tutto volume come siamo abituati a sentire sempre più spesso nei funerali cafoni e cialtroneschi che si celebrano oggigiorno. I politici che erano presenti non facevano nessuna passerella o, se la facevano, erano bravissimi a fingere. Significativa e vibrante l’omelia del parroco che ha avuto parole di grande conforto per i famigliari di Sergio, e  riflessioni di alta teologia che non siamo abituati ad ascoltare dai nostri ignoranti e superficiali parroci. Il corteo funebre era un muto serpentone, nero come la terra che ci lascia più orfani, privi di tanto esempio, soli nel malinconico incedere pensoso. “Un corteo di anime afflitte, nel tragitto fino alla piazza assolata di un paese mai così bello, …la solitudine che ci angoscia immaginando il domani senza di te e un futuro senza memoria, la musica senza più radici”, scrive su Fb Michela Santoro. Ma tantissime sono in rete le testimonianze di amici e colleghi che lo hanno conosciuto ed amato, poiché le due cose con Sergio, andavano necessariamente di pari passo. Poi, al cimitero, l’emozione, la rabbia, l’amarezza  di chi si sente orbato da tanto ingiusta dipartita, si sono sciolti in un lungo e straziante canto di dolore eseguito a cappella dalla voce di Antonio Castrignanò mentre  la salma di Sergio veniva tumulata,  a pochi passi da quella di un altro alessanese illustre che qui riposa, Don Tonino Bello. Il video di questo triste momento è trasmesso in rete e il canto di Castrignanò tocca l’anima, come l’immagine di Gigi Chiriatti che si porta il fazzoletto agli occhi per asciugare le lacrime. Ciao Sergio Torsello, ci mancherai molto.

Gallipoli. Il santo, il tempio, il cavaliere

Ugo Lusignano

La storia di Ugo VII Lusignano

di Nicola Morrone

 

Tra i più significativi monumenti del territorio di Gallipoli vi è senza dubbio la chiesa di San Pietro dei Samari, ubicata nell’omonima contrada, poco distante dalla costa. Si tratta di un edificio risalente al sec. XII, attualmente di proprietà privata, e abbisognevole, invero, di un pronto intervento di restauro.

Lo abbiamo visitato nella Pasquetta scorsa, realizzando un vecchio sogno: la sua storia, documentata, è infatti di grandissimo fascino. Del monumento si è occupata di recente, con la consueta perizia, M. Stella Calò Mariani, la quale ne ha redatto una scheda pressochè esaustiva [Cfr. Gallipoli, San Pietro dei Samari. Il voto di un crociato, in “La Terrasanta e il crepuscolo della crociata” (Bari 2001), pp.44-54].

Al lettore, comunque, rammentiamo i più significativi dati relativi alla chiesa: si tratta di un edificio a navata unica absidata, coperta da due cupole in asse. Esso è stato realizzato nel 1148 dal cavaliere francese Ugo Lusignano, che ne ha finanziato la costruzione una volta sbarcato sulle coste di Gallipoli al rientro dalla (sfortunata) spedizione della seconda crociata in Terrasanta, da lui compiuta al seguito del re di Francia Luigi VII.

San Pietro dei Samari

La chiesa è ben nota ai gallipolini, ed è stata aperta al culto almeno fino al sec. XIX: per molto tempo, infatti, vi si è regolarmente celebrata la ricorrenza dei SS. Pietro e Paolo (29 giugno), in occasione della quale, nel largo antistante la cappella, si svolgeva anche una piccola fiera.

Approfondiremo, in questa sede, la figura di Ugo Lusignano, nobile francese a cui si deve la costruzione della chiesa, che con la edificazione della stessa ha voluto lasciare perenne testimonianza della sua devozione per l’Apostolo Pietro, anch’egli sbarcato, molto tempo prima, sulle coste di Gallipoli, come ricorda la tradizione.

Di Ugo VII Lusignano (1065 ca.-1151 ca.) restano scarne notizie biografiche e pochi, ma significativi documenti. Un sintetico ragguaglio biografico è contenuto nell’opera “Notices Historiques sur la Maison de Lusignan (Paris 1853), pp.14-15. Dalla lettura apprendiamo che Hugo VII, signore di Lusignan e conte della Marche, passò buona parte della sua vita a guerreggiare contro i signori vicini. Egli, citato sempre nelle carte come “il bruno”(per via del colore dei capelli) fu un individuo decisamente particolare: uomo turbolento, come altri nobili del suo tempo ebbe non di rado un atteggiamento vessatorio nei confronti dei coloni delle sue terre. Ma fu soprattutto infido nei confronti dell’autorità ecclesistica. Rispetto ad essa, egli fu benefattore, poichè fondò con il suo patrimonio l’abbazia cistercense di Bonnevaux, ma anche malfattore, poichè non esitò ad impadronirsi con la forza dei beni del priorato di San Pietro la Celle, ragion per cui fu scomunicato (1142) ,anche se poi fece ammenda (1144), finchè non decise di partire per la seconda crociata (1146). Elenchiamo di seguito, in ordine cronologico,le notizie riguardanti il nobile francese,da noi rintracciate attraverso una breve ricerca.

 

1110:

Alla morte del padre, Ugo VII diviene signore di Lusignano [Cfr.Chronique de Saint-Maixent, p.424]

 

1115 ca:

Con l’assenso di sua moglie Sarrazine, Ugo VII rinuncia a tutti i cattivi comportamenti di cui lui e suo padre si sono resi responsabili a Frontenay, nei confronti degli abitanti di Nouaille’ [Cfr.Chartes de l’Abbaye de Nouaille’(Poitiers 1936), pp.306-307]

 

1120:Ugo VII e sua moglie Sarrazine fondano il monastero benedettino cistercense di Bonnevaux, in Diocesi di Poitiers [Cfr. Gallia Christiana, tomo II (Paris 1820), Instrumenta, LIX]

 

1142:Ugo VII viene scomunicato per aver usurpato i beni della chiesa di San Pietro la Celle, presso Poitiers

 

1144:Ugo VII, “confidando nella misericordia divina”, chiede scusa per cio’ che ha sottratto ingiustamente alla chiesa di San Pietro la Celle . [Cfr. Documents Historiques Inedits tires de la Biblioteque Royale, tome II (Paris 1843), p.27, doc. XII].

 

1146:Ugo VII parte per la Seconda Crociata

 

1148:Ugo VII fa edificare, di ritorno dalla crociata, la cappella di San Pietro dai Samari presso Gallipoli.

 

A quest’appendice salentina della storia del nobile francese dedicheremo le nostre riflessioni conclusive. Siamo informati sulla costruzione della chiesa di Samari attraverso un’iscrizione, collocata sul fronte , il cui testo latino così traduciamo: ”Ugo Lusignano, condottiero dei crociati, reduce dalla Palestina, nell’anno del Signore 1148, promosse ed eresse dalle fondamenta questo tempio consacrato al Principe degli Apostoli, nel luogo in cui San Pietro, spinto dalla Samaria verso questi lidi, lasciò le sue impronte”.

Dalla lettura dell’iscrizione, dunque, si apprende che Ugo Lusignano volle edificare una chiesa dedicata a San Pietro nel luogo stesso in cui verosimilmente, molti secoli prima , era sbarcato l’Apostolo, lasciandovi le sue impronte (“vestigia”).

In altri termini, sbarcato in localita’ “Samari”, Ugo ebbe modo di osservare un’antica “memoria” del passaggio di San Pietro sul posto e decise di sostituirla con una costruzione monumentale, cioè la bella chiesa tuttora esistente. Di tutto ciò, volle poi tramandare il ricordo nell’iscrizione che corre sulla parte alta dell’avancorpo della chiesa, di epoca ottocentesca, ma che riprende alla lettera il testo dell’iscrizione originale, un tempo certamente conservata nella chiesa. Alla base della scelta del cavaliere crociato di costruire una chiesa dedicata a San Pietro, oltre alla tradizione gallipolina del passaggio dell’Apostolo, ci furono probabilmente altre due motivazioni.

In generale, Ugo proveniva da una terra in cui il culto per San Pietro era antichissimo: egli era signore di Lusignan, nei pressi di Poitiers, città in cui, oltre alla stessa Cattedrale, esistevano nel sec. XII varie chiese dedicate all’Apostolo. Esistevano inoltre, nei pressi di Poitiers, un monastero femminile dedicato al santo, e persino una contrada, denominata “San Pietro le chiese”.

Il culto dell’Apostolo nel Poitou era dunque particolarmente radicato. Inoltre, Ugo doveva sentirsi personalmente motivato alla costruzione della chiesa, poichè, con un gesto di prepotenza, egli aveva depredato la chiesa di San Pietro la Celle ed era perciò stato scomunicato. Pur essendo stato perdonato dal vescovo di Poitiers, il nobile doveva ancora sentirsi in obbligo verso il Santo, cui appunto era intitolata la chiesa francese da lui spogliata, e appena quattro anni dopo, sbarcato a Gallipoli, ebbe occasione di estinguere il debito, facendo erigere a proprie spese la cappella di San Pietro dei Samari. In seguito, fece rientro in Francia e, con ogni probabilità, non tornò più in Palestina, ne’ nel Salento, dove è ancora possibile contemplare la traccia imperitura del suo passaggio.

 

20 aprile 2015

da Internet (chi può ci segnali l'autore della foto per attribuirla)
da Internet (chi può ci segnali l’autore della foto per attribuirla)

di Pino de Luca

Eccolo! Dopo il 19 aprile giunge incontestabilmente il 20. In questo periodo di certezze solide come la gelatina di pollo qualche scoglio concreto al quale aggrapparsi è utile.
La notizia del giorno è la scoperta della paura vera che ci attanaglia. La paura di tornare poveri. Di avere difficoltà a mettere insieme pranzo e cena e di tornare a confrontarci con la “cucina povera” per davvero e non per “riscoperta d’antiche virtù”
La paura, il terrore direi, che la frase che ci piace pronunciare: “si stava meglio una volta” si avveri concretamente e scompaiano smartphone, corn flakes e patatine fritte.
E quando hai paura diventi aggressivo e crudele, naturalmente con i deboli. Mentre provi ad essere accondiscendente e sei pronto ad ogni azione per captatio benevolentiae verso chi reputi forte e ricco.
Ti acceca la paura e non ti fa comprendere che come tu giudichi nemico chi ti è un gradino sotto e vorresti come amico chi ti sta un gradino sopra, anche chi ti sta sopra è nella tua medesima condizione. E così ciascuno si trova schiacciato comunque, accerchiato dalla sua medesima paura che lo paralizza.
La pompa dell’orrore è delegata a fare questo. Mentre sei occupato a gestire la paura “degli invasori” i tuoi dominanti ti levano diritti, democrazia e dignità. Ma ti lasciano lo smartphone, i corn flackes e la coca cola e tu sei felice perché, sei sazio, e dici comunque la tua anche se non conta una cippa. Bruciammo le ideologie e, insieme ad esse, anche ideali e idee. Affondando in una morchia di pragmatismo da maiali.
Domani è il compleanno di Roma, nata da due figli di nessuno allevati da una Lupa che, scannandosi fra di loro, ci raccontarono da subito in che Paese avremmo vissuto. Ciao Papa Francesco I. Mi sa che sei arrivato tardi e nel periodo sbagliato. Hai da guidare una gigantesca pletora di cattolici tra i quali vedo radi i cristiani.
Per i laici, come me e come tanti altri un link per chi volesse rinfrescarsi la memoria: http://www.ohchr.org/…/…/Documents/UDHR_Translations/itn.pdf
Buona giornata a tutti e provate caffé e pasticciotto qualche volta.

Secoli tra gli ulivi

Da “Secoli tra gli ulivi”, il capolavoro di Fernando Manno:

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L’orizzonte
Da secoli, da millenni forse, i salentini ordinano pietre in città, ordinano pietre in campagna. E ne hanno fatto i due volti della loro terra, quello splendido e fulvo della città e quello faticato e paziente delle campagne. Sotto l’inganno fastoso della natura e della luce mediterranea, cova la pena e la fatica delle terre dure ed amare, quelle a cui ci si lega con acerbo amore e furore caparbio.
I globi opalini dei peschi già in fiore in inverno, la mareggiata degli uliveti fra l’Adriatico e lo Jonio, i vigneti che anche in autunno, quando arrugginiscono e si mummificano, danno un sentore di lietezza residua, sono la gran fiaba paesistica, l’illusione ottica d’una terra aspra e nodosa. È un’asprezza di vene, di nocche, di grumi di sassi da ossario geologico. L’aratro li deve aggirare, la zappa, se vi piomba su, si sdenta in uno sciame di scintille.

particolare del muro sul lato sud
Da generazioni e generazioni, i contadini con antica pazienza e antica stizza rastrellano questa maledizione di sassi, uno ad uno, ordinandoli in quelle muricce campestri che chiudono poderi, giardini, campi come in una rete di cortili per alberi. Fantasia e necessità. È una tristezza di geometrie. E le hanno utilizzate, anche, le pietre, per farsi queste capanne nuragiche, sepolte sotto gli uliveti per ricovero, nelle notti, a guardia contro ladruncoli e caprai, i nemici della terra, questi, gli oppositori secolari dell’istinto di possesso dei contadini. Ora, in tempi di latte industriale e di occaso delle greggi caprine, sono nuraghi che vanno diroccandosi, resti di vita e di costumi spenti per consumazione.
E fra muricce sono costrette e impedite le strade campestri, scavate nei boli rossi come ferite sanguigne. E le strade maestre anche hanno una confidenza agreste. Erano una volta bianche di polvere e foruncolose di brecciame, oggi sono nere di asfalto e nel cavo della pianura corrono verso l’infinito, anche se non per incontrare le Muse come quelle di Ercole d’Este, ma diano un senso di malinconia, di non so che perdentesi e indefinito.
Ma le città, le borgate, i casolari sono biondi, il colore del tempo nel Salento, il colore del suo letto di calcare che è grasso e madido appena scoperchiato da un’epidermide terrosa e si fa caldo e placido sotto i secoli. Le cave di pietra non tagliano monti. Il Salento è un piano fiordo sotto il sole. Il suo fondo sa ancora di mare recente, chiude una salsedine morta, un sepolcro di fossili marini e conchiglie che lo scolaro che ha marinato la scuola facilmente cava col temperino. Infatti il temperino fece parte dell’attrezzatura più seriosa e indaffarata della nostra infanzia.

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Il nostro dialetto non ha parole per esprimere concetti eccessivi, estremi. È il dialetto d’una gente di fatica paziente e d’esperienza concreta e bonaria. E nemmeno per il durissimo lavoro d’estrarre la pietra dalle cave usa parole grosse: le chiama tagghiate. Non so se sia discrezione o rassegnazione alla fatica, senza drammatizzazione. Dice tagliare la pietra che tagliare, docilmente, si fa.
Appena fuori Lecce, già qualche strada rabbrividisce fra voragini immense, accecanti di giallore bianchiccio: le tagghiate. Da Brindisi a Leuca, da Gallipoli a Otranto o a Taranto, spesso t’imbatti in queste miniere della povertà geologica che dà ai salentini da sempre solo pietre per costruire. Possono alla fantasia servire da surrogati di voragini lunari, di giogaje di vuoto che ci diano un po’ l’illusione e la vanità di avere nel nostro paesaggio emozioni intense.
È una storia di pietre fissata da quando comincia. Fra Ennio e Capitano Black non ricca è la nostra anagrafe poetica. Le pietre vanno più oltre. Cominciano coi dolmen, coi menhir, con le specchie, monumenti d’un passato opinabile e corrusco, che segnano la terra e il paesaggio come i segnalibri alle pagine di illustrazioni favolose. La sterpaglia malarica del litorale adriatico che ora cede la sua angoscia antica e aspra alla povera tristezza di pinete impossibili e rachitiche, invase e rose ab antiquo i segni megalitici dei Messapi e li ridusse a tracce di ruderi cancrenosi. Muore, su quelle plaghe marine di pesce gustoso, dove l’impennata scogliosa dell’ultimo Salento adriatico si sgonfia in un livido arenile, il paesaggio d’Italia.

Dolmen Caroppo I e II
Dolmen Caroppo I e II (ph Oreste Caroppo)

C’era ancora posto per un romanticismo da butteri. Ma la cancellazione della malaria e dei pascoli e l’offerta dei proprietari di quelle terre infeconde per suolo edificatorio fanno dilagare le borgate marine, una specie d’urbanesimo vernacolo rivierasco, fortunatamente in gaio disordine paesano, che conservi un senso agrario e piscatorio.
Poi vengono le grandi epoche certe e il Romanico, il Rinascimentale, il Barocco, il Rococò nostri, inconfondibili, per tanti lati indivisibili. Il nostro barocco è la bibbia del nostro sentire, la indigena visione del mondo. È parte del paesaggio, come l’Orlando Furioso può esserlo del paesaggio fisico e umano del Rinascimento.
Il Salento è di senso orizzontale. Il paesaggio, la architettura arborea come la spirituale si dispiegano per spazi, per superfici. O per nembi, come gli uliveti. Non ci sono alberi di senso acuto: un platano, un pioppo, un cipresso, un’araucaria sono ospiti vegetali, capricci esotici. Eppoi, sentono di acqua, d’umido di proda fluviale, sconosciuto da noi. Il cipresso i salentini lo evitano come albero mesto, perché in noi anche la malinconia è volume grosso, viluppo di lunghi, perduti itinerari, sino al lievito della paura.

Soleto-La-guglia.-opera-di-Matteo-Tafuri1
Il campanile di Lecce, quello di Soleto bucano l’aria, come se appendano il Salento al cielo. Ma la pianura resta orizzontale, schiacciata, con le terrazze mozze e quadrate delle case, le borgate che irradiano satelliti di casolari, giardini, masserie. Borgate linde, bagnate di pioggia o di luce, con le icone ai cantoni sempre onorate d’un mazzo di fiori campestri o di gerani, con le vie rarefatte nelle ore di lavoro. La guardia municipale gira per le strade paziente ai quesiti, alle rimostranze e spesso alla fraseologia d’oltraggio degli amministrati. Consiglia, tollera, rimprovera, ammicca. Una polizia da parentado generale. Un unico campanile tenta d’alzarsi al cielo, e sono, per lo più, campanili falliti che aspettano da decenni o da secoli confraternite e fondi per il coronamento cuspidale. In generale si son rassegnati allo scorno di quella specie d’eterno provvisorio. Ma non importa. I mediterranei, i rivieraschi tutti del Mediterraneo, non sentono l’ascensionale. Persino i saluti, da noi, non salgono mai dal basso in alto o scendono dall’alto in basso. Ci si scambia un saluto augurale e festoso, poco interrogativo, affettuosamente esclamativo: salute! oppure uèhhh!. È bonario e familiare anche quando è pieno di «distanza».

campagna salentina (ph Fondazione TdO)
campagna salentina (ph Fondazione TdO)

La lindura campagnola delle borgate, la forza civile di questa cordialità panica, la concretezza poetica del linguaggio che prende dalla natura bellezza ed efficacia d’espressioni, è un tutto nell’intima compostezza ed eleganza del paesaggio salentino – fatti panoramici e fatti spirituali – che l’ospite stranio deve scoprire anche quando esso esplode in vegetazioni dionisiache o si strema in lunghi sfibramenti di soste.
Ed anche il paesaggio, come gli uomini la domenica, se mmuta, mette il vestito festivo, addobba la sua flora utilitaria e fruttifera, di monili inutili, lussuosi: le ville.
Chi pensa più oggi a farsi una villa? Ma molte ne fecero i nostri nonni, specie fra gli ultimi Borboni e l’epoca umbertina. Le incastonarono fra vigneti e uliveti come sigilli gentilizi. Le più belle nel Capo. Esprimevano un gusto di uomini d’antica cultura, educati al vecchio liceo classico, censo raffinato, senatoriale. Spesso dal fondo della dotta provincia teneva scambi e contatti con Napoli, la Corte. Ne riportava novità e certo stile. Poi, con l’unità, trasferì cultura e censo al Regno d’Italia.
Molte di queste ville sono ormai in disarmo, blasoni paesistici d’un’anagrafe terriera costretta da guerre e crisi e pestaggio del fisco a più oculati concetti amministrativi.

