Se avessi riportato fin dall’inizio il titolo della poesia ed il nome dell’autore sicuramente avrei avuto più lettori di quanti non ne garantiscano Nardò e neretino (sulle chances di poesia in tal senso non mi pronunzio …); avrei, però, tradito la sua umiltà e riservatezza, due sole delle tante doti su cui è fondata la stima che da molti decenni ho di lui.
Su questo blog ho avuto spesso occasione di ricordare neretini del passato più o meno illustri, con particolare riferimento, più di una volta, alla loro produzione poetica. Spesso, però, per trovare autentiche perle non è necessario l’oculare di un cannocchiale per guardare lontano nel passato, basta inforcare gli occhiali (parlo di me, chi non ne ha bisogno può farlo ad occhio nudo) e leggere il presente. Può capitare, così, che su un social network, accanto a banalità sconcertanti spacciate per spunti geniali e subissate da una caterva di altrettanti idioti mi piace, compaia ogni tanto qualcosa che illumina il buio pesto dei valori che il nostro tempo sta vivendo. Proprio per questo, per la valenza educativa che essa, sia pure per pochi, può assumere, non la considero come la classica perla data in pasto ai porci. Mi è parso, perciò, opportuno, anzi, doveroso, recuperarla da quella sorta di calderone e riproporla in un contesto che consentisse di non condensare la propria ammirazione in un breve commento fatto di parole, tutto sommato, inflazionate e perciò banali o, peggio, in un lapidario e sbrigativo mi piace.
Debbo confessare che su quel social network, appena letta la poesia, pur sostenendo, e lo faccio da sempre, all’inizio del sintetico messaggio inviato che qualsiasi commento a qualcosa di bello può fare solo danni, subito dopo ho aggiunto che di questa mia stessa posizione teorica me ne fottevo e ho incarnato tutto questo in un contraddittorio quanto banale Bellissima!
Oggi mi piace spingere al massimo questa contraddittorietà largamente vissuta nella mia pratica professionale (anche perché se in classe mi fossi limitato solo all’aspetto fisiologico della lettura, pur coadiuvato da un paio d’occhiali all’ultima moda …, tutti avrebbero potuto accusarmi a buon diritto di essere un ignorante o, forse peggio, un opportunista e lavativo) ed ovviare, sia pur in minima parte, alla banalità di quel Bellissima!, pur nella consapevolezza del rischio di fraintendere il messaggio dell’autore (ma credo che qui non ci sia nulla che propizi l’equivoco) o, peggio, di incrostarlo con il mio modo di sentire (ma questo, forse, è l’inconveniente-destino più bello al quale ogni poesia possa andare incontro …).
Le righe fin qui scritte hanno abbondantemente coperto lo spazio iniziale (non a caso al festival di Sanremo e simili i posti di uscita più ricercati dai cantanti sono il primo e l’ultimo …) ed è giunto il momento di dire che il titolo della poesia è Nardò dentro e l’ha scritta il nostro concittadino , non nuovo, per chi non lo sapesse, a prove del genere1 ma anche fine traduttore2, nonché autore del testo Inno a Nardò musicato da un altro neretino doc e di peso, il maestro Francesco Libetta.
Luigi mi perdonerà se ho scelto il modo forse più pedante e scolastico (le note, a fronte per renderne più comoda ed immediata la lettura) per sottolineare i momenti salienti del suo canto; un espediente, forse, per evitare un commento di ampio respiro (ammesso che fossi stato capace di articolarlo) ad un canto che di suo ne ha uno amplissimo.
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1 Alla mia terra: poesie, s. n., Nardò, 1960
Il velo del tempio, Cultura Duemila, Ragusa, 1991.
Fili e labirinti, s. n., s. l., 1994
Prechere nosce, s. n., s. l., 1994.
Nove salmi, Barbieri, Manduria, 1994.
Canto e lamento al secolo che muore, Tipografia Ruggeri, Nardò, 1996.
Il Guercio di Puglia, s. n., Nardò, 1985; ristampa Besa, Nardò, 2006.
Nardò, mia cantilena, Besa, Nardò, 2003.
Vita e dintorni, Besa, Nardò, 2003.
2 Pierre de Calan, Dittature o libertà, Edizioni Paoline, Modena, 1975
Louys Bouyer, Il Padre invisibile: approcci al mistero della divinità, Edizioni Paoline, Roma, 1979.
Jean Guitton, La medaglia miracolosa: al di là della superstizione, la Vergine à Rue de Bac, San Paolo, Milano, 1997
Reynal Sorel, Orfeo e l’orfismo: morte e rinascita nel mondo greco antico, Besa, Nardò, 2003.
Georges Lapassade, Gente dell’ombra, transe e possessioni, Besa, Nardò, 2007.
Luisa Agrifani, Nardò: tutti i colori del Salento, Carrino, Nardò, 2008.
Nikolaj Stoyanov, Visto di transito, Besa, Nardò, 2008.
Gilles Del Passas, Il bacio del grongo, Besa, Nardò, 2013.
Il dipinto, riprodotto nell’immagine, cui si riferisce il titolo è una pala d’altare custodita, insieme con altre opere di gran pregio, nella chiesa di San Francesco d’Assisi a Gallipoli. Essa raffigura il santo poverello in piedi sullo sfondo di un paesaggio marino (già m’immagino la corsa per identificarvi qualche dettaglio raffigurativo o liberamente interpretativo di Gallipoli …). Il santo reca nella sinistra il crocifisso, mentre la destra è posata sul costato e sembra additare una piaga alludente a quella del Cristo trafitto da un colpo di lancia. In alto tre angeli sorreggono ciascuno una corona. Su ognuna di esse è incisa una parola; sempre per chi guarda: sulla corona di sinistra PAUPERTAS, su quella di destra CARITAS; su quella apicale OBEDIENTIA . La povertà, la castità e l’obbedienza sono i cardini della regola francescana, ma non credo sia casuale la posizione di quest’ultima che concettualmente, a parer mio, racchiude in sé l’idea della fedeltà assoluta alle prime due virtù. E non è strano che lo dica un ribelle come me né contraddittorio dal momento che i valori da rispettare qui sono indiscutibili …
In basso, in dimensione ridotta che è in linea con la rappresentazione consueta della miseria umana rispetto alla santità, sono raffigurati un francescano ed un laico sulla cui posizione sociale elevata l’abbigliamento non lascia adito ad alcun dubbio.
Per quanto riguarda, invece, il Tiziano del titolo lascio la parola alle fonti che, da dilettante quale sono in questo campo, son riuscito a reperire. Superfluo dire che le citerò in ordine cronologico perché esso è, direi obbligatoriamente, il più adatto a rendere ragione del presunto del titolo. Scontato, poi, è il fatto che esse sono ben note agli studiosi; ma questo mio scritto è solo divulgativo, senza nessuna pretesa di scoprire l’acqua calda.
Nella scheda relativa al nostro dipinto (che il lettore potrà visionare integralmente al link segnalato) leggo che esso è attribuito a Giovanni Antonio De Sacchis (il Pordenone), è datato alla seconda metà del quarto decennio del secolo XVI ed è definito olio su tela. A parte quest’ultimo dettaglio che contrasta col tavola delle testimonianze precedenti, la scheda riporta anche una bibliografia recente che, credo, sia stata utilizzata nella sua compilazione. Purtroppo, trattandosi di testi che vanno dal 1988 al 2004, non mi è stato possibile controllarli.
Altrettanto interessante, poi, la scheda relativa (http://www.patrimoniolatente.eu/index.php?option=com_content&task=view&id=212&Itemid=1) a quella che viene definita una modesta copia di anonimo (già attrinuita a G. D. Catalano) risalente a fine del XVI-inizi deL XVII secolo (senza i due personaggi in basso), olio su tela, custodito nella chiesa del convento francescano a Taviano (a destra nell’immagine comparativa che segue).
Tornando alla tavola di Gallipoli: l’attribuzione al Pordenone, il maggiore pittore friulano del Rinascimento, potrebbe essere stata indotta, oltre che da considerazioni stilistiche, proprio dal racconto tradizionale del mercante sorpreso dalla tempesta. Se è così, è legittimo supporre che non solo gli angeli ma anche le figure del donatario (il frate) e del donante (si direbbe un gentiluomo veneziano, quasi trasfigurazione shakespeariana del mercante) siano state aggiunte dopo?
Quasi mi pento di aver formulato questo dubbio rischiando, così, di fare concorrenza a Wikipedia (ancora lei! …) dove alla voce Chiesa di san Francesco (Gallipoli) (http://it.wikipedia.org/wiki/Chiesa_di_San_Francesco_d%27Assisi_%28Gallipoli%29) leggo: L’interno, a tre navate, ospita dieci altari barocchi disposti lungo le pareti laterali. Tra le opere di gran pregio sono conservate: la tavola raffigurante San Francesco d’Assisi “San Francesco d’Assisi con angeli e due donatori”, attribuita dalla tradizione a Giovanni Antonio de’ Sacchis, detto il Pordenone, allievo di Tiziano[1].
La nota 1 rinvia a http://www.news-art.it/news/tiziano–lotto-e-paris-bordon-in-puglia.htm dove si legge … Tra le presenze in mostra spiccano in particolare due importanti opere di destinazione pubblica come la pala del Pordenone raffigurante San Francesco d’Assisi con angeli e due donatori (cat. 13), proveniente dalla chiesa di San Francesco in Gallipoli …
Sarebbe stato opportuno quantomeno ascrivere il numero indicante la nota a donatori e non a Tiziano, perché il Pordenone allievo di Tiziano è un’invenzione del redattore wikipediano (quel pediano mi ricorda i piedi …) della scheda forse mosso da un malinteso senso di campanilismo, insomma un compromesso tra quello regionale emergente dall’attribuzione a Tiziano di Bonaventura da Lama (s’ignora l’anno della nascita ma a p. 277 della seconda parte della sua opera si legge … Padre Basilio d’Altamura passò dall’Osservanza alla Riforma, conosciuto da me, mentre ero Novizzo in Gravina, l’anno 1666, molto cpntemplativo …) ribadita dal campanilismo, questa volta cittadino, del Ravenna e messa in dubbio da Miasen che non a caso era valtellinese …
Per concludere: un altro esempio dell’antico vizietto, universalmente praticato, di dare lustro, in modo quantomeno discutibile, alle memorie patrie.
Le elezioni sono finite, si contano i voti con la lentezza tipica del Paese d’u Sole. Contano le proiezioni che dicono che hanno vinto tutti. Ma appena si diventa un po’ seri si capisce che il PCF ha il labbro tumefatto e un bernoccolo aulla cucuzza.
Due delle “virago” messe in campo come le amazzoni alle Europee hanno preso schiaffoni, la prima per esser divisiva la seconda per manifesta incapacità.
In Campania, come è d’uopo, il popolo ha scelto Barabba (ma tra i competitor non è che ci fossero dei santini …) e in Puglia ha stravinto Emiliano (come da facile previsione e soprattutto per non avere invitato il PCF). In Toscana, patria del rottamatore, Salvini gli bolla un 20% e per poco non gli pelano anche l’Umbria.
L’unico partito nazionale (finalmente al netto di Grillo e Casaleggio) si mostra il M5S che, se i giovani si lasciano fare, forse riesce a diventare qualche cosa di veramente serio ed importante. Che Grillo si tenga il merito di aver innescato il processo e non si metta più in mezzo.
Allora chi ha vinto e chi ha perso. Ha perso di certo la coscienza civile di questo sfortunato paese. Ormai la metà degli elettori non si avvicina nemmeno ai seggi elettorali, le ingegnerie isituzionali che dovevano portare al “bipolariscmo” o al “bipartitismo” sono fallite miseramente e il federalismo (per fortuna) è un ricordo lontano.
A sinistra continua a imperare il nulla, sembra quasi espunta dal panorama politico dell’italico suolo. Frantumata tra i PD di sinistra (ossimoro conclamato), i fuoriusciti, i movimentisti, e tante altre particelle subatomiche il cui problema primario è il coraggio. La destra non prova alcuna vergogna a presentarsi con la faccia di Salvini che parla chiaro e rivendica la sua dignità di parte politica esistente nella pancia e nel cuore del paese. Possibile che a sinistra non ci sia qualcuno che ha le palle per dire che in Italia ci abitano anche persone di sinistra che non hanno alcun problema a dirlo, a rivendicarne l’anima e il pensiero?
Tanto i “centristi” ci saranno sempre, ma se è vero che senza centro non si governa è anche vero che senza le ali il gioco diventa stantìo e si riduce a pura melina e catenaccio. E gli entusiasmi scemano …
Ora basta elezioni, occupiamoci di cose buone. Ad esempio del Metiusco Rosato di Palamà. Una bocca da sogno superata solo da un calice di Patrunale …..
Buon inizio di settimana a tutti
P.S.
Sembra che dal 5 al 7 giugno ci sia una manifestazione che tratta di rosati a Lecce, ne ho appena ricevuto notizia. La segnalo a tutti coloro che volessero partecipare per due ragioni:
1 – Ci sarà certamente da divertirsi tra 150 Rosati e la cucina di Antonella Ricci e Vinod Sookar;
2 – Ho un debito di riconoscenza verso gli organizzatori perché hanno scelto i vini che a Milano, qualche giorno fa, hanno così ben rappresentato il Salento.
Fatemi sapere come è andata che mi fa piacere saperlo.
Non accade spesso che in nome della difesa e della valorizzazione del territorio e dei monumenti che vi insistono si formino delle alleanze, ma quando accade si realizza finalmente quella visione olistica dove la cultura sedimentata nel tempo, i segni vistosi monumentali, le tracce che le passate civiltà hanno lasciato, vengono riconosciuti come beni da preservare.
E’ il caso del Dolmen Chianca (il nome del lastricato solare) in località Policarita (dal suggestivo lemma greco) a Maglie, nel Salento centrale fra Otranto e Gallipoli, due ridenti località turistiche ma anche due porti importanti messapici. Per la verità non mancano nel territorio di terra d’Otranto altre testimonianze che datano al periodo preistorico, come dolmen, menhir o incisioni e pitture rupestri databili al periodo neolitico. In particolare sono da citare il monumento detto ‘Centopietre’ a Patù nei pressi di S. Maria di Leuca, un edificio di culto o un monumento sepolcrale, il cosiddetto masso della vecchia a Giuggianello, una serie di chianche, massi sovrapposti, dalle dimensioni ciclopiche, gli allineamenti dei menhir a Minervino di Lecce e a Giurdignano, le grotte di Porto Badisco con le pitture parietali che raffigurano scene di caccia e scene religiose con lo sciamano che sovrintende a una cerimonia nuziale, dove secondo la leggenda, contesa da Castro, approdò Enea, le veneri steatopigie di Parabita, i resti fossili e umani nelle grotte di Leuca, ecc.
Tutti elementi che definiscono la frequentazione neolitica del Salento, un territorio che trova esemplificazione nel paesaggio pittoresco definito dalle distese degli ulivi, che per la verità ora non se la passano così bene.
E’ merito della Associazione Nuova Messapia, che promuove la conoscenza del territorio, se nel corso delle campagne di ripulitura dai rifiuti abbandonati, alle quali partecipano le scuole, ha coinvolto gli studenti del Liceo Capece di Maglie nel rinvenimento di questo monumento che necessità di recupero. Si è provveduto ad isolarlo dalle erbacce e a far intervenire la Soprintendenza, ma è il lavoro di catalogazione e di studio che ora spetta alle classi. Insieme all’Associazione il dolmen Chianca verrà adottato, verrà proposto un recupero rispettoso e l’apposizione del vincolo monumentale e paesaggistico su di una zona che ha lasciato questa traccia perché sia riconosciuta e preservata.
Tanti anni fa a Brescia vi fu una strage, una di quelle stragi dimenticate nella quale furono uccise e ferite centinaia di persone. Bombe fasciste e dello Stato contro cittadini inermi. Sarebbe tempo di capire chi è stato e perché. Ma non lo sapremo mai, Decine di governi imbelli hanno sempe coperto assassini e criminali e adesso parlano di impresentabili …
Buone notizie scarse in questo finale di maggio, si avvicinano le Elezioni Regionali e i veleni… si spargono a piene mani in trasmissioni vergogna che pullulano sulle televisioni, la più vergognosa delle quali si chiama La Gabbia.
Buone notizie scarse ma qualcuna c’è … Le borse volano perché Tsipras la spunterà. La Grecia si salva e magari comincia una Europa nuova. Tsipras, Podemos, Provamos … Sono convinto che, come sempre, sarà il Sud del Mondo a farsi carico dei problemi e a cercare soluzioni nuove, originali e condivise.
Dove arriva l’intelligenza emozionale non può arrivare quella razionale ed oggi, più che mai, abbiamo bisogno di fantasia, di strade inesplorate sulle quali costruire nuovi cammini. Di ampliare la cultura più della tecnologia, di privilegiare il progresso molto più dello sviluppo, di moltiplicare il numero di protagonisti e ridurre quello dei protagonismi, di preferire il verbo essere al verbo avere, di diritti invece che di privilegi, di ricercare l’uguale e cancellare l’uniforme. Possono farlo coloro che hanno massacrato un intero paese? Io non ci credo, ma so che se questo paese è ancora in piedi è perché è vero che ovunque si nasconde il marcio ma ovunque vi sono anche le risorse che quel marcio possono cancellare. Solo che il marcio puzza e l’odore del buono è coperto dal lezzo del marciume. Ma c’è. Frammentato, timido, per anni negletto, c’è qualcosa di buono in Italia. Cerchiamolo. Buona caccia a tutti.
P.S.
Il buono spesso si riconosce dalle mani. Callose, affaticate, robuste e sincere.
anche per il 2020 la legge di stabilità prevede, in sede di compilazione della dichiarazione dei redditi, la possibilità di destinare il 5 per mille dell’IRPEF alle associazioni e fondazioni no profit.
Ricordo che la nostra fondazione rientra tra quelle ammesse e che le somme raccolte saranno destinate al raggiungimento delle finalità statutarie .
Per destinare il 5 per mille alla fondazione è necessario indicare nel riquadro “scelta per la destinazione del cinque per mille dell’IRPEF” (primo spazio a sinistra del modello 730 e CUD, nello spazio destinato alle associazioni di promozione sociale) il Codice Fiscale della Fondazione
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Costituzione. Nata il 4 aprile 2011, ha ottenuto il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al numero 330 – in data 15 marzo 2012. Il 14 dicembre 2012 è stata iscritta nell’Albo Comunale delle Associazioni di Nardò, al numero 21 (Delibera Consiglio Comunale di Nardò n°218 del 14/12/2012).
Finalità. La Fondazione, in conformità con quanto previsto dall’Art. 4 dello Statuto, intende “operare per la promozione, valorizzazione, ricerca e recupero dei beni e dei siti di interesse artistico, archeologico, architettonico, archivistico, demo etno antropologico, storico ed ambientale esistenti nei comuni di Terra d’Otranto”.
“Siamo isole nell’oceano della solitudine e arcipelaghi le città, dove l’amore naufraga…”
Cigarettes and coffe – Scialpi
“Tu non sei non sei più n grado neanche di dire se
quello che hai in testa l’hai pensato te
qui non sei non sei nessuno, qui non esisti più
se non appari mai mai mai mai in tv”
Non appari – Vasco Rossi
All’inizio era Cavallo Pazzo. Ve le ricordate le sue incursioni nelle trasmissioni televisive dove cercava di interrompere la diretta gridando inverosimili proclami prima di essere braccato dalla sicurezza e trascinato fuori? Mario Appignani fece del disturbatore tv una vera professione. Soprannominatosi “Cavallo Pazzo”, in onore del famoso capo indiano dei Sioux protagonista della battaglia di Little Big Horn, riusciva sempre ad eludere i servizi di controllo e fiondarsi sul palco di qualsiasi manifestazione, nello sbalordimento generale. Memorabile, la sua incursione al Festival di Sanremo 1992 in cui gridava: “questo festival è truccato!” Scopro in rete che negli anni Settanta aveva fondato una banda, Gli Indiani Metropolitani, con cui avanzava delle proposte assurde come “Non più Potere Proletario ma Potere Dromedario”, oppure “Rendiamo più chiare le Botteghe Oscure: coloriamole di giallo”, trionfo del nonsense. Figlio della Roma degli anni di piombo, un’infanzia difficile, adottato da un brefotrofio, alcune condanne per piccoli reati, scrisse ancheun’autobiografia, “Un ragazzo all’inferno”, con prefazione di Marco Pannella. Nella sua battaglia contro vere o presunte scorrettezze, imperversò per anni nelle varie trasmissioni come Festivalbar, Azzurro e il Tg1. Mario Appignagni si è spento per un cancro nel 1996. Ad affossarlo definitivamente, ci pensò proprio Pippo Baudo dichiarando: “ il suo scopo era di parlare alla gente, anche se non aveva nulla da dire”. Amen!
Poi è arrivato Gabriele Paolini, anch’egli ragazzo problematico e difficile, immortalato in migliaia di trasmissioni televisive in cui faceva il guastatore d’assalto. Probabilmente detiene il record mondiale di incursioni. Autodefinitosi “inquinatore tv”, per tanti anni lo abbiamo visto apparire alle spalle dei giornalisti dei Tg in collegamento esterno, che cercava di farsi sentire, urlando degli improbabili slogans, oppure esibendo dei cartelli, più spesso restando in silenzio a favore di telecamera alle spalle del giornalista che ne sentiva il respiro sul collo, imbarazzante come un ospite indesiderato, inquietante come un avvoltoio che volteggia sulla preda. Antipatico e irritante, essendo davvero molesto, ha rischiato più volte il linciaggio (celebre il filmato del compianto Paolo Frajese che lo prende a calci in diretta), sia da parte dei cameramen che volevano levarselo di torno, sia da parte della gente. A volte veniva invitato in trasmissione, essendo poi divenuto un “personaggio”. Pubblicava su internet filmati pornografici che lo vedevano protagonista da solo o in situazioni promiscue. Spesso, nelle sue intemerate, esibiva dei profilattici e, per somma contraddizione con i suoi comportamenti privati, fustigava verbalmente la pedofilia. Nelle sue piratesche comparsate, faceva il segno delle corna e inveiva contro i giornalisti e presentatori che cercavano di allontanarlo usandogli violenza. Nel suo sito ufficiale, “Gabriele Paolini, il profeta del condom”, si presentava come un divo del cinema porno e si mostrava insieme ai più noti personaggi del mondo della comunicazione, dello spettacolo e della cronaca italiani. Paolini si autodefiniva: “L’Arlecchino della Tv, agitatore culturale, L’Arsenio Lupin catodico, L’Urlo di Munch, Situazionista Debordiano, Genio sregolato felicemente malinconico.” Tutto ciò fino a quando le sue stramberie e intemperanze non sono state fermate dalle forze dell’ordine, che lo hanno tratto in arresto per sfruttamento della prostituzione minorile. Decine sono i reati e le condanne a suo carico (molestie, diffamazione, calunnia, estorsione, insomma un profilo criminale di tutto rispetto), cosa che renderà credo impossibile un suo ritorno sulle scene. Negli ultimi tempi, sempre in regime di detenzione, lamenta il fatto di non poter sposare il suo giovane compagno, col quale si univa sessualmente fin da quando questi era minorenne.
