Venerdì 11 dicembre, alle ore 19, presso il Teatro Comunale di Nardò sarà presentato l’ultimo lavoro di Maria Rosaria Manieri, “Rosso un fiore”, a cura di Fiorella Perrone, editrice Besa.
Introduce e coordina il giornalista Massimo Melillo, Vice Presidente Assostampa Puglia. Intervengono il Sindaco di Nardò, avv. Marcello Risi, il prof. Remigio Morelli, il sottosegretario di Stato On. Teresa Bellanova.
Reading: Attori Marco Alemanno, Emanuela Pisicchio. Saranno presenti le autrici e l’editore.
La serata è organizzata dal Comune di Nardò, in collaborazione con il Caffè Letterario e il Lions club.
Il libro si apre con il racconto del primo comizio di Maria Rosaria Manieri in Piazza Salandra e ripercorre un pezzo di storia italiana sul filo dei ricordi, delle suggestioni e dell’esperienza personale. Non è un’autobiografia, ma un’intensa riflessione sulla politica condotta in un intreccio tra passato e presente, tra vita pubblica e frammenti di vita privata.
Indice
In onda i battiti del cuore
2. La notte devi dormire
3. Non c’è democrazia al mondo che funzioni senza i partiti
4. I serpenti sotto le foglie
5. Non è stato facile
6. C’è bisogno della politica
7. Povero figlio mio, un’altra cambiale!
8. La mia una generazione di donne che ha intrapreso battaglie fondamentali di libertà
DARIO MUCI presenta in anteprima il suo nuovo lavoro in un piccolo tour di incontri in tutto il Salento
tra il 6 dicembre e il 3 gennaio,
(foto Daniele Coricciati)
Barberìa e canti del Salento vol. 2 (CD e DVD)
è un cofanetto dedicato alla musica dei saloni da barba del Salento e alla figura del maestro Antonio Calsolaro in uscita a gennaio 2016 perAnimaMundi Musica
Durante gli incontri Muci sarà affiancato da Antonio Calsolaro, con il quale eseguirà alcuni brani in anteprima dal nuovo disco, oltre a parlare del lungo percorso di ricerca e della riscoperta di uno stile musicale che, almeno nel Salento, sembrava perduto.
Durante gli appuntamenti si parlerà anche della campagna di crowdfunding avviata a sostegno di questa complessa pubblicazione. Il crowdfunding è una delle risposte concrete alla crisi della discografia. Non è solo un metodo di raccolta fondi, ma anche l’occasione per stringere legami più forti con il pubblico e renderlo partecipe del lavoro di un artista e di una casa discografica.
gli incontri nel dettaglio:
6 dicembre, Tuglie, Museo della civiltà contadina h. 17:30: incontro/concerto con Dario Muci e Antonio Calsolaro intervistati da Federica Sabato del Nuovo Quotidiano di Lecce
13 dicembre, Nardò, Circolo Arci Nardò Centrale h 19:00 incontro/concerto con Dario Muci e Antonio Calsolaro intervistati da Giuseppe Tarantino del Nuovo Quotidiano di Lecce
18 dicembre, Lecce, Fondo Verri h 18:30 incontro/concerto con Dario Muci e Antonio Calsolaro intervistati da Mauro Marino
27 dicembre, Otranto, libreria AnimaMundi h 17:30 incontro/concerto con Dario Muci e Antonio Calsolaro
3 gennaio, Minervino, casa privata via Marconi 15, Specchia Gallone h: 18:00
House concert + incontro con Dario Muci e Antonio Calsolaro + proiezione trailer documentario sul maestro Calsolaro
L’house concert include un aperitivo e prevede un ingresso di 10 euro. Info e prenotazioni: 340.4008245
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Il CD contiene brani strumentali del repertorio di barberìa (valzer, mazurche, barcarole) e canti popolari del Salento, in cui Dario Muci e i suoi musicisti saranno affiancati da cantori tradizionali e da ospiti di primo piano della scena pugliese. Il DVD è invece dedicato a un documentario con la regia di Mattia Soranzo su Antonio Calsolaro e la barberia.
La barberìa è la musica che si suonava nei saloni da barba fino almeno alla metà degli anni ’50. Nel Salento questo fenomeno è stato dimenticato ma proprio negli ultimi tempi sta risalendo finalmente in superficie, grazie in particolare al lavoro di riscoperta che Muci conduce ormai da anni, come musicista e ricercatore, e a Calsolaro che lo ha appreso dal padre e traghettato nei nostri tempi.
A sostegno della complessa pubblicazione, che prevede tra l’altro un libretto con un interveto dell’etnomusicologo dell’Università di Firenze Maurizio Agamennone e i testi dei brani in traduzione inglese e francese, è partita una campagna di crowdfunding sul sito produzionidalbasso.com, che prevede numerose ricompense per chi vorrà prenderne parte.
E’ uscito Elio dopo un lungo parto durato 5 anni. Nato come un modo per mettere assieme ricordi e per dire cose mai dette, quasi una sorta di autoanalisi, è subito diventato la lettera che avrei voluto scrivere a Elio se ora fosse in vita, gli avrei raccontato le cose che ho fatto in tutti questi lunghi anni. Questo girovagare fra i ricordi è diventato libro grazie alla spinta di alcuni amici che hanno detto che “vale la pena farlo”. Chissà se vale la pena, comunque ora ho tra le mani il libro ed è un’emozione, un ricordo consegnato ad altri. Elio e la sua storia, la militanza in Lotta Continua, il suo viaggio in Brasile dopo il ’77 e la fine di un sogno, il suo spostamento nel Nicaragua sandinista, poi nel Salvador a fianco del Frente Farabundo Marti… Poi un silenzio rotto nel ’92 quando mi arrivarono per vie traverse i suoi documenti, Passaporto, patente e poco più e una lettera che diceva “il compagno Elio è morto in appoggio al FLMN salvadoregno in luogo e data imprecisati…”
Poi lunghi anni a metabolizzare e raccogliere ricordi e questa lunga lettera che dice di storie che ho conosciuto, di Solero, del Salento che mi ha affascinato, di mondine piemontesi e tabacchine salentine, e altro. Con un lungo intervento di Marcello Pantani, livornese che con Elio condivise la militanza in Lotta Continua in Puglia, lui a Bari, Elio a Molfetta e racconta dei loro incontri e della loro militanza.
La copertina è di Giulia, mia figlia, la foto in copertina è databile fra il 1953 e 1955, siamo Elio, io, e Francesca, i tre fratelli.
La casa editrice si chiama Spagine, leccese con sede al Fondo Verri, Via Santa Maria del Paradiso, luogo ormai storico della cultura cittadina, luogo di incontri che si è trasformato ora anche in piccolo editore perchè di pagine e Spagine è fatta la conoscenza.
Nell’era dello strapotere Mondazzoli è quasi una boccata d’ossigeno sapere di luoghi “incontaminati”.
GLI ULIVI E LA PIETRA. SALENTO E BAROCCO LECCESE NELLA PROSPETTIVA UNESCO
A LECCE E TARANTO UN CONVEGNO DI STUDIOSI E DI LIONS DI PUGLIA
di Ermanno Inguscio
Grande fermento in tutto il Salento in una due giorni, il 25 e 26 novembre 2015, dedicata allo studio della pietra leccese e alla tutela dei secolari ulivi salentini, promossa dai Soci Lions di Puglia, su iniziativa di Raffaele Cazzetta, presidente dell’Associazione Olivi secolari e del lions Club di Maglie. Il tema: Gli Ulivi e la Pietra. Salento e Barocco leccese nella prospettiva UNESCO”, è stato annunciato sui maggiori organi di stampa e sui TG di Rai3 Regione.
L’evento s’è svolto tra Lecce (presso le Officine Cantelmo) e Taranto, in un albergo cittadino. Il sindaco di Lecce, Paolo Perrone, in una sua intervista, ha sottolineato la necessità del coinvolgimento dell’intero Salento sul tema della iscrizione all’ UNESCO del Bene culturale “pietra leccese e ulivi secolari”, pena l’inefficacia di uno sforzo di natura sinergica fatto sul territorio. Proprio vero, infatti. Un analogo tentativo fu compiuto in tal senso nel 2006 dal sindaco dell’epoca, on. Adriana Poli Bortone, concluso con un nulla di fatto. Tutto si dissolse tra i meandri della burocrazia.
Da canto loro i Lions di Puglia, con la presenza del Governatore del Distretto, dr. Alessandro Mastrorilli ed un Vicegovernatore, prof. Francesco Antico, hanno coinvolto alle giornate di studio centinaia di imprenditori e professionisti provenienti dalle zone di Brindisi, di Fasano, di Lecce, di Maglie, di Casarano, di Gallipoli, di Castellaneta, di Grottaglie e di Manduria. A relazionare nel Salone leccese delle Officine Cantelmo il prof, Mino Ianne dell’Università di Bari, l’avv. Giorgia Marrocco (Centro Studi Tecné) e la prof.ssa Tatiana Kirova (Università di Torino), membro permanente del CIVVIH-ICOMOS dell’UNESCO.
Grande attenzione è stata prestata dall’uditorio proveniente dalle tre province di Lecce, Brindisi e Taranto alla prima relazione di Mino Ianne, che ha parlato sul tema :”Ambiente e paesaggio storico-antropologico del Salento”, alla seconda tenuta da Giorgia Marrocco sul tema “La pietra leccese fra tradizione e innovazione”, e soprattutto alla terza,la relazione di Tatiana Kirova, tema “Il Salento tra i siti UNESCO: le possibilità concrete”. Se, infatti, grande affidamento, a detta dell’organizzatore Raffaele Cazzetta, si fa nella esperta guida della prof.ssa Tatiana Kirova per il lavoro preparatorio per l’iscrizione del sito salentino ai Beni UNESCO entro il 2017, l’aspetto cruciale consisterà nell’approntare un Piano sinergico di autofinanziamento, una volta raggiunta l’iscrizione, per ogni attività che si intenderà programmare in maniera continuativa sul territorio con possibilità concrete di occupazione giovanile in questo lembo di terra tra lo Jonio e l’Adriatico. Una sfida ardua, ma non impossibile.
Tanto vale riprovarci, questa volta con feroce determinazione. Ed è ciò che è stato con chiarezza ricordato agli astanti nelle puntuali conclusioni dell’avv. Raffaele Coppola.
Messapi, Romani e aspetti dell’identità di Brindisi
“Il successivo territorio della Iapigia è, contro ogni aspettativa, molto confortevole. Infatti sebbene appaia aspro in superficie, dove è possibile arare, si scopre che il terreno è alquanto profondo e fertile, e quantunque sia povero d’acqua, nondimeno è abbondante di ridenti pascoli e appare ricco di foreste. Un tempo tutta questa regione era anche densamente abitata e contava tredici città. Ora invece, ad eccezione di Taranto e di Brindisi, le altre non sono che piccoli borghi, essendo giunto a tal punto il degrado. Si tramanda che i Salentini siano dei coloni venuti da Creta”.
Strabone, Geografia
L’identità di una città è nell’insieme complesso di eventi presenti e trascorsi, necessari e compresenti, invisibili eppure concreti; da qui si generano il senso di appartenenza dei suoi cittadini, la fascinazione urbana, la cultura della memoria collettiva. Questo sistema di valori si declina nella conservazione degli spazi e dei ritmi, dei colori e degli afrori, di tutto ciò che costruisce il volto della città. Sopravvive in tal modo una civiltà urbana di generazione in generazione, così come sopravvive una fiaba continuamente narrata, di sera in sera; ciò non significa definire un’identità sulla base della categoria della conservazione quanto del continuo avvicendarsi delle generazioni. Le riflessioni di Italo Calvino in Le città invisibili, andrebbero in tal senso riprese: “La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni: ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall’involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche che dall’ultimo modello d’apparecchio. Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti di Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazzaturaio”. Il risultato è che più una città “espelle roba più ne accumula; le squame del suo passato si saldano in una corazza che non si può togliere; rinnovandosi ogni giorno la città conserva tutta se stessa nella sola forma definitiva: quella delle spazzature d’ieri che s’ammucchiano sulle spazzature dell’altroieri e di tutti i suoi giorni e anni e lustri”. Montaigne rilevò la radice dell’identità nel continuo fluire delle persone e delle cose: “Tutto cambia intorno a noi, tutto si muove; si muovono perfino le piramidi d’Egitto, le montagne e la terra; perciò l’uomo è anche lui in continuo mutare e non è mai eguale a quello che era un attimo prima”. L’identità psico-sociologica è un insieme di criteri di definizione di un soggetto e un sentimento interno articolato sugli altri di unità, coerenza, appartenenza, valore, autonomia e fiducia organizzati intorno a una volontà. Chiedersi qual è l’identità “reale” di un soggetto sociale non ha senso. Un’identità è un’identità per qualcuno. Essa varia in funzione degli attori interessati: il soggetto attore e gli altri soggetti attori.