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La villa è un sentimento dei salentini. Esprime il desiderio d’una natura più ordinata e pacata dentro la vivacità della spontanea. Dai grandi esemplari, la villa discende infatti ai piccoli e modesti e ha dato alla terra quella coloritura piccolo-borghese, di stampo antico, di possesso e chiusura che le resta indelebile. Il «cittadino» dal bilancio familiare di piccolo cabotaggio, riuscito a covare con decenni di cocciuto risparmio un gruzzoletto, l’impiegato benestante in pensione, il massaro danaroso coi figli alle scuole medie e le figlie grandicelle che hanno amici «civili», comprato un poderuccio, un casolare, vi inventavano «la villa»: due oleandri, due gaggie, la scanzonata audacia di due cipressi magari, due alberi che facessero purchessia decorativo ce li piantavano, ai lati d’un ingresso volenterosamente allungato in «viale», ed era «la villa». E con essa il week end avant la lettre, o il riposo per la vecchiaia o il segno ostentato che la famiglia rompeva l’embrione sociale iniziale per cominciare la scalata al più alto, verso la borghesia.
Spesso «la villa» era questo grado della crescenza sociale. E con la villa c’era – c’è ancora, dove gli inizi sono socialmente ab imo e economicamente robusti, – il figlio prete, la cravatta la domenica, l’inutile scrivania in casa fra gli attrezzi di lavoro, il gatto di porcellana di Lucca accanto alle forbici da potatura e una sfumatura di maggior confidenza nel tratto coi «signori». Ora questi risparmi, questi sintomi, questi gradi trovano altri alvei: la macchina, la televisione, il buon sarto, il turismo. La villa minima era la stasi, il segno della fissazione radicata al paese natale, da consegnare con la piccola fortuna agli eredi.
Macchina, televisione, turismo, sono il segno nuovo degli avventi sociali: il moto, l’indistinto e l’ansioso. E il rumore, uno dei segni perentori e appassionati della ricchezza moderna. Radio a tutto volume, scappamento aperto, senso di potere al rimbombo ritmato delle rotaie sulle traversine! Sarà l’acquisto del gusto del silenzio che segnerà la completa maturazione di queste leve moderne della borghesia.
Fama e gloria nordica, di terre dionisiache godono le nostre. E certo la menzogna climatica la favorisce.

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Mite per freddo e geli è l’inverno, ma madido, d’una umidità spugnosa, imperlato di cupi scirocchi e di ponenti malvagi. L’estate muore in un autunno lucente, allibito, sotto un sole che di rame s’è fatto d’argento. I boli assetati e pulvurulenti dall’arsura estiva s’addolciscono e si tumefano sotto le prime piogge settembrine e il soffio del simun che ha galleggiato dall’Africa sin quassù. Per campi e tratturi gli asfodeli, gli asfodeli dell’Ade, mummificano gli steli in una plumbea secchezza. Proserpina ritorna a Plutone. Il mito riconferma eternamente la sua concretezza d’intuizione. La luce sfibrata gestisce, coi primi presentimenti autunnali, le solitudini invernali. Poi precoce, gratamente anacroniscita, già a febbraio la primavera, l’esplodere fiorito dei primi alberi. E in aprile l’odore del trifoglio, il tremolare dei grani adolescenti, il trillo di miriadi di papaveri. Le gemme tenere sugli alberi hanno un’acerbità carnale. Paesi, borghi asciugati dal sole, brillano d’un luccichio minerale, brunito, lo stesso delle ariste nelle messi estive.
A un tiro di voce, di qua e di là, il mare, che non ha niente di immaginoso e romantico, un mare casalingo e mangereccio, un mare da gite e da scorpacciate di pesce. Non un grande porto che dia l’ansito delle genti, del traffico, lo spiraglio oceanico. È un mare intimo, senza echi affaristici ed esotici. Un azzurro cortile del Tallone per divertircisi, fare i bagni, buono al massimo per fantasticarvi mirando un po’ lontano. Non è un mare da Colombo o da Butterfly.

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Da Taranto a Brindisi se ne va pigro a giocare con gli arenili dello Jonio, a mordicchiare le scogliere dell’otrantino, a ristagnare in spiagge meschine. Le vecchie torri di scolta sveve, angioine, aragonesi lo guardano decrepite. Gli danno un orlo di pathos, di storia consumata. Si freme ancora della pagina eroica e tragica dei Turchi a Otranto. Ma non più flotte turche e navi pirate saracene può scorgere la sentinella di scolta. Vigili sono solo ora i finanzieri a caccia di pescatori di frodo. Il resto è antico, lontano.
Un sepolcro di memorie è quella pianura azzurra ove s’affacciano le strade asfittiche di Otranto, di contro al cammeo bruno degli Acrocerauni oltre il canale. Il mare salentino orla di tristezza serica quella rude della terra che stringe.”

 

 

 

Il popolo degli ulivi in festa a Veglie, musiche danze confronti buon cibo e vino

Festa al presidio di Veglie

di Paolo Rausa

 

I miei riferimenti spazio-temporali, storico-artistici, ora hanno lasciato il tempo ad un altro elemento di orientamento: le mappe dove gli untori hanno lasciato il segno della sfida. Una croce rossa, una x, il simbolo della xylella, come la discesa di Carlo VIII in Italia. Solo che qui rischiano sul serio gli ulivi patriarcali. Ovviamente non sono tanto vecchi come quelli dell’Orto di Getsemani, luogo in cui si manifestò il tradimento di Giuda  – tutto ritorna negli avvenimenti umani e divini! – ma questi ricordano l’alleanza dei messapi contro gli spartani di Taras, quando riuscirono a respingere l’invasore e a riconquistare la propria terra.

Motivi storici e nostalgici, che ben si possono riferire alla situazione attuale in cui versa il Salento. Incontro volti noti al presidio, dove ormai ci arrivo ad occhi chiusi. Qui è il mio cuore. La cronaca scorre via come se fosse dettata da dentro. Alessandro va in giro a farsi rilasciare interviste, punti di vista sulle prospettive e sulle speranze di questa lotta che da qui non si muove. E’ in questa contrada nelle campagne di Veglie, Sferracavalli, che il popolo degli ulivi ha posto il suo quartiere generale, il suo avamposto, luogo da cui il nemico-avversario teme possa essere ‘scatenato l’inferno’. Solo che qui di armi non se ne vedono!

E’ strana questa guerra che ti accoglie con i ritmi scatenati di Sergio, filosofo e chitarrista di fama, il pensiero che trova modo di esprimersi sulle corde di uno strumento musicale: folle e geniale insieme. Tania recita una sua poesia sull’oliva, tenta così di strappare l’attenzione alla melodia. Tende, gazebi, un teepe indiano  come a ricongiungersi a quella vicenda dei pellerossa, alla lettera che Capriolo Zoppo nel 1854 scrisse al presidente degli Stati Uniti, Roosevelt Pierce, per rispondere alla richiesta di comprare la loro terra: ‘Tu, Grande Padre che stai a Washington, vuoi compare la terra, il cielo e l’aria ma questi non appartengono a noi ma tutti gli esseri viventi…’. Chissà se la capiranno questa lezione il Commissario Silletti, che a nome del governo conduce le giubbe blu, e tutti gli altri, politici e scienziati.

E poi  tavole improvvisate imbandite di ogni ben di Dio, frutto della terra salentina e preparato dalle mani d’oro delle nostre donne. Oronzo, il più anziano, è pronto con un bicchiere di rosato, poi intravedo Giovanna, che è scesa finalmente dall’albero ma il suo ruolo non è meno importante perché si sincera affannosamente se tutto scorre bene. E poi tanti giovani, bambini che si fanno coinvolgere e poi travolgere dal ritmo della pizzica, che un gruppo intona sotto un albero di ulivo segnato da morte certa ma che per oggi vive.

Una festa, il modo migliore per rispondere ai piani di eradicazione. ‘Non siamo un popolo da colonizzare. Risponderemo colpo su colpo! – enfatizza Mimmo. Di fronte ai balli e ai canti si comprende come dalle lotte stia nascendo un nuovo Salento, consapevole della propria coscienza e deciso a difendere la propria terra e gli ulivi che ne sono espressione, la più antica, la più sacra.

 

Se gli ulivi del Salento saranno capaci di sopravvivere è colpa loro

ph Donato Santoro
ph Donato Santoro

di Pino de Luca

Non li conoscono in tanti, ma se gli ulivi del Salento saranno capaci di sopravvivere è colpa loro. Li segnalo a tutti quelli che immaginano il Salento come una terra priva di alberi, una sorta di savana desolata sulla quale far passare tubi, installare pannelli, centrali a biomasse, cave di rifiuti e edificare parchi Disneyland fasulli con le comparse che ballano la pizzica e i vecchi rimbambiti che raccontano le storie di un tempo e quando c’erano gli ulivi ….
Se volete questo dovete abbattere questo nucleo di resistenti altrimenti non ce la farete mai. Questi combattono fino alla fine e si divertono pure!!!! (E noi con loro)

 

Lucugnano. Visita a Palazzo Comi

di Marco Cavalera

 

Palazzo Comi
Palazzo Comi

Rina Durante, in occasione della sua prima visita a Casa Comi, rimase incantata dall’atmosfera che si respirava a Lucugnano nella prima metà del Novecento: Tra le pagghiare e le pietraie, si sentiva solo il frinire delle cicale, poi neppure più questo, come se il mondo cominciasse da quel punto a finire. Si entrava in un altro paesaggio in cui i segni umani ed economici scomparivano del tutto e la natura era un vuoto minerale, aspro e desolato […]. Gli interni erano ancora più rispondenti al paesaggio, di una semplicità disadorna: mobili di legno nudo, di stile francescano, cui la diuturna cura di generazioni di servi aveva conferito un’opaca lucentezza; volte a stella, grandi arazzi di fiocco leccese alle pareti e quadri rinascimentali, còtime di terracotta ovunque con la raffigurazione dell’ulivo, simbolo della casa editrice; pavimenti in mosaico che richiamavano quello di Otranto. Ogni cosa concorreva a un effetto di rustica raffinatezza e andava a sigillare per incanto il paesaggio che avevamo attraversato[1].

una delle sale di palazzo Comi
una delle sale di palazzo Comi

 

Palazzo Comi si affaccia sulla piazza principale del paese, oggi intitolata allo stesso poeta, che pare immortalata in una fotografia di inizio secolo scorso, se non ci fossero le automobili al posto delle carrozze e dei traini.

La casa del barone Girolamo Comi non è una semplice residenza nobiliare della metà dell’Ottocento: la sua facciata, dallo stile armonioso e lineare, cela un luogo ricco di storia, cultura e letteratura.

Un giardinetto con siepi, alberelli e un busto di Comi adorna l’entrata dellu Palazzu, nome con cui era chiamato l’edificio dagli abitanti del luogo. Varcato il portone, l’antico e verdeggiante cortile porta ad un’ampia scalinata, segnata dal trascorrere del tempo, che conduce al piano superiore.

Intorno all’atrio si aprono i locali di servizio, stalle, magazzini, un palmento e la casa del fattore che, restaurati, sono stati adibiti a sala conferenze, sala mostre e biblioteca dalla Provincia di Lecce, attuale proprietaria dell’immobile. Circondano la casa un agrumeto, un giardino con piante ornamentali e una terrazza panoramica.

la cappella privata all'interno del palazzo
la cappella privata all’interno del palazzo

L’appartamento al piano superiore rievoca ancora le stesse sensazioni di semplicità, eleganza e raffinatezza espresse da  Rina Durante. Nella stanza d’ingresso i busti severi di Comi,  Bodini e Pagano accolgono i visitatori, a memoria degli antichi fasti letterari della casa.

Le stanze si mostrano, ad un primo impatto, sobrie ed austere ma gli ambienti ampi, i grandi arazzi alle pareti, i tappeti, i salottini, i camini e le antiche librerie rendono l’atmosfera suggestiva ed accogliente, custodendo eternamente la figura  e  la  personalità del poeta.

Suscita emozione lo studio di Comi, con i suoi oggetti personali, la scrivania, la poltrona e la biblioteca, ricca di volumi preziosi e rari, a carattere essenzialmente umanistico, databili principalmente tra l’inizio del Novecento e l’anno di morte del poeta, il 1968. Soffermandosi sui suoi libri, per metà in lingua originale francese, non si può non pensare alla parentesi parigina, in età giovanile, negli anni della sua prima formazione culturale e umana. A questa seguì il periodo romano, l’apertura ai diversi fermenti culturali, letterari ed artistici nella capitale e la conversione al cattolicesimo negli anni Trenta. Infine nel 1946, in età matura, Comi ritornò stabilmente e definitivamente a Lucugnano.

cucine di palazzo Comi
cucine di palazzo Comi

Da quel momento in poi si aprì una stagione molto intensa sia da un punto di vista culturale, con la fondazione dell’Accademia Salentina e della casa editrice L’Albero, che imprenditoriale, con la creazione di un’impresa industriale: gli Oleifici Salentini. Purtroppo questi ultimi si rivelarono un investimento sbagliato e segnarono l’inizio del tracollo economico per Comi.

Con la nascita dell’Accademia, Lucugnano diventò non solo un luogo capace di aggregare le personalità letterarie locali ma si concesse, come luogo d’incontro, anche a poeti, scrittori e artisti di respiro nazionale.

Le sale del palazzo vennero così animate da numerose figure come Macrì, Bodini, Pagano, Corti, Merini, Pierri, Ciardo, Ferrazzi, Anceschi e Gatto, che dedicò a Comi e alla sua casa dei versi: “Nel silenzio […]. In questa casa anche le ombre sono amiche”[2].

l'atrio del palazzo
l’atrio del palazzo

Nell’epistolario comiano, conservato in biblioteca, sono infatti numerose le espressioni di ringraziamento che testimoniano la grande gentilezza e generosità nella sua ospitalità.

Continuando nella visita della casa sorprende piacevolmente la spaziosa  cucina economica, il grande tavolo di marmo ed  i mobili di un inconsueto colore azzurro, regno di Tina Lambrini, la sua governante. Qui venivano preparate le numerose portate dei memorabili pranzi, serviti nell’elegante sala.

Tina si prendeva cura delle faccende di casa e del soggiorno degli ospiti. Amata e benvoluta da tutti, rimase accanto al poeta per decenni, anche nel periodo di maggiore difficoltà economica. Comi la sposò pochi anni prima di morire, in segno di gratitudine.

Sono diventato migliore attraverso e grazie all’assistenza costante, del tutto eccezionale e disinteressata di Tina, scrisse lui stesso nel diario di casa, custodito da Donato Valli.

Nel palazzo è presente anche una cappella privata, con l’altare racchiuso in un armadio, che invita alla riflessione e al raccoglimento.

 

L’autore ringrazia Gloria Fuortes, responsabile della Biblioteca Provinciale “G. Comi”, per la revisione del testo.

 

Bibliografia:

Cavalera M., Lucugnano e il suo territorio, Tricase 2014.

Durante R., Gli amorosi sensi, Lecce 1996, pp. 21-22.

 

[1] Durante 1996, pp. 21-22.

[2] Frase riportata nella targa al lato della scala d’ingresso.

 

 

Xylella in Francia…

Ulivi vita millenaria da salvare - ''l'Ulivo urlatore'' - Salento, entroterra otrantino, ARCHIVIO FORUM AMBIENTE E SALUTE
Ulivi vita millenaria da salvare – ”l’Ulivo urlatore” – Salento, entroterra otrantino, ARCHIVIO FORUM AMBIENTE E SALUTE

di Pino de Luca

 

E dunque la Xylella è in Francia (e questo mi rende ancora meno felice). E’ lecito pensare che le “fasce di rispetto” sono pura idiozia? E’ lecito pensare che se non basta l’Oeano Atlantico ad isolare figuriamoci se possono farlo le eradicazioni selvagge? Su questa vicenda possiamo usare un po’ di buon senso? Almeno su questa … Anche se so bene che in molti stanno ridendo, come avvenne per il terremoto de l’Aquila …

I tre Briganti di Gallipoli, ovvero buon sangue non mente (1/3)

di Armando Polito

Prima di entrare in argomento la deformazione un tempo qualificabile come professionale, ora ex pure lei, mi induce, comunque, a fare una premessa a favore dei lettori più giovani, ai quali per fretta o superficialità può sfuggire  un’iniziale maiuscola o, peggio, a causa dell’ignoranza, è sconosciuta la sua differenza funzionale rispetto ad una minuscola. Non perdo tempo con questi ultimi che, pur non avendo capito il rimprovero potranno sempre invocare nel frattempo, in caso di loro errore nella scrittura, l’attenuante del tasto delle maiuscole bloccato … ma faranno bene a chiedere nel più breve tempo possibile lumi ai loro insegnanti nella speranza che questi non abbiano le batterie esaurite, anzi guaste …; dico ai primi che l’iniziale maiuscola di Briganti non è dovuta a nostalgia del vezzo spagnoleggiante in voga qualche secolo fa e che induceva a scrivere pure Cesso per cesso, né a particolare stima per una categoria del passato che certa storiografia non proprio imparziale ha liquidato troppo frettolosamente come delinquenziale. Briganti è il cognome di una famiglia di Gallipoli alla quale va a pennello il detto buon sangue non mente.

È, infatti, a tre suoi illustri rappresentanti che è dedicato questo lavoro, più esattamente compilazione di compilazione, in tre puntate, in cui è privilegiato l’aspetto iconografico. Insomma una raccolta di materiale che può tornare utile a chi volesse approfondire. Le immagini sono tratte tutte dalla Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, una raccolta di scritti di vari autori fatta da Domenico Martuscelli in 15 tomi pubblicati per i tipi di Nicola Gervasi a Napoli dal 1814 al 1830.  La biblioteca comunale Achille Vergari di Nardò li possiede tutti, meno il IX e il X. In rete sono tutti consultabili e scaricabili1 e ho notato con una punta di orgoglio la presenza proprio dei tredici esemplari neretini, come mostrano le immagini relative al tomo I.

1

 

Questa prima puntata prevede un incontro con Tommaso, le cui sembianze (incisione di Carlo Biondi) e biografia (a firma di Giovanni Battista De Tomasi di Gallipoli) sono riprodotte di seguito dal tomo IV della compilazione citata.