Oggi gli epigoni di Paolini (che non a caso lo definiscono “un maestro”) sono Mauro Fortinie Niki Giusino. Non potete non averli notati, perché sono onnipresenti dietro le spalle di qualsiasi giornalista o politico che compaia nei telegiornali. Scrive in rete Alberto Samonà: “Sono Mauro Fortinie Niki Giusino, ribattezzato da alcuni “Er cicciotto” per la sua corporatura, i due disturbatori televisivi che, dopo l’era del capelluto Gabriele Paolini, accompagnano le giornate degli italiani davanti alla tv.Sono stati ribattezzati “reporter tragicomici” per il loro modo di fare: non improbabili proclami, ma finte interviste e apparizioni televisive, rigorosamente dietro ai big della politica o dello spettacolo.Mauro Fortini e Niki Giusino sono lo sberleffo in persona: si fanno trovare davanti ai palazzi del potere insieme a decine, a volte centinaia, di giornalisti e, una volta arrivata la “preda”, entrano in azione. E lo fanno nel modo più geniale, cioè prendendo in giro proprio chi si affanna a raccogliere una mezza frase del politico di turno, la parola rubata che fa fare i titoli ai giornali e ai tg. I due stanno a proprio agio in mezzo alla confusione di cronisti e in realtà, le vere vittime delle proprie comparsate, del proprio sberleffo, non sono i politici o gli uomini in vista dietro ai quali compaiono le loro immancabili sagome, ma i giornalisti stessi.E così, Fortini lo si può vedere con la matita in bocca, come se stesse riflettendo, o prendere febbrilmente appunti su un block notes, mentre Giusino, ragazzone poco più che ventenne dall’inconfondibile chioma rossa e dal viso lentigginoso, si immortala mentre parla qualche “big” o fa finta di intervistarlo con un improbabile microfono. Nell’ultimo periodo, Fortini ha anche cambiato strategia, “aggredendo” i politici di turno con improbabili domande. Anche questo è un modo geniale per sbeffeggiare una categoria, quella dei giornalisti, troppo spesso vittima di superficialità, espressa da coloro che, interpretando nel modo più letterale l’appartenenza alla categoria stessa, nelle proprie interviste formulano domande assurde e spesso fuori luogo. Per non parlare dell’atteggiamento da assedio con cui i cronisti circondano sovente gli intervistati, per carpire da questi anche le virgole, per non farsi sfuggire nulla.E così, al Gabriele Paolini cantore di improbabili battaglie sociali, si sono sostituiti i disturbatori che non disturbano, ma che mettono in luce la crisi di un sistema che fa dell’immagine la propria essenza …”.
In particolare Mauro Fortini rivendica la propria originalità rispetto a Paolini, definendosi un “presenzialista”, e se nelle interviste gli chiedono perché lo faccia, egli risponde che vuole battere il record mondiale di comparsate, attualmente a quota 40.000 circa. Perciò sta ben attento a non prendere alcuna denuncia, anzi a farsi ben volere sia dai politici che dai giornalisti , che Fortini chiama “colleghi”, ai quali spesso passa delle imbeccate, bighellonando tutto il giorno fra i palazzi del potere e sapendone a volte più di loro. Fa ogni giorno la stessa vita da tanti anni. Si alza presto e parte dal suo piccolo paesino in provincia di Roma. Penna in mano, block notes intonso e registratorino scarico, compare e compare, macinando chilometri fra Palazzo Madama e Palazzo Chigi, fra le sedi di partito e il Campidoglio, Montecitorio e la sede della Rai. La sera fa ritorno a casa per godersi il frutto del suo lavoro grazie ai videoregistratori che hanno registrato tutto il giorno dal suo televisore. Per mantenersi, fa il prostituto, come ammette candidamente, intervistato da Enrico Lucci a “Le iene”. Va a pagamento con le vecchie in fregola.
Niki Giusino spesso e volentieri affianca Fortini ed adotta la medesima tecnica, stesso profilo basso da incursore discreto, presenza silenziosa davanti alle telecamere. Molto giovane, confessa di non aver studiato e di vivere di espedienti. “Quando c’è una telecamera, l’istinto di apparire prevale”, dice nell’intervista a”Le Iene”, e poi confessa che il suo sogno è quello di fare il postino per Maria De Filippi in “C’è posta per te” o anche l’opinionista in “Uomini e donne”. Entrambi sono stati definiti “cantori della mediocrità del sistema nel quale viviamo”.
In questa sorta di ginepraio di psicolabili del tubo catodico, una segnalazione spetta anche ad Annarella, la vecchietta che si esprime in romanesco e manda a quel paese tutti gli esponenti politici. Annarella non fa dei blitz, è divenuta un personaggio suo malgrado, perché filmata da “Blob” e anche per via di alcuni giornalisti che l’hanno scoperta e“utilizzata” nei servizi. Poi c’è Mario Ferri, in arte “Falco l’invasore” che vediamo spesso fare incursione nei campi di calcio durante le partite di campionato. Insomma, essere non basta, bisogna apparire, disturbare per farsi sentire: questo il desolante messaggio che ce ne viene.
Mauro Fortini e Niki Giusino ci indicano il binario morto su cui deraglia il treno impazzito del nostro paese. Ma cos’è che spinge questi teleincursionisti a farsi riprendere dalle telecamere, a divenire fenomeni sociali, macchiette, di questa caotica società? Cosa porta i giovanissimi writers a imbrattare con frasi scurrili i muri delle città? La solitudine, forse, la più spaventevole e obbrobriosa solitudine, certo. Una solitudine forzata, imposta dalla vita, non desiderata, principio e causa dell’aridità e del vuoto del vivere odierno. Non una solitudine creativa, quella che porta l’uomo ad isolarsi volontariamente per cercare l’ispirazione, per saggiare le profondità della propria esistenza, per capire le ragioni di una scelta, di una sconfitta o di una vittoria, oppure per meditare, per pregare. Una solitudine, invece, ottundente, spaurente, una condizione di esclusione che a lungo andare può diventare patologica e portare alla depressione, che dunque procura sofferenza, disagio, alienazione. La solitudine che porta Harry Haller a diventare “Lupo della steppa”, la solitudine di Giovanni Drogo protagonista del “Deserto dei Tartari”. Essa non è solo di chi non è riuscito a formarsi una famiglia, di chi non ha un compagno/compagna, e non ha amici. Il consumo massivo di sesso a pagamento in Italia dimostra che pure tantissima gente sposata, con figli e apparentemente realizzata, è perseguitata da questa sofferenza. «Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera», dice Salvatore Quasimodo. Anche chi occupa ruoli sociali ad altissimo livello (un esempio tra tanti: il giornalista Piero Marrazzo, ex presidente della Regione Lazio), può essere inseguito da questa lacerazione. Andare a trans, per esempio, sconfinando in esperienze estreme, di sesso violento, è una sorta di psicopatologica “livella” sociale, culturale, sessuale. Un male sottile, che si annida fra le pieghe dei giorni ordinari, che può deflagrare in scoppi di mortifera follia, e che porta per esempio un infermiere di Secondigliano, Napoli, ad accoppare il fratello e la cognata e poi andare sul balcone e sparare all’impazzata alla gente di sotto. Nessuna azione surrealista però, né futurista, né dadaista: solo il cancro dell’esclusione sociale, del moderno nichilismo. È l’urlo nel buio per farsi coraggio, il grido di aiuto dell’uomo che si sente solo nell’universo, come in “Solitudine” di Ungaretti. È l’ostracismo del gruppo dei pari, che divora soprattutto i giovani e giovanissimi, ma anche il dirigente e l’operaio, il professore e l’artigiano, il politico e l’attacchino, l’anchorman televisivo e la casalinga alcolizzata. Come scrive Pierpaolo Pasolini: “Io non so frenare quest’angoscia che monta dentro al seno; essere solo.”
Non si giudichi intenzionalmente irriverente l’accostamento, giacché, da parte dell’osservatore di strada e narrastorie, è anzi avvertito forte il senso di rispetto e di doveroso omaggio nei confronti del passato, tuttavia viene quasi inevitabile mettere in prossimità, nonostante la distanza temporale di millenni, l’approdo sulle coste di Castro dell’eroe profugo troiano Enea e il Gran Premio d’Italia d’acqua bike, che rientra nel campionato del mondo di tale specialità, in calendario, giustappunto, a Castro dal 22 al 24 maggio 2015.
Quanto al primo avvenimento, sgorga spontaneo e bello riportare, di seguito, i versi dell’Eneide, al terzo libro, con cui Virgilio descrive l’impatto del famoso esule con le nostre scogliere e lo sbarco:
“ci spingiamo innanzi sul mare, tenendoci accosti alle vicine scogliere Ceraunie, da dove è la via per l’Italia e più breve il viaggio sulle onde… e già, fugate le stelle, rosseggiava l’Aurora, quando da lungi scorgiamo oscuri colli e il basso lido dell’Italia…Le invocate brezze rinforzano, e già più vicino si intravede un porto, e appare un tempio di Minerva su una rocca. I compagni ammainano le vele e volgono a riva le prore. Il porto è incurvato ad arco dalla corrente dell’Euro; i suoi moli rocciosi protesi nel mare schiumano di spruzzi salati, e lo nascondono; alti scogli infatti lo cingono con le loro braccia come un doppio muro, e ai nostri occhi il tempio si allontana dalla riva”.
Si tratta di parole e immagini che, seppure risalenti a un contesto lontanissimo, non necessitano di commenti o chiose.
In riferimento, invece, all’evento dei nostri giorni, si scorge tutt’intorno uno scenario nettamente diverso. A parlare, comunicare e conferire un’idea agli astanti, sono i modernissimi strumenti di pubblicità, un’infilata di box o tendoni bianchi a uso delle varie squadre di partecipanti al campionato, un importante assetto organizzativo d’insieme, quest’ultimo in tutto degno e a livello delle grandi competizioni sportive e/o agonistiche.
Poi, la multietnicità del popolo che anima la manifestazione, con pochi italiani e una grande maggioranza, invece, di stranieri, europei e dei restanti continenti. Chi scrive, pass al collo, ha provato a rivolgere un po’ in giro la classica domanda: “What country are you from?”, ottenendo in risposta, ad esempio, Qatar, Portogallo, Martinica, Francia e Polonia, una gamma di provenienze chiaramente non indifferente.
Poi, ancora, seguitando a riferire sullo scenario, ecco gli strumenti al cuore della competizione, riduttivamente definibili moto d’acqua, ma, in realtà, veri e propri bolidi dotati d’accentuate potenzialità e prestazioni, fra cui quelle inerenti alle esibizioni acrobatiche, fortemente spettacolari.
Forse, sin qui e almeno in Italia, rappresenta uno spaccato ancora giovane e da scoprire questo genere di sport, fa presa soprattutto sul pubblico giovane, come traspare dalla ragguardevole sequenza di moto, un unicum davvero eccezionale, sistemate sulla piazzetta di Castro e, non a caso, catturate con un istantanea.
Durante il giro fra i box, mi è stato dato di scorgere nelle adiacenze tre giovani e carine ragazze, sedute tranquillamente su uno dei grandi cubi di cemento che fungono da frangiflutti e intente, più che altro, a conversare.
Il curioso ha chiesto anche a loro da dove venissero, apprendendo che erano tutte italiane, una di Bologna, l’altra a Catania e la terza di Lecce: “Che ci state a fare a Castro, siete appassionate di aquabike?” e, in questo caso, così ha recitato la risposta: “Sì, si tratta di passione, ma non unicamente per la specialità sportiva, siamo amiche o fidanzate o compagne di atleti che partecipano alle gare”.
° ° °
E‘ una giornata molto bella, il mare quasi calmo, con i suoi colori cangianti che qui, a onore del vero, sono sempre accattivanti e ti penetrano dentro. Per parte sua, anche il cielo è un vero e proprio spettacolo, le striature di bianche nuvole, che qua e là stazionano o incedono lentamente e leggere, impreziosiscono vie più il manto d’intenso azzurro in alto.
Suggestivo lo spettacolo delle prove degli atleti sulla distesa d’acqua, salutate da applausi specie in occasione di salti e acrobazie fra sbuffi di colonne di schiuma.
Notazione doverosa, gli operatori economici di Castro, in previsione e in concomitanza dell’evento, si sono messi a disposizione, a fianco dell’impegno e dello sforzo dell’amministrazione civica, con in testa il sindaco e i suoi stretti collaboratori. Mobilitati a intenso ritmo i vigili urbani insieme con il personale della Guardia Costiera qui convenuto anche da altri centri marittimi della zona.
Accennavo prima agli operatori economici adoperatisi per rendere puntualmente operativi i loro servizi, esercizi e strutture e così fronteggiare l’afflusso degli addetti ai lavori e degli ospiti appassionati di questo tipo di sport.
Per citare, ho visto l’esercizio commerciale di Martino, in Piazzetta, con i battenti aperti anticipatamente, lo stesso ha fatto la tradizionale venditrice di frutta; il mitico “Speran Bar” di Lucio, in attesa della definitiva imminente risistemazione negli “antichi” locali propri ricostruiti in uno con l’intero stabile crollato, come è noto, sei anni addietro, ha allestito, per la circostanza, un aggraffiato “balconcino” di servizio semi scoperto con, intorno, una bella platea di tavolini e pure il concorrente e vicino “Bar La Chianca” si è rimesso a nuovo.
Da segnalare, infine, che ha anticipato la stagione lo stesso Lido La Sorgente, con Anselmo e figli già in attività.
Intanto, fra tutto ciò, mi piace rimarcare che il protagonista dominante di questo sito da sogno che è Castro, nonostante la grandiosità dell’evento sportivo in discorso, e insieme con l’attrattiva inconfondibile esercitata dalle bellezze storiche, architettoniche e naturali complessive, rimane solidamente lui, il mare.
Vuoi nelle giornate serene come l’odierna, vuoi quando le condizioni climatiche non sono le migliori, immergersi nelle sue acque o semplicemente fermarsi a goderne la visione, ingenera una sensazione che non è esagerato definire da paradiso.
Scene dal vivo d’un matrimonio celebratosi in una cittadina pugliese, ovviamente innominabile. Per ambientazione, un’aggraziata piazzetta del centro storico (isola pedonale), resa ancora più suggestiva dal fondale buio tenue delle prime ore della sera, e una prospiciente ed altrettanto graziosa piccola chiesa del diciottesimo secolo.
Nubendi, due giovani professionisti appartenenti a buone famiglie e con a fianco redditizie attività commerciali; insomma, tutte le premesse per una cerimonia distinta se non proprio d’élite.
Sennonché, ancora una volta, si ha la dimostrazione che la ricchezza, la bellezza e il successo non necessariamente vanno a braccetto con la classe pura, quel volare alto che, prima di tutto, prende l’abbrivo dalla semplicità, dalla naturalezza, dal riserbo e dalla modestia.
Veniamo alle sequenze che, secondo il parere e la sensibilità di chi scrive, si caratterizzano per i toni sfasati e fuori luogo.
Mancano pochi minuti all’orario fissato, ma lo sposo non appare presente all’ingresso della chiesa ad attendere la dolce metà. Nessun problema, comunque, il suo arrivo è annunciato di lì a breve dal rombo di un’autovettura, da lui stesso guidata, rombo speciale e inconfondibile, giacché trattasi non di un comune veicolo di media o grossa cilindrata, ma, sentite bene, niente poco di meno che di una “Ferrari” color argento metallizzato. Non c’è che dire, un’apparizione veramente sobria, quasi che avvenga a bordo di una cinquecento o di un calesse.
Il secondo fotogramma sfocato, diciamo così, si materializza all’interno del luogo sacro, in pieno rito nuziale. Ciascuno di noi pensa che il culmine del sacramento coincida con lo scambio delle cosiddette “fedi”, ma in realtà, almeno nella circostanza, tale opinione ha un grosso limite, è parziale: difatti, dopo che le comuni fascette d’oro arrivano a cingere gli anulari della coppia, lo sposo trae dalla tasca un involucro e presenta, alla ormai moglie, un vistoso, preziosissimo anello con mega brillante, a occhio e croce roba da decine di migliaia di euro.
Ciò, beninteso, fra gli oh! di meraviglia della generalità degli astanti, integrati da sommessi risolini e sospiri d’innocente invidia da parte delle invitate giovanissime. Neppure in questo atto, v’è alcuna ombra di ostentazione!
Si osserva che certe pacchianerie resistono tuttora, specialmente nei centri medio piccoli; di fronte a siffatta considerazione, sembra tuttavia bene e utile replicare che è giunto il momento d’estirpare completamente le radici di atteggiamenti e comportamenti del genere, in qualunque latitudine e ambiente ci si trovi.
E io, che ho criticato l’usanza, introdotta da alcuni anni, dei fuochi d’artificio in seno ai matrimoni!
Nella Sala Giunta di Palazzo Carafa, a cura dell’Assessore al Turismo e al Marketing Territoriale Luigi Coclite, è stata presentata una nuova e interessante iniziativa culturale dal titolo “Lecce, città della lettura”, voluta e patrocinata dall’Amministrazione Comunale e che si avvale del supporto prezioso di innumerevoli associazioni, fra cui il Fondo Verri.
L’evento, meglio denominato Festival, avrà luogo dal 21 maggio al 3 giugno 2015 nell’elegante cornice di Piazza S. Oronzo del pieno centro cittadino e si colloca a buon titolo sulla scia del riconoscimento “Lecce, capitale italiana della cultura 2015” attribuito al capoluogo salentino.
Suo obiettivo fondante, attraverso un’articolata serie di manifestazioni e azioni, è di vie più stimolare concretamente l’attenzione e l’interesse dei “non lettori e/o lettori inconsapevoli” verso il mondo dei libri e dei correlati risvolti e valori culturali.
Sarà dato di assistere a un’ampia serie di declamazioni, commenti, incontri con autori, analisi e critiche letterarie, con coinvolgimento delle scuole.
Tra i personaggi che presenzieranno per illustrare e commentare le loro esperienze e/o opere, Luisa Ruggio, Lucia Accoto, Antonio Errico, Livio Romano e Rocco Boccadamo, quest’ultimo con il recentissimo saggio “Fratello narrastorie”, pubblicato da Spagine – Fondo Verri Edizioni, dedicato alla figura e agli scritti e romanzi di Giorgio Cretì, il poeta contadino nativo di Ortelle (Lecce).
anche per il 2015 la legge di stabilità prevede, in sede di compilazione della dichiarazione dei redditi, la possibilità di destinare il 5 per mille dell’IRPEF alle associazioni e fondazioni no profit.
Ricordo che la nostra fondazione rientra tra quelle ammesse e che le somme raccolte saranno destinate al raggiungimento delle finalità statutarie e alla pubblicazione della nostra rivista “Il Delfino e la Mezzaluna”, il cui secondo numero presenteremo a maggio.
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Per destinare il 5 per mille alla fondazione è necessario indicare nel riquadro “scelta per la destinazione del cinque per mille dell’IRPEF” (primo spazio a sinistra del modello 730 e CUD, nello spazio destinato alle associazioni di promozione sociale) il Codice Fiscale della Fondazione
91024610759
e apporre la propria firma sulla riga sovrastante.
Per ulteriori notizie in merito potete rivolgervi ai seguenti contatti: 349/5298033, info@fondazioneterradotranto.it; www. fondazioneterradotranto.it.
Rimango a disposizione per ogni chiarimento, ringraziandoTi per l’attenzione e per quanto Vorrai fare
Marcello Gaballo – Presidente
Costituzione. Nata il 4 aprile 2011, ha ottenuto il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al numero 330 – in data 15 marzo 2012. Il 14 dicembre 2012 è stata iscritta nell’Albo Comunale delle Associazioni di Nardò, al numero 21 (Delibera Consiglio Comunale di Nardò n°218 del 14/12/2012).
Finalità. La Fondazione, in conformità con quanto previsto dall’Art. 4 dello Statuto, intende “operare per la promozione, valorizzazione, ricerca e recupero dei beni e dei siti di interesse artistico, archeologico, architettonico, archivistico, demo etno antropologico, storico ed ambientale esistenti nei comuni di Terra d’Otranto”.
Ne è caduta di pioggia questa notte. A secchiate. In questa plumbea mattina del 19 di maggio 2015, di martedi, il sapore dell’aria è acidulo. Più fresco della melassa di ieri ma non ha quel profumo di fresco del dopo tempesta. Sembra che l’acqua che cade, quand’anche copiosa, non sia abbastanza da lavare l’odore di morte che ammorba l’aria. Ogni giorno più vicine cupe salve di cannoni, e si alzano i toni delle parole soffiate da mantici possenti e amplificate da crani rimbomb…anti.
Scorrerà sangue ancora, la belva umana non riesce a saziarsi del sangue de suoi simili, la belva umana un tempo relegata nella gabbia della parodia e della satira è ora manifesta, circola libera. Parole orripilanti e concetti lugubri non sono più causa di sdegno ma di comune conversazione e, sempre più spesso, di manifesta condivisione.
E nell’ossimoro della nostra società sempre più divaricata, belle facce ci chiedono due euro per salvare i bambini dell’Africa e belle facce ci chiedono di bombardare i barconi carichi di disperati. Ovvero carichi di quei bambini che avevamo salvato.
E mentre scorrono sui monitor le immagini dei manicaretti per gatto preparati da grandi chef e giovani da sogno in posti da sogno bevono sereni un aperitivo di perfetta sintesi chmica, nel sottotitolo stupri, crimini di guerra, devastazioni ambientali e accenti furbastri fomentano la guerra tra i disperati.
Se le parole di Papa Francesco e del Presidente Mattarella fossero ascoltate una volta sola… ma così non è, questo è il tempo della violenza e della cattiveria. Questo è il tempo del dio denaro che tutto rompe e tutto corrompe.
Eppure i buoni sono di più, ma sono frantumati, chiusi nel loro se, diffidenti come non mai e incapaci a riconoscere i loro simili. Solo quando una pioggia forte ci ridarà il profumo di fresco e le note di An der schönen blauen Donau voleranno nell’aria ci sarà una nuova speranza.
La speranza che un giovane uomo si fermi e con la prima persona che incontra si metta a ballare il valzer, e così tutti i passanti che li vedono e le macchine si fermeranno e la fretta avrà una pausa e tante coppie di sconosciuti volteggeranno al ritmo della musica, è la speranza che tutti comprendano che un valzer ballato spensieratamente vale molto di più della paranoica ricerca del “successo” che si fa realtà. Allora tornerà il tempo della buona vita … per ora continuiamo a guardarci a brutto muso e, tra la folla, a ricercare visi che ci hanno dimenticato.
Ma io non mi rassegno ad essere cattivo e dunque, a tutti voi buon giorno e buon ballo!!!
Qualche tempo fa, mi è capitato di assistere a un bel reportage della RAI dedicato all’ Albania. Un servizio assai vivo e interessante, giacché fedele e puntuale ripercorso della storia della piccola nazione, intessuta, come è noto, di tante e varie traversie sino alle oceaniche, e a volte tragiche, fughe di suoi abitanti disperati attraverso il Canale d’Otranto verso l’Italia, lungo gli anni novanta.
Fortunatamente, ormai da un pezzo, lo Stato che s’affaccia sull’altra sponda del Canale d’Otranto è andato man mano calandosi nella più accettabile realtà attuale, che, sia pure fra contrasti e difficoltà, sembra pian piano indirizzarsi verso standing di vita di modello europeo, pur partendo, è ovvio, da livelli inevitabilmente bassi.
In particolare, sono rimasto colpito dalla gran differenza fra la popolazione di età media, o avanzata, e i giovani, questi ultimi decisamente “simili” ai nostri ragazzi.
Sullo sfondo di fasce generazionali marcianti con immagini e a ritmi difformi, ho visto delinearsi, in tutta la sua smagliante bellezza e forza attrattiva, l’ambiente naturale del Paese delle Aquile, ricco di montagne verdeggianti e innevate e di spiagge incontaminate, con fondali pescosi. Non c’è che dire, anche siffatto, spettacolare habitat stimola a credere in un futuro migliore per i nostri dirimpettai.
A un certo punto, la scansione delle sequenze sul piccolo schermo mi ha letteralmente lasciato il segno dentro.
E’ successo quando il giornalista ha porto il microfono a un anziano di un piccolo villaggio del nord, nei pressi di Scutari e l’uomo, con la sua bella figura dalla chioma bianca e dal viso sereno e disteso, ha pacatamente confessato all’intervistatore di aver sempre lavorato attraverso la gestione di un piccolo molino alimentato da un torrente, riuscendo, con i relativi proventi, a mantenere la famiglia e a dare un futuro ai figli.
