Il pasticciotto è il dolce per antonomasia degli abitanti del Salento leccese, ove è assolutamente immancabile in qualunque pasticceria degna di questo nome. Rientra perfettamente negli stilemi della cucina locale, caratterizzata come poche, da piatti semplici, sobri, ma dal gusto spesso sorprendente. Proprio, sorprendente, è l’aggettivo più appropriato per definire il gusto del pasticciotto, una sorpresa che aumenta quanto più aumenta la sua conoscenza, quando cioè si scoprono i suoi semplicissimi ingredienti.
Nessuna particolare alchimia, d’altronde, il segreto del suo universale gradimento e della sua inconfutata bontà, risiedono proprio nella sua semplicità.
Queste prerogative fanno si che con questo dolce i salentini usino scambiarsi omaggi nelle più disparate occasioni; da quelle liete, a quelle più tristi, è usanza, infatti, offrirli come “cùnsulu”, in questo caso come colazione consolatrice alle famiglie colpite da un lutto.
Per molto tempo, è stato esclusivo appannaggio della cucina aristocratica salentina e deriva probabilmente dalla torta di pasta frolla farcita con ricotta zuccherata ed altri ingredienti, ma già nei primi anni del “700 veniva
Periodo estivo, periodo di divertimento e di miriadi di sagre. Il Salento, territorio ormai evocato all’accoglienza turistica, che fra tutti vanta il maggior numero di comuni in Italia, deve quasi inevitabilmente promuovere le sue produzioni locali attraverso le sagre. Perché?
La sagra dovrebbe figurare il coacervo produttivo dei suoi residenti ed questo mi pare uno sforzo più che pregevole. La sagra è un elogio al territorio, su questo non ci sono dubbi ma da sola non colma il vuoto della sua promozione.
Al turista vero che arrotonda le critiche della sua ricerca sui social forum, al residente rassegnato che antepone lo sgabello sull’ingresso della sua abitazione per non far posteggiare, alla vecchietta costretta a rimuovere i vuoti a perdere dalla soglia della sua casa, a chi vuol parlare o riposare e non può per l’esplosione della musica battente, ci pensa mai qualcuno?
È possibile che tra questa baraonda di eventi ci sia qualcosa di tedioso e stonato o che non riesce ad andare per il verso giusto. Per questi e altri motivi, forse, il complesso delle sagre salentine non potranno quasi mai diventare ecosostenibili in toto. Ci sarebbe ancora molto da ridefinire.
Nel Salento ci si concede il lusso di visitare dieci sagre in una serata. Se non piace la melanzana, ci si conforta con la pizzica, se poi non piace neanche la solita tiritera, puoi spostarti al paese accanto dove c’è la sagra del maialetto e il giorno dopo sulla stessa piazza quella delle sue interiora.
A questo punto c’è da chiedersi come mai per le sagre di paese non esista un disciplinare comune per evitare disservizi e malcontenti e quanti sono quei comuni che in realtà, l’hanno pianificato? Solo poche amministrazioni previdenti ci hanno pensato, articolando una serie di regole, fondamentali per la buona riuscita di una sagra.
Il vacanziere che non conosce la nostra campagna e i suoi prodotti di stagione, potrebbe ritrovarsi nel bel mezzo di una sagra salentina a degustare qualcosa di non proprio intonato al territorio che lo ospita. Qualcuno di essi potrebbe pensare che nel Salento ci siano più castagne che olive o che le famose “pittule” si friggono meglio nell’olio di girasole che in quello d’oliva.
Ad esempio, la definizione di sagra non è molto chiara, non specifica se i prodotti debbano essere necessariamente locali, non è poi così importante, almeno, si spera non si utilizzino prodotti surgelati d’origine sconosciuta spacciandoli per prodotti freschi tipici e locali.
La definizione di sagra potrebbe riguardare il comune pensiero che si tratti di un evento a carattere folclorico, momento di aggregazione sociale, di trattenimento e svago, espressione di cultura, di tradizione e storia della comunità locale.
È certo che una sagra, quanto più è consolidata tanto più porta valore economico ma occorre ripetere e far garantire che i prezzi alla cassa siano equi per tutti e più bassi di quelli imposti nei locali al chiuso, che la tipologia dell’evento corrisponda realmente a quella descritta nella presentazione o almeno dare una parvenza d’informazione su quello che si somministra.
Per questo per non cadere nel tranello del binomio sagra – profitto, non ci si può improvvisare, serve esperienza, buon senso e delicatezza, delineare un disciplinare collettivo per conservare dignità e identità, rispetto dei luoghi e della storia che i patrimoni culturali ricevuti in eredità sono molto più importanti di quanto si pensi.
Mentre la passeggiata etimologica per l’italiano stoppia è stata abbastanza agevole anche se volutamente lunga (Enrico Mentana direbbe che si è trattato di una maratona etimologica …), quella sulle orme del salentino ristòccia, invece, vede il suo percorso costellato da parecchie insidie.
a) La prima consiste nel fatto che si sarebbe tentati di supporre la parola formata da re– (particella ripetitiva con riferimento alla pluralità degli oggetti indicati) + stòccia, trascrizione dell’italiano stoppia per il condizionamento esercitato dal gruppo –pi– seguito da vocale che ha come esito –cci– (latino sàpio=io so, >salentino sàcciu). Tale ipotesi non regge sul piano fonetico perché il condizionamento appare solo come una comoda forzatura per trasferire a –ppia– l’esito tipico di –pi-seguito da vocale, come conferma lo stesso salentino còcchia=coppia, che, come la voce italiana è dal latino còpula(m) attraverso il passaggio intermedio copla(m), proprio com’è successo a stìpula(m).
b) mostra di seguire il ragionamento precedente il Rholfs al lemma restùccia, così trattato:
La definizione stoppia, campo di stoppie e il principio generale enunciato nella prefazione che laddove la parola dialettale corrisponde alla parola italiana citata nella definizione significa che hanno in comune l’etimo.
c) subito dopo, però, ricorre il lemma restùcciu così trattato:
Non è chiaro se *restùculum sia derivato da un precedente *restùpulu(m) in linea con a) oppure sia da considerare forma diminutiva deverbale da restare.
d) Antonio Garrisi nel suo Vocabolario leccese-italiano, Congedo, Galatina 2002 al lemma restuccia: “dal latino arista>*aristùculum”. La proposta suppone un diminutivo, ricostruito, di arista, che avrebbe poi subito l’aferesi. Se l’aferesi è plausibile per errata discrezione dell’articolo (l’arestuccia>la restuccia), se è plausibile pure il diminutivo, non lo è la trasposizione semantica di spiga per stelo.
e) Nel latino medioevale è attestato restùchia, così trattato nel glossario del Du Cange:
Restùchia suppone un latino *restùcula(m), femminile singolare, o un *restùcula, neutro plurale di un *restùculu(m), entrambi da restare, come perìculum da (ex)perìri=sperimentare. Trafila *restùcula(m) o *restùcula>*restùcla(m) o *restùcla>restùchia.
Restùcium appare derivato sempre da restare, ma con l’aggiunta di un suffisso –ucium che non ha comportato successivamente alcun cambiamento fonetico.
L’ipotesi più attendibile, secondo me, è che ristoccia sia figlio diretto del medioevale restùcia, plurale del restucium registrato dal Du Cange. Quanto alla geminazione di c, sarebbe successo quanto avvenuto con carroccio che è dal latino medioevale carrocium.
E con questo son tornato, mi si dirà, all’ipotesi c) del Rohlfs; sì, ma credo di averla motivata sufficientemente e liberata, spero definitivamente, dai pericoli di indebita, secondo me, contaminazione con a) e con b).
Nel luglio del 1647, nel contesto dei vasti moti insurrezionali che interessarono il sud Italia, la città di Nardò, spinta dalla fame, dai soprusi e dalle decennali angherie perpetrate dal duca Giovan Girolamo II Acquaviva, insorse contro il proprio feudatario. Una rivolta cruenta, che vide la città serrare coraggiosamente le proprie porte per resistere al potente esercito organizzato dal duca. Dopo giorni di scontri ed una illusoria tregua, la vicenda raggiunse il momento forse più drammatico il 20 agosto 1647. In questa data, sei canonici, ritenuti tra i principali fautori dell’insurrezione, furono barbaramente uccisi senza alcun processo. Le loro teste mozzate furono poi lungamente esposte sul sedile cittadino nell’attuale piazza Salandra, accanto a quelle di altre vittime civili: un sanguinoso monito ai neretini sopravvissuti.
Alla vigilia dell’anniversario di questo tragico evento, la Fondazione Terra d’Otranto, la Città di Nardò, la Diocesi di Nardò-Gallipoli e la Consulta per la Cultura della Città di Nardò, hanno organizzato un interessante evento civile e religioso.
Mercoledì 19 agosto, alle ore 19:00, S.E. Mons. Fernando Filograna, vescovo della diocesi Nardò-Gallipoli, presiederà nella Cattedrale di Santa Maria Assunta una celebrazione in memoria delle vittime.
A seguire, su piazza Pio XI, la dott.ssa Maria Luisa Tacelli dell’Università del Salento presenterà il libro di Alessio Palumbo, Nardò Rivoluzionaria. Protagonisti e vicende di una tipica ribellione d’Età Moderna, Congedo Editore. Interverranno all’incontro il Sindaco di Nardò Marcello Risi e l’Assessore alla Cultura Mino Natalizio.
Nel corso dell’evento, la Fondazione Terra d’Otranto distribuirà gratuitamente l’opuscolo Dalla parte dei giusti. La rivolta di Nardò del 1647 descritta dall’abate Biscozzi, una trascrizione della principale testimonianza storica sulla vicenda.
La serata proseguirà con Una notte di note per i giusti:unricco omaggio musicale di artisti neretini e salentini, inframmezzato dalla lettura di alcuni brani del Libro d’Annali del neretino Giovan Battista Biscozzi.
Enzo Viti, Taccuini di Santa Cesarea, disegni, acquerelli, opere
e fotografie di Dario Caputo a Villa Raffaella
di Paolo Rausa
‘L’ora di tutti’, il bel romanzo di Maria Corti. Non era di queste parti, si intende il Salento, ma del nord, della sponda occidentale del Lago di Como, Valle Intelvi di fronte al Lago di Lugano.
Eppure Maria Corti è passata da Villa Raffaella, della famiglia Lubelli a Santa Cesarea Terme.
Una struttura elegante e imponente, giocata sui pieni e sui vuoti, sull’idea del palazzo munitissimo con torri eburnee e archi che racchiudono una balaustra arcuata con vista verso l’orizzonte orientale. All’interno, accolti da una frase non d’occasione ‘Domus tua haec’ (Questa è casa tua) si svolgerà dal 10 al 20 agosto una mostra d’arte, che contempla i taccuini di Enzo Viti, assiduo frequentatore di Santa Cesarea e proveniente da quella Matera di recente innalzata a Capitale Europea della Cultura per il 2019, le sue pitture e le fotografie di un figlio di questa terra, Dario Caputo.
Che cosa accomuni questi tre soggetti è Enzo Viti a spiegarlo, mentre si dispone a ritrarre l’ennesimo schizzo del paesaggio esclusivo di questa terra, ‘dove tutto si innesta per convergere verso la bellezza: il mare, i fiori, il verde’. Per Enzo Viti si tratta di amore a prima vista, da quando circa 15 anni fa gli è stato suggerito questo luogo baciato dalla fortuna: ‘Mentre me ne andavo a passeggiare e notavo questo equilibrio cromatico, esistenziale e materico, mi chiedevo in che modo potessi ricambiare questa sensazione di benessere’.
E da allora nessun angolo è sfuggito alla matita e ai pastelli di Enzo, ben 130 disegni sono stati elaborati dalla mente e dal cuore dell’artista e trasmessi sulla carta pronti per essere esposti nella struttura ricettiva di Villa Raffaella insieme a 13 pitture e ad una trentina di foto di Dario Caputo, figlio ossequioso di Santa Cesarea.
Inaugurazione il 10 di agosto ore 20. Per 10 giorni si potranno ammirare taccuini, pitture e foto a far mostra di sé nelle architetture di stile eclettico con elementi romanico-gotico-moreschi di questa villa progettata e realizzata dal padre di Maria Corti, l’architetto Emilio, che si inserisce in una teoria di costruzioni che si snodano lungo il litorale da Palazzo Sticchi e la sua cupola moresca a Santa Maria di Leuca, de finibus terrae, dove – dice Bodini – i salentini dopo morti ritornano con il cappello in testa.
Orari della mostra: dalle 20,00 alle 23,00, tel. 0836 944235, 335 6412163, www.villaraffaella.it
Il paesaggio di terra d’Otranto e Leuca è la somma di due civiltà millenarie: quella classica delle chiese e dei palazzi dei ceti benestanti e quella contadina dei meno abbienti, con le loro case basse, senza decori né colori, ma con una decisa identità architettonica e una storia parallela da raccontare. Perché un paese la sua storia la deve raccontare per intero e per poterlo fare deve essere tutelato e tramandato in maniera completa. Lo Stato purtroppo, tramite la Sovrintendenza alle Belle Arti, finanzia restauri solo per la conservazione delle chiese e dei palazzi, ma non dei centri urbani, altrettanto storici, e che avrebbero potuto testimoniare il patrimonio culturale (non solo coreutico-musicale) della nostra civiltà contadina.
Durante tutto lo scorso millennio il paesaggio salentino ha subito occupazioni di varie razze e culture che hanno lasciato stratificate preziose impronte architettoniche: Bizantini, Normanni, Angioini, Turchi, Aragonesi e Borboni. I loro stili hanno arricchito il nostro paesaggio di testimonianze storiche in tutti i centri urbani e su tutto il territorio da poterne fare un bene culturale da tutelare. Già dalla metà dell’Ottocento partivano da Lecce direttive e regole scritte per tutti i comuni di Terra d’Otranto e Leuca. Lo storico architetto Luigi Arditi, agli inizi del 900 controllava di persona che le commissioni edilizie comunali, nel dare licenze di edificabilità, tenessero conto dei stili, dei materiali e dei colori da utilizzare.
La prima legge di tutela territoriale e paesistica, valida su tutto il territorio nazionale, risale al 1922 e reca la firma del filosofo Benedetto Croce, ministro del governo Giolitti. A quella legge, nel 1939, il ministro Giuseppe Bottai, durante il regime fascista, aggiunse la tutela delle coste con il divieto di edificare entro i 300 metri dai mari laghi e fiumi dichiarati “Bellezze naturali nazionali”, vincolate come demanio pubblico.
Approfittando della necessità urgente di nuovi insediamenti urbanistici, durante il secondo dopoguerra, quei vincoli si allentarono e insediamenti e abusi edilizi sconfinarono per la prima volta sulle coste salentine. Inizio così per il nostro paesaggio un periodo di involuzione causato anche dalla confusione di ruoli e compiti tra lo Stato e le neonate Regioni, nonostante che la Costituzione Italiana, all’articolo 9, avesse assegnato allo Stato il controllo di tutti i beni territoriali e paesistici .
Nel 1972 infatti lo Stato assegnerà alle Regioni la gestione del territorio, ma, per la prima volta separato dal paesaggio che le Regioni, togliendosi ogni responsabilità, avevano delegano ai Comuni. Lo hanno fatto spedendo a ogni singolo centro abitato copia di un “Regolamento Edilizio Comunale”, appositamente redatto e tutt’oggi ancora valido ma, purtroppo, dimenticato nei cassetti di ogni ufficio tecnico comunale. Verrà ignorato dalla stragrande maggioranza dei cittadini.
Senza più nessun controllo, neanche quello da parte del nuovo ministero denominato all’Ambiente, il territorio nazionale subirà gravi abusi e scempi di ogni tipo. La Regione Puglia il suo “Piano Territoriale” lo redigerà soltanto nel 2014, cioè con 42 anni di ritardo dalla sua costituzione e 30 anni dopo l’emanazione della legge Galasso del 1985 che glielo imponeva.
IL PAESAGGIO “FAI DA TE”
Il paesaggio urbano dei comuni del Salento, non tutelato da un “Regolamento”, verrà lasciato quindi alla libera mercè dei singoli abitanti. Tutto questo in pieno regime consumistico e con il mercato e le industrie chimiche del nord pronte ad approfittarne spedendoci, a partire dagli anni 70, una valanga di prodotti per l’edilizia e per la tinteggiatura che in soli cinquant’anni hanno riempito di muffa gli interni e gli esterni delle nostre case e hanno cancellato gran parte delle testimonianze storiche, che avevamo ereditato dalla generazione precedente alla nostra. Di conseguenza si sono spente in tutto il Salento centinaia di fornaci, che producevano calce per l’edilizia e la tinteggiatura.
Durante tutto questo nostro ultimo decennio la crisi economica ha falcidiato migliaia di posti di lavoro e molti ex operai, senza più nessuna possibilità di trovare altra occupazione, si sono riversati sull’edilizia: soprattutto imbianchini, perché e un mestiere apparentemente facile e non avendo esperienza adeguata nella scelta dei materiali e della mistura dei colori, senza nessun regolamento e indicazione da parte degli uffici tecnici comunali, hanno fatto quello che hanno potuto all’insegna di un “ Fai da te” generale, come se fosse un modello di vita. Il risultato del loro operato è ormai sotto gli occhi di tutti, specie quelli increduli dei turisti che vengono a visitare il Salento.
UN SEGNALE DALL’”INDIVIDUO”
Molti dei Sindaci, sentendosi in prima fila tra i responsabili dell’involuzione del nostro paesaggio, fingono di ignorare il vecchio regolamento edilizio, promettono “Piani del colore” che sono costosi e richiedono tempi lunghi e immaginano risorse finanziarie che non ci sono. La loro segreta preoccupazione sta nel bisogno di mantenere buono e al completo il proprio elettorato, che gli permetterà magari quel secondo mandato che gli spetta per legge. La facciata color limone di una qualsiasi civile abitazione in pieno centro storico proprio di fronte al suo e nostro municipio, come per incanto, passa inosservata e inosservate passano tutte le altre che spuntano come funghi nelle periferie e, ormai, anche in aperta campagna.
Guardato da una certa distanza il panorama di un centro urbano lo puoi immaginare e fotografare come un insieme di case (e di persone), non più in sintonia e in armonia tra loro ma neanche con se stesse. Da vicino invece i scarabocchi e le scritte spray, a caratteri cubitali, sparse dappertutto, sembrano messaggi di un disordine sociale e di un individualismo esasperato, portatore di una solitudine non più sopportabile.
In epoche arcaiche, l’individuo, al calare della sera, appendeva per sua usanza, fuori, sulla sua porta di casa, una lampada accesa per segnalare la sua presenza ai passanti che ne avessero avuto bisogno. Vorrei poter dire che oggi, invece di una lampada, l’individuo, già di per se disorientato, usa il fronte esterno della sua abitazione, tinteggiandola con colori accesi: giallo, arancio, rosso, per segnalare a noi, o forse a sè stesso, non tanto la sua presenza quanto invece questa sua e nostra esistenza.
Anche oggi, così come nei tempi andati, è presente nella mente di ogni marito e moglie il desiderio di sapere chi dei due morrà per primo. Il marito o la moglie?
Alla lunga questo tarlo diventa un vero dramma, perché nessuno dei due è disposto a morire prima dell’altro, neanche nel matrimonio tutto zucchero e miele. Ognuno vuole sempre trapassare dopo di lei o di lui; ognuno desidera ardentemente allungare i propri giorni, ritardare il più possibile l’ultimo istante della propria vita.
E allora, come si fa a conoscere il futuro, se cioè morrà prima lui o prima lei?
È un vero mistero che in ogni tempo e luogo ha assillato e assilla la mente umana. Per questo motivo, la fertile fantasia umana ha escogitato da sempre numerosi sistemi per dare delle risposte plausibili all’inquietante enigma. Addirittura, è stato inventato un procedimento per ogni singola coppia di sposi (si ritiene che sia assolutamente infallibile). In pratica, si tratta di uno stratagemma “ad personam”.
Vediamo un po’ in cosa consiste.
Intanto il sistema è denominato la “Regola del nove”. Come prima cosa, si prendono i nomi (ma non anche i cognomi) dei due coniugi (badate, tutti i nomi anagrafici, anche se sono più di due). Non si prende in considerazione il diminutivo del nome, bensì il nome di battesimo. Ad esempio, se un uomo si chiama Pippi oppure Gigetto, è necessario considerare i loro nomi di derivazione, che sono rispettivamente Giuseppe e Luigi. Stessa cosa, ovviamente, vale per le mogli. Procediamo. Si sommano le lettere di tutti i nomi di entrambi i coniugi. Ad esempio, se i coniugi si chiamano Federico e Margherita, si ha un totale di 18 lettere (8 di Federico + 10 di Margherita). Dalla somma ottenuta, si sottrae il numero fisso 9, oppure un suo multiplo (come nel nostro caso). Se, invece, il totale delle lettere dei loro nomi non dovesse superare il numero 9 (ad esempio con i nomi Ugo ed Eva), si utilizza il sottomultiplo di 9, cioè 3, e lo si toglie dalla somma quante più volte è possibile.
Se il resto ottenuto è un numero pari oppure zero, significa che morrà prima la moglie, se, invece, il resto è un numero dispari, toccherà naturalmente al marito.
Tutto qui? Esatto, tutto qui! È troppo facile, vero?
Se qualcuno di voi, amici lettori, dopo aver applicato la “regola del 9”, si accorgerà che spetta a lui congedarsi dalla moglie e dal mondo, non dovrà prendersela con i propri genitori per non aver avuto un nome con una lettera in più o una in meno, ma, semmai, con il destino. Sì, proprio con il destino. Perché, a voler ragionare sino in fondo, è stato il destino a farlo incontrare con una donna con un nome a lui sfavorevole e viceversa. Magari, bisogna prendersela con se stessi, per non essere stati molto oculati nel momento della scelta del proprio partner. In passato molte persone non si sono azzardate a sposarsi, perché dall’esito della “regola del nove”, è emerso un esito a loro fatale.
Questo sistema è in pratica un “oracolo della Sibilla cumana” applicato ai coniugi.
Domanda. Come si sarebbe dovuta comportare una persona se fosse venuta a conoscenza della “regola” solo a matrimonio avvenuto ed avesse appreso dell’esito a lui o a lei sfavorevole?
La risposta è: niente! Ormai il destino è segnato!
Qualche intelligentone avrà senz’altro pensato che divorziando dal coniuge si potrebbe porre rimedio al problema e, magari in seguito, sposarsi con chi gli avrebbe garantito di morire dopo.
E no!… La “regola” è inflessibile con chiunque e, colui o colei, che si azzarda ad infrangerla, viene castigato ad una morte anticipata rispetto all’altro coniuge, con l’aggiunta che il “furbetto” spenderebbe un sacco di soldi per il divorzio, senza ottenere alcun vantaggio. Come dire: oltre alla beffa anche il danno! Perciò, la “regola del nove” non vale per gli sposati in seconde nozze.
Con questo breve scritto, non vorremmo aver messo la classica pulce nell’orecchio a voi lettori, molti dei quali – siamo convinti – appena finito di leggere l’ultimo rigo di questo articolo, si metteranno a far di conto sommando le lettere del proprio nome con quello del coniuge.
Attenti, però, perché se le sorti vi saranno sfavorevoli, non prendetevela con noi, ma con il fato. Ma se saranno a voi benigne, premiate questa rivista sottoscrivendo un abbonamento annuale!!!
Ora, prima di chiudere il pezzo, vogliamo parlarvi di una caso realmente accaduto a Nardò nel secolo scorso.
Una vecchia casalinga, appena conosciuto il sistema del “nove”, provvide immediatamente ad applicare la regola. I nomi erano tanti da addizionare, per cui doveva ricorrere ad applicare il “multiplo”, ma si trovò subito in grande difficoltà, poiché non ne conosceva il significato. Estremamente imbarazzata, telefonò ad un’amica per chiedere lumi, ma costei, presa alla sprovvista, rispose assai dispiaciuta che non sapeva darle una sicura spiegazione.
“Cce ssàcciu, cummare mia. Iò no’ sso’ ‘na professoressa o ‘na medichessa. Me pare, però, ca lu multiplu gghete ‘na mìticina. Perciò, vane a lla farmacia e fatti spiecare de lu duttore”.
L’anziana, desiderosa di conoscere il significato di questo benedetto “multiplo”, decise di seguire il consiglio dell’amica.
Arrivata in farmacia, la donna notò che il titolare era impegnato con un’altra cliente. Dovendo fare in fretta, chiese delucidazioni a Miminu, un inserviente suo amico, il quale, ovviamente, le rispose che non aveva mai sentito parlare di simili medicinali.