Traduco l’epigrafe funeraria: A Dio Ottimo Massimo/Oh come cadono le cose umane!/A Tommaso Fausto Briganti,/uomo esimio e patrizio,/figlio di Giulio Carlo Domenico e di Agnese Capano,/nel supremo senato napoletano/oratore facondissimo/esempio tra i maggiori nell’amore per la città,/uomo illustrissimo inflessibile per rettitudine,/acerrimo difensore dell’incolumità della patria,/della repubblica delle lettere/per l’arte della giurisprudenza e per varie riflessioni/benemerito,/per rispetto della religione, per delicatezza nei confronti dei poveri/insigne,/nel 74° anno di sua vita,/1762° dell’era volgare/preso da morte,/al padre dolcissimo/testimonianza di tristezza e di animo grato/presso le spoglie mortali/i figli posero.   

Nell’immagine che segue, tratta ed adattata da Google Maps, il palazzo Briganti nell’omonima via e il dettaglio della targa commemorativa.

IN QUESTA CASA

NACQUERO MORIRONO

TOMMASO E FILIPPO BRIGANTI

_______

IL MUNICIPIO RIVERENTE POSE

1878

SINDACO MICHELE PERRIN

 

Il Filippo dell’iscrizione è il primogenito dei sei figli che Tommaso ebbe (quattro maschi e due femmine). Tra loro si distinse particolarmente, oltre Filippo al quale sarà dedicata la seconda parte, Domenico, che sarà ricordato nella terza. Ernesto fu prima dignità del Capitolo di Gallipoli e poi vescovo di Ugento; Attanasio fu predicatore missionario. In ombra la vita delle due figlie, storia vecchia e nuova, nonostante il femminismo,  le leggi sulle quote rosa, sulle pari opportunità di genere e sul femminicidio, che io trovo, per certi aspetti che qui sarebbe fuori luogo e troppo lungo esporre, ridicole ed offensive per la stessa femminilità.

Chiudo questa prima parte col frontespizio della Pratica criminale nell’edizione del 1770.2

(Continua)

Per la seconda partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2015/04/19/i-tre-briganti-di-gallipoli-ovvero-buon-sangue-non-mente-23/

Per la terza partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2015/04/26/i-tre-briganti-di-gallipoli-ovvero-buon-sangue-non-mente-33/

_________

1

(tomo I) http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ASBLE017072&teca=MagTeca+-+ICCU

(tomo II)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ANAPE005839&teca=MagTeca+-+ICCU 

(tomo III)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ANAPE005840&teca=MagTeca+-+ICCU 

(tomo IV)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ASBLE017073&teca=MagTeca+-+ICCU 

(tomo V)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ASBLE017074&teca=MagTeca+-+ICCU 

(tomo VI)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ANAPE013126&teca=MagTeca+-+ICCU 

(tomo VII)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ANAPE013127&teca=MagTeca+-+ICCU 

(tomo VIII)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ANAPE013128&teca=MagTeca+-+ICCU 

(tomo IX)

https://books.google.it/books?id=VpqRqzZ4v88C&printsec=frontcover&dq=editions:nyGnSFQfGQMC&hl=it&sa=X&ei=sZnoVNmWMcS6Ub2ygbAK&ved=0CEkQ6AEwBg#v=onepage&q&f=false 

(tomo X)

https://books.google.it/books?id=5uYiXBvMel0C&printsec=frontcover&dq=editions:nyGnSFQfGQMC&hl=it&sa=X&ei=sZnoVNmWMcS6Ub2ygbAK&ved=0CC4Q6AEwAg#v=onepage&q&f=false

(tomo XI)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ANAPE013215&teca=MagTeca+-+ICCU 

(tomo XII)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ASBLE017075&teca=MagTeca+-+ICCU 

(tomo XIII)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3AIEIE007434&teca=MagTeca+-+ICCU 

(tomo XIV)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3AIEIE007435&teca=MagTeca+-+ICCU 

(tomo XV)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3AIEIE007436&teca=MagTeca+-+ICCU

 

2 Posseduto per il Salento dalla  Biblioteca Comunale Granafei a Mesagne e dalla Biblioteca Casa di Dante a Galatina, l’opera è integralmente consultabile e scaricabile da https://books.google.it/books?id=qkJgAAAAcAAJ&pg=PA1&dq=pratica+delle+corti+regie&hl=it&sa=X&ei=jbblVMKwOIv7UuWEgNgJ&ved=0CCAQ6AEwAA#v=onepage&q=pratica%20delle%20corti%20regie&f=false

Il popolo degli ulivi c’è, ieri a Veglie nessun albero tagliato

Giovanna sul trespolo dell'ulivo

di Paolo Rausa

 

Il presidio del popolo degli ulivi è consistente, più di un centinaio di aficionados, tanto da consigliare il commissario straordinario per l’emergenza xylella, Giuseppe Silletti, di interporre una tregua, dopo le prime ‘eradicazioni’ di ieri a Oria, nel brindisino.

C’è determinazione fra gli ambientalisti, agricoltori, salutisti, artisti e tutti gli altri che a vario titolo si sono dati convegno qui a Veglie, località Sferracavalli, estrema propaggine della provincia leccese. Non c’è aria di vittoria, ma di attesa. Sanno che l’avversario non demorderà e che ricorrerà, coma ha già annunciato, a tagli indiscriminati senza prima preavvertire dove le ruspe e le seghe elettriche si macchieranno di questa grave colpa. ‘Disastro colposo’ – azzarda Gino Ancona di Bitonto. E’ qui per capirne di più su questo batterio che provoca una reazione ‘forsennata’ da parte delle autorità, anzi arriva al paradosso di esprimere solidarietà e non condanna alla Xylella, perché – come ha illustrato qualche giorno fa a Vernole il prof. Xiloyiannis Cristos – è stato condotto un esperimento in California, iniettando il batterio in un ulivo, senza provocare disseccamenti. E’ stato ieri a Oria, ha provato inutilmente a protestare, anche vivacemente. 5 ulivi secolari hanno ‘perso la vita’: questa la sua espressione di cordoglio. E’ preoccupato soprattutto per l’assenza di vita nelle campagne di Veglie, come ieri a Oria. Nessuna formica, nessun uccello, nessuna lucertola: ‘Eppure è primavera!’. Sembra che il terreno sia inerte e ricco solo di veleni.

Giovanna attrae subito la mia attenzione. E’ rannicchiata sul primo ulivo della serie di questo campo che dovrebbe subire la stessa sorte di quelli di Oria. Eppure non si notano rami disseccati. Non si comprende la strategia di fare terra bruciata di questo territorio se non con la volontà di demarcare una linea di sicurezza, di contenimento per assecondare la volontà, pare, dell’Europa di istituire una zona di quarantena. Così stabilirebbero le norme quando entra nel territorio comunitario una epidemia sconosciuta. Giovanna racconta la sua origine da un paesino lucano assillato dalle perforazioni petrolifere, della sua fuga a Melendugno dove ha scoperto con suo grande disappunto il progetto della Tap, il collegamento con il gas del Kazakistan, e ora non mancava che questa follia della Xylella. Quest’albero, su cui medita, è la sua vita dice. Per lei è naturale, difende se stessa e qui rimarrà fino a mezzanotte, quando scadrà la notifica.

Mimmo è imponente, arriva da S. Pietro Vernotico, un’esperienza  con le malattie tumorali al polmone e alla laringe, la lotta ancora senza risultati per imporre il registro delle malattie. Nella Valle della Cupa arrivano i miasmi della centrale a carbone di Cesano,  dell’Ilva di Taranto e dei fumi di Marghera.

Stefano del ‘Coordinamento Agricoltura è salute’ di Lecce racconta di come si è evoluta la protesta e di come abbia coinvolto molti più cittadini. Come Donato, che racconta del ruolo nella sua band di chitarrista, basso, tastiera e batteria, della sua fatica di operaio, dei libri che ha portato con sé e che offre a Giovanna appollaiata sull’albero per confrontarsi sulla natura e sulla possibilità di vivere senza soldi – il suo sogno -, dei giovani di Collemeto. Il presidio si anima all’arrivo di Raffaele Nestola, nerochiomato, chitarrista dei Negroamaro. Gli chiedo che ci fa qui. Si ferma a pensare. Si commuove. Racconta della sua vita in campagna, del significato che hanno assunto per lui gli alberi di ulivo, che hanno modellato il nostro territorio. Oronzo e il figlio, trappitari, assentono.

Temono il danno economico di questo fenomeno e soprattutto quello di immagine. ‘Una grande prova di orgoglio e di dignità questa di oggi del popolo degli ulivi’ – mi confida Sergio Storace, professore di filosofia in pensione ma rimasto filosofo nell’anima. Farebbero bene i politici e la comunità di scienziati a tenere in conto questo popolo che non si arrenderà. Lo deve agli ulivi, alla propria vita, alle generazioni future.

14 Aprile 2015

di Pino de Luca

Gunter Grass
“Grande è il disordine sotto il cielo e dunque la situazione è eccellente.”
Papa Francesco ha scatenato un vespaio semplicemente dicendo la verità. Dedicato a Michele che ne va in cerca. L’umanità è, in gran parte, conservatrice. La verità è sempre rivoluzionaria ecco perché è così rara …
Pensa se raccontassimo al mondo che abbiamo inventato le dittature, i campi di concentramento, i gas nervini e l’olocausto (Cartago delenda est!). Il fatto è che i conti con la storia non li vuole fare nessuno. Chi vince e gli amici di chi vince sono buoni, chi perde e i suoi alleati sono i cattivi. Il Papa che ha stigmatizzato il novecento per l’olocausto nazista, i gulag staliniani e l’olocausto armeno si è tirato addosso le ire dei turchi. Pensa se dovesse dire qualcosa su Falluja, Song mi, My Lay, Sabra e Chatila o, semplicemente, sull’isola Diego Garcia …
A Ostuni crolla il soffitto di una scuola elementare, si aprono le inchieste, chi sarà il “mitico imprenditore” autore di questo capolavoro? Avrà dovuto fare la cresta sui lavori per suddividere qualche tangente o è semplicemente un delinquente?
Tra quindici giorni comincia l’Expo e tra quarantacinque siamo chiamati a eleggere i nuovi consigli regionali. Comunque vada sarà un successo o saremo sul cesso?
Se ne è andato Eduardo, ma noi siamo ancora qui, imperterriti a difendere una utopia e a muovere verso il tramonto, con una piccola barca dalla randa rossa come i colori del cielo in fiamme. Andiamo ad Ovest, ad Ovest di Paperino, in cerca di una rada nella quale buttare l’ancora e goderci la notte.
E anche Gunter Grass ha lasciato il mondo dei vivi.
Quando Dio ha bisogno di aiuto richiama gli spiriti liberi e le grandi intelligenze. Meno male che sono nato spirito libero ma poco intelligente.
Buon viaggio Eduardo, buon viaggio Gunter. A voi che non avete più martedi da affrontare, e buon viaggio a ciascuno di noi che di martedi da affrontare ne abbiamo ancora.

 

Mentre a Lecce si discute sulla Xylella a Sagunto (Oria) si eradica


Il convegno di Lecce, Hotel Tizianodi Paolo Rausa

Un convegno organizzato domenica pomeriggio all’Hotel Tiziano di Lecce per rispondere al dilemma: ‘Xylella: sradicare o curare?’. Il focus, come lo chiama l’organizzatrice Federica de Benedetto di Forza Italia Puglia, ha lo scopo di far incontrare ricerca e politica per la difesa del territorio salentino. Perché come riassume lei nell’introduzione: ‘La buona politica non sa solo litigare, ma si pone come obiettivo il bene comune della propria terra’. Le intenzioni sono nobili e ne è prova il fatto che sono stati invitati ad esprimere pensiero e linee di azione gli scienziati che in questi due anni hanno seguito l’evolversi del disseccamento dell’ulivo e politici di entrambi gli schieramenti.

Si tratta di Donato Boscia dell’Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante, CNR di Bari, che illustra lo sviluppo della malattia che si è dilatata da un zona limitata fra Alezio e  Gallipoli – a macchia d’olio o di leopardo è una querelle, non l’unica, fra gli ambientalisti convenuti in massa e un altro professore della Università di Bari, Dipartimento di Scienze del suolo, della pianta e degli alimenti, Francesco Porcelli. Boscia viene chiamato in causa dopo il suo intervento per chiarire che non ha mai parlato di abbattimento di un milione di ulivi, ma di poche migliaia. Sono gli ambientalisti a contestare questa politica di terrorismo ambientale e vegetale nelle parole di Sergio Starace quando enfaticamente e solennemente dichiara: ‘Gli ulivi sono la nostra anima. Noi non permetteremo che sia toccata una sola foglia!’. Due mondi che diffidano, che non si comprendono, quello degli scienziati e degli ambientalisti, ed è un peccato perché è necessaria ‘una strategia unica e condivisa’, come implora Fabio Ingrosso della Copagri di Lecce.

Mentre i politici se la svignano. Lara Comi, vice presidente del PPE e membro della Commissione mercato interno, per prendere l’areo direzione Milano, preoccupata del fatto che il batterio potrebbe espandersi a nord, in Liguria o lungo il lago di Garda. Nel suo intervento pone l’accento sulla innovazione, la ricerca e l’educazione all’acquisto. E’ d’accordo sulla proposta di Gianni Cantele, Coldiretti Puglia, che snocciola i dati economici delle aziende pugliesi coinvolte, il danno presunto, e le richieste allo Stato di sostegno economico ed esenzione delle imposte, dopo la dichiarazione dello stato di calamità fitosanitaria.

Questo è il primo passo ma poi occorre muoversi: questo del fare è il monito che Paolo De Castro, ex ministro e membro della Commissione Agricoltura della Comunità Europea, continua a ripetere. Consapevole dei rischi sul territorio ma ancor più dei provvedimenti che si appresta a prendere la Commissione Europea nella prossima riunione del 27 aprile di messa in quarantena con tutto quello che ne può seguire.

Ovviamente depreca la decisione della Francia, inutile e dannosa per l’immagine della Puglia e del Salento nel mondo, e si augura che tutti concorrano con mezzi e azioni ad affrontare e risolvere questa situazione di sofferenza letale per gli ulivi.  Sostiene apertamente le ragioni degli scienziati e il peso diverso che hanno le loro parole rispetto ad un qualsiasi empirico sperimentatore. Accende la miccia e poi scappa anche lui. Non ascolta le decise contestazioni degli ambientalisti, contrapposti anche fisicamente, in una parte della sala, alle misure proposte da parte di Giuseppe Ciccarella dell’Università del Salento che introduce il concetto che la guerra – perché di guerra si tratta dice – si combatte con  nuove armi ed espone lo stato delle sue ricerche nel ricorso alle nanotecnologie.

Vito Savino del Dipartimento di Scienze del Suolo, delle Piante e degli Alimenti di Bari invoca tempestività nell’azione e  propone una serie di misure di prevenzione e di contenimento della diffusione del batterio, non si spiega come mai sull’esempio di altri paesi l’Europa non si sia ancora dotata di un centro di quarantena. Il dibattito che si scatena dopo le relazioni scientifiche rimarca ancora una volta la incomprensione fra questi due mondi, mentre l’ulivo muore e il commissario Siletti dà mano alle ruspe. Intanto Legambiente Puglia, Comitato spontaneo Voce dell’Ulivo, D.O.P. Terra d’Otranto (Consorzio di tutela dell’olio extra vergine di oliva) e Aprol Lecce indicono il 16 aprile in ogni comune il ‘Buone Pratiche Day’ per contenere il Co.Di.Ro. (Complesso del Disseccamento Rapido dell’Olivo).

Ritorno a Frigole e primo incontro ravvicinato con l’Idume

di Rocco Boccadamo

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A distanza di due anni e sospinto da un irrefrenabile campanellino interiore, in questa soleggiata ma fredda è ventosa mattina d’aprile, decido di ritornare a Frigole, aggraziata – e, forse, poco apprezzata rispetto ai meriti della sua cornice naturale – marina leccese.

Tengo bene a mente, al punto che mi si ripropone quasi familiare, l’impatto con il viale d’accesso al piccolo nucleo abitativo, contraddistinto, sui lati, da lussureggianti e svettanti piante sempreverdi; pochissime le persone in giro, caratterizzate da movimenti pacati, come se vivessero in un atmosfera da siesta.

Ma è assolutamente fugace la sbirciatina a quel mondo d’altri tempi da parte del visitatore curioso, la sua metà ponendosi precisa e determinata: il porticciolo della località.

Indubbiamente bello si rivela il nuovo approccio con i soliti battelli da pesca ormeggiati lungo il molo, tutti ricoperti, all’interno, da inanimati mucchi di reti.

Sennonché, merito o colpa della tramontana vivace, al di sopra e nei paraggi delle barche non si scorge anima viva, nemmeno l’ombra, tanto per citare, del giovane e gioviale lavoratore del mare Samuele, incontrato in occasione della precedente puntata a Frigole.

Sarà giacché al largo tira aria di burrasca o per via, come accennato prima, della temperatura niente affatto primaverile e, invece, nella media del nostro pieno inverno, il luogo in questione è presidiato unicamente dal più assoluto silenzio umano, rotto dai sibili di Eolo e dallo scivolare rapido e spumeggiante delle onde increspate, sino al loro infrangersi a ridosso dell’arenile e dei massi che proteggono il molo e le altre superfici di terraferma.

In un simile contesto, a me non resta che indirizzare una sorta di dialogo ideale alla distesa d’acqua, nella sua accattivante tonalità tra il verde e l’azzurro, con lo sguardo e la mente protesi soprattutto in direzione dell’orizzonte.

E, passare in rassegna volti, vicende, episodi inanellatisi, nel tempo, sullo scenario del mare di casa nostra, giustappunto il Canale d’Otranto che ho di fronte: sequenze cruciali della trama, gommoni e altri mezzi di fortuna carichi di clandestini disperati o di trafficanti, purtroppo con una serie di correlati naufragi e sacrifici di vite umane.

Un pensiero, dedicato con animo più sereno, anche per i popoli dell’altra parte del Canale, specie per le genti del Paese delle Aquile, una nazione, come è noto, già alle prese con decenni di buia dittatura e ora in promettente fase di sviluppo su modello democratico ad impronta occidentale.

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Riconducendo la mente e lo sguardo alla terraferma e al porticciolo, mi piace accarezzare in particolare uno dei natanti attaccati al molo, quello portante il nome di battesimo di “Santa Maria Goretti”, la giovanissima Vergine dell’Agro Pontino, venerata, a quanto appreso, anche in seno alla comunità di Frigole.

Dopo di che, il vivace vento di tramontana non incoraggia più di tanto la mia sosta e, tuttavia, non mi sento abbastanza appagato per ritornare tout court in città.

Fortunatamente, un lampo mi si accende dentro, da un pezzo vado coltivando il proposito di vedere e conoscere la foce del fiume Idume, piccolo, e in qualche modo anche misterioso, corso d’acqua che scorre sotto l’abitato di Lecce, in lento movimento verso l’Adriatico, emergendo alla luce del sole poche centinaia di metri prima della distesa salata, in un luogo non molto distante da Frigole, precisamente all’altezza del cosiddetto bacino di Torre Chianca, altra marina del capoluogo del Salento ubicata appena più a nord.

Ecco alcune brevi note di geografia fisica e di carattere storico.

Il fiume Idume taglia il centro di Lecce, facendo capolino nei sotterranei di diversi antichi palazzi nobiliari, come quello degli Adorno, fatto costruire dal genovese Gabriele Adorno intorno al 1568.