Verso il finale delle confidenze, per via di una semplice frase, il suo racconto è diventato addirittura ammaestramento: “attualmente il molino non mi costa niente e io non ritengo di trarne profitto e arricchimento a scapito dei miei compaesani: perciò, lo tengo semplicemente e gratuitamente a loro disposizione”.
Non c’è che dire, un modello di gestione aziendale, da parte di uno che ha faticato duramente, da definirsi certamente esemplare.
Personalmente, mi è venuto spontaneo di collegarlo ai tre forni a legna per cuocere il pane fatto in casa che, nel corso di generazioni, sono stati funzionanti nella mia piccola località natia e ora, purtroppo, sono soltanto un lontano ricordo: quanto sarebbe bello vederli riaprire, con libertà di utilizzo per ogni famiglia, così come avviene per il molino del nord Albania!
Semplici note su una minuscola realtà e, tuttavia, stimolo positivo per guardare vie più con occhi diversi alla gente che vive al di là di un braccio di mare.
Dal 16 al 23 maggio 2015, si terrà nelle sale del castello di Copertino, la sesta edizione della manifestazione “Il veliero parlante”, Mostra dei libri prodotti dalle scuole. Alla manifestazione, è stata invitata, dalla dirigente dott.ssa Ornella Castellano dell’Istituto “G.Falcone” di Copertino, la pittrice Laura Petracca, che partecipa insieme a Gian Piero Leo, un altro “artista a Bordo del veliero”.
Di Laura Petracca, che insegna “Disegno e Storia del Costume” nell’indirizzo “Abbigliamento e Moda” presso l’I.I.S.S. Polo Professionale “Don Tonino Bello” di Tricase, abbiamo già detto che a colpire è il cromatismo intenso delle sue pitture.
La natura che compare nelle sue opere non è raffigurata nello stile tel quel della tipica pittura verista ma viene reinventata,attraverso l’uso sapiente dei colori, trasfigurata dalla sensibilità calda e mediterranea di questa artista salentina. Così, ecco esplodere sulla tela l’immaginario pittorico forte e intenso dell’universo poetico della Petracca, il suo pennello segue i tracciati dell’anima, la sua rappresentazione palesa una interiorità profonda, un vissuto intimo ed esperenziale che conosce vastità, confini, emozioni, intrecci.
Laura Petracca realizza pitture su legno, pitture su stoffa (come abiti decorati, tende, coordinati e fiocchi per neonati o per carrozzina, coperte), fregi, specchi decorati e finanche poster, a testimonianza di una grande versatilità. Passa dal paesaggio all’astratto con estrema facilità.
Nella sua formazione artistica, molta parte hanno avuto il Futurismo e Fortunato Depero, per quella dinamicità del segno che le è congeniale. Ma fortemente influenzata è stata anche dagli astrattisti come Kandinsky . E notevoli e particolari sono i suoi omaggi a Klimt, a Depero, a Matisse, allo stesso Kandinsky. In alcune opere, pubblicate nel suo libro “Il senso dell’incanto” (Libellula Edizioni 2013), si assiste ad una sintesi affascinante fra vecchio e nuovo, fra la tradizione e lo sperimentalismo. Ammirando i suoi quadri, si può cogliere una rappresentazione polisemantica che tocca tutti i punti focali dell’arte e della vita e di entrambe fuse insieme.
Anche quelle esposte alla mostra “Il veliero parlante” sono opere astratte, d’ispirazione futurista . Insieme a queste vi è anche una realizzazione nuova, l’opera dal titolo: “Il veliero dei sogni”, che l’artista ha deciso di donare alla scuola. Un veliero, simile ai galeoni degli antichi pirati, naviga su un mare increspato di onde azzurre e blu ed un arcobaleno che dall’acqua si dirama nel cielo, in un sole giallo acceso forte intenso, simile a quello delle favole. Infatti è l’elemento favolistico ad avere ispirato alla Petracca quest’opera in cui accentua l’uso espressivo del colore. Questo veliero ci parla di antiche rotte corsare, di sfida del pericolo, di avventure per mare in quel tempo e in quello spazio sospesi che sono il regno della fantasia. Le dimensioni del reale si dilatano e il soggetto si fa aereo, immateriale, impalpabile come la materia dei sogni.
Questo veliero non parla solo ai bambini, pronti ad imbarcarsi per méte sconosciute, in viaggi di scoperta, ma anche ai grandi, affinché possano ritrovare la fantasia perduta, e insieme il coraggio di tentare, di andare oltre le apparenze e le quotidianità, per tornare a credere che non è tutto nel finito il senso di questa vita, ma che c’è qualcosa che va oltre il transeunte, per cui vale ancora la pena lottare con il coltello tra i denti: lottare per tornare a vivere.
Per evitare di essere accusato, questa volta totalmente a ragione, di voler guadagnare tempo passo subito al dunque e lo faccio nel modo più stringato possibile. Chissà se l’impaziente lettore-personaggio della puntata precedente sarà da tempo salpato verso altri lidi perdendosi lo spettacolo (!) della tempesta che sta per scatenarsi …
Se l’italiano è un senso e se io non sono ancora rincoglionito totalmente, con queste parole s’intende affermare (e far capire) che, se noi oggi leggiamo l’Arcadia del Sannazzaro, lo dobbiamo a Giovan Battista Crispo.
Ma si è chiesto l’autore della scheda come poteva essere trovato e salvato un testo che era stato già pubblicato con l’approvazione dell’autore1 nel 1504 a Napoli per i tipi di Sigismondo Mayr, cioè quasi cinquanta anni prima che il Crispo nascesse? Che senso ha improvvisarsi compilatori di schede con in calce corposissime bibliografie (quando ho notato questo, e non solo in Wikipedia, il più delle volte son rimasto colpito in negativo dalla scarsa o, addirittura, assente originalità del lavoro; evidentemente parecchi cosiddetti autori intendono l’apparato bibliografico come un espediente per allungare la brodaglia e scommetto che di tutti i libri citati non ne hanno letto o, quantomeno, consultato col cervello acceso nemmeno mezzo), quando poi si incorre in bestialità del genere?
– Ammesso che le cose stiano come dici, mi pare, comunque che la tua vocazione sia quella di criticare e demolire. Non puoi, una volta tanto, fare una proposta costruttiva? -.
Sentivo già la nostalgia di questa voce e temevo di aver perso quello che forse era stato l’unico lettore della prima parte. Continuo, perciò, con rinnovato vigore e rispondo con quello che, spero, si continuerà a leggere .
Premetto che quando critico qualcosa non lo faccio a priori o, come più efficacemente diceva il grande Totò, a prescindere. D’altra parte, la prova addotta, essendo di natura cronologica, non ammette repliche. Non sarebbe necessario aggiungere altro ma, per essere, come mi è stato chiesto, costruttivo, tenterò di capire (se fossi stato presuntuoso avrei detto di perdere il mio tempo …) da dove potrebbe esser nato il clamoroso errore. Lo farò con una sorta di albero genealogico, partendo dalla fonte più attendibile, cioè il Crispo stesso.
GIOVAN BATTISTA CRISPO
Vita di Giacopo Sannazzaro, op. cit. edizione 1593, s. p.
L’Arcadia di M. Jacobo Sanazzaro cavaliere napoletano colle antiche annotazioni di Tommaso Porcacchi, Francesco Sansovino e Giambatista Massarengo insieme colle Rime dell’Autore ed una farsa del medesimo non istampata altre volte. Aggiuntovi anche la vita dell’istesso scritta già da Giambatista Crispo, ed in questa edizione meglio supplita, corretta ed illustrata, s. n., Venezia, 1725, pp. XXIX-XXX (https://archive.org/stream/bub_gb_1Et7Un0VFGQC#page/n0/mode/2up)
Lascio giudicare a chi legge gli effetti di quel supplita, corretta ed illustrata (ma soprattutto supplita …) che ho sottolineato nel titolo. Il si conservano hoggi tutte sue composizioni latine, e scritte di sua propria mano … è diventato i libri del parto della Vergine e dell’Arcadia (per quanto si crede) scritti di proprio pugno dal Sannazzaro, con molti suoi acconciamenti, e varietà dagli stampari …
Per chi non lo sapesse l’Arcadia, a differenza de Il parto della Vergine (titolo originale De partu Virginis), non è scritta in latino e, ad ogni modo, il secondo brano, quello che fa parte dell’edizione supplita …) allude ad una copia manoscritta contenente le varianti degli stampatori, il che significa che essa è quanto meno successiva alla prima edizione, clandestina, del 1502.
… il Crispo è da ricordare anche in quanto trovò e salvò a Napoli l’Arcadia di Jacopo Sannazzaro.
Caro ipotetico lettore curioso e bravo nell’esercitare il tuo spirito critico solo contro i rimbrotti altrui, non ti sento più; sarai, però, proprio tu (ma forse eri il mio alter ego …) a dare nuovi sviluppi a quell’inquitante (al peggio non c’è mai fine) punto interrogativo?
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1 Nel 1502 era uscita a Venezia un’edizione clandestina per i tipi di Bernardino da Vercelli, ma sentite come l’autore lo strapazzò giustamente in una lettera inviata a Marc’Antonio Michele (in Opere volgari dei M. Jacopo Sannazaro, Bortoli, Venezia, 1741, tomo I, p. 202; https://books.google.it/books?id=jFM0AAAAMAAJ&printsec=frontcover&dq=SANNAZARO+OPERE+VOLGARI&hl=it&sa=X&ei=eqpPVaXLFov4UpPegIgL&ved=0CCgQ6AEwAQ#v=onepage&q=MICHELE&f=false): Se [lo stampatore] lo ha fatto per farmi onore, io non ne lo ho pregato, né devea esso (poiché mi era tanto famigliare) farlo senza farmelo prima sapere; se per farmi dispetto lo ha fatto, potrebbe ben essere che qualche dì cadesse sopra la testa sua; se si scusa farlo per vivere, vada a zappare, o a guardar porci, come forse è più sua arte, che impacciarsi in cosa che non intende: se si è guidato con quella grossera astuzia mandar fuori li falsi, perché io faccia seguire gli altri, resta ingannato. Le cose mie non meritano uscire fuori, e questo non bisogna che altri mel dica, che Dio grazia il conosco io stesso.
Il periodo finale, oltre che attestazione di modestia, è di un’attualità estrema: quanti, me compreso, farebbero bene a pensarci almeno due volte prima di rendere pubbliche, con la stampa o con la rete, le loro scemenze!
Ed eccolo un altro mercoledi. Questa volta è il 13 maggio e sotto la cupola che copre questa parte di mondo nulla di nuovo. Mancano 18 giorni alle elezioni regionali e una miriade di vermini si muove sul cacio della politica. Caterve di personaggi da operetta, degni delle magie di Houdini, si avvicendano su schermi, salotti e pagine di giornali. A chi urla più forte, a chi stimola di più un elettorato ignorante ed incazzato pronto a farsi fregare un’altra volta da chi la spar…a più grossa. La frase magica di questa campagna elettorale (come delle altre) sarà: “se vinco io il debito pubblico non lo pagherete mai!!!” e riceerà i voti e per mille giorni prenderà il possesso della cosa pubblica e alla fine se ne andrà e lascerà il debito più grande di quello che aveva trovato. Specialmente se continuerà ad affifarsi agli “economisti” che hanno messo il mondo in mutande. I debiti si pagano, prima o poi si pagano. Io lo posso dire tanto non sono candidato e voi lo dovete sapere. E votate chi lo sa e affronta i problemi sottovoce, sommessamente, con umiltà e con determinazione raccontando la verità. Chi urla e insulta ha solo quel vocabolario, forse divertente, sicuramente inutile.
Oggi me ne andrò in una pasticceria, a farmi raccontare storie dolci di dolci e proverò a raccontarle dolcemente. Nel mondo brutale e violento, fatto di tweet e di spot preferisco dilungarmi lentamente e con dolcezza. E’ più bello, più utile e, alla lunga, funziona meglio.
Spesso sento donne e uomini in alto scanno nominare il termine “paura”. Mia nonna mi diceva sempre “male non fare, paura non avere” e dunque io non ne ho alcuna di paura. Quelli che impugnano fucili e digrignano i denti mi fanno solo pena, e chi li spinge mi fa solo schifo.
Alla strada ragazzi, che mercoledi sia foriero di buone cose per tutti, soprattutto per chi ha paura.
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L’osceno del villaggio in 13.756 battute,spazi inclusi . “Glob, l’osceno del villaggio” era una trasmissione televisiva satirica trasmessa per diversi anni da Raitre la domenica in seconda serata e condotta da Enrico Bertolino. Il titolo parafrasava quello di un’altra trasmissione televisiva di grande successo, cioè “Blob” (tuttora in onda su Raitre) e inoltre il modo di dire “lo scemo del villaggio”, molto diffuso, soprattutto in passato, per indicare un personaggio un po’ eccentrico, un minorato mentale, presente nei piccoli paesini e oggetto di derisione da parte degli abitanti. Lo scemo diventa “l’osceno” per Glob, e il piccolo paese di provincia diventa il villaggio globale della moderna comunicazione di massa.
Ma che cos’è oggi osceno in Italia? Sono partito da questa domanda, quando ho deciso di attribuire il summenzionato titolo alla mia rubrica. Il dizionario Zingarelli fornisce dell’aggettivo “osceno” la seguente definizione: “che offende la moralità e il pudore; si dice specialmente di cose che si leggono o si guardano… molto brutto, indecente, licenzioso, scandaloso, sconcio, scurrile, vergognoso”. Insomma, la definizione è ampia, ma anche il concetto di moralità estensivamente interpretato mi porterebbe lontano dallo scopo di questo articolo. Diciamo che qui viene presa in considerazione l’idea di ciò che è bene e che è male più diffusa e comunemente percepita. Non parliamo del moralismo, che della morale,nella sua accezione negativa (di falso moralismo), costituisce una degenerazione, perché questo ci porterebbe ancor più lontano. Dunque, per molti oggi, osceni potrebbero essere i raggiri, la frode,l’imbroglio,il plagio, gli intrallazzi e gli affari illeciti in genere. Per molti, l’osceno del villaggio è il manager pubblico con super stipendio, con il quale arrivo a 1813 battute. Per altri, oscene sono la vacuità degli scrittori e le presentazioni letterarie definite sempre “eventi” ma che spesso sono piccole e tristi autopromozioni. Per me, osceno potrebbe essere il pubblico sempre disposto a farsi turlupinare dai mercanti dell’industria culturale italiana e da quei geni, i fenomeni da baraccone, che con i loro salti doppi, le piroette e gli inchini, esaltano la folla nel gran circo mediatico della nostra penisola . L’Italia è piena di Turlupin, come si faceva chiamare il comico del Seicento Henry Legrand, ossia di furbastri bravissimi a gabbare gli ingenui. Ah, i libri degli scrittori di successo… Grazie ad un enorme battage pubblicitario messo in piedi dalle case editrici ad ogni nuova pubblicazione, anche chi non ha mai letto un rigo di un determinato libro penserà di conoscerlo e anzi ne serberà un’ottima impressione; alla fine, l’ autore, per il pubblico medio dei lettori, conseguirà un’aura di bravura che lo accompagnerà per tutta la carriera, facendogli vendere “paccate” di libri. Come dice Villers de L’isle Adam : “ogni successo ha la sua ombra, la sua parte di frode, di meccanismo, di nulla, che si potrebbe chiamare la tattica, l’intrigo, il saper vivere, la Pubblicità. Insomma, la claque!” . Ho usato prima un termine molto colorito, “paccate”, che potrebbe far storcere il naso ai puristi della lingua, come io storco il naso quando sento chi dice “ti amo di bene”, insulsa espressione molto usata fra i giovani. Per qualcun altro, osceno potrebbe essere il pirla milanese che sta coi Blackblock, e che insieme ai suoi decerebrati compagni, spranga e sfascia, spacca le vetrine e dà fuoco alle macchine ma non sa nemmeno perché sta protestando.
L’osceno del villaggio, per molti, quasi per tutti, è il mariuolo, l’imbroglione patentato. In effetti, osceno è il costo della corruzione in Italia, secondo alcune stime pari a 60 miliardi di euro. Secondo i bilanci della Guardia di Finanza, cinque appalti pubblici su dieci sarebbero irregolari. Osceno è l’ammontare dell’evasione fiscale, fra i 120 e i 150 miliardi di euro che, sommati a quelli della corruzione, danno una cifra da capogiro. La più modesta somma delle mie battute invece è pari a 4038.
Venendo alla televisione, “cattiva maestra”, secondo la famosa definizione di Karl Popper, per me osceno potrebbe essere l’ospite fisso delle trasmissioni televisive, che dice la propria su ogni argomento dello scibile umano, e per il quale è stato coniato il termine “opinionista, che rappresenta la trans avanguardia della categoria dell’imbecille televisivo. “Potrebbe essere”, ho pocanzi asserito, ma senz’altro “è” oscena la televisione del dolore, che fa sciacallaggio dei morti ammazzati e ci costruisce puntate su puntate,perché lo share si alza e l’audience premia. Certo, da “Telefono giallo” a “Quarto Grado” e a “Pomeriggio Cinque”, la deriva è stata inarrestabile e il cinismo degli autori televisivi non ha conosciuto confini. Come la gente che trascorre ore ed ore in diretta nel salotto pomeridiano di Maria De Filippi, si innamora per finta, si fidanza e scopa per finta, si sfidanza e si insulta sempre per finta. E a proposito: qualcuno si meraviglia del fatto che i due mediocri e banali inviati di “Striscia la notizia”, Fabio e Mingo, siano stati allontanati dalla trasmissione? Fingevano anche loro, è chiaro! Costruivano interviste e filmati posticci, come quello fatto dalla giornalista di “Mattino Cinque” alla ragazza rom che afferma di guadagnare rubando 1000 euro al giorno e che questa sia l’occupazione più bella del mondo, specie se a danno di una vecchia che tanto deve schiattare comunque. Ma d’altra parte, Fabio e Mingo, così come gli altri inviati di Striscia, come potrebbero non mandare servizi finti in una trasmissione che è essa stessa del tutto finta? E siamo così a 5662 battute. Olè! L’etimologia del termine osceno viene dal latino obscenus o obscaenus,ossia “di cattivo augurio”, poi successivamente “turpe, laido,indecente”. Osceni sono i talk show politici, come “Ballarò” o “Di Martedi”, “Piazza Pulita” o “Quinta colonna”, che si trasformano in una passerella di narcisi, come giustamente accusa Aldo Grasso, vengono riempiti di contenuti fino all’inverosimile ma al pubblico non rimane niente se non un’indigestione di parole, concetti e numeri. Osceni per me sono i social network dove circola la spazzatura del mondo che galleggia, come su un mare nero, la mucillagine. Osceno, non il mezzo in sé, ma l’uso che se ne fa. Soprattutto Facebook diventa ricettacolo delle più retrive abitudini, delle mode più cretine, delle più squallide barbarie verbali che menti di folli, psicopatici, repressi, mitomani, possano concepire. Ognuno si sfoga sul social, vomitandovi tutto il marciume della propria anima ributtante. Oscene, le guardie penitenziarie che, al suicidio di un detenuto nel carcere di Milano, commentano “meglio così, uno in meno”. Osceni, i rimborsi pazzi dei consiglieri regionali, le feste dei consiglieri laziali vestiti da antichi centurioni romani, le mutande verdi, la nutella, le gomme da masticare messe a rimborso da quelli lombardi, o ancora le cene da migliaia di euro, e poi i cocktail a base di mojito, campari e negroni, del “Trota” Renzo Bossi, o le creme anti age e il libro “Mignottocrazia” di Paolo Guzzanti della consigliera Nicole Minetti.
Per tanti italioti oscena è la classe politica tutta, senza distinzione. Naturalmente, più ci si sposta sulle estreme della rappresentanza politica, destra e sinistra, più è facile che gli umori si scaldino e che il dissenso cresca nei confronti dei partiti di governo. Questi ultimi invece, nel catalizzare il consenso, producono anche una sonnolenta acquiescenza nell’elettorato, una condiscendenza tipica del servo sciocco o del cortigiano che per natura tende ad adulare il potente. Osceni sono il populismo e la becera demagogia di alcuni politicanti di casa nostra. Gli attacchi all’Europa diventano il cavallo di Troia di una classe politica che cerca di legittimare sé stessa screditando l’avversario. Agitare poi lo spettro di un nemico esterno, che siano i burocrati dell’Eurozona o gli zingari dell’est oppure ancora i nordafricani che arrivano sulle carrette del mare , strumentalizzare queste paure ad uso interno, aggrava soltanto la situazione e allarga il divario fra la buona politica e l’improvvisazione degli “Stenterelli“. Peraltro, puntare sulla paura per aumentare il consenso è quello che fanno i tiranni. È osceno mandare al parlamento europeo dei rappresentanti politici che nell’Europa non credono, Stenterelli appunto, come la maschera tradizionale, cioè poltroni e faceti che in parlamento nemmeno si presentano e pensano di risolvere con l’arguzia le notevoli defaillances dovute alla loro impreparazione. Che senso ha mandare sui banchi di Stasburgo e Bruxelles dei politici impresentabili, ignoranti, disinteressati o razzisti? Almeno questi ultimi, in quanto agitati permanenti, spesso inscenano delle manifestazioni rozze e volgari che (de)legittimano la loro folkloristica e pulcinellesca presenza. Ma quelli dei partiti di maggioranza che non hanno alcun interesse al futuro della Ue ma solo al presente del loro collegio elettorale? E allora, come diceva il buon Antonio Lubrano, la domanda sorge spontanea:sono più osceni questi politici oppure gli elettori che li votano? Le 9213 battute impiegatefin qui non ce lo dicono.
Quando in alcuni frames di Blob tratti dalle varie trasmissioni televisive, la telecamera va a posizionarsi su certi particolari anatomici dei soggetti che parlano, per esempio sulla bocca o sul naso, sui capelli, ecc., Ghezzi e Giusti fanno un’opera di decostruzione che è sospesa a metà fra l’iperrealismo e l’astrazione. Così quando negli ultimi tempi oscurano i volti dei politici con della nebbia,nelle loro intenzioni essi, ammantando nella nebulosità lo sconcio dei parlanti, vorrebbero antifrasticamente porre ancora più in risalto lo sconcio stesso, l’ oscenità delle loro facce equiparate al culo o al pene. In realtà, secondo me, la loro operazione di velare i volti dei rappresentanti politici è più oscena dei volti stessi . Così come quando un bollino nero copre le pudenda degli attori porno, come avviene per esempio nelle trasmissione “Le Iene” che sempre più spesso si occupa del mondo dell’hard, il bollino nero è più osceno delle “scene” di sesso. Nel senso che toglie rappresentazione ad una sequenza pornografica che è già di per sé assenza di rappresentazione, se vogliamo stare alla definizione etimologica che Carmelo Bene ha dato del termine osceno (anche se questa non risulta da nessuna fonte ufficiale), dal greco “o-skenè”, cioè che è fuor di scena: “o” sta per alfa privativo e “schenè” , scena. “L’osceno è sacro” per Dario Fo, che ha così intitolato un suo libro, ma in questo caso il concetto viene dilatato e adattato alla riflessione, a metà fra il comico e il sociologico, dell’attore teatrale.
Sul concetto di osceno nell’arte, ovvero su ciò che è arte e ciò che è solo volgarità, si scrivono trattati di estetica. La storia più recente è piena di opere che hanno diviso pubblico e critica, destando pareri discordi, contrapposti. Prendiamo la mostra del fotografo David Lachapelle, grandissimo artista del surrealismo pop, che si tiene in questi giorni a Roma (“Dopo il diluvio” al Palazzo delle Esposizioni).