Entrano in gioco qui le idee della psicologia sociale sulle identità sociali in quanto insieme di identità attribuite da uno o più soggetti-attori a un altro attore. L’identità è la risposta data alla questione: che è questo soggetto, questo gruppo, questa cultura; ora, in un panorama nel quale i soggetti urbani sono disseminati in comunità diverse per lingua, storia e cultura, l’esigenza della comunicazione si manifesta necessariamente negli spazi pubblici che, in certa misura, sono quelli in cui si sovrappongono le città costruite e decostruite nel luogo che chiamiamo Brindisi.
L’interpretazione di questi luoghi e, più in generale, dell’urbanistica messapica e romana ha avuto attraverso le indagine archeologiche sviluppatesi nell’area di Brindisi, nuovi e interessanti apporti; meglio ora può intendersi la struttura di una città importante nel mondo antico e che, ancora oggi, come molte città europee e del bacino del Mediterraneo, mostra il retaggio dello schema urbanistico romano nel suo nucleo più remoto.
Come già Strabone rilevò, i Romani “pensarono soprattutto a quello che i Greci avevano trascurato: il pavimentare le strade, l’incanalare le acque, il costruire fogne che potessero evacuare tutti i rifiuti della città”. (Strabone, Geografia, V, 3,8.).
Accanto alla città reale, nella sua materialità, è quella la cui immagine è trasmessa dalla letteratura; i possibili riferimenti virgiliani alimentano un dibattito fra i cui primi protagonisti è il Galateo il quale, a proposito del primo approdo di Enea in Italia rilevò nel De Situ Japigiae: “io non saprei dire se Virgilio si riferisse a Otranto, oppure a Brindisi”.
Questi temi saranno sviluppati, nel corso del XL Colloquio di studi e ricerca storica da archeologi, studiosi della letteratura latina, dirigenti museali in un programma articolato e complesso, che si invia in allegato, sviluppato con Ar.Tur – Luoghi d’Arte e d’Accoglienza nell’ambito del progetto GRANAfertART.
– Preg.mo Dott. Guido Aprea, Commissario prefettizio del Comune di Gallipoli
– Preg.ma Arch. Maria Piccarreta, Soprintendente per le Belle Arti di Lecce
– Preg.mo Dott. Luigi La Rocca, Soprintendente per i Beni archeologici della Puglia
– Preg.mo Dott.Michele Emiliano, Presidente della Giunta Regionale Pugliese
Oggetto: Chiesa di San Pietro dei Samari in Gallipoli (sec. XII). Situazione e richieste.
A partire dal 2004 e per diversi anni la Sezione Sud Salento di Italia Nostra si è adoperata con numerose iniziative e nelle diverse sedi competenti, per denunciare le gravissima situazione di degrado, alterazione dei luoghi e pericolo di crollo (poi in parte verificatosi) della più importante testimonianza medioevale presente nel territorio di Gallipoli qual è la Chiesa di S. Pietro dei Samari (sec. XII). Le diverse amministrazioni comunali succedutesi nel corso di questo decennio si sono di fat-to disinteressate del problema e non hanno tentato minimamente di intraprendere qualsiasi iniziativa perchè i proprietari del bene predisponessero adeguati programmi di intervento per il recupero del-l’immobile e per la sua fruizione, anche in ragione del fatto che il bene ricade nel perimetro del Parco naturale regionale “Punta Pizzo-Isola di S. Andrea”.
Per le azioni intraprese dalla scrivente Sezione di Italia Nostra (anche in termini legali) i pro-prietari furono “costretti” dalla Soprintendenza ai monumenti ad effettuare nel 2009 degli interventi di messa in sicurezza del bene con la collocazione di punteggi e con una copertura in lamiere metal-liche. Oggi, dopo oltre sei anni, la struttura metallica che ingabbia il bene e quella in legno posta a ridosso della cortina muraria crollata (unitamente alla copertura in lamiere) si trovano in abbandono e in condizioni di precarietà. E’ doveroso evidenziare che, per tali condizioni e in situazioni di forte ventosità, potrebbero verificarsi cedimenti strutturali e conseguenti problemi di sicurezza per l’immobile e per la circolazione stradale data la contigua presenza della S.S. 274.
In considerazione del lungo periodo trascorso e in ragione che ad oggi nessun intervento è stato effettuato sul bene, la scrivente Sezione di Italia Nostra fa voti alle S.LL. in indirizzo (ognuna per le proprie competenze) perché siano individuati e adottati i necessari provvedimenti atti al recupero del bene e alla sua successiva fruizione. Il provvedimento che a nostro parere andrebbe utilizzato è quello dell’esproprio dell’immobile e dell’area in cui insiste (interessata dalla presenza beni archeo-logici e sottoposta a vincoli diversi) per ragioni di pubblica utilità: gli artt. 95/100 del Codice dei Beni Culturali rispondono adeguatamente alla “nostra” situazione.
Per ragioni di tempo, per l’inerzia dei proprietari e per l’atavica indolenza e disinteresse delle amministrazioni comunali di Gallipoli, non ci rimane che sperare nella Vs. sensibilità e nei conseguenti, tempestivi ed efficaci, provvedimenti; ciò potrà scongiurare che, tra qualche tempo, la Chiesa di S. Pietro dei Samari abbia la stessa sorte che ha avuto la Masseria fortificata dell’Itri di Gallipoli che, per incuria e abbandono, pochi anni fa è andata completamente distrutta.
Italia Nostra, nell’auspicare l’interessamento tempestivo delle SS.LL. si rende disponibile ad ogni forma di collaborazione perché una delle più importanti testimonianze del patrimonio storico, architettonico ed ambientale di Gallipoli e del Salento possa essere recuperata, perché diventi l’attrazione culturale del Parco regionale e resa fruibile agli studiosi, ai turisti e alla collettività.
Presentazione del volume “Pietro Marti (1863-1933). Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto”
La Società di Storia Patria per la Puglia sezione di Oria e l’Archeoclub d’Italia, sede di Manduria, con il patrocinio del Comune di Manduria e la collaborazione dell’Unitre e della Fondazione “Pernix Apulia” di Eugenio Selvaggi, hanno promosso la presentazione di una importante monografia dedicata a Pietro Marti. Il volume dal titolo: “Pietro Marti (1863-1933). Cultura e giornalimo in Terra d’Otranto” sarà presentato il giorno 19 novembre p.v., alle ore 17.00, nel Salone consiliare del Municipio di Manduria.
Relatore il prof. Cosimo Pio Bentivoglio, noto studioso locale. Autore del libro, edito a cura del dott. Marcello Gaballo, è il prof. Ermanno Inguscio, collaboratore dell’Università del Salento, socio ordinario della Società di Storia Patria per la Puglia. Parteciperà alla presentazione il prof. Pasquale Corsi, docente universitario, Presidente della Società di Storia Patria per la Puglia, oltre naturalmente all’autore ed ai rappresentanti delle istituzioni promotrici. Punto di riferimento la civica Biblioteca “Marco Gatti”.
Va ricordato che Pietro Marti è stata una delle figure più rappresentative della cultura di Terra d’Otranto tra Otto e Novecento e che il suo legame con Manduria deriva dal fatto che negli anni dal 1921 al 1924 è stato il Direttore della prima scuola secondaria (Scuola Tecnica) istituita appunto in Manduria nel 1921.
A ottobre 2005, a dieci anni di distanza dalla scomparsa del professore Gino Rizzo, italianista, docente presso l’Università degli Studi di Lecce e anche Preside di Facoltà, viene pubblicato dal “Centro Studi Sigismondo Castromediano e Gino Rizzo” di Cavallino, “<Metodo e intelligenza> Gli studi di Gino Rizzo tra filologia e critica”, per le edizioni Congedo (2015), a cura di Fabio D’Astore e Marco Leone.
Si tratta di una raccolta di contributi a firma di alcuni esperti di letteratura italiana che hanno conosciuto Rizzo e hanno avuto con lui contiguità d interessi, in omaggio all’illustre scomparso, come memento per la sua città di Cavallino, per il Salento e per tutta la comunità di studiosi e amanti delle lettere affinché di lui possa serbarsi grato ricordo. Il libro, che esce con il patrocinio della Città di Cavallino, dopo una Premessa dell’On. Gaetano Gorgoni, Vice Sindaco e Assessore alla Cultura di Cavallino, è introdotto da una Prefazione di Antonio Lucio Giannone, Presidente del “Centro Studi Sigismondo Castromediano”, ente ideato e fondato proprio da Gino Rizzo, che ne fu il primo Presidente, insieme a Gorgoni, allora Sindaco del comune leccese.
Il centro intendeva dare impulso agli studi e alle ricerche sulla cultura salentina dell’Ottocento e Novecento, con particolare riferimento alle figure di Giuseppe De Dominicis e di Castromediano, come ricorda proprio Giannone il quale rImarca i filoni di ricerca seguiti da Rizzo nella sua carriera, lamentando la sua troppo prematura scomparsa. Il professor Rizzo infatti avrebbe dato certamente ancora molto, sia come ricercatore attento che come promotore di iniziative culturali di vario genere. All’intervento di Giannone, segue nel libro una Introduzione dei curatori Fabio D’Astore e Marco Leone, i quali sono stati allievi e amici di Rizzo.
Essi spiegano che il sottotitolo del libro, “metodo e intelligenza”, “filologia e critica”, non è stato scelto a caso perché questi due accostamenti rappresentano i titoli di altrettante opere di Rizzo contenenti saggi sulla letteratura italiana fra Seicento e Novecento.
Una segnalazione per la bellissima copertina del libro, opera di Guercino, “Paesaggio al chiaro di luna”(1616). Il libro lumeggia i vari aspetti dell’indagine critica eseguita dal professor Rizzo negli anni.
Il primo contributo è di Pasquale Guaragnella, “Un ricordo di Gino Rizzo, studioso del Barocco”; poi interviene Marco Leone, con “Il Barocco di Gino Rizzo tra saggi ed edizioni”; il terzo contributo è a firma di Giuseppe A.Camerino, con “Settecento in Terra d’Otranto, nelle ricerche di Gino Rizzo”; è poi la volta di Emilio Filieri, con “Sul Settecento inedito fra Salento e Napoli. Fedeltà alla ragione con il mito del sentimento”; segue Raffaele Giglio, con “L’impegno di Gino Rizzo per la poesia ottocentesca”; il sesto contributo è di Fabio D’Astore, con “Critica-filologia-esegesi: gli studi di Gino Rizzo su Giovanni Verga”; il settimo contributo è di Ettore Catalano, “Gli studi novecenteschi di Gino Rizzo tra accertamento filologico e ricchezza analitica”; infine Antonio Lucio Giannone, con “Tra filologia e critica: il ‘Fenoglio’ di Gino Rizzo”. Attraverso gli interessi letterari di Rizzo, nella sua carriera di studioso, i suoi numerosi volumi, saggi, edizioni, articoli, le sue frequentazioni anche amicali, i convegni, seminari e incontri di studio organizzati, si ricostruisce anche buona parte della memoria collettiva e del contesto storico culturale di una terra che ha avuto in lui uno dei figli più stimati e apprezzati.