“Lu Multiplu?!?… No’ ll’àggiu mai ‘ntesa ‘sta miticina!”.
Giunta a casa, la donna raccontò ogni cosa al marito, il quale, sapendo di che pasta fosse la moglie e volendo prenderla in giro, fece finta di contare e ricontare le lettere dei loro nomi e di sottrarre quante più volte era possibile il “nove”. La moglie, intanto, seguiva con molta trepidazione l’andamento della conta. Ma ecco che, dopo un buon minuto di conteggi e riconteggi, finalmente il marito pronunciò, con voce sommessa, il verdetto.
“Mi tispiace, Ninuzza mia, ma tocca a te!”.
La donna, come è logico pensare, scoppiò in un pianto inarrestabile.
Ci pensò il marito a farla riavere.
“Cce hai capitu, Ninuzza!… Tocca a te cu mmi puerti li fiuri a llu campusantu!”.
La donna smise subito di piangere ed un sorriso radioso le inondò il volto.
A voler chiudere definitivamente la pratica, vi dirò che, purtroppo, fu lei a lasciare questo mondo per prima.
L’originale si conservava, secondo la nota a del brano del Caputi riportato alla fine della prima parte di questo lavoro, nell’Archivio del Monistero di S. Nicola e Cataldo. Ferdinando Ughelli lo pubblicò nel IX volume di Italia sacra1 . Da lì riproduco di seguito il brano che ci interessa.
A chi dovesse scandalizzarsi per il fatto che un re dava in concessione una sua proprietà (sulla modalità di acquisizione di questa e delle altre non mi dilungo …) con la finalità espressamente dichiarata di rinfrescare l’anima di tutti i suoi parenti defunti (ho semplicemente tradotto la nota espressione in dialetto romanesco …) e con l’altra, non dichiarata ma intuibile, di instaurare un rapporto di dipendenza la cui natura devozional-religioso-escatologica s’intreccia con quella politica ed economica, a chi dovesse scandalizzarsi per questo ribatto che il re disponeva, tutto sommato, di qualcosa che era suo. Oggi i detentori del potere dispongono dei beni pubblici come se fossero di loro proprietà e, se li danno in concessione, fosse il concessionario anche il potere ecclesiastico, lo fanno per assicurare un destino migliore non certo dell’anima ma solo del miserabile, ancor più dell’anima, corpo loro e dei loro discendenti. Dal diploma, perciò, traiamo la lezione che la democrazia non è certo il regime politico migliore che ci sia, almeno fino a quando il potere continuerà ad essere dei governanti e non dei governati, finché i primi non considereranno il loro mandato un onore, un onere, un servizio, un impegno sacro, una sfida e finché i secondi non saranno una buona volta uomini veramente liberi, coerenti, intransigenti, a partire da se stessi.
Dal diploma apprendiamo pure che Gualtina era il nome del fiume (nel dettaglio in basso evidenziato con la linea ellittica rossa), che doveva dare pure il nome alla zona.
Se Guatina, dunque, è deformazione (per influsso di guado?) di Gualtina, qual è l’origine di quest’ultima voce?
Tutti coloro che se ne sono occupati si sono rifatti (magari l’uno scopiazzando dall’altro) al lemma così come è trattato, passim, nel glossario del Du Cange, guardandosi bene dal citarlo.
Per concludere: quella che in passato fu la più importante, se non l’unica, peschiera di Lecce trarrebbe il nome, come molto spesso succede in questi casi, da una caratteristica del luogo. Il foresta di pesci del Du Cange dà l’impressione di contenere un riferimento all’abbondanza con conservazione, per Gualtina, del valore grammaticale di nome comune; io non escluderei la possibilità che Gualtina, già toponimo, contenesse un riferimento proprio alla selva che, presumibilmente, in tempi antichi ricopriva la zona. Ed in questo, se così è, avrebbe in comune il primitivo gualdo con GUALDO TADINO e GUALDO CATTANEO in provincia di Perugia, semplicemente GUALDO in provincia di Macerata e in provincia di Forlì-Cesena.
Un’ultima notazione: in Bacino di Acquatina, attuale denominazione della stessa zona (come risulta dalla comparazione con l’immagine satellitare tratta ed adattata da Google Maps), il nostro toponimo ha vissuto un’ulteriore tappa evolutiva.
Dopo il passaggio GUALTINA>GUATINA, quello GUATINA>ACQUATINA per un’errata discrezione dell’articolo con l’evidente influsso di ACQUA: LA GUATINA>L’AGUATINA*>L’ACQUATINA*>ACQUATINA.
E, a proposito di acqua e dei buchi in essa fatti, c’è da chiedersi: quanto reddito ha prodotto questo sito nei secoli passati, per tutto il tempo che è stato in concessione ai monaci e, invece, quanto denaro pubblico vi ha sprecato e rischia di sprecarvi ancora il faraonico progetto di ricerca e itticoltura mai completato e le cui costosissime ed avveniristiche strutture vengono attualmente attaccate dal nemico forse più antico e subdolo dei nostri manufatti: la ruggine?
Ingr. : kg 1,200 di granchi; 1 litro di brodo di pesce; 5 dl di passata di pomodoro; 1 dl di olio; mezza cipolla tritata; una presa di timo, 2 foglie di alloro e un ciuffetto di prezzemolo tritati insieme; 1 dl di vino bianco secco; 24 fettine di pane pugliese raffermo; fritte nell’olio; sale e pepe nero.
Sciacquate per bene e fate arrostire sulla graticola i granchi e triturateli con tutti i gusci. Unite in una casseruola l’olio, la cipolla, il trito di timo alloro e prezzemolo e fate imbiondire l’insieme. Aggiungete il trito di granchi e mescolate tenendo su fiamma bassa per una ventina di minuti. Bagnate con il vino e fatelo evaporare completamente, quindi unite il pomodoro, portate ad ebollizione e dopo una decina di minuti aggiungete il brodo, portate ad ebollizione e continuate la cottura per circa venti minuti. Passate tutto al setaccio, pestando con il pestello in modo da recuperare tutta la polpa, rimettete il tutto in un’altra casseruola controllate di sale aggiungete una presina di pepe nero macinato al momento e regolate la densità della preparazione aggiungendo brodo oppure facendola restringere sino ad ottenere la consistenza di una crema piuttosto fluida. Distribuite le fette di pane, fritte ben dorate in olio extravergine d’oliva, nelle fondine ricopritele con la crema di granchi e servite subito.
Tubettini al sugo di granchi
(Gnucculieddhri cu li caùri)
In una casseruola piuttosto larga, versate un filo di ottimo olio extravergine d’oliva unitevi della cipolla tritata finemente e appena questa sarà tenderà ad imbiondire i granchi per metà interi e per metà privati del carapace. Rigirateli e quando avranno cambiato colore divenendo della tipica colorazione rossastra unite un po’ d’aglio tritato e bagnateli blandamente con del vino bianco secco, quando anche questo sarà evaporato ricopriteli a filo con della passata di pomodoro o ancora meglio con dei pomodori pelati e triturati aggiustate di sale, unite del prezzemolo tritato e completate la cottura. Con il sugo ottenuto condite i tubettini o gli spaghetti cotti al dente e servite ogni piatto incoronato da un po’di granchi
Tubettini al sugo di granceola
(Gnucculieddhhri cu lu sucu ti suennu)
Per preparare questo piatto l’unica difficoltà, se così si può dire, consiste nel predisporre le granceole per la cottura: queste andranno spazzolate con cura onde eliminare le alghe e le incrotazioni calcaree che le ricoporono. Quindi staccate loro gli arti dal corpo e dovranno essere per così dire scoperchiate, rimuovendo il robusto carapace, cosa che si potrà fare facendo leva con il manico di un robusto cucchiaio. A questo si potrà procededere ad eliminare la sacca, sovente piena di detriti, che hanno in prossimità dell’apparato boccale e volendo a sezionare anche il corpo in tre quattro parti. Per la preparazione del piatto; versate un filo di olio extravergine d’oliva in una cassereuola fatevi scaldare due-tre spicchi d’aglio contusi e appena questi accenneranno a colorire versate un litro di pelati triturati, salate e portate ad ebollizione. Allogiate infine le parti di granceola; spolverizzate con pepe nero macinato al momento, unite una manciatina di prezzemolo tritato e continuate a far cuocere il tutto sino a che non si vedrà affiorare l’olio. Con il saporitissimo sugo ottenuto condite i tubettini cotti al dente e serviteli cosparsi di altro pepe nero e prezzemolo tritato al momento. Potete servire successivamente anche la granceola mettendo a disposizione gli appositi utensili per rompere gli arti permettendo di cavarne la polpa.
Versate l’olio in un tegame dai bordi alti e scaldate lasciate gli spicchi di aglio schiacciati, prima che imbiondiscano eliminateli e unite il riso, amalgamandolo con l’olio. Unite un trito di cipolla e menta e circa 700 ml di acqua calda in modo da ricoprire tutto il riso. Salate e fate cuocere a fiamma bassa fino a che non sia stata assorbita tutta l’acqua. Se il riso dovesse risultare ancora duro aggiungete altra acqua calda salata fino a cottura. Nel frattempo in una ciotola riducete in piccoli pezzi la polpa di granchio e conditela con sale e pepe. Unitela al riso qualche istante prima di spegnere. Lasciate amalgamare e servite.
Granchi in insalata
1 kg di granchi, olio di frantoio, aglio, prezzemolo, foglie di lattuga.
Lavate accuratamente i granchi sotto acqua corrente, calateli in una pentola contente acqua bollente salata e addizionata con abbondante vino bianco secco. Lasciateli cuocere per 7-8 minuti, quindi scolateli e lasciateli raffreddare. Togliete il carapace e gli arti e condite con ottimo olio di frantoio, un paio di spicchi d’aglio tritati non troppo finemente, succo di limone e prezzemolo tritato. Lasciate insaporire per una mezz’ora e servite su tenere foglie di lattuga. Costituisce un gustoso piatto estivo.
Qualche mese fa Giovanna Falco mi segnalava, con la generosità tipica quanto rara, sottolineo rara, del vero, sottolineo vero, ricercatore una notizia reperita nel corso di una sua ricerca, pensando, non a torto, che mi sarebbe potuta tornare utile e che, suscitando la mia curiosità, avrebbe potuto ispirare un approfondimento. Purtroppo allora ero già impegnato, pur non essendo un investigatore a caccia di colpevoli, in indagini che mi sottraevano perfino qualche ora della notte. Va bene, saranno state in totale al più una decina ma l’immagine fa tanto effetto e non ho resistito alla tentazione di amplificarla ….
Nell’occasione ringraziai Giovanna, ma la riconoscenza per lei forse più bella giunge oggi, non essendo autoimpegnato dalla necessità angustiante di concludere (quando mai …) a tutti i costi qualche lavoro, prendendo corpo in queste righe, per quanto poche e modeste.
Il lettore avrà già notato la “fedeltà” dell’autore salentino allo stesso editore salentino. Troppo assoluta, secondo me, per essere casuale e non, invece, un attestato di stima reciproca.
È tempo di tornare al La Guadina difesa, in cui l’autore sfata un pregiudizio popolare, frutto, forse, di un occasionale evento, secondo il quale i pesci pescati nella palude Guadina procuravano la morte a chi se ne cibava e, di conseguenza , assicura, sulla scorta di osservazioni dirette, che non era il caso di continuarne a proibire la pesca perché era infondata la ragione addotta per spiegare quell’evento eccezionale, cioè che le acque di quella palude salmastra erano putride, in quanto esse, al contrario, erano soggette ad un costante ricambio.
Ma dove si trovava questa palude Guadina?
Nella sua individuazione ci aiuta un foglio (il ventiduesimo) dell’Atlante geografico del Regno di Napoli di Giovanni Rizzi Zannoni con incisioni di Giuseppe Guerra, in trentadue fogli, uscito a Napoli per i tipi della Stamperia reale dal 1789 al 1808, integralmente consultabile in http://www.davidrumsey.com/luna/servlet/detail/RUMSEY~8~1~246514~5515020, link dal quale ho tratto i due dettagli che seguono.
La zona paludosa della Guatina (Guadina nel Caputi), dunque, si trovava nei pressi di Torre Chianca. Per dimostrare l’eccezionalità dell’evento che aveva favorito il sorgere del pregiudizio con i risvolti legislativi della proibizione della pesca il Caputi ricorre anche alla storia ricordando gli antichi “concessionari”, i Benedettini (p. 38):
Mi viene, però, da osservare come tra il 1181 e la metà del XVIII secolo (da come si esprime il Caputi s’intuisce che il provvedimento di proibizione della pesca doveva essere piuttosto recente) intercorre troppo tempo per non immaginare che in quel range temporale non si fossero verificati, magari solo saltuariamente, fenomeni simili. E, siccome spesso alla verità si giunge malignando, chi ci assicura che nel XVIII secolo i detentori del potere a Lecce non tentarono di sfruttare uno di questi episodi (potrebbero addirittura averlo favorito …) per sottrarre ai monaci una non indifferente fonte di reddito?
Voglio, però, ritornare sul privilegio del 1181 perché esso ci riserverà delle sorprese di ordine toponomastico e ci porrà domande di ordine, e ti pareva …, etimologico.
Lo farò nella seconda parte, perché il caldo affatica il lettore, anche se qualcuno più curioso e interessato (pure io avrei fatto lo stesso …) sicuramente non condividerà questa mia scelta; poi, magari, a lettura avvenuta del resto, rimarrà deluso …
Oggi è più facile che un incendio divampi a causa delle erbe secche di un campo incolto che per la stoppia non arata tempestivamente dopo la mietitura e che si era tentato improvvidamente di bruciare in modo controllato, nonostante tale pratica sia vietata dalla legge. A parte tutto, ogni tanto la cronaca ci informa di incidenti stradali avvenuti proprio a causa della diminuita visibilità per il fumo levantesi da stoppie incendiate.
L’italiano stoppia non pone etimologicamente alcun problema, essendo esemplarmente chiare le tappe della sua genesi, che qui ripercorrerò a ritroso sintetizzandole nell’albero che segue. commentando in calce i relativi passaggi ed altri dettagli secondari.
STOPPIA, dunque, deriva, con regolare evoluzione -pl->-ppi- [come in doppia che è dal latino dupla(m)] da stupla(m), accusativo di stupla, voce del latino medioevale così trattata nel glossario del Du Cange.
Il vecchio calendario rurale è il Menologium rusticum Colotianum (Calendario rurale di Colocci, l’umanista del XV-XVI secolo che lo scoprì) costituito da un parallelepipedo di marmo con iscrizioni (CIL VI, 2305) sulle quattro facce, rinvenuto a Roma e custodito nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Qui debbo aprire una parentesi per stigmatizzare, ancora una volta, una delle tante idiozie burocratiche in vigore. Chi fosse interessato a vedere il reperto nel suo complesso e i dettagli di ogni faccia con le relative iscrizioni può farlo all’indirizzo http://www.edr-edr.it/edr_programmi/res_complex_comune.php?do=book&id_nr=EDR143318 cliccando sulle relative miniature. Noterà in ogni immagine l’oscena dicitura Conc. Min. BB. AA. CC., divieto di riproduzione. Non mi chiedo neppure quanto eventualmente abbia dovuto sborsare l’interessato per poter fotografare il reperto, cosa già indecorosa, trattandosi di un bene pubblico e non di un’immagine rubata a Belen …
Sono, tuttavia, uno che rispetta le leggi (a meno che la violazione non sia indispensabile per salvare una vita), nella fattispecie anche quando, nell’era di internet, appaiono contraddittorie e demenziali, oltre che sospette, nel loro mancato aggiornamento. Vivo, da semplice cittadino innamorato dell’antico, nella speranza che qualche intellettuale di peso (non mi riferisco alla stazza fisica, perché il grasso fa male pure al cervello …) faccia sentire una buona volta la sua voce e costringa il legislatore a prendere atto di questo scandalo e a porvi rimedio.
Di seguito la trascrizione del testo e la sua traduzione.
Mensis / August(us) / dies XXXI / Non(ae) quint(anae) / dies hor(arum) XIII / nox hor(arum)XI / Sol Leone / Tutel(a) Cerer(is) / palus parat(ur) / messes / frumentar(iae) / item / triticar(iae) / stupulae / incendunt(ur) / sacrum Spei / Saluti D<i=E>anae / Volcanalia
Mese di agosto. Giorni 31. None cadenti il giorno 5. Giorno di 13 ore. Notte di 11 ore. Sole sotto il (segno del) Leone. Protezione di Cerere. Il palo (di sostegno delle viti) viene preparato. Messi frumentarie e triticarie (vengono raccolte). Le stoppie vengono bruciate. Sacro alla Speranza, alla Salute, a Diana. Feste in onore di Vulcano.
STUPLA deriva per sincope da STÙPULA appena incontrata nel nostro calendario e così trattata nel glossario citato.
Accolgo l’invito ma dico subito che per quanto riguarda il primo rinvio è da leggersi non stuba (padre del nostro stufa) ma stupa.
Stùpula appare come un diminutivo di stupa(che, tuttavia, non è attestato nel latino classico) secondo una collaudata tecnica di formazione che ha dato vita, per esempio, a puèllula=fanciullina da puella=fanciulla. Varianti di stùpula sono stòpula e stùbula, così trattate dal glossario già noto.
STÌPULA è la variante classica di stùpula che, come abbiamo, visto è forma epigrafica. Alla fine di questo lungo percorso vale la pena ricordare che la stìpula, cioè la conclusione formale di un contratto, deriverebbe dal citato stìpula(m)se dobbiamo dar retta ad Isidoro di Siviglia (VI-VII secolo) che in Etymologiae, V, 24, 30 così ricorda: Stipulatio est promissio, vel sponsio, unde et promissores stipulatores vocantur. Dicta autem stipulatio ab stipula. Veteres enim, quando sibi aliquid promittebant, stipulam tenentes frangebant, quam iterum iungentes sponsiones suas agnoscebant, sive quod stipulam iuxta Paulum iuridicum firmum sacramentum appellaverunt (La stipulazione è una promessa o impegno per cui gli stipulatori sono chiamati promittenti. Stipulazione, poi, è detta da stipula. Gli antichi, infatti, quando si promettevano qualcosa, tenendo una pagliuzza la spezzavano e congiungendola di nuovo riconoscevano le loro promesse, o anche perché chiamarono stipula secondo il giurista Paolo un saldo sacramento).
Con quanto detto fino ad ora ho esaurito i riferimenti a stoppia e cirieddhu/cervello del titolo (a proposito, vi siete accorti che è un endecasillabo perfetto?), anche se a proposito di quest’ultimo debbo augurarmi che il sole d’agosto non abbia a danneggiare ulteriormente (il rischio, purtroppo, mi appare francamente quasi inesistente) il contenuto, per quanto modesto, della calotta cranica di chi si ostina (e non è uno solo) a ripetere che la situazione sta migliorando, la pressione fiscale si ridurrà, anzi, giacché ci siamo, che fra due anni al massimo saremo la più grande potenza (e non solo economica) del globo. A pensarci bene, però, non tutto il male vien per nuocere perché questa volta almeno gli orgasmi trionfalistici sarebbero sinceri e per la buona fede bisognerebbe ringraziare il dio Sole …
Per ristòccia vi do appuntamento fra qualche giorno.
Riceviamo da Antonio Gala di Copertino e pubblichiamo
di Antonio Gala
Riflessioni sui mestieri e i passatempi del nostro passato, scritte in dialetto copertinese, in collaborazione con mio cugino Antonio che mi ha riscoperto tanti modi di dire in vernacolo che ignoravo del tutto.
Ancora per poco e non sentiremo più parlare la nostra lingua madre e il dialetto. Io che sono innamorato delle nostre tradizioni chiedo scusa a qualche orecchio sensibile e bene educato se l’ho disturbato con questa parlata fresca e popolare.
Quannu li strate non eranu ncatramate, lu trafficu era possibile sulu cu lli cazzapetre, ca eranu cantieri all’apertu ti disoccupati, pilotati spessu da llu Totò Ciminu, e si itìanu li Sarduni ngirare cu lli traìni càrichi ti rumatu, e li icchiarieddri sobbra alli ciucci cu lli bisacce e tuttu l’arsenale occorrente pi la fatìa ti li campagne.
Eranu quiddri li tiempi quannu, in mancanza ti li trattori, lu terrenu si scatinàa culla zappa e nc’eranu li antieri ca aprianu li surchi e tinianu lu passu pi quiddri ca stianu arretu, e stutannu l’arsura cu nnu mile d’acqua fresca, uardati a vista ti li patruni o fattori ca si ncarizzavanu li chiù spierti cu na pignata ti fae o pasuli. Si cuminciannu a preparare li quarantali pi la semina o cu si chiàntanu li legumi a tiempu giustu.
Prima cu fàcinu lu monumentu a San Giseppu nuesciu, dru spiazzale era lu campu sportivu pi tanti giovani, scapiddrati o ngarbati, ca ogne tantu praticavanu sciuechi pericolosi, infatti all’ingressu principale ti lu conventu ti li monaci, s’interravanu certe buatte cu llu carburiu intra, ca nui ni procurammu alla putea ti lu Pompeu Macella. Quannu la terra mmuddrata scioglieva lu carburiu, si bbicinàa nu stoppinu bagnatu allu bucu ti lu cuperchiu e lu barattulu saltava all’aria; era nu miraculu ci ti scanzava, sinò rimanìi struppiatu pi la vita.
La sera, dopu lu tramontu, si sciucava a taddru, sotta a na lampatina a petroliu e a picurieddru, ti saltavanu sobbra alli spaddre tanti vagnuni, unu dopu l’auru: lu prima cu nu saltu era a rriare sobbra a quiddru ca stia annanzi a tutti a picurieddru, e poi l’auri manu, manu si mbrazzavanu, formandu na catena umana.
A dra nnanzi, sotta la caserma ti carabinieri ti na fiata, intra nu bugigattulu fatiàa mesciu Crispinu; era bravissimu nel suo mestiere ti scarparu; ssittati tutti e doi: iddru e lu nipote, lu Cicu ,sembrannu do figure ti nu presepe anticu, tantu simpatici ca li amici ni inventarunu nu ritornellu:
“Mesciu Crispinu, cu lla punta e ssugghia,
rimane puirieddru, e di fatìa si scugghia
quannu si bbinchia ti acqua e sale,
tutta la notte cumincia a iastimare”.
Se lu pigghiava lu nervosu, scaricava la raggia sobbra all’anche ti lu Cicu, ca quannu no ni putìa chiui, ni ticìa: mi sta dai cu lla ssugghia intra all’anche, ma iò a ddrai no tegnu sola ti scarpe, ma carne viva.
A ddri tiempi si formavanu li squadre ti mmunnaturi, ognuna cu nu mesciu a capu, ca no sulamente si occupava ti la rimonda, ma mprizzava puru lu caricu ti ogne arriru; ogne mesciu era espertu in materia e no si era fare superare ti l’auru, specie ti lu lucirteddra, sinò si moltiplicavano li dicerìe e maldicenze; a mposciu si mintìanu tante aulìe a secondu ti li tumini, li stuppieddri e li quartuddri ca putìa produrre l’olivetu e sobbra na libretta,contrassegnava cu tante linette, lu caricu riscontratu, ca poi era dare cuntu allu patrunu. A mienzu alla squadra ti pàtrima nc’era n’infaticabile lavoratore, mesciu Arturu ti la Tofala, n’onza ti carne tuttu ossa e peddre. Era puru zzuccatore e riuscìa cu llu zzueccu e lu zzappone a costruire cisterne intra allu liccisaru ancora osce in usu; ma la vera specialità era cu troa lu erme intra allu troncu ti li àrriri ti aulìa, ca poi cu nu fierru a uncinettu lu cacciava ti fore e lu facìa itire a tutti, infilzatu e muertu.
Auru ca punteruolo rosso o lu virus ti la xylella!!
La Chiesa ti San Giseppu Patriarca, alli tiempi ti Don Antoniu Delle Donne era lu puntu d’appoggiu ti tanti vagnuni; lu sciuecu ca mi è rimastu chiù impressu pi la sua semplicità e pi la partecipazione gioiosa e spensierata, era quiddru ti li pùlici, ca consistìa nell’abilità ti lu giocatore di addossare una sobbra all’aura certe tavolette rettangolari plastificate, avvicinandole ti lu largu a chianu, a chianu, cu nu scattu ti la manu e itìi zumpare sti tavolette, comu fannu li pulici,quannu pigghianu lu largu, saltannu ti na parte all’aura.