L’artista è osannato come un genio, ma io mi chiedo come la gente possa andare a vedere queste cose e stupirsi. C’è davvero qualcuno che si scandalizza perché viene rappresentato un Gesù gay in delirio sadomaso? Dopo “Jesus Christ superstar “, è ancora possibile attualizzare la figura di Cristo in maniera credibile, innovativa e, diciamo, artistica? E poi , c’è un’icona gay più gay del San Sebastiano trafitto dalle frecce? Già i pittori rinascimentali se ne erano accorti e D’Annunzio, nel Martyre de Saint Sébastien, con le musiche di Claude Debussy, fece interpretare il martire cristiano da Ida Rubinstein, ballerina bisessuale russa, scatenando una violenta reazione da parte della censura. E si era solo nel 1911. Come si può essere originali oggi, negli anni Duemila? Si può operare una rivisitazione ( dichiarata negli intenti) dei classici, dei grandi del passato. Ma a mio avviso, queste cose, come la Madonna che piange sperma, esposta a Bologna qualche anno fa, Cristo sulla sedia elettrica di Paul Fryer, il Gesù immerso nella pipì di Andres Serrano, o il Cristo rana crocefisso di Martin Kippenberger, non sono oscene, ma solo ridicole. Almeno a me fanno molto ridere. E intanto, conto 12.424 battute. Rientra perfettamente nella definizione di osceno la pornografia. L’industria (non a caso definita tale) del porno offre una visione del consumo sessuale fine a sé stessa, senza alcuna mediazione artistica, come avviene nel cinema erotico. Cioè, l’atto sessuale viene prodotto meccanicamente dagli attori e meccanicamente filmato, senza essere filtrato dalla sensibilità di un soggettista, dalla visione del mondo di un regista. In questo senso, al porno si può applicare la definizione data da Carmelo Bene di “o-schenè”, assenza di scena. Nel porno, oggetto e soggetto si fondono insieme giungendo a quella che Bene definisce “oggettità carnale”. Ma Flavio De Marco, studioso di Carmelo Bene, va ancora oltre e afferma che questo osceno non è trasgressivo ma solo sconcio e ridicolo. Nell’atto sessuale infatti vi è una transazione, come nel rapporto con le prostitute, e dunque una rappresentazione ben codificata e in ultima analisi borghese. Insomma è innegabile che, se appena si esce fuori dal tracciato, ci si allontana dalla comune morale, l’osceno può anche attrarre e anzi mostrare un potere di seduzione davvero diabolico. E se si vuol fare un pieno di volgarità e sconcezze, basta andare nella sezione “Cafonal” del sito di Dagospia. Ed io sono giunto alle prefissate 13.756 battute, spazi inclusi.
Stava male mamma, molto male…comunque, quando volevo c’era quel filo che mi permetteva di sentirla anche poche parole, ma sapevo che c’era e andava bene così.
Mentre telefonavo, un pensiero improvviso mi colse… sopravvenne inatteso e non mi abbandonò finché, come al solito, non lo riversai su questo foglio.
“Come sarebbe bello “ pensai, se anche dopo la dipartita, rimanesse un filo di collegamento con l’aldilà e si potesse continuare a” telefonare” ai propri cari e risentire la loro voce, percepire il loro respiro e sapere che ancora ci sono per noi…sarebbe bello, bello davvero e tanto confortante per chi resta!
Purtroppo la Morte, per ognuno, quando arriva, arriva e ora che mamma non c’è più, il telefono tace, sussulta la voce del cuore…
A proposito della morte ecco quanto viene riportato in un brano di Ettore Vernole[2] “La morte nelle tradizioni popolari salentine”[3]:
“ […] Riporto […] integralmente un testo di poesia che ha il pregio di essere dialogata, ha notevoli arguzie nella vana bellicosità di un Pontefice, negli allettamenti che adopera una regina, nell’offerta di denaro per provvista di camicie e fazzoletti per rivestire la Morte effigiata ignuda, nella parola strambottesca “Scardàllasciu”( la quale allude allo “scardare” delle dita sulle corde della chitarra, ed allo “sciare” deipiedi nella danza, […] ) nei vari e vani tentativi dei medici, neutralizzati dalla miscela della “serpentina”. Era questa serpentana una medicina dell’antica farmacopea, […] a base di effetto vermifugo e soporifero, forse l’erba “serpentaria” ( Aristolochia)[4] dal sugo letale pei rettili e salutare contro le morsicature di essi.
Ecco il testo ( della poesia) nella variante gallipolina:
Nu giurnu a Roma me nci ‘cchia na fiata
e nu forte fracassu jeu nci fici…
lu Papa me mprumise grandi cose
lu lassu n’addu picca a quistu mundu
Jeu nde dissi: Beatissimu Padre
Tu, ci pensi sti cose, si nu pacciu!
– Morte, de fronte a te mintu n’armata,
ogni surdatu ‘te sia nu Satanassu,
e jeu me piju na valente spada,
quando te cucchi, tandu jeu te m’azzu!…
– E jeu portu quistu miu faggione
Ci trunca de vicinu e de luntanu!…
Ippi na chiamata a Burtugallu,
addu nciete forti fràbbrichi de sassu:
Addai nc’era na Rigina ‘ncurunata
Tra musiche, trionfi e scardallasciu,
jeu salii e nde lippi salutata:
– Addiu Signura de stu gran palazzu!
E subitu me oze dumandare:
– dimme ci sinti? Ca jeu n unte sacciu!
– Jeu su la Morte, e su la Morte sgrata,
su banuta ‘te portu ‘nparadisu a spassu!
– Sùbitu me tira una seggia ‘ndurata:
– ‘ssèttate, cuntamu lu tiempu cu passa…
– Tegnu na quanti tate de danaru
ci gnòrima l’ha ‘cquistatu cù suduri:
o Morte te lu oju regalare
cu te faci camise e mucca turi!
– E lu miu caru Re a ci lu lassu?
– Rigina, nun te serve stu lamentu,
ca te lu libbru nun pòzzu te nde scassu,
li danari li dài ‘llu Sacramentu
ca an celu te porta lu Spiritu santu!
Eccu la Morte sgrata se nde scìu
E la Rigina a lu liettu se mintìu:
li mèdici ordinàene la medicina,
la morte nci ‘mbiscava la Serpentaria!
E la Rigìna poi se nde murìu
E lu sou caru Re gran piantu facìu!…[…]
Traduzione
– Mi ritrovai una volta a Roma
E successe un gran trambusto …
Il Papa mi promise grandi cose
per rimanere ancora su questo mondo.
Io gli dissi: Beatissimo Padre
se pensi queste cose siete pazzo!
– Morte di fronte a te schiererò un’armata,
ogni soldato un diavolo,
io mi armo di una forte spada
e quando t’avvicini ti ammazzo!
– Io posseggo questa grande falce
Che tronca da vicino e da lontano!…
Ebbi una chiamata in Portogallo
Dove c’è grandi fabbriche di pietra :
qui c’era l’incoronazione di una regina
Tra musiche, trionfi e balli:
io salii e andai a salutarla:
addio signora di questo gran palazzo!
E subito lei mi chiese:
– dimmi chi sei? Che non ti conosco?
– Io sono la Morte, sono la morte ingrata,
sono venuta per condurti a spasso in Paradiso!
Subito mi scagliò una sedia dorata:
– siediti, contiamo insieme il tempo che passa…
Posseggo tanto denaro
Il mio signore l’ha accumulato con sudore:
o morte te lo voglio regalare
per confezionare camicie e fazzoletti!
– Regina per questa volta fanne a meno!
– e il mio caro Re a chi lo lascio?
– Regina non serve lamentarsi,
dal libro non ti posso cancellare,
il denaro lo darai al Sacramento
che in cielo ti accompagna lo Spirito Santo!
Ecco la morte ingrata se ne andò
e la regina si mise a letto.
I medici ordinarono la medicina
La morte mischiò la Serpentana!
La regina in seguito morì
E il suo caro re a lungo pianse.
[2] Storico gallipolino, nato a Gallipoli bel 1877
Anche il progresso tecnologico ha, come qualsiasi contingenza della vita, aspetti positivi e negativi. Così le macchine, da un lato, ci hanno liberato da sforzi non solo fisici ma anche mentali, dall’altro hanno favorito la sedentarietà fisica e cerebrale e, con l’automazione spinta, una riduzione impressionante dei posti di lavoro, da un lato hanno introdotto nella produzione dei beni uno standard qualitativo, dicono, altissimo, dall’altro hanno prostituito la creatività e l’originalità al mercato, tra l’altro spacciando e imponendo con forme pubblicitarie, dicono, sempre più sofisticate (ma se l’utente avesse conservato un minimo di capacità critica e un pizzico di libertà, per non dire di strafottenza, rispetto al comportamento dominante, si sarebbe accorto da tempo della loro rozzezza …) il superfluo come bisogno, in linea con la generale globalizzazione ed omologazione che, credo, qualche figlio di buona donna fra poco considererà sinonimi di fratellanza universale, nonostante il proliferare, già nei singoli paesi, di conflitti di ogni genere.
Se tornare indietro è difficile, anzi impossibile, a meno che non ci si riferisca alla scomparsa in tempi più o meno lunghi della nostra specie …, sarebbe però necessario, proprio in un’epoca in cui i cinque sensi contano più dei sentimenti (quelli nobili …), recuperarne almeno due, non facenti parte della fisiologia, in passato decisamente sviluppati: quello qualificato come buon e quello della misura.
Applicando l’uno e l’altro, infatti, si eviterebbe, per esempio, di sprecare litri e litri di acqua per lavarsi, magari, l’unico dente rimasto e, con l’acqua, anche l’energia elettrica e il detersivo (con tutte le conseguenze per l’ambiente che esso comporta) per mettere in lavatrice, in qualche famiglia succede, un paio di mutande e tre fazzoletti; eviteremmo di salire in macchina per andare a comprare le sigarette dalla rivendita che si trova a nemmeno trecento metri, di abbuffarci fino a scoppiare e poi di recarci ogni giorno in palestra …
A tal proposito trovo interessante che qualche competente studiasse il rapporto esistente in termini di gratificazione tra l’esercizio fisico connesso con il lavoro (cioè finalizzato alla realizzazione di un risultato produttivo, anche di natura economica) e quello “artificiale” che mi pare connesso solo con il benessere dell’organismo o asservito a criteri di natura estetica. Così, in rapporto all’argomento di oggi, la comparazione andrebbe fatta tra l’effetto degli odierni esercizi tesi a rafforzare la muscolatura delle braccia e quello esercitato in passato dallo stricaturu, cioè da quella tavoletta di legno con scanalature orizzontali utilizzata per trattare i panni prima della sciacquatura finale o come fase propedeutica al còfanu1. Per i più giovani: il trattamento dei panni consisteva non nell’assestare colpi su di loro con la tavoletta, ma tenendo immersa per metà l’una e gli altri nel limbu1 o nella pila, strofinarli dal basso in alto sulla tavoletta in modo che il contatto con le scanalature favorisse il rammollimento e l’espulsione dello sporco dalle fibre.
In attesa del buon fisiologo, oggi vi tocca sorbirvi, dopo il sociologo da strapazzo dell’inizio, il pessimo filologo di queste note di chiusura. Vanno di moda i tuttologi e volete che io, col cognome che mi ritrovo, possa restare a cuccia? Certo, siccome sono pure modesto, non pretendo di intendermi di tutto, ma di molto sì; polito, dopo la degradazione da Polito, per apocope diventa poli, che, come confisso (poli-), deriva dal greco πολύς (leggi poliùs)=molto; aggiungendo a poli- il confisso -logo, derivante pure lui dal greco λόγος (leggi logos)=parola, si ha polilogo che, se esistesse, significherebbe persona che sa parlare (intendersene è un’altra cosa …) di molti argomenti. Se, invece, al mio cognome degradato ma non mutilato aggiungo -logo, vien fuori politologo col significato di studioso, esperto di politica; questa volta la voce esiste, ma, ammesso pure che lo fossi, darei la più alta prova di intelligenza impiegando il mio tempo nello studio di altri temi …; tuttavia, come faccio a non riconoscere che i miei giochetti di parola sono una miseria di fronte a quelli del presidente del consiglio dei ministri (così evito di scrivere con l’iniziale maiuscola presidente e consiglio …), soprattutto dopo il recentissimo L’Italia non è finita, l’Italia è infinita?
Da dove deriva, allora, il nome di questo oggetto di archeologia domestica, cioè la voce stricaturu? Dal participio futuro (extricaturus/extricatura/extricaturum) del verbo latino extricare=liberare, cavar fuori con difficoltà, composto da ex=fuori+tricae=noie, fastidi. Alla lettera, dunque, stricaturu significa strumento per cavar fuori con difficoltà. Questa tecnica di formazione è consueta in nomi indicanti strumento: minaturu=matterello, da minàre=buttare; stindituru=stenditoio, da stindire=stendere, etc. etc. I fastidi che con lo stricaturu si cavano fuori con difficoltà, cioè a forza di braccia, sono costituiti dalla sporcizia. Voci correlate con tricae sono in italiano: stricare/strigare, intrigare, intricare, districare.
Il titolo contiene un’inesattezza. Quando ancora si usava lo stricaturu (fino agli anni 60 del secolo scorso) la lavatrice era già stata inventata da un pezzo, solo che quasi nessuno ne conosceva l’esistenza e l’economia di scala avrebbe fatto sentire i suoi effetti solo nei decenni successivi. Mi pare doveroso aggiungere che i primi esemplari di lavatrice (apparsi alla fine del XIX secolo), mossi prima a mano, poi con l’energia elettrica, basavano il loro funzionamento sullo stesso principio della nostra tavoletta: lo sfregamento; solo che la macchina, non sentendo la stanchezza (la sentiva però chi la manovrava a mano; il problema non si poneva per il modello elettrico) e non avendo neppure la sensibilità delle nostre mani, causava un rapido logorio dei tessuti. Poi sarebbero venuti i modelli ad agitazione con una caterva di detersivi (che hanno sostituito il vecchio sapone fatto in casa) per tutte le esigenze e gli ammorbidenti che sarebbero capaci (ma, insieme con i detersivi, a che costo per l’ambiente?) di rendere carezzevole e leggero come una piuma perfino il tocco della carta vetrata a grana grossa …
Quando alla fine dell’Ottocento Cosimo De Giorgi visitava il Capo di Leuca, nei suoi Bozzetti di viaggio sarebbe stato bello capire cosa percepiva di quello che oggi a brandelli rimane.
Gli effetti sensoriali di appagamento del promontorio del Calino o di Torre Sant’Emiliano ribaltiamoli nella loro dimensione interna ed agricola che appena ancora si legge nella solitaria Montesardo.
Forse posso provare ad immaginare cosa provasse il De Giorgi. Fermiamoci ogni tanto a riflettere che tolta l’erba e la terra, abbiamo perso per sempre un patrimonio volatilizzato per le generazioni future, “fumato”.
A chi continua a parlarci di tessile e calzaturiero manca la consapevolezza che la politica ha il dovere di migliorare la percezione, e con essa la preferenza dello spazio in cui viviamo, dandogli una connotazione particolare di luogo: è l’unica cosa su cui non si può essere liberi di spadroneggiare.
E lo si fa con la ricerca e non con la supposizione ignorante che cemento e “cuasette” siano il futuro. La strada è in salita ma ce la si può fare.
La vita del protagonista, un medico già stressato perché ha da poco cambiato lavoro, viene ulteriormente complicata da una serie di fatti, naturali e innaturali. Un caro amico, col quale egli ha condiviso merende e battaglie, è sparito dalla circolazione senza lasciare tracce . La notizia di un terremoto, quello dell’Irpinia, lo coglie poi in un locale, mentre per caso ascolta attonito la trama di un racconto, il “Fantasma d’amore” di Mino Milani, che parla dello strano ricomparire di una donna morta da anni. Nei giorni successivi viene trascinato in una improbabile spedizione di medici nell’Irpinia terremotata. Qui, di notte, assiste ad una sorta di decamerone moderno, ove soccorritori di varie provenienze fanno outing della propria esistenza. Nelle pause, il nostro protagonista legge un manoscritto, il trabajo informe, unica vestigia dell’amico sparito, che ne è l’autore. In più, un incontro gotico in un cimitero irpino dà una svolta alla storia, lasciando intravedere agghiaccianti punti in comune tra il Fantasma d’amore, il trabajo informe e la sparizione dell’amico. C’è come qualcosa di impalpabile in questa vana ricerca di un amico, ombra di un passato segnato da un qualcosa che sino alla fine si stenta a focalizzare. Ma è un’ evanescenza che nel susseguirsi di eventi, esperienze, coincidenze, concomitanze, orrori, si erge a metodo, fornendo una chiave per cercare di comprendere il lato oscuro delle cose, the dark side of the things…
Si tratta di una scrittura avvincente nella quale l’assemblaggio di episodi su uno sfondo di incertezza apre in leggerezza e libertà ad una vasta gamma di riflessioni che rendono protagonista lo stesso lettore.
L’AUTORE: Marcello Costantini (Calimera, 1955) è cardiologo, ricercatore, docente universitario. Vive e lavora a Galatina. Tra i volumi pubblicati: Cardiologia. Aspetti essenziali (Edizioni Mediche Italiane, 1990); Elettrocardiografia delle aritmie (Selecta Medica, 1994); Capire ed interpretare l’ECG (Mc Graw Hill, 1994); Terapia Antitrombotica (Centro Scientifico Editore, 1997); I quaderni del Pronto Soccorso: L’ECG (Mc Graw Hill, 1999); Aritmie. Un approccio ragionato ai disturbi del ritmo cardiaco (Mc Graw Hill, 1999); Manuale di terapia Antitrombotica. Basi fisiologiche e uso clinico (Centro Scientifico Editore, 2004);L’Elettrocardiogramma (Mc Graw Hill, 2006); Aritmie Cardiache (CEA- Selecta Medica- Zanichelli, 2012); L’elettrocardiogramma. Dalle basi fisiologiche alla facile interpretazione (Mc Graw Hill, 2012). Nel 2008 esordio in campo narrativo con Il rientro dell’impulso (Lupo). Nel 1998 Premio Targa Santa Cesarea Terme “per avere promosso il Salento fuori dai suoi confini” e nel 2006 Premio Zucca “per avere descritto la Sindrome di Galatina”.
Il libro sarà presentato VENERDI’ 8 MAGGIO 2015 ORE 19.30
presso la BIBLIOMEDIATECA “G. APRILE” – sala “A. Moro” a Calimera
Partecipano: MARCELLO COSTANTINI e MAURIZIO NOCERA
Buon giorno in questo sei di maggio 2015 che si annuncia molto caldo.
Lentamente ma inesorabilmente le tessere di un puzzle si mettono in ordine. I lavori procedono in casa, mia moglie li dirige magistralmente come sempre coordinandone lo svolgmento e facendo in modo che il tempo sia usato nel più efficiente dei modi. Così posso anche fare le mie visite nei luoghi della memoria sperando di poter contribuire alla sua conservazione e perpetuazione. Forse sono conservatore ma re…sto persuaso che il futuro buono ha salde radici nel passato.
E le minime soddisfazioni non mi mancano, minime certo ma impagabili. La cosa che mi stupisce ogni giorno è l’osservazione di tanta gente insoddisfatta, che ha il grugno e trasuda rabbia. Spesso mi è capitato di osservarla cercando di comprendere cause e ragioni di cotanta iracondia. E spesso ho dovuto concludere che la neglettosità deriva da una sopravvalutazione di sé stessi. Una diffusa credenza per la quale la propria condizione è dettata da: la sfiga, la società, gli africani, i ROM, le multinazionali, gli ebrei, i comunisti, il neoliberismo, la politica, i sindacati ma soprattutto da “loro” non meglio identificati. L’incapacità di autocritica è la ragione primaria dell’infelicità.
Oggi con il mio scout Marcello vado a fare la ricotta di capra, ci vengono anche Barbara, Cynthia, Milla e, forse, Giuseppe insieme a Giampiero e Rosario. Una giornata di lezione casearia manuale. Ecco cosa chiamo felicità. Ma io non ho una grande proiezione di me stesso. Tornare indietro di cinquant’anni e riuscire a comunicare questo pezzetto di vita vince il tempo. Rende immortali. E cosa può essere più ambito dell’immortalità, almeno temporanea?
Ecco miei cari amici, quando vi sentite infelici e feriti da un mondo ingrato cercate un luogo della memoria, recatevi li e pensate come eravate e cosa siete diventati. Ed è in gran parte merito vostro … Gli errori? Tutti li facciamo e, probabilmente, sono la nostra parte migliore se non siamo avvezzi a ripeterli!!!
P.S.
Esiste il bene e il male, il bene si chiama conoscenza, il male ignoranza.
E poi esiste il sogno di una seconda vita nella quale compiere nuovi errori e vivere nuove passioni, ma questa è un’altra storia …
Leggere fa bene. Leggere invece che guardare la tv, solitamente fa ancora meglio. Leggere con l’obiettivo di capire cosa ci succede intorno accrescendo la percezione del reale, in fondo, sarebbe il massimo. Leggere la quotidianità salentina cogliendone criticità e punti di forza, nel tentativo di invertire la rotta rispetto a quello che un manipolo di opportunisti chiama sviluppo, dovrebbe essere esercizio obbligato al giorno d’oggi.
Obbligato perché la sensazione è che si stia vendendo per sviluppo qualcosa che assomiglia più alla devastazione definitiva di un pezzo di mondo ad alta qualità territoriale. Sponsorizzando gasdotti, trivelle ed in un futuro non troppo lontano magari pure Ulivi Ogm, una fetta di politici, intellettuali in malafede e giornalisti politicizzati, legati alla concezione del territorio buono solo per gli affari, sono convinti che alla fine, come già accaduto in passato, la popolazione si farà abbindolare da quattro spiccioli. Pannelli fotovoltaici e le pale eoliche docent, ricordate vero? Nessuna progettualità condivisa alla base degli investimenti e soldi a pioggia come se non ci fosse un domani. Ed in effetti un domani non c’è stato, almeno energeticamente parlando.
Leggere la quotidianità legandola a doppio filo al recente passato ci porta ad uscire dai confini (ammesso che ancora ce ne siano) salentini e cercare di capire come sta evolvendo l’economia ed insieme ad essa i sistemi di sviluppo locale sostenibile in un mondo governato dalla globalizzazione. Lo so, sembrano parole grosse, ma vi assicuro che non lo sono per niente, si tratta solo di dirci in faccia qualcosa che in fondo è sotto gli occhi di tutti.
Il nostro piccolo ed accogliente Salento ha da sempre avuto un scarsa propensione ad immaginare qualcosa di diverso dal ristretto mercato turistico dei mesi di luglio ed agosto, l’economia locale sopravvive (a stento) alla crisi senza che nessuno si preoccupi di capire cosa c’è che non va. Non v’è traccia di qualcuno che ipotizzi, per una volta, il Salento come un unico attore economico in grado di interfacciarsi adeguatamente col mondo globalizzato in modo unitario, muovendosi da “Comparto Salento” invece che in ordine sparso, in piena aderenza alla dottrina economicamente imperante al giorno d’oggi: morte tua, vita mia.
Tutti sappiamo bene come l’economia nella nostra piccola territorialità poggi sostanzialmente sulle gambe di piccoli e coraggiosi imprenditori, la cui attività è indirizzata principalmente alla produzione locale di generi alimentari tipici e qualitativamente validi, dal vino ed olio di qualità (non voglio credere che davvero un insulso batterio fastidioso possa distruggere millenni di storia dell’ulivo nella nostra terra), passando per tutta una serie di produzioni agricole e vivaistiche a carattere esclusivamente biologico e la discreta capacità manifatturiera (che in questi ultimi anni sta soffrendo sotto i colpi di una crisi che riguarda prima di tutto l’innovazione delle metodologia di offerta più che le caratteristiche del prodotto finito). Il tutto valorizzato da un settore turistico in continua crescita le cui potenzialità sono tutte da scoprire. L’insieme di queste tipicità rendono l’idea del prodotto “Salento” nel suo complesso, lo stesso che negli ultimi anni numerose testate internazionali hanno elogiato come “il gioiello del sud” mettendo in evidenza, guarda caso, la qualità enogastronomica e l’ottimo stile di vita, arrivando a definirci edonisti. Non si capisce come mai un tale gioiello non debba approdare sul mercato globale anziché giocare una stupida partita d’azzardo contro petrolieri e faccendieri del gas, molto più in forma di noi sulla speculazione del territorio.