Sullo sfondo che s’innalza in direzione nord e nord-ovest, l’ininterrotta, armonica e uniforme catena di vette alpine, sequenza invero familiare e saldamente stagliata nella mente di chi scrive da più di mezzo secolo, risalendo al 1963 il primo impatto del ragazzo del lontanissimo Sud con tale panorama.
Al che, il cuore sembra subito stringersi per l’emozione e, in pari tempo, dilatarsi sull’onda di composti e però ugualmente inarrestabili sentimenti di gioia.
Invece, a terra, sulle superfici di campi e giardini, ecco, oltremodo diffusi e, per il mio sentire, ammalianti, i segni tipici di questo periodo stagionale, sotto forma di arbusti o piante o semplicemente foglie di platani, dal colore che va dal giallo morbido al rosso quasi arancione e viola.
Nella circostanza, non si tratta di semplici e pedisseque sfumature cromatiche, bensì, quasi, di un ideale alfabeto magico, con rami e, giustappunto, foglie che fungono da lettere, consonanti e vocali, insieme che si lascia leggere alla stregua delle omologhe raffigurazioni stampate negli abecedari e, inoltre, proprietà eccezionale, capace addirittura di parlare, di rivolgersi agli occhi e alla mente di passanti e/o osservatori.
Incede senza intoppi, il convoglio sulla strada ferrata e, puntualmente, guadagna la penultima stazioncina della tratta, quindi pressoché periferia rispetto alla meta, il cui nome, Basiliano, rimanda la suggestione del viaggiatore salentino all’antico ordine monastico che tante tracce ha lasciato dalle sue parti, specialmente nell’area del Capo di Leuca.
Di lì a poco, al riecheggiare dell’annuncio dell’altoparlante della destinazione finale e al primo sguardo che si pone naturalmente sulle strutture ed edifici d’intorno, un sussulto intenso viene a rinnovarsi nell’animo.
Quanti viaggi, quante visite, quanti transiti, durante stagioni ormai lontane e che, tuttavia, hanno segnato profondamente un intero corso esistenziale!
Non si presenta granché mutata la città nella sua sostanziale configurazione, malgrado il cospicuo tempo passato dagli iniziali contatti.
Anzi, adesso, conferisce l’idea di essere più aggraziata, ben tenuta, ogni cosa appare in fondamentale ordine, si snodano, i movimenti e i percorsi della gente, in silenziosa risolutezza, senza intralci né inceppi.
Così si snocciola anche il traffico, scorrevole seppure intenso.
E dire, che è radicalmente cambiato, al contrario, il popolo che anima questo capoluogo, passato dal cento per cento d’indigeni, o, a voler concedere, d’immigrati originari d’altre regioni italiane, in particolar modo del meridione, a un’alta aliquota di stranieri, provenienti da ogni dove, Asia, Africa, Sud America, Paesi dell’est europeo.
La prerogativa di detta evoluzione sul fronte della stanzialità è che si scorgono pochi casi di
“ospiti” vaganti inutilmente e/o proponendo alle persone incontrate risicate e inutili paccottiglia.
I “nuovi” sono integrati, almeno in ampia maggioranza, nei tessuti cittadini o del territorio, lavorano, e ciò vale come indubbio insegnamento pure per noi stessi italiani: i “posti”, per chi voglia darsi da fare, qualsivoglia sia la sua origine, ci sono, esistono.
Ad ogni passo, ci s’imbatte in esempi, non importa se piccoli basta che siano reali e concreti, che comprovano siffatta realtà.
Freschissime, personali esperienze, ho acquistato una bottiglia d’acqua minerale e della frutta presso un esercizio commerciale gestito da un giovane cinese.
A breve distanza, sono poi sfilato dinnanzi a ben due negozi con l’insegna “Sartoria su misura”, con, all’interno, intente a lavorare, altre figure della medesima nazionalità.
Analogamente, gestori asiatici in un bar per un cappuccino e un cornetto.
Infine, d’origine straniera, una parte del personale del ristorante dove ho consumato la cena, con la bella sorpresa aggiuntiva che, fra i gruppi d’avventori che andavano man mano accedendo, specie se giovani, si scorgevano non rari volti di ragazzi e ragazze giunti nel nostro Paese da terre una volta impensabili.
Ci vogliono ancora alcuni giorni perché arrivi San Martino, ma, in centro, fra vetrine predisposte sul tema e le prime grandi stelle argentee o dorate a penzolare sospese da un edificio all’altro, una, in particolare, pendente dalla facciata della sede municipale, già affiora e si respira aria natalizia.
Suona forse imprecisa la definizione di “ricca” per la città meta del mio viaggio, ma non v’è dubbio che il contesto si può definire “benestante”, senza paura di smentita, la vita, in altri termini, si dipana agevole e tranquilla, all’insegna della laboriosità e dell’impegno: del fenomeno “starsene con le mani in mano” non è dato di scorgere la minima traccia.
Innumerevoli e, talora, a brevissima distanza, le insegne luminose di banche e finanziarie, sia italiane che straniere, cui s’alternano sportelli o vetrine proponenti “money transfer”.
Fin qui, la descrizione d’insieme d’un viaggio e una visita di ritorno. Per completare il quadro, bisogna, ad ogni buon conto, aggiungere che, a monte della trasferta, si è posto, come molla determinante, il desiderio forte di recare un saluto fisico a un antico amico, compagno e sodale d’una lunga serie d’incontri, vacanze e ricorrenze, negli anni in cui, per entrambi, prevalevano la gioventù, l’iniziativa e il pieno vigore fisico.
Il distacco da lui s’è consumato circa un anno fa.
Adesso, finalmente, ho avuto agio di rivederlo e anche di rivolgergli un pensiero da vicino, in una piccola area ombreggiata da cipressi, nella verde periferia, posta sotto lo sguardo della corona di cime montane richiamata all’inizio delle presenti note.
Il Premio “Luigi Coppola – Città di Gallipoli” torna a Gallipoli dopo 11 anni. Quest’anno la manifestazione si inserisce nell’ambito del 3° Congresso Nazionale dell’Associazione Andrologi Italiani, società scientifica che raccoglie i maggiori esperti nazionali di scienze andrologiche e medicina di coppia. Temi quali sessualità, riproduzione, salute dell’uomo e della donna, insieme ad obiettivi quali formazione, divulgazione e prevenzione, rappresentano i cardini fondamentali attorno cui ruotano gli interessi scientifici e culturali di questa rampante Associazione.
IL TEMA DEL CONGRESSO – Quest’anno a Gallipoli, si parlerà di coppia con difficoltà d’integrazione a causa di ostacoli, talora congeniti altre volte acquisiti, che si frappongono nella dinamica di relazione. Barriere che grazie all’impegno multidisciplinare di professionisti al servizio della coppia possono essere opportunamente smussate o superate.
L’evento presenta carattere e rilevanza nazionale, con la presenza anche di ospiti internazionali, e si svolgerà dal 29 al 31 ottobre 2015 presso il Castello della Città di Gallipoli.
LA CERIMONIA INAUGURALE – Il pomeriggio del 29 ottobre sarà dedicato alla cerimonia inaugurale del Congresso, nell’ambito della quale si svolgerà anche la X edizione del “Premio Luigi Coppola – Città di Gallipoli”,
I Riconoscimenti di questa edizione:
PREMI ALLA CARRIERA
Prof. Maurizio Bossi, andrologo e sessuologo di Milano, giornalista, autore e divulgatore televisivo sui temi di sessuologia.
Prof. Luigi Cataldi, neonatologo e pediatra di Roma, di origini Gallipoline, fino al 2014 Professore di Pediatria all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e Direttore della Unità Operativa Complessa di Pediatria del Policlinico Gemelli di Roma.
Prof. Achille Ianniruberto, ginecologo, primario dell’Ospedale di Terlizzi fino al 1998, cui è riconosciuto il merito di aver introdotto per primo in Italia l’ecografia in campo ostetrico ginecologico, rivoluzionando la diagnostica prenatale.
Prof. Halim Kosova, ginecologo albanese, Direttore del reparto di Ostetricia dell’Ospedale di Tirana, Deputato del Parlamento albanese dal 2013 al 2015; Ministro della Sanità nel 2013, per il suo impegno nel rilancio di una ginecologia ed ostetricia moderna in Albania.
Prof.ssa Anna Rita Ravenna, psicologa e psicoterapeuta di Roma, con origini gallipoline, fondatrice e Direttrice dell’Istituto Gestalt di Firenze, per la sua attività pionieristica nel campo della psicoterapia sui temi dell’infertilità di coppia, dei disturbi dell’identità di genere e problematiche sociali di emarginazione.
PREMI PER LA RICERCA
Prof. Michele De Luca, Ordinario di Biochimica alla Università di Modena-Reggio Emilia, per le sue ricerche che lo hanno reso leader internazionale nel campo delle cellule staminali e alla loro applicazione clinica in Medicina Rigenerativa.
Prof. Atsumi Yoshida, ginecologo giapponese, Direttore del Reproduction Center Kiba Park Clinic di Tokyo, uno dei maggiori esperti mondiali di alterazioni biologiche da stress ossidativo sulle cellule riproduttive.
PREMI PER LA SOLIDARIETA
Cav. Francesco Diomede, Presidente della FINCOPP – Federazione Italiana Incontinenti e Disfunzioni del Pavimento Pelvico, Associazione nazionale di volontariato che si prefigge l’aggregazione ed il reinserimento sociale dei cinque milioni di cittadini incontinenti, di cui il 60% sono donne.
Avv. Vincenzo Falabella, Presidente della FISH – Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap, organizzazione ombrello cui aderiscono alcune tra le più rappresentative associazioni impegnate, a livello nazionale e locale, in politiche mirate all’inclusione sociale delle persone con differenti disabilità.
Sig.ra Anna Biallo, Vice Presidente Nazionale de L’ALTRA CICOGNA ONLUS, libera associazione per una maternità e paternità possibili, opera dal 1997 nell’ambito della Procreazione Medicalmente Assistita e dell’adozione fornendo supporto informativo e psicologico alle coppie che desiderano un figlio.
IL PREMIO “LUIGI COPPOLA”
La manifestazione è stata istituita nel 1997 dalla famiglia del Prof. Luigi Coppola, illustre ginecologo di Gallipoli, cui si deve nell’immediato dopoguerra (1946) la creazione della Divisione di Ostetricia e Ginecologia presso il vecchio Ospedale della città, la prima nella regione Puglia ed una delle prime realtà ostetrico-ginecologiche ospedaliere italiane. Tale opera contribuì a ridurre drasticamente l’altissimo tasso di mortalità e morbilità materna e fetale dovuta al parto domiciliare che, all’epoca, incideva negativamente sul buon esito delle nascite.
Si segnala l’edizione di Gallipoli del 2004, durante la quale venne premiato il Prof. Francesco Schittulli di Bari, chirurgo e politico italiano, Presidente Nazionale della Lega Italiana per la Lotta ai Tumori. Importante fu l’edizione di Lecce del 2007, inserita nell’ambito del Congresso Nazionale della Società Italiana della Riproduzione, dove venne premiato il Prof. Silvio Garattini di Milano, direttore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”. Indimenticabile l’edizione di Padova del 2008, svolta con con il Patrocinio della Regione Veneto e sotto l’egida congiunta delle Città di Padova e delle Città di Gallipoli. Per l’occasione il Magnifico Rettore dell’Università di Padova concesse l’Aula Magna “Galileo Galilei” che sorge nello storico Palazzo del Bo. In quell’occasione il premio fu assegnato al Nobel Rita Levi-Montalcini.
Il Premio “Luigi Coppola – Città di Gallipoli” oggi viene assegnato a Medici e Ricercatori italiani ed internazionali, nonché ad Associazioni, che si sono distinti nel campo della Medicina e della Biologia non solo dal punto di vista scientifico ma anche sociale ed antropologico. La manifestazione è stata sempre caratterizzata da un elevato contenuto scientifico e culturale. Le varie edizioni, negli anni, si sono svolte come iniziative singole o inserite nel contesto di importanti manifestazioni a livello locale o nazionale. Nel suo peregrinare lungo la penisola, da Gallipoli a Padova, il comitato scientifico ha conferito 26 Premi (tra Premi alla Carriera, per la Ricerca e per la Solidarietà).