Si dice che, in periodi andati, una famiglia ebrea dimorante nel citato palazzo usasse purificarsi proprio all’interno della falda acquifera posizionata nel corrispondente sottosuolo.

Il passaggio del fiume è testimoniato anche da iscrizioni sulle antiche pietre dell’edificio.

Si tratta di uno dei corsi d’acqua più importanti del Salento e la zona che circonda il suo bacino, definita “Le macchie dei Rizzi”, offre uno spettacolo naturale davvero suggestivo. Colori brillanti della vegetazione uniti al profumo intenso delle ginestre, incredibile trasparenza dell’acqua soprattutto in primavera.

Così la righe descrittive.

Riprendendo invece i ritmi dell’odierna mattina d’aprile, è automatico il proseguimento in auto, da Frigole, in una definita direzione, ci vuole poco per arrivare, la tramontana seguita a soffiare, anche nella nuova meta regna la solitudine, salvo una donna, accompagnata da cagnolino, che sfida le raffiche per il suo, evidentemente irrinunciabile, footing.

A me basta un gesto con la mano da parte della predetta signora e mi trovo sul greto, su una delle sponde dell’Idume, intorno piccoli e bassi canneti, il rio serpeggia dolcemente fra le distese di terra rossa, le acque, posso confermarlo, appaiono di eccezionale lucentezza e cristalline, un quadro d’insieme, seppure in miniatura, che sembra irreale.

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La visione mi suscita dentro una ridda di riflessioni e pensieri, del genere più svariato, che si affastellano in copiosità, ma la reazione dominante e prevalente è quella di accostare questo modesto tratto fluviale della terra natia alle visioni di ruscelli e fiumi con cui mi è stato dato, in passato, di familiarizzare a latitudini ben diverse, ai piedi di montagne o fra boschi e pinete.

Rivedo e sento ancora accanto tali immagini naturali di anni lontani, nel loro ruolo di testimoni di momenti pieni e, insieme, spensierati e leggeri del ragazzo di ieri.

Al presente, insieme e in unisono con lui, in aggiunta a mare, vela, fiumi, montagne e ricordi, scorrono altre stazioni (non stagioni) della vita.

Vita che, però, sia come sia, continua o meglio – volere, sempre volere, fortissimamente volere, riprendendo Vittorio Alfieri – deve continuare.

L’insediamento ciclopico rupestre nella campagna di Melendugno (Le)

di Paolo Rausa

Campagna di Melendugno, struttura fortificata

Ulivi e menhir, la terra del Salento nasconde tesori che la natura e il tempo hanno preservato per noi. A Minervino di Lecce e Giurdignano si allineano le pietre itifalliche erette verso il cielo come per innalzare la potenza umana sull’Olimpo. Con il maestro scultore nel duro e venato legno di ulivo Vincenzo de Maglie, originario di qui, raccogliamo l’invito di Donato Santoro a Melendugno per una introspezione bucolica, in dolce compagnia, alla scoperta di tracce del passato, massi sovrapposti in ordine a simulare una casa o un tempio, un luogo sacro.

Partiamo per la zona posta nell’entroterra di Roca Vecchia, porto antico, messapico, posto di fronte a Dyrrachium, punto di arrivo della rotta marittima  che proseguiva la via Appia e di partenza della via Egnazia verso l’oriente, a Bisanzio.

Donato Santoro è un personaggio conosciutissimo a Melendugno, un territorio che ama e che perlustra alla ricerca dei suoi segreti ancora lì da rivelare nella sua compiutezza. Cavaliere e ufficiale al merito, ha dedicato la vita agli altri, amato tanto che i giovani prima di compiere un viaggio o una scelta risolutiva per la loro vita, per es. il corso di studi o la  ricerca di un lavoro lontano, si consultano con lui come fosse un oracolo, che parla a nome della Pizia che a sua volta ha ricevuto l’ispirazione da Febo-Apollo. Donato gira per il territorio, trova un segno dell’uomo e annota, segni vetusti di strutture primordiali, dolmen, specchie, presenze umane che connotano il territorio. Attraversiamo la campagna salentina che rifulge in tutta la sua bellezza primaverile  non prima di una sosta benefica alla pasticceria Elia. A pochi km dal paese sulla vecchia strada Vernole-Calimera ci conduce in aperta campagna, fra gli ulivi verdeggianti non colpiti dal batterio. Le mire su questo territorio minacciano la sua trasformazione da luogo integro e incantato in terminale della linea Tap che porta il gas dal lontano Kazakistan. La gente teme che quest’opera trasfiguri i luoghi e si oppone con tutta la forza possibile. Ci fermiamo in una radura.

Il palazzo ciclopico rurale, Meledugno

All’improvviso appare un imponente castello ciclopico, una struttura mai vista in Salento che ha dei simili nei complessi nuragici di Barumini e di Tharros in Sardegna e nelle mura ciclopiche di Tirinto, nel Peloponneso. E’ un allineamento murario con delle finestrelle in alto che si congiungono in una torre di forma circolare che proietta fuori il suo volume mentre all’interno una feritoia permetteva di ricevere luce e nello stesso tempo di difendere il complesso che si avvale di locali addossati alle mura.

Dai due lati opposti si intravedono dei dolmen sottoposti in parte al terreno forse per successivi riempimenti e fra questi una struttura a tolos, un furnieddhru, consentiva il riparo delle provviste e delle persone. Veramente impressionante questo palazzo nuragico in terra di Salento! Distante da questo qualche centinaio di metri una piccola costruzione con una scritta in latino sul frontone che allude alle messi e al vino, come attività e come piacere. Una chiesa rurale, una locanda? Alla fine della scritta una data: 1715. Si comprende come questo posto abbia conservato un’aurea di sacralità, nei resti di queste pietre che lottano contro il tempo. Ci avviamo a ritornare. Abbiamo cercato di carpire l’anima di quei luoghi, anzi di conservarla. Si vede il segno del tempo su quelle pietre consumate e preservate dal verderame e dai funghi della pietra, mentre con Donato osserviamo le stratificazioni delle ere geologiche su un frammento di roccia raccolto dal suolo. E’ ormai tempo di andare. Salutiamo i luoghi e le persone che intravediamo muoversi e lavorare e pregare e vivere in un ambiente rurale magico, intoccabile.

 

Nella luce meridiana: la pittura di Daniele Bianco

di Nicola Morrone

Daniele Bianco, Cavalcata a Torre Uluzzo, olio su tela
Daniele Bianco, Cavalcata a Torre Uluzzo, olio su tela

L’estate scorsa, passeggiando nella Piazza delle Perdonanze a San Pietro in Bevagna, abbiamo conosciuto una giovane promessa della pittura locale. Si tratta di Daniele Bianco, artista originario di Nardò, la cui poetica abbiamo approfondito recentemente attraverso una chiacchierata svoltasi nella saletta di un noto bar del centro di Manduria.

Daniele nasce nel 1982 in Germania , ad Aschaffenburg, ma e’ residente a Nardò dal 1990. Frequenta tra il 1997 e il 2001 l’Istituto d’arte cittadino (sez. Architettura e arredamento), studiando soprattutto Disegno dal vero, ed avvicinandosi al colore solo negli ultimi anni di frequenza.Tra il 2001 e il  2007 egli frequenta l’Accademia di Belle Arti di Lecce, e matura progressivamente una reale confidenza con la pittura: la sua figura di riferimento, cioè il Prof. Antonio Elia (docente di  Anatomia Artistica) lo aiuta a comprendere che il disegno, lungi dall’essere mera espressione di abilità manuale, prevede anche lo sviluppo di un’adeguata capacita’ concettuale. Il disegno è infatti una sorta di crogiuolo in cui si fondono le conoscenze e le competenze reali dell’artista: dal suo sviluppo si può comprendere molto sulle effettive capacità dell’operatore.

Avvicinatosi subito, e in modo del tutto naturale alla pittura di paesaggio, Daniele Bianco decide di approfondire la sua personale ricerca in direzione dello studio del paesaggio salentino, familiare e riconoscibile, ma personalmente interpretato secondo la sua visione poetica. Esso non e’ mai un paesaggio riprodotto “fotograficamente”, nè secondo un realismo di maniera: sempre mosso, appassionato, vibrante, e connotato essenzialmente da tonalità cromatiche calde, sotto la tersa luce meridiana.

Si consideri, in questo senso, la “Cavalcata a Torre Uluzzu”: il pittore vi ha riprodotto , con un taglio prospettico non convenzionale, un paesaggio ben noto, spesso frequentato in solitaria alla ricerca di nuove suggestioni visive e “sentimentali”, e perciò riprodotto in termini abbastanza fedeli. Al suo interno, la donna a cavallo, e il cane che la segue, rappresentano  a loro volta piccoli, felicissimi inserti  di vita e colore. Le torri costiere salentine, memorie  della presenza militare vicereale nel Sud Italia, affascinano da sempre il pittore, per gli echi di antichi eventi bellici, legati  agli sbarchi dei corsari turchi e alla difesa dell’entroterra da parte delle milizie cristiane.

L’artista è altresì fortemente suggestionato dal “limen” che divide la terra dal mare, il certo dall’incerto, la realtà dal mito, che, in questo senso, non puo’ che essere quello di Ulisse.

Tarantata

Altro tema caro al nostro creativo è quello della cultura popolare salentina. Di questa serie fanno parte dipinti come “La Tarantata”, commissionati all’artista da un operatore culturale di Nardo’, il Dott. Marcello Gaballo, direttore della prestigiosa rivista di cultura salentina “Il delfino e la mezzaluna” e animatore della Fondazione Terra d’Otranto.

Daniele Bianco ha illustrato con una serie di disegni ad inchiostro di china , e con 4 dipinti, l’ultimo numero della predetta rivista (Ottobre 2014); i disegni ad inchiostro illustrano, in particolare, il “Mito di Aracne”. Questi ultimi sono tutti ad alto potenziale drammatico, perche’ drammatico è l’esito della vicenda che illustrano, la triste conclusione della storia di una rivalità tra una dea e una fanciulla. Nelle scene che riproducono le fasi salienti della vicenda mitica, niente è lasciato al caso, neanche nell’ambientazione: l’artista si è meticolosamente documentato su interni, arredi e costumi del contesto storico di riferimento (Grecia Antica) per conferire alla sua interpretazione il massimo della fedeltà storica, evitando ogni genericità.

Vibranti e drammatiche anche le scene della “Tarantata”, coloratissime e cariche di umanità, mai realistiche nel senso canonico del termine, mai virtuosistiche.

Completa la produzione di Daniele Bianco una serie di opere di soggetto fantastico e surreale, che partono pero’ sempre da un riferimento naturale, poi trasfigurato in modo assolutamente personale.

Senza titolo

La pittura di questo giovane creativo è dunque tematicamente completa: surrealismo e realismo, finzione e verità.

Molto apprezzata dai turisti, in generale, la sua originalissima pittura su tegole, in cui ritroviamo le caratteristiche salienti della pittura su tela: una esplosione di colori, nella luce mediterranea.

Ce n’è a sufficienza per pronosticare, al di la’ dei risultati  attuali, un futuro ricco di gratificazioni.

Il vecchio Cavaliere della nostra terra

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La Puglia è piena di maestosi e meravigliosi alberi di ulivo, alcuni più che centenari, a volte hanno sembianze umane, animalesche, mostruose, sono distorti, contorti, uno diverso dall’altro ma tutti magicamente belli

Il vecchio Cavaliere della nostra terra

 

di Carmelo Colelli

Contorto, martoriato dal tempo, piegato e scavato dalle intemperie, rimani sempre un cantastorie della natura, professore di varie discipline.

Hai visto ai tuoi piedi donne e uomini, sei stato testimone dei loro amori e dei loro dolori, hai ascoltato le loro storie e le hai conservate nel tempo.

Come un vecchio, sei lì pronto a raccontare, pronto a trasmettere, a chi ti ascolta, la forza di guardare avanti.

Forte è la tua voglia di essere, sembra che ci dici:“mi sono piegato, mi sono contorto, ho perso parte della mia bellezza giovanile, ma voglio essere qui, voglio essere radicato a questa terra, qui ho visto l’amore che gli uomini mi hanno dato nel tempo.

Voi che siete i figli di quegli uomini, figli di questa terra, continuate ad amarmi.”

Come un guerriero hai dovuto lottare contro le forze della natura, ma come un Vecchio Cavaliere ci insegni ad amare la pace.

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In dialetto mesagnese.

Lu cavalieri ti la terra nostra

Sturtigghiatu, marturiatu ti lu tiempu, piegatu e scavatu ti li ntimperie, rumani sempri nu cantastorie ti la natura, profissori ti tanti materie.

A vistu alli pieti tua femmini e masculi, a statu testimogna di l’amori loru e ti li tuluri loru, a sintutu li storie loru e la stipati pi tantu tiempu.

Comu nu vecchiu, stai prontu cu cuenti, prontu cu dici a ci ti senti, uardamu sempri annanti!

Tieni tanta voglia cu stai dani e sembra ca ndi sta dici: “m’aggiù piegatu, e m’aggiù stuertu tuttu, agghiu persu parti ti la billezza mia ti quandu eru ggiovini, ma vogghiu stau qquani, vogghiu stau raticatu a sta terra, qquani addo agghiu vistu l’amori ca li cristiani mannu datu pi tantu tiempu.

E vui ca siti li fili ti quiddi cristiani, fili ti sta terra, vulitimi puru vui bbeni.

Comu a nnu guerrieru a luttato contru la forza ti la natura, ma comu nu Vecchiu Cavalieri ndi nsiegni ca ama amari la paci.

 

Intagliare la materia per necessità. Intervista a Renzo Durante

di Gianluca Fedele

 

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Entrare in un laboratorio d’arte provoca sempre piacevoli sensazioni di stupore, a maggior ragione se si tratta di uno studio di scultura, dove la tridimensionalità delle opere invade lo spazio circostante.

Renzo Durante mi è stato presentato recentemente e ho apprezzato nell’immediato la tecnica, ma soprattutto la sensibilità, con la quale, modellando le figure, restituisce loro quasi movimento. Versatile: non vi sono materiali naturali sui quali non provi a cimentarsi, plasmandoli secondo le immediate ispirazioni. All’interno del lungo viale che conduce all’opificio sono esposti anche elementi decorativi per edilizia; questi ultimi prevalentemente in pietra leccese. Ci sediamo circondati dalle sculture che fanno bella mostra un po’ dappertutto e un paio di gatti si accomodano su di noi. La plasticità di alcuni corpi marmorei fornisce una compagnia fisica oltre che concettuale.

 

CAOS ORGANICO legno di ulivo
CAOS ORGANICO legno di ulivo

D.:

Quali sono state le circostanze per le quali hai intrapreso il complesso percorso della scultura?

R.:

Parto subito col raccontare come il mio primo approccio con l’arte, e il conseguente desiderio di cimentarmi con la scultura, durante gli studi liceali furono caratterizzati da alcuni ostacoli: quando mi iscrissi al primo anno dell’Istituto Statale d’Arte di Lecce, infatti, il corso di scultura era saturo e dovetti così ripiegare su quello di ceramica. Mi servì l’approccio con la modellazione in argilla per instradare i miei sensi al concetto del volume ma sentivo comunque che non era il ramo confacente alle mie abilità. Nell’anno successivo ancora una volta non mi fu data la possibilità di cambiare specializzazione e forse per reazione mi ritirai dalla scuola per una sorta di anno sabbatico.

In realtà non volevo sprecare il mio tempo sottraendolo agli studi e così intrapresi temerariamente un corso di scultura presso la Galleria Maccagnani di Lecce gestito dal prof. Antonio Miglietta.

Passato questo breve ma intenso periodo rientrai al solco degli studi regolari perseguendo il filone che tanto avevo rincorso sotto la guida dei professori Giovanni Scupola e Vito Russo; con quest’ultimo il caso ha voluto che dopo vent’anni mi ritrovassi a partecipare a una mostra collettiva di scultura.

A entrambi devo molto per la fiducia e la stima che mi hanno saputo infondere consigliandomi paternamente di proseguire.

 

AMANTI - Pietra Leccese
AMANTI – Pietra Leccese

D.:

Fa piacere incontrare una persona che doppia gli ostacoli per inseguire la propria inclinazione. Cosa hai fatto terminati gli studi?

R.:

Devo dire che sono sempre stato molto istintivo nella vita: a diciannove anni ho preso le mie poche cose e sono partito per Firenze a lavorare. Nei primi periodi trovai subito impiego presso un laboratorio di scultura a Prato; negli anni successivi invece fui assunto all’interno di una cava di marmo (pietra serena, nello specifico) tra le colline di Fiesole. Qui, insieme ad altri colleghi scalpellini, ero impegnato nelle operazioni di sgrossatura dei pezzi che poi sarebbero diventati elementi decorativi perlopiù da edilizia e restauro.

 

CICLO VITALE legno di cipresso-pietra leccese
CICLO VITALE legno di cipresso-pietra leccese

D.:

Della città di Firenze che ricordi conservi dal punto di vista artistico?

R.:

Firenze, secondo me, è attualmente spesso sopravvalutata poiché galleggia sugli albori di un’era svanita ormai quasi del tutto. Le botteghe della concezione rinascimentale, quelle nelle quali si creava arte e artigianato, sono ormai una realtà in via di estinzione. Ciò mi ha in parte deluso perché mi attendevo di trovare ancora ricerca, speravo di potermi contagiare di quei fermenti artistici che hanno fatto grande il capoluogo toscano.

 

flusso verticale, Pietra Leccese- cm 200
flusso verticale, Pietra Leccese- cm 200

D.:

Quanto tempo ci sei rimasto?

R.:

Quell’esperienza durò quasi sei anni trascorsi i quali decisi di far ritorno nel Salento.

Che qui il rapporto lavorativo-retributivo non sia per nulla paragonabile a quello del settentrione d’Italia è cosa ben nota, si farà presto quindi a desumere che le mie prime collaborazioni artigianali al sud non furono particolarmente entusiasmanti. Strinsi comunque i denti cercando di trarre insegnamento da ogni esperienza; testai le mie capacità attraverso pietre durissime come la cosiddetta “pietra viva” o quella di Minervino sulla cui superficie persino gli scalpelli spesso avevano la peggio. Proseguii fino a raggranellare l’indispensabile che mi consentisse di acquistare l’immobile dove attualmente svolgo la mia attività.

Sono già trascorsi cinque anni da quando il mio sogno si è concretizzato!

 

METAMORFOSI FUTURA. pietra leccese-carparo
METAMORFOSI FUTURA. pietra leccese-carparo

D.:

Ora che finalmente realizzi opere ispirate quali fattori scuotono maggiormente la tua emotività?

R.:

Le ispirazioni sono sempre in divenire, continuano a mutare in maniera diretta rispetto all’evoluzione interiore. Talvolta è la materia stessa a fornirmi l’emozione che si trasforma in idea. Questo ad esempio è capitato per una delle ultime sculture sulla quale sto ancora lavorando, in parte realizzata modellando la fisionomia di un volto umano su una pietra pomice rilasciata sulla battigia dal mare. Sto tentando infatti di rappresentare la tragedia dei naufraghi che continua a ripetersi al largo delle nostre coste.