Arriviamo al nodo della questione, il ruolo delle istituzioni e della politica locale nel processo di sviluppo della nostra terra. Ci sarebbe da scrivere un libro sul perché non esiste un’idea di sviluppo sostenibile in Terra d’Otranto, ma ora ci interessa capire cosa non è stato fatto e da chi. Per capirlo basta ragionarci un po’ su, guardandosi bene intorno e “leggendo” a dovere quello che non c’è, non la miseria che hanno lasciato. Il Salento non ha mai avuto una classe politica al passo coi tempi, in grado di creare ricchezza diffusa valorizzando la piccola e media impresa. I politici locali non si sono preoccupati di creare infrastrutture che collegassero adeguatamente il Salento al suo interno creando catene di valore diffuso. Non si sono preoccupati di connettere questo finis terra con l’ambiente economico e sociale esterno, proprio quel mondo globalizzato che oggi ci vede un po’ come meta turistica di qualità un po’ come corridoio e magazzino per il gas e il petrolio europeo. Lo spirito imprenditoriale del singolo non viene valorizzato anzi peggio, se non funzionale al sistema clientelare di bassa leva, è osteggiato in tutti i modi quando non deriso dal popolare brusio di fondo che tutto critica e nulla sa coltivare e valorizzare. I nostri rappresentanti in tutte le sedi hanno tenuto più alla poltrona che allo sviluppo economico di lungo periodo, non hanno saputo creare infrastrutture culturali che portassero il prodotto Salento fuori dai confini regionali. In realtà non hanno nemmeno saputo immaginarlo il prodotto Salento, se non per una breve ed intensa campagna di marketing e merchandising (che è cosa diversa dall’infrastruttura culturale) sostenuta da alcuni operatori privati e denominata “Salento D’Amare”. Sappiamo tutti com’è andata a finire. Non è mai stato stimolato un processo collaborativo tra pubblico e privato in grado di mettere a valore conoscenze e capacità organizzative proprie del territorio. La classe dirigente salentina, di qualsiasi credo o colore politico, ha trasformato le istituzioni in comitati d’affari e centri di potere che “ti fanno il favore” invece che stimolare la crescita indiscriminata del territorio. In poche parole non hanno saputo dare slancio ai rapporti interni al Salento, creando collaborazioni a 360 gradi che imponessero reti di valore in grado di fare da cuscinetto anche alle crisi più dure.
Grazie al cielo i tempi stanno cambiando, il mercato sta cambiando e con esso la società salentina. La crisi impone un ripensamento generale della gestione delle risorse. Il ruolo delle istituzioni, rimodulato in chiave globale, è quello di fare da cerniera tra l’unicità di una produzione difficilmente replicabile in scala industriale e il resto del mercato globale, ormai sempre più libero da condizionamenti e vincoli legati a limiti culturali. La nascita della rete web ha rotto definitivamente i confini dei mercati locali mettendo in connessione domanda ed offerta come mai prima. Le informazioni viaggiano per il globo in modo del tutto autonomo, tanto che uno sversamento di petrolio in Adriatico dopo l’arrivo delle trivelle è probabile nel Salento quanto non lo fosse in Nuova Zelanda, Scozia, Usa, India, Cina o negli altri 75 Paesi in cui è successo dal 1910 ad oggi.
Globalizzare oggi vuol dire valorizzare il proprio locale e renderlo competitivo sul mercato mondiale, senza farsi fregare dalla politica della produzione di massa. Quella che vede contrapposta la pizza ad un happy meal, le trivelle alle immersioni a scopo scientifico o turistico, i prodotti tipici alla produzione geneticamente modificata. Oggi globalizzare il Salento vuol dire scegliere tra una meta turistica tipo villaggio attrezzato o crociera (produzione di massa) ed un sano week end tra gli ulivi. Vuol dire scegliere se fare del nostre coste un oasi marina incontaminata o l’approdo di tubature e piattaforme petrolifere. La decisione spetta a noi, ma dobbiamo essere pienamente consapevoli degli effetti delle nostre scelte e non farci ingannare da chi queste domande non se le pone, convinto com’è che il popolino si beve tutto e dimentica in fretta.
Il rapporto tra Locale e Globale si identifica oggi con un ritorno alla qualità del prodotto e del territorio, degli stili di vita come della cura del paesaggio. Tutto fa brodo, e che brodo. La qualità è valore che sempre più si impone nelle scelte di tutti i giorni e che lentamente sta prendendo il posto della quantità da accumulare, della cementificazione selvaggia di suolo, dell’utilizzo non sostenibile di materie prime quali carbone e petrolio, dell’uso della terra come bene da sfruttare al massimo e non come valore aggiunto da salvaguardare. Quantità, produzione di massa ed insostenibilità del modello economico occidentale sono le vere misure ad essere entrate in crisi all’inizio del 2007.
In quest’ottica parlare di Tap e trivelle in Adriatico o abbattimento degli ulivi a causa della Xylella fastidiosa diventa quasi una sfida: chi lascerebbe morire una miniera d’oro come questo Salento per prendersi quel poco che viene da una speculazione politica ed informativa a tutto vantaggio del profitto immediato e mai sudato, tipico dell’epoca in cui viviamo. Prima che questa terra diventi un deserto tutti abbiamo il dovere di fare quello che è in nostro potere per fermare lo scempio del territorio, magari cercando di riportare alla ragione quanti ancora parlano di sviluppo senza tenere conto delle reali potenzialità della terra che calpestano.
Continua la serie dei libri del Lion Rocco Boccadamo dedicati a fatti, personaggi, regole di vita del Salento, e non solo. È come una pubblicazione a puntate: si susseguono gli episodi e i personaggi di un ambiente che, mantenendo inalterate le caratteristiche di fondo, si rinnova continuamente con varie prospettive di una fra le più belle contrade mediterranee. Il titolo è attribuito dall’ultimo articolo della raccolta, “L’asilo di Donna Emma”. Dapprima è una figura femminile come altre, presta servizio in una famiglia benestante del luogo, ne sposa il figlio don Rafeli e acquisisce il titolo di donna Emma. La coppia si sistema “in un antico e artistico palazzotto della “Campurra” di Marittima”. Nel periodo di funzionamento della locale manifattura di tabacco le donne del luogo vi erano impegnate e donna Emma trasformò l’ambiente più grande “in asilo per i piccoli di Marittima”. Divenne una persona nota e rispettata, invitata a tutte le manifestazioni del luogo. Prima di passare a migliore vita don Rafeli e Donna Emma decisero di donare alla Chiesa la proprietà del palazzotto della “Campurra”, “che adesso, esteriormente integro nella sua antica bellezza, si presenta triste e vuoto”. La prima parte è quasi il diario del soggiorno dell’Autore per motivi di cura in Abano Terme e, se può sembrare l’introduzione al corpo dell’opera, in concreto allarga gli orizzonti geografici delle osservazioni. Rocco Boccadamo ha un’invidiabile incisività descrittiva. Le sue pagine uniscono significati etici che meritano ampia valorizzazione e vivacità espressive non comuni. La prefazione di Ermanno Inguscio ha, come tutto il libro, pregevole valore letterario.
Rocco Boccadamo L’asilo di Donna Emma Arti Grafiche Marino – AGM srl, 73100 (artigrafichemarino@libero.it), novembre 2014.
“Suggestioni un po’ crepuscolari / delle sedie misto-vimini In un caldo,estivo,pomeriggio / di un barocco sud” – Max Vigneri
Il cielo plumbeo di marzo è uno sfondo di cui farei volentieri a meno, ma è ciò che mi riserva questa mattinata leccese e mi devo accontentare. “Mentre fuori impazza il temporale, sto attento per le scale ché si può scivolare, … mentre fuori impazza il temporale, umani ed animali perfettamente uguali… Nina che danzi su una stella fra nuvole di pioggia e piene di umidità…” (Il temporale)
Ormai da noi piove sempre. L’ “Apulia sitibonda”di cui parlano le fonti storiche è solo un’immagine letteraria, la nostra regione non è più “siticulosa” come diceva Orazio, anche se rimane lo schifoso scirocco, “atabulus”, come lo definiva lo scrittore latino, perche portava la malaria. Il calpestio dei pedoni sull’antico basolato fra il Palazzo dei Celestini e la Chiesa di Santa Croce mi accompagna mentre mi dirigo al luogo del mio appuntamento. Gente che va, gente che viene, tutti in marcia verso il giorno che inghiotte ansie e stress, rancori e umiliazioni, successi e fallimenti. Il presidente di un’associazione ambientalista, megafono in una mano e volantini illustrativi nell’altra, tiene una improvvisata conferenza su fantomatici disastri ambientali, destando gli “evviva” di uno sparuto drappello di entusiasti e i cenni di consenso di due giapponesi in bicicletta protesi ad immortalare col loro telefonino qualsiasi infinitesimale byte di vita si muova sotto il cielo. Ma io ho dimenticato qualcosa in macchina e, smozzicando imprecazioni, sono costretto a ritornare indietro per prenderla. Attraverso la Villa Comunale. Passo in mezzo ai viali alberati, con un’espressione ordinaria, feriale, tipica di un giorno infrasettimanale. Fra i busti di Sigismondo Castromediano e Giuseppe Libertini, Cosimo De Giorgi e Leonardo Prato, due giovani seduti su una panchina si baciano appassionatamente, i due anziani di fronte a loro li guardano bonari, e sembra la scena di una pubblicità dei baci Perugina.
Il mio amico cantautore Max Vigneri mi aspetta in una bar di Piazza Sant’Oronzo. È già al secondo caffè. Il berretto di lana calato sulla testa per paura dei reumatismi, dice. “Ho ascoltato il cd, Max”, lo informo, “bello! Davvero” “Caffè Buda”, è il suo cd di esordio, uscito un paio di anni fa per Edizioni Musicali CittàFutura Lecce. Testi e musiche di Max Vigneri (Piazza Indipendenza), che non è un neofita, sebbene sia arrivato a pubblicare abbastanza tardi. Ma tardi, poi, per cosa, mi vien da chiedermi. Per lo star system? Per il successo planetario? O solo per “imbarcare” meglio e di più a fine serata? Il fattore anagrafico non può essere una discriminante, un limite, quando un artista ha qualcosa da dire e sa come dirlo. Può esserlo, forse, se si sogna di conquistare il grande pubblico, di entrare nei circuiti importanti, ma queste ambizioni appartengono alle boy band, ai cantanti da talent show, non ad uno come Vigneri, perso dietro ai suoi sigari e ai reumatismi. Max canta dappertutto, ovunque lo chiamino. Quello che mi colpisce nel suo album è il perfetto mix fra musica e versi, nel senso che entrambi sono bilanciati e ben sostenuti dall’arrangiamento, curato da Andrea Neglia. La sua voce, calda e graffiante, di primo acchito può ricordare quella di Paolo Conte, questo almeno è l’accostamento che a tutti vien fatto di portare quando lo si ascolta. Ciò potrebbe riguardare le parti basse, per una certa pastosità del suo timbro, ma non di sicuro le parti alte, gli acuti. Anzi, ad un ascolto meno superficiale, si capisce che di Paolo Conte la voce di Max ha ben poco: è sì abbastanza arrochita, ma non così gracchiante come se avesse ingoiato un rospo, gratta, ma non ha la carta vetrata nella gola come l’avvocato astigiano. Secondo me invece, è molto più simile a quella di Mimmo Locasciulli, glielo dico e Max sorride. È un artista interessante, sospeso fra la scuola del cantautorato italiano e lo swing, con notevoli e riconoscibili influenze jazz e blues. Ha esperienza e un bagaglio di vita vissuta, come chi ha superato da un pezzo gli “anta”, e questo si riflette nella sua produzione.
Nell’angolo dell’Anfiteatro Romano, due ragazzetti, sculture viventi di tatoo e piercing, intrecciano i loro nomi ad un lucchetto che appendono alla colonna degli innamorati e la voce melodiosa di Tito Schipa dal Bar Alvino vola nella Piazza Sant’Oronzo, in una mattinata pallida ed emaciata, che trasmette l’idea di giorni banali, non vissuti.
La canzone “Quante storie” parla del diavoletto da cui è posseduto il musicista, mentre “Marta ha 10 anni” è una delicata composizione dedicata alla figlia, che supera brillantemente la prova melassa, poiché il rischio del retorico, quando si scrive una canzone del genere, è più che concreto. In “E’ quasi l’alba, un uomo ritorna a casa inseguito dai ricordi e dai rimorsi di una vita strascinata, come i suoi passi lenti sull’asfalto del nuovo giorno. “Sai Max, se proprio dovessi fare un accostamento, perché qualcuno me lo chiedesse nel recensire il tuo disco…” “Come? Hai detto disco?” , sussulta, mentre gira lo zucchero nel caffè. “ Scusa, volevo dire cd (“dal vinile all’mp3, ne abbiamo viste di rivoluzioni io e te”, canta Renato Zero), insomma se proprio mi si chiedesse di dare un riferimento al panorama musicale nazionale, farei il nome di Jimmy Villotti, che conosciamo in due, tre in Italia, credo”. “ Il chitarrista di Francesco Guccini e di Paolo Conte”, mi viene incontro Max, “Invento splendori d’autunno, La crema”, e inizia a snocciolare alcuni titoli di Villotti. “Ma come, lo conosci?”, gli domando strabiliato, e subito mi rendo conto di aver così boriosamente sopravvalutato le mie competenze musicali. I due brani più belli del disco sono “Caffè Buda” e “El Cid”. Il primo brano, che è poi il pezzo portante del lavoro, fotografa la movida, cioè lo struscio tipico di una grande città i cui avventori “Martoriavano granite fredde Inespressivi e snob”e ancora “Percussioni sopra marciapiedi di tacchi da 15/ nella seta si perdevano gli sguardi inebetiti e atonici / donne afone da logorroici temi / su inquietanti amenita’”. In effetti, il caffè Buda, caro alla memoria dei leccesi più anziani, era un bar che si trovava proprio al centro di piazza Sant’Oronzo, dove è oggi la sede della banca Monte dei Paschi di Siena. Ma si tratta anche di un topos letterario: il Caffè Buda per Max corrisponde a quello che il Roxy Bar rappresenta per Vasco Rossi, il Mocambo per Paolo Conte, il Bar Mario per Ligabue, un punto in cui si incontrano personaggi, storie e vicende, un luogo fisico ma anche dell’anima, come il “Castello dei destini incrociati” di Calvino. “El Cid” si ispira alla figura dell’epico condottiero spagnolo, Rodrigo Díaz de Vivar, protagonista dei cantari del 1100 durante il periodo della Reconquista spagnola, ma quello di Vigneri è “un cavaliere errante … Conquistador di amazzoni di poca fede disfattiste e conflittuali biforcute e cerebrali al limite del count-down”. In questo brano, Max canta di “fuochi pirotecnici e scintille e linee maginot”.
Quello che mi piace di più di Max Vigneri è che non assomiglia a nessun altro del panorama musicale salentino, in cui impera la riproposizione della tradizione musicale nostrana nel segno della pizzica. Max non fa folk revival, non infarcisce le sue canzoni con suoni tarantati o dialettismi, i suoi testi sono scritti in un italiano corretto ed essenziale; un lessico, il suo, non ricchissimo ma denso, evocativo, come i suoi “manichini di Cocò Chanel” e le sue “storie di patetici pierrot”. Le sue radici salentine sono forti e tradite, nel parlato, dal forte accento leccese, intrecciate alle sue note swingeggianti, mescolate alle sue “gocce di adriatico e malvasia”, ma la sua appartenenza geografica non viene sbandierata nel cd; Lecce ed il Salento non sono mai citate nelle canzoni e, a mio avviso, è questo è il punto di rottura, l’originalità di questo chansonnier un po’ sornione, ad un tempo svagato e puntuto, giocoso e engagé.I testi sono minimalisti, ma le atmosfere sembrano quelle alcoliche di un night in una notte piovosa con i vetri che si appannano e il ghiaccio che si squaglia nei tumbler, il fumo che sale lento disegnando bizzarri ghirigori nell’aria opaca. Interessanti anche “Comprati un sogno” e “L’abbandono”.
È già pronto e sarà a breve pubblicato, il suo secondo cd che, a giudicare dalle nuove canzoni che ho ascoltato e che si trovano in rete sul canale youtube, sarà ancora più convincente. “Vado Max, gli impegni mi chiamano e fra poco inizia a piovere”. “Ci vediamo in giro, vieni a trovarmi per ascoltarmi dal vivo”, mi saluta, invitandomi ad una delle prossime date in qualche locale perduto nella nostra provincia infinita e mutevole.
Se la traduzione in italiano riuscisse a conservare quello che nell’originale sembra, ed in fondo è, con la ricorrente allitterazione, un gioco di parole, il titolo potrebbe essere un valido slogan pubblicitario per uno dei prodotti alimentari tipici del Salento. Chi ha rovinato le sue papille gustative (e non solo quelle …) consumando, magari per decenni, uno dei tanti formaggi spalmabili di produzione industriale, non si lasci prendere dalla voglia di assaggiare: resterà, molto probabilmente deluso se non disgustato, inconsapevole che con le sue abitudini alimentari si è precluso la possibilità di godere di questo come di altri piacevoli sapori. Se, invece, nonostante tutto, la compromissione delle suddette papille non è stata totale e dovesse, perciò, apprezzare la nuova esperienza ed essere disposto a ripeterla ogni volta che se ne presenti l’occasione, non disdegnerà neppure di saperne di più su questo prodotto, a cominciare dal metodo di preparazione, dal nome particolare, dagli abbinamenti più obbligati.
Per la preparazione riporto (le note, però, sono una mia aggiunta) quanto si legge in Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto, Stamperia dell’Iride, Napoli, 18551, pp. 151-152: Quivi le gregie sono fecondissime di agnelli e di latte, che fanno formaggi de’ migliori d’Italia, ricotte salate dette marzotiche2, cacicavalli, ed un’altra specie di ricotta, detta volgarmente uschiante, per il sapore alquanto mordace, che contrae nella confettura, che non si fa in altro luogo d’Italia, eccetto in questa provincia, saporosissima al gusto. Si fa questa ricotta mettendola fresca in certe mattre3 di legno fatte per questo artificio, e si lascia ivi inacidire aggiungendovi della fresca giornalmente. Inacidita, si tempra4 due o tre volte la settimana per due mesi continui, temprando e mischiando sempre alla massa quella che giornalmente si aggiunge, mettendovi, quando s’incomincia a temperare, tanto sale quanto si richiede alla confettura del pane per farlo saporito, e più o meno, secondo il gusto di chi la richiede5, e per ogni volta, che si tempra si lascia la pasta, e ben serrata: finita e perfezionata l’opera, risuda da essa ricotta una certa grassezza oleosa, la quale finita di risudare, si mette la massa della ricotta, e si conserva in alcuni vasi di creta nuovi, coverti di foglie di vite, o di fichi, ed i vasi si mettono a terra alla rovescia, acché ne trascolino le reliquie di quella grassezza oleosa, atta a corromperla, e si conserva per molti mesi ed anni, acquistando in certo tempo un colore cretaceo argilloso, ed un sapore abbruciante gratissimo al gusto.Si mangia questa ricotta volentieri col pane e le cipolle; se ne fanno diversi condimenti per il cibo alle mense, giova molto allo stomaco, ed è gratissima al gusto, provoca l’appetito, reprime il vomito, e stringe il flusso del ventre, uccide grandemente i vermini, e posta sulle piaghe verminose, ne fa subito cader i vermi , genera sangue e nutrisce molto. Il medesimo fa la sua grassezza oleosa.
La procedura descritta fa comprendere che chiunque, partendo dal prodotto base genuino (la ricotta), può prepararsi in casa, magari utilizzando altri contenitori, la ricotta scante che, essendo a fermentazione naturale, non è, in pratica soggetta, com’è detto nel brano riportato, a scadenza, anzi col passare degli anni diventa più scura e più piccante, quindi adattabile modularmente al gusto personale. Io, che sono un barbaro, la consumerei stagionata pure da cinquant’anni, ma non ho avuto la fortuna di simile eredità ed ormai è troppo tardi per trasmetterla alle mie figlie che, oltretutto, hanno delle papille gustative la cui delicatezza sta a quella delle mie come la concezione del potere (teorica e, quel che più conta, pratica) di Josè Mujica sta a quella di una delle tante alte cariche (per non parlare dei tanti incarichi distribuiti alla corte …) della nostra povera Italia …
Ma la sua sarà l’unica ricotta scante illegittima, cioè prodotta e conservata trasgredendo (almeno in casa nostra siamo o no padroni di fare quello che vogliamo, soprattutto quando ciò che produciamo, e non si tratta certo nel nostro caso di droga, è destinato all’uso personale?) una delle tante idiote disposizioni europee (ancora più idiotamente lasciate passare dai nostri rappresentanti senza proferire una parola, anzi senza battere ciglio) che impongono la sterilizzazione con conseguente eliminazione dei fermenti e, aggiungo io, l’uso di chissà quali additivi.
Se ricotta s’è capito, rimane da spiegare scante. Deriva per aferesi da uscante (variante dell’uschiante presente nel brano di Marciano/Albanese), participio presente del verbo uscàre, che significa bruciare. Noi salentini avremo pure dei difetti, ma anche il pregio, unico, di continuare a parlare, in qualche modo, per lo più senza nemmeno rendercene conto, il greco e il latino. Uscare, infatti, deriva dal latino classico ustulare=bruciacchiare, forma iterativa da ustum, supino di ùrere=bruciare, per la trafila: *ustulare>*ustlàre>*usclàre6>*uscàre. Da ustum si è formato in latino ustio/ustionis (da cui l’italiano ustione) e ustor/ustoris (da cui l’italiano ustore; famosi gli specchi ustori che Archimede avrebbe utilizzato durante l’assedio di Siracusa per bruciare le navi romane). Dal participio presente (combùrens/comburèntis) di combùrere (composto da cum=insieme+il già citato ùrere) è derivato l’italiano comburente e dal suo supino (combùstum) il latino tardo combustio/combustionis (da cui l’italiano combustione). Non manca neppure il toponimo: Ustica, isola la cui origine vulcanica è notoria.
In attesa che arrivino i pompieri possiamo, dunque, dire che scante e usca del titolo sono due forme (participio presente la prima, terza persona singolare del presente indicativo la seconda) dello stesso verbo.
E scantare? Per il Rohlfs ha l’esatto corrispondente nell’italiano schiantare, che dai filologi viene dubitativamente collegato al latino explantàre=spiantare. Se già in ambito italiano la proposta è ineccepibile sul piano fonetico ma discutibile su quello semantico (lo schianto è una conseguenza dell’eradicazione), non appare accettabile per scantare la corrispondenza proposta dal Rohlfs con l’ulteriore passaggio dal concetto di schianto a quello di spavento, anche perché come sinonimo di spiantare il salentino usa proprio schiantàre. Non si comprende come ad una i in più o in meno sia stato affidato il compito di differenziazione semantica, pur non mancando casi in cui questo succede, anche se non proprio con lo stesso termine: per esempio, chiamare è, come la voce italiana dal latino clamare, mentre scamare (=lamentarsi, gridare) è dal composto exclamare.