E’ tanta la nostalgìa pi dri tiempi ca, a ricordu, n’aggiu dedicata questa poesia:
“RICORDI DELLA MIA PARROCCHIA”
Quante fraciddre brillanu stanotte,
lu Signore, prisciatu,ni apre li porte,
so l’anime ti li vecchi parrocchiani,
ca sciocanu a ncelu e battinu li mani.
Sentinu li campane ti lu Patriarca,
ardinu comu lampare ti na barca,
ricordanu dr’anguli ti sacristìa,
la recita ti lu Rusariu e na lunga litanìa.
Nostalgìa ca ti pizzica lu core,
lu parrucu ca ricama li parole,
tanti vagnuni culla capu a tressette,
strizzanu l’uecchi a dr’anime benedette.
Don Salvatore Marulli, lu parrucu nuesciu, continuàu la missione religiosa trasmessa da Don Antoniu Delle Donne e cu tantu entusiasmu e ardore giovanile si prodigò nella cura di questa sua nuova dimora,specie quannu si trattava di nicchie e statue ti Santi, ca li istìa sempre a nueu, comu se ghèranu frati sua; era felicissimu quannu in processione sfilavanu in occasione ti lu Innardìa Santu, e ni inìa na smorfia ti sorrisu intra ddri musi zuccarati, o quannu la Chiesa s’illuminava a festa pi lu triduu a S.Giseppu Patriarca o quannu si celebrava la messa a S.Rita o pi la nuvena ti la Maculata. Ma quiddru ca è rimastu nel cuore ti tutti era l’amore pi la famiglia parrocchiale, ti li adunanze e li festicciuole teatrali ca coinvolgevano randi e piccinni cu no parlamu poi di tutte le sue riflessioni scritte nel mese di Maggiu a devozione della Madonna, ca sontu ancora osce na ricchezza pi la Chiesa ti Roma. Propriu in occasione ti certi giochetti ca si svolgevano pi la festa ti San Giovanni Boscu composi dra poesia intitolata
“CONVERSAZIONE TRA SAN GIOVANNI BOSCO ED UN GIOVANE DROGATO DEI NOSTRI GIORNI”
Mi avvicino e ti guardo
Giovane dagli occhi spenti,
incespichi per via ed i passi rallenti.
Con la schiena ricurva ai piedi di un lampione,
tu ripensi ai tuoi sogni, ai sogni da campione,
ma dov’è, dov’è la tua forza primigenia,
che ti rese pari ad un fiume in piena?
Perché nei tuoi occhi di cerulei diamanti,
si stende quel velo di sogni infranti?
Io conobbi le segrete vie del tuo cuore
pause eterne di gioia e dolore.
Ti colse il pianto per un amico perduto,
ti sorrise la vita per un cordiale saluto.
Quel Cristo in Croce ti guarda e piange,
or che di veleni si nutre il sangue
Ma su, torniamo alle fonti del perenne amore,
tra gli spazi angusti di una chiesa in fiore.
Siano le tue parole germogli in festa,
un abbraccio al Padre, che a vita nuova ridesta!
A dri tiempi ti divertii cu nienti; si sciucava a latru e carabba, ca era na specie ti nascondinu a indovinellu per scoprire “ lu ladrunculu “ ca si era scusu a n’angulu appartatu ti la vicinanza; a curru, na specie ti trottola ti legnu, mmurigghiatu cu nu filu ti corda o spagu,ca inìa punzonata quannu spicciava ti ngirare prima ti l’aure.
L’invenzione ti lu scuecu a staccia, non è stata nu scherzu, ma è fruttu ti na fantasìa creativa ca no tene paragoni; nu cuntu era cu sciuechi a mazza e ticchiti, ca si facìa facennu zumpare all’aria cu na bacchetta ti legnu nu zzippitu mpizzutatu ti tutte e doi li parti; incìa cinca lu mannàa chiù largu possibile puru se spicciava a ncapu alli cristiani; nu cuntu ancora se si sciucava a sordi, tenendu comu bersagliu na parete lontana ti li sciucatori inti o trenta metri. Si misurava la distanza tra li monetine e la parete cullu parmu ti la manu e li nìcare eranu lu premiu chhiù ambìtu.
Li strie ca s’impegnannu cullu sciuecu ti la staccia, eranu zzumpare a mienzu a nove rettanguli tracciati a nterra trasennu ti na porticina t’ingressu, senza cu toccanu lu confine, sinò tra salame e salamone ti ni turnavi a casa culla capu ntrunata. La staccia la pigghiai saltannu sobbra ann’anca, rettangulu pi rettangulu, a fiate cu lli spaddre ngirate nanzi retu. Insomma era nu divertimentu e nu schiamazzu pi tante vagnuni ti dri tiempi. A tal propositu, riflettìti su stu componimentu scrittu tantu tiempu fa e riportatu sul mio opuscolo “Tradizione e Progresso”, intitolatu:
“Voci e suoni di altri tempi”
Passi a rilento su strade sterrate,
colpe rimosse dietro le grate.
Volti rugosi di un tempo antico,
un vecchietto pensoso in fondo al vico.
Bimbi in festa al suon d’organetto,
un uccello in gabbia con la fortuna nel becco;
giochi inermi sul sagrato d’una Chiesa,
mani ricolme di una gioia attesa.
Il canto mattutino del carrettiere,
spalle ricurve tra fatiche e preghiere,
una figura sbilenca con carretto ed ombrello,
crepe cucite con ganci ad occhiello.
Un lento picchiettio sulla pietra dura,
il tramonto canoro della natura ,
il fischio rauco di un treno a vapore,
promesse spose con un canto d’amore.
In piazza del popolo tinianu bancu dò famiglie ti fruttivendoli, li Trentacinque e li Pitrugliari ca si sintìanu ti lu largu quannu innìanu la frutta e li primizie varie, soprattuttu cachi, ma quiddru ca merita ancora osce nu premiu pi la correttezza e onestà “professionale” era lu Sebastianu Tarsi. Ti putìa puru pigghiare pi fessa,ma ti ni mannàa a casa cu lli buste e cascette chine ti ogni bene ti Diu… Non usava mai carta e penna o calcolatrice; si facìa li cunti a mente, cunnu sorrisu sempre binchiatu ti bontà e rispettu del prossimu.
Ancora osce,quannu lu esciu cullu bastone comu nu patriarca ti auri tiempi, mi bbicinu cu lu salutu e mi risponne educatu e cortese, cullu stessu voltu ti na fiata “grazie professore”.
Nu stratone ti campagna ti lu “Sceusu” era lu puntu ti ritrovu pi nu spuntinu a base ti cozze neure, provola piccante, murtatella, friseddree mieuru; eranu momenti spensierati dopu la fatìa ti la sciurnata e mesciu Tau Clemente, lu Pascalinu ti la popita, lu Cosiminu Cordella e lu Totò furnaru si ossigenavano lu cirieddru scherzannu e ritennu; mesciu Tau Climente cullu figghiu Enzu, sempre cullu voltu a sorrisu, facianu barba e capiddri, servendosi ti na bacinella china t’acqua ca era bastare pi tutti e nu rasulu ca si nfilava sulu, ti na facce all’aura; ma allu momentu opportunu dintannu mesci raffinati, confezionando abiti su misura, ca prima cu li indossi, li eri pruare tante fiate,usannu comu manichinu nu bancone e tante grucce ca cull’acure e li spilli mpizzugnati intra nu cuscinettu morbidu, sembravano tanti scheletri ambulanti.
A ricordu ti dri tiempi e di dri tramonti lunari, scrissi questo mio componimento:
“ La memoria: il sapore della vita”
Sfibrati come foglie secche ed asciutte,
lungo i sentieri della mia infanzia,
protetti dalle stanche luci dei lampioni,
si viveva la nostra povera felicità.
Volti cullati da sogni innocenti,
incontri furtivi al calar del sole,
si correva a nascondino,per ricamare
tuffi di gioia nelle dolcezze della natura.
Amici cari!! Il tempo fugace
sbiadisce con un velo,attese
e speranze dei cuori giovanili,ma
non cancella quel sorriso profondo,
quella stretta di mano,che tu
mi porgesti prima di compiere
un gesto fatale.
Usciremo di nuovo all’aperto,
alla ricerca dell’età dell’oro,lontani
dal frastuono di musiche chiassose
e di sostanze inebrianti,che rendono
uggiose e tremule al volo,
le ali del pensiero e della fantasia.
Maggiu e Giugnu eranu li misi ti la mietitura e li furisi turmianu all’apertu sobbra alli saccuni, cu partinu prima cu spunta l’alba, sinò lu sole facìa catìre a nterra lu ranu e l’uergiu prima cu bessanu mietuti.
Muniti ognetunu ti fauce e tre cànnuli ca ni coprianu li tècite ti la manu, pi paura cu no bèssanu tranciate, avanzavano a squadra, taccannu a nutu li scèrmiti ca eranu muntunati a ssiddri e a spina ti pesce cu si còcinu megghiu allu sole; cu cinque o sei ti sti mazzi facìanu li mannucchi, ca caricati sobbra alli traini, inìanu purtati all’aiara. Ma la fatìa no spicciàa a quài piccè s’era ccugghire la spiga rimasta dopu la mietitura e li femmine ti famiglia o paiate a sciurnata, curvate su stesse comu se sta cugghìanu aulìe, li facìanu a mazzi, e formavanu li fòffule. Li pignuni eranu n’opera d’arte, perché eranu sistemati sempre a forma di cono a punta e a secondu ti lu quantitativu eranu coprire la dovuta superficie e sollevarsi finu a na certa altezza;li mannucchi eranu disposti ti sotta a sobbra a forma ti raggiera, culli spighe a mienzu e la ristoccia ti fore. Putìa chiuire a cielu apertu, ma l’acqua a mienzu no trasìa mai. L’aiara ti Sammati era n’officina ti operai ca, rispettannu lu turnu loru assegnatu, cuminciannu l’opera, legandu li cavalli alla pisara, ca ngirannu cu l’uecchi quasi bendati, cu no ni ota la capu,comu pi la spremitura ti li aulìe. Ngirannu,ngirannu, riuscianu a ridurre dri mannucchi quasi a poltiglia, ca poi cullu farnaru e la pala inìa intulata, lassannu atire all’asciuttu, ranu e uergiu.
La cacchiame, cioè lu residuu ti l’uergiu,era tantu ricercata ca inìa venduta a balle dai trafficanti ti Santu Tunatu;cu queddra s’inchìanu li saccuni cu dorminu la notte li furisi; nu romanzu a parte,quannu mpigghiannu, piccè li furisi culli spalle larghe usavanu la brusca cu ni passa lu pruritu; figuriamoci poi se eranu contagiati maritu e mugghiere.
Li contadini chiù pettegoli commentavano a modu loro, sobbra lu monumentu certi aneddoti familiari e tinianu bancu cu sti confidenze: lu Pipò ni ticìa alla consorte “Ane chiù sotta” – “Quantu?” – “Chiù sotta, Chiù sotta”.
La raccolta ti tuttu stu bene ti Diu, mi rimanda a n’auru appuntamentu autunnale, la vendemmia, ca cuminciannu ti settembre finu a santu Martinu, tinìa tuttu lu paese in subbugliu. Leggiamo insieme comu si svolgeva.
“Vendemmia ti na fiata”
Ti coste allu sire, nu billanzinu
tirava tre utti cullu traìnu,
la fronte bardata cu nu nastru a nocca,
purosangue ti razza culla scoma a mocca.
N’album anticu ti trainieri e patruni,
spaddre cripate ti cufanaturi,
na femmina sperta sotta allu cippone,
si sciucava cull’uecchi nu beddru vagnone.
Si cumbrannu li sicchi,tineddre e cascette,
ma lu puddriddru spicciàu a fettine e purpette,
lu paese in festa tra spari e inviti,
carose mbrazzate culli mariti.
Addò spicciara li risparmi ti lu furese?
E li utti acanti ti lu Carrarese?
Ombre sfumate su na cartolina,
na prece a San Giseppu finu alla cantina.
Quannu ancora non era comparsa la squadra tufi, li uccetti si squadravanu culla mannara e mesciu Pici Palma ni putìa fare puru a menu, piccè li putìa limare culli manu. Iddru, cullu Totò Moschettini e mesciu Pici Trosu eranu esperti in assolutu comu costruttori ti case, specie se eranu culli volte a stelle. Nc’eranu poi intonacaturi ti lussu, ca a fronte tinianu comu distintivu ti appartenenza lu strumentu ca usavanu; ad esmpiu lu Corradinu Coppula era na brava cucchiara cussì puru li fratelli Rosafiu o lu Germanu Rizzo.
Na domanda ca ognunu ti nui si face è questa:ma comu è natu lu scalpellinu? N’aggiu canusciutu unu ca si chiama Antonio Paladini. Li sua sontu opere d’arte e à lavoratu alle Salette,alla chiesa ti San Cosimo e Damiano, alla basilica di Santa Maria ad Nives. La storia ti lu scalpellinu è antica e secondu lu maestru Paladini n’opera cuminciàa e finiva cu li mani sua, sin dai tempi più antichi.
Li lavori ad intarsiu, le rifiniture minuziose ti altari, bassorilevi e sculture ti Santi, ti rosoni, ti angeli, sontu tutte creazioni ti lu scalpellinu.
Siccomu lu discorsu è luengu, inviterei tutti gli appassionati ti st’arte cu visitanu li chiese da me citate o cu banu ti persona a casa sua. Aggiu cercatu a modu mia cu dàu na spiegazione sulla nascita ti n’opera d’arte mediante questi miei versi
Questa sera, 24 luglio, alle ore 20, presso il Castello di Andrano (Le)
1° Concorso di Fruit Carving
Artisti dell’intaglio della frutta danno spettacolo
Decorazioni, opere, arte, sfizi e capricci con coltellini e svuota frutta
in mano a professionisti e principianti. Ospite d’eccezione Michele Sardano
Avrà luogo presso le sale del Castello di Andrano, in provincia di Lecce, questa sera, venerdì 24 luglio, a partire dalle ore 20, il 1° Concorso di Fruit Carving, l’arte dell’intaglio della frutta. Il Concorso rappresenta la serata finale del Corso Base di Fruit Carving Thai che il maestro Mirko Monteduro ha tenuto nei giorni scorsi.
Ospite d’onore e d’eccezione della serata è Michele Sardano, Medaglia d’Oro Mondiale a Basilea nel 2013.
Il ricco programma prevede alle 20 una presentazione di decorazioni, arte, sfizi e capricci, mentre a partire dalle 21.30 avrà luogo l’esposizione di tutte le opere realizzate dagli allievi del corso. Alle 21.45 la performance dal vivo dei Maestri intagliatori che si esibiranno nella realizzazione di opere straordinarie e di grande spettacolo. Alle ore 22.30 ci sarà la proclamazione dei vincitori del Concorso e relativa consegna di premi ed attestati.
L’evento è svolto con il patrocinio del comune di Andrano e della locale Associazione Pro Loco, in collaborazione con l’Associazione di chef “Sapori Oriente d’Italia” e l’Unione dei Comuni di Andrano, Diso e Spongano.
Il comune di Roma ha recentissimamente deliberato che nella toponomastica viaria, laddove compaiano dei numeri romani, questi dovranno essere sostituti da lettere. L’innovazione riguarderà le nuove targhe e quelle vecchie ogni volta che si renda necessario sostituirle per deterioramento (il che, si sottolinea dagli autori dell’annuncio, rende l’operazione a costo zero) e risponde ad un’indicazione dell’ISTAT in ossequio a principi di standardizzazione.
Lascio immaginare al lettore quanti secoli ci vorranno perché tale processo (riguardante, come credo, tutti i comuni italiani) giunga a conclusione … a meno che qualcuno, fiutando l’affare, non metta su una bella società a qualsiasi titolo o una cooperativa (in certi casi è difficile individuare ciò che le distingue da un’associazione a delinquere …) che almeno per venti anni potrà dedicarsi alla lucrosa attività di danneggiamento o, meglio ancora, distruzione, di vecchie targhe viarie, assicurandosi l’esclusiva della realizzazione e/o sistemazione delle nuove …
Un esempio pratico: prendiamo il corrispettivo del signor Rossi, Via XXIV Maggio. Avrei da ridire già per quello che si vede scritto oggi, in quanto tutti i nomi dei mesi sono degli aggettivi e, quindi, andrebbero scritti con l’iniziale minuscola. Sulle nuove targhe si leggerà tutto in lettere, ma rimane la spasmodica attesa: troveremo scritto Via ventiquattro maggio oppure Via Ventiquattro maggio oppure Via ventiquattro Maggio oppure Via Ventiquattro Maggio?
Non è finita: anche le abbreviazioni dovranno essere sciolte. In questo caso mi chiedo: per esempio, Via S. Anna sarà Via Santa Anna oppure Via Sant’Anna oppure Via santa Anna oppure via sant’Anna (propongo il santa in minuscolo perché, secondo me, il rispetto è dovuto non in base al colore della religione; quindi, almeno per la par condicio, siccome santa è un semplice aggettivo e, per giunta, non derivante da nomi propri di divinità pagane, com’è per quasi tutti i nomi dei mesi, …). Come giustificare, in questo caso, a parte tutto, il ribaltamento della tendenza all’abbreviazione ormai imperante negli acronimi, negli sms, nel linguaggio televisivo ed in quello comune, dove la frase non viene completata perché il cervello è già in fiamme dopo le prime tre parole?
Se a cose fatte, poi, un’apposita circolare dell’ISTAT, i cui burocrati difficilmente avranno tenuto conto delle anzidette varianti, scioglierà il dilemma, la società o cooperativa di cui sopra potrà esercitare la sua benemerita attività per un altro secolo …
Tutto questo a chi ha ancora un minimo di buon senso può apparire demenziale e, forse, lo è. Tuttavia, anche se così fosse, non mi preoccuperei più di tanto, perché i pazzi si possono pur sempre controllare e rendere inoffensivi. Purtroppo credo che quest’ultima (magari lo fosse veramente …) invenzione, con l’alibi della modernizzazione e dell’adeguamento alle nuove tecnologie, (la locuzione fa sempre un effettone …) sia una, pur parziale, ratifica di un vergognoso processo, un ulteriore tassello aggiunto a quel mosaico, la cui subdola confezione dura da almeno un trentennio, ormai in fase di ultimazione e che avrà per titolo Morte della cultura e trionfo dell’ignoranza. Ma siamo veramente sicuri che le nuove generazioni di postini, tassisti, turisti, semplici passanti (tutti esclusivamente italiani …) saranno tutti in grado fra qualche anno di leggere le nuove targhe, sia pur tutte scritte in lettere, quando già oggi anche in un liceo classico non dico che la numerazione romana è un oscuro oggetto del desiderio ma che la stessa ortografia è un’opzione?
Io, intanto, per evitare che prima o poi l’UE mi tiri un orecchio e l’ISTAT l’altro, ho già messo in regola il busto (non so se al momento dell’esecuzione, visto il colore quasi paonazzo del marmo della testa, era più ubriaco il modello dello scultore …) che campeggia in funzione scaramantica nel mio studio, come testimonia la prova fotografica comparativa.
E per la via oppure per il viale oppure per il corso oppure per la piazza oppure per … il vico? Voglio essere scaramantico a metà: per qualcuno di loro, se ci sarà, diamo tempo al tempo …
Nell’elenco dei discepoli che nella prima parte ho riportato dal Toppi manca proprio Pietro Pomponazzi (di seguito in un’immagine tratta da Pauli Iovii Novocomensis episcopi Nucerini Vitae illustrium virorum tomis duobus comprehensae, & proprijs imaginibus illustratae, Perna, Basilea, 1576 (http://www.pitts.emory.edu/dia/detail.cfm?ID=105437).
La lacuna è abbastanza strana, poiché la fama dell’assente è di gran lunga superiore a quella dei presenti. Io non escluderei che tale mancanza sia da ascrivere ad una sorta di ostracismo del Toppi nei confronti di alcune opere del Pomponazzi giudicate non solo non convenzionali ma addirittura sconvenienti. Alludo al De immortalitate animae [nelle immagini che seguono: lo scarno frontespizio (a parte le note aggiunte nell’esemplare che è visibile in http://reader.digitale-sammlungen.de/de/fs1/object/display/bsb10149711_00003.html) della prima edizione uscita a Bologna nel 1516 per i tipi di Giustiniano di Leonardo Ruberiense (dati presenti nel colophon) e quello, con ritratto, dell’edizione del 1791], che fece scalpore perché vi si affermava che l’immortalità dell’anima non può essere dimostrata razionalmente, all’Apologia (1518) e al Dephensorium adversus Augustinum Niphum (1519) dove, invitato dalle autorità ecclesistiche a ritrattare, difese le sue ragioni. La controversia gli impedì di pubblicare altre opere di natura teologica (che uscirono postume con qualche modifica non sua) e lo costrinse a dirottare il suo impegno su altri argomenti, come mostrano il De nutritione et augmentatione, il De partibus animalium, entrambi del 1521, e il De sensu del 1524.
Ecco come Pietro si esprime riguardo al suo maestro nel trattato De reactione uscito per i tipi di Benedetto Ettore a Bologna nel 15151:
Il Pomponazzi, dunque, sente il dovere di citare il maestro ma subito dopo non può fare a meno di esaltarne la memoria, derogando alla freddezza della trattazione scientifica.
Ricordando l’aforisma leonardesco con cui si apriva la prima parte mi vien da dire che, stando alle pubblicazioni, l’allievo (e non mi riferisco solamente al Pomponazzi) superò certamente il maestro. Tuttavia la grandezza di uno studioso si può misurare attendibilmente col metro, anzi col peso (oggi più che mai solo cartaceo …) delle sue pubblicazioni? Me lo chiedo con l’animo scevro da qualsiasi condizionamento di carattere campanilistico e credo di meritare fiducia, visto che finora non mi sono lasciato sfuggire nemmeno un’occasione per stigmatizzare il fenomeno, antico e moderno, della nobilitazione, in alcuni casi pure truffaldina, delle memorie patrie o locali.
E, siccome l’attacco di megalomania in corso prima di rientrare ha bisogno di sfogarsi e nel ribaltare i ruoli provo un gusto maledetto, mi permetto di accostare all’aforisma leonardesco il mio che suona così: Tristo è quel maestro che non apprende dal proprio discepolo.
Sommerso come tutti da un’ondata di sgomento ed emozione, subito dopo il 31 gennaio 2009, ossia ancora in mezzo ai detriti e al pulviscolo del terribile crollo di Piazza Dante, cuore e luogo simbolo della Marina, pensai di creare su Facebook il Gruppo Amici di Castro, iniziativa che, invero inaspettatamente, nel volgere di pochi mesi, arrivò a raccogliere oltre duemila adesioni da ogni angolo d’Italia.
Cioè a dire, s‘innestò un incontenibile passa parola d’affetto verso l’amata Perla del Salento.
A un certo punto, le luci dello spazio comunicativo allestito sul social network intorno al drammatico evento vennero a spegnersi, forse per via dell’ineludibile legge del nuovo che avanza e/o della cronaca fresca che prevale e, però, almeno secondo la mia sensibilità di operatore culturale, osservatore e ascoltatore, le moltitudini di raggi d’interesse e d’attenzione verso Castro, da allora e in questi lunghi sei anni, sono sempre e vie più rimaste vive e illuminanti.
Naturale scia, adesso che, finalmente, la ricostruzione è stata completata, m’è venuto spontaneo il proposito d’inviare a tutti gli amici di Fb, e non soltanto a loro, un’immagine della mitica Piazzetta, fissata stamani, invitandoli, se non hanno già avuto l’occasione e il modo per farlo, di compiere una visita o trascorrere una vacanza in questa meravigliosa località e così ammirare di persona la rinascita di Piazza Dante.
Tristo è quel discepolo che non avanza il suo maestro
(Leonardo da Vinci, codice Foster III)
È noto quasi a tutti che Socrate non ci ha lasciato opere di sorta ma in compenso ci è possibile conoscere il suo pensiero attraverso quelle dei suoi discepoli, Platone primo tra tutti. Non succede spesso che il maestro lasci in qualche suo allievo un’impronta così viva da spingerlo a ricordarlo espressamente, magari anche in modo fugace , come nel nostro caso.
Il maestro è il neretino Francesco Securo, l’allievo il mantovano Pietro Pomponazzi, campo comune del loro sapere è la filosofia.
Prima di entrare nel punto centrale del tema credo opportuno dire qualcosa sui due. Su Francesco Securo riporto in ordine cronologico e in immagini (tratte dal testo reperibile al link volta per volta segnalato in nota e con a fronte la traduzione degli eventuali passi non in italiano), le più significative testimonianze, dicendo subito che quelle da lui cronologicamente più lontane poco aggiungono alle più antiche, che quel poco non è sempre suffragato dall’esibizione di fonti documentarie e che oggi è quasi impossibile, a meno di fortunati ritrovamenti, operare un controllo.