Da qualche tempo comunque mi lascio ispirare dagli indomabili e imprevedibili flussi organici che la natura e il suo caos sviluppano. L’opera “Rinascita” è la testimonianza più concreta in merito a questo studio poiché è realizzata su un tronco d’ulivo dato alle fiamme prima e reciso poi insieme ad altri dalla brutale mano dell’uomo. Il dramma – e la mia denuncia – sta nel fatto che sul terreno dove insistevano questi contorti colossi attualmente è presente un impianto fotovoltaico con tutto il suo aberrante scempio ambientale.

Infine c’è il mare, mia grande passione, eternamente inquieto, il quale omaggio con piccole onde come souvenir dei nostri incontri.

 

Passato e presente - Roccia
Passato e presente – Roccia

D.:

Che non ci siano materiali sui quali tu non ami cimentarti mi è chiaro ma ne prediligi qualcuno in particolare nella scultura?

R.:

Ogni materiale che lavoro ha le proprie peculiarità che, come dicevo, spesso hanno una stretta correlazione col concetto che intendo rappresentare.

La pietra leccese, molto più istintiva rispetto al marmo, mi ritorna utile perlopiù quando ho bisogno di impressionare il pensiero con una certa immediatezza: la sua consistenza tenera ovviamente ne facilita la lavorazione. C’è da dire inoltre che spesso aggredisco il blocco senza passare per bozzetti preparatori allo scopo di non inquinare il pensiero che di getto mi attraversa la mente.

Le mie sfide però restano tuttavia il marmo e soprattutto l’umile “pietra viva”; questa roccia, una volta utilizzata in ambito rurale per la costruzione dei tipici muretti a secco, oggi è stata rivalutata persino nell’artigianato. Le sue porosità rossastre le conferiscono una sorta di ulteriore dimensione interna.

Sui legni poi ci sarebbe da aprire un capitolo a parte per la sempre differente conformazione delle venature e dei nodi che vanno esaltati volta per volta. Ho lavorato tronchi di noce, quercia, cedro, cipresso e qualche radice ma rimango fortemente legato all’ulivo anche per ciò che simbolicamente incarna del nostro territorio. A maggior ragione ora che è minacciato da un pericolo subdolo chiamato Xylella fastidiosa.

 

Progressione dinamica, Pietra leccese
Progressione dinamica, Pietra leccese

D.:

Quali sono stati gli artisti che ti hanno influenzato?

R.:

Il primo maestro che mi viene in mente è certamente Umberto Boccioni: ha generato l’input attraverso il quale mi sono aperto alla concezione del dinamismo, filosofia questa che mi rappresenta molto anche nel quotidiano. Per lo stesso motivo si rilevano in ciò che faccio anche contagi dalla pittura futurista e cubista o della scultura moderna di Henry Moore e Medardo Rosso.

Per comprendere certe superfici sfaccettate delle mie opere bisogna invece rintracciare le influenze dello scultore Ossip Zadkine

 

RINASCITA, legno di ulivo
RINASCITA, legno di ulivo

D.:

Ti senti un po’ futurista?

R.:

Non amo le etichette, mi piace solo prendere ispirazione da quel movimento che ancora per certi versi è avanguardia; sarebbe anacronistico se io oggi mi professassi futurista. Ho motivo di credere che i filoni artistici siano soprattutto il risultato di una serie di fattori sociali e politici, prima che creativi. In quest’ottica è chiaro che il triste periodo che stiamo attraversando, e la conseguente incapacità di intraprendere nuovi percorsi culturali, si ripercuotano fisiologicamente anche sull’arte.

 

SENZA FINE, pietra leccese-legno
SENZA FINE, pietra leccese-legno

D.:

Potrebbe attecchire qui, nella Terra d’Otranto, il virgulto di una nuova corrente?

R.:

Potrebbe! Anche se la mediocrità è imperante rimango convinto che le possibilità e le menti ci siano ma occorrerebbe che queste eccellenze fossero capaci di costruirsi un adeguato contenitore, e non solo di un circoscritto luogo geografico. Noi artisti meridionali viceversa, tendenzialmente individualisti, siamo aperti alle contaminazioni ma sempre poco inclini alle collaborazioni.

 

Terra e Fuoco - Ulivo - 2014
Terra e Fuoco – Ulivo – 2014

D.:

Il proliferare di associazioni culturali è positivo secondo te?

R.:

Personalmente ho contribuito, assieme a un gruppo di amici, alla fondazione dell’associazione culturale Mujmuné a Leverano (LE) con la quale abbiamo spesso promosso eventi coinvolgendo persino artisti internazionali. Questa nostra esperienza, come tante altre, si inserisce all’interno di una recente riscoperta di valori di accoglienza ma incoraggia oltretutto la consapevolezza delle potenzialità di una terra sino a oggi bistrattata persino da chi la abita.

Lo spirito col quale si intraprendono le nostre iniziative è quello di creare una sensibilità collettiva, riaprendo le finestre del cervello troppo spesso serrate.

 

D.:

Attraversando il viale che porta al laboratorio ho notato sculture che non portano la tua firma. Come mai?

R.:

Quelle tre opere sono parte dell’eredità che alcuni artisti hanno lasciato al comune di Leverano al termine di un simposio internazionale di pittura e scultura organizzato dall’associazione di cui sopra, in collaborazione con altre associazioni cittadine. Sulla scorta di mie esperienze simili abbiamo invitato tre scultori e tre pittori a cimentarsi in una produzione estemporanea d’arte: un evento partecipato anche dalla cittadinanza e certamente riuscito. Prossimamente due delle tre sculture verranno installate nel centro storico e la terza nell’aiuola antistante il comune.

Le opere pittoriche invece, verranno collocate temporaneamente nella biblioteca in attesa di trovare un luogo da destinare a pinacoteca comunale.

 

VIBRAZIONE PRIMORDIALE, Roccia
VIBRAZIONE PRIMORDIALE, Roccia

D.:

Partecipi spesso a eventi analoghi?

R.:

Quando ne ho la possibilità, e se gli impegni me lo consentono, intervengo sempre con piacere a questi workshop d’arte. Per me rappresentano appaganti momenti di confronto e in qualche occasione mi è capitato di fare la conoscenza con giovani e brillanti artisti provenienti da tutto il mondo. In determinati ambiti si innesca anche la sana competizione con gli altri concorrenti ma soprattutto con le mie individuali potenzialità.

Partecipare a queste manifestazioni mi consente inoltre di viaggiare – sono stato in Umbria, in Trentino, in Toscana, e all’estero in Slovenia e Croazia – nonché mietere rilevanti soddisfazioni personali come quella di vedere esposta la propria opera nel museo all’aperto di una pista da sci.

 

D.:

Soltanto in questo modo promuovi le tue sculture?

R.:

Allestisco anche delle mostre qualora me ne venga data la possibilità – perché spostare un blocco di marmo non è come trasportare dieci tele. Di recente alcuni miei lavori sono stati ospitati per lungo periodo presso il Comune di Copertino.

Viceversa non amo assolutamente le gallerie, che reputo piccoli magazzini di commercio, inadeguate per contenere l’energia che sprigiona l’arte. E per di più trovo oltremodo condizionante, nei confronti della creatività dell’artista, il sistema che i mercanti adottano per imporre quantità di produzione o talvolta addirittura stili e tematiche.

 

D.:

Alludevi al trasporto delle opere dall’ottica economica: è costosa l’arte?

R.:

Un’opera ha un valore pari all’emozione che provoca e il costo è connesso di riflesso al dispendio energetico ed economico attraverso il quale è stato possibile realizzarla.

Gli artisti sono in qualche modo dei missionari: hanno il compito di aprire le coscienze di chi fruisce la loro arte.

 

‘Buongiorno Taranto’ il film di Paolo Pisanelli ieri sera a Taviano (Le)

taranto

di Paolo Rausa

 

Riconosco Paolo Pisanelli dal piglio e dalla sua posizione sempre in prima fila, quando si lotta per l’ambiente, per la salute, per la nostra sopravvivenza. Era in piazza S. Oronzo a Lecce la Domenica delle Palme, alla manifestazione per la difesa degli ulivi, simboli loro malgrado di un Salento che ha compreso la necessità di fare fronte comune contro un nemico subdolo e onnipresente, sui vari scenari,  dalle città alle campagne. In prima fila, accanto agli oratori, riprendeva i loro interventi, la foga con cui esprimevano l’amore per una terra del ri/morso che oggi si trova sotto attacco.

Lo sa bene Paolo Pisanelli cosa vuol dire. Lui che è andato a Taranto a riprendere in questo documentario dal titolo ‘Buongiorno Taranto’ il dramma ambientale e sanitario che sta vivendo la città che un tempo era la perla dello Jonio, la Taras lacedemone che aveva allungato le sue mire espansionistiche in questa zona di Messapia. La città che conserva nello splendido Museo archeologico cimeli importantissimi della civiltà magno-greca, sotto forma di vasellame, statue, ori in collane e corone, strutture architettoniche e le funamboliche acrobate, metafora della condizione femminile di ieri e di oggi.

taranto1

Come abbia fatto la classe politica a fare di questa città dei due mari una fogna a cielo aperto con uno stabilimento di acciaieria, il più grande d’Europa, prima Italsider e poi l’Ilva dei Riva famigerati, lo si può solo capire con una visione tardo-colonialista, che ha causato tanti danni alla salute con morti e malati gravi per le difficoltà respiratorie del miasma che incombe sulla città.

Di questa condizione il regista ha voluto rendere conto andando per le piazze a sentire gli operai che manifestavano la loro contrarietà a doversi assoggettare al ricatto, respingendolo, salute/posto di lavoro. Seguendo le onde della radio locale dal nome propiziatorio appunto di ‘Buongiorno Taranto’, Paolo Pisanelli ha dato conto del dibattito che si è aperto fra i cittadini, i lavoratori, i pescatori e financo fra i bambini, che si divertivano immaginando tuffi lustrali – ma che sono temibili per le infezioni che possono causare – nelle acque joniche. Una società colpita profondamente nelle condizioni di vita, negli affetti con la scomparsa prematura di molti parenti, ma mai doma anzi ancor più desta e consapevole che solo dal basso è possibile ricostituire un tessuto sociale e produttivo diverso, compatibile e proiettato verso il futuro.

Questo il senso della manifestazione organizzata il 1° Maggio, festa del lavoro, nel Parco archeologico, ripulito per l’occorrenza dai cittadini riuniti in un comitato per il risveglio della città. Accanto a Pisanelli, introdotto dalla musica ritmata dall’organetto di Donatello Pisanello e dal contrabbasso di Angelo Urso, il sostituto procuratore Elsa Valeria Mignone, che ha messo sotto accusa la direzione aziendale dell’Ilva e gli stessi amministratori, i Riva, per disastro ambientale colposo.

Un magistrato coraggioso, eroico per aver voluto applicare le norme in vigore, non una rivoluzionaria! Eppure le accuse sono piovute pesanti sulla sua testa. Ora ha assunto una nuova inchiesta, quella sugli ulivi che sarebbero attaccati dalla Xylella. Il suo è stato un discorso solidale nei confronti dei cittadini colpiti dall’inquinamento e offesi da certe pratiche che nulla hanno a che vedere con l’agricoltura. Perciò ammonisce il numeroso pubblico, accorso all’iniziativa di proiezione al Multiplex Teatro di Taviano rispondendo all’invito della Associazione Culturale ‘V. Bachelet’, di interessarsi della tutela del territorio per noi e per le generazioni che verranno dopo di noi, dal momento che la terra l’abbiamo ricevuta in prestito da usare e da riconsegnare alle generazioni future meglio di come l’abbiamo ereditata.

Buongiorno Taranto è una produzione dal basso. Si può sostenere il progetto, diventando produttore. Info: Big Sur, Immagini e Visioni, Via G.A.Coppola, 3

73100 Lecce,  Tel/Fax: +39.0832 346903,  Mobile: +39.347 5745284, info@buongiornotaranto.it

8 Aprile 2015 – Mercoledi

albert_anker_scolaro

di Pino de Luca
Le Vacanze Pasquali sono finite, a me tocca una coda che impiego per cercare le mie piccole storie da raccontare sul nostro piccolo giornale. Oggi spero di incrociare una storia interessante … poi ricomincia la scuola, da domani. Una lunga giornata da mane a sera,
Come è regola prima delle vacanze si fa una prova scritta, non foss’altro che per avere qualcosa da correggere durante i giorni dedicati alle mille e una faccende che, dovendo andare a scuola, si trascurano.
E arrivano le mail dei fanciulli in parossistica ansia da prestazione. La domanda è sempre la medesima: quanto ho preso? Non riescono a misurarsi in conoscenza ma solo votometro. Invece di chiedere e chiedersi quanto ho appreso passano il tempo a chiedersi quanto ho preso, ed è ininfluente se si è ottenuto misurando lo sforzo o dando il massimo o, semplicemente, con la tipica furberia italiana. Persuasi, dalla cultura dominante, che quello che conta è il voto non il sapere.
E quella Scuola Pubblica che, nei nostri sogni di ragazzini martoriati dall’acne e dalle tempeste ormonali, doveva darci “uguali opportunità” è ridotta a luogo di pascolo per riformatori di professione, sempre impegnati a riformare e mai a far funzionare.
Ed ora mi ritrovo, a 57 anni, a fare il docente che mette i voti e trascorre il suo tempo a leggere prove scritte in un italiano accennato e a consegnare risultati che lasciano senza speranza giovani spesso mal consigliati e arruolati in una classe e in una scuola dalla quale, prima o poi si tireranno fuori con un pezzo di carta su cui è stampato l’agognato sessanta e con il quale andranno ad ingrossare la schiera di coloro che protestano “contro gli immigrati che ci tolgono il lavoro”. E magari hanno di fronte persone che parlano quattro lingue e hanno una laurea in ingegneria in tasca ,,,
Ma adesso si parte, è tempo di inforcare la fida auto e di scovare una bella storia da consegnare ad un pubblico che, assai spesso, ha la medesima carriera scolastica sopra descritta. Queste piccole storie e l’agire del docente non è altro che quello del disseminatore di scintille. Durano un momento, ma la speranza che almeno una inneschi un incendio che si alimenti con la curiosità, la conoscenza e la voglia di sapere, non morirà mai.
Buon giorno a tutti, soprattutto a chi sa che domani sarà una giornata più bella di oggi. Sempre.

I Salentini al tempo di Telemaco secondo Fènelon

di Armando Polito

Dato per scontato che almeno noi sappiamo chi sono i Salentini e dove si trovano e dopo aver ricordato a chi ha sentito parlare di Omero che Telemaco era il figlio di Ulisse, a chi no nulla, mio malgrado, perché ci vorrebbe troppo tempo …,  mi rimane da aggiungere per Fènelon (1651-1715) che il suo nome completo era François de Salignac de La Mothe-Fénelon e che fu, tra l’altro, arcivescovo di Cambrai. La sua opera più nota è Les Aventures de Télémaque, fils d’Ulysse.

Di seguito alcuni ritratti dell’autore francese (la prima immagine è tratta dall’edizione Lefèvre dell’opera prima citata, Parigi, 1824, tomo I;  la seconda dall’edizione della traduzione italiana di D. B., Fontana, Torino, 1842; le altre dal sito della Biblioteca Nazionale di Francia).

Il pezzo che segue con la mia traduzione (cito il testo originale dall’edizione Lefèvre, Parigi, 1824, tomo I, pp. 287-288) è tratto dal capitolo X del  romanzo pseudo-storico citato all’inizio, in cui Telemaco è condotto dal precettore Mentore (nei suoi panni si nasconde l’autore) attraverso vari paesi dell’antichità, che a causa del malgoverno avevano vissuto problemi simili a quelli della Francia della fine del  XVII secolo, in primis le guerre. Qui Telemaco è accolto nella nostra terra da Idomeneo, re di una città chiamata Salento, che, dopo il compimento di un sacrificio a Giove per propiziarsi il dio nella guerra imminente contro i Manduriani, su domanda di Nestore, lo ragguaglia sulle caratteristiche militari dei popoli limitrofi  in vista della concessione del suo aiuto.

Les peuples de Crotone sont adroits à tirer des fléches. Un homme ordinaire  parmi les Grecs ne pourroit bander un arc tel qu’on en voit communément chez les Crotoniates; et si jamais ils s’appliquent à nos jeux, ils y remporteront les prix. Leurs fleches sont trempées dans le suc de certaines herbes venimeuses, qui viennent, dit-on, des bords de l’Averne, et dont le poison est mortel. Pour ceux de Nérite, de Brindes, et de Messapie, ils n’ont en partage que la force du corps et une valeur sans art. Les cris qu’ils poussent jusqu’au ciel, à la vue de leurs ennemis, sont affreux. Ils se servent assez bien de la fronde, et ils obscurcissent l’air par une grêle de pierres lancées; mais ils combattent sans ordre (Gli abitanti di Crotone sono abili a scagliare frecce. Un uomo normale tra i Greci non potrebbe caricare un arco come si vede comunemente fare tra i Crotonesi; e se mai essi partecipassero ai nostri giochi riporterebbero la vittoria. Le loro frecce sono intinte nel succo di certe erbe velenose che provengono, si dice, dalle rive dell’Averno e il oro veleno è mortale. Per quanto riguarda gli abitanti di Nardò, di Brindisi e di Messapia essi hanno in comune solo la forza del corpo ed un valore senza arte. Le grida che fanno volare fino al cielo alla vista dei loro nemici sono raccapriccianti. Si servono molto bene della fionda ed oscurano l’aria con una gragnuola di pietre lanciate; ma combattono senza ordine).

Il sacrificio di Idomeneo a Giove in due tavole tratte, rispettivamente, da Illustrations de Les Avantures de Télemaque, fils d’Ulysse, Delaulne, Parigi, 1717 e dall’edizione nella traduzione di Serafino Buonaiuti, Clarke, Londra, 1805

Ho definito pseudo-storico il romanzo di Fenelon, e, se già nel romanzo storico c’è il rischio che il lettore non smaliziato creda sia storia ciò che in realtà è finzione1, tale rischio diventa elevatissimo quando il romanzo non è storico ma, come nel nostro caso, pseudo-storico.

Non ricorrendo certo in Fènelon la malafede sinteticamente ricordata in nota 1, vale per lui il principio generale che all’artista si perdona tutto, compreso l’anacronismo di Crotone (poco prima c’era stato quello di Locri) che al tempo di Telemaco certamente non era stata ancora fondata. Tuttavia nell’abilità di arcieri attribuita da Fènelon ai Crotonesi è ravvisabile l’eco di un incrocio fra due testimonianze antiche.

La prima è quella di Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.) che riprendendo Apollodoro (II secolo  a. C.), parla di Filottete, l’amico più caro di Ercole, che dopo la morte dell’eroe gli aveva acceso la pira:  Apollodoro nel suo commento al catalogo omerico delle navi, ricordando Filottete, dice che alcuni affermano come partito verso la regione di Crotone popolò il promontorio Crimissa  e su questo la città di Cone dalla quale in questo territorio furono chiamati i Coni e che dopo la guerra di Troia giunto nel territorio dell’attuale Crotone fondò la città di Chone.2

La seconda è quella dello Pseudo-Aristotele: Si dice che Filottete è onorato dai Sibariti. Raccontano che egli di ritorno da Troia fondò quella che è chiamata Micalla del territorio di Crotone, la quale dicono che dista centoventi stadi e che collocò le frecce di Ercole. Dicono che i Crotoniati li spostarono da lì con la forza per portarle nel loro tempio di Apollo3.