Credo, perciò, che molto più banalmente scantàre sia il contrario di ‘ncantare (incantare in italiano). E se ‘ncantare significa ammaliare col canto (la preposizione in indica immersione) scantare, invece, vuol dire uscire fuori dall’incantesimo (s– è ciò che rimane della preposizione ex con valore estrattivo), cioè recuperare il contatto con la realtà, il che, spesso, è tutt’altro che piacevole. Sotto questo punto di vista, dunque, il dialetto salentino appare più economico rispetto all’italiano perché mette in campo lo stesso verbo di base (cantare) per esprimere due concetti opposti, mentre l’italiano non conosce scantare ma spaventare, che è da un latino *expaventare formato sul tema (expavent-) del participio presente (expàvens/expavèntis) del classico expavère=temere. Se, poi, si vuol considerare disincantare come corrispondente italiano (non con pienezza semantica, fra l’altro) di scantare, il concetto della maggior economicità del dialetto persiste perché disincantare al verbo base premette la particella dis– e la preposizione in. Va detto pure per completezza che lo spantare usato nel Brindisino e nel Tarantino non è variante di scantare (anche se il significato è lo stesso) ma è voce di origine spagnola (da espantar, come l’italiano spaventare, dal latino *expaventàre ma con aferesi di e– e sincope di –ve-), come ci dice espressamente un suo illustre utilizzatore7.
Credo pure che a favore della mia proposta etimologica (la quale una volta tanto non rivendica un uso esclusivo della voce al dialetto salentino) vada quanto si legge in Ilario Peschieri, Dizionario parmigiano-italiano, Carmignani, Parma, 1841: “Ozèl scantà, o smalizià, Uccello accivettato. Quello che per aver veduta altra volta la civetta, o per aver dato altra volta nella pania, si tien cauto dappoi. E figuratamente si dice d’uomo, cui il proprio pericolo abbia renduto accorto”.
Tornando alla nostra ricotta scante, lascio al competente amico Massimo Vaglio il compito di illustrare i suoi vari impieghi nella nostra cucina. Io mi limito a dire che sostituisce ottimamente il formaggio nella preparazione delle recchie (orecchiette) o dei curti e gruessi (specie di cavatelli) col sugo di pomodoro, si amalgama ottimamente con i fagioli lessati (pasuli cu lla ricotta scante) ma il suo impiego senz’altro più immediato e stimolante prevede che sia spalmata su una fetta arrostita di pane casereccio e che su questo letto giallastro siano adagiate due o più alici. E un generoso rosso generosamente gustato sarà un ottimo alibi per spegnere qualche palato delicato che dovesse uscare. Si tratta della rivisitazione moderna e qualcuno direbbe nobilitata dell’antica sarda allu ràsciu (sarda al raggio), che costituiva il pranzo del contadino di un tempo: un cartoccio di sarde salate, qualche fetta di pane e ricotta scante. Al momento opportuno bastava spalmare la ricotta sulla fetta e poi stendervi una sarda dopo averla sbattuta contro un raggio della ruota del traìnu (carro) per scuotere i grani di sale più grossi.
Sembrerà strano ma fu, stando a quanto fino ad ora mi è risultato, un autore napoletano e non un salentino a fare della ricotta scante quasi la protagonista di una sua opera letteraria. Francesco Cerlone (1722-dopo il 1778) fu autore di commedie, tragicommedie e melodrammi, alcuni dei quali musicati da famosi compositori pugliesi come il tarantino Giovanni Paisiello (1740-1816) e il barese Niccolò Piccinni (1728-1800). Ecco i brani della commedia L’Armelindo, o sia trionfo del valore, in cui sulla scena compare il nostro prodotto, a ribadire, sia pure in funzione comica, un uso medicinale che ricorda quanto già letto nel Marciano/Albanese8:
Atto II scena X; personaggi: Zadir, Pulcinella, Ircano.
Atto II, scena XI; personaggi: Mossiù de Blo, Ircano, Zadir, Pulcinella.
Atto III, ultima scena; personaggi: Dorimaspe, Artalice, Celestina, Ircano, Pulcinella, Armelindo.
L’immagine fin qui ricorrente della ricotta scante e in particolare di quella invasettata ha finito per invasarmi9; non sono certo in grado di scrivere una commedia, ma qualche verso traballante sì e, per la serie me la canto e me la suono da solo, anche le note sono mie:
a Corrisponde all’italiano letterario (!) mentovare, che è dal francese mentevoir, a sua volta dalla locuzione latina mente habere=avere a mente.
b Da scuttare, corrispondente all’italiano sgottare.
c Alla lettera: integro, nel pieno delle facoltà fisiche e mentali.
d Da fitire, che è dal latino foetère=puzzare.
e Forma intensiva dell’italiano stèndere (che è dal latino extèndere): stindicchiare suppone un latino extendiculàre.
g Corrisponde all’italiano letterario (!) roggia [dal latino rùbea(m)=rossa], ma usato con valore sostantivato: … e cui più roggia fiamma succia?” (Dante, Inferno, XIX, 33); Al campo dove roggio nel filare/qualche pamppano brilla … (Pascoli, Myricae, Arano, 1-2).
h Corrisponde all’italiano ampolle. Ampolla è dal latino ampùlla(m), diminutivo di àmphora=anfora, connesso con il greco ἀμφορέυς (leggi amforèus)=vaso a due manici, composto da ἀμφί (leggi amfì)=da entrambe le parti+φέρω (leggi fero)=portare, con evidente riferimento ai due manici.
ì Corrisponde all’italiano buscare (dallo spagnolo buscar, forse di origine celta) con aggiunta in testa della preposizione in, successiva aferesi e passaggio –n->-m-.
l Da ddifriddire, corrispondente all’italiano raffreddare, ma con cambio di coniugazione e sostituzione della particella ripetitiva ra- con la preposizione di.
m deverbale da ‘nghiuttire (corrispondente all’italiano inghiottire).
n gola (evidentissima similitudine).
o Il riferimento è al noto episodio biblico (Esodo, XVI, 16-18) in Dio somministrò una sostanza commestibile così chiamata agli Israeliti durante la loro peregrinazione nel deserto subito dopo l’uscita dall’Egitto
p corrisponde all’italiano erutto, con sostituzione di e– (dal latino ex=fuori) con de con lo stesso valore di moto da luogo.
q nessuno; la voce è dalla locuzione latina qui velles=chi tu voglia; esiste pure l’omofono ed omografo ceddhi, plurale di ceddhu=uccello, corrispondente all’italiano uccello, col quale condivide l’etimo: dal latino tardo aucellu(m), da un *avicellus, maschile di avicella, diminutivo di avis.
Come poeta sono un fallimento e il tentativo di emulare l’autore napoletano è andato totalmente a vuoto? Vuol dire che mi rifarò come pittore. Ecco con quale mia opera, peraltro già venduta, ma mi sono riservato il diritto di poterla all’occorrenza esibire, qualora intendessi partecipare a qualche (sono piuttosto schizzinoso … devo scegliere) concorso internazionale: il titolo, tenendo anche presenti, fra l’altro, le proprietà afrodisiache (almeno così si dice …) della ricotta scante, è Spatolata erotica.
Ecco cosa ne ha scritto recentemente il grande critico Vladimir Maialowski: Lo spazialismo del Fontana assunto come concetto di riferimento nella lettura di “Spatolata erotica” del Polito sarebbe riduttivo e fuorviante, ove non si considerasse la sua originale e rivoluzionaria rivisitazione, che si sublima in un lacerante messaggio Dante corpo allusivamente plastico all’informe magma delle umane contraddizioni.
Non ci ho capito niente, ma mi sta bene lo stesso, anche se debbo nel mio piccolo rimproverare al grande Maialowski l’essersi lasciato sfuggire (può darsi, però, che sia un errore di stampa) quel Dante con l’iniziale maiuscola …
Calma, ho già messo in moto (ho speso una cifra perché la sua batteria era esausta) il mio avvocato di fiducia, tal Costante Perdente, principe del Foro del muro di cinta di casa mia e mi ha rassicurato il fatto che, quando ha saputo che imputata era non solo la ricotta scante ma anche la sarda, mi ha detto testualmente: – Vuol dire che nel momento conclusivo del dibattito invece dell’arringa tirerò fuori una bellissima aringa -.
Ad ogni modo, sarò pure una frana su tutti i fronti (sono sì un pacifista, però franano, inesorabilmente e per fortuna, pure i guerrafondai …), ma uno sfizio nessuno mi può togliere, quello che mi accingo a soddisfare: col suo profumo il pane abbrustolito mi avverte che lui è pronto, le alici sott’olio sono già saltate fuori dal vasetto, la ricotta scante mi occhieggia in tutta la sua corposa, cremosa, saporita sensualità e non aspetta altro che io arrivi …
P. S. Per una volta tanto trasgredisco al principio più volte sbandierato del pudore dei sentimenti. Questo post, iniziato a scrivere e terminato mentre stava già molto male, è dedicato a mia suocera, che è mancata qualche giorno fa; una donna che a 90 anni suonati era la mia fonte privilegiata di fatti e parole del passato (e questo può apparire scontato) ma anche la prima a capire (e ogni mio controllo nel sospetto che ciò non fosse avvenuto ha dato sempre esito negativo, con mia puntuale vergogna) le mie uscite ironiche, che certe volte lì per lì non capisco nemmeno io, e a rimproverarmi affettuosamente per quelle meno brillanti o per qualche termine un po’ “forte”. L’ho lasciato, perciò, così com’è nato, doppi sensi compresi, ora pedante, ora irriverente, ora serioso, ora leggero, come la vita, convinto che forse sia questo il modo più corretto e rispettoso di ricordare le persone alle quali abbiamo voluto bene. Non ho fatto in tempo a leggerglielo ma, nonostante non sia un credente nel senso corrente del termine, mi piace immaginare i suoi occhi scorrere queste righe da un posto in cui, forse, per leggere non servono gli occhiali, a qualsiasi età, né lo stesso scritto, e sorridermi con la complicità di sempre.
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1 Il testo è dell’umanista Girolamo Marciano (1571-1628) di Leverano e fino a quella data era rimasto manoscritto. L’oprera fu pubblicata, come si legge nel frontespizio, con le aggiunte del medico e filosofo Domenico Tommaso Albanese di Oria (morto nel 1685), tratta da una copia manoscritta posseduta da Michele Tafuri (XIX secolo). È difficile distinguere la parte originale da quella interpolata e, di conseguenza, la paternità dei brani.; quello citato, comunque, rimane la più antica attestazione letteraria a me nota di questo tipo di ricotta, anche se è legittimo supporre che essa sia sta inventata (o più probabilmente scoperta per caso) molti secoli prima.
2 Forma aggettivale sostantivata da marzo+il suffisso –otico (di origine, tanto per cambiare, greca) presente in italiano in poche voci (per esempio: cervellotico) con funzione dispregiativa; in marzòtica, invece, il suffisso ha la funzione di connotazione cronologica approssimata, dal momento che la specialità si produce nel periodo febbraio-aprile.
4 Temprare in dialetto salentino è scanare, dal latino explanàre=spianare; da notare, invece, l’esito -pla->-chia- in ‘nchianare=salire, dal latino *inplanare. Analogamente per –cla-: scamare=gridare, da exclamare.
5 Il sale, che notoriamente fa male, non è un componente indispensabile e la sua assenza non incide minimamente sulla conservabilità del prodotto, tanto meno sul suo sapore, di per sé già oltremodo deciso.
6 Sulla tendenza del latino parlato al passaggio -tl>-cl- dopo una sincope vedi L’appendix Probi (III secolo d. C.) laddove si ammonisce: vètulus, non veclus; vìtulus, non viclus. La tendenza è confermata pure, tra gli altri, dal meridionale minchia (che è dal latino mèntula=pene>*mentla>*mencla>minchia; da secchia (che è dal latino sìtula>>*sitla>*sicla>secchia; nel latino medioevale è attestato siclus), etc. etc.
7 Torquato Tasso, Intrighi d’amore, atto IV, scena XIII: Pe’ ‘stinto naturale nuie aute Cavalieri Neapolitani solimo sempre favorì chilli, che se danno ala devozione nostra; como fazzo io a lo presente, che sendole sottopuosto lo Segnore Cammillo alla nostra protezione, è necessario, ca la favorisca ‘ntorno alo suo negozio, quale è, ca io travestito, come già vao, e co chesta barba posticcia, parlanno ala Spagnuola, fazza spantare Magagna, pe’ sapè da isso , ‘n che luoco si trova ‘na cierta Ersilia …
Il salentino spantare, perciò, appare adattamento, dopo importazione, del napoletano spantà. La terra del Vesuvio utilizza spantecà col significato di soffrire per amore; lì per lì la voce potrebbe sembrare forma iterativa di spantare, ma secondo me è più probabile una sua maggiore fisicità, nel senso che la voce potrebbe derivare dal latino ex (con valore intensivo) e *panticare (usato nel Tarantino col significato di aspettare ansiosamente), denominale da pantex/pànticis=intestino; da, panticare, poi il neretino pànticu=spavento, preoccupazione.
9 Invasettata … invasarmi: al gioco di parole non corrisponde identità etimologica perché invasettare deriva da in+vasetto, diminutivo di vaso; di invasare, invece, in italiano ce ne sono due: il primo (col significato di turbare profondamente, dominare totalmente, al limite impazzire) deriva da invaso, participio passato di invadere, dal latino in=dentro+vàdere=andare) ed io ho avuto l’ardire di usarlo in tal senso; il secondo invasare (col significato di mettere in un vaso, montare la struttura per varare una nave, riempire d’acqua un bacino o un serbatoio) deriva da in+vaso (quindi è parente di invasettare). Qualcuno, però, dopo aver letto la poesia, sosterrà che è meglio considerare invasettata e invasarmi come aventi lo stesso etimo; in tal caso si parlerebbe di figura etimologica; ma quello stesso qualcuno dirà che l’importante è, dopo avermi gettato nel vaso, tirare la catena o premere il pulsante dello scarico o, nei bagni più sofisticati, dare l’adeguato comando vocale: addio, stronzo! …
Non sempre le voci dialettali presentano una storia etimologica più tormentata delle corrispondenti (quando esistono) italiane. Talora succede esattamente l’opposto e questo vale per le parole di oggi.
L’italiano succhiare è da un latino *succulare, a sua volta dal classico succus o sucus=succo; trafila: succus>*sùcculus (diminutivo) *succulare>*succlare>succhiare). In un testo in latino del principio del XVI secolo (Vita Beatae Columbae Reatinae, scritta Sebastiano Perugino suo confessore; cito da Acta Sanctorum Maii, tomo V, Palmé, Parigi e Roma, 1866, p. 340) è attestato succare (direttamente da succus): Quatenus possint abstrusa mella ruminando succare (Fino a qual punto possano succhiare ruminando i mieli nascosti).
Il salentino sucàre, invece, ha comportato, come il citato succare, una formazione sempre denominale ma diretta da sucus come onorare da onore. Per il processo inverso, poi, da sucàre è derivato suca (tubo di gomma o simili per aspirare liquidi). L’imperativo suca! è un’espressione oscena ma nella vignetta che segue ne presento un uso più morigerato (si fa per dire …).
* Suca, suca! Poi no tti maravigliare ci ti ticinu ca sinti ‘nu ‘mbriacone; e ricordate ca li bbuttiglie ti lu mieru vonu mese curcate! (Succhia, succhia. Poi non ti meravigliare se ti dicono che sei un ubriacone; e ricordati che le bottiglie del vino vanno messe coricate!)
** Tanto fino a questa sera me le devo scolare tutte
L’italiano asciugare è dal latino exsucare con sostituzione della preposizione ex con ab.
Il salentino ssucàre, invece, è direttamente da exsucare, con aferesi di e-. La geminazione di s– perciò, non è di natura espressiva ma è l’esito di -(e)xs– che finisce per assumere un valore semanticamente distintivo rispetto a sucare.
* Per essere uscito senza ombrello mi hai fatto la rovina1dentro casa. Ora per asciugarti meglio buttati come stai dentro al camino!
** Ci sape quanti cu lla scusa cu tti ssucanu ti minavanu intra allu fucalire; ma fincuttantu ‘nci so’ iò puè stare tranquillu! (Chissà quanti con la scusa di asciugarti ti butterebbero nel camino; ma finché ci sono io puoi stare tranquillo!)
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1 Traduco così pistìsciu, che è deverbale da pistisciare (entrambe le voci non sono registrate nel vocabolario del Rohlfs). Pistisciare è secondo me da peste, come mustisciare [da cui mustìsciu=sudiciume, bambino sporco, bambino (nel senso di persona che conta meno di un adulto)] è da mustu=mosto. Peste è dal latino peste(m) generalmente connesso con peius=cosa peggiore o con pèrdere=distruggere; non riesco a capire perché mai, a quanto mi risulta, a nessuno è venuto in mente un collegamento con pistum, participio passato di pinsere (o pìsere)=pestare, battere, macinare, ipotesi etimologica che non comporta evoluzioni fonetiche difficili da spiegare come è (infatti nessuno l’ha fatto) per gli altri etimi proposti (infatti nessuno le ha mai spiegate). Insomma, secondo me peste (l’epidemia), pista e pesta (impronta) hanno tutte lo stesso etimo.
Urlavano i rami le foglie, urlava la terra, urlava tutto il creato ma chi mozzava non sentiva. Troncava troncava con fare frenetico e il fragore assordante della sega, che affondava bramosa i suoi denti nei tronchi, copriva urla e lamenti.
E le zanne taglienti s’accanivano irruenti e incoscienti squarciavano.
Accaniti e solerti i potatori affondavano le lame tra fronde e rami che, inermi ed inerti, come colombe colpite da un botto cadevano giù.
Dissanguati, i tralci frondosi giacevano l’uno sull’altro: ultimo abbraccio dopo una vita insieme vissuta.
E amputava la sega tra la danza dei potatori sui rami, incuranti del fruscio dei caduti, della preghiera che da ogni ramo trafitto si levava!
Ad ogni squarcio la ferita si dilatava, fino a mostrarsi candida e tonda a quel cielo che la sfiorava e capiva lo strazio.
Nudo dolorante e silente piangeva il moncone mostrando lo stremo l’affanno lo scempio.
Trasudava la linfa sulla ferita e gemeva l’ulivo raccolto nella sua pena.
Dov’era quell’uomo che tanto aveva amato i suoi pregi e lo aveva rispettato onorato difeso nel tempo? Dov’era quell’umano che ne aveva curato ogni squarcio, adorato ogni fuscello ogni foglia fino a farne segno di pace e d’amore? No, non era più degno l’uomo dei suoi favori, dei suoi valori, dei suoi doni preziosi.
Monchi e spogli i rami gridavano al cielo tutto lo spasimo il livore e condannavano chi li aveva troncati in quel barbaro modo. Stille lucenti, tacite colavano sulla rossa terra straziata e l’intera natura avvertiva e accoglieva lo stremo. Era svenata stremata vinta la sua dolce portentosa creatura e nemmeno madre natura riusciva a colmarne il tormento.
Seguitavano, i monconi recisi, a supplicare il cielo le nuvole il sole il vento, li pregavano di trattenere la corsa e asciugare e le ferite lenire. All’imbrunire, sgomento, il tronco spogliato, chiese perdono agli uccelli che, senza rifugio, scappavano mesti cercando altrove riparo. Allorquando la notte scurì col suo manto il creato e la luna e le stelle le ombre schiarirono, pietà chiese l’ulivo per la sua indegna nudità, per la mancanza del sontuoso vestito. Si sentiva Sansone senza capelli, nudo, senza forza e voleva coprirsi o forse divenire fantasma pur di non rivelarsi mostro moderno fatto di artigli.
Purtroppo, l’uomo evoluto ha dimenticato che, come Sansone, l’ulivo ha nella sua chioma argentea la forza e ne amputa d’impeto gli arti, stremandolo deturpandolo. Così agendo lo avvilisce, lo evira senza coscienza, per solo tornaconto economico, scordando che l’ulivo è essere attivo e vitale e vive e dà vita fino a quando viene rispettato ed amato.
Non c’è amore nel mutilare. Un affetto non si monca, si coltiva, si nutre e non si svena. Semplicemente si ama.
Scatti d’autore di Mauro Minutello – testi di Elio Ria
prefazione di Pier Paolo Tarsi, a cura di Marcello Gaballo
Edizioni Fondazione Terra d’Otranto – Collana Scatti d’autore n°1
formato A/4, cartonato, 84 p., stampa colore
ISBN: 978-88-906976-4-7
La lettura del libro e il godimento delle immagini rimanda ad un ulteriore dire in un panorama ampio di dettagli della terra salentina. Un libro “incompiuto” dove l’esaltazione dell’insieme è demandata al lettore. Il poeta e il fotografo hanno sottolineato ciò che hanno voluto secondo i propri interessi, in condizioni di imparziale attenzione, assumendo anche le vesti di spettatori trasognati.
Indubbiamente le immagini e i testi sono frutto delle abitudini e ossessioni degli autori: difatti in qualsiasi trattazione tematica fotografica e testuale affrontata, parlano in fondo di sé stessi, del proprio bisogno di trarre dalla geniale creazione di Dio un frammento concettuale per magnificare la sua opera.
La voglia di dire e di raccontare qualcosa che sfugge all’attenzione, e di cui non si avverte il valore, è palesemente suffragata dall’impegno del poeta Elio Ria e dal fotografo Mauro Minutello, i quali hanno dimostrato come la bellezza di un fiore resta tale anche se non c’è nessuno a contemplarla.
L’opera tenta di agganciare il lettore all’intorno di un mondo come l’odierno in cui tutto è uguale a tutto in osservanza della soddisfazione dei bisogni. Decelerare, soffermarsi a contemplare il significato della reale bellezza dei luoghi diventa un esercizio che rafforza le certezze di un’idea, sviluppatasi non solo per meravigliare gli occhi ma anche per traslare significati di architettura della natura. Il linguaggio dei luoghi è affine a quello della lingua.
Traspare nel volume edito da Fondazione di Terra d’Otranto il criterio di non deviare sia in parole che in immagini dal verisimile, rispettando ciò che gli occhi hanno visto – e comunque – in una sorta di resfictaoargumentum, vale a dire la res ficta è inventata sì, ma entro i limiti del verisimile, seppure in alcuni testi la poesia tende a colpire con lo splendore della forma: mirando a immaginare fantasie ma anche cose incredibili. Il poeta giustifica in questo modo la propria licenza di trattare cose impossibili al fine di rendere sorprendente e interessante la sua opera. Di converso il fotografo ha estrapolato da un contesto più ampio un dettaglio che – a parere suo – potesse illuminare con la fissità dell’immagine qualcosa che sfugge all’abitudine degli occhi. Si può dire che entrambi gli autori sono riusciti a dissimulare e a rendere gradevole persino l’assurdo, infrangendo le regole visive della verità, inducendo gli occhi a ragionare concetti di bellezza e di ulteriore dire, nel tentativo di conquistare gli occhi degli altri. Lo stupore dell’impossibile è un bisogno dell’uomo e i testi quando ne sono ricchi svolgono un compito preciso. Ricorrere alla finzione vuol dire allargare per un momento lo spazio del reale, muovere passi in zone normalmente vietate entro la logica della narrazione che si mantiene in un sistema coerente di rapporti tra possibile e impossibile.
Il volume, di pregevole fattura, assume l’onere della divulgazione conoscitiva di alcuni luoghi del Salento, rendendo partecipe il lettore alla realtà, la quale è assumibile a un modello che descrive la riconducibilità della vita umana a essa. Modello che può anche fornire chiavi critiche, che può favorire un’evasione, oppure appagarsi della sua contemplazione o riportarlo alla realtà che esso produce fittiziamente.
Il palcoscenico è l’immagine tratta da uno scenario naturale, la parola è il sostegno ad essa per coniugare nuove visioni e una validazione della fantasia. Il libro è da considerarsi a tutti gli effetti un coraggioso tentativo di connubio poetico-artistico che fa da contraltare ai canoni classici della letteratura e della fotografia, dimostrando che è possibile muovere insieme immagini e parole in un contesto regolato dalla ciclicità degli eventi naturali; inoltre la reversibilità del tempo, gli scambi reciproci fra immaginazione e vita, moltiplicano all’infinito i rapporti soggetto-oggetto. Ria e Minutello hanno teso al massimo il filo che collega il reale all’irreale: amplificando, modellando, cose quotidiane di un creato che può ancora meravigliare.