Antonio De Ferrariis detto Il Galateo, De situ Iapygiae (L’opera, terminata già intorno al 1520, fu pubblicata postuma per i tipi del Perna a Basilea nel 1553; il dettaglio sottostante è tratto dalla ristampa del 15581):
Leandro Alberti (1479-1552 circa), Descrittione di tutta l’Italia, Giaccarelli, Bologna, 15502, p. 214r:
Antonio Senese Lusitano, Bibliotheca Ordinis Fratrum Praedicatorum …, Nivellio, Parigi, 15853, pp. 81-82:
Quel claruit (fu illustre) del brano appena letto fa credere, almeno secondo l’autore, che Francesco raggiunse la fama nel 1490, cioè dieci anni dopo la morte, se accettiamo il 1480 tramandato dall’Alberti, subito dopo se optiamo per il 1489 riportato dagli altri.
Michele Pio, Della nobile et generosa progenie del P. S. Domenico in Italia, Cochi, Bologna, 16154, p. 382:
Ambrogio Del Giudice (detto Altamura), Bibliothecae Dominicane, Tinassi, Roma, 16775, p. 182 (anno 1455) e pp. 204-205 (anno 1480):
Niccolò Toppi (1607-1681),Biblioteca napoletana, Bulifon, Napoli, 16786, pp. 94 e 343:
Un Fra’ Felice da Castelfranco fu autore di una breve cronaca dell’ordine domenicano fino al 1565 ed è plausibile che si tratti di quello citato dal Toppi. Non è chiaro, però, se è pure opera sua l’additione ad Antonium Sabellum in cui si fa l’elenco di alcuni illustri discepoli del Securo, sui quali mi pare opportuno riportare qualche notizia.
Domenico Crimani (1461-1523) non scrisse alcuna opera, ma è ricordato come un raffinato collezionista di sculture, pitture e manoscritti oggi in gran parte nella Biblioteca Marciana a Venezia.
Tommaso de Vio (1469-1534), detto, dalla città di nascita, il cardinal Caetano o Gaetano fu autore abbastanza prolifico: In librum Job commentarii, Commentaria in III libros Aristotelis De anima, Commentaria super tractatum De ente et essentia Thomae de Aquino, De nominum analogia, Jentacula N.T., In Porphyrii Isagogen ad Praedicamenta Aristotelis, De conceptu entis.
Gaspare Contareno (1483-1542), più comunemente Gaspare Contarini, è cronologicamente incompatibile: come faceva, nato nel 1483, a seguire le lezioni del Securo che, come ci informa l’Alberti, era morto nel 1480? L’incongruenza si perpetua anche in Giovanni degli Agostini, Notizie istorico-critiche intorno la vita e le opere Degli scrittori viniziani, Occhi, Venezia, 1754, tomo II7, dove a p. 189 s’include il Contarini tra gli allievi del Securo con citazione in nota del Toppi.
Antonio Pircimano in realtà è Antonio Pizzamano, che fu vescovo di Feltre dal 1504 al 1512, autore di parecchie pubblicazioni: In Divi Thomae Aquinatis vitam praefatio, Vita del Venerabile Sacerdote D. Ludovico Ricci Vicentino, De intellectu et intelligibili, De dimensionibus interminatis, De quaerenda solitudine et periculo vitae solitariae, Opuscula sancti Thome.
Fra’ Geronimo di Monopoli, essendo il meno titolato, ha riscosso fin dal primo momento la mia simpatia, ma ogni tentativo di sapere qualcosa su di lui è miseramente naufragato.
Luigi Tasselli, Antichità di Leuca, Micheli, Lecce, 16938, p. 531:
Il Cardinale Gaetano è il Tommaso De Vio già citato dal Toppi. Francesco Ferrariense è Francesco Silvestri di Ferrara (1474-1528), famoso teologo e filosofo tomista; la sua opera maggiore è In libros S. Thomae Aquinatis contra gentes commentaria, uscita a Venezia per i tipi di Giunta nel 1524 che fu ripubblicata in un numero impressionante di edizioni prima e dopo la sua morte e per volontà di Leone XIII fu inclusa nell’edizione che da lui ebbe il nome di leonina a fianco del testo di San Tommaso. Altre opere: Adnotationes in libros posteriorum Aristotelis, Eredi Scoti, Venezia, 1517, Apologia de convenientia institutorum Romanae ecclesiae cum evangelica libertate, Viani, Venezia, 1525, In tres libros de anima, uscito postumo nel 1535 a Venezia per i tipi di Ballarino.
Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel regno di Napoli, Mosca, Napoli, 1748, tomo II9, parte II, pp. 321-325:
Giambattista Lezzi10, in AA. VV., Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, Gervasi, Napoli, 1826, Tomo XI:
Nella nota a della pagina iniziale della sua biografia, che riporto in dettaglio per comodità del lettore, il Lezzi attribuisce all’Altamura ciò che quest’ultimo mai scrisse:
Per la serie Anche le virgole nel loro piccolo sono importanti lo dimostra eloquentemente il dettaglio della pagina dell’Altamura già riportata:
Come il lettore noterà, ex Baronibus de Sancto Blasio à puero grammaticen doctus è racchiuso tra due virgole, il che lega indissolubilmente doctus a ex Baronibus e non ad ortus. L’interpretazione del Lezzi sarebbe stata valida se dopo Baronibus ci fosse stata una virgola.
In compenso la biografia del Lezzi reca in testa il ritratto del Securo eseguito da Guglielmo Morghen (1758- 1833). Sarebbe interessante sapere se in qualche modo l’incisore entrò in contatto, se non con la statua ricordata dal Toppi, almeno con l’affresco voluto dal vescovo Salvio11 secondo quanto affermato dal Tafuri12 e da lui ripreso dal Lezzi. Purtroppo del destino della statua non si sa nulla e del ritratto non c’è traccia nel palazzo vescovile.
Nonostante alcuni degli autori qui riportati sostengano l’esistenza di opere a stampa del Securo, peraltro senza riportarne gli estremi editoriali, e Giambattista Lezzi affermi il contrario, del neretino ho trovato l’incunabolo di una summa teologica tomistica, che presenterò in altra occasione.
11 Sull’alta considerazione che Ambrogio Salvio, vescovo di Nardò dal 1569 al 1577, ebbe di Francesco Securo ecco quanto si legge in Sebastiano Pauli, Della vita di Ambrogio Salvio, Stamperia arcivescovile, Benevento, 1716 (https://archive.org/details/dellavitadelvene00paol), p. 8:
I capolavori della maiolica di Castelli d’Abruzzo in mostra al Museo di Ostuni dal 18 luglio al 30 settembre 2015.
Il Museo di “Civiltà preclassiche della Murgia meridionale di Ostuni” espone nelle sale (ampliate per l’occasione) circa 180 maioliche provenienti dalle collezioni di Giuseppe Matricardi (Ascoli Piceno) ed Antonio dell’Aquila (Bari). L’organizzazione di un convegno di studi, finalizzato a ricostruire la storia della ceramica castellana e le sue influenze su quelle campane e pugliesi,rappresenta un grande progresso per la conoscenza delle produzioni di uno dei centri più raffinati a partire dal XVI secolo. Finora le maioliche, considerate “un’arte minore” rispetto alla pittura, non avevano una “storia” autonoma”, ma spesso erano l’espressione delle capacità e dello sforzo dei singoli collezionisti, mancando da parte delle strutture museali pubbliche una visione storica degli sviluppi nei secoli dell’artigianato ceramico. I tre secoli della maiolica castellana ci mostrano invece, grazie alle dettagliate schede di catalogo realizzate dagli Autori (Giuseppe Matricardi, Carola Fiocco, Gabriella Gherardi, Antonio e Carlo dell’Aquila), un’intima connessione con le vicende storiche in cui tali produzioni si sviluppano e la tradizioni di alcuni grandi famiglie che per generazioni hanno tramandato l’arte ceramica lasciandoci degli autentici capolavori. Visitare la mostra significa calarsi nelle società del tempo (XVI-XVIII) e cogliere nello splendore delle maioliche realizzate con grandi capacità artistiche ed eccellenti qualità tecniche i segni della storia riflessi in questa raccolta di maioliche molte delle quali finora inedite. La mostra è stata realizzata dal Direttore scientifico Donato Coppola, contestualmente all’Istituzione Museo di “Civiltà preclassiche della Murgia meridionale” di Ostuni e con il contributo di Giuseppe Matricardi e di Antonio e Carlo dell’Aquila.
Convegno di studi:
Sabato 18 Luglio, ore 16,30, Giornata di studio:
“Influenze e derivazioni tra le produzioni ceramiche di Abruzzo, Puglia e Campania”.
Relatori:
– dr. Giovanni Giacomini – Presidente del Museo delle Ceramiche di Castelli.
“I rapporti dei ceramisti castellani con l’area napoletana e meridionale”.
– dr. Carola Fiocco e dr. Gabriella Gherardi – Storiche della Ceramica:
“Influenza napoletana sulla ceramica di Castelli nel periodo illuministico”.
– dr. Antonio e prof.Carlo dell’Aquila – Collezionisti e ricercatori della ceramica:
“Stemmi e cartigli – Influenze e derivazioni tra Castelli e Laterza”
“Considerazioni su alcuni esemplari in stile Compendiario di controversa attribuzione”.
Don’t shot the pianista (Non sparate sul pianista) recitava un cartello apposto dal proprietario del saloon nel Far West, poiché il locale, essendo frequentato da personaggi di vario tipo, era soggetto a risse che potevano degenerare. Secondo me, e attribuisco alle genti di origine non latina un senso dell’ironia che mai hanno avuto, in più di un caso il pianista fu vittima non di un proiettile vagante, ma delle sue scarse doti artistiche …
Dal Far West ai giorni della mia fanciullezza, quando sui mezzi pubblici campeggiava ben visibile (come oggi non succede sui moduli di contratti assicurativi, bancari, etc. etc., nonché sulle etichette a norma UE; era da appena una settimana che non la mettevo in mezzo) il cartello È severamente vietato parlare al conducente. Immaginatevi quel povero cristo di tranviere romano costretto a non rispondere alla passeggera sexy che, magari con fare ammiccante, gli aveva posto la domanda: C’è una fermata in via Scopatori segreti?1.
Per quanto detto, e operando con quello che in linguistica si chiama incrocio, non parlerò al pianista (inteso come musicista che suona il piano, non nel significato neologico non ancora registrato di chi ne tira uno di tipo geometrico o di altro tipo moralmente eccepibile …), che non c’è, e non sparerò, in assenza del conducente, nemmeno sul conduttore, nel nostro caso Osvaldo Bevilacqua, e sulle sue consolidatissime vesti (vista l’età cominciano ad apparire un po’ sdrucite …) di conduttore/giornalista promotore turistico (sta bene a tutti) piuttosto che di giornalista/conduttore che scopre gli altarini (starebbe male a molti). Senza, perciò, lasciarmi influenzare più di tanto dal suo cognome che è in linea con le immancabili, televisive raccomandazioni stagionali (è dura per me, che, pur senza essere un alcolizzato, amo il vino fino ad essere giunto da ragazzo, quando mancava, ad ovviare con aceto, quello di una volta …, e zucchero), debbo però dire che la prossima volta, fossi lui, starei più attento a prestare la mia faccia ad un servizio televisivo potenziale vittima di un montaggio balordo (dando per scontata la buonafede …), che nel nostro caso ha finito per attribuire al territorio di Porto Cesareo ciò che invece appartiene a quello di Nardò.
Le personalità politiche neretine non hanno perso tempo a stracciarsi le vesti in manifestazioni di sfegatato campanilismo, inattese e insospettabili da parte di alcune di loro, visti i precedenti.
C’è solo da sperare che a trasmissioni melense di questo tipo chi decide il palinsesto televisivo ne affianchi altre di più ampio respiro e che magari alla serie Sereno variabile si alterni una dal titolo Nuvoloso costante, affidandone la conduzione, tanto per fare un nome, a Milena Gabanelli (i soliti idioti diranno che omina omina, cioè i nomi sono presagi, dimenticando che Gabanelli si può collegare, tutt’al più, con gabbano (corta veste da camera, camice da lavoro), voce di origine araba che non ha nulla a che fare con gabbare, che è dal francese antico gab, di origine scandinava) riservando a lei l’ingrato (e pericoloso …) compito di parlare di trivellazioni, TAP e del famigerato tubo della merda (contro il quale è nato il movimento NO-TUB2 ), attualmente, anche dopo un referendum, oggetto di ripensamento (speriamo che a furia di pensare i residui neuroni non vadano in fumo …), per colpa del quale, se sarà realizzato, certamente non potremo esibire i luoghi, tutto sommato, ancora incontaminati e le acque cristalline del filmato.
Sarà, però, difficile attribuire al GAL(eotto) del titolo il significato di intermediario d’amore, che esso assume nel celebre verso dantesco3 , certamente più nobile di quello del suo omografo4, sinonimo, in pratica, di furfante, canaglia.
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1 Non so se la via esiste, ma Scopatori segreti erano chiamati gli addetti alla cura e alla pulizia degli ambienti privati del Papa. L’attuale, molto probabilmente (e lo dico, una volta tanto, senza ombra di ironia), lascerebbe scopatori ed eliminerebbe segreti.
3 Galeotto fu il libro e chi lo scrisse (Inferno, V, 137). Da Galeotto (adattamento italiano del francese Galehault),nome del principe che nei romanzi del ciclo bretone favorisce l’amore tra la regina Ginevra e il suo amico Lancillotto. Insomma un uso antonomastico come successo, per esempio, con Cicerone, usato pure come sinonimo di guida.
4 Diverso l’etimo: da galèa, ai cui banchi il condannato era costretto a remare. Variante di galèa era galera, da cui deriva l’attuale significato.
L’ATTIVITA’ LETTERARIA DI SIGISMONDO CASTROMEDIANO E L’ULTIMO LIBRO DI FABIO D’ASTORE
di Paolo Vincenti
“Manoscritti giovanili di Sigismondo Castromediano. (Archivio Castromediano di Lymburg)”, edito da Mario Congedo (2015), è l’ultima fatica di Fabio D’Astore, Presidente della Società “Dante Alighieri” di Casarano e docente di Lettere presso la Scuola Media – Istituto Comprensivo di Ruffano. D’Astore è un profondo conoscitori dell’attività letteraria del “duca bianco” Sigismondo Castromediano, avendo ad essa dedicato molti studi, fra i quali “Mi scriva, mi scriva sempre… Regesto delle lettere edite ed inedite di Sigismondo Castromediano” (Pensa multimedia 1998); “Dall’oblio alla storia. Manoscritti di salentini tra Sette e Ottocento” (Congedo editore 2001); Le biblioteche private nel Salento e “La Biblioteca” di Sigismondo Castromediano, in “Archivi e Biblioteche: la formazione professionale e le prospettive della ricerca in Puglia(Atti del Convegno di Studi, Arnesano 25 ottobre 2002)”, a cura di F. de Luca, Milella 2005; Beni culturali e identità nazionale in Sigismondo Castromediano, in “L’identità nazionale. Miti e paradigmi storiografici ottocenteschi(Atti del Convegno di Studi, Cavallino, 30-31 ottobre 2003)”, a cura di A. Quondam e G. Rizzo, Bulzoni 2005.
La figura di Castromediano, cui è intitolato il nostro Museo Provinciale di Lecce, indefesso ricercatore di memorie patrie, personaggio di spicco del Risorgimento italiano, è stata appena affrontata dal recentissimo libro “Sigismondo Castromediano: il patriota, lo scrittore, il promotore di cultura. Atti del convegno Nazionale di Studi (Cavallino di Lecce, 30 novembre-1 dicembre 2012)”, a cura di F. D’Astore e A.L.Giannone, edito da Congedo per il “Centro Studi Sigismondo Castromediano e Gino Rizzo” (2014). Nel libro, a lumeggiare sul Castromediano letterato è stato proprio D’Astore col suo saggio “Passi inediti di un manoscritto delle Memorie di Sigismondo Castromediano”. Nello specifico, D’Astore si è soffermato sull’opera maggiore di Castromediano, quella per cui noi tutti lo conosciamo come scrittore, ossia le “Memorie” di cui, anche alla luce di documenti di recente acquisizione, D’Astore sta curando la riedizione critica. Varrà la pena ricordare che il libro “Carceri e galere politiche. Memorie del Duca Sigismondo Castromediano”, del 1895, che riporta ai duri anni trascorsi dal liberale Castromediano in prigione, ed è una delle opere più significative della memorialistica risorgimentale, è stato ripubblicato in ristampa fotomeccanica, prima nel 2005 e poi nel 2011 da Congedo per le cure di Gaetano Gorgoni. E di questa opera, di cui si conoscono numerose varianti, si è anche di recente ritrovata una nuova versione, manoscritta, recante la stesura completa delle Memorie, grazie allo studioso Gigi Montonato che ne riferisce in “Notizia intorno al recupero di un manoscritto delle Memorie”, nel volume degli Atti sopra riportato.
Ora, in quest’ultimo libro appena pubblicato, con il patrocinio della Città di Cavallino e del “ Centro Studi Sigismondo Castromediano e Gino Rizzo”, con una Premessa di Gaetano Gorgoni e una puntuale Prefazione di Antonio Lucio Giannone, D’Astore si occupa del materiale contenuto nell’archivio dei Castromediano di Lymburg a Cavallino di Lecce, oggi riordinato e inventariato grazie a Rosellina D’arpe la quale, dopo avere annunciato le linee guida del lavoro nel convegno del 2008, i cui atti sono stati poi pubblicati in “I Castromediano di Lymburg e il loro archivio – primi interventi e prospettive. Atti del convegno di Studi (Cavallino di Lecce, 28 novembre 2008)”, a cura di R. D’Arpe, edito da Congedo nel 2010 (e in cui è contenuto il saggio di D’Astore “Lettere a Sigismondo Castromediano e suoi scritti giovanili”), ha poi reso noto l’esito del lavoro svolto, nel Convegno del 2012 e quindi nel saggio “Un contributo alla storia di Terra D’Otranto: i Castromediano di Lymburg e la loro memoria storica”, contenuto nel già citato “Sigismondo Castromediano: il patriota, lo scrittore, il promotore di cultura” (2014).
Torniamo al libro che si presenta. Nel Catalogo dei manoscritti di argomento letterario, D’Astore censisce i seguenti testi: un manoscritto cartaceo, autografo, contenente “Il parricida cegliese. Versi”(fra 1834 e 1837); un ternione cartaceo, autografo, contenente “Cenni biografici. Caballino” (1839); un manoscritto cartaceo, autografo, contenente la novella “Il forzato di Brindisi” (1839), la poesia “Alla bella dormente. Versi” e “Il suicida”; un manoscritto cartaceo autografo contenente la breve prosa autobiografica “Schizzo del mio carattere” (1839), la prosa di viaggio “Frammenti d’impressioni in un viaggio fatto al Capo di Leuca” (fra 1838 e 1840), la novella “Uno istante e la sorpresa. Avvenimento storico” (1839); un senione cartaceo, autografo, contenente la stesura definitiva di “Uno istante e la sorpresa. Avvenimento storico” (1839), la poesia “Discorso preceduto ad un’Accademia di poesia pel Natale di Cristo e recitato nella parrocchiale di Caballino nel 1842” (1839), e il breve racconto autobiografico “Parlo di lei. Al Cappuccino P.Alessandro da Uggiano la Chiesa” (1842); un manoscritto cartaceo, autografo, contenente il breve racconto autobiografico “La Carità italiana. A Giovanni Grassi – Lettera” (1846); un manoscritto cartaceo, autografo, dal titolo “Indirizzo di nobil cuore” (1846); un manoscritto cartaceo, autografo, contenente il dramma storico “Il sacco di Pavia”; un manoscritto cartaceo, autografo, contenente lo scritto paesaggistico “Un sogno” (1860-1862); un altro contenente la versione francese, “Un reve”, dello scritto di sopra; un altro contenente lo scritto “Esposizioni e riflessioni sul dramma intitolato La vita come Dio la manda di Olimpia Savio Rossi” (1859); un manoscritto cartaceo, autografo, contenente lo scritto autobiografico “Emendamenti, aggiunte e dichiarazioni alla biografia di Sigismondo Castromediano per Bartolomeo De Rinaldis” (1863) con due aggiunte del 1865; un quinterno di fogli protocollo, idiografo, contenente delle varianti dell’opera “Memorie”; un quinterno di fogli protocollo, idiografo, contenente ancora altre versioni dell’opera sua maggiore “Memorie”; un manoscritto cartaceo, idiografo, contenente tre stesure dell’opera “Caballino – comune presso Lecce e l’antica Sibaris in Terra D’Otranto” (1890 circa); un altro contenente il testo “Commento al libro secondo delle Odi di Orazio”; un quaterno cartaceo che tratta di problematiche letterarie; e infine un duerno cartaceo contenente il testo “De Petronio satyrarum auctore quaestiones”. Di questa imponente mole, D’Astore analizza e riporta nelle pagine centrali del libro, alcune opere, che, anche a detta di A.L. Giannone, sono le più interessanti e letterariamente pregevoli: tutte prodotte dal Castromediano prima dell’arresto e della lunga degenza nelle galere borboniche, dunque fra il 1838 e il 1846. Il libro ci fa conoscere la produzione giovanile di Castromediano, su cui si erano soffermati in passato altri studiosi, data l’importanza di questa produzione nella ricostruzione della bibliografia ma anche dei motivi di ispirazione, dei modi e degli accenti della sua carriera letteraria. D’Astore cataloga questi scritti con grande competenza filologica, fornendo tutte le varianti delle opere e corredando il testo di un poderoso apparato critico. Viene fuori un quadro il più possibile completo del personaggio Castromediano; il vasto diorama della sua produzione letteraria denota una ampiezza di interessi ed un eclettismo che lo rendono figura di intellettuale universale . Dalla prosa ai versi, dalle novelle ai racconti, dagli scritti di contenuto amoroso al dramma storico, dalla memorialistica al racconto di viaggio, agli scritti di carattere erudito, spazia fra i generi e gli stili, la sua versatilità. Tutti questi caratteri, l’autobiografismo, la passione civile, le istanze didattiche e pedagogiche, l’amore per la nostra terra, presenti in nuce negli scritti giovanili, troveranno poi massima esplicazione nelle opere della maturità. Perciò il libro realizzato da D’Astore appare prezioso e necessario, nella pur fecondissima messe di studi fiorita intorno alla figura del Duca Castromediano.
Nell’immagine che segue la cronistoria comico-tragica di uno scambio di idee susseguitosi qualche giorno fa in Facebook sul blog LA LINGUA BATTE-Radio 3 (https://www.facebook.com/groups/266491950145853/?fref=nf). Prego chi ne ha la voglia di leggere attentamente il documento perché le osservazioni che seguiranno faranno puntualmente riferimento, com’è mia abitudine, ai suoi punti più significativi.
Oggetto del contendere: si scrive qual’è o qual è?
Il documento originale da cui tutto è partito è il qual’è che compare nel dettaglio riprodotto da Anna Elisa Orofino. Non sapendo se l’autrice del post l’avesse ritagliato personalmente oppure riciclato da altro sito e se la citazione del testo da cui era stato tratto fosse o no di seconda mano, considerato che pure io sarei in grado, senza scomodare Photoshop, di costruire un documento fasullo dagli effetti ancor più esilaranti, ho operato un controllo preliminare che senza la rete, tengo a sottolinearlo, sarebbe stato, se non impossibile, quanto meno difficoltoso e, comunque, avrebbe comportato una notevole perdita di tempo. Chiedo scusa ad Anna Elisa per non essermi fidato ciecamente (non lo faccio nemmeno con me stesso) di lei.