Fu fondatore e presidente della Società Pugliese di Ostetricia e Ginecologiae fondatore della Società Italiana di Psicoprofilassi Ostetrica. Nel 1948, assieme ai professori Fortunato Montuoro ed Emilio Giudici, presso l’ordine dei Medici di Genova, partecipò alla costituzione dell’AssociazioneOstetrici Ginecologi Ospedalieri Italiani (AOGOI).
Nel 1976, al termine del suo trentennale mandato, la statistica operatoria dell’Ospedale di Gallipoli aveva raggiunto cifre da record per quegli anni. Sono documentati infatti circa 45.000 interventi di alta chirurgia ginecologica e oltre 3.000 tagli cesari. Quale riconoscimento per l’impegno profuso per la collettività, nel 1996, quando era ancora in vita, la ASL di Lecce e l’Amministrazione ospedaliera vollero intestargli l’attuale reparto di Ostetricia e Ginecologia del nuovo Ospedale di Gallipoli, di cui egli stesso pose la prima pietra nel 1971 e del quale partecipò alla progettazione secondo gli standard moderni.
Laureatosi a Napoli nel 1932, si specializzò all’Università di Roma sotto la guida dei Proff. Pestalozza e Gaifami. Dal 1940 fu Aiuto Universitario di ruolo presso la Scuola Ostetrica de L’Aquila, dipendente dall’Università di Roma. Nel 1946, tornato a Gallipoli, venne incaricato di organizzare e dirigere una Divisione di Ostetricia e Ginecologia presso il locale Ospedale. Qui riuscì a dedicarsi in modo pionieristico alla chirurgia oncologica femminile, alla prevenzione dei tumori e all’ostetricia; fu tra i primi ginecologi pugliesi a praticare il taglio cesareo.
L’acido oleanolico di olive e olio extra vergine di oliva contro il cancro al seno
L’Università di Jaen ha scoperto che l’acido oleanolico può inibire la proliferazione delle cellule tumorali nel seno, proteggendo le cellule epiteliali sane. Possibili anche effetti benefici su altre forme tumorali
L’Università di Jaen ha scoperto che l’acido oleanolico, presente nell’epidermide delle olive, può inibire la proliferazione delle cellule tumorali nel seno ma anche proteggere le cellule epiteliali sane.
L’acido oleanolico è presente nella buccia di diversi tipi di frutta ed era già stato ipotizzato un effetto benefico nei confronti di diversi tipi di cancro, ma ora è stata provata l’efficacia contro il cancro al seno.
Nella capitale baltica lituana, a Vilnius, nei primi cinque giorni di ottobre 2015, si è concluso un gemellaggio internazionale, iniziato nel maggio precedente, ad opera del Lions Club International, tra il Distretto pugliese 108 AB e il Vilniaus Lions moteru klubas, Lithuania. Una delegazione di 22 Soci Lions salentini, molti dei quali di Copertino, coordinati dal Governatore Alessandro Mastrorilli, ha restituito la visita al Club di Vilnius, presieduto da Ana Trescina. Hanno presenziato alla cerimonia ufficiale di gemellaggio anche S.E. Stefano Taliani de Marcio, ambasciatore italiano in Lituania e Linas Slusnys, governatore del Distretto 131.
Dopo un volo di 3800 km, a 54° di latitudine nord, un’ora in meno di fuso orario, Vilnius, Bene Unesco dal 1994, nota anche come Gerusalemme del Nord, ha accolto un gruppo di italiani, quasi tutti salentini, tra Chiese e Palazzi monumentali di storico pregio. Una capitale dal respiro europeo a giudicare dai gemellaggi civici tra Vilnius e Varsavia, Reykjavik, Palermo, Lodz, Danzica, Tirana, e Donetsk.
A margine della cerimonia avvenuta in un albergo cittadino, l’ambasciatore italiano sottolinea l’amicizia tra i due popoli, l’Italia e la Lituania, rimarcata di recente, tra l’altro, dalla presenza dell’Aeronautica Militare Italiana in esercitazione congiunta con gli Eurofighter, del Made in Italy tanto apprezzato, della dieta mediterranea e dei suoi vini, dell’amore per l’arte e la cultura. Nel commiato di saluto egli ricorda di avere conosciuto la città di Maglie, città di Aldo Moro, raggiunta nientemeno in littorina della Sud-Est. Al governatore Lions lituano, Slusnys, piace sottolineare con quanto fervore, quasi da stadio, gli Italiani cantano l’inno nazionale “Fratelli d’Italia”. E con scottante rimpianto brucia ancora la recente sconfitta della nazionale lituana di basket (il vero sport nazionale di cui tanto in Lituania si va orgogliosi), contro quella italiana, giunta a sbancare in un ambito sacro alla loro tradizione sportiva e, aiutati come sono dal fattore genetico dell’altezza media tra i giovani. Una Socia del Vilniaus Klubas, al mio saluto, in maniera quasi fulminea, controlla il dizionario e riesce a rispondermi in italiano. Un’altra Socia, accompagnata dal marito, lui salentino, affermano di occuparsi di tradizioni popolari e parlano di musica della “pizzica”. Il più famoso Disco Pub della città, denominato “Salento”, è stato fondato da due giovani salentini, presenti in terra lituana da ben dodici anni. Un centro ricreativo e culturale, frequentatissimo, arcinoto tra i giovani frequentatori.
A Vilnius, dunque, l’Italia è proprio di casa, per il suo appeal esercitato nel mondo in ambito storico e culturale, per il fascino del made in Italy (non escluso il noto marchio automobilistico della Ferrari, primo nel mondo), per la vocazione all’accoglienza, per il sole e il mare, per l’eccellenza di scienziati in ogni campo del sapere e dell’economia. In questa città, Vilnius, arcinota per le creazioni e la produzione di ambra, che brulica nella Via Pilies di negozi e bancarelle di venditori, sostano solo auto di grossa cilindrata (Bmw, Mercedes, Audi, ecc.): una Rolls Royce russa, targata Moscow, è visibilmente guardata a vista dall’autista. Mosca del resto è soltanto a 380 km. Ma la capitale più vicina è però Minsk (Bielorussia). Anche in queste terre si accenna nelle conversazioni all’accoglienza, ma non si vedono in giro ragazzi di colore neanche a cercarli col lanternino. Niente scene di accattonaggio davanti ai supermercati, come in ogni Paese d’Europa. I lituani sono troppo fieri della loro indipendenza, ottenuta soltanto nel 1990, usciti da un ottantennio di occupazione sovietica. E le quote di ricollocamento dei migranti, allora? Ora il loro Paese è nel consesso degli Stati dell’Unione Europea. Sono anche molto religiosi e lo testimoniano i tanti templi cattolici, dal carattere barocco e neoclassico, a cominciare dalla Cattedrale di Vilnius. Davanti alla caratteristica Torre della piazza ogni giovane coppia si sottopone al rito portafortuna di un volteggio su una mattonella con la testa al cielo: lì dove si annusa la frizzante aria del Baltico e quella del profumo, di recente adozione, della moneta del dio euro.
I cittadini delle provincie di Lecce, Brindisi e Taranto
in coordinamento permanente per la difesa degli ulivi rivolgono un
Appello accorato a tutti i Consiglieri regionali per una forte levata di scudi a difesa degli ulivi del Salento.
Si sospenda immediatamente la mattanza inutile degli espianti, si azzerino le sanzioni vessatorie e ingiuste a danno dei cittadini del Salento
e si prenda le responsabilità a non indurre migliaia di cittadini e famiglie sul baratro del fallimento economico creando il peggior dissesto sociale della storia e di tutti i tempi.
Urge un radicale cambio di rotta nel verso della cura del disseccamento e l’impegno per istituire sin da subito una commissione d’inchiesta interna alla Regione che affianchi la Magistratura per far luce sulle reali e gravissime inadempienze e omissioni e ristabilire il vero e pieno lume Scientifico e della Ragione ad oggi del tutto perso.
A tutti i Consiglieri della Regione Puglia
All’indomani della pubblicazione del nuovo assurdo piano d’intervento, e alla luce delle eradicazioni in queste ore in atto, tramite il quale si vorrebbe portare all’eradicazione di migliaia di ulivi si rivolge un accorato appello a tutti i consiglieri regionali per una immediata e decisa levata di scudi istituzionale: il consiglio regionale della Puglia discuta e prenda una ferma decisione nel verso della urgente e salvifica sospensione sine die degli espianti e delle immorali sanzioni entrambi previsti dal Piano Silletti bis e assuma responsabilmente la funzione, di difesa dei cittadini e dei loro lesi interessi economici e dei territori, del patrimonio arboreo, biologico e naturale in essi contenuti fermando la folle mattanza di ulivi del Salento.
Si invitano tutti i consiglieri regionali, ed in particolare i consiglieri salentini,a farsi promotori per l’urgente inserimento, nell’ordine del giorno del Consiglio regionale in calendario per martedì 13 ottobre, del punto di discussione sul Piano Silletti bis chiedendone l’immediata sospensiva, con lo stop agli inutili e drammatici espianti e al rischio di sanzioni che pendono rovinosamente sulla testa degli agricoltori che coscientemente si rifiutano di essere autori della mostruosa distruzione del Salento e di contro vogliono proseguire ad accudire i propri ulivi, nel rispetto dell’ambiente e della salute, con interventi e sperimentazioni che presentano quantomeno una riduzione dei sintomi. I contadini, l’olivicoltura il Salento tutto stanno subendo un incalcolabile danno d’immagine tradotto in ingentissimo danno economico situazione che si rischia ulteriormente di aggravare, a danno di decine di migliaia di cittadini e famiglie che stanno subendo da mesi e in queste ore il più macroscopico danno economico rappresentato dalla folle richiesta di espianto di piante vive e cariche di frutti, piante che rappresentano oltre a un immenso patrimonio affettivo e paesaggistico anche, talvolta, l’unica fonte di reddito e di sostentamento economico per decine e decine di famiglie e per le stesse comunità, un danno economico che senza dubbio affosserà le loro condizioni economiche, già messe a dura prova, creando uno scompenso sociale le cui ricadute sono indescrivibili; e di fronte al quale gli indennizzi sono una misera e ricattatrice offerta che offende e indigna.
Si rivolge un appello a tutti i consiglieri regionali perché sia istituita in Regione una commissione d’inchiesta non solo sugli aspetti scientifici, ma anche su tutti quegli aspetti burocratico-amministrativi che hanno permesso di giungere fino a questo punto con danni incommensurabili d’immagine a danno della regione Puglia tutta e i cui risultati siano posti a servizio delle indagini in corso da parte della Magistratura. I piani antixylella (ma non antidisseccamento) sono fondati sul riscontro di una esigua percentuale di piante sulle quali sarebbe stata riscontrato il batterio; ciò implica un riapprofondimento di tutta la vicenda al fine di individuare le carenze e gli interessi che sono alla base dello scandalo “Xylellagate” e che minaccia non solo il paesaggio ma l’economia dell’intero Salento.
Sia lanciata anche una forte richiesta da parte dei consiglieri all’Unione Europea affinché oltre alle indagini scientifiche effettuate da EFSA, l’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare, sia anche dato pieno mandato a Europol l’Agenzia di Polizia Europea perché sviluppi indagini parallele a quelle della magistratura italiana sulla discutibile gestione dell’intera vicenda.
Chiediamo un’inversione di rotta da parte della Regione Puglia che si articoli nei seguenti interventi, assunti dai sigg. consiglieri regionali:
– impugnazione del Piano Silletti, soprattutto per quanto concerne l’eradicazione degli ulivi e l’uso di agrochimica di veleni e biocidi rivolti contro la flora e la fauna selvatica e rurale;
– immediata moratoria degli espianti, soprattutto in assenza di debita e circostanziata certificazione; i proprietari sono stati vittima di un aut-aut senza scampo; inoltre essi hanno il diritto di raccogliere i frutti particolarmente abbondanti.