Sarà una lunga giornata elettorale, si vota per il Consiglio Scolastico Nazionale nel disinteresse generale. Eppure si tratta di una cosa importante nella qualse ci sono sostanzialmente due filoni di pensiero: i sostenitori de La Buona Scuola che si sta intessendo una strisciante privatizzazione dell’istruzione secondo la progressione Gelmini-Giannini e i sostenitori de La Scuola Buona che ritiene la scuola pubblica come asse portante della stessa concezione di Stato.
Tutti a discutere dell’Italicum, riforma elettorale ormai trapassata che il buon Matteorenzi vuole rinverdire … per la prima volta fuori tempo.
Vent’anni di “Un uomo solo al comando” sono stati digeriti dal Paese, i grandi leader in solitaria: Berlusconi, Prodi, Di Pietro, Bossi, Bertinotti ecc. appartengono a ciò che fu. Adeso è un altro tempo, è il tempo del noi invece che dell’io. Infatti il M5S, da quando Grillo si è defilato e con lui il compare fondatore, cresce nei sondaggi. E’ tempo che il morto abbandoni il vivo e che i vivi si occupino della vita infestata da razzismo, xenofobia, egoismo, cattiveria, invidia e malanimo.
E’ tempo che tu, altro da me, sia una opportunità e non un pericolo. E’ tempo che si smetta di indignarsi perché siamo in mezzo allo schifo, basta indignarsi, si prendano secchi e ramazze e ciascuno, ciascuno pulisca il pezzetto di strada che è vicino alla sua porta di casa. Vedrete che alla fina la strada sarà tutta pulita. Resta da capire cosa ce ne facciamo dell’immondizia … io sono persuaso che una raccolta differenziata si possa fare e recuperare il massimo possibile. Certo c’è qualcosa che andrà bruciata necessariamente. E la bruceremo.
Abbiamo il dovere di andare avanti e di riconoscere i nostri limiti, per superarli ogni tanto o per accettarli semplicemente. E finché i nostri organi di senso saranno vigili, finché comprenderemo il piacere e ne avremo desiderio, la vita sarà sempre pronta a sbalordirci … oggi saremo costretti a mangiare un panino ma presto, presto un plateau di ostriche ed una bollicina ce la dedicheremo
Una volta erano un autentico mito, giacché, praticamente, uniche, non esistendo svaghi e celebrazioni d’altro genere. Ecco un prezioso manifesto illustrativo , datato ottant’anni fa.
Tuttavia, detti eventi si mantengono in auge ancora adesso, in particolar modo a Diso (Santi Filippo e Giacomo, localmente soprannominati “i santi nosci”), Castro (Madonna Annunziata) e Scorrano (Santa Domenica).
Chi ricorda il famoso spot della Levis degli anni Ottanta, saprà che l’autore di quella straordinaria canzone, “When a man loves a woman”, era Percy Sledge, scomparso da pochi giorni all’età di 74 anni. La canzone era del 1966 ma presto diventata un classico, evergreen. Così, chi ha letto il bellissimo libro “Memoria del fuoco”, ha appreso in questi giorni della scomparsa del suo autore, l’uruguayano Eduardo Galeano, che gli amanti del calcio conosceranno anche per un’altra famosa opera, “Splendori e miserie del gioco del calcio” del 1997. Ma perché scrivo queste note? Non mi appassionano i necrologi. Lo faccio solo per affermare, una volta di più, il grande valore della memoria. Nessuno può negare che Percy Sledge sia stato un grande cantante, nessuno che Galeano sia stato un enorme scrittore. In questi giorni è tornato di attualità il massacro degli Armeni compiuto dai Turchi nel 1915. Così nessuno può negare che quello sia stato un “genocidio”. Il genocidio degli Armeni, operato dall’esercito turco, è una triste pagina di storia del Novecento e si configura come una sorta di terribile preludio allo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti. Nelle persecuzioni, persero la vita moltissimi poveri armeni, anche se le cifre esatte non sono conosciute e anzi sono materia di scontro fra gli studiosi. Fra la cifra di un milione e mezzo di cui parlano gli Armeni e i cinquecentomila dichiarati dal governo turco, la verità dovrebbe stare nel mezzo, dunque si potrebbe parlare di ottocentomila morti. La strage di questo popolo viene commemorata il 24 aprile.
In realtà gli Armeni erano perseguitati già dall’Impero ottomano nell’Ottocento. Ma nel periodo immediatamente precedente la Prima Guerra Mondiale, precisamente nell’aprile del 1915, iniziò una lenta ma decisa oppressione, prima nei confronti degli intellettuali armeni, che vennero deportati in Anatolia e massacrati, poi, la persecuzione si allargò a tutta la popolazione, da sempre mal tollerata dai Turchi. Vennero chiuse scuole, chiese, e i sacerdoti massacrati all’interno di esse. Si iniziarono così delle deportazioni, chiamate “marce della morte”, in cui persero la vita, per fame e stenti, o perché fucilati, una larga parte della popolazione armena. I soldati dell’esercito oppressore e principali responsabili delle fucilazioni, erano conosciuti come “Giovani Turchi”: essi avevano preso il potere nel 1909 ed erano giovani indipendentisti e rivoluzionari che contestavano il vecchio regime ottomano e che, sebbene liberali e costituzionali, finirono per essere sommersi dal caos che imperversava nella nazione in quella temperie storica e per macchiarsi anche di orrendi delitti. (Il fatto che un gruppo di dissidenti interni all’attuale Partito Democratico italiano abbia adottato questo nome, non fa certo onore alla stessa corrente di partito). Il governo turco non ha mai riconosciuto la responsabilità di quella strage ed essa è sempre stata una delle maggiori cause di tensione fra la Turchia e l’Europa. In particolare, la questione armena, oltre ad essere al centro di un lungo e infuocato dibattito politico e ideologico, ha portato molti europei, contrari all’ingresso della nazione turca nell’UE, a sostenere la tesi dell’incandidabilità. Bisogna dire infatti che pure gli studiosi si sono divisi in riferimento al genocidio. Gli storici turchi sono totalmente negazionisti, e addirittura ad Ankara viene punito con il carcere chiunque affermi l’esistenza del genocidio. Gli studiosi della comunità internazionale invece sostengono con forza l’atrocità e la programmatica persecuzione operata ai danni del popolo armeno. Recentemente il dibattito si è riacceso in occasione di alcune dichiarazioni del Papa Francesco I che ha parlato esplicitamente di “genocidio”. Il Papa ha sostenuto una inequivocabile verità, chiedendo di pregare per i tanti cristiani armeni trucidati. In occasione del centenario del massacro, questo fatto diventa di tutta evidenza. Le reazioni del governo turco sono state immediate e violente. Un durissimo attacco del Presidente Erdogan ha messo a repentaglio le relazioni internazionali fra il Vaticano e la Turchia. Ma l’uscita di Papa Francesco ha colpito nel segno, andando a toccare una ferita aperta, una piaga ancora purulenta. In questo Bergoglio è stato in continuità con il suo predecessore Giovanni Paolo II che pure parlò di genocidio quando, nel 2001, firmò una dichiarazione congiunta con il Patriarca Karekin II. I debiti con la storia vanno saldati e alla memoria riconosciuto il grande valore che essa ha per i popoli e per le generazioni avvenire. Le ritorsioni della Turchia non tarderanno e infatti Erdogan ha già dichiarato che saranno espulsi 100.000 armeni. “Ha ferito la nostra società”, ha affermato l’ambasciatore presso il Vaticano, Adnan Sezgin, costretto prontamente a tornare in patria; “un attacco vergognoso” lo ha definito Erdogan, “avverto il Papa di non ripetere questo errore, e lo condanno”. Lo sceriffo turco lancia l’anatema sul vicario di Pietro. Anche Antonio Gramsci l’11 marzo del 1916, su “Il Grido del popolo” dedicò un articolo al genocidio. Era, il suo, un monito affinchè quanto successo in Armenia non cadesse nell’oblio. “L’indifferenza è figlia dell’ignoranza”, dice Gramsci. Nei campi di sterminio, venne attuata una operazione di pulizia etnica, in quanto gli armeni erano considerati dei sovversivi poiché di religione cristiana e di etnia diversa, dunque difficilmente omologabili nello stato ottomano, a fatica “gestibili”. Il loro sterminio venne programmato dai Giovani Turchi con furore nazionalista. Nel loro progetto panturco, non vi poteva essere posto per culture e lingue diverse, quindi anche per i Greci e per i Curdi. Il massacro venne stabilito ed attuato con una mobilitazione massiccia dell’esercito e con i conseguenti delitti di torture, stupri, umiliazioni di ogni genere, islamizzazione forzata dei cristiani armeni e loro seppellimento nelle fosse comuni. L’obiettivo degli ottomani era la cancellazione della comunità armena come soggetto storico, culturale e soprattutto politico. I loro beni e le loro terre vennero sequestrate, le donne superstiti al massacro inviate negli harem e cancellata anche scientemente la loro memoria.
Il genocidio armeno fu riconosciuto, nel 1985, dalla sottocommissione dei diritti umanidell’Onu, e nel 1987 dal Parlamento europeo. I Paesi che riconoscono il genocidio sono 20, tra cui l’Italia, dopo una risoluzione votata dalla Camera nel novembre 2000. Una interessante posizione di mediazione fra le due tesi contrapposte è sostenuta sull’ “Internazionale” di aprile 2015 dal reporter Gwinne Dyer , il quale, sostenendo di aver esaminato moltissimi documenti, afferma che la verità non sta tutta da una parte o dall’altra. “L’impero ottomano” sostiene Dyer, “ nel novembre del 1914 era incautamente entrato nella prima guerra mondiale a fianco della Germania. L’esercito turco aveva marciato verso est per attaccare la Russia, allora alleata di Regno Unito e Francia. Quell’armata fu annientata in mezzo alla neve vicino alla città di Kars e i turchi furono presi dal panico. Per un errore strategico i russi non contrattaccarono subito, ma se avessero deciso di farlo ai turchi non sarebbe rimasto quasi niente per fermarli. I turchi si sforzarono di mettere insieme una qualche forma di linea difensiva, ma alle loro spalle, nell’Anatolia orientale, c’erano dei cristiani armeni che da qualche decennio stavano lottando per l’indipendenza dall’impero ottomano. Vari gruppi di rivoluzionari armeni avevano preso contatto con Mosca, offrendosi di provocare delle rivolte alle spalle dell’esercito turco nel momento in cui le truppe russe fossero arrivate in Anatolia. Quando ricevettero la notizia che l’esercito turco era in rotta, alcuni di loro pensarono che i russi stessero arrivando e agirono prima del tempo. Analogamente i rivoluzionari armeni del sud, vicino alla costa mediterranea, erano in contatto con il comando britannico in Egitto e avevano promesso di scatenare un’insurrezione in coincidenza con gli sbarchi britannici previsti nella costa meridionale della Turchia, vicino ad Adana. All’ultimo momento Londra decise di spostare l’invasione molto più a ovest, ma anche in questo caso alcuni rivoluzionari armeni non ricevettero il messaggio e scatenarono comunque la ribellione. Il governo turco andò nel panico. Se i russi fossero penetrati nell’Anatolia orientale, tutti i territori arabi dell’impero sarebbero stati tagliati fuori. Per questo ordinarono la deportazione di tutti gli armeni nell’est della Siria, attraverso le montagne, d’inverno e a piedi, dato che non c’era ancora una ferrovia. E poiché non c’erano soldati regolari disponibili, furono soprattutto le milizie curde a scortare gli armeni verso sud. Molti miliziani curdi approfittarono dell’occasione per violentare, rapinare e uccidere. La mancanza di cibo e il clima fecero il resto, provocando la morte di quasi la metà dei deportati. Per quanto non sia chiaro fino a che punto il governo turco fosse informato di questa tragedia, di certo non fece nulla per fermarla. Altri armeni morirono a causa del clima torrido e delle malattie nei campi in cui furono ammassati in Siria. Fu un genocidio commesso attraverso il panico, l’incompetenza e l’incuria deliberata, ma non può essere paragonato a quanto successe agli ebrei europei”.
Il Segretario dell’Onu Ban Ki Moon ha definito il massacro degli armeni “crimine atroce”, mentre il Presidente degli Stati Uniti Obama ha parlato prudentemente di “massacro” per non compromettere i delicati rapporti con lo stato turco. Ma un conto è la diplomazia e un conto la verità storica. La stampa mondiale non è d’accordo con Dyer e continua a parlare di “genocidio”.
In Turchia la situazione è davvero esplosiva. Fuori da ogni ipocrisia linguistica ed accomodamento,quella di Erdogan è una dittatura. I diritti umani sono spesso calpestati come Amnesty International denuncia da anni. Ci sono movimenti di protesta violenti, come quello dei nazionalisti curdi e inoltre una guerra non dichiarata con la Siria. Aggiungiamo l’annosa questione di Cipro che da tempo immemore divide la Turchia dalla Grecia sul possesso di quell’isola. Con tutto questo, e anche con altro, si vorrebbe far entrare Ankara nell’Ue, cioè un paese a libertà controllata, un regime, in un consesso democratico come l’Unione Europea. È un modo per tenerla a bada, qualcuno dice, per addomesticarla. Mah!
Sono tre milioni gli abitanti dell’Armenia ma questo popolo, quasi come quello ebreo, ha subito negli anni una enorme diaspora. Secondo le fonti ufficiali, gli armeni nel mondo sono circa 8,5 milioni, dei quali la maggiore concentrazione si trova in Russia e in Usa, con 1 milione in entrambi i paesi. In Italia, risiedono stabilmente 2000 armeni. Il silenzio a volte può essere davvero assordante. Io spero che, a cento anni dal massacro del popolo armeno, almeno nel nostro paese si possano debitamente ricordare quel sacrificio e commemorare le vittime. Cento anni di oblio sono davvero troppi. La ragione e la pietà umana dovrebbero andare al di là della fede religiosa e portare anche il governo turco a fare un mea culpa, chiudendo i conti con il passato. Del resto, basta ascoltare le musiche tradizionali armene, come a me è capitato qualche giorno fa attraverso la radio che commemorava l’olocausto, per commuoversi al suono del duduk, il tipico strumento musicale armeno, e della voce sgraziata ma toccante dei loro canti di dolore.
Una poesia è tale quando nulla, nemmeno un silenzio, una pausa, possono essere tolte, e null’altro, non una virgola, una parola o un solo concetto possono essere aggiunti: cosa dire di ulteriore rispetto a quanto contenuto nelle pagine di questo libro senza far loro torto? Cosa, in quelle righe, potrebbe risultare superfluo o perfettibile? Per trarmi fuori da questa forma di imbarazzo che solo la letteratura autentica pone, mi limiterò a suggerire una modalità di approccio che mi auguro sia rispettosa della natura più intima di questa fatica di Antonio Errico.
Il primo elemento che suggerisco è un invito a non considerare questo libro solo un romanzo storico, come è scritto in retrocopertina, e nemmeno propriamente solo come un romanzo, come scritto invece in copertina. È certamente l’uno e l’altro, ma il libro non è affatto ricompreso in tali definizioni.
È tale, perché del romanzo storico ha tutti i tratti, la precisione del dettaglio storiografico o la verosimiglianza sia rispetto ad alcune vicende del rinascimento fiorentino sia rispetto a fatti e personaggi storici della fine del XV secolo salentino, alla vigilia cioè della presa di Otranto da parte dei turchi; del romanzo in genere ha poi una struttura narrativa, una trama che appassiona, un intreccio che crea suspense, uno svolgimento. Anzi, ne ha più d’uno: da una parte è infatti il racconto di vicende reali connesse alla celebre congiura dei Pazzi che coinvolse in prima persona il protagonista, l’io narrante, ma dall’altra è la traccia di un flusso di coscienza in divenire, la storia e la testimonianza del percorso soggettivo di sofferenza e rinascita di un uomo condannato ingiustamente all’esilio da colui che era stato suo intimo amico e signore, Lorenzo de Medici, il Nobilissimo signore a cui si rivolge l’io narrante con una formula di deferenza che apre la maggioranza dei capitoli, il destinatario per il quale il protagonista scrive.
Ma non è tutto, anzi, vorrei dire, non è nemmeno l’essenziale di questo libro ciò che quelle definizioni – romanzo, romanzo storico – colgono. Troverà infatti il lettore in queste pagine un denso breviario meditativo, un tormentato diario filosofico sul vivere, ossia la testimonianza di un dialogare interiore sull’esistenza che rievoca nello spirito le Confessioni di un Agostino o i Pensieri di un Pascal, lo svolgimento sofferto di un percorso esistenziale che l’io narrante condurrà a partire proprio dalle cose e dalle persone che incontrerà nella terra in cui si ritrova esiliato, a partire dunque dallo slancio che l’incontro con la Terra d’Otranto produrrà in questo agiato fiorentino del Quattrocento caduto in disgrazia.
E vi troverà ancora e soprattutto il lettore di questo libro uno sguardo da poeta con cui contemplare ciò che ci circonda, assaporarlo; troverà un modo non retorico per guardare a ciò che questa terra di indicibile gli mette quotidianamente sotto gli occhi assuefatti, annebbiati dalle faccende in cui siamo tutti immersi. Vi troverà gli elementi più sfuggenti e più preziosi che ancora, nonostante tutto, caratterizzano il luogo in cui viviamo, un luogo che l’Esiliato definisce efficacemente Santuario e Bordello, ossia un misterioso, paradossale e antinomico coesistere di contrari che solo qui sembra riescano a tollerarsi l’un l’altro, a convivere, inspiegabilmente: il coesistere di emozione e ragione, il coesistere di follia e senno, il coesistere dell’amarezza e della dolcezza, dell’immobilità e dello scorrere della vita, il coesistere di un corteo funebre e di un corteo carnevalesco. Vi troverà ancora tratteggiato perfettamente il silenzio impenetrabile tipico del Salento che Errico riesce a rendere con la scrittura un oggetto palpabile, sensibile, ascoltabile; vi troverà la descrizione delle sue ombre, della luce particolare che qui emana, della qualità specifica dello scorrere del tempo; vi troverà un modo di guardare con stupore al cielo, al mare, alla natura delle pietre e della terra di questo luogo. Di fronte a tutto ciò, che pure è già qui e ora sotto i suoi occhi, il lettore vi si troverà soprattutto con l’incanto della prima volta, con la meraviglia dello straniero che tutto ciò non ha mai potuto mirare prima. Ecco perché al principio di questa pagina ho scomodato la parola poesia, cioè sguardo capace di squarciare l’apparente banalità per trovarvi l’incanto, sguardo che permette di sottrarsi allo stordimento tipico del fluire della vita, quell’accecamento per cui non siamo più in grado di guardare la straordinarietà di ciò che è intorno, ciò che essendo sempre lì accanto scivola nell’invisibile. Questo libro è dunque un denso trattato poetico sull’arte del saper vivere, un manuale filosofico per imparare a cogliere il momento, ad aprirsi a questo svelamento autentico del terribile splendore delle cose che sono sempre intorno. E della poesia queste pagine non hanno solo lo sguardo, la forza più profonda, hanno anche il ritmo, la cadenza, lo spessore densissimo delle parole, ognuna scelta accuratamente e pazientemente per tessere frasi e ricamare periodi intorno a pensieri talvolta profondi come abissi, vere e proprie sentenze filosofiche a cui accostarsi necessariamente con lentezza, prendendosi cioè tutto il tempo che occorre per comprendere le cose di cui si parla, l’essenziale, come lo chiama l’Esiliato. Ecco allora l’ultimo suggerimento sul modo di accostarsi al libro: leggerlo con lentezza estrema, la struttura stessa del testo – composto di piccolissimi capitoli di due, tre, a volte persino una pagina – invita a gustare l’opera senza fretta: poche pagine al giorno, anche una soltanto, cogliendo però ognuna esattamente come dovremmo imparare a fare con gli attimi dell’esperienza che ci è dato vivere.
La triade di cui mi sono occupato in questa serie si chiude con Domenico ed è come se tutta la trattazione avesse avuto un andamento circolare, con Tommaso prevalentemente giureconsulto, Filippo prevalentemente economista e Domenico, come il padre, prevalentemente giureconsulto. Seguirò lo stesso procedimento adottato per i suoi familiari. Inizio, perciò, dal ritratto (un’incisione di Carlo Biondi), cui seguirà la biografia a firma del gallipolino Giovanni Battista De Tommasi, tratti l’uno e l’altra dal tomo V della Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, i cui estremi bibliografici chi ne ha interesse troverà all’inizio della prima parte a suo tempo dedicata a Tommaso.
Preciso che la memoria in difesa del Ballarin fu pubblicata nel 1794 con il titolo Memoria da presentarsi alla Serenissima Repubblica Veneta, per lo naufragio de’ 27 novembre 1793. della nave di alto bordo detta la Sirena. Ne esistono solo due esemplari, custoditi uno nella Biblioteca pubblica arcivescovile Annibale De Leo di Brindisi e l’altro nella Biblioteca provinciale Nicola Bernardini di Lecce. Bartolomeo Ravenna in Memorie istoriche della città di Gallipoli, Miranda, Napoli, 1836 a p. 572 in nota scrive: … il vice ammiraglio Veneto, che dimorava nelle acque di Brindisi, scrisse una lettera lusinghiera a D. Domenico Briganti, per aver saputo così bene difendere un suddito della sua Repubblica. Questa lettera si conserva originalmente in famiglia.
A sigillo di questo ricordo non posso esimermi dal fare alcune riflessioni. Furono senz’altro Filippo e Domenico due figli d’arte, ma, al di là di ogni probabile componente genetica (che raramente riesce ad esprimersi a livelli così alti …) credo che un ruolo determinante abbia avuto l’ambiente in cui vissero e l’educazione che ebbero, basata non solo sulla teoria ma anche sulla pratica, non solo sulle parole ma anche sui fatti, non tanto sulle prediche quanto sull’esempio. E mi piace in tal senso chiudere con le parole che di Tommaso si leggono nella prefazione della sua Pratica criminale: Si dovrebbero le cose ridurre alla sua prima istituzione, ed aversi cura, che nelle pubbliche accademie vi fossero professori dottissimi, e ben pagati, da’ quali per lo corso prescritto da’ sovrani, venisse la gioventù educata, ed ammaestrata nel modo conveniente, e giusto, per giungere alla vera scienza delle leggi, e dell’onesto; e che niuno potesse all’ufficio di giudice, o di avvocato pervenire, se non colui, che da un esame rigorosissimo sia riconosciuto veramente atto ad intendere le leggi romane, e del regno; ed insieme avere i principi propri della sola e vera giurisprudenza. Così forniti il giudice, e l’avvocato di dottrina, e probità di costumi, non farà quello decreti, e sentenze a capriccio, né questo volentieri imprenderà a difendere una causa ingiusta, un affare manifestamente doloso; sdegnerà di produrre vane e cavillose eccezioni, fatti mal digeriti, o non veri; refuterà di usare alcune maniere di trattare gli affari, perché meno proprie, e meno convenienti; e quanto maggiore sarà il numero degli uomini savi, ed onesti, più mancheranno quasi da se stesse le sconcezze, e gl’inconvenienti nel foro; perché infinite contese, o subito resteranno estinte, o si potranno con più facilità ridurre a concordia fra coloro, che intendono le leggi, ed il giusto, ed a questo sono inclinati, che fra coloro, che niente sapendo, ed avvezzi ad operare sconvenevolmente, o non s’intendono, o sono d’intoppo agli altri di mente chiara e ragionevole.
Parole che calzano perfettamente, a distanza di più di ducentocinquanta anni, alla realtà odierna, con l’aggravante che i guasti del sistema, la cui stigmatizzazione in Tommaso si limita al potere giudiziario, hanno coinvolto, e da tempo, anche il potere legislativo e quello esecutivo, corrompendo e violentando i valori dell’autentica democrazia.