L’introduzione e le note del volume sono di Attilio Brilli e, siccome qual’è si legge nella nota 12, sappiamo a chi attribuire la reale o presunta “perla”. E se, a più riprese, Nicola Federici ha tentato di sdrammatizzare con interventi umilmente ironici che hanno suscitato il mio apprezzamento (tant’è che per ogni suo intervento uno dei mi piace è il mio), Giovanni Lopriore è stato il primo a far notare quello che poi tutti hanno stigmatizzato come errore. Tutti, meno Marcello Meli, le cui repliche mi hanno decisamente sconcertato, tanto più che si definiva filologo pedante. Siccome diffido pure di quelli che, a torto o a ragione, si attribuiscono un qualsiasi titolo, sono andato a controllare (grazie ancora, rete!) e ho appreso dal suo profilo su Facebook che Marcello Meli è veramente un filologo (vi si legge Professore presso Università degli Studi di Padova). Un rapido controllo sul sito dell’università mi ha informato che Marcello Meli è Professore ordinario di filologia germanica. Dato per scontato che quello del profilo non è un omonimo e che, quindi, siamo veramente in presenza di un filologo, per quanto riguarda il pedante non riesco ad immaginare a cosa sarebbe arrivato il docente nella soluzione del nostro problema se non lo fosse stato …
Egli, infatti, ha tentato di difendere, con argomentazioni generiche e non sempre calzanti nel dettaglio, la sua opinione che, a mio avviso, propone, in ultima analisi, una sorta di grammatica fai da te, quella in parte prospettata e, per i miei gusti accettata troppo supinamente, dallo storico della lingua Giuseppe Antonelli nel saggio Comunque anche Leopardi diceva le parolacce, Mondadori, Milano, 2014. Sarà pure un caso ma sempre dalla rete (https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Antonelli_(linguista) apprendo che il professor Antonelli collabora con la sezione linguistica del portale “Treccani.it” dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, conduce inoltre su Radio 3 la trasmissione “La lingua batte”.
L’errore ortografico è collegato allo sviluppo e all’evoluzione di una lingua. Per questo motivo non convince la giustificazione dello scrittore Roberto Saviano che, dopo le critiche ricevute per aver postato in un messaggio su Twitter “qual e” con l’apostrofo, ha affermato che continuerà a scriverlo sempre così proprio come facevano Pirandello e Landolfi. Ma questo ragionamento non funziona: non può esistere oggi un’ortografia personalizzata e l’errore di grammatica è ritenuto un errore sociale grave. Sono molti i casi in cui, nella lingua italiana, forme considerate inizialmente corrette sono poi state bandite perché valutate come improprie: ad esempio, fino alla seconda edizione dei “Promessi Sposi” la grammatica imponeva la forma “io parlava”, “io faceva”, “io andava”. Ma questo non è certo un buon motivo per riproporla anche oggi.
Pur condividendo in pieno l’opinione generale del professor Antonelli mi permetto, paradossalmente, di osservare che tale opinione, per quanto porti acqua al mio mulino, nello specifico è basata su un dato fasullo, meglio su un dato spacciato come reale da Saviano e che era doveroso, sempre, controllare, non perché non bisogna non avere fiducia in Saviano ma perché può capitare a chiunque di noi di essere convinto di aver letto qual’è mentre c’era scritto qual è.
Per farla breve: sfido chiunque a trovare in Pirandello un solo, dico un solo qual’era. Ho fatto un controllo accurato senza neppure perdere troppo tempo (se qualcuno è interessato mi chieda come si fa e sarò felicissimo di passargli la dritta) e posso affermare che quello di Saviano è (a meno che non abbia creduto di leggere una cosa per un’altra) solo un bluff parziale andato, purtroppo, a buon fine. Eppure sarebbe bastato chiedergli di citare opera ed edizione di Pirandello in cui comparirebbe qual’è.
Diverso il discorso per Tommaso Landolfi per il quale, sempre con la stessa tecnica, ho trovato quanto segue in
Pur continuando a condividere quanto detto dal professor Antonelli, questa volta mi permetto di ipotizzare che il qual’è sia un errore del proto, visto che nello stesso testo il Landolfi mostra di ben conoscere la forma tronca qual:
Sullo stesso link della Treccani segnalato all’inizio è citato un qual’era pure per il Collodi, ma anche per lui, come già per Pirandello, il controllo ha dato esito negativo.
A me sembra che la documentazione allegata sia più che sufficiente, se non per affermare, almeno per sospettare fondatamente che il nostro errore (e non solo quello) sia da imputare ad uno scarso controllo dell’editore (o da chi da lui delegato) e che il fenomeno si allargherà a macchia d’olio ora che chiunque può realizzare il sogno di pubblicare, naturalmente pagando, qualcosa, anche nei casi in cui avrebbe fatto meglio a scrivere il suo capolavoro non in un file ma su un rotolo di carta igienica …
Credo che il lettore anche più sprovveduto, e non solo in campo largamente espressivo e strettamente grammaticale, abbia ben compreso che la forma esatta non può essere ma dev’essere qual è, anche se qualcuno ha dimostrato di aver sostituto l’acribia che dovrebbe distinguere un filologo, pur non pedante, con l’approssimazione e con un’indulgenza che malamente si conciliano con l’educazione, non solo grammaticale. Meno male che, a parte l’Accademia della Crusca, anche Fabio Volo, la pensa come me …
Raccomandazione di servizio: siccome il titolo è quello che rimane più impresso, e non solo perché sta all’inizio, dimenticatevi il qual’è che vi campeggia. Certo, il dialettale salentino quale ggh’è non avrebbe creato tutti questi problemi, ma non potevo infilarlo proprio nel titolo, perdendo oltretutto l’irripetibile occasione di farmi dare della capra (ma perché all’indirizzo dei maschi non usa capro o caprone o becco o montone?) da Vittorio Sgarbi …
Cruel (oltre al titolo del libro, pubblicato da Mondadori) è la redazione giornalistica romana nel romanzo thriller di Salvo Sottile, che presenta l’opera a Maglie, nell’atrio del Liceo Capece, nell’umida sera del 27 giugno scorso. Amos è il nome del cane molecolare, donato dai Lions Club di Puglia al Prefetto di Lecce e al Dipartimento di Medicina legale dell’Università degli Studi di Foggia e del Gruppo K9. Il tutto all’interno di un Convegno dal tema “Violenza e comunicazione”, dove il conduttore televisivo Salvo Sottile rimarca che la “crudeltà, come tutti i vizi, non ha altro motivo che se stessa: ha soltanto bisogno di un’occasione”. Il cane Amos, abilmente addestrato, sarà un altro validissimo collaboratore nel lavoro investigativo delle Forze di Polizia,utilizzato nei ricorrenti casi di cronaca nera. Proprio come nell’atroce omicidio di Marta Luci, studentessa universitaria, descritto nel romanzo di Sottile, trovata morta in un ex ospedale psichiatrico della Capitale. Ad occuparsene vi è anche Mauro Malesani, giornalista della redazione Cruel, divenuta un vero “ campo gravitazionale del male”, crime magazine di grande successo, diretto da un carismatico psichiatra di successo. Ad inchiodare l’attenzione degli ospiti, accanto al neosindaco di Maglie, Ernesto Toma e il Presidente del Lions Club Maglie, Sandro Tramacere, è il giornalista palermitano, già conduttore di “Quarto Grado” di Mediaset e de “La Vita in diretta-Rai Estate”, Salvo Sottile, intervistato da Massimo Gravante, Alba Iacomella e da chi scrive. Nella duplice scansione del programma della serata magliese, prima con la Relazione del Gruppo K9 sull’utilità dell’ausilio dei cani nell’attività investigativa, poi con la discussione sul nuovo romanzo di Sottile, un filo rosso tiene insieme la tematica della spettacolarizzazione della violenza, accolta talvolta troppo enfaticamente nei contenitori dei mass media, condizionati quasi sempre dalla logica degli ascolti e del numero dei lettori, invogliati all’acquisto dei giornali. Domande e risposte si susseguono con garbo e ironia tra chi intervista e l’autore di Cruel, il romanzo del noto giornalista televisivo, Salvo Sottile. Molto apprezzate le sue conclusioni, da cui traspare la sua profonda conoscenza del mondo della cronaca nera, maturata in 24 anni di professione giornalistica. Qualcuno ha anche la presunzione, egli dice, di riconoscere il male,di poterlo sconfiggere. Ma come accade nei casi reali, non esiste mai un colpevole certo né una sola verità. Semmai cene sono tante, tutte valide e tutte solide agli occhi della logica. Solide fino a che non arriva una verità più forte, si posa sull’ultima e fa crollare tutte le altre. Chi scrive confida agli astanti,che immaginando di dover rivolgere la parola all’autore del libro, Cruel, Salvo Sottile, ogni espressione poteva passare tranne che quella di “dottor Sottile”, riferimento a quel personaggio, Giuliano Amato, in odore più volte di elezione al Quirinale per la somma carica della Repubblica Italiana. Con un sorriso autorironico, il giornalista Sottile, afferma che il suo pensiero oggi è al lavoro in Rai. Più in là, forse, a farsi carico di tutti i problemi degli Italiani, magari dopo una Presidente donna, ci farà un pensierino. Poi la serata si conclude tra selfie, foto di gruppo e autografi apposti su tante copie del volume acquistato per una avvincente lettura.
A Natale mi è arrivato uno dei più bei regali dello scorso anno: il libro di Giorgio Cretì “Ortelle e dintorni” dono per i sostenitori della Fondazione Terra d’Otranto.
Questa pubblicazione, che raccoglie tutte le sue opere letterarie, mi ha richiamato i Meridiani di Mondadori e dopo averlo letto ho pensato che l’opera sia stata un degno modo per valorizzare uno scrittore di spessore non noto ai più.
In questi giorni di questa estate che non si decideva ad arrivare ed ora ci delizia col suo caldo ecco che giunge come un felino predatore la nostalgia per il Salento.
Sei intento a fare le tue cose e a un tratto senti in’inquietudine, non vedi l’ora di ritornarci, di vedere quei posti, quelle persone, quei sapori che sono la tua gente, i tuoi posti, i tuoi sapori. Così gironzolando davanti alla libreria ecco che come magneticamente, mi capita fra le mani il gradito dono e mi vien voglia di rileggere alcuni racconti come panacea alla nostalgia, ma anche per il piacere di immergermi di nuovo in quel mondo come in un liquido primordiale.
Avevo apprezzato già in passato alcuni suoi racconti sul sito e una pubblicazione sulla panificazione e ne ero stato piacevolmente colpito. A parte la gradevolezza e la forza espressiva mi avevano interessato la capacità di trasmettere un sapere antico che io avevo assaporato con i miei nonni, i miei genitori e tutto quel mondo di amici, parenti, vicini di casa, paesani che ti fanno sentire bene parlandoti, sorridendoti, prendendosi cura di te, facendoti crescere non solo nel corpo, ma anche nell’anima.
Quelle cose che sembrano banali, ordinarie sono le tue radici, il mezzo che ti lega alla terra e che ti porta il suo nutrimento. Non le vedi, non le tocchi, ma ti servono come l’ossigeno dell’aria che i polmoni aspirano e le cellule di ogni parte del corpo utilizzano per vivere. Da quelle radici ognuno trae la linfa che lo farà diventare quello che è.
Ma spesso la memoria si perde, le persone care se ne vanno e non risenti più le storie, i proverbi, i consigli, le istruzioni per fare una cosa, il nome e il posto di quella pianta particolare.
La memoria è uno strumento insostituibile per ognuno di noi così come per la comunità (memoria collettiva), ma è anche fragile come strumento e talvolta, pure se rimane nel nostro cuore, è impossibile richiamarla nei nostri pensieri.
Ogni comunità cerca di salvaguardare la sua memoria perché da essa deriva la possibilità di progredire nella propria identità, di crescere senza snaturarsi. Ogni società dovrebbe saperlo e cercare di custodire la memoria che è bene comune.
Nelle comunità primitive c’erano delle persone deputate alla custodia di questa memoria.
Lo sciamano era l’uomo medicina, ma anche l’uomo della sapienza (le parti del nome sciamano fanno riferimento a radici di uomo e sapere) e l’uomo della memoria.
Lo sciamano conosceva rimedi e codici che potevano regolare la vita e la salute della comunità ma conservava anche quel sapere che era memoria. Nelle culture animistiche lo sciamano trae molte informazioni dal rapporto particolare con l’al di là e la maggior parte dei suoi atti sono permeati di magia.
Anche le nostre comunità avevano degli sciamani. Persone rispettate, capaci di stimare ricchezze, raccolti, terreni, di curare mali con erbe, unguenti ed impiastri, di dirimere liti e contrasti, ma soprattutto genti capaci di rispondere alle tante domande della comunità.
Tutti i nostri nonni in qualche modo sono stati sciamani e tutti noi in piccolo o in grande lo saremo.
Ho conosciuto persone che ricordavano canti, nozioni, storie, e la storia della comunità. Noi giovani avidi di conoscere le nostre radici abbiamo cercato e trovato queste persone, ma non sempre abbiamo rintracciato tutte le risposte, e, bisogna ammettere, talvolta, presi da giovanili ardori siamo scappati rimandando a domani le domande e le risposte. Nel crescere anche le domande sono cresciute e non sempre le risposte sono arrivate anche perché spesso chi poteva dartele se ne era andato.
Oggi molte risposte le ho trovate nei racconti e nei romanzi di Giorgio Cretì.
L’amore per la sua terra, quell’amore ancora più speciale perché vissuto da lontano, lo ha portato a farsi tante domande e a trovare tante risposte. Molte di queste risposte ce le ha rese nelle sue storie. Vedere le splendide chiese di pietra leccese, le lamie assolate coperte di chianche ti porta a chiederti cosa è quella pietra. Puoi andare e vedere le cave di oggi, meccanizzate, moderne, produttive, ma ti chiedi come è stata estratta la pietra per la casa di mio nonno e per le chiese secentesche ed ecco che vedi con gli occhi della fantasia, ma lo vedi davvero, il cavamonti. Un uomo che si aggira fra sterili rocce terreni buoni solo a produrre timo, dove non si può coltivare nulla che si aggira saggiando quei ” cuti” con gesti misurati ma misteriosi, quasi apotropaici, e scopre una ricchezza sotto.
Oppure rievocare piccoli gesti come preparare una lampada votiva utilizzando come stoppino la corolla di un fiorellino di campo, l’olio e un bicchiere, oppure ancora riecordare piante, fiori, frutti, utensili e piccoli atti di vita.
Il tempo ci ha fatto crescere e ci ha fatto allontanare da quel mondo, ma ne sentiamo forte la nostalgia e per chi, come me in questi giorni, conta i minuti che lo separano dal ritorno, ma anche per chi, pur restando nel Salento, si è allontanato dal mondo antico per gettarsi a capofitto nel mondo moderno, più accattivante, più scintillante, sicuramente più attraente, ma alla fine non sempre davvero appagante, potersene riappropriare, anche solo con la lettura, è meraviglioso.
Così cerchiamo le nostre radici, ma così come la memoria da riferimento orale è diventata storiografia con lo studio dei documenti e la valutazione critica delle testimonianze, anche lo sciamano moderno non può più esprimersi confidando nel suo rapporto con l’al di là.
Cretì, uomo dall’intelligenza viva, si è fatto tante domande ed ha trovato tante risposte non per magia, ma affidandosi, come un moderno sciamano, alla conoscenza e alla scienza moderna offrendole a noi.
La sua lettura è quindi un piacevole arricchimento letterario ma è anche una splendida bevanda fresca, chiara dissetante che spegne la nostra sete di saperne di più di un piccolo mondo antico.
LA POLVERE E L’ACQUA di Nico Mauro tra gli ulivi della personale “Voci tra cielo e terra” di Silvana Bissoli
Quando la poesia e l’arte riconsegnano, nonostante le tante inattese circostanze, dignità e bellezza alla vita
Si continua con gli incontri culturali organizzati dal Laboratorio d’arte l’Ulivo e la Luna di Imola e L’Officina delle parole di Lecce nell’ambito della fortunata personale “Voci tra cielo e terra” di Silvana Bissoli.
L’appuntamento è per venerdì 3 luglio alle ore 18:30 dove protagonista sarà la raccolta poetica: “LA POLVERE E L’ACQUA parole lungo la via della croce” di Nico Mauro e GLI ULIVI DELLA PASSIONE di Silvana Bissoli- L’Officina delle parole ed.- presentata in una prestigiosa veste grafica tra poesia e pirografie.
Nella storica navata della chiesa che ospita la mostra “Voci tra cielo e terra” converserà con l’autore lo scrittore-giornalista salentino Paolo Vincenti.
La performance dell’attrice Annamaria Colomba darà voce alle poesie.
Introduce e conduce l’editrice Pompea Vergaro.
La personale allestita dallo scorso 20 giugno a Galatina, nella Chiesa dei Battenti, con la curatela del critico d’arte Pompea Vergaro, è organizzata dal Laboratorio d’arte l’Ulivo e la Luna di Imola, in collaborazione con L’Officina delle parole di Lecce, la Curia Vescovile di Otranto che ha concesso la chiesa dei Battenti e il patrocino del Comune di Galatina.
Da pochi mesi è in libreria la raccolta poetica “LA POLVERE E L’ACQUA parole lungo la via della croce” di Nico Mauro – L ’Officina delle parole ed.
La pubblicazione è una straordinaria operazione editoriale, peculiare nel suo genere, dove si narra il percorso della passione di Cristo che conosce la poetica di Nico Mauro alla quale si fonde, sorprendentemente, il respiro dell’incisione con sottili segni di fuoco su legno, “GLI ULIVI DELLA PASSIONE” di Silvana Bissoli per offrire al lettore, lungo le pagine, in una complicità di linguaggi, un attraversamento tutto personale: sostare a ogni Stazione per entrare nella scrittura e soffermarsi presso opere d’arte simili ad acquerelli per condividerne emozioni e suggestioni.
Sull’illustre concittadino non si hanno molte notizie biografiche. Di seguito riproduco la carta 535 r di un corposo (1099 le carte recanti scrittura) manoscritto autografo1 di Giovanni Battista Lezzi (1754-1832) sulle vite dei letterati salentini custodito nella Biblioteca Arcivescovile Annibale De Leo a Brindisi. La trascrizione che segue, ricalcante la formattazione del testo originale2, è un espediente per aggiungere le dovute note. Nel 1788, dunque, il Lezzi dava notizia dell’unica opera di Giovanni Bernardino a lui nota, della quale riproduco di seguito il frontespizio tratto da http://gredos.usal.es/jspui/bitstream/10366/43321/1/BG~17354.pdf. Stupisce che il Lezzi alla data del 1788 mostri di conoscere solo il Propugnaculum pubblicato nel 1702 a Napoli per i tipi di Carlo Porpora e Nicola Abri e ignori, invece, l’opera precedente del Manieri (Tractatus de numeratione personarum per focos seu familias …) pubblicata nel 1697 a Napoli per i tipi di Carlo Porpora e Giovanni Domenico Petrobono e, per giunta, ripubblicata nel 1733, sempre a Napoli per i tipi di Nicola e Vincenzo Rispolo. Irrilevante è, a tal proposito, il fatto che nella dicitura scrivea dal suo originale l’anno MDCCLXXXVIII quel dal suo originale possa far pensare ad una copia fatta nel 1788, quando aveva 34 anni, di una compilata precedentemente: se così fosse significherebbe che anche in quella era presente la lacuna indicata. Pure di questa seconda opera (cronologicamente,per quanto detto, è la prima) riproduco di seguito il frontespizio tratto da https://books.google.it/books?id=YO7QzRmIFl4C&pg=PA5&lpg=PA5&dq=tractatus+de+numeratione+personarum&source=bl&ots=CNZSVKd_dX&sig=ZcNAG115e-ZNkuPK77UGK4enmJ4&hl=it&sa=X&ved=0CCsQ6AEwAWoVChMIkIPStJOWxgIVA1sUCh1ptwDZ#v=onepage&q=tractatus%20de%20numeratione%20personarum&f=false. L’omissione risulta incomprensibile soprattutto perché, se l’opera ricordata mostra la competenza giuridica, per così dire, settoriale del Manieri, quella non nominata ne mostra una, per così dire, sistematica e di ampio respiro, al di là di quel pomposo, oggi diremmo da presentazione televisiva, Opus a nemine hucusque tentatum (Opera da nessuna fino ad ora tentata), che si legge nel frontespizio. Dal titolo VIII [De vagabundis, et famulis (I vagabondi e i servi)] di questo volume (integralmente leggibile e scaricabile dal link prima indicato) riporto dalle pp. 98-101 i passi più significativi con la mia traduzione; chi vorrà potrà controllare come l’estrapolazione non abbia comportato la benché minima alterazione del significato. De pessimo hoc hominum genere tractant … ( Di questo pessimo genere di uomini trattano …); segue una lista di autori, ma ciò che più importa è il giudizio morale insito in quel pessimo. Vagabundus definitur a DD. ut sit ille, qui nullibi habet certum domicilium, & determinatam habitationem, & quotidie absque ullo ministerio per Provincias, & loca aberrat … (Dai detti [autori] si definisce come vagabondo sia colui che non ha domicilio certo in alcun luogo e determinata abitazione e quotidianamente privo qualsiasi impiego erra per province e luoghi …). Provenit autem hoc ex animi incostantia, deficientia rationis, et segnitiae, ex quibus redditur homo dissolutus, & errans … (Proviene poi ciò dall’incostanza dell’animo, dalla mancanza di ragione e da indolenza, dalle quali cose l’uomo è reso dissoluto e errante …). Unde dicitur quitis impatiens, non consistens, & circumambulans, nunc foris, nunc in plateis … discurrit per Provincias inutiliter …& est sicut ovis errans …et ideo vagabundi ex otio sunt libidinosi, seditiosi, dediti rapinis, homicidiis, aliisque criminibus, & dicuntur pestis Reipublicae … unde sunt exstirpandi … (Per cui [il vagabondo] è detto insofferente della quiete, mai fermo in un posto e girovago, ora fuori, ora nelle piazze … vaga inutilmente per le province … ed è come una pecora errante … e perciò i vagabondi per l’ozio sono libidinosi, sediziosi, dediti alle rapine, agli omicidi e ad altri crimini e sono chiamati peste dello Stato … per cui sono da estirpare). Dopo aver passato in rassegna disposizioni legislative del passato tra le quali spicca la possibilità per il vagabondo di essere torturato senza indizi, il non avere diritto al rispetto della moglie (questo ci può stare …), il non poter testimoniare in cause civili e penali (oggi, invece, può farlo, ma è consentito anche ad un mafioso pluriomicida, meglio se si dichiara pentito, così avrà pure uno sconto di pena …) a p. 100: Et, si semel fuerit probatum, quem esse vagabundum, talis semper praesumitur … (E se una sola volta è stato provato che uno è vagabondo, tale è sempre presunto …). Questo, che può sembrare un marchio infamante indelebilmente impresso, in realtà a qualche vagabondo nullatenente o quasi poteva pure far comodo, in caso di cambiamento in meglio delle sue condizioni economiche, per sottrarsi alle grinfie del fisco (nulla di nuovo, oggi, sotto questo sole, nonostante i progressi dell’informatica abbiano reso possibili in tempi brevissimi controlli impensabili al tempo del Manieri e fino alla fine del secolo appena trascorso). A p. 101, infatti, si legge: De vagabundis habetur in Instructionibus, quod si numerentur sicut & famuli, est diligenter inquirendum, etiam a Deputatis iuramento, si habeant uxores, parentes, aut consanguineos, si alias sint numerati, si possideant bona in catasto, si sint adscripti continuatis temporibus in libris collectarum; & sunt numerandi distincte, & eo modo, quo fuerint reperti … Vagabundi, si possideant bona, remanent pro foculari, si nil possideant, sunt deducendi, ut fuit determinatum a Regia Camera … ratio est, quia non habent domicilium permanentem, nec industriam, & non possunt ab eo exigi functiones fiscales per Universitates, et respectu possessionis bonorum, si quae habent in loco originis, vel domicilii, non sufficit habere bona modici redditus, sed requiritur ut sit ultra unciam (Sui vagabondi si dispone nelle Istruzioni, che se vengono registrati, la cosa vale pure per i servi, si deve diligentemente indagare, anche da incaricati con giuramento, se hanno mogli, parenti o consanguinei, se sono registrati in altro modo, se posseggono beni in catasto, se siano stati iscritti per un tempo continuato nei libri dei tributi; e devono essere registrati distintamente e nello stato in cui sono stati trovati … I vagabondi se possiedono beni sono registrati per fuoco [famiglia], se non possiedono nulla debbono essere tolti dal novero, come fu determinato dalla Regia Camera … il motivo è che non hanno domicilio permanente, né occupazione e per questo non possono essere richiesti adempimenti fiscali dai governi cittadini; e rispetto al possesso dei beni, se ne hanno nel luogo d’origine o di domicilio, non basta avere beni di modico reddito ma è richiesto che questo sia superiore ad un’oncia). Che questo testo del Manieri fosse un punto di riferimento lo dimostra il fatto che esso fu inserito da Lorenzo Cervellino nel suo Direzione ovvero guida delle Università di tutto il Regno di Napoli … (mai incontrato un titolo così lungo …) uscito a Napoli per i tipi di Rispoli nel 1734 e nel 1740 e per i tipi di Manfredi, sempre a Napoli, nel 1776. Nell’immagine che segue il frontespizio di quest’ultima edizione, tratto da https://books.google.it/books?id=apgiLNpundIC&printsec=frontcover&dq=giovanni+bernardino+manieri&hl=it&sa=X&ved=0CCQQ6AEwATgKahUKEwiGov-V6JbGAhUEPxQKHbbeABo#v=onepage&q&f=false; col rettangolo in rosso ho evidenziato la parte del titolo riguardante il neretino. Certo i tempi cambiano e con loro i problemi e gli stessi soggetti oggi protagonisti di sconvolgenti fenomeni in atto, su cui mi pare che i politici, quelli puliti (fino a prova contraria …). speculino strumentalmente quando sono all’opposizione e tergiversino quando sono al potere, mentre loschi figuri (non mi riferisco solo ai trafficanti di disperati di ogni genere) hanno prostituto l’assistenza in cinico affare e, poi, magari, hanno pure la faccia tosta di chiedere il patteggiamento … E se ai vagabondi del tempo del Manieri sono subentrati o, forse, si sono aggiunti barboni, rom e profughi, credo che la lettura del suo saggio non farebbe comunque male a qualcuno di quei burocrati ed esperti vari ai quali, alla resa dei conti, appartiene il vero potere in Italia. Temo, però, che si lascerebbero affascinare troppo da quel pessimo genere del primo brano, ammesso che fossero ancora in grado di tradurre, e correttamente, dal latino …
2 Il lettore avrà notato la diversa grafia della colonna destra che, infatti, è un’aggiunta dell’amico Annibale De Leo (1739-1814) che della biblioteca, la prima pubblica in Terra d’Otranto, che porta il suo nome fu il fondatore nel 1798 e fu lui a nominare primo bibliotecario l’amico Lezzi, il quale tenne l’incarico fino al 1820.