E, dopo l’anacronismo, a Fènelon vanno perdonati anche altri dettagli che sembrano corroborare, passando dal campo militare a quello civile, altrettanti luoghi comuni (tali, almeno li considero quando sono riferiti solo a noi) ma estensibili ormai come realtà a tutta la popolazione; ed è poco consolante pensare che anche ciò che può apparire come totalmente negativo può nascondere, invece, almeno inizialmente, qualcosa di buono. Così quel valeur sans art (valore senza arte) denota da un lato il riconoscimento di un pregio (non necessariamente militare, come nel nostro caso) quasi innato, dall’altro la nostra incapacità a coltivarlo, oserei dire metterlo al servizio del profitto; se si pensa a quello privato, però (e non mi riferisco certo al giusto guadagno cui ognuno ha diritto per il lavoro che svolge), bisogna riconoscere che anche nel Salento parecchi ci riescono, anche se gli strumenti usati sono poco rispettabili e mettono in discussione il concetto stesso dell’iniziale, presunto “valore”. Ci sono poi les cris affreux (le grida terrificanti) che riportano alla mente tante risse televisive (magari non estemporanee, anche se questo contrasta con la nostra salentinità) e non, ma anche tanto rumore folcloristico (?) che accompagna la nostra esistenza; c’è, infine, quel sans ordre (senza ordine), cioè l’eccessivo individualismo, la disorganizzazione, l’incapacità di fare, come oggi si dice (pila4 docet! …) squadra cioè una mala concezione della libertà e poi, via via, il pressappochismo, l’assenza di regole o, al contrario, la loro abbondanza, che genera confusione e favorisce solo i furbi. E la Merkel sarà pure antipatica, ma, almeno in questo, secondo me, ha perfettamente ragione; però quel che è più grave, sempre secondo me, è che continuerà pure ad averla dopo le millantate nostre riforme che si tradurranno, come sempre, in una ripresa sì, ma nel senso di ulteriore presa per il culo dei pochi onesti rimasti.

_____

1 Trovo per questo criminale lo sfruttamento del romanzo storico spacciato come strumento di conoscenza della storia locale e come tale pubblicizzato nelle scuole col fraudolento fine di propaganda commerciale squallidamente mascherato dall’alibi dell’esposizione più accattivante, soprattutto per i più giovani, rispetto a quella di un saggio storico vero e proprio; per non parlare di altri lavori in cui leggende antiche vengono manipolate, tritate e servite in un cocktail osceno al turista che si beve tutto (non è certo quello straniero …)

2 Geograhia, VI, I, 3: Ἀπολλόδωρος δ᾽ ἐν τοῖς περὶ νεῶν τοῦ Φιλοκτήτου μνησθεὶς λέγειν τινάς φησιν, ὡς εἰς τὴν Κροτωνιᾶτιν ἀφικόμενος Κρίμισσαν ἄκραν οἰκίσαι καὶ Χώνην πόλιν ὑπὲρ αὐτῆς, ἀφ᾽ ἧς οἱ ταύτῃ Χῶνες ἐκλήθησαν.

3 De mirabilibus auscultationibus, 107: Παρὰ δὲ τοῖς Συβαρίταις λέγεται Φιλοκτήτην τιμᾶσθαι. Κατοικῆσαι γὰρ αὐτὸν ἐκ Τροίας ἀνακομισθέντα τὰ καλούμενα Μύκαλλα τῆς Κροτωνιάτιδος, ἅ φασιν ἀπέχειν ἑκατὸν εἴκοσι σταδίων, καὶ ἀναθεῖναι ἱστοροῦσι τὰ τόξα τὰ Ἡράκλεια αὐτὸν εἰς τὸ τοῦ Ἀπόλλωνος τοῦ ἁλίου. Ἐκεῖθεν δέ φασι τοὺς Κροτωνιάτας κατὰ τὴν ἐπικράτειαν ἀναθεῖναι αὐτὰ εἰς τὸ Ἀπολλώνιον τὸ παρ᾽ αὑτοῖς.

4 Pila in latino significa palla.

7 Aprile 2015

di Pino de Luca

 

ULIVI-01
Piove di quella pioggia fredda e sottile che appartiene più a novembre che ad aprile.
Batteri esotici cambiano radicalmente le condizioni ambientali di intere aree e batteri resistenti agli antibiotici preparano la popolazione più povera ad una nuva ondata di epidemie devastanti.
La storia dell’Uomo è punteggiata di questi eventi, una sorta di riposizionamento del sistema su nuovi punti di stabilità. Singolare che gli storici, in gran parte, si siano concentrati sulle vicende “politche” dei popoli. Studiandone le abitudini alimentari si riescono a capire tante cose. Ad esempio abbiamo portato le viti in California, in Cile, in Australia, in Nuova Zelanda. Gli ulivi in Florida o in Cina, portammo le solanacee in Europa e il Cacao in Africa. Queste colonizzazioni vegetali per mano umana hanno anche portato enormi squassamenti ambientali che il sistema ha assorbito perché i processi erano lenti e quindi si sono assestati nel tempo segnando profondamente il ciclo della storia ma con grande lentezza. Adesso è tutto molto veloce e la vita media si è allungata, possiamo dunque passare da un panorama di Palme e di Ulivi ad uno di Girasoli o di Colza. Sempre di olio si tratta, che l’olio, prima di essere commestibile, è un gran combustibile …
Andando verso Ostuni le chiazze di graminacee si fanno sempre più vaste ad interrompere la catena di boschi di ulivo. Come l’alopecia di chi sta perdendo i capelli …
E molti immaginano che, rasandosi a zero, i capelli ricresceranno più forti, se ricresceranno …..
Buona giornata a chi va allu Riu, a chi riparte dopo una brevissima vacanza e a chi attende la fine delle feste per risorgere definitivamente.


P.S.
Un saluto a Giovanni Berlinguer. Con i ringraziamenti per quello che è stato e per ciò che continuerà ad essere. almeno per chi pensa che occuparsi di politica può essere la più nobile delle azioni umane.

L’àndita (il trabattello)

di Armando Polito

Chi, fanatico del fai da te, non ha mai pensato di comprarsi un trabattello con l’intento, per esempio, di dare una rinfrescata ai muri di casa risparmiando un bella somma? Certo, ad usare un pennello e a diluire nel modo corretto la tintura non è necessaria una laurea, ma una certa esperienza è indispensabile per evitare di sprecarne di più su se stessi e sul pavimento che sui muri, a parte il rischio di capovolgere con una mossa maldestra il secchiello e, può succedere, l’intero trabattello. Per questo nella stragrande maggioranza dei casi, fallito ogni entusiastico e velleitario programma, questo attrezzo viene subito esiliato in garage; e lì il più delle volte è destinato a morire arrugginito. Ben altro destino ha, giustamente, questo attrezzo nelle mani dell’artigiano che lo utilizza per guadagnarsi il pane. Poi ci sono, soprattutto nel caso di restauri, le grandi impalcature che, in base a certi contratti dove poco conta l’avanzamento dei lavori, costituiscono da sole una vera e propria miniera d’oro, essendo prevista una remunerazione giornaliera fissa per il semplice fatto che sono state montate in un determinato luogo.

Trabattello nei dizionari etimologici è considerato dubitativamente diminutivo di trabatto, macchina costituita da due o tre setacci oscillanti di lamiera o rete metallica disposti in serie, usata per liberare le sementi dalle impurità.

Più chiaro, invece, è l’etimo del suo corrispondente dialettale salentino, l’andita. Sembra  il femminile dell’italiano àndito, voce che designa in un edificio un luogo di passaggio o di disimpegno,  un corridoio lungo e stretto; estensivamente e nel basso uso è sinonimo di bugigattolo, ripostiglio, sgabuzzino. Formalmente  e semanticamente tutto quadra, ma sarebbe errato considerare la voce dialettale come dipendente da quella italiana. Entrambe, infatti, sono attestate nel latino medioevale. Ecco come sono trattati ANDITUS (da cui la voce italiana) e ANDITA (da cui quella dialettale) nel glossario del Du Cange (riporto i lemmi originali in formato immagine per fare più presto e per evitare errori di trascrizione; seguirà, come al solito, la mia traduzione):

6

ANDITUS o ANDITA. Per gli Italiani Andito, via, passaggio, piazza. Carta di Alfano arcivescovo salernitano presso Ughelli: Sulle piazze, e i passaggi e le sue vie. Aggiungi tomo 8 p. 76. 569. Carta di Roberto re di Sicilia anno 1321 presso Waddingum tomo 3 nel regesto p. 126: Le case o le botteghe … site nella città di Napoli nella piazza del porto, all’interno dei passaggi o della parte comune di attraversamento. Più in basso: Dentro la zone di attraversamento e il passaggio comune. Erroneamente vi è scritto Anditus. Avvertimento di Pandolfo IV principe di Capua presso Muratori tomo 2 p. 309: Con monti e colli, territori colti e incolti, vie e passaggi e sentieri, etc.

Se a qualcuno ora è venuta la tentazione di comprare o farsi prestare un’andita per eliminare spendendo pochissimo (e, tutt’al più, rilasciando ricevuta fiscale a se stesso …) quella maledetta macchia che campeggia in alto quasi al centro, irraggiungibile (se non con l’andita …), del soffitto, faccia attenzione alla sua solidità e stabilità, nonché al montaggio corretto. Se, infatti, i pezzi sono sottodimensionati oppure qualche incastro è difettoso e qualche eventuale bullone allentato, è inevitabile che l’andita diventi pericolosa perché prima llèttica1, poi ‘mbèrtica2.

0

* Ti l’àggiu titta cchiù ti nna fiata ca ddh’àndita ca t’hannu ‘ncuddhatu pi ppicchi euri prima llèttica e ppoi ‘mbèrtica (Te l’ho detto più di una volta che quel trabattello che ti hanno appioppato per pochi euro prima ondeggia e poi si ribalta).

Se la conseguenza è solo un tremendo spavento, per tornare a sorridere basta ascoltare Tu mi rubi l’andita di Andrea Baccassino …:

https://www.youtube.com/watch?v=_qAr_FSOnmE

 

Uova e colombe nella tradizione pasquale

di Paolo Vincenti

Strettamente collegate alla Pasqua sono le uova di cioccolato che nei bar ed in casa fanno bella mostra di se durante il periodo festivo. Fin dagli albori della storia umana, l’uovo è considerato la rappresentazione della vita e della rigenerazione.

I primi ad usare l’uovo come oggetto beneaugurante sono stati i Persiani che festeggiavano l’arrivo della primavera con lo scambio di uova di gallina. I Romani erano soliti sotterrare un uovo dipinto di rosso nei campi come simbolo di fecondità e quindi propizio per il raccolto.

La tradizione di colorare le uova è tutta romana. Da Plinio il Vecchio sappiamo che si prediligeva il rosso perché questo colore doveva distruggere ogni influsso malefico. Da Elio Lampridio, la credenza che il giorno della nascita dell’Imperatore Alessandro Severo, una gallina di famiglia avesse deposto un uovo rosso, segno di buon auspicio.

L’uso di regalare uova è collegato al fatto che la Pasqua è anch’essa la festa della fecondità e del rifiorire della natura, in primavera, dopo la morte invernale. L’uovo dunque è il simbolo della natura e della vita che si rinnova ed auspicio di fecondità. I primi cristiani, infatti, fecero propria questa simbologia del tutto pagana, con riferimento alla Resurrezione,  e nel giorno di Pasqua usavano sistemare sopra l’altare un cestino pieno di uova perché

Il culto dell’uovo nei giorni di Pasqua nel Salento

 

di Pino de Luca

 

 

Il culto dell’uovo nei giorni di Pasqua ha radici remote, legate alla fecondità e alla ripresa della vita. La storia d’Europa e del Mediterraneo ne è pregna. La parola si è poi materializzata nelle endemiche “uova di cioccolata”, a volte ottima e spesso pessima.

Anche nei dolci simbolici e ancestrali c’è stato il culto dell’uovo.

La tradizione scandita dai nomi sopravvive in Sicilia: campanaru o cannatuni a Trapani, pupu ccù l’ovu a Palermo, cannileri nel nisseno, panaredda ad Agrigento e a Siracusa, cuddura ccù l’ovu a Catania, palummedda nella parte sud occidentale dell’isola. Qualunque sia la forma e il nome si tratta di pasta di dolci impreziositi da uova intere cotte nel forno.

Ne abbiamo pure nel Salento, con nomi simili in qualche caso e completamente diversi in altri. I più interessanti sono la “Panareddhra” (dolce) e il “Puddhricasciu” (salato).

Quasi sperduti nella notte dei tempi, ancora qualche forno di paese continua a farli e a sentirsi chiedere cosa siano. La panareddhra ha la medesima radice e formulazione del corrispondente Sicano. Più interessante è la storia del “puddhricasciu”. Almeno nel mito, di incontrovertibili origini leccesi.

… Il Fatalò narra che dimorando San Francesco d’Assisi in Lecce, nel 1219, «giva, secondo il solito dei mendicanti religiosi, limosinando per la città, giunse dinanzi al palazzo di un patrizio (oggi si possiede dalla nobile famiglia dei Perroni ed è immemorabile tradizione dei leccesi che questo fosse stato il palazzo del nostro primo vescovo Santo Oronzo) vi picchiò la porta e chiese per amor di Dio la limosina ; in un subito vaghissimo un paggio diedegli un bianco e grande pane e disparve. Al picchiarvi della porta ere accorso un famigliare della casa a cui San Francesco rendè le grazie in nome di Dio per il pane già ricevuto e che fino a quel punto teneva in mano. Disse colui non essere pane di loro casa, onde, conosciutosi da San Francesco il tratto della divina provvidenza e da quelli della casa il miracolo ne diè i ringraziamenti all’Altissimo e gli altri conservar ne vollero perpetua la memoria, mentre fecero sull’arco della porta scolpire un angelo in atteggiamento di scendere dal cielo ed offrire un pane. Questa memoria sin oggi in quel palagio si vede.» …N. Vacca

Il passo è tratto da Rinascenza Salentina – Anno II, 1934 – pp 207-208.

Quel pane fu nominato “puddhricasciu” e quel rione prese il nome di Pollicastro, per la tendenza a toscaneggiare che s’aveva in quel tempo. Vi sono alcune imprecisioni ovviamente. L’angelo di cui si parla è tipico del 1500 piuttosto che del 1200 e probabilmente quel palazzo non vide mai Sant’Oronzo abitarvi. Ma il rione Pollicastro esisteva per davvero e doveva il suo nome ad una forma di pane bianco con le uova dentro che si portava allu riu …. ma questa è un’altra storia.

La ricetta oggi non c’è, solo l’invito a cercare ancora l’antico “puddhricasciu”, a consumarlo con gli amici sorseggiando un vino nuovo, nuovissimo: il Merlot del Salento della cantina Santi Dimitri. Il primo merlot salentino in assoluto, siamo qui a testimoniarlo come fece il Fatalò per il “pollicastro”, sperando che qualcuno, un giorno, se ne ricordi.

I riti pasquali e la “pasquetta” nei comuni del Salento

di Paolo Vincenti

Pasqua, tempo di preghiera e purificazione.  I festeggiamenti, in Salento, iniziano con la Domenica delle Palme, quando vengono benedetti i ramoscelli d’ulivo, dopo la celebrazione della Santa Messa. A Castrì di Lecce, per esempio, vengono benedette le palme sul sagrato della chiesa di San Vito e, in seguito, una piccola processione si snoda per le strade del paese fino a raggiungere la chiesa della Visitazione. A Castrì,  si tiene la Fiera della Domenica delle Palme, una tradizione antichissima di cui  tutta la comunità è orgogliosa. La Settimana Santa  comincia  il Mercoledì, con una Via Crucis che si tiene in serata. Il Giovedì Santo,  vi è la celebrazione dell’Ultima Cena. Il Venerdi Santo,  la Processione del Cristo Morto parte dalla chiesa della Visitazione, in piazza Aldo Moro, e si incontra con quella dell’Addolorata sul sagrato della chiesa di San Vito, in piazza Caduti. La bara del Cristo Morto viene portata in spalla da dieci uomini con a fianco dieci donne vestite di nero, con una fiaccola in mano, mentre la statua della Madonna viene portata da dieci donne con a fianco altre dieci accompagnatrici, sempre vestite di nero. La Croce della Passione viene portata in spalla da una donna, accompagnata da altre due, con una fiaccola in mano, seguite da dodici ragazzi vestiti da apostoli.

A Maglie, il  venerdi precedente la Domenica delle Palme, si svolge la più antica delle fiere magliesi e una delle più caratteristiche del Salento: la Fiera dei campanelli. In occasione della ricorrenza dell’Addolorata, sulla strada

Millefanti sul desco pasquale

Un piatto tipicamente pasquale che si consuma a Nardò (e probabilmente in altri comuni del Salento) è quello dei milaffanti, una pasta miniaturizzata, altamente calorica e ricca dal punto di vista nutrizionale.

sfregamento dell’impasto per ottenere i milaffanti

Riti e tradizioni salentine dalla Quaresima alla Pasqua

Salento fine Ottocento  

                                     TTACCAMU LI CUCUME  

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Per non tradire la regola di astinenza  che per tutto il periodo penitenziale bandiva dalla mensa, oltre alla carne, ogni varietà di formaggio, nelle domeniche quaresimali li pizzariéddhri  (pietanza festiva del mondo contadino) non venivano insaporiti con la tradizionale ricotta ‘scante (ricotta piccante), ma approntati col magro condimento di mollica fritta e carrube grattugiate, lomenti che, per essere abitualmente dati in pasto ai cavalli, esprimevano in pieno lo spessore dell’umiltà penitenziale.

Il giovedì santo però, forse perché anticamente dedicato al reinserimento nella Chiesa dei pubblici penitenti, o per essere commemorativo della cena di Cristo e quindi in tal senso esprimente la gioia del convivio, veniva a porsi come giorno di tregua nell’angoscia espiatoria e perciò, in sede culinaria, vissuto alla festiva.

Valendo da una parte la sospensione dello spirito penitenziale e permanendo dall’altra l’ostracismo ai formaggi fino al mezzogiorno del sabato santo, li pizzariéddhri  venivano conditi supplendo alla grattugiata di carrube con un’irrorata di miele fuso con l’aggiunta di semi di finocchio finemente tritati. Un amalgama che conferiva alla rustica pasta – fatta in casa, spesso con farina scura – delicato sapore di marca orientaleggiante, ma il cui uso a livello contadino più che a ragioni di gusto si doveva a dettatura di influenze simbolico-religiose.

Non si può  infatti sorvolare su quanto di appalesato contrasto c’era nel passaggio dalle carrube, mangiare ti éstie (cibo da bestie), al miele fuso, sursàta ti Ddiu (bevanda di Dio); un repentino salto di qualità che spinge a pensare come, almeno in fase di partenza, l’uso fosse nato quale adombratura di un principio di riscatto – da esseri peccaminosi ad anime

Quando le olive si raccoglievano con le mani

ULIVI-01

di Carmelo Colelli

Al mattino, alle prime luci dell’alba, per le strade di Mesagne si vedevano già i carretti e le sciaraballe con sopra le donne che dovevano andare in campagna per la raccolta delle olive. Il carrettiere era seduto davanti, con in mano le redini, vestito con stivali, pantaloni di flanella pesante, un vecchio cappotto, il fazzoletto legato alla gola ed il cappello in testa, dietro di lui erano sedute le donne ed i bambini.