Ai Paduli, una immensa foresta planiziale nel cuore del Salento, la festa della Liberazione!
Ne ho viste di feste della Liberazione, a Milano per lo più, sotto scrosci interminabili di pioggia, il cuore della Resistenza, quel 25 aprile del 1945 quando finalmente le brigate partigiane scese dai monti liberarono con Milano l’Italia del Nord.
Ma un 25 aprile fra gli ulivi, sotto il tepore di una primavera baciata dal sole, non mi era ancora mai capitato. In un momento difficile per il Salento e per il suo albero rappresentativo, l’ulivo, minacciato dal batterio Xylella e dalla insipienza degli uomini che pensano di risolvere tutto ‘eradicando’ i patriarchi verdi ‘infetti’. Ecco allora che la festa organizzata dai giovani che gestiscono con questo progetto pilota denominato ‘Abitare i Paduli’ il cuore verde del Salento assume il significato di Resistenza, intesa come salvaguardia del patrimonio arboreo e di valorizzazione produttiva agricola e dei beni artistici e monumentali del territorio.
All’appello rispondono in moltissimi, e io fra questi, attratti dalla novità, dal programma che vede coinvolti numerosi cantautori salentini che si esibiscono gratuitamente e soprattutto per ribadire che l’idea di progresso si coniuga con quella di conservazione della memoria di questi luoghi e di questa cultura contadina che ha lasciato il segno nella bellezza e nell’armonia del paesaggio naturale.
Giorgio Ruggeri, uno dei fondatori del gruppo, una trentina di giovani, che gestiscono il progetto, mi introduce ai contenuti e alla articolazione del senso della loro iniziativa: ‘Abitare i Paduli vuol dire appropriarsi del territorio, viverlo, trasformarlo se necessario ma sempre qualitativamente, organizzare un turismo sostenibile fatto di camminate lungo i percorsi rurali, gite in bicicletta, nidificare i Paduli nel senso di utilizzare nidi-abitazioni biocompatibili e favorire il ritorno di una cultura della terra da molto tempo bistrattata e dimenticata’.
I comuni del circondario, San Cassiano, Nociglia, Supersano, Botrugno, ecc., scommettono su questa riconversione e opportunità del territorio come luogo e sedimentazione di memoria da preservare, ricordare e mettere a frutto, nel senso di adoperare le buone pratiche agricole che hanno consentito di mantenere vivi e vegeti questi patriarchi verdi, gli ulivi, che ora rischiano grosso.
Riconosco molti artisti e cantautori che il lunedì di Pasquetta si sono dati convegno sempre in zona agricola, a Corigliano d’Otranto, dall’Associazione Culturale ‘Mbroja’: P40 il menestrello di ‘ho fatto marketing con la k’, i Grifiu, Massimo Donno, Cristiana Verardo, Albina Seviroli che destreggia la chitarra come se fosse un tappeto volante su cui viaggiare in mondi sconosciuti, e tanti altri. Ma è il coro dei Paduli, condotti da Enza Pagliara, ad aprile il pomeriggio con una canzone di consapevolezza sulla attività agricola eco-compatibile che smaschera i pericoli da batterio che correrebbero gli ulivi. E con un discorso sul valore della Resistenza e con la canzone ‘Bella ciao’ danno il via alla festa, mentre nonni e bambini si divertono a confezionare sogni e ad affidarli agli aquiloni.
Sono trascorsi settanta anni tondi tondi da quel giorno nel quale una parte di Italiani decise di riprendere in mano i destini di un paese martoriato dalla guerra e dalla vergogna di un regime orrendo.
Erano anni terribili, di grandi passioni, di armi in pugno e di grande rischio. Ma i demoni della divisione e della furia furono tenuti fermi dalla saggezza e dall’amore per la Patria. Se solo una piccola parte di quei valori fossero p…resenti in coloro che oggi son chiamati a traghettare l’Italia fuori dalla palude della corruzione, del malaffare e della approssimazione saremmo il più grande paese del mondo, almeno dal punto di vista ivile. Ci restano un libro e una canzone: La Costituzione Repubblicana che da decenni cercano di massacrare e Bella Ciao che hanno provato a cancellare.
Ma sono cose scritte con il sangue e il sangue è difficile da nettare, il sangue versato sui monti dell’appennino tosco-emiliano, in val d’Ossola, nei campi di concentramento e nelle mille prigioni che un regime schifoso ha insozzato d’infamia.
Non si possono cancellare perché raccontano della libertà di un popolo. Solo che la libertà è un grande premio e anche una grande responsabilità e, spesso, questo popolo dimentica la seconda …
Al Comandante Bulow – che ci insegnò a combattere con coraggio, fierezza ed orgoglio. Per chi c’è, per chi non c’è ed anche per chi è contro.
Buona festa della Liberazione a tutti, perché la libertà è quella cosa per la quale tutti possono festeggiare ma possono anche non festeggiare. Per parte mia di feste ne ho due: quella di tutti e quella di San Marco. Mi attrezzo per entrambe.
Ricordi a volte tragici, a volte amari, a volte grotteschi
di Antonio Gala
Ascoltavo nel corso della mia infanzia il rombo assordante delle sirene, quando sotto il fuoco incrociato degli aerei angloamericani o tedeschi, scuotevano il nostro inconscio costringendo tutti, adulti o in tenera età, a trovare scampo nei rifugi o all’ombra dei nostri pergolati, ove riuscivamo, nonostante il rombo dei bombardamenti, a consumare gli avanzi delle nostre calde minestre, lasciate sul tavolo da pranzo delle nostre povere mense.
La città di Copertino, nel secondo dopoguerra, ha vissuto tutti i disagi legati alle problematiche della ricostruzione dalla fame e dalla povertà, ma soprattutto alle divisioni di una società, lacerata dai due conflitti mondiali che spesso si ripercuotevano anche all’interno delle famiglie. Piazza del Popolo era lo specchio delle idee che animavano i tre principali schieramenti; dagli altoparlanti posizionati nei punti cruciali del paese si scandivano i nomi dei protagonisti che si alternavano nelle piazze, quasi sempre affollate secondo gli orientamenti espressi dai partiti principali: le bandiere rosse sventolavano al nome di Pippi Calasso, il pioniere dell’antifascismo e dell’affrancamento del popolo salentino e regionale dalla povertà; l’onorevole Giuseppe Calasso affiancato dalla compagna e consorte Cristina Conchiglia che spese le sue energie per l’affrancamento delle tabacchine dallo sfruttamento e dalla servitù, per approdare poi al riconoscimento dei loro diritti, vilipesi e calpestati dai padroni, mentre il primo si prodigava per l’assegnazione delle terre dell’Arneo, incolte ed abbandonate nelle mani di feudatari che sfruttavano i contadini, in presenza di un vuoto sindacale che li proteggesse.
Che dire poi delle risposte legittimate da quello che accadeva in Russia, ove la dittatura social comunista mieteva vittime tra gli oppositori politici, risposte fatte proprie dallo Scudo Crociato, che con i vessilli bianchi alternava sul palco emeriti oratori, quali Codacci Pisanelli, l’attuale senatore a vita Urso o De Giuseppe, cui facevano seguito i copertinesi politici dott. Pando, dott. Ruberti, il prof. De Carlo.
Una ciliegina sulla torta piazzaiola ricomponeva le varie sfaccettature di diatribe e schiamazzi, che si sommavano in un quadro tragicomico quando entrava in scena l’onorevole Clemente Manco che insieme a Piero Sponziello attiravano l’attenzione pubblica con la loro bravura oratoria e competenza politica, il primo reduce della repubblica di Salò, ambedue poi militanti del M.S.I. di Giorgio Almirante.
Giovani universitari, di qualsiasi provenienza ideologica e di svariati settori professionali, accorrevano numerosi in piazza del popolo per ascoltare la verve oratoria dell’on. Manco, il quale ammaliava con la sua parola il pubblico, quando sotto il riflesso di quella lampada paonazza, come un globo fosforescente, che rendeva il suo viso come una figura spettrale, dal palco posizionato a lato del nostro amato Pascià, ricamava il suo discorso che non presentava una grinza di sgrammaticatura ed avviluppava destra e sinistra in un tiro a bersaglio, con la resa finale delle due parti sotto il fuoco incrociato delle sue invettive e della sua satira.
Era una fantasmagorica gara al diverbio, allo schiamazzo e agli insulti quella satira così forbita, che iniziando dall’elogio simpatico dell’oppositore politico, finiva poi col dileggio, definendolo come ciarlatano e parolaio, da cui derivavano tra i vari gruppi politici scorribande furibonde. Definire questa come allegria paesana, sarebbe forse riduttivo per chi è malato di nostalgia incurabile per un passato che definirei festaiolo rispetto ai tempi di oggi, in cui si è portato a perfezione l’istinto alla ribellione, divina (quella di satana contro Dio e le leggi divine), quella umana (con l’assassinio di Abele da parte di Caino), che ci ricorda le stragi dell’umanità, non ultima quelle dei campi di concentramento nazisti.
Sarebbe certamente bello rivedere, a proposito di Copertino nel secondo dopoguerra, il carretto con cui si vendeva la fortuna col pappagallo rinchiuso nella gabbietta, o i nostri nonni recarsi in campagna con l’asino e le bisacce, o lu “Sardone” raccogliere gli escrementi degli animali “lu rumatu” col carretto o ancora il cantiere de “li cazzapetre” pilotato dall’amico Totò Cimino, avaro di imprecazioni e parolacce , per la sistemazione delle strade dissestate e piene di pozzanghere.
Tempi felici quelli, quando i giovani si radunavano nell’oratorio di Don Rosario Trono, che ricordava il fondatore San Giovanni Bosco o nella Chiesa di San Giuseppe Patriarca, sotto la vigile e solerte presenza di Don Antonio Delle Donne; come non ricordare ancora Don Giuseppe Marulli, il custode delle memorie storiche copertinesi nella Basilica di Santa Maria ad Nives. Tempi felici, in cui i nostri ulivi secolari non avevano contratto il virus della xilella o non c’era la moria delle palme a causa del punteruolo rosso, ed un primario emerito come il Dott. Prof. Antonio Marcucci si salutava da questo mondo abbracciato alla madre natura, sotto un albero di fico o lu Cosiminu ‘Ttaccascope si portava nell’aldilà il ricordo dei suoi attrezzi con cui confezionava i suoi manufatti, che poi esponeva al mercatino, in piazza Castello.
Che dire poi del nostro asilo e delle suore dell’Istituto Moschettini, dei primi passi nella scuola elementare, con tanti bravi insegnanti, ligi alla cultura e rispettosi del nostro Tricolore e del Crocifisso, così vilipeso da alcuni docenti di oggi. A voi, cari miei predecessori, dedico questo mio componimento, con l’affetto che ancora mi porto nel cuore pi lu Ronzu ti li Scole e famiglia.
L’arte mi appassiona perché sa ancora farmi sorprendere laddove tutto il resto delle cose mi annoia e delude. Le opere di Stefano Bergamo incarnano molto bene questa filosofia poiché “incrociandole” si può avere, è proprio il caso di dirlo, come un piacevole trasalimento. Le prime immagini da lui prodotte le ho osservate sorseggiando un Mojito nel bar della piazza principale di Leverano (LE). Qualche tempo più tardi, chiedendo un po’ di informazioni ad amici, siamo giunti a fissare l’appuntamento per questa intervista.
Raggiungo l’artista all’interno del cortile di un altro bar dove attualmente è impegnato nella realizzazione di un grande murales nel quale viene rappresentato un tamponamento a catena di veicoli anni ’40 e ’50, tipici del suo stile.
Stefano è molto loquace; un paio di caffè e stiamo già chiacchierando.
D.:
È la prima volta che incontro uno “Street artist” e devo ammettere che l’allegria è la prima travolgente sensazione. Mi sorprendono a questo punto i tuoi studi universitari che, per quanto mi è dato di sapere, sottintenderebbero ben altre vocazioni: come hai conciliato la laure in economia con l’arte urbana?
R.:
Intanto vorrei precisare che la mia specializzazione post laurea riguarda la “Gestione, Conservazione e Valorizzazione del Patrimonio Artistico”, questo la dice lunga sulla vera e forte inclinazione artistica. Teoricamente quindi sarei un manager culturale ma nella realtà dei fatti ho lasciato che fossero altre passioni a prendere il sopravvento nella vita.
L’attrattiva per il disegno l’ho sempre avuta ma sicuramente coltivata durante le scuole superiori, quando frequentavo l’Istituto Tecnico Industriale; anche qui, a dispetto delle nozioni di geometria studiate, la grafica con la quale attualmente rappresento le auto nel mio traffico è totalmente sganciata da canoni assonometrici e regole prospettiche.
Il master nel ramo del merchandising, invece, mi è stato indispensabile per studiare le criticità di questo atipico mercato e concepire un genere di linguaggio più consono anche alla fruizione del pubblico.
È importante infatti che alcuni messaggi arrivino diretti all’obbiettivo.
D.:
Quali aspetti della comunicazione massiva si presterebbero alla delicatezza dell’arte?
R.:
Fondamentalmente sono attratto in maniera viscerale dalla pubblicità e da tutto ciò che è comunicazione visiva. L’uomo del nostro tempo è a dir poco dominato dagli spot che lo bombardano da ogni direzione; in tutto ciò l’aspetto che da sempre mi incuriosisce è il modo in cui una frase, un’immagine, un suono possano condizionare il consumatore tanto da indurlo all’acquisto del prodotto.
Poi, come è noto, ci sono delle indecenze anche tra le réclame ma io resto concentrato su quelle piccole opere d’arte che dal tempo del Carosello hanno affinato tecniche e modi di comunicare utilizzando colore, gestualità e soprattutto psicologia.
D.:
Possiamo dire che combatti il consumismo con le sue stesse armi?
R.:
Certamente mi avvalgo delle mie conoscenze in materia per evidenziare le gravi criticità di quest’epoca e del mondo caotico che ci circonda dove la televisione, con i suoi programmi di scarsa qualità, abbassano il livello medio culturale.
In questo scenario fatto di modelli precari, di personaggi “usa e getta” e di sentimenti a buon mercato, il paradosso sta nel fatto che alcuni stacchi pubblicitari siano talvolta più “impegnati” e interessanti rispetto al programma televisivo stesso che sponsorizzano. Oltre che indispensabili al commercio e alla libera concorrenza.
L’opera che mi prefiggo è quella di provocare nella mente dell’osservatore, tramite le raffigurazioni, pensieri di rottura rispetto allo standard e alla massificazione dilagante.
D.:
Anche se qualcuno colloca le tue opere in un contesto di postmodernismo io viceversa trovo lo stile più da Pop art. Tu in quale corrente ti rivedi?
R.:
Il mio stile trae indiscutibilmente linfa dai favolosi anni ’70 e lo possiamo leggere non solo nei vivaci colori ma anche nella scelta non casuale dei modelli di veicoli utilizzati in questi ingorghi urbani: dalla autoctona Fiat 500 fino al Maggiolone Volkswagen, passando per la Citroën 2CV e il furgoncino Transporter. Quest’ultimo veicolo in particolare ricorre spesso quale simbolo degli hippie e conseguentemente anche dello storico concerto di Woodstock del 1969.
Negli incidenti che dipingo qualcuno ci ha visto dei presagi funesti ma in realtà sono tutt’altro che sinistri: la rottura che intendo concepire è simbolica e catartica rispetto al caos quasi claustrofobico che ci circonda quotidianamente. L’idea è quella di frantumare l’ingorgo per creare nuovi spazi di manovra intorno a noi ma anche e soprattutto dentro di noi.
D.:
Quell’ingorgo di cui parli è legato anche alla crisi della creatività?
R.:
Indubbiamente la crisi economica che stiamo attraversando si riflette su moltissimi altri aspetti e quello creativo è uno di questi. Oggi persino i designer dei grandi marchi – dall’arredamento alla moda – si ritrovano a scandagliare i mercatini dell’antiquariato con l’aspettativa di individuare oggetti del passato dai quali trarre ispirazione o addirittura per rivisitarli con materiali contemporanei e tecnologie al passo coi tempi. Non meraviglia quindi che siano proprio gli articoli degli anni ’60 e ’70 ad affascinare creativi e non. Tra tanti esempi mi vengono in mente i frigoriferi bombati, da qualche anno riscoperti, oppure aziende automobilistiche che per ritornare in auge, e ad avere quindi successo nelle vendite, hanno dovuto riesumare vecchi stereotipi a discapito di un “moderno” nato vecchio. In fondo ciò che ha contraddistinto quel periodo è stato proprio il desiderio di libertà e la sensazione che da quel momento in poi tutto ciò che di bello poteva essere immaginato poteva anche essere realizzato. Un ottimismo che persino il mondo della musica ha saputo registrare sia con le note ché con la grafica di certe copertine.
D.:
Ti piacerebbe cimentarti nella realizzazione dell’immagine di copertina di un album musicale ?
R.:
Senza dubbio, si! Sono letteralmente folgorato dalla psichedelia delle copertine dei grandi gruppi storici come Pink Floyd, Genesis, e King Crimson. Oggi la ritrovo, in particolare, in quelle dei Radiohead.
Quelle raffigurazioni sono dei piccoli capolavori, formato tascabile, che non rimangono confinati a se stessi ma possono essere fruiti da chiunque. E poi c’è l’aspetto importante dell’interazione tra musica e grafica che, se vogliamo, permette di percepire il suono anche con la vista.
D.:
Come si potrebbe rigenerare la creatività?
R.:
Sono convinto che alla base del cambiamento ci siano sempre i bambini e loro soltanto, con la totale e innocente assenza di inibizioni, posseggono la chiave per percepire il mondo in maniera più giusta.
Durante un lavoro svolto in una scuola ho avuto modo di valutare personalmente, tramite disegni e colori, come la creatività dei più piccoli sia veramente libera. Col tempo, purtroppo, in molti casi questa dote innata va scemando. Già negli istituti dell’infanzia noi adulti gli tarpiamo le ali della libera creatività omologandoli, indottrinandoli a uso e consumo della società cosiddetta “civilizzata”, formando piccoli moralisti che crescendo contribuiranno solo a rendere più grigio il luogo in cui vivranno.
Adoro i bimbi e li prediligo a chiunque altro come osservatori della mia arte; le reazioni spontanee che hanno di fronte alle opere sono ciò che più si avvicina al mio obiettivo.
D.:
A questo proposito ho visto delle tue installazioni in cui hai utilizzato anche delle macchinine giocattolo. I bambini con quali occhi le guardano?
R.:
Quando realizzo gli incroci miniaturizzati i bambini sono presenti con tutta la curiosità che posseggono e mi ronzano attorno nell’attesa che il lavoro sia terminato in modo da poter usufruire di quelle piste che ai loro occhi altro non sono che semplici giochi per socializzare. Siamo noi adulti che lo abbiamo scordato nell’attimo in cui ci hanno interrogati dicendo: “non cresci mai?”.
Talvolta, tra le confluenze d’auto, introduco persino animali che possono essere da cortile ma anche di bosco o addirittura improbabili dinosauri e mi diverto così a osservare le reazioni degli spettatori.
Questo genere è nato all’interno di un concorso d’arte a Rieti – dove si trova la galleria che si occupa delle mie opere – giocando, appunto, con la differente accezione del termine incrocio. Quest’ultimo viene inteso non solo come intersezione stradale ma anche come contaminazione di vite umane o gruppi di persone che attraversandosi devono necessariamente scambiarsi giudizi, opinioni e concetti.
D.:
Perché proprio Rieti?
R.:
Ho partecipato ad eventi organizzati da diverse gallerie in giro per l’Italia ma con Studio7 Arte Contemporanea e la sua responsabile, Barbara Pavan, ho intrapreso un rapporto differente sia per la stima reciproca sia per il luogo geografico in cui si trova. Il parco naturale della Sabina, infatti, avendo una storia particolare fatta di razzie e innumerevoli scorribande, viene ancora oggi difeso dai suoi abitanti dall’eccessivo flusso turistico proveniente dalla capitale.
Questo particolare aspetto, che si ripercuote nello sviluppo economico e sociale, e conseguentemente sul mondo dell’arte, ha indotto la gallerista ha sviluppare nuove strategie di comunicazione per far si che fossero gli interessati a muoversi verso le opere e verso gli artisti e non il contrario. Ho subito abbracciato la causa.
D.:
Sono utili i servizi delle gallerie per promuovere gli artisti?
R.:
Per quella che è la mia esperienza posso ritenermi fortunato poiché molte pinacoteche gettonate oggi puntano poco sugli artisti emergenti e non è certamente un bene. Inoltre si diffonde sempre più l’utilizzo dell’arte come mezzo di ostentazione di un fasullo stato sociale; nasce così la pratica dell’affitto di capolavori dei grandi maestri al fine di sfoggiarli all’occorrenza, e solo durante affollati ricevimenti.
D.:
Quali sono i maestri dell’arte ai quali ti senti più vicino?
R.:
Sono tanti gli artisti dai quali ho cercato di carpire qualcosa e per ognuno vi è un aspetto differente ma a Jean Michel Basquiat ho riservato un posto speciale non solo per la sua travagliata vicenda umana ma soprattutto per quel suo stile inconfondibile, al limite del graffitismo primitivo. Tra gli artisti della Pop art che preferisco figurano Andy Warhol e Keith Haring ma più di tutti Mario Schifano che nella Roma degli anni ’60 aveva creato una pagina di storia importate insieme ai compagni della Scuola di piazza del Popolo. E poi adoro quasi tutti i grandi espressionisti del passato: da Pollock per la gestualità e la forza a Mark Rothko per quelle grandi campiture di colore con le quali sperimentava non tanto le forme quanto agli stati d’animo.
Tra gli artisti contemporanei, invece, non si può non considerare Banksy.
D.:
Quanto conta per te la sperimentazione?
R.:
La sperimentazione conta molto! Intanto perché mi permette di non limitarmi nell’uso della materia, sia come supporto che come strumenti di realizzazione. Da qualche tempo mi riesce difficile creare le mie opere su degli spazi particolarmente limitati quali possono essere le tele e per questa ragione mi trovo costretto a ricercare perlopiù grandi pareti per esprimermi.
Qui mi riallaccio all’aspetto dell’osservazione delle reazioni di fronte all’opera, che vale per i bambini ma vale ancora di più per gli adulti; mi piace infatti pregustare il momento in cui l’occhio del recettore, non ancora preparato, si ritrova in pochi attimi a contatto con un disegno realistico.
L’esperimento è talvolta esilarante.
D.:
Come giudichi i ragazzi che imbrattano muri privati o gli edifici storici?
R.:
I ragazzi, a giusta ragione, hanno sempre qualche messaggio da urlare per difendere la libertà di espressione e il loro futuro ma è un controsenso che a pagarne le conseguenze siano proprio i luoghi che simboleggiano il territorio in cui vivono. Vediamo ad esempio le mura di Lecce tempestate di stencil riportanti la scritta “No Tap” che, per quanto condivisibile sia il proposito, questo genere di protesta è al limite dell’inciviltà.
Invidio invece la capacità di certi Street artist di decorare intere facciate di palazzi ma quello è un altro discorso estraneo al vandalismo e che può avvenire soltanto in sinergia coi privati o con le amministrazioni.
D.:
In che modo si potrebbero migliorare le città con la Street art?
R.:
Una sola parola: colore!
La politica spesso pecca di distrazione mantenendo in stato di abbandono luoghi pubblici che ingrigendo rattristiscono anche il decoro urbano, quando invece si potrebbero tranquillamente affidare a giovani artisti gli spazi verdi e le strutture in disuso per rivalutarle e offrire così doppio servizio alla collettività. E ai ragazzi, se bene indirizzati, non manca certo l’inventiva.
Il Salento poi non è fatto di grandi metropoli ma di città e borghi che sono già “a dimensione d’uomo”. Dovremmo uscire da questo caos colorato nel quale ci siamo imbottigliati e ricominciare a guardare i fiori.
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