NO, oggi non ho supplicato “ Laudato sì, mì Signore, per frate vento…” quando l’ho visto imperversare e dare “ sustentamento” alle fiamme che imperiose e alte si accanivano su un campo incolto,flagellandolo.
Mi chiedevo quale mano malvagia avesse appiccato quel fuoco che s’insediava tra i sassi, tra i verdi cespugli e mentre le fiamme crepitavano, invocavo solo “ Sor acqua” la quale è, “multo utile et umile et pretiosa e casta”, solo lei in quel frangente poteva intervenire e portare refrigerio allo sfrigolio di verde fogliame che si dissolveva tra le lingue di fuoco che ne addentavano i teneri rami. Mi pareva di sentirne gli urli, di percepirne i lamenti mentre “ Frate Focu”, inclemente, procedeva la sua corsa nel vento tra sterpi, ciuffi di mentuccia ridenti, cespugli di mirto, di lentisco, di rovi, di olivastri, di cespi di erbette innocenti. Quei gemiti, quei gridi atterriti, al passaggio infuocato nel vento, si mutavano in rivoli neri esalando nell’aria gli ultimi effluvi odorosi.
“Frate Focu” solerte il suo mandato compiva, semplicemente bruciava, inceneriva e andava, senz’affatto immaginare quanto strazio lasciava su quel suolo, quante vite in un fiat s’annientavano al suo giocondo passare.
Inerte guardavo quelle fiammate possenti, dal tormento invasa per ogni minuscola creatura che su quel lembo aveva trovato rifugio e tutela. Li vedevo atterriti fuggire e come forsennati cercare soccorso. C’erano ragni avvinti alle ragnatele, nidi d’implumi uccellini col beccuccio aperto in attesa, scarabei, maggiolini, cervoni, lucertole, milioni di solerti formiche, cavallette e tutti gli esseri del santo creato nella corsa furente soccombere fiacchi, dissolvendosi in fumo.
Mio Dio! Quanti pigolii, bisbigli, respiri, ronzii si spegnevano fiochi mentre “Frate Focu“ inclemente, spronato dal vento, avanzava lasciando dietro di sé desolazione e sgomento e terrore in chi, tra tanti esseri, era riuscito scampo a trovare.
No, “Frate Focu”, non è tuo il peccato, tu resti sempre “bello et iocundo et robustoso etforte.” Il male è di quella mano infame che, coscientemente, fuoco ha dato per puro diletto o semplicemente per qualche dispetto.
Quel verde fogliame, quelle corolle variopinte, quei fruscii, le rilucenti ragnatele sono ora cenere incolore ed inodore; sembra un mondo morto quel ritaglio nella natura immerso, e i sospiri di fumo che, dopo il flagello, lievi continuano ad effondersi invocano or pietà da Madre Terra per la sanguinante ferita.
Sì, solo lei può risanare e ridonar vita e colore a tanto tormento, a tanta vana malvagità e allora la preghiera s’alza concorde: ” Laudato si’, mi Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti fior et herba”.
Rassegna di incontri, musica e letteratura al chiaro di luna
3 | 9 | 17 e 3o luglio 2015
Località Kurumuny (Martano)
Torna puntuale ogni estate “Sentieri a Sud”, la rassegna dedicata alle produzioni e agli attraversamenti culturali, tra musica e poesia, documentario e racconto, cultura antica ed evoluzioni moderne: uno spazio di confronto in un luogo ricco di storia e di storie.
“Sentieri a Sud” nasce con l’idea di offrire, in uno spazio fisico e un luogo dell’anima, idee e visioni su una terra che è lembo estremo ma anche crocevia di popoli; raccontare un territorio mutato, percorso da numerose correnti che cercano espressione.
Ci piace pensare che questa rassegna sia una chiave di lettura, un modo per entrare in una terra in punta di piedi, a scoprirne criticità e bellezze. La ricerca di uno sguardo altro, attraverso le nuove voci di questa “isola sonante”. Il Salento è finis terrae e può offrire orizzonti, luci, profumi, sapori e calore umano anche attraverso una rassegna di musica e letteratura al chiaro di luna.
Primo sentiero
Venerdì 3 luglio ore 21.00
• Tra racconto e musica.
Incontro-intervista con Antonio Castrignanò, a cura di Azzurra De Razza.
A seguire, live con
Antonio Castrignanò (voce e percussioni), Andrea Doremi (tuba), Rocco Nigro (fisarmonica) e Gianluca Longo (mandola).
Mara la fatìa. Storie di pizziche, tarante e tarantelle è il primo lavoro da solista di Antonio Castrignanò. Il progetto è ispirato a un Salento arcaico imbastito tra scorci di vita quotidiana da cui emergono fatiche, lavoro ma anche amori, speranze e sogni. A cinque anni di distanza, l’album continua a raccontare storie “vecchie” ma senza tempo che narrano sofferenze e privazioni, sfruttamento e lavoratori senza dignità, soggetti cui sorprendentemente i canti sembrano adattarsi, quasi il mondo non fosse mai cambiato. Sbrogliando i legami con un passato cristallizzato, Castrignanò mette la tradizione in movimento, nutrendola con contenuti inediti, ricamandoli con uno stile “antico” dalla matrice territoriale riconoscibile, lo stesso che ha appreso spontaneamente cantando e suonando con gli anziani del suo paese: sarà per questo amore carnale per il Salento che Mauro Pagani lo ha definito “ambasciatore e servitore orgoglioso” della sua terra.
Antonio Castrignanò, musicista salentino, voce e tamburo de La Notte della Taranta, ha suonato e collaborato con artisti come Stewart Copeland, Mauro Pagani, Giuliano Sangiorgi, Negramaro, The Chieftains, Goran Bregovic, Ballakè Sissoko, Ludovico Einaudi, Marcan Dede. Tra i personaggi simbolo della riscoperta tradizione musicale del Salento, musicista eclettico, ha composto le musiche per numerosi film, tra cui la colonna sonora di Nuovomondo del regista Emanuele Crialese. Fomenta, il suo nuovo progetto discografico, è un’ulteriore svolta nella sua già eclettica proposta artistica che lo vede coinvolto nelle incursioni elettroniche maturate insieme al produttore e dj turco Mercan Dede.
PROSSIMI APPUNTAMENTI
Secondo sentiero
Giovedì 9 luglio ore 21.00
• Presentazione del libro con cd musicale
Guerra, fichi e balli.
Nel corso della serata, contributi e testimonianze di Rocco Nigro, Renato Grilli e Luigi Chiriatti.
A seguire, performance live con Renato Grilli (voce narrante) e musica dal vivo di Rocco Nigro (fisarmonica) e Francesco Massaro (clarinetti).
Esposizione e proiezione delle tavole di Marco Cito e performance di danza con Laura De Ronzo.
Terzo sentiero
Venerdì 17 luglio ore 21.00
• Concerto di presentazione del disco La Rocha.
Intervista alla band a cura di Ennio Ciotta.
Proiezione del videoclip Un re, regia di Lucio Toma.
Quarto sentiero
Giovedì 30 luglio ore 21.00
Dalla sofferenza all’affermazione del sé.
Il tarantismo mezzo secolo dopo Ernesto de Martino.
• Anteprima del libro Interviste sul tarantismo, di Sergio Torsello
A seguire, performance live con gli artisti del collettivo Pizzica pizzica roots music from Salento.
L’evento si svolgerà in collaborazione con le associazioni suDanzare e SoniBoni che terranno nel pomeriggio, in località Kurumuny, conferenze e workshop conclusivi del progetto “Tarantella, danza del Mediterraneo”.
Scrivere un necrologio è compito ingrato perché c’è sempre in agguato il rischio dello slittamento retorico e, per chi ha conosciuto personalmente il defunto, di una sorta di deriva sentimentale inconsapevolmente favorita dal distacco che è difficile, se non impossibile, mantenere in tale circostanza.
L’aver conosciuto Franco Corlianò solo attraverso i suoi scritti ed i suoi dipinti mi mette, forse, al riparo da tale rischio. Eppure rimane la paura di incappare in una nota enfatica, che striderebbe oscenamente con l’umiltà e la sensibilità cui ha improntato la sua vita e che eloquentemente traspaiono da ciò che ha voluto generosamente lasciarci in un’eredità che è allo stesso tempo materiale e spirituale. Per questo ho voluto condensare il suo ricordo in tre sole immagini, preziose perché sono le immagini più che mai “sue “.
E, pensando alla comune passione per la parola in generale e per l’etimologia in particolare, chissà se, lo dico da non credente, Franco avrà già dissolto i tanti dubbi, non solo di natura filologica, che ci accompagnano, inevitabilmente e per fortuna …, nella nostra avventura terrena.
Questo post ha la sola pretesa di costituire lo stimolo iniziale per una sorta di catalogo tematico che potrà via via, almeno mi auguro, prendere corpo grazie alla collaborazione dei lettori che vorranno inviare le loro informazioni e degli artisti che questo dettaglio del nostro paesaggio hanno interpretato con le tecniche più disparate e che del loro lavoro vorranno inviare una testimonianza fotografica e, se lo riterranno opportuno, un’immagine di loro stessi.
Comincio con due salentini, l’uno defunto, l’altra giovanissima (è nata a Sava, in provincia di Taranto, nel 1989)
Dopo i due salentini è la volta di altri autori, viventi, che hanno dovuto fare più strada, in senso geografico non essendo salentini, per dare vita alle loro creazioni.
Jacqueline Cope, Porto Selvaggio, 2010 (olio su tela; immagine tratta da http://www.premioceleste.it/jacqueline.cope). Così l’artista commenta il suo dipinto: Nella pittura plein air il tonfo delle onde era piccola in lontananza, ma la sua forza ed energia ha fatto una grande impressione. In questo dipinto ho voluto catturare la forza e l’energia dell’acqua che colpisce il masso, ma per dare la vista il senso di aspettativa, in attesa del prossimo colpo dell’onda.
Dal primo dei due indirizzi appena citati: Le polaroid dipinte da Sebastian Lettner mantengono il fascino dell’azione disinvolta, apparentemente non meditata, attraverso la quale l’artista crea cromie brillanti, che oscillano fra tramonti e fluidità acquatiche di Porto selvaggio: un’effusione di colore con strisce, macchie, grumi, nella gamma del seppia, un nero magmatico interrotto da una vibrante nota color acquamarina. Istantanea fotografica, nitido ricordo, poi, magari, dissolvenza. La fotografia in polaroid subisce un processo di trasformazione attraverso il linguaggio del gesto pittorico. Il fondamento di quest’azione è da ricercare nell’inconscio che a tratti riemerge come un inchiostro dall’oscurità conturbante.
L’immagine di Sebastian Lettner che abbiamo visto prima si colloca a metà strada tra la pittura tradizionale e quella elettronica. Mi riesce difficile, invece, dare una collocazione ben precisa alla tecnica della foto stampata su canvas1 (di seguito Portoselvaggio dello Studio Hemingway s.r.l. di Martano; l’immagine è tratta da http://www.salentoimmagini.it/prodotto.asp?id=116) perché, pur comportando, comunque, l’intervento selettivo dell’uomo (scelta della foto, sua eventuale elaborazione, calibratura cromatica della stampante, etc. etc.), essa è clonabile all’infinito, a meno che una volontà precisa o una memoria di massa trasformatasi all’improvviso in una memoria di merda … non ne abbia cancellato il corpo digitale. Forse il raffronto più consono è con la vecchia stampa artistica da rame (con il ruolo di protagonisti alla pari del disegnatore e dell’incisore), per cui la foto sta al rame come la tela pittorica sta alla carta, come la stampante al torchio.
Forse è lo scorcio meno spettacolare di Portoselvaggio, ma certamente il più suggestivo e stimolante per la fantasia, perché rappresenta il tratto iniziale di un percorso verso la bellezza, quasi il progressivo aprirsi di un sipario su uno scenario da sogno che non si vede l’ora di scoprire. Credo sia la sensazione che tutti i visitatori ben conoscono, dato che si tratta di un passaggio piuttosto obbligato.
__________
1 Alias tela pittorica. Spesso ci si sciacqua la bocca con le parole inglesi rimediando la figura di chi si crede moderno e disprezza tutto del passato semplicemente perché lo ignora. Costui lo farebbe certamente con meno supponenza anche con canvas, se sapesse che il termine è fratello del francese canevas e del nostro canovaccio e che tutte le voci appena ricordate sono figlie del latino cannabis=canapa; e, in rapporto a quest’ultima voce, il “costui” di cui sopra forse resisterebbe anche all’idea di drogarsi …
L’OMBRA DELLA MADRE DI PAOLO VINCENTI KURUMUNY EDIZIONI 2015
“C’è una linea obliqua che attraversa la vita. Una linea che interseca incontri e pensieri, andate e ritorni, aspettative e fallimenti. Su quella linea si incontrano i destini dei personaggi di questo libro. Il tempo danza con loro al ritmo delle occasioni perse.”
Un noir in cui si intrecciano in modo incredibile i destini dei protagonisti, Francesca, Riccardo e Fabrizio, sospesi tra la routine del quotidiano e i riti misterici di un passato che si perde nella notte dei tempi.
Quale valore assume il culto della Grande Madre Cibele nella vita disordinata della protagonista femminile dell’opera? Francesca è una docente di Storia delle religioni, una donna colta e intelligente, con molti nodi irrisolti nella propria vita, a partire da un complicato rapporto con la madre. E chi è davvero Fabrizio, suo ex amante e come lei adepto del culto di Cibele, che alla fine del racconto sarà al centro di una rivelazione sconcertante? A Riccardo il compito di dipanare il bandolo della intricata matassa, di ricomporre i pezzi di un quadro che si tinge di colori foschi, di mettere ordine nella vita di una donna che lo ha travolto, in un turbine di mistero e sensualità, scardinando ogni sua certezza, demolendo ogni equilibrio.
Una storia intrigante, narrata con una scrittura versatile, densa, impreziosita da un’interessante ricerca storico-religiosa che ci riporta molto indietro nel tempo
Silvana Bissoli la viandante messaggera giunge a Galatina con
“Voci tra Cielo e Terra” l’appassionante personale di ulivi pirografati
Silvana Bissoli la viandante messaggera, come ama definirsi, giunge nel cuore del Salento, nella storica e colta Galatina situata a pochi chilometri da Lecce, con l’appassionante personale di ulivi pirografati “Voci tra Cielo e Terra”.
Così, dal 20 giugno all’8 luglio 2015, sarà allestita nel prezioso spazio della cinquecentesca Chiesa dei Battenti, nel cuore di Galatina, la personale “Voci tra Cielo e Terra”.
Al vernissage di sabato 20 giugno alle ore 18:30 il critico d’arte Pompea Vergaro, curatrice dell’allestimento, farà insieme agli ospiti un viaggio sentimentale tra le opere dell’artista. Compagne di viaggio, le letture di Paolo Rausa e la voce di Lucia Minutello.
Interverranno:
Daniela Vantaggiato, Assessora alla Cultura del Comune di Galatina
Marcello Gaballo, Presidente Fondazione Terra d’Otranto.
La personale è organizzata dal Laboratorio d’arte l’Ulivo e la Luna di Imola, in collaborazione con L’Officina delle parole di Lecce, la Curia Vescovile di Otranto che ha concesso la Chiesa dei Battenti e il patrocino del Comune di Galatina.
Sono circa 30 le magnifiche opere pirografate che varcheranno l’elegante portale riccamente decorato e scolpito nella pietra leccese della Chiesa, già sede di una delle più antiche confraternite del Salento delle quali ne conserva ancora le tracce di antichi splendori,per offrirsi allo spettatore in un percorso, unico e articolato nel suo genere, sia dal punto di vista artistico, del messaggio e dell’allestimento che si snoderà lungo la prestigiosa Navata e l’adiacente Sagrestia.
Durante i giorni della Rassegna, ospiti dell’Arte di Silvana Bissoli saranno la poesia, il canto e la musica.
Venerdì 26 giugno alle ore 20:00
Donna Lucia interpreta “Voci tra Cielo e Terra… tra gli Ulivi di Silvana”.
Così, la voce di Lucia Minutelloaccompagnata dalla chitarra e dalle incursioni autoriali di Pasquale P40, condurrà i visitatori all’interno di un percorso musicale tra gli ulivi di Silvana Bissoli.
Venerdì 3 luglio alle ore 18:30
presentazione della Raccolta poetica:
LA POLVERE E L’ACQUA parole lungo la via della croce di Nico Mauro-
L’Officina delle parole edizione.
Conversa con l’autore lo scrittore salentino Paolo Vincenti, performance poetica di Annamaria Colomba attrice. Interverrà l’editrice Pompea Vergaro
Molti mi chiedono perché ho scelto il Salento, se sono salentino e cosa mi ha spinto a questo passo, come se si potessero spiegare o razionalizzare le motivazioni per cui ci innamoriamo. Sgombriamo innanzi tutto ogni dubbio: non ho nessuna radice salentina e vengo da una terra che col Salento ha poco in comune, forse solo il mare e qualche scorcio e sapore di centri storici mediterranei.
Per il resto che dire … potrei trovare mille motivi razionali p…er argomentare la mia scelta e fare il fine economista e citare il +7% del turismo, potrei fare l’ecologista convinto e citare i paesaggi mozzafiato, l’aria pulita e il mare cristallino, il Gourmet e dilungarmi sulla qualità della cucina e delle materie prime locali, lo storico dell’arte e spaziare dal tripudio del barocco alla descrizione di interi centri storici che sembra siano stati fermati nel tempo.
Ma il vero petrolio, la vera ricchezza del Salento è data dalla gente, dalla capacità di farti sentire accolto, ascoltato: “ospitato”, nella accezione più nobile che il termine sa assumere. Questa naturale predisposizione all’accoglienza è contagiosa e fa si che, sentendosi a proprio agio, ci si spogli delle tante sovrastrutture che ci si è creati nel tempo, di tante corazze che ci si è costruiti,per difendersi, ma che gioco forza ci limitano.
Intendiamoci non si tratta di una ingenua apertura di credito incondizionata, ovviamente la fiducia va poi conquistata ed il rispetto è fondamentale (non a caso si usa ancora il Voi un po come in Spagna) ma l’assenza di pregiudizio e di diffidenza, la curiosità e la voglia di interagire creano un clima disteso e conviviale che ti fa sentire a casa.
Ma se devo essere sincero aldilà di tutte le motivazioni elencate è proprio questa sensazione immotivata ed inspiegabile “di star bene” di aver trovato il luogo ove fermarmi scelto per me forse dal destino o dal freddo vento del nord …un po come in Chocolat …. sarà un caso che uno dei protagonisti si chiamasse George?
“Perché la strada la scopri quando sei in cammino”
(Miguel Unumano)
di Pompea Vergaro*
Eccoci, anche quest’anno, per ritrovarci ad un appuntamento atteso e consolidato nel tempo con l’artista Silvana Bissoli, che per tanti, per molti è divenuto punto di riferimento. Ella giunge da Imola, in provincia di Bologna, nel cuore del Salento, con il suo stesso cuore e i suoi Ulivi: pregevoli pirografie, tra quadri, sculture, installazioni per narrarci nuove storie e condurci verso ricche e profonde esperienze emozionali.
La sua operosità artistica, che ha lungamente superato i dieci anni, è allacciata fortemente al quella culturale, sociale e agli accadimenti che riguardano l’Ulivo.
E in questi giorni che si aprono all’estate, ancora, gli ulivi della nostra terra continuano a vivere fortemente momenti tragici che l’artista segue con fervore e profondo dolore insieme a noi tutti. E, ancora una volta, con la sua nobile arte, siamo certi che Silvana Bissoli farà bene la sua parte.
Silvana Bissoli ha votato la sua vita artistica e personale all’Ulivo, eletto a soggetto privilegiato; nasce a Sanguinetto, un piccolo paese dell’entroterra Veronese, dove ha vissuto fino alla prima giovinezza per poi trasferirsi definitivamente a Imola.
Il suo incontro con l’Arte è apparentemente casuale. Dopo la Laurea in Scienze Politiche, durante uno dei suoi viaggi, l’incontro con l’artista pugliese Giorgio Fersini, che ne diviene suo maestro di pirografia, cambia la sua esistenza che da quel momento si vota e si avvia completamente verso la via dell’arte, incoraggiata dallo stesso maestro. Per mai più abbandonarla!
Lungo gli anni, continuano i suoi viaggi e prendono vita le sue passeggiate, le sue camminate tra distese di ulivi secolari di cui la terra del Salento e la Puglia intera ne sono vanto.
L’Arte di Silvana Bissoli è legata all’antica filosofia del camminare, dei passi sulla terra che la conducono a cercare e incontrare ulivi che le narrano di vicende umane, di legami terreni e spirituali per “coglierne e indagare l’essenza di quella terra” come ella stessa ci suggerisce. Successivamente, con semplicità e amorevolezza, li fotografa, li appunta nei loro luoghi, e li trasforma in Arte con il mezzo più appropriato: la pirografia, l’incisione col fuoco, antichissima tecnica di origine mediterranea.
Così, la mano dell’artista, abile guida del pirografo, uno strumento che traduce il legno in opere d’arte simili ad acquerelli, offre originali doni al mondo.
Con la personale VOCI TRA CIELO E TERRA ha superato appieno quella maturità che già possedeva, invitandoci a un percorso che riguarda noi tutti che è quello della Via Crucis, l’epopea del dolore per eccellenza, in un cammino che riporta la condizione umana alla sua originaria dimensione spirituale.
Silvana Bissoli, con questa operazione, di chiara bellezza, VOCI TRA CIELO E TERRA, immersa totalmente nella contemporaneità, come lo è sempre stata, confida di poter trovare un equilibrio e un legame tra l’abbraccio terreno e quello cosmico, perché la Natura, spazio reale come tra le quinte di un teatro, possa narrare una umanità vera portando in una spazio ben calibrato, il rumore della vita che ci riconduca a quella doppia dimensione della Madonna-Madre legata sia alla terra sia al cielo.
Durante questo originario dialogo tra cielo e terra che si snoda in un cammino, inevitabilmente doloroso, l’artista imolese, dalla spiccata indole estetica, prova a trovare quel bandolo indispensabile a srotolare l’esistenza umana in ritmi cadenzati che continuamente si aggrovigliano e si intrecciano, tra mille difficoltà e incertezze, senza mai fermarsi, dove suprema mediatrice è la figura materna.
Per donarci un’arte che possiede Voce, compiutamente equilibrata in maniera incisiva e appassionante, scovando la luce dalle tenebre.
In realtà con questa imponente OPERA ella continua la sua inarrestabile ricerca fatta di circostanze che spesso le sfuggono di mano, ma fatta anche di inaspettati e preziosi incontri, con i quali, grazie a quella forza e naturale abilità artistica che le sono proprie, è capace di scorgere, con una visione della realtà del tutto personale e con un incommensurabile atto d’amore verso la vita, l’UOMO attraverso DIO e DIO attraverso l’UOMO.