– La drastica potatura, suggerita da diversi studiosi, con ulteriori interventi profilattici, sostituisca l’espianto, già rilevatosi inutile.
– Si presenti ricorso presso la Corte di Giustizia dell’Unione Europea avverso la Decisione che ignora totalmente le indicazioni normative della FAO: “L’opzione di non dar seguito, o di prendere un approccio di gestione dei parassiti, dovrebbe essere considerata così come le opzioni di eradicazione.” (The option to take no action, or to take a pest management approach, should be considered as well as eradication options.) – (International standards for phytosanitary measures ISPM No. 9 Guidelines for pest eradication programmes – 1998 – FAO 2006 –
– la calendarizzazione a brevissimo di un Consiglio regionale monotematico da svolgersi nel Salento, preceduto da un incontro pubblico;
– la realizzazione di una cabina di regia che coordini, metta in relazione e promuova le sperimentazioni e le ricerche scientifiche sul territorio, dalla quale siano esclusi tutti gli organi accademici, scientifici, professionali e istituzionali regionali e nazionali come anche le università italiane e americane che hanno gestito fino a oggi in un regime di vero monopolio la vicenda xylella che ha interessato la nostra regione con le nefaste conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti di quello che è divenuto uno scandalo internazionale sotto la lente della magistratura italiana ed europea;
– l’apertura vera della ricerca a 360° con il coinvolgimento immediato di altri enti di ricerca nazionali e internazionali;
– la realizzazione di un convegno internazionale con la partecipazione di figure scientifiche multisettoriali e di esperti impegnati in strategie fitoterapeutiche contro il disseccamento degli ulivi al fine di appurare le vere cause della sintomatologia tenendo conto anche i precedenti storici che hanno manifestato disseccamenti analoghi nel ‘700, ‘800, ‘900 che come ogni epidemia raggiunta una fase massima intensità, il fenomeno è regredito con un ritorno vegetativo e produttivo degli alberi e questo in quelle epoche in cui la scienza agronomica non era avanzata come ai nostri giorni e quindi con la semplice utilizzazione di efficaci metodi agricoli tradizionali rivolti alla cura della pianta e dell’habitat ecologico;
– la tutela del territorio attraverso la revisione della legge a tutela massima degli ulivi, Legge Regionale 4 giugno 2007, n. 14, contro gli interventi più recenti di suo emendamento che riducevano l’azione di tutela e salvaguardia del patrimonio arboreo e svuotando nei fatti l’importanza protezionistica della medesima;
– la richiesta di cancellazione dalla lista dei patogeni da quarantena del batterio “xylella”, sia sulla attuale assenza di prove certe e scientifiche sulla sua funzione sintomatologica e patogenica verso le piante e, a detta degli studiosi, della sua ineradicabilità quando insediata da tempo e in vasti territori (dal 2008 nel Salento); da qui la necessità di conviverci ; ad oggi la diagnosi è per la maggior parte “indiretta” trattandosi di esami sierologici al PCR nei quali vengono rilevati soltanto piccoli frammenti di DNA, che quindi necessitano di plurimi riscontri, anche per l’incidenza probabile di falsi positivi .
Invitiamo tutti i consiglieri regionali a porsi, come loro dovere, al fianco dei cittadini che resistono contro questo inaudito attacco al territorio e al suo patrimonio più intimo e prezioso, gli alberi d’ulivo e il patrimonio biologico tutto, e attivarsi a ogni livello istituzionale assumendosi la piena e doverosissima responsabilità per la salvezza del Salento e del patrimonio in esso contenuto poiché di questa folle strategia a danno della Puglia a giudicare non saranno solo i cittadini ma la Storia tutta!
Da tempo “Perla” fulgida e splendente, nella collana di meraviglie di cui sono adornati i tratti costieri e i territori in genere della Penisola Salentina, la minuscola e però eccezionale e unica Castrum Minervae s’accinge ad arricchire i suoi innumerevoli pregi e motivi d’attrazione e richiamo, basati su distese di mare cristallino, vicende storiche insigni, vestigia antiche come le Mura messapiche, i resti del tempio di Minerva, una parte del busto di una statua di detta divinità riportata alla luce giusto nei mesi scorsi e l’imponente e maestoso Castello Aragonese, mediante un rinnovato fasto, attraverso l’avvincente mondo della celluloide, dei tanti miti, d’impronta epica e/o popolare, che le aleggiano intorno.
Infatti, dopo un lungo e impegnativo percorso di studi e ricerche, allestimenti e riprese, è stato completato un lavoro cinematografico, un’opera giunta a compimento grazie all’impegno e all’abnegazione di un cittadino di Castro, Giuseppe Fersini, il quale non è propriamente uno del ramo o, in qualche modo, addetto ai lavori, svolgendo, nella vita, attività di tutt’altro genere.
Così, il prossimo 18 ottobre, nella sala – auditorium comunale di Via di mezzo, sarà presentato in anteprima il film “La leggenda di Castro – In Terra d’Otranto.
Mentre, il successivo 1° novembre, la pellicola sarà proposta in prima visione al cinema d’essai “Don Bosco” di Lecce
L’ingresso della villa Scrasceta è a pianta mistilinea[1] e un recente cancello a doppia anta in ferro battuto, fissato a corpose colonne in tufo[2], isola la dimora dalla pubblica via. Il portale è caratterizzato “dai notevoli effetti chiaroscurali prodotti sia dalla aggettante cornice, sovrastante da piccole lesene che sorreggono corpose basi toriche, quasi sfiancata dalla convessa piramide calcarea, sostenenti una sfera”[3].
Alcune stanze poste a sinistra dell’ingresso rimandano ad una modesta dimora per la servitù e ad una probabile rimessa per gli animali.
All’edificio principale si accede tramite un viale di una cinquantina di metri che giunge di fronte all’ingresso. Era questo fiancheggiato da busti in carparo, dapprima rimossi dai rispettivi basamenti, poi asportati da ignoti circa 30 anni fa[4]. Dovevano essere almeno otto per lato, intervallati da identici blocchi quadrangolari della medesima pietra. Così scrive a riguardo E. Mazzarella: “…Menava all’abitazione del proprietario un famoso viale con circa, ogni cinque metri, curiose statue in tufo di uomini a metà busto in atteggiamenti buffi: un portabandiera, suonatori di strumenti musicali: trombone, chitarra, mandolino, tamburo, clarinetto; altri con una botte sulle spalle, con un fucile a tracolla, con una fetta di mellone in mano, con un uccello svolazzante nella mano elevata, con un bicchiere in una mano e un orciuolo nell’altra, con una ruota tra le mani davanti al petto, in vari modi ancora. Le statue attirarono la curiosità di moltissima gente e furono dette volgarmente li pupi ti lu Scrasceta”[5].
La corruzione e l’usura della pietra non hanno purtroppo concesso di riconoscere le fattezze delle insolite figure e gli strumenti da essi tenuti tra le mani. Dalle poche foto di archivio sopravvissute[6] sembra trattarsi di figure maschili orientali, a causa dei copricapi che nella maggior parte dei casi richiamano i kefiah arabi, ricadenti sulla nuca e sulle spalle. Altrettanto arduo è poter riconoscere gli strumenti musicali a corda che alcuni di essi sembrano suonare: due di essi paiono liuti arabi (ud), con la cassa armonica a mandorla, un breve manico con la paletta terminale ricurva ad angolo retto, a quattro o cinque corde[7]; un terzo sembra suonare una sorta di oboe a forma di cono (mizmar degli arabi). Più arduo è il riconoscimento dello strumento che tiene in mano la figura con le sembianze di un cinese.
La descrizione del caratteristico prospetto principale della nostra villa è ben riportata nella citata Relazione della Soprintendenza[8]: “… Il prospetto principale che presenta un compatto paramento, a conci di pietra locale perfettamente squadrata, è sfondato al centro da profondi effetti d’ ombra che scaturiscono dalla presenza di profondi archi sovrapposti impaginati da appena accennati riquadri smussati agli angoli. A piano terra un’ arcata a sesto ribassato, dalle accentuate modanature che si avvolgono, al di sotto delle reni, in ricche volute a fogliame smosso, producenti un piacevole effetto di instabilità statica evidenziato dalla corposa trabeazione d’ imposta sostenuta, quasi a fatica, da mensole a voluta, definisce un androne rialzato dalla quasi evanescente cortina muraria in cui i vuoti delle aperture vengono rafforzati dalle cornici mistilinee”[9].
Nello stesso androne, in corrispondenza dell’unica porta, trova posto uno scudo, sagomato secondo il gusto settecentesco, su cui doveva essere dipinto lo stemma della famiglia, sormontato da una corona con fioroni. Le ridipinture rendono assai difficile la lettura dell’elemento araldico con i due guerrieri in lotta, tipici della nobile famiglia[10]. Sembrerebbe che a seguito della scomparsa del dipinto si sia rimediato con l’applicazione di una piccola formella scolpita con l’arme, di forma rettangolare e stridente con la bellezza dello scudo, assai più ampio.
Uno degli elementi di maggiore caratterizzazione del prospetto dell’edificio è senz’altro rappresentato dall’arco mistilineo del piano nobile con la sua imponente e raffinata balaustra, che permetteva di godere della proprietà circostante. “Sostenuta da tozze mensole e ritmata dal succedersi di volute e balaustrini scolpiti a puttini”[11], conferiva particolare eleganza all’edificio, travalicando gli aspetti prettamente funzionali del sito aziendale. Certo l’insolita iconografia, con i putti che sorreggono serti di alloro o fiori, per niente richiama al contesto agreste o bucolico in cui sorge la villa, per cui non è vano ipotizzare la provenienza di quella balaustra da altri contesti. Senza trascurare la fattura, il cui stile sembra distante da quello in auge nel Settecento, richiamando invece a sculture tardo-cinquecentesche ben note in città.
In due riprese, a distanza di pochi mesi, una trentina di anni fa la balaustra fu comunque trafugata da fini intenditori, senza che nessuno abbia mai saputo l’infelice destinazione.
Stessa triste sorte è toccata alla bellissima Immacolata lapidea, “una statua devozionale di notevole fattura”[12], che trovava collocazione in una nicchia della loggia al piano nobile, questa ancora visibile, con elegante cornice modanata che mostra nella parte superiore tre teste di cherubini ed una sontuosa corona che sovrasta il tutto. Oggi restano solo delle foto d’archivio a testimoniare la bellezza dell’edificio, la cui devastazione illustra fin dove arriva l’incuria e la sfrontatezza.
Le cornici mistilinee in stucco, secondo il gusto dell’epoca, applicate attorno allo stemma, alla porta e alle due finestre del pianterreno sono riprese in maniera omogenea anche nelle porte interne del vano centrale. Quest’ultimo, a pianta rettangolare, immette in quattro ambienti circostanti e sul giardino, come ha rilevato di recente F. Fiorito[13]. Tutte le coperture dei nove vani sono coperti a volta leccese, ad eccezione del vano adibito a cucina, un tempo coperto ad incannucciata e coppi, oggi in pessimo stato. Non è dato di sapere se nell’interno vi fossero volte e pareti affrescate o dipinte, come invece avvenne per la menzionata masseria Brusca[14]. Tutti i pavimenti interni sono di cocciopesto[15] e lastricato.
Altro elemento caratterizzante della nostra residenza è senz’altro il pozzo monumentale retrostante[16], che può ritenersi un’opera scultorea a sé e che conferma la condizione agiata e il buon gusto nel commissionare la singolare scultura, che resta tra i più importanti esempi di tal genere su tutto il territorio. Purtroppo anche in questo caso non abbiamo indicazioni circa l’autore, mentre è noto l’anno di costruzione, 1746, come si rileva dall’epigrafi inferiore della vera[17].
La presenza dell’impegnativo manufatto in carparo e pietra leccese, anche perché imponente nelle dimensioni, rende convenientemente dignitoso tutto il retro della villa, lasciando supporre che fosse stato realizzato in quel posto per una precisa esigenza scenografica e non solo funzionale o di arredo, a completamento del cortile e del giardino.