Le donne, anche loro avvolte in grandi mantelli di lana pesante o in scialli, fatti a mano, portavano il fazzoletto in testa annodato sotto il mento.

Quando arrivavano in campagna, una volta scese dal carretto, si toglievano il mantello o lo scialle ma il fazzoletto in testa lo tenevano per tutto il giorno, poggiavano le loro cose da una parte sotto un albero e si mettevano al lavoro.

Per raccogliere le olive, a quel tempo, bisognava che le donne si inginocchiassero per terra, dovevano muoversi come pecorelle, dalla parte più esterna dell’albero verso il tronco dell’ulivo, si disponevano a semicerchio una vicino all’altra e il paniere, in canna intrecciata, accanto ad ognuna di loro.

Le olive si raccoglievano da terra, con le mani, si faceva prima un bel mucchietto, poi prendendole con i palmi delle mani si mettevano nel paniere.

C’erano donne giovani, donne sposate e donne un po’ più anziane.

Sotto l’albero dell’olivo si raccontavano le loro storie, si consigliavano l’un l’altra, sempre con la testa china e le mani che raccoglievano le olive una ad una.

“Beh! Svuotiamo i panieri!” gridava la “fattora (la donna che comandava il gruppo), “questi panieri li dobbiamo riempire!, non li dovete portare vuoti e non li dovete portare semi pieni!. Dovete riempirli fino all’orlo, belli pieni pieni!”.

Così diceva la “fattora” quando vedeva che i panieri non erano pieni fino all’orlo o che non erano colmi oltre l’orlo.

Verso mezzogiorno, la “fattora” richiamava le donne e diceva: “Beh fermiamoci un po’ e mangiamo qualcosa”.

Le donne si avvicinavano al posto dove avevano lasciato i loro fagotti e le loro borse al mattino e prendevano quanto avevano portato da casa.

Di solito le cose da mangiare le tenevano in un tovagliolo di cotone, solitamente a quadri colorati, chiuso a mo di fagottino.

Portavano più o meno tutte un pezzo di pane fatto in casa. La mattina, presto tagliavano il pezzo del pane a coppetta, toglievano la mollica lo riempivano con ciò che era rimasto della cena della sera prima o ci mettevano un po’ di “gialletta” (semplice pietanza fatta con olio, pomodori gialli e peperoncini.) preparata calda- calda la mattina stessa, poi prendevano la mollica e richiudevano tutto.

Ci voleva più tempo a preparare quel pezzo di pane che a mangiarlo.

La voce della “fattora” si faceva sentire di nuovo: “Beh! andiamo che tra un po’ comincia ad imbrunire!”. Ed eccole si rimettevano ancora a testa bassa, inginocchiate per terra e raccoglievano olive fino a quando non cominciava a calare il buio.

“Beh! Svuotiamo i panieri.”

La “fattora” chiamava l’ultima volta, per sgomberare i panieri nel sacco, si chiudeva l’ultimo sacco della giornata, le donne si rivestivano con lo scialle o con il mantello e risalivano sul carretto.

Il carrettiere seduto al suo posto: un colpo di frustino ed il cavallo partiva. Quando arrivavano in paese ormai era buio.

 

ULIVO-01-A

Quandu l’aulii si ccugghiunu cu lli mani

  La matina, ‘nppena ccuminzava a lucesciri, si vitiunu già pi li strati ti Misciagni li traenuri e li sciarabbai, carichi ti femmini ca erunu a sciiri fori a ccogghiri l’aulii.

Lu trainiere, ssittatu ‘nnanzi, cu li retini mmanu, vistutu cu li stuvali, li quazi ti flanella pisanti, ‘nu cappottu vecchiu, lu fazzuletto grandi ttaccato ‘ncanna e lu cappieddu ‘ncapu, cretu a iddu staunu ssittati li femmini e li vagnuni.

Li femmini, puru loro staunu mmucciati ‘ntra li fazzulittuni ti lana pisanti o ‘ntra li scialli, fatti a manu, purtaunu puru lu fazzuletto ‘ncapu ttaccato sotta a lu vangaliri.

Quandu rrivaunu fori, ca scindiunu ti sobbra a lu trainu, si llivaunu lu fazzulittoni o lu sciallu ma lu fazzulettu ti ‘ncapu si lu tiniunu pi tutto lu ggiurnu, ppuggiaunu tutti li rrobbi a ‘nna vanda sotta a n’arvulu e si mintiunu a fatiari.

Pi ccogghiri l’aulii, a cuddu tiempu, bisugnava cu si ‘nginucchiaunu ‘nterra, serana a moviri a picuredda, ti lu largo ‘nfinu alla rapa ti l’aulia, faciunu ‘nnu mienzu ciercu atturnu all’alvuru, una ti costi all’atra e lu panaru ti costi a ognuna ti loru.

L’aulii si ccugghiunu ti ‘nterra, cu li mani, si facia prima ‘nnu munticchiu, poi si pigghiaunu cu li to parmi ti li mani e si mintiunu tra lu panaro.

Staunu femmini giuvini, femmini maritati e femmini ‘nnu picca chiù vecchiareddi.

Sotta all’alvuri ti la’aulii si cuntaunu li fatti loru, si taunu cunsigli unu l’atra, sempri cu la capu sotta e li mani ca ccugghiunu aulii a una a una.

“Meh! Sgumbramu sti panari!”: critava la fattora. “Sti panari la ma anchiiri! No lli nnuciti vacanti! E no lli nnuciti sminzati! Facitili belli curmi curmi meh!”

Ccussì ticia la fattora quandu vitia ca li panari non erunu belli chini chini e curmi curmi.

Versu menzatia, la fattora tava voci e ticia: “Meh! lassamu ‘nu picca e mangiammindi ‘na cosa!”

Li femmini si ‘nvicinaunu addo erunu lassati li rrobbi la matina e pigghiaunu quddu ca s’erunu nnuttu ti casa.

Ti solito li cosi ca s’erana a magiari li tiniunu tra ‘nu sarviettu ti cuttone, ti solito li sarvietti erunu a quadri culurati. Purtaunu chiù o menu tutti ‘nu stuezzu ti pane fattu a casa.

La matina prestu, taghiaunu lu stuezzu ti lu pani a cuppitieddu, llivaunu la muddica e anchiunu lu stuezzu di pani cu cuddu ca era rimastu la sera prima o ‘nci mintiunu nu picca ti gialletta fatta cauta cauta la matina stessa, poi pigghiaunu la muddica e chiutiunu tuttu. Nci vulia chiussai tiempu cu lu priparunu cuddu stuezzu di pane ca cu ssì lu mangiunu.

La voci ti la fattora si facia sintiri n’atra vota : “Meh sciamu ca ‘ntra n’atru picca scuresce!” E loro si mintiunu n’atra vota cu la capo sotta, ‘nginucchiati ‘nterra e ccugghiunu aulii finu a quando no ccuminzava a calari lu scuro.

“Meh! Sgumbramu sti panari!!”

La fattora chiamava l’urtama vota, pi sgunbrare li panari ‘ntra lu saccu, si chiudia l’urtumo saccu ti la sciurnata, li femmini si sa vistiunu, cu lu sciallo o cu lu fazzulittone e ‘nchianaunu sobbra allu traino. Lu trainiere s’era già ssittato allu postu sua, nu cuerpu di scurriato e lu cavaddu partia. Quandu ‘rrivauno ‘ntra lu paesi oramai era scurutu.

 

La maschera è caduta

ph Mauro Minutello
ph Mauro Minutello

di Stefano Manca

 

La vicenda della xylella un merito ce l’ha: ha fatto venire fuori i caratteri.

La vulnerabilità degli alberi ha ceduto il passo alla vulnerabilità degli uomini.

Dal “peace and love” alla violenza verbale reiterata per qualcuno il passo è stato brevissimo.

L’ipocrisia d’ora in poi non basterà più.

La maschera è caduta. Finalmente.

E per questo non finiremo mai di ringraziare i vecchi e amati ulivi.

30 di marzo 2015

Piazza S. Oronzo, Lecce

di Pino de Luca
Tre cortei negli ultimi giorni, uno a Roma, uno a Tunisi e uno a Lecce.
Un vecchio modo di testimoniare la propria presenza secondo alcuni dei “bravi giornalisti” che commentano ogni cosa smentendosi il giorno successivo.
Io credo che quando gli umani si mettono insieme per qualche ragione un barlume di luce si accende sempre. Perché noi umani, presi uno per volta, siamo meschini, vili, e inducono al ribrezzo. Ma l’umanità è una cosa immensa, in essa c’è l’essenza stessa di questi piccolo pianeta.
E allora il dovere di ciascuno è unire, connettere, usare il noi invece che l’io nella persuasione che “ciascuno di noi, da solo, non vale nulla” ma ciascuno di noi, migliorandosi, è importante per l’umano destino.
Comincia la settimana santa, metafora piena della nostra esistenza: si inneggia al Salvatore, poi lo si espone al pubblico ludibrio, si tradisce ed infine il popolo vota, sceglie la libertà di Barabba e manda a morte il Cristo. Crucifige. Ed anche il preferito tra i seguaci rinnega il maestro per ben tre volte. Miserrimo vigliacco.
Ma poi c’è la Resurrezione e tutti coloro che avevano contribuito, con l’azione o con l’inazione, con le parole o la viltà, alla fine di Gesù, ci fanno una magra figura.
Dedicato ai trombettieri del villaggio: insultate gloriose bandiere, svillaneggiate sentimenti nobili, per compiacere i potenti del momento. Ne ho visti di rabbiosi cani randagi diventare miserabili cani da lecco.
Ecco la differenza tra chi scrive cronaca e chi scrive storia: da una parte c’è chi combatte per raggiungere uno scopo e dall’altra chi combatte per dare un senso alla vita. Chi è stato a Roma, a Lecce, a Tunisi scriverà un piccolo capitolo di storia, e sarà degno di Resurrezione. Chi ha dileggiato Roma, Lecce e Tunisi farà, prima o poi, una magra figura.
Buon principio di settimana a chi è disposto al sacrificio per una idea, a chi non lo è il suggerimento di riflettere se sia scarsa l’idea o sia scarsa la persona.

P.S. Andreas Lubitz nascondeva i certificati medici per andare a lavorare. Un italiano non lo avrebbe fatto mai!!!!! A volte l’assenteismo è una scelta saggia.

In piazza a Lecce per difendere gli ulivi

Piazza S. Oronzo, Lecce

di Paolo Rausa


Come una processione compiuta da Cristo-Ulivo, l’Unto, simbolo quanto mai opportuno per rappresentare la via crucis degli ulivi salentini minacciati da lunedì prossimo di ‘eradicazione’, questa grande manifestazione di popolo per scongiurare la diffusione del contagio. La peste manzoniana fa un balzo di secoli per scendere dal ducato di Milano in questa terra estrema, la Messapia, fiorente quanto mai, granaio d’Italia. Intorno alle 15 la piazza comincia a riempirsi di gente, che risponde all’appello lanciato da intellettuali, artisti, musicisti, agronomi, contadini e ambientalisti. E’ una marea che la invade: migliaia di persone sono qui, giunti da ogni dove, dai luoghi dolenti, dove si combattono battaglie per l’ambiente come a Taranto, che ha saputo respingere il ricatto ambiente-lavoro. Non si è mai vista tanta gente in piazza S. Oronzo a Lecce per rivendicare la tutela del paesaggio salentino che ha nell’ulivo il suo simbolo di eccellenza e soprattutto di identificazione. Questi sono i due elementi che hanno contraddistinto gli interventi degli oratori che si sono succeduti per tutto il pomeriggio. Don Raffaele Bruno delle Diocesi di Lecce alterna parole italiane ed espressioni salentine, giura che gli ulivi non hanno bisogno di essere benedetti, che la loro condizione chiama in causa tutti – definiti popolo degli ulivi – perché si torni a pratiche agricole naturali, quelle che ci hanno tramandato i nostri nonni e che solo interessi estranei a questa terra hanno compromesso. Il riferimento è alle multinazionali del cibo, da molti interventi chiamate in causa per ribadire che ci sarà una decisa resistenza contro gli ogm, contro i pesticidi che si vogliono spargere a piene mani, anzi a pieni contenitori spruzzati dagli aerei sul territorio salentino avvelenando ogni forma di vita, anche quella umana. Antonia Battaglia di PeaceLink riporta il dibattito lacunoso in Comunità Europea trascinata dal piano regionale ad assumere posizioni di messa in quarantena e di annientamento degli ulivi che hanno rami disseccati. Ivano Gioffeda è il santone che in questi anni si è battuto generosamente contro le logiche di una ricerca limitata alla Università di Bari, finora incapace di definire le cause scientifiche di questo strano disseccamento. E’ pronto a ritornare con la sua azienda agricola a costituire dei laboratori in cui riprendere i saperi antichi e le vecchie pratiche che hanno definito questo paesaggio magnifico, ora esposto al rischio delle ruspe. Nandu Popu dei Sud Sound System canta il motivo delle ‘radici ca tieni’ e tutta la piazza lo segue, il suo è un lungo excursus nella storia della civiltà salentina che affonda al tempo della Magna Grecia e molto ha ancora da dire alla generazioni future. La musica tradizionale inneggia dal canto di Enza Pagliara e del suo coro, Mimo Cavallo segue le piazze e segna con il ritmo la contrarietà a progetti lesivi del territorio. Giuseppe Serravezza, medico della Litl, richiama la necessità di guardare nel piatto in cui si mangia, e sollecita tutti ad essere consapevoli, a ritornare finalmente sobri per evitare che ci si ritrovi del tutto privi di un territorio che è esposto ai colpi della sorte, intesa come interessi delle multinazionali che non hanno certo a cuore la salute dei cittadini. Il pensiero di Pino Aprile, scrittore meridionalista, riecheggia nella voce di Rosanna Quarta sulla necessità di costituire una rete che respinga questo attacco concentrico contro il meridione d’Italia, dalla Campania terra di fuochi, alla Basilicata terra di perforazioni, al Salento, terra di eradicazioni. Giovanni Carbotti di ‘Respira Taranto’ e Paolo Pisanelli, regista del film ‘Buongiorno Taranto’, invitano a proseguire nell’impegno di lotta all’appuntamento del 1° maggio nella città dell’ILVA. Un popolo, è nato un popolo quest’oggi in piazza S. Oronzo a Lecce che non lascerà eradicare nessun ulivo, perché un malato si cura e non si condanna a morte! E’ questo l’impegno assunto da tutti, dal fiume di interventi che si susseguono sul palco improvvisato, fra il Sedile e la statua del Santo, come per dare concretezza al lavoro agricolo e al turismo e sacralità alle parole e ai propositi assunti.

Poggiardo, 29/03/2015

28 di marzo 2015

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di Pino de Luca

E’ il 28 di marzo 2015, questa notte passeremo al’ora legale, una delle poche cose legali che è rimasta in questo paese. Di questa settimana ci reesta qualche bellissima esperienza, un sacco di fatica e la convinzione che a Perugia, una sera di sette anni e mezzo fa, una ragazza fu ammazzata da qualcuno con la complicità di un ivoriano. Il complice ivoriano che, forse, era presente all’omicidio sconta una condanna di sedici anni, degli autori non si sa nulla se non che sono innocenti. La differenza tra bianco e nero conta molto, tra ricco e povero conta moltissimo. La legalità ha fatto il suo corso, ma lo ha fatto anche la giustizia?
E’ il 28 di marzo e piove, forse domani smetterà di piovere. Continuano le croci rosse sugli ulivi da abbattere e personaggi importanti, en passant ma ormai con parole chiare, paragonano la Xylella alla Fillossera. Tradotto significa che TUTTI gli ulivi dovranno essere espiantati e sostituiti con piante geneticamente modificate. Il paradosso è che questa tesi la sostiene chi fa i soldi con il Made in Eataly …
E’ il 28 di marzo, oggi a Copertino ci sarà un convegno nel quale dovrò raccontare la mia idea d’uso dell’olio di oliva nella alimentazione. Proverò a spiegare gli oli di oliva non l’olio di oliva e a spiegare che senza ulivi l’olio non si può fare. Come il latte, il latte che molti pensano sia proprietà specifica della mucca e non frutto della gravidanza della medesima ….
E’ il 28 di marzo domani sarà la Domenica delle Palme, il giorno nel quale si scambierebbe il segno di pace. Ma il mondo è pieno di guerre e di malanimo. E come potrebbe essere diversamente? Le palme sono state uccise dal punteruolo rosso e gli ulivi dalla Xylella, come accogliere Gesù a Gerusalemme? Facendosi i selfie e postandoli sulla rete?
E’ il 28 di marzo di me che non sono credente ma non sono disposto a rinunciare ad una certa spiritualità che ci rende umani.