L’opera incisa su legno “Voci tra cielo e terra” che apre la personale, carica di forza espressiva, nasce da un incontro e da uno scatto fotografico che è stato consegnato all’artista da chi condivide i suoi stessi sentimenti di purezza e autenticità.
Un amorevole scatto alla montagna, la Civita o testa del gigante, situata a ridosso di Duronia, un grazioso Comune Molisano di origine romana. Immersa in una folta vegetazione, radicata e adagiata sulla terra che rivolge il suo imponente sguardo al cielo, oggi, la Civita è anche un’opera d’arte che si mostra al mondo avviluppata in nuove vibrazioni e inattese energie, in tratteggi e segni divenuti paesaggio di fogliame, rami e tronchi, immersa in fiduciosi orizzonti terreni e spirituali.
L’opera è anima e corpo, testimone di passi umani che hanno solcato i suoi profili che hanno narrato di cadute e di rialzate in una religiosità del cammino che appartiene all’uomo. E il saggio ulivo, proteso in un abbracciofisico protettivo e ombreggiato e spirituale, accogliendo nel fogliame la colomba e l’angelo, simbolo di pacificazione di Dio con l’uomo, il primo, e messaggero del cielo, il secondo, sembra tendere un invito, anzi un grido: “gli uomini girano in tondo in quella gabbia che è il pianeta, perché hanno dimenticato che si può guardare il cielo” (su un pensiero del drammaturgo e saggista francese Eugène Ionesco).
Come è nostra consuetudine, durante la serata del vernissage faremo insieme agli spettatori un viaggio sentimentale lungo il percorso espositivo, una sorta di passeggiata intima per viver due momenti unici che si intrecciano tra loro.
Si comincia dalla Navata della Chiesa
Saranno ospitate 16 Tavole-Stazioni pirografate per “narrare” il percorso biblico e poetico della Via Crucis che conterranno un titolo e un sottotitolo, -un momento di riflessione dell’artista, traendo ispirazione dalle poetiche dell’autore Nico Mauro-, per continuare con quello della Maternità quando si giungerà nello spazio della Sagrestia.
Le opere dedicate alla Via Crucis, si possono anche apprezzare in un volume dove sono state impaginate tra le pieghe della fortunata e prestigiosa raccolta poetica:
LA POLVERE E L’ACQUA di Nico Mauro pubblicata nella scorsa primavera, per le edizioni L’Officina delle Parole.
Darà il benvenuto allo spettatore l’opera che dà il titolo alla personale: Voci tra cielo e terra. Seguirà Getsemanivegliate su di me, opera superba e straordinariamente commovente. La radura pirografata si trova realmente nella campagna salentina e ancora una volta, l’artista, ha saputo sapientemente cogliere le peculiarità dell’orto degli ulivi dove Gesù prima di essere catturato, vi sostò per pregare e accomiatarsi dai discepoli.
Si continua con Gesù dinanzi a Pilato è condannato a morte per poi seguire il maestro lungo la Via quando È caricato sulla Croce, durante le 3 cadute , nell’incontro con Maria, con la Veronica che gli asciuga il volto, con Simone Da Cirene che prese la Croce, con l’incontro con le donne e nelle ultime fasi con la Crocifissione,Morte e Sepoltura, quando scompare la morte…che fa buia la luceper concludersi con la Resurrezione.
Le opere pirografate rivelano testi organizzati e pensati, nulla è casuale, perché il significato è già scritto sugli ulivi: gli orizzonti svaniscono, i tronchi contorti, aggrovigliati e ripiegati in uno sforzo immane, a volte, apparentemente secchi, nonostante la loro robustezza, sembrano che stiano per spaccarsi e cedere di fronte a tanto dolore, ma sempre intravediamo la speranza, sia quando il Cristo rivolge le braccia al cielo, quasi a volerlo toccare, sia quando incontra la dolente Maria e i seguaci che non lo hanno mai abbandonato.
La ViaCrucis, nel corso dei secoli, vanta un’ampia produzione artistica, come risultante di un ricco proliferare di opere differenti tra produzioni compositive stilistiche e iconografiche, affreschi, incisioni in rame, acqueforti, litografie, calcografie, formelle con diversi materiali, sculture e pitture ad opera di grandi artisti come lo stesso Raffaello, Botticelli, Dϋrer o Antonello da Messina o il Beato Angelico, solo per fare delle citazioni.
Ma se volgiamo uno sguardo all’arte moderna e contemporanea, pochi artisti hanno la capacità di rappresentare questi “millenari” nella loro interezza, pochi sanno catturare le architetture reali o immaginate per esprimere quei valori culturali, sociali e spirituali del nostro tempo come sa fare questa maestra del pirografo, suggerendo opere vive e pulsanti che possiedono una esaltante forza creativa, segno persegno, con quella capacità di condurci, ogni volta, per quellastrada colma di pathos e di bellezza.
Intanto il nostro viaggio continua nella Sagrestia
Incontreremo, nel composito allestimento, 14 pirografie dedicate alla Maternità, per segnare quel rapporto unico e irripetibile che esiste tra una Madre e il proprio figlio, allacciandosi e riannodandosi in un dialogo continuo con il percorso della via lungo la croce iniziatonella Navata e dalla quale ne trae la profonda essenza.
Qui ci darà il benvenuto la scultura Ilmio mondo, opera unica e irripetibile. L’artista Silvana Bissoli sembra abbia toccato la perfezione:è una scultura sferica in movimento, levigata, che ci suggerisce morbidezza con un esplicito invito ad abbracciarla, nonostante palesi siano le incertezze, con i suoi solchi e crepe che traducono gli errori, la fatica del pirografo sul duro legno, come, d’altronde, lo è la nostra stessa esistenza!
Da qui comincia il viaggio di quel legame unico tra madre e figlio dove si narrano sentimenti antichi e attualiche riguardano la nostra esistenza terrena che dovrebbero sostenerci e arricchirci per permetterci di giungere a quella compiutezza spirituale cui l’uomo anela.
Incontreremo laGrande Madre, un ulivo dalla folta e protettiva chioma, proponendosi come in un rassicurante abbraccio e una panchina sulla quale poter sostare. Maternità e Amore Materno: questa madre che tutto dona ripiegata su se stessa pronta a proteggere il figlio dal mondo! E quell’amore incommensurabile verso il figlio che non cambia lungo gli anni. Nello stesso tempo la chioma morbida e fluttuante ci indica la fiducia che dobbiamo riporre negli affetti che il mondo può regalarci!
“Haec Ornamenta Mea”Ecco i miei gioielli: l’opera fa riferimento a Cornelia, la Madre dei Gracchi che osava mostrare i figli come gioielli, termine di paragone con i monili che ostentavano le matrone romane. Un messaggio che ha attraversato secoli, per giungere nella contemporaneità ancora immutato.
Discendenza: quanto si fa, quanto si dà a un figlio perché possa avere forza e coraggio per affrontare il mondo e quanto, a volte, è difficile incoraggiarlo ad andare per il mondo facendogli comprendere che le radici sono dentro di lui!
Passo dopo passo: quanto è periglioso e faticoso il cammino di questa madre che dovrà aiutare il figlio ad abbandonare la casa e consegnarlo al mondo!
Un abbraccio universale tra terra cielo lo ritroviamo in Dalle radici al sole… passando dalla luna: i tronchi sembrano danzare la danza del sole e della luna legati, ma ben distinti. Un germoglio affiora, un orizzonte delicato appena tratteggiato, ma ben visibile come a voler dare delle indicazioni. Ella ci dice che è nella radice che risiede il bene e il male e, come tutti noi, da sola dovrà varcare il cielo tra realtà e simboli insieme a quegli elementi di cui siamo figli e che abbiamo il dovere di custodire. Quanta vita, quante ore vissute insieme e quante speranze pone una madre nei propri virgulti che le crescono accanto.
Forza della natura: sempre fino agli ultimi respiri resta retto ad affrontare le vicissitudini della vita confidando proprio nella natura e quanto rispetto occorre portarle senza prevaricarla!
Preghiera dell’ulivo amico: quando non riusciamo più a trovare salvezza nell’umanità allora la nostra invocazione e sostegno si rivolge alla forza divina, affinché l’uomo possa ritrovarela propria umanità.
Incontriamo sentimenti e momenti gioiosi e la speranza che la vita ci dona in Per raggiungerti: è consolante sostare accanto a questi ulivi. Perchè? Semplicemente perché è evidente che qui la mano amica dell’uomo ha lasciato il suo segno!
“Quello che gli ulivi ci dicono” è una istallazione,un’opera che acquista nuove spazialità, proponendosi in movimento. È un trittico, un parallelepipedo in verticale pirografato su legno composto da 3 tavole poggiate su un basamento di pietra leccese. È un unico Ulivo, visto da prospettive diverse che narra dell’amicizia attorno alla quale lo spettatore può girare intorno incontrando l’Abbraccio e il Calore, “perchè è necessario avere qualcuno su cui contare a piene mani”, come afferma la stessa artista.
Alla fine del percorso le opere infondono e sottolineano aneliti spirituali di Bellezza: il fine e il principio dell’Arte. Così quando l’Arte, nell’intricato mondo incrocia quello della nostra vita, diventa necessariamente Voce pronta a narrarci, attraverso il pirografo condotto abilmente dalla mano dell’artista, di nuove e speranzose alleanze. Confidando che sia di buon auspicio essere consapevoli di quanto l’arte e la vita si avvolgano in un continuo e inesauribile srotolare e avviluppare, senza mai lasciarsi. Tenendo sempre fede a quel consapevole pudore che l’Arte come la Stella Cometa indica il cammino ma non stabilisce la meta!”
Oggi l’artista Silvana Bissoli vanta tante personali e collettive organizzate da Enti e istituzioni allestite in prestigiosi luoghi storici, partecipa a concorsi e manifestazioni pubbliche, organizza laboratori nelle Scuole. Tanti i riconoscimenti e i successi di pubblico e di critica. Opera attivamente nel suo laboratorio “l’ulivo la luna”, a Imola, dove ha le proprie opere in permanenza.
*critico d’arte
GALATINA Chiesa dei Battenti
Orari mostra: tutti i giorni 10:00-13:00/18:00-22:00
IN TERMINI NATURALISTICI VI E’ UN ALTRO IMPORTANTE “MIRACOLO CULTURALE” PARTITO DAL SALENTO in questi mesi e che sta già ampiamente valicando i confini salentini, diffondendo la sua costruttiva filosofia rinaturalizzante ovunque: parliamo della massima nobilitazione delle erbe spontanee, la loro riscoperta, il ritorno a prestare ad esse massima attenzione, il risveglio della curiosità scientifica e per la biodiversità più in generale, come per la storia naturale!
Un’ attenzio…ne ed una sensibilità antica, che negli ultimi decenni dei criminali agro-nemici servi delle industrie dei diserbanti chimici di sintesi avevano del tutto cancellato, prima nelle menti di tante persone, poi, “de factu”, facendo irrorare tali veleni su piante, funghi e animali (insetti, lumache, ecc.) utilissimi e bellissimi, come ogni specie vivente!
E così oggi quotidianamente nel Salento, e non solo, data la potenza e apertura dello strumento facebook, decine di persone si guardano ovunque attorno, fotografano, come un tempo dipingevano, rapiti da bellezza e meraviglia della natura, postano foto e commentano, ricercano, si informano, scambiano informazioni etnografiche e biologiche, con anche l’amichevole consulenza di tanti esperti delle più varie discipline.
Questo miracolo nasce dalla sensibilità di Mitilo Salentino (Wilma Vedruccio), fondatrice del gruppo facebook di cui discorriamo, intitolato “Fra Le Scrasce”, che ormai conta adesioni innumerevoli e da ogni parte del mondo. Un fenomeno della rete, i cui effetti cominciano a valicare piacevolissimamente la dimensione del social network, e le persone cominciano a scambiarsi semi, a ripropagare piante autoctone di oggi o di un tempo, e non, anche rare e a rischio di estinzione, per salvarle, per restaurare il paesaggio, per la rinaturalizzazione dei luoghi, facendo da esempio e pungolo per le istituzioni pubbliche affinché avviino politiche di scientifica riforestazione, di ricostruzione paesaggistica rinaturalizzante con restauro anche dei beni culturali nel principio “dov’ erano e com’ erano”.
Ed è così che i propri giardini si riscoprono in tutta la loro potenzialità di veri e propri orti botanici, oasi nei deserti artificiali della compromissione, depauperamento e devastazione della natura da risanare, e pertanto centri di ripropagazione e ripopolamento da cui le specie possono ridiffondere nei loro territori antichi; giardini delle meraviglie, e arche di Noè della beatitudine naturalistica!
Anche il termine “scrascia”, in dialetto salentino il nome degli spinosi rovi, aveva, fino alla creazione del gruppo, un’ accezione negativa, che in questa riaffermazione di dignità territoriale e paesaggistica storica e naturalistica, è andata fortemente ridimensionandosi! https://www.facebook.com/groups/fralescrasce/
Gli ulivi nelle pirografie di Silvana Bissoli, Chiesa dei Battenti, Galatina 20 giugno-8 luglio
di Paolo Rausa
Le pirografie di Silvana Bissoli, una tecnica artistica che imprime con il fuoco, ritraggono gli ulivi della terra sallentina, la Messapia, ‘tanti mari, porti, e il suo grembo aperto da ogni lato al commercio dei popoli e lei stessa che, come per aiutare gli uomini, si slancia ardentemente verso i mari’. Così scriveva Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia.
Che cosa resta di quella idea e di questa terra nell’immaginario collettivo dei suoi abitanti e dei tanti amanti che da ogni parte del mondo e dell’Italia hanno stabilito un legame che va oltre le apparenze e si nutre di visioni? Quelle stesse che impressionarono i primi uomini che la frequentarono nelle Grotte dei Cervi di Porto Badisco, sulla litoranea a sud di Otranto, accanto alla torre di S. Emiliano, un baluardo che si erge sul promontorio di rocce che guardano a Oriente come per rispondere a ventilate minacce. Quali? Quelle dei turchi o quelle che giungono dal nostro seno?
Dai piani sillettiani di abbattimento degli ulivi che ne hanno viste tante in questa terra, una vera e propria ‘Via Crucis’, ritratta in queste straordinarie pirografie dalla veronese di origine e imolese di adozione e cittadina del mondo e onoraria del Salento, la viandante messaggera come ama definirsi. I suoi messaggi sono racchiusi nei tronchi contorti, espressione delle storie ambientali che si sono succedute qui, nel corso dei secoli, intrecciando quelle degli uomini, miti testimoni di travagli e di aspirazioni, ‘Voci tra Cielo e Terra’, ben piantati al suolo con radici millenarie che non ci pensano ad assoggettarsi alle macchine distruttrici che li minacciano di eradicazione, un termine astruso che vuol dire annientamento per rispondere colpo su colpo al batterio xilelliano.
Come Cristo gli ulivi hanno la loro verità da raccontare a noi che li ascoltiamo riverenti, anche quando i loro sogni sono trasfusi su tavole di legno incise con il fuoco sacro della passione, che ribadisce il diritto alla vita contro le logiche di morte, dei deserti che vengono chiamati pace.
Una chiesa, la cinquecentesca confraternita dei Battenti a Galatina, riaperta per l’occasione della mostra, ospiterà dal 20 giugno all’8 luglio la personale di Silvana Bissoli, 30 pirografie che ritraggono la nostra anima circonfusa con quella degli ulivi e la loro con la nostra. Un viaggio sentimentale tra le opere dell’artista, curato dalla critica d’arte Pompea Vergaro.
Durante la serata di inaugurazione e nei giorni successivi si alterneranno letture di poesie e canzoni della nostra tradizione culturale, a seguire la voce di Lucia Minutello e la musica del menestrello P40 il 26 giugno, la presentazione dell’opera poetica di Nico Mauro ‘La polvere e l’acqua, parole lungo la via della croce’ il 3 luglio. ‘Egli vedeva il Calvario/… morbida stola ai piedi di sua madre divina’.
Con Alda Merini, Poema della Croce, può iniziare questo viaggio all’interno dell’arte di Silvana Bissoli, che racconta storie che sanno di noi.
Galatina (Le), Chiesa dei Battenti, Orari mostra: tutti i giorni 10:00-13:00/18:00-22:00, Info: 339.7612304, bissosil@tin.it-Fb.
Non sarò certo preso da un attacco di invidia se questo post, com’era fatale che succedesse, non avrà la diffusione virale come quella di cui ha goduto la scorsa estate la Ice Bucket Challenge (Sfida del secchio di acqua ghiacciata). Evito di fare approfondite considerazioni sulle analogie con fenomeni consimili (per esempio: l’attricetta che si spoglia per beneficenza, ma anche per farsi un po’ di pubblicità) e riconosco la validità morale del detto il fine giustifica i mezzi (purché il fine sia nobile e i mezzi usati rispettosi dei diritti e delle sostanze altrui …) e, per finire, mi auguro pure che l’iniziativa continui, abbia il successo dello scorso anno e ne venga organizzata un’edizione anche invernale scambiando, però, il contenuto del secchio per evitare qualsiasi sospetto di ovvia e interessata gradevolezza: acqua ghiacciata in inverno, acqua calda in estate …
Chi avrebbe mai pensato che un umile oggetto come il secchio, grazie alla rete, avrebbe assunto quell’aureola d’importanza che pure, senza che ne fossimo consapevoli, ha avuto da sempre, essendo di uso comunissimo?1
La stessa cosa certamente è successa per qualche altro oggetto e sta succedendo e succederà per un altro ancora, magari un banalissimo stecchino. Bisogna riconoscere che sotto questo punto di vista la rete ha il grande merito, ogni tanto, di farci riflettere sulle potenzialità degli oggetti, meglio sulle risorse che il nostro ingegno e la nostra fantasia riescono, quasi reinventandoli, a tirarne fuori.
In attesa che il futuro ci mostri ulteriori utilizzi del secchio e compagni, vale la pena fare un tuffo nel passato. La piscina, però, o, se preferite, il mare ci è stata offerta da un mio ex allievo, Pippi Mellone, che giorni fa con un messaggio vocale inviatomi privatamente in facebook mi ha posto un quesito che posso riassumere così: qual è l’origine della locuzione neretina ssuppare lu sicchiu?
Era la prima volta che la sentivo e ho risposto così: Ad essere sincero “ssuppare lu sicchiu” non l’ho mai sentito, a differenza di “ssuppare lu biscottu” che, probabilmente anche con ulteriore evocazione metaforica di natura sessuale, significa “approfittare di una situazione” . Non so se l’espressione da te ricordata abbia lo stesso significato oppure possa significare “fare una cosa ovvia”.
La risposta di Pippi è stata: Ssuppare lu sicchiu” sta per “morire”, “trapassare”, “passare a miglior vita”. Col biscotto non ha nulla a che fare.
Con queste parole Pippi annientava la mia ipotesi e dava un duro colpo alla mia credibilità di filologo, dilettante (l’aggiunta è mia), che proprio lui aveva esaltato (non sarà stata una presa per il culo? …) nel messaggio in cui poneva il quesito (questo dettaglio sembrerebbe confermare il mio dubbio precedente …). Lo dico un po’ scherzando un po’ sul serio: il vantaggio degli allievi rispetto all’insegnante è di natura anagrafica, nel senso che avranno sempre il tempo di vendicarsi per qualche torto subito, non importa se reale o presunto, anche se dovranno affrettarsi quando l’insegnante è più o meno prossimo a ssuppare lu sìcchiu …
Esagererei se dicessi che poco c’è mancato cu ssuppu lu sìcchiu alla risposta di Pippi, mentirei se dicessi che magari solo per un attimo ho pensato di fare spallucce e non pensarci più. Il disappunto ha esasperato la mia innata curiosità e, dopo una breve ricerca in rete, inviavo a Pippi il seguente messaggio: In http://www.comune.lizzano.ta.it/territ…/dialetto-lizzanese al penultimo rigo leggo: “zuppari lu sicchiu morire” letteralmente rompere il secchio”. A questo punto credo che “zuppari” corrisponda all’italiano “azzoppare” e, quindi, “ssuppare/inzuppare” non c’entra per nulla. Però, pur immaginando che l’azzoppamento implichi un danno, quest’ultimo non è mai di entità tale, nell’uomo e nella bestia, da procurare la morte. Ho il sospetto, zzuppare (azzoppare) o ssuppare (inzuppare) che sia, che alla base della locuzione ci sia qualche antico racconto popolare. Non appena avrò tempo indagherò.
Seguiva, dopo nemmeno due minuti: In http://salonedellutto.com/2013/09/24/morte-eufemismi/ leggo: “E poi in italiano, ma anche in altre lingue, ci sono espressioni curiose, con un’origine che è particolarmente interessante esplorare: pensiamo, ad esempio, a tirare le cuoia, in italiano, a dare un calcio al secchio in inglese (to kick the bucket) oppure ancora a rompere la pipa in francese (casser sa pipe). Qualcuno di voi sa da dove arrivano? No, penso di no. Quindi ve lo spiego io. Tirare le cuoia è un’espressione toscana – e i toscani, in Italia, sono famosi per il linguaggio particolarmente inventivo e colorito. “Le cuoia” è il femminile plurale di cuoio e sta a indicare la pelle conciata di alcuni animali e, per esteso, a designare la pelle umana e far riferimento alla condizione di rigidità che insorge subito dopo la morte. L’origine di dare un calcio al secchio, invece, è medievale, o almeno sembra. A quell’epoca uno dei metodi di esecuzione più diffusi era l’impiccagione. Il condannato era posto in piedi sopra un secchio, col nodo scorsoio intorno al collo. Al boia era sufficiente tirargli un calcio, a quel secchio, perché la condanna andasse a buon fine”.
Se è così, viene confermato quanto dicevo nel commento precedente. Credo perciò che la grafia esatta della locuzione sia: “zzuppare lu sicchiu”. Mi rimane strano il fatto che un’espressione idiomatica neretina (e non solo), presumo datata, abbia, addirittura, origini inglesi.
Pippi mostrava di considerare parzialmente credibile quanto comunicato: E le esecuzioni con ghigliottina? In quel caso la testa del morto veniva riposta in un secchio e tirata su per farla vedere agli spettatori ancora inzuppata di sangue. Potrebbe derivare da lì? La sua domanda, legittima, complicava le cose, ma la mia risposta era degna di un politico navigato: Mi pare che nemmeno questa ipotesi sia da respingere a priori; però andrebbe approfondita; come le altre.
Qualche secondo e squilla il telefono e, dopo cinque minuti di piacevolissima conversazione con il caro interlocutore, invio a Pippi il seguente messaggio: Non ho finito neppure di metabolizzare il senso di stranezza del dato precedente che ricevo la telefonata, graditissima, di Luigi Ruggeri il quale mi ha confermato l’”antichità” della locuzione neretina, che per lui è strettamente connessa con la presenza, in passato comunissima, della cisterna in casa e fuori. Essa era soggetta periodicamente ad un’operazione di pulizia che riguardava anche lo svuotamento della melma depositatasi nella sua parte terminale, simile ad una conca, Il secchio inzuppato nella melma era la spia che la riserva di acqua era terminata.
Insomma, una bellissima metafora, tratta dalla vita di ogni giorno, in cui il secchio senz’acqua simboleggia la vita che si spegne e la melma che esso tocca l’inevitabile putrefazione.
Vedo già che, pur condividendo, forse, la profonda, naturale, bellezza della metafora parecchi (mi chiedo come faranno le parecchie, altra manifestazione pratica di maschilismo apotropaico…) sono impegnati in una frenetica attività di toccamento …
Come ho dimostrato, io sono innocente; prendetevela con Luigi!
Non vorrei che fosse questo (quello del toccamento …) l’esito più alto, per quanto basso …, propiziato dal post, mentre io (mi auguro, comunque, di essere un ingenuo fallito …) volevo solo trasferire un ottimo piatto dall’anonimo, anche se frequentatissimo, ristorante facebookiano ad uno (non oso chiamarlo dantescamente convivio …) senza dubbio meno pubblicizzato ma più “casereccio”, più genuino e, quel che più conta, più serio.