F. Suppressa, nel trattare dei vari sistemi di raccolta dell’elemento vitale per l’agricoltura, lo definisce a buon motivo “straordinario esempio… inserito prospettivamente nel complesso architettonico sorto attorno alla fine del Settecento per il piacere di vivere in campagna”[18]. Lo stesso, nel riprendere E. Mazzarella[19], si sofferma sulle epigrafi: “…nel timpano sorretto da possenti colonne e avvolto da sinuose decorazioni floreali, vi è incastonata un’emblematica epigrafe in latino:
NYMPHARUM LOCUS
SITIENS BIBE
LYNPHA SALUBRIS – UBERIBUS
PULCHRAE NAIADIS
ECCE FLUIT.
Ovvero “Questo è il luogo delle Ninfe, o sitibondo, bevi. Ecco qui scorre l’acqua chiara salutifera dai seni della bella Naiade”… Al di sotto della conchiglia vi è l’epigrafe PRAESENS FONS PERENNIS INCEPTUS FUIT DIE VII MARTII DCCXXXXVI (la presente fonte sorgiva fu incerta (fino al) 7 marzo 1746) e dall’altro lato, sempre al di sotto della conchiglia, AEMANAVIT AQUA DIE XVI AUGUSTI MDCCXXXXVI (Emanò l’acqua il giorno 16 agosto 1746)”[20].
G. De Pascalis ritiene il pozzo “collocato nel retroprospetto in posizione perfettamente assiale con le aperture del piano terra e con l’asse di riferimento dei viali”[21].
Certamente la sua realizzazione comportò una riqualificazione della parte retrostante dell’edificio, nel cui piccolo giardino con pergolati ed agrumi, sottoposto rispetto al cortile, sono ancora visibili tre edicole ed un pozzo di servizio.
Dunque tanti elementi architettonici ed artistici che hanno saputo coniugare l’arte con la natura, superando la monotonia del paesaggio agricolo circostante, sino a farle assumere una propria identità culturale, purtroppo oggi solo trasmissibile e parzialmente visibile.
[1] Cfr. S. Politano, Portali e recinti di ville nelle campagne salentine, in Paesaggi e sistemi di ville nel Salento, op. cit., pagg. 262-273; U. Gelli, Portali, pozzi, cisterne: esperienze di rilievo architettonico, ivi, pagg. 274-285.
[2] Su questa pietra, sul carparo e la pietra leccese, con cui sono realizzate le diverse parti della villa, la bibliografia è sterminata. Si vedano almeno: G. Marciano, Descrizione, origini e successi della provincia d’Otranto, Stamperia dell’Iride, Napoli 1855; P. Cavoti, Il carparo e la pietra leccese nelle rocce salentine, Lecce 1884; C. De Giorgi, Note e ricerche sui materiali edilizi adoperati nella Provincia di Lecce, Lecce 1901, ristampa anastatica, Galatina 1981; V. G. Colaianni, Le volte leccesi, Bari 1967; F. Zezza, Le pietre da costruzione e ornamentali della Puglia. Caratteristiche sedimentologico-petrografiche, proprietà fisico-meccaniche e problemi geologico-tecnici relativi all’attività estrattiva, in «Rassegna tecnica pugliese – Continuità», anno VIII, N. 3-4, Luglio-Dicembre 1974, Bari 1974; Id., La pietra leccese, in AA.VV., La Puglia tra Barocco e Rococò, Milano 1982, pagg. 155-160; M. Stella (a cura di), Le pietre da costruzione di Puglia: il tufo calcareo e la pietra leccese, Bari 1991; M. Mainardi, L’industria del cavar pietra. Le cave nel Salento, Lecce 1998; Id., Cave e Cavamonti. Documenti per una storia sociale del lavoro della pietra nella Puglia meridionale (1810/1965), Lecce 1999; D. G. De Pascalis, L’arte di fabbricare e i fabbricatori. Tecniche costruttive tradizionali e Magistri muratori in Terra d’Otranto dal Medioevo all’Età Moderna, Nardò 2002.
[3] Relazione della Soprintendenza, op.cit..
[4] A tal proposito si rimanda alla denuncia fatta dal circolo culturale “Nardò Nostra”, allora presieduta da chi scrive, che nel numero 7-8 (1985) del periodico locale “La voce di Nardò” chiedeva l’immediato ripristino in loco delle statue deposte dai basamenti, staccate per essere sostituite con vasi in cemento. Poco prima lo stesso giornale aveva denunciato la scomparsa di metà della balaustra.
[5] E. Mazzarella, Nardò Sacra, op.cit., pagg. 397-400.
[6] Doveroso rimandare ancora una volta al ricco corredo fotografico di Michele Onorato nel citato volume Città e monastero. I segni urbani di Nardò, figg. 193-205. Il fotografo, consapevole dell’importanza del luogo e quasi presagendo il triste destino che sarebbe toccato all’immobile, ha fotografato e fatto pubblicare il suo reportage, che resta fondamentale per la memoria visiva della nostra villa.
[7] “Nel IX secolo il giurista di Baghdad “ Miwardi ” utilizzava l’oud nel trattamento delle malattie, questa idea prese piede e perdurò fino al secolo XIX , l’oud vivifica il corpo, proprio perché agisce sugli umori corporali, rimettendoli in equilibrio. È considerato terapeutico, nella sua capacità di rinvigorire e dar riposo al cuore, veniva tradizionalmente suonato anche nei campi di battaglia” (http://www.etnoarabmusic.com/2011/03/08/oud-il-sultano-degli-strumenti-arabi/).
[8] Inviata dalla Soprintendenza di Bari al Ministero per i Beni Culturali il 17 febbraio 1981 (prot. 1478), a firma del Soprintendente Arch. Riccardo Mola, per essere sottoposta a tutela ai sensi della Legge n°1089 del 1/6/1939. Il vincolo per il bene fu rilasciato con D.M. del 12/6/1981.
[9] Relazione della Soprintendenza, op. cit.
[10] L’arme della famiglia è: spaccato di azzurro e di verde, e sul tutto due atleti di oro ignudi, in atto di lottare, accompagnati nel capo da una testa di mercurio del medesimo, con ali di argento e coperto da un berretto di nero.
Il motto: et pace et bello (sia in pace e sia in guerra) (M. Gaballo, Araldica civile e religiosa a Nardò, Nardò Nostra, Nardò 1996).
[11] Relazione della Soprintendenza, op. cit.
[12] Idem.
[13] F. Fiorito – M. V. Mastrangelo, Villa Scrasceta a Nardò, una pregevole testimonianza di architettura tardo-barocca e di dimora signorile, in “Spicilegia Sallentina”, Rivista del Caffè Letterario di Nardò, n°7.
[14] In questa sopravvive un discreto dipinto settecentesco sulla volta raffigurante La morte di Adone, sul quale ho avuto modo di descrivere come “ il taglio orizzontale e ristretto del dipinto consente al pittore di portare in primissimo piano i protagonisti dell’episodio: Adone giace inerme, con la testa riversa, fra le braccia di una addolorata Venere. Altrettanto disperati Cupido e i due amorini, che tentano invano di ferire il cinghiale, le cui sembianze erano state prese dal geloso Ares, che ha appena azzannato il giovane. Sullo sfondo un paesaggio arcadico da ricollegare al monte Idalio, nell’attuale Libano, su cui si era recato a cacciare Adone. Il mito ricorda che Zeus esaudirà le preci di Afrodite, consentendo che il giovine trascorra solo una parte dell’anno nel Tartaro, potendo risalire alla luce per il restante tempo e così unirsi alla dea della primavera e dell’amore” (M. Gaballo, Una villa-masseria in agro di Nardò. Note storiche e architettoniche sulla masseria Brusca…, op. cit.).
[15] “la pavimentazione con cocciopesto consisteva in un primo strato composto da tufo frantumato, tufina e calce, impastato con acqua, in un secondo strato di malta grezza e in un ultimo strato di cocciopesto. Il massetto veniva
quindi cosparso di calce liquida, battuto e lucidato con cazzuola e latte di capra” (S. Galante, Materia, forma e tecniche costruttive in Terra d’Otranto. Da esperienza locale a metodologia per la conservazione, tesi di Dottorato di ricerca in Conservazione dei Beni Architettonici – XVIII ciclo, Università di Napoli “Federico II”).
[16] Come scrive A. Polito, trattasi di una trozza, ad estrazione manuale, mediante secchio legato ad una fune, ma con l’ausilio di una carrucola; al lemma trozza il Rohlfs: “confronta il greco antico τροχαλία2=carrucola, τροχιά3=cerchio di ruota, latino volgare *tròchia”. Rispetto al pozzo la struttura è molto più complessa e talora con pregevolissimi esiti estetici, come testimonia, per esempio, la trozza di Villa Scrasceta a Nardò.
[17] Notevoli ci sembrano le analogie con alcune parti del bellissimo pozzo a due “vasche” ubicato nel giardino retrostante della citata villa in contrada La Riggia. La conchiglia sulla vera, le volute e gli elementi fitomorfi, la sommità dell’architrave, se non opera del medesimo autore del pozzo dello Scrasceta, possono far ritenere coeve le due singolari opere, che meritano ancora tanta attenzione da parte degli studiosi. Anche questo pozzo è stato fotografato da M. Onorato e pubblicato nel predetto volume Città e monastero. I segni urbani di Nardò (fig.211).
[19] E. Mazzarella, Nardò Sacra, op. cit., p. 399.
[20] Il pozzo è anche descritto da P. Congedo nel suo saggio Censimento di pozzi e cisterne del territorio neretino, in Paesaggi e sistemi di ville nel Salento, op. cit., pagg. 289-290.
[21] G. De Pascalis, Dai trattati alle tipologie del villino rirale: modelli e simbolismi dell’abitare nel paesaggio neritino, in Paesaggi e sistemi di ville nel Salento, op. cit., p.180.
Pubblicato su Nardò e i suoi. Studi in memoria di Totò Bonuso, Ed. Fondazione Terra d’Otranto, 2015.
Uno dei luoghi a cui sono più affezionati i neritini è quello noto come “Scrasceta”, che intere generazioni hanno portato stabilmente nell’animo per via di quei “pupi” regolarmente piazzati lungo il viale d’accesso e che potevano ritenersi come patrimonio della memoria collettiva. Un tesoro di cui i cittadini, a giusto motivo, potevano ritenersi gelosi e che mai avrebbero pensato potesse scomparire.
La villa, intesa come insieme di palazzo e giardini, è situata a circa tre chilometri da Nardò, lungo la strada vicinale Corano che collega il centro abitato alle marine di Torre Inserraglio e Sant’Isidoro, in quello che un tempo era detto feudo Imperiale, esente dal pagamento di decime feudali.
In posizione ideale rispetto alla viabilità, è rimasta libera dall’antropizzazione del territorio dell’ultimo cinquantennio, circondata da terreni agricoli ancora produttivi, poco distante dall’antichissima masseria di Curano.
Soggetta a vincolo con D.M. del 17/9/1981 ai sensi della L. 1089 del 1939, talvolta è stata erroneamente inserita tra le masserie del neritino, trattandosi piuttosto di dimora signorile a carattere stagionale. La Soprintendenza difatti l’ha tutelata “in quanto costituisce una pregevole testimonianza di architettura tardo-barocca e di dimora signorile legata all’ attività agricola e alle strutture socio-economiche dell’ area salentina nei secc. XVIII-XIX”[1].
Come ha scritto A. Polito, la più antica testimonianza del toponimo (in pheudo Scraiete) compare in un atto del 1376[2], la successiva (in feudo Strageti) in un atto del 1427[3], una terza (in loconominato la Scraseida) in una visita pastorale del 1460[4]. Lo studioso fa derivare il nome da scràscia (rovo) e la cui terminazione –èta rimanda al plurale del suffisso latino –ètum, designante insieme di piante e conservatosi nell’italiano –èto.
Impossibile individuare il nucleo originario dell’edificio, ma un rogito notarile del 1598 la attesta come proprietà del barone neritino Francesco Sambiasi, che in tale anno vende al barone leccese Lucantonio Personè un oliveto con mille alberi e una casa lamiata qui ubicati, per 170 ducati[5].