 

P.S.
Sulla tragedia dell’aereo schiantato spero si cominci a fare un po’ di silenzio, lo dico soprattutto a quelli che hanno sempre una soluzione in tasca …

Scuola e vacanze

 

albert-anker-passeggiata-scolaresca3di Paolo Vincenti

A rischio le vacanze estive dei ragazzi? Direi di no, sebbene ai Ministri Poletti e Giannini non vadano bene tre mesi di vacanza dalla scuola. Troppo lunghi, affermano. Occorre fare lavorare i ragazzi e allungare la permanenza a scuola. Sicuramente è possibile rimodulare il tempo estivo e coinvolgere i ragazzi in attività formative, come propone il nuovo Ddl Scuola. Occorre però dire che le vacanze servono, eccome, per ritemprare corpo e spirito. Oggi i ragazzetti in età scolare sono assorbiti da mille impegni, hanno un carico extra-scolastico che noi ai alla loro età nemmeno potevamo immaginare. Oltre ai compiti a casa, il loro tempo è preso, inghiottito, triturato, dalle continue ricerche di gruppo assegnate dagli insegnanti sui più peregrini argomenti dello scibile umano, qualsiasi cosa, purché non abbia nulla a che fare con quanto si studia a scuola. Poi dai PON (ossia i “piani operativi nazionali” finanziati dai Fondi Strutturali Europei) che quasi tutti regolarmente frequentano nel pomeriggio, almeno un giorno a settimana. Il loro tempo è risucchiato dall’attività fisica (palestra o piscina, calcio, pallavolo, tennis, karate,danza per le ragazze, ecc.), dalle lezioni di musica (pianoforte e chitarra gli strumenti più gettonati), almeno due volte a settimana, e fino al primo anno delle scuole superiori, dal Catechismo, uno o due pomeriggi a settimana anch’esso. Basta? No! La sera ci sono le feste di compleanno dei compagni di classe, ognuno invita tutti; e ancora compiti, che non hanno terminato nel pomeriggio per via delle svariate attività extracurriculari e formative, e ancora compiti…  I tre mesi estivi, dunque, anche se difficilissimi da gestire per i genitori (poiché mettono a dura prova il loro fragile sistema nervoso), servono ai ragazzi per coltivare l’ozio, non il padre dei vizi,  ma quello creativo, da impiegare principalmente leggendo. Niente, meglio della stagione estiva favorisce l’avvicinamento dei ragazzi alla lettura, fuori dai testi di scuola. Il termine vacanza viene dal latino vacare, cioè “esser sgombro, libero”. Dunque i fanciulli hanno bisogno di un periodo in cui sgomberare la mente dagli affanni (che pure la loro giovane età comporta) ed essere liberi da orari e imposizioni. Tolti i campus estivi, che impegnano alcuni nell’ultima metà di giugno o al massimo fino alla prima metà di luglio, gli studenti devono spezzare il ritmo quotidiano dell’anno appena trascorso. Vero che tre mesi possono sembrare troppi. È giusto che, chi può, faccia dei lavoretti, come suggerito dal ministro Poletti, che potrebbero essere strutturati come degli stage, secondo quanto propone la riforma Giannini. Ma bisogna fare attenzione perché questi stage siano ben congegnati e, sia pure modestamente, retribuiti, ché sappiamo bene quanto la formazione professionale in Italia, e in particolare al Sud, non abbia mai funzionato a dovere e che sul settore scuola-lavoro e apprendistato non si è certamente fatta una legislazione che favorisca questi strumenti formativi. Attività extracurricolari o stage erano già previsti dalla riforma Moratti, ma non sono stati messi in pratica. Come dice bene Beppe Severgnini sul “Corriere della Sera” del 24 marzo 2015, l’importante è che questi lavori non siano imbrigliati dai lacci e laccioli burocratici per i quali la nostra nazione è famosa.”Negli Usa l’impiego estivo dei ragazzi è un rito di passaggio… Ma il summer job americano è privo di qualsiasi formalità. Ehi, mi dipingi lo steccato per 100 dollari? A lavoro finito, il ragazzo intasca i 100 dollari e se ne va. Una parte di vacanza è pagata. In Italia la stessa attività violerebbe almeno dieci norme civili, fiscali, assicurative, sindacali. Il ragazzo ha partita iva? Toglie forse lavoro ad altri? Sono stati consultati gli uffici di collocamento? I contributi come vengono conteggiati? Si tratta di lavoro a chiamata? Sono stati avvertiti gli ispettori del lavoro? Il lavoratore è assicurato? Pensate cosa accadrebbe…”. Quand’ero piccolo, molti miei compagni di scuola d’estate accompagnavano i genitori in campagna, oppure andavano a bottega dal falegname, dal meccanico, dal tornitore, ecc.  Io non lavoravo d’estate, i miei genitori non lo ritenevano necessario in quanto le condizioni economiche della famiglia erano agiate ma, a volte, provavo un po’ di invidia per gli amici impegnati a tagliare, saldare, trinciare, affettare, incollare, ecc. Dunque è certamente costruttivo che i ragazzi facciano degli stage lavoro, oppure, sempre attraverso la scuola, dei corsi di cittadinanza attiva, artistici, di attività fisica, ecc. Il tempo ben speso è il tempo migliore. L’importante è che le vacanze siano proficue perché gli studenti possano riprendere il nuovo anno scolastico sotto i migliori auspici.

 

27 di marzo 2015

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di Pino de Luca

Oggi ce la faccio a darvi un buon giorno. Perché ne abbiamo bisogno. Per ripulirci l’anima delle parole orrende emanate da giornali e televisioni sulla triste, tristissima vicenda dello schianto di un aereo sulle Alpi. Non so dire se tutto corrisponde al vero ma non credo che l’animo umano possa essere ancora più mostruoso di chi assassinandosi assassina anche qualche centinaio di innocenti. Quindi prendo per buona la versione ufficiale. Senza nessuna forma di speculazione. Degli orridi individui approfittino di tanto dolore per assegnare colpe e responsabilità inutilmente. La mente umana, per fortuna molto spesso e per disgrazia qualche volta, non è controllabile e tutti gli sforzi di “sicurezza” non solo si dimostrano inutili ma, qualche volta, estremamente dannosi. La sicurezza è quel baluardo inesistente invocato come un totem da chi ha in odio la libertà degli individui. La Sicurezza non esiste, è solo una percezione non una condizione (lo spiego fra le prime lezioni ai miai alunni piccoli). Esiste la vulnerabilità e su questa si può agire molto. Ma se si dicono queste cose i “padroni della sicurezza” smettono di fare soldi e rafforzare il proprio potere contando sulla paura dei creduloni.
Passa questo incidente come ne sono passati altri, tra tre giorni ce ne saremo dimenticati per fortuna forse.
Io vado avanti, ieri sera a Salve siamo stati in ottima compagnia a parar di vino, di birra, di cioccolato a scoprire che oltre alla tristezza le persone conoscono anche alcuni piaceri stupendi. Ne approfitto per salutare tutti.

Scene da un funerale

di Paolo Vincenti

I funerali, si sa, nei nostri piccoli centri, sono occasioni di socializzazione, si rivede gente che non si incontrava da tanto, si scambiano quattro chiacchiere, meglio ancora di come si farebbe in piazza dove il rumore assordante delle autovetture di passaggio non concilia. In quel luogo di lutto, invece, si è favoriti dalla pace  e dal religioso silenzio che vi regnano e si riesce anche ad entrare in un’intimità confidenziale che in altri contesti non si avrebbe. Si parla a fior di labbra, sussurrando le frasi, per non dare nell’occhio (o meglio, nell’orecchio) di chi è assorto nella veglia funebre, vale a dire i congiunti del de cuius ed i parenti più stretti. Ci si aggiorna sulle rispettive vite, si maligna di imbrogli e infedeltà coniugali, si calunniano gli assenti, specie nei paesini dove ci si conosce un po’ tutti e ciascuno è roso da livore e invidia nei confronti di chi la sa più lunga di lui.

Questo avviene  sia ai funerali dei poveri Cristi, pincopallini qualsiasi, sia a quelli di un personaggio di spicco, uno dei notabili del paese, come può essere un maresciallo dei carabinieri, un sacerdote o parroco, un grosso imprenditore, un aristocratico, un pubblico amministratore, o un arruffapopolo dei tanti che scalmanano da mattina a sera nelle piazze dei nostri sgarrupati paesotti.   Fra un “l’eterno riposo” e un “padre nostro”, si ripensa agli episodi della propria vita insieme con la persona scomparsa, si ripercorrono i momenti belli ma anche quelli brutti, difficili,  e si indirizza allo scomparso un saluto affettuoso, un augurio di buon viaggio. Si fanno anche dei resoconti personali e ci si accorge quasi sempre di aver fallito; i rimorsi o i rimpianti dal feretro si propagano e iniziano a lambire i nostri piedi salendo su fino alla giacca, e ci si deve allontanare per  sfuggire a quella pressione fastidiosa, a quel venticello mortifero. Se il defunto non è un congiunto, ci si limita  ad esprimere il cordoglio ad amici e parenti; se invece si tratta di un famigliare, si portano dei fiori oppure, quando i fiori non sono richiesti, del denaro che, contenuto in una bustina dove si è fatto ben attenzione a indicare il mittente,  viene lasciato nel cestello sistemato ai piedi della bara. Se poi il grado di famigliarità è ancora più stretto, allora si commissiona un cuscino o una  corona di fiori che l’impresario delle pompe funebri si premura di recapitare.

Quando si avvicina l’ora fatale delle esequie, solitamente le 15 o le 16 di pomeriggio,  il prete  che celebrerà la funzione viene a casa  a fare una ispezione preliminare e ad impartire l’estrema unzione al trapassato. A quel punto l’impresario  fa capire a tutti che occorre prepararsi per il drammatico momento e sigilla la bara per il trasporto. Allora si levano più strazianti i lamenti dei famigliari. Su tutti spiccano quelli della vedova inconsolabile e delle figlie femmine, mentre se a dipartire è lei, il vedovo resta contrito in un cupo silenzio e a volte leva gli occhi al cielo in un gesto di sfida e di ingiuria. Circola infatti, nel comune sentire dei nostri paesi,  la stramba teoria secondo cui in una famiglia, se è proprio necessario che uno dei coniugi perisca prima dell’altro ( e in effetti morti simultanee se ne vedono di rado), sia lui, il marito, a precedere, perché in questo modo la casa  rimane aperta e frequentata (in poche parole la vita continua a scorrere come sempre, fra beghe famigliari, pettegolezzo e vendette incrociate). Se invece  a decedere è lei, la moglie,  allora comari, compari, figli e amici non hanno più interesse a frequentare la casa e lasciano il vedovo  a spegnersi  nella solitudine.

Dopo la funzione religiosa e il rito più o meno lungo delle condoglianze in chiesa, la bara viene sistemata di nuovo nell’auto e ci si avvia al cimitero per la tumulazione. Qui il corteo di macchine che ha accompagnato la mercedes funebre si sfalda e ognuno va via in ordine sparso. Al camposanto, è facile per i famigliari, assistendo all’ingrato compito svolto dal necroforo, venire assaliti  di nuovo dal dispiacere, dallo sconforto, che si esprime in un pianto dirotto dovuto alla consapevolezza di non rivedere mai più il proprio congiunto. Quando si fa rientro  a casa, è ormai sera inoltrata. A quel punto, riunendosi la famiglia intorno al tavolo per la cena, può succedere che sia quella l’occasione per iniziare a discutere anche animatamente del futuro in termini di successione e divisione dei beni. Non sempre i famigliari sono d’accordo e capita che i figli e soprattutto le nuore litighino preventivamente, a babbo morto, come si suol dire,  prima di essere duramente richiamati dalla madre, la neo vedova, che rinfaccia  loro di non avere rispetto per il cadavere ancora caldo del genitore.

A volte, nel nostro sud sottosviluppato, si incontrano delle sopravvivenze folkloriche come quella delle chiangimorti. Non mi pareva vero ma, ad una veglia funebre cui partecipai qualche tempo fa, incontrai un drappello di pie donne, moderne “prefiche”, assoldate dai congiunti per  conferire ancora più pathos all’atmosfera di lutto.  Non riuscivo a credere a quello che vedevo e che io pensavo fosse ormai solo confinato nei libri di storia e in quei rari documentari in bianco e nero girati nel Salento qualche decennio fa.

Credevo si trattasse di una finta, cioè una ricostruzione inscenata a vantaggio di telecamera e mi aspettavo che da un momento all’altro sbucasse fuori la troupe di cameramen e antropologi interessati. Invece era tutto vero a ai lai delle chiangimorti si univano le urla disperate della moglie e dei figli del morto in una scena davvero straziante. All’uscita da casa poi, il lento corteo funebre fino alla chiesa venne accompagnato dal suono della banda e anche questa è una tradizione che va ormai a scomparire. Si rimane colpiti dall’attaccamento, dall’amore muliebre, dalla devozione filiale. Capita poi che, trovandomi al cimitero il giorno dei defunti, io veda che nell’urna di quello scomparso, a distanza di alcuni mesi, non sia ancora stata apposta alcuna lapide e vi campeggi ancora il piccolo ritratto formato fototessera appiccicato sbrigativamente alla calcina il giorno delle esequie. Strano.

Vengo poi a sapere da chi è sempre informato su tutto che, appena incassata la cospicua eredità del defunto, i figli hanno mollato il lavoro e si sono trasferiti ad Ibiza dove gestiscono una discoteca. La madre invece,  insieme al compaesano con il quale teneva una relazione extraconiugale da molti anni prima della dipartita del becco, si è trasferita in Olanda dove,  grazie alla legislazione vigente in materia di prostituzione,  fa la tenutaria di un bordello mentre il compagno trascorre da magnaccia le giornate, bevendo e mangiando a ufo e  fumando il narghilè. Tutto vero, mi dicono, vedendomi leggermente incredulo, e la tomba spoglia della lapide lo conferma. Sarà apposta solo a Natale, quando ritorneranno a casa per le feste.   Tutto vero, insistono, lo può confermare anche  il marmista che ha ricevuto l’incarico di realizzare il manufatto. Eh sì, meglio che a perire per primo sia il marito. Davvero, molto meglio.

Un Veronese partito lontano. La ritrovata pala leccese con San Giacomo Minore e San Filippo

paolo veronese s. giacomo minore e san filippo dublino national gallery of ireland
paolo veronese s. giacomo minore e san filippo dublino national gallery of ireland

Un Veronese partito lontano. La ritrovata pala leccese con San Giacomo Minore e San Filippo. Un “dialogo dal vero” con Marco Tanzi.

Nei giorni scorsi sulle testate, cartacee e on-line, è apparsa una interessante notizia relativa al ritrovamento della pala di Paolo Ve­ro­nese raffigurante San Giacomo Minore e San Filippo, che era originariamente collocata nell’omonima chiesa di Lecce e creduta dispersa da tutti gli studiosi che si sono occupati della presenza dell’opera del pittore veneto in Puglia. La pala va riconosciuta, secondo Andrea Fiore, nel dipinto ora nella Na­tio­nal Gal­lery of Ire­land a Du­blino. La rilevante importanza della riscoperta del giovane studioso, dottorando di ricerca nell’ateneo salentino, va rapportata agli studi condotti nell’ambito della cattedra di Storia dell’Arte moderna del Dipartimento di Beni Culturali dell’Università del Salento di cui è ordinario Marco Tanzi.

 

Leggi qui l’articolo:

http://www.monitorarti.it/index.php?option=com_content&view=article&id=466:un-veronese-partito-lontano-la-ritrovata-pala-leccese-con-san-giacomo-minore-e-san-filippo-un-dialogo-dal-vero-con-marco-tanzi&catid=4:blu

 

 

Le masserie tra vita agreste e vita militare. L’esempio di masseria Cippano

paesaggio
Otranto, strada provinciale 87, Alice Russo, Vista panoramica dalla Masseria Cippano, 2013

di Alice Russo

Il nostro territorio ne è pieno, sono ovunque, nascoste tra le rocce carsiche, tra la vegetazione incolta, in punti strategici con viste mozzafiato sul paesaggio circostante, testimonianza di un passato che lentamente si sbriciola tornando alla terra. Le masserie, emblema di una vita agreste dai ritmi lenti e tranquilli, tuttavia, nella loro austerità e matericità, lasciano intravedere un altro antico ruolo, quello della difesa militare.

Ebbene sì, se si va a curiosare tra alcune cronache storiche, si capirebbe che la vita campestre non era poi così tranquilla, e i nemici non erano solo i turchi, ma anche briganti, ladri, corsari che in poco tempo saccheggiavano, distruggevano, rapivano e uccidevano.

L’importanza di poter difendere sé stessi e soprattutto il cibo diventava fondamentale in queste situazioni. Per questo le masserie spesso avevano la conformazione di piccoli fortini, torri di vedetta progettate secondo regole stabilite e soprattutto strettamente funzionali e prive di decori fini a sé stessi. Queste masserie fortificate, dovevano svolgere una duplice funzione: di residenza con caratteristiche difensive e di centro agricolo produttivo. Si prenda come esempio la masseria Cippano.

Localizzata a sud di Otranto e perfettamente visibile dalla strada provinciale 87 (la litoranea che porta a Santa Maria di Leuca), masseria Cippano rappresenta una sintesi di quasi cinque secoli di storia salentina. Essa infatti racchiude in sé tante stratificazioni e ognuna di esse racconta in termini architettonici le trasformazioni sociali a cui si è dovuta adattare in seguito al succedersi inevitabile degli eventi.

masseria cippano ph alice russo
Otranto, strada provinciale 87, Alice Russo, Fronte principale di Masseria Cippano, 2013

La sua valenza militare è chiaramente leggibile nella torre principale che rappresenta il nucleo attorno al quale si sono addizionati gli altri corpi in epoche successive.

Risalente al Cinquecento, misura circa nove metri su ciascun lato al piano del locale abitabile e in altezza risulta circa di dodici metri dal piano terra fino al piano superiore del parapetto delle caditoie. É a base quadrangolare e, a differenza di altre torri, ha una scarpa di inclinazione minima, cinta solo da un semplice rinforzo che viene messo in risalto da una risega che corre tutto attorno.

I suoi locali interni sono voltati a botte e al suo unico piano superiore si accede mediante scala esterna fissa con ponte levatoio, oggi non più esistente, ma della sua esistenza sono testimonianza i fori presenti sopra la porta di ingresso principale, attraverso i quali un tempo dovevano passare le catene necessarie per il suo sollevamento.

Al di sopra di ogni apertura, fatta eccezione il lato rivolto verso l’entroterra, dovevano essere presenti in tutto quattro caditoie per la difesa piombante sostenute da due beccatelli alle estremità. Queste dovrebbero avere un’inclinazione di otto gradi rispetto alla verticale e il cordolo superiore è curvo in modo da garantire l’allontanamento di eventuali attacchi. Grazie ad esse, si poteva rovesciare l’olio bollente sui i nemici che cercassero di entrare attraverso le porte o finestre, ma nel frattempo difendevano da eventuali dardi e frecce. Oggi sono rimaste parzialmente intatte solo due, delle rimanenti verso il mare si notano solo le tracce dei beccatelli.

Strategica è la posizione delle tre feritoie presenti sul fronte principale: una di esse inquadra l’aia, le altre due invece convergono perfettamente in un punto della scala esterna. Si è potuto verificare durante il sopralluogo che attraverso di esse è possibile vedere alla perfezione la parte superiore del corpo di un uomo, dalla testa fino al torace. Insomma, in quel punto, qualunque nemico non avrebbe avuto scampo, né tanto meno, l’esigua larghezza della scala, di appena novanta centimetri, che allora doveva essere dotata di parapetto, avrebbe agevolato la fuga.

E che dire poi del sistema delle due botole allineate verticalmente. Quella che collega il piano terra con il piano superiore, oggi è chiusa da una lastra della pavimentazione, ma è ancora perfettamente leggibile. Al primo piano, invece, ce ne è un’altra aperta in copertura, e doveva rappresentare l’ultima via di salvezza.

Infatti nel caso in cui, né il sistema di feritoie, né il ponte levatoio fossero serviti a respingere l’attacco nemico, si sarebbe potuto salire in copertura raggiungendo la botola solo attraverso una scala a pioli. Posso garantire che l’altezza è sufficiente in modo da impedire che qualcun’altro possa raggiungerla senza l’ausilio di una scala, né tanto meno ci sarebbe stata la possibilità di arrampicarsi perché i muri sono totalmente privi di appigli per aggrapparsi. Confrontandomi con altri studiosi, c’è chi pensa alla presenza di una terza botola, al piano terra, che portasse ad un cunicolo sotterraneo molto stretto che permettesse la fuga ai residenti della masseria. In effetti oggi è possibile vedere sul pavimento una lastra posta di recente a coprire una botola, ma non mi è stato possibile verificare la sua funzione, non posso escludere che questa altro non sia che l’apertura di una cisterna, anche se di cisterne già ce ne sono tre, due di queste immediatamente all’esterno dell’edificio.

Tuttavia, è evidente che questi sistemi di difesa erano pensati solo per attacchi sporadici da parte di piccoli gruppi di nemici, anche poco attrezzati. Di certo non sarebbero stati sufficienti per resistere a grandi armi da guerra, come le bombarde. Il crollo sarebbe stato inevitabile a causa dell’esiguo spessore delle murature, di un metro appena. Basti pensare che le murature delle vere torri di difesa e dei castelli sono almeno il doppio e anche di più.

Inoltre, giocava un grande vantaggio la localizzazione che non era del tutto scontata. Ritornando alla masseria Cippano, questa sorge su un luogo prevalentemente pianeggiante, privo di ostacoli visivi e salendo sulla torre, si ha la sensazione di dominare visivamente tutto il territorio circostante fino al mare. Di fronte, solo la torre Sant’Emiliano che, dall’alto del suo scoglio, impone la sua presenza e, insieme alla masseria, vuole resistere al passare del tempo.

 

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