P. S. E ora Pippi, che, per chi non lo sapesse, è avvocato potrebbe pure denunciarmi, senza spendere granché, per violazione della privacy, anche se facebookiana (ribadisco: il messaggio da cui tutto è partito non era pubblico) ma inquadrabile in quella generica; non posso ora scoprire le mie carte perché sarebbe come mutilare in partenza la possibilità di una presunta vendetta di una ancor più presunta vendetta della controparte. E poi Pippi è troppo intelligente (è stato mio alunno … come se l’intelligenza non fosse una dote naturale che tutt’al più può essere valorizzata ma non infusa; nemmeno la vera cultura si raggiunge per infusione più o meno forzata di nozioni e credo di non aver avuto un solo allievo, è il caso di dire, secchione, anche se, per amara compensazione, non è mancato qualche lavativo) per denunziarmi e per non capire quanto gli sono grato per aver aggiunto, grazie al determinante intervento di Luigi, un tassello minuscolo, ma per me importante, alle mie, anzi a quelle di tutti noi, per quanto irrilevanti, conoscenze.
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1 Basti pensare che quando non esistevano gli impianti idrici la cisterna o il pozzo fornivano in città o in campagna il relativo approvvigionamento e un secchio, una corda e la forza delle braccia erano il trinomio più economico per attingere l’acqua. E, quando la corda sfuggiva dalle mani o si spezzava [da cui, credo, l’espressione italiana buonanotte al secchio! e , con riferimento all’usura del manico, il proverbio Lu sìcchiu, sali e scindi ti lu puzzu, ‘nci lassa la manica (Il secchio, a furia di salire e scendere dal pozzo, ci rimette il manico) gemellato con L’uqualu tantu vae e bbene ti lu puzzu ca rria lu ggiurnu ca ‘nci lassa la manica (Il boccale tanto va e viene dal pozzo che arriva il giorno in cui ci rimette il manico)] il secchio veniva recuperato con i cruècci, il cui singolare (cruèccu: bastone di legno o di ferro la cui estremità prosegue con un tratto molto più piccolo, lungo non più di 10 cm., deviato ad angolo acuto di 45° gradi circa) corrisponde all’italiano crocco, che è dal latino medioevale croccus=uncino, a sua volta dal francese croc, che è dallo scandinavo krokr).
di Pino de Luca
Come ogni mercoledì ci si diguazzerà tra birre e prodotti della terra. A volte con entusiasmo e a volte stancamente (come oggi). Sempre più raro trovare racconti capaci di entusiasmare, sempre più profonda l’impressione di ribollite o di esagerazioni estreme, di riproposizioni di bottiglie sperando nell’oblio o di creazioni che fanno evento ma non fanno vento.
Ho un gran desiderio di un rosso giovane, vinoso, ben fatto, che non indulga …né alla vaniglia né alla liquirizia. Magari al corbezzolo maturo e che alla fine abbia una nota amara e sia difettato nei tannini, vorrei sentirne un po’ l’asprezza. E immaginare che ci sia il mio papà che con il suo coltello da innesti taglia una pesca bianca e mette una fetta nel bicchiere capiente. E “tuzzamu” per un’altra volta mentre con lo zio Pippi e lo zio Mino facciamo un’altra partita a tre chiamate. E di quel vino con la pesca, sotto la “preula” in un pomeriggio di giugno, giocando a tressette se ne andava un bottiglione giocando a tre chiamate a “venti lire la chiamata e quaranta la sola”.
Soldi veri sudati da tutti e “a tre chiamate non si perdona!!!”
Dopo tre ore di carte e un fiasco di vino eravamo tutti più sereni e rilassati, sia chi aveva vinto che chi aveva perso.
La pergola non c’è più, papà, zio Pippi e zio Mino nemmeno, le pesche bianche profumate (persiche), dalla buccia pelosa, sono introvabili; a tre chiamate non sa giocare più nessuno (troppo difficile dicono). Rimane il coltello di papà, il desiderio di un vino che sappia raccontare un pezzetto di storia e la voglia di andare a cercarlo.
Sia una bella giornata per tutti voi . A tutti voglio dire che almeno per il compleanno un calice di vino si solleva e si porta alle labbra, adagio. Non è forse il movimento esatto di un bacio?
P.S.
Oggi nessuna invettiva verso chi lancia invettive. Non amo le invettive, preferisco il ragionare.
Tondo, tondo come l’O di Giotto, impareggiabile nel pettegolezzo, garante della comunicazione paesana, confidente, campione della tolleranza, simbolo dell’allegoria del sorriso. Lo Zitone, suo compagno d’armi, lo coadiuva nelle disquisizioni pubbliche semiserie nella piazza Garibaldi, ogni giorno e in ogni momento. In Camillo volente o dolente ci s’incappa comunque, nessuno può sottrarsi alle sue grinfie simpatiche d’intrattenimento. Filosofo, se per filosofo s’intende il creatore di un ampio sistema di pensiero basato sulla filosofia della pancia e al mondo sensibile del chiacchiericcio. Nulla ha scritto, tanto ha operato invece in funzione dell’oralità, diffondendo il verbo della parola, missionario della congregazione NU HAI SAPUTU NENZI?, con sede in ogni luogo.
Cittu tie, puttana, ca sai!: è la sua fulminea risposta a una domanda pettegola che gli viene fatta. E lo Zitone (il Voltaire tugliese) ride, e ridono tutti, anche i piccioni cagoni della piazza sbattono le ali in segno di compiacimento. Il suo quartier generale è al caffèpercaso, dove la commedia dell’equivoco è replicata e rielaborata in divertenti parodie dell’esistenza umana. Camillo si occupa degli argomenti più svariati, ma dedica anche molto impegno agli affari spiccioli: morte, amore, tradimenti e altro.
Si può dire che abbia inventato la figura del “pettegolo intellettuale”, che si sarebbe sviluppata poi anche altrove, contando altre figure di spicco, di cui si preferisce non farne menzione. Rousseau scriveva per l’amore di scrivere, Camillo parla per amore della parola. È la star della piazza, anche durante le prime ore del mattino, assorbendo lo spirito del tempo, sulla panchina sudicia o sulle sedie traballanti del bar, ha un culacchio pronto per la narrazione con lo stile inconfondibile di chi la sa lunga e bene. Ordinatore e manutentore delle vicende umane paesane sotto l’alto patrocinio dello Zitone. Editorialista orale, opinionista al convivio piazzaiolo, ma anche attore poliedrico, simpaticone, rubicondo, generoso così tanto da mettersi sovente nei guai, divorato dai cattivi, ottimista sino all’inverosimile.
Adesso sul suo grande faccione di persona buona una piega di malinconia prende ruga, trasuda pensieri di delusione, non è più il salumiere pirotecnico amato da tutti; ma detiene ancora il suo ruolo di centralità della comunicazione allegra e chiassosa e quando non morde c’è sempre qualcuno a stuzzicarlo e a farlo sbottare in parole e paroloni, sempre con il condimento dello sfottò.
Camillo, uno che faceva il bene per paura di fare il male, mai vanitoso e superbo. I giudizi degli altri, colmi di livore, non li merita, i disordini procurati li ha sacralizzati nella profondità del suo cuore, aggiungendo alle imperfezioni immagini fantasiose della vita con lo scopo di compiere l’amore anche di fronte alle assurdità, sottraendo le consequenziali impossibilità del suo essere Camillo e soltanto Camillo.
Insieme con l’olivo è l’ultima vittima (purtroppo temo che non sarà l’ultima) sacrificale della xylella fastidiosa, ammesso che sia lei la responsabile (o, più probabilmente, la corresponsabile …) della ingordigia umana che nella globalizzazione sembra aver trovato il terreno fertile per completare l’opera predatoria e distruttiva delle risorse del pianeta, vittime della cecità peggiore, quella che privilegia la vita di pochi e mette in pericolo, in ultima analisi, la stessa sopravvivenza della nostra specie.
La stessa parola biodiversità, concordemente considerata da tutti una ricchezza, rischia di vedere cambiata la sua definizione e, abbandonato il principio basilare della conoscenza e del rispetto della natura, di incarnarsi nella creazione innaturale di nuove specie grazie all’ingegneria genetica che, obbedendo al principio del tutto e subito e del profitto ad ogni costo, diventa solo una bomba ad orologeria destinata ad esplodere prima o poi, con l’irreversibile impossibilità di disinnescarla.
I nostri discendenti conosceranno, così, l’olivo e l’oleandro (e non solo …) grazie a qualche immagine e a qualche riga di testo, così come noi oggi conosciamo i dinosauri attraverso ricostruzioni virtuali; bisognerà, però, avere almeno il coraggio di ricordare che, a differenza dei dinosauri estintisi per volere della natura, l’olivo e l’oleandro si estinsero per colpa esclusiva della nostra specie.
La stessa parola perderà quella carica allusiva ed evocativa che ognuna quando è in vita trasmette anche ai più superficiali, ai meno insensibili, ai meno cerebralmente reattivi (leggi sinapsi poco allenate …), seguendo in questo l’amaro destino di tutte quelle che, pur in uso, indicano qualcosa che non esiste più. Sperando di non essere stato profetico, cerco di chiarire concretamente il concetto, cominciando da ciò che, pur nella sua precisione, più arido non può apparire: la scheda botanica.
Nome scientifico: Nerium oleander L., 1753
Famiglia: Apocynaceae
Nome italiano: Oleandro, Leandro, Mazza di San Giuseppe, Ammazza l’asino, Erba da rogna
Sarà meno arido il suo commento?
Comincio dalla nomenclatura binomia di Linneo risalente al 1753 e tuttora valida. Nerium è tratto da Plinio (I secolo d. C.), Naturalis Historia, XVI, 44: Rhododendron, ut nomine apparet, a Graecis venit. Alii nerium vocarunt, alii rhododaphnen, sempiternum fronde, rosae similitudine, caulibus fruticosum. Iumentis capriaque et ovibus venenum est. Idem homini contra serpentium venena remedio (Rododendro, come si vede dal nome1, viene dai Greci. Alcuni l’hanno chiamato nerio, altri rododafne2: non perde mai le foglie, somiglia alla rosa, è cespuglioso. È veleno per i giumenti, per le capre e per le pecore. Lo stesso all’uomo è rimedio contro il veleno dei serpenti).
Più estesa è la testimonianza, per il mondo greco, del contemporaneo Dioscoride, De materia medica, IV, 81: Νήριον· οἱ δὲ ῥοδόδενδρον, οἱ δὲ ῥοδοδάφνη καλοῦσι. Γνώριμος θάμνος, ἀμυγδαλῆς μακρότερα καὶ παχύτερα καὶ τραχύτερα τὰ φύλλα ἔχων, τὸ δὲ ἄνθος ῥοδοειδές, καρπὸν ὡς χέρας, ἀνεῳγμένον πλήρη ἐριώδους φύσεως, ὁμοίας τοῖς ἀκανθίνοις πάπποις· ῥίζα δὲ ἄποξυς καὶ μακρά, γευσαμένῳ ἀλμυρά· φύεται ἐν παραδείσοις καὶ παραταλοσσίοις τόποις καὶ παραποταμίοις. Δύναμιν δὲ ἔχει τὸ ἄνθος καὶ τὰ φύλλα κυνῶν μὲν καὶ ὄνων καὶ ἡμιόνων καὶ τῶν πλείστων τετραπόδων φθαρτικὴν, ἀθρώπων δὲ σῳστικήν, πινόμενα σὺν οἴνῳ πρὸς θηρίων δήγματα καὶ μᾶλλον εἰ πηγάνου τι παραμίξειας. Τὰ δὲ ἀσθενέστερα τῶν ζῳων ὡς αἴγες καὶ πρόβατα, κἂν τὸ ἀπρόβρεγμα αὺτῶν πίῃ, ἀποθνῄσκει (Nerion: alcuni lo chiamano rododendro, altri rododafne. Arbusto ben noto, che ha le foglie più grandi e più ruvide di quella del mandorlo, il fiore roseo, un frutto come un corno allungato pieno di una sostanza lanosa simile al pappo delle spine, una radice aguzza e grande, di sapore salato; nasce nei parchi4 e nei luoghi vicini al mare e ai fiumi. Il fiore e le foglie hanno effetti mortali su cani, muli e molti quadrupedi, giovano agli uomini bevute con vino contro i morsi delle bestie e di più se mischiate con ruta. I più deboli tra gli animali, come capre e pecore muoiono anche se bevono acqua in cui (fiore e foglie) sono stati immersi).
La velenosità dell’oleandro è fonte di ispirazione per il capitolo XVII di Lucius sive asinus (in greco, nonostante il titolo latino con cui viene citato), un romanzo erotico attribuito per lungo tempo a Luciano di Samosatra (II secolo d. C.) ma oggi considerato apocrifo: … τὰ δὲ ῥόδα ἐκεῖνα οὐκ ἦν ῥόδα ἀληθινά, τὰ δ᾽ ἦν ἐκ τῆς ἀγρίας δάφνης φυόμενα· ῥοδοδάφνην αὐτὰ καλοῦσιν ἄνθρωποι, κακὸν ἄριστον ὄνῳ τοῦτο παντὶ καὶ ἵππῳ · φασὶ γὰρ τὸν φαγόντα ἀποθνήισκειν αὐτίκα (Quelle rose non erano vere rose ma fiori sbocciati da un alloro selvatico; gli uomini lo chiamano rododafne, cibo cattivo, questo, per ogni asino e cavallo; dicono infatti che quello che se ne ciba muore immediatamente). Il narrante è un asino ex-uomo alla ricerca di rose, l’unico cibo che gli consentirà di tornare uomo.
Allo Pseudo Luciano si rifà il contemporaneo Apuleio, Metamorfosi, IV, 2-3: Ergo igitur cum in isto cogitationis salo fluctuarem, aliquanto longius video frondosi nemoris convallem umbrosam, cuius inter varias herbulas et laetissima virecta fulgentium rosarum mineus color renidebat. Iamque apud mea non usquequaque ferina praecordia Veneris et Gratiarum lucum illum arbitrabar, cuius inter opaca secreta floris genialis regius nitor relucebat. Tunc invocato hilaro atque prospero Eventu cursu me concito proripio, ut hercule ipse sentirem non asinum me verum etiam equum currulem nimio velocitatis effectum. Sed agilis atque praeclarus ille conatus fortunae meae scaevitatem anteire non potuit. Iam enim loco proximus non illas rosas teneras et amoenas, madidas divini roris et nectaris, quas rubi felices beatae spinae generant, ac ne convallem quidem usquam nisi tantum ripae fluvialis marginem densis arboribus septam video. Hae arbores in lauri faciem prolixe foliatae pariunt in <odori> modum floris [inodori] porrectos caliculos modice punicantes, quos equidem fraglantis minime rurestri vocabulo vulgus indoctum rosas laureas appellant quarumque cuncto pecori cibus letalis est. (Mentre dunque fluttuavo in questo mare di pensieri vedo al quanto lontana l’ombrosa valle di un fitto bosco tra le cui svariate erbe e la foltissima vegetazione risplendeva il colore vermiglio di splendenti rose. E già nel mio intimo non ancora completamente ferino credevo che quello fosse il bosco sacro a Venere e alle Grazie, nei cui oscuri recessi splendeva il regale fulgore del fiore delle due dee. Allora, dopo aver invocato l’allegro e propizio Evento [un dio], mi lancio in una folle corsa, tanto che, per Ercole!, mi sentivo non un asino ma un cavallo da corsa lanciato a folle velocità. Ma quello sforzo agile e spettacolare non potè ovviare all’avversità del mio destino. Infatti giunto sul posto non vidi quelle rose delicate e belle, madide di divina rugiada e nettare, quelle che i rovi dalla feconda spina generano, e neppure la valle ma solo la riva di un fiume cinta di fitti alberi. Questi alberi dall’aspetto di alloro dalle lunghe foglie generano piccoli calici rosso pallido dal fiore senza odore nonostante ne abbia l’aspetto, che il popolo ignorante con parola contadina chiama rose d’alloro3 e sono letali per il bestiame che se ne ciba).
Molto probabilmente è lo stesso albero di cui un secolo prima aveva parlato Strabone, Geographia, XV, 2, 7: Ἦν δέ τι ὅμοιον τῇδάφνῃ φυτόν, οὗτὸ γευσάμενοντῶν ὑποζυγίων ἀπέθνησκε μετὰ ἐπιληψίας καὶ ἀφροῦ (Vi [in Gedrosia, antica regione dell’India] era un albero simile all’alloro e quella bestia da soma che se ne fosse nutrita moriva di epilessia e schiuma alla bocca).
Riservando alla fine le restanti riflessioni su Nerium, passo ad Oleander. Si tratta di formazione latina moderna modellata da Linneo (uno svedese!) sull’italiano oleandro, la cui storia è piuttosto lunga. Esso, infatti, è figlio di un lorandrum attestato da Isidoro di Siviglia (VI-VII secolo), Etymologiae, XVII, 56: Rhododendron, quod corrupte vulgo lorandrum vocatur, quod sit foliis lauri similibus, flore ut rosa. Arbor venenata: interficit enim animalia, et medetur serpentium vexationes (Il rododendro che con deformazione popolare è chiamato lorandro poiché nelle foglie è simile all’alloro, nel fiore è come la rosa. Albero velenoso: infatti uccide gli animali e cura i morsi dei serpenti).
Insomma la somiglianza (che io non trovo neppure tanto spinta …) delle sue foglie a quelle dell’alloro sembrerebbe aver propiziato il passaggio del primo segmento (rodo-) di rododendro a lorandro, in cui, togliendo –andro mi rimane lor– che foneticamente è vicino al latino laurus, dal quale, poi, deriva il nostro lauro. E alloro? Paradossalmente proprio la forma più usata è frutto di un errore, nel senso che deriva dalla locuzione latina (il)la(m) lauru(m)>la lauru>l’alauru (errata concrezione della –a dell’articolo)>l’alloro>alloro.
Il nome della famiglia, Apocynaceae, è forma aggettivale da Apocynum, a sua volta trascrizione del greco ἀπόκυνον (leggi apòchiunon)=apocino,formato da ἀπό (leggi apò) =lontano da+κύων (leggi chiùon)=cane; alla lettera: (pianta) da cui tener lontani i cani o, più probabilmente, pianta efficace contro il morso dei cani.
Chi non si è dimenticato del titolo mi chiederà: -E Nardò?-. Per arrivare a Nardò, però, è indispensabile fare un passo indietro (ben diverso da quello, a parole, cui ci hanno abituato i politici …), cioè tornare al nèrium di Plinio o, è lo stesso, al νήριον (leggi nèrion) di Dioscoride, voci certamente nate molto prima che i due autori, quasi contemporanei, ce le trasmettessero.
La predilezione della nostra essenza per i luoghi umidi o, comunque, vicini al mare o ai fiumi ricordata da Dioscoride accomunerebbe la voce nèrium/νήριον ad altre che secondo gli studiosi si collegherebbero con la radice preindoeuropea nar-/ner=corso d’acqua. Di seguito riporto le più significative nell’attuale forma, laddove sopravvissute, con una sinteticissima ricostruzione del loro passato:
Nera: fiume che nasce nelle Marche, scorre in Umbria ed è il principale affluente del Tevere. Nera è deformazione dal latino Nare(m), accusativo di Nar/Naris.
Narni: comune in provincia di Terni, situato su uno sperone che domina il fiume Nera. Narni è dal latino Narnia(m), accusativo di Narnia, a sua volta derivato dal precedente Nar/Naris.
Nerèo: dio marino della mitologia greca, padre delle Nereidi. Nerèo è dal greco Νηρεύς (leggi Nerèus).
Nel greco moderno acqua è νερό(leggi nerò), connessa con le voci classiche ναρός [(leggi naròs)=scorrevole, liquido] e, ancor più strettamente, con νερόν (leggi neròn)=acqua fresca, entrambe da νάω (leggi nao)=scorrere.
L’ipotesi etimologica attualmente più accreditata5 per Nardò è che anche il suo nome rientri in quest’elenco, complice una falda freatica in molti punti molto superficiale e la nota connessa, bestiale (nel senso colloquiale di bellissima …) leggenda del toro che raspando con la zampa fece zampillare l’acqua, per cui fu lui, in pratica, a determinare dove la città doveva essere fondata.
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1 Composto da ῤόδον (leggi rodon)=rosa+δένδρον (leggi dendron)=albero.
2 Composto da ῤόδον (leggi rodon)=rosa+δάϕνη (leggi dafne)=alloro.
3 Corrisponde al greco ῤοδοδάϕνη (leggi rhododaphne), per cui vedi la nota precedente.
4 La traduzione dell’originale παραδείσοις (leggi paradèisois) con parchi non è una forzatura indotta dalla foto di testa … la parola ha come primo significato proprio quello di parco, poi di giardino e di frutteto e, infine, di Paradiso terrestre e di Paradiso (la derivazione di Paradiso dalla voce greca è di un’evidenza assoluta).
Chi di voi non ha provato a digitare in un qualsiasi motore di ricerca il proprio nome e cognome alzi la mano! Io l’ho fatto la prima volta in un attacco nefando di vanitosa curiosità, poi altre (anche se non molte) per tenermi aggiornato, l’ultima volta (ma temo che ne seguiranno altre …) qualche secondo fa (per la storia: erano le 11’ 39’’e 5/10 del 5/6/2015) e Google mi ha risposto con 279.000 risultati quando ho digitato Armando Polito, 4.720 quando, pochi secondi dopo, ho digitato “Armando Polito”. La cosa non è strabiliante pensando che la stragrande maggioranza delle due segnalazioni coinvolge miei omonimi, totali nel caso dei 4.720, per i quali Armando Polito equivale, perciò, al famigerato Mario Rossi (poi qualcuno arriva anche a dare del cialtrone e del fissato a chi afferma che i comunisti hanno monopolizzato tutto …).
Strabiliante è invece che, nel momento in cui scrivo, la prima occorrenza riguarda inequivocabilmente (si tratta di una scheda biografica autocompilata) il sottoscritto (chiedo scusa a chi di dovere per quel Fondazione Terra d’Otranto che si legge subito dopo …). Ancora più strabiliante il fatto che Google abbia dato più importanza (digitale, s’intende …) a me piuttosto che ad un apprezzato musicista mio omonimo: sarebbe come se, digitando Belen, Google mi sbattesse in faccia come prima occorrenza un articolo sul belato delle pecore e non sulla nota showgirl.
Con la tecnologia e col pc in particolare ho da lunghissima data un rapporto di amore-odio basato sulla considerazione che esso ormai costituisce quasi un’espansione del nostro cervello, della cui (del pc) velocità non possiamo fare a meno, ma la cui sostanziale stupidità, se sommata alla nostra congenita, può fare solo danni …
Non capendo un tubo di hardware nemmeno mi azzardo a montare, smontare e rimontare schede madri, processori, memorie, alimentatori, dischi rigidi e altri componenti né ci tengo a darmi da fare in tal senso solo per acquisire il soprannome di mandrillo del pc …
Col software, invece, me la cavo abbastanza bene, tanto da riuscire a piegare alcuni programmi a fare cose per le quali non erano stati progettati. Ma la mia curiosità e il conseguente uso intensivo della rete mi costringono a cambiare tastiera almeno due volte all’anno, perché già dopo due mesi d’uso la serigrafia di alcuni tasti è illegibile e i miei neuroni non mi consentono di battere alla cieca con risultati apprezzabili, come, invece, è in grado di fare un prostituto di successo su un marciapiede poco illuminato …
Col tablet ho un buon rapporto ma lo uso solo come fa l’allenatore con la riserva quando il titolare è infortunato. Col telefonino non ho da almeno vent’anni nessun rapporto, nel senso che da tempo non ne possiedo, anche se verso la metà degli anni ’70 (la data approssimata fa più effetto …) mi pavoneggiavo con un avveniristico Ericcson poco più spesso dei telefonini attuali, pagato, allora, 1.200.000 lire …
Oggi non sono in grado di utilizzare (non sto scherzando e non ho vergogna a dichiararlo) nemmeno quello di mia moglie, semplicemente perché non ne sento minimamente il bisogno.
A chi volesse controllare il dato fornito all’inizio consiglio, comunque, di non utilizzare, di qualsiasi strumento si serva, il comando vocale ma la tastiera, perché, nonostante la loro stupidità di base, queste macchine certe volte hanno insospettabili guizzi di grande intelligenza e potrebbe succedere che, utilizzando il comando vocale per cercare Armando Polito, una gentile e sexy voce femminile ti urli uno sguaiato vaffanculo! …
Non escludo che, se Google dovesse confermare la mia popolarità, potrei anche lasciarmi tentare dalla carriera politica. Anche se oggi vanno di moda i candidati giovani e belli (?) ed io giovane sono stato nel passato remoto, bello mai, ho, tuttavia, il mio asso nella manica. Non sarò il rottamatore, non sarò il saldatore e nemmeno il terminator ma il candydato del nuovo partito Nomina omina (I nomi sono presagi).
Manca solo che la mitica marca di lavatrici e lavastoviglie mi sponsorizzi la campagna elettorale …
Sono o non sono, saranno o non saranno soddisfazioni?
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