Nel 1610 il possedimento risulta accatastato tra i beni del nobile Ottavio Massa di Nardò[6]. Diciotto anni dopo, nel 1628, è divenuta proprietà del nobile Mariano de Nestore, che potrebbe aver apportato consistenti rifacimenti ed ampliamenti, a causa della maggiore quotazione del bene . L’edificio con tutti gli annessi nel documento risulta possedere una abitazione con cisterna all’interno, un orto con forno per il pane, un frutteto, due palmenti e due pile, oltre a 22 orte di vigneto delimitate da parete a secco (…cum domo lamiata cum cisterna intus… orticello cum furno intus et cum pomario diversorum arborum et cum una quantitate di quadrelli et cum duobus palmentis et duobus pilaccis intus…ortis viginti duobus vinearum incirca, cum diversis arboribus intus insepalata circumcirca parietibus lapideis…)[7].
La tenuta, a causa dei debiti del de Nestore, viene venduta nel 1624 all’abate Marcello Massa, tutore degli eredi di suo fratello Girolamo, deceduto nel 1622, per ben 1500 ducati[8], contro i 170 certificati nel documento precedente che lo assegnava al Personè.
Per quasi un secolo i documenti finora rinvenuti tacciono sugli eventuali passaggi di proprietà e solo nel 1722 lo Scrasceta viene donato da uno dei personaggi più in vista nella città, il barone Diego Personè (1681-1743), a suo figlio Lucantonio, barone di Ogliastro, generato con Raimondina Alfarano Capece. Nell’importante atto notarile, oltre al vigneto circostante, per la prima volta si fa esplicito riferimento ad una domo lamiata et eius palatio et palmentis duabus intus eum[9]. E’ facile pensare che sia stata questa facoltosa famiglia dunque, tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, al culmine della floridezza economica, ad ampliare e a dare un nuovo assetto alla costruzione, visto che per la prima volta si fa riferimento alla realizzazione del “palacium”, annesso alla preesistente “domus lamiata”. Dunque non più una costruzione legata all’attività produttiva, ma una nuova dimora, resa agevole con opportuni miglioramenti per consentire ai proprietari di soggiornarvi in determinati periodi dell’anno.
La ristrutturazione e i possibili ampliamenti, oltre a voler dimostrare lo status dei proprietari grazie alle raffinate architetture apportate in una modesta “casina” di campagna, tengono perciò conto della praticità e funzionalità produttiva del luogo, ma puntano anche all’abbellimento della stessa.
Nel clima arcadico di questi primi decenni del secolo la villeggiatura anche a Nardò diventa un piacere per l’ambiente naturale e per l’architettura di ville e giardini, lontani dagli usi noiosi del vivere cittadino[10], magari partecipando alla raccolta dell’uva e osservando i lavori dei “furisi” e delle loro donne, passeggiando nel giardino o sul viale e trovando ristoro con la fresca acqua attinta dal pozzo. La stessa presenza dei bizzarri busti lungo il viale porta ad ipotizzare la natura “di svago” della bucolica residenza, per segreti piaceri che i palazzi cittadini non consentono. In fondo era quello che stava accadendo in altri comuni di Terra d’Otranto, ma anche nelle poco distanti Villa La Riggia[11], Villa Taverna e masseria Brusca, dove il nobile medico Francesco Maria Zuccaro ampliava e abbelliva il giardino annesso al complesso masserizio, dotandolo di statue di ispirazione mitologica[12] e di fontana ornamentale, facendo scolpire profili clipeati e lo stemma familiare sul portale[13].
Tornando alle vicende patrimoniali della nostra villa, un altro rogito del 1744 conferma la proprietà a Lucantonio Personè (1704-1749), figlio del predetto Diego, coniugato con Lucrezia Scaglione, il quale in tale anno cede il tutto a suo fratello Francesco, avendone in cambio la masseria del Pugnale seu dello Scaglione, in feudo di Anfiano[14], che aveva avuto in eredità da sua madre Raimondina Alfarano Capece[15].
Questa cessione potrebbe far pensare che Lucantonio sia stato uno dei committenti della ristrutturazione, purtroppo non terminata, come rivela l’incompletezza della costruzione nella parte sinistra, come ancora si osserva. Lo stesso avrebbe però ultimato nel 1766 la cappella dedicata all’Immacolata Concezione, innestata sull’angolo destro della facciata[16], grazie all’intervento dei mastri copertinesi Ignazio Verdesca[17] e Adriano Preite[18], come riporta M. Cazzato[19].
Francesco, dopo aver acquisito la proprietà dello Scrasceta, decide di ampliare la proprietà e acquista nel 1749 altre orte quattordici e quarantali undici di vigneticontigui, con una casa a volta e due palmenti per spremere uva dentro, dal sacerdote Saverio Giaccari[20]. L’acquisto, pattuito per ducati 338 e grana 75, avviene con atto del notaio Felice Massa di Nardò, “per essere contigue ad altre del medesimo”.
Gli atti notarili di questo periodo se annotano i passaggi di proprietà purtroppo non forniscono dati utili per risalire alla ricostruzione delle parti. Nulla vieta però che parte dei lavori di ammodernamento siano stati fatti eseguire dal facoltosissimo Giuseppe, che risulta tenutario dell’immobile e dell’estensione dei vigneti nel 1773[21], come conferma un rogito dell’anno dopo[22].
Nel 1809 la dimora risulta del fratello di Giuseppe, Michele Personè[23], che lo aveva avuto in dono come da testamento del primo rogato il 31 maggio 1786[24].
Michele detiene ancora la proprietà nel 1821[25], prima di trasmetterla a suo figlio Diego che ne risulterà tenutario in un documento dell’anno successivo[26].
Diego Personè poi la vende al fratello Giuseppe, che la trasmetterà al figlio Luigi Maria (1830-1898), detto lo zoppo, da cui al figlio Giuseppe. Questi la trasmette infine a Luigi Maria (1902-2004), detto penna d’oro, che la vende a Pantaleo Fonte, i cui figli ancora la posseggono.
[1] Relazione inviata dalla Soprintendenza di Bari al Ministero per i Beni Culturali il 17 febbraio 1981 (prot. 1478), a firma del Soprintendente Arch. Riccardo Mola, per essere sottoposta a tutela ai sensi della Legge n°1089 del 1/6/1939. Il vincolo per il bene fu rilasciato con D.M. del 12/6/1981. La dimora è ubicata in catasto al Fg. 83, p.lle 84-87.
[2] A. Frascadore, Le pergamene del Monastero di Santa Chiara di Nardò1292-1508, Società di storia patria per la Puglia, Bari 1981, pag. 48.
[3] Ibidem, pag. 84.
[4] C. G. Centonze-A. De Lorenzis-N. Caputo, Visite pastorali in diocesi di Nardò (1452-1501), Galatina 1988, pag. 168.
[5] Archivio di Stato di Lecce (d’ora in avanti A.S.L.), atti notaio Francesco Fontò di Nardò (66/1) anno 1598, cc.171r-173v.
[6] A.S.L., atti notaio Francesco Zaminga di Nardò (66/8) anno 1610, c.18r.
[7] A.S.L., atti notaio Santoro Tollemeto di Nardò (66/6) anno 1628, cc.63r-69v.
[8] Idem, c.69v.
[9] A.S.L., atti notaio Donato De Cupertinis di Nardò (66/13) anno 1722, c.67.
[10] Sul fenomeno del vivere in villa e sulla villeggiatura v. A. Costantini, Del piacere di vivere in campagna. Guida alle ville del Salento, in Guida alle ville del Salento, Galatina 1996, pagg. 9 e segg.; Civitas Neritonensis. La storia di Nardò di Emanuele Pignatelli ed altri contributi, a c. di M. Gaballo, Martina Franca 2001, pagg.216-217.
[11] Sul portale di questa villa si intravedono due figure che rimandano ai busti dello Scrasceta. Anche in questo caso l’usura e la carie della pietra impediscono una lettura definita che possa far pensare alla stessa bottega. Si vedano le figg. 207-210, di Michele Onorato, nel volume Città e monastero. I segni urbani di Nardò (secc. XI-XV) a c. di B. Vetere (Galatina 1986).. Questo richiamo lo devo all’amico Paolo Giuri, che ringrazio.
[12] Particolarmente bella ed insolita per il territorio è la collezione qui presente di statue dei Continenti: Asia, Africa, Europa e America, con sembianze femminili, disposte alle spalle dei sedili semicircolari in pietra e interposte tra altrettante coppie di statue (Pomona e Vertumno, Diana e Silvano, Cerere e Bacco, Flora e Fauno). Anche qui dunque una scenografica, quasi teatrale, disposizione di statue (M. Gaballo, Una villa-masseria in agro di Nardò. Note storiche e architettoniche sulla masseria Brusca, in “Spicilegia Sallentina”, Rivista del Caffè Letterario di Nardò, n° 6).
[13] Idem.
[14] Il feudo di Anfiano è nel territorio di Cannole, confinante con quelli di Torcito e Palanzano. La masseria citata è ancora esistente, anche se ne sopravvivono i soli muri perimetrali. Dai Personè di Cannole passò ai Granafei, quindi ai Salzedo, che la ebbero sino al XIX secolo. Ringrazio l’amico Cristaino Villani per le informazioni.
[15] A.S.L., atti notaio Angelo Tommaso Maccagnano di Nardò (66/14) anno 1744, c.92v.
[16] Nella citata relazione della Soprintendenza così è descritta: “delimitata dalle ombre appena accennate della cornice, lievemente modanata, e dallo spigolo, a semicolonna incassata, ha la facciata caratterizzata dal vuoto dell’ occhialone policentrico sovrastante un semplice portale, inserito in una apertura mistilinea tompagnata, che immette in un vano coperto a volta leccese in cui si nota la presenza di un altare di dignitosa fattura”.
Mazzarella scrive che in essa vi era una tela raffigurante “la Vergine in piedi col Bambino Gesù in braccio in atto di calpestare la mezza luna ed il serpente, tra larga e pregevole cornice”, con campanile, campana e “suppellettili ottime” (E. Mazzarella, Nardò Sacra, a cura di M. Gaballo, Galatina 1999, pagg. 397-400).
[17]. Originari di Copertino, si hanno notizie dei fratelli capimastro Angelantonio (Copertino 1740 ca. – notizie sino al 1806) e Ignazio.(notizie dal 1776 al 1794 ca)., Cfr. M. Cazzato, Oltre la porta, Copertino 1997, p.19; S. Galante, Materia, forma e tecniche costruttive in Terra d’Otranto. Da esperienza locale a metodologia per la conservazione, tesi di Dottorato di ricerca in Conservazione dei Beni Architettonici – XVIII ciclo, Università di Napoli “Federico II”.
[18] Famiglia di costruttori originaria di Copertino, che ebbe in Adriano (Copertino 1724-1804) l’esponente più noto. Tra gli interventi più importanti quello nel seminario di Gallipoli (1747), palazzo Colafilippi a Galatina
(1768-1772 ca.), palazzo Doxi (1775 ca.) e palazzo Romito (1770 ca.) a Gallipoli. Nel 1781 completa la
matrice di Tricase, nel 1783 realizza la parrocchiale di Soleto;, nel 1790 quella di Sternatia (cfr. M. CAZZATO-A. COSTANTINI, Grecìa Salentina, Arte, Cultura e Territorio, Galatina 1996; M. Cazzato, Oltre la porta, Copertino 1997, pagg.17-18).
[19] M. Cazzato, Oltre la porta, op. cit., p.19.
[20] P. Giuri, Dimore extraurbane a Nardò: le “Cenate” fra Barocco ed Eclettismo, in Paesaggi e sistemi di ville nel Salento, a cura di V. Cazzato, Lavello 2006, p.190.. Dei vigneti acquistati in luogo San Martino orte dieci e mezza ricadono in feudo Imperiale, quindi franche di decima, orte tre e tre quarti decimali alla Commenda di Malta, con un annuo canone di carlini dodici all’abbazia di S. Stefano di Curano, ubicata nelle immediate vicinanze (Archivio Diocesi di Nardò, Platea del Venerabile Seminario di Nardò, ms., 1801, c.202).
[21] In tale anno, con consenso del 13 marzo rilasciato dal Vescovo e dai deputati del Seminario, viene confermato il possesso al barone Giuseppe, residente a Napoli e rappresentato da suo fratello Michele, come da procura del notaio napoletano Carlo Narice del 15 ottobre 1773. Nell’atto si legge che il complesso confina per austro con la strada publica della la Via dello Scraseta o sia di Spirto. Per ponente confina con le proprie vigne di esso stesso Michele Personè; per tramontana con la strada publica dello Faulo che porta a Santo Stefano, ed anche alla massaria delli Cursari, e per Levante confina con le vigne delle fu Sig.e sorelle de’ Manieri oggi possedute dal Mag. Giuseppe de Pace (Platea del Venerabile Seminario di Nardò, op. cit., c.215)
[22] A.S.L., atti notaio Nicola Bona di Nardò (66/16) anno 1774, c.139r.
[23]ASL, Catasto Provvisorio di Nardò, vol. III, ditta 1195.
[24] P. Giuri, Dimore extraurbane a Nardò , op. cit., p. 190.
[25] A.S.L., atti notaio Policarpo Castrignanò di Nardò (66/41) anno 1821, cc.301r-306v.
[26] A.S.L., atti notaio Giuseppe Castrignanò di Nardò (66/31) anno 1822, c.61. Secondo P. Giuri (in op. cit., p.190) Diego ne entrò in possesso il 29 dicembre 1837, con atto del notaio Saetta di Nardò.
Pubblicato su Nardò e i suoi. Studi in memoria di Totò Bonuso, Ed. Fondazione Terra d’Otranto, 2015.
La Voce dell’Ulivo vuole che venga eliminato il divieto di reimpianto di olivi nel Salento. Secondo l’associazione: “nessuna efficacia nei confronti del contenimento del batterio e soprattutto unica al mondo per ciò che riguarda gli organismi da quarantena”
Per eliminare il divieto di reimpianto siamo pronti a ricorrere alla Corte di Giustizia Europea, perché è una misura iniqua nei confronti del Salento, con nessuna efficacia nei confronti del contenimento del batterio e soprattutto unica al mondo per ciò che riguarda gli organismi da quarantena.
In questo modo, per l’inerzia delle istituzioni e per colpa dell’Ue il Salento è destinato alla desertificazione…
L’olio extra vergine d’oliva è d’aiuto contro la sclerosi laterale amiotrofica
Una ricerca dell’Università di Saragoza ha evidenziato come l’olio extra vergine d’oliva migliori la speranza di vita e anche le attività motorie in cavie da laboratorio affette da sclerosi laterale amiotrofica indotta
La sclerosi laterale amiotrofica è una malattia neurodegerativa per la quale oggi non esistono cure. La speranza di vita e la qualità della stessa in pazienti affetti da questa terribile patologie può però essere incrementata, anche grazie a una dieta a base di olio extra vergine d’oliva…
La comunità “GuardiAMO San Mauro” nata sul web (FB), in attesa del parere della Soprintendenza Archeologica e degli altri enti interessati sui presunti danni arrecati nell’Area SIC Rupi di San Mauro in fase di realizzazione di lavori inerenti un progetto che prevedeva la realizzazione di una serie di sentieri per escursionismo, ha organizzato un incontro volto alla valorizzazione dell’antica Abbazia di San Mauro fondata intorno all’anno mille dai monaci italo-greci fuggiti dall’Oriente per le persecuzioni degli imperatori iconoclasti.
Questa abbazia, che faceva originariamente parte di un antico monastero, racchiude in realtà un inestimabile valore storico – artistico, sia per gli affreschi e i cartigli in greco in essa rinvenute, sia per l’estesissima proprietà fondiaria da essa posseduta, sia per gli uomini dotti e illuminati che qui si formarono. ll monastero di S.Mauro svolse la funzione di “capofila” degli insediamenti basiliani occidentali; per un tempo indefinito fu il fulcro dell’organizzazione religiosa.
E’ necessario valorizzare anche il contesto in cui sorge l’abbazia, sito di interesse comunitario (area SIC) e di importanza fondamentale per le ricerche di tipo archeologico che potranno svelarci aspetti della nostra storia ancora sconosciuti.
L’incontro, aperto a tutti,inizialmente previsto per il 20 settembre e rinviato per il maltempo, si svolgerà DOMENICA 27 SETTEMBRE alle ore 10.30 ed ha il fine di approfondire la conoscenza del vasto patrimonio bizantino situato in Salento e di focalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica su importanti monumenti che insistono sul nostro territorio e che sempre più spesso sono destinatari di incuria, vandalismoo addirittura di interventi pubblici poco o per nulla rispettosi dei luoghi.
All’iniziativa è prevista la partecipazione del prof. Paul Arthur, Direttore Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici dell’Università del Salento, che ci dirà, appunto, del contesto in cui insiste l’abbazia di San Mauro e dell’importanza del sito dal punto di vista archeologico.
L’appuntamento è per le ore 10.30 di Domenica 27 Settembre, presso l’abbazia di San Mauro (Lit. Sannicola – Lido Conchiglie).
Si sono conclusi i test di patogenicità di Xylella fastidiosa per il genere Vitis, con il risultato definitivo che il ceppo rinvenuto a Lecce e denominato CoDiRO non contamina la vite
I test, effettuati dall’Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante (IPSP) del CNR e dal Dipartimento di Scienze del Suolo, della Pianta e degli Alimenti (Di.S.S.P.A.) dell’Università degli Studi di Bari, sono durati più di 12 mesi e hanno riguardato diverse varietà di vite, dimostrando che le misure fitosanitarie applicate alle piante di vite contro Xylella fastidiosa possono essere abolite in quanto il ceppo batterico presente in Puglia non ha alcun effetto su queste piante…
E la luce illumina irradia e conforta e si spande soave e accarezza il mondo, il mondo dei grandi e dei piccini, degli onesti e dei rei, dei belli e dei brutti: il mondo di tutti.
Si diffonde su tutto e su tutti la Luce e sconfina e non ci sono fili spinati che la possano fermare, lei va solitaria e raggiante, s’intrufola negli angoli più bui e porta speranza, chiarore e chiarezza. Alla Luce non puoi camuffare i tuoi gesti, ti sveli e traspari per quello che veramente sei.
Quando poi la luminosità si traduce in un volto di donna, ” Luce” di nome e di fatto, ti par di sognare e di far parte di un mondo diverso da quello strombazzato decantato demolito sui media. Pare tanto diverso il mondo di Luce, questo suolo imbrattato abbrutito involgarito e disonorato da concioni e malevoli ciance, da cronache oscene scellerate feroci, d’improvviso s’illumina di Luce e come un arcobaleno abbraccia la terra.
Un sospiro di sollievo si leva sincero dal cuore! Ti rendi conto che tra tante miserie ci sono animi che portano luce e danno calore colore e amore senza nulla chiedere, che accolgono allietano e consolano cuori e spargono semi di tenero affetto, semi di gioia, semplicemente con un gesto e un dolce sorriso come quello di Marita che mi parla di Luce, della zia Luce che, come dono calato dal cielo, tanti anni fa, l’ha accolta e amata come una figlia: lei bimba sfortunata giunta da un’altra sponda su un barcone sballottato dalla furia del vento e delle onde, in una tetra notte di morte.
Per Marita quell’amara notte, d’improvviso si rischiarò di Luce quando, tremante e spaurita, la condussero da Lei.
Da allora la Luce per Marita non si è mai più spenta e continua radiosa a brillare, a spargere lieta tutto il suo AMORE, la sua dolcezza di Madre sempre presente nel momento del bisogno. Sempre Luce: discreta presenza silente, su cui Marita sa di poter contare anche oggi, sposa e madre felice, e quel raggio lucente continua a rischiarare la sua casa a testimonianza della… luce di Luce!
Marita, consapevole, sempre ringrazia quell’amabile stella che in quella notte tempestosa la invase di Luce e, mentre racconta, una lacrima cola sul suo limpido viso.
L’Università di Pisa ha valutato l’effetto degli antociani, i pigmenti dal rosso al blu di frutta e verdura, sulla nostra salute. Gli italiani sono tra i maggiori consumatori di queste molecole proprio in virtù della dieta mediterranea
Il segreto della dieta mediterranea è anche nei colori e il merito è degli antociani, molecole che determinano la colorazione dal rosso al blu di frutta e verdura e che possono contribuire alla prevenzione di malattie cronico-degenerative connesse alla produzione di radicali liberi. A documentare le ultime scoperte sul ruolo benefico degli antociani per la salute…
I ricercatori dell’Università Sapienza di Roma hanno trovato il primo riscontro che la somministrazione di olio extra vergine di oliva comporti un miglioramento dei livelli di glucosio e di colesterolo LDL. I picchi post-prandiali di glucosio e colesterolo sono infatti potenzialmente dannosi
La riduzione della glicemia e del colesterolo post-prandiale – ha spiegato Francesco Violi, coordinatore dello studio – apre nuove strade sull’uso di questo condimento nella dieta per prevenire le complicanze cardiovascolari dell’arteriosclerosi. Studi recenti, infatti, hanno dimostrato che i picchi post-prandiali di glucosio e colesterolo sono potenzialmente dannosi nei pazienti a rischio di complicanze aterosclerotiche; ridurne, pertanto, l’entità potrebbe apportare benefici”.
Infatti la glicemia post-prandiale può essere molto elevata e potenzialmente dannosa per il sistema cardio-circolatorio…
A OTRANTO GRANDE SUCCESSO DELLA 7^ EDIZIONE DEL CONCORSO GIORNALISTI DEL MEDITERRANEO
di Ermanno Inguscio
Nelle ore di furore tennistico nazionale in cui dai campi US Open di New York, l’epico duello della top ten tra Flavia Pennetta e Roberta Vinci convoglia nei circuiti del mondo sportivo l’ammirazione per lo sport salentino al femminile, e rafforza, per merito di due atlete pugliesi, anche un pizzico di orgoglio nazionale. La brindisina Pennetta è per un giorno la regina di New York. A Otranto giornalisti delle due sponde del Mediterraneo a Convegno, decantano le lodi del Salento, della Puglia e del Sud, terra di accoglienza, di integrazione, di pace. Alle falle del Trattato di Schengen e alle contraddizioni della politica estera dell’Unione Europea, si oppongono i meriti dei salvataggi di vite umane nel Canale d’Otranto e di Sicilia ad opera della Marina Militare Italiana. Due serate di studio e di emozioni. La prima, a Palmariggi; la seconda, nella città dei Santi Martiri sull’Adriatitico.
Prendo parte, venerdì 11 settembre, al Convegno dal tema “Loro del Sud”, organizzato dal Presidente del Lions Club di Maglie, Raffaele Cazzetta, nel suggestivo contesto del Parco degli ulivi secolari della Masseria “Alti Pareti” (Palmariggi), in cui l’editorialista Lino Patruno punta il dito contro chi continua a mortificare il Sud, ispirandosi anche, forse, al libro di Roberto Gervaso Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi, presente alla serata con straripanti esternazioni di ambito letterario e televisivo. Tra i presenti, oltre al 2° Vicegovernatore dei Lions di Puglia Francesco Antico e il sindaco di Otranto Luciano Cariddi, ambasciatori, Consoli di vari Paesi del Mediterraneo e moltissimi giornalisti, tra cui quelli del Centro Nazionale Stampa della Marina Militare Italiana.
Personaggi presenti in Puglia e felicemente coinvolti dagli organizzatori per una mirabile degustazione di prodotti tipici locali nella Masseria della famiglia Cazzetta-Marrocco, sponsor della presente Edizione del Concorso Giornalisti del Mediterraneo, evento in dirittura di arrivo, sabato 12 settembre, nella vicina città di Otranto. Inutile dire che un maliardo nettare negroamaro della Tenuta Cazzetta, produttrice soprattutto di olio apprezzato in tutto il mondo, imperversa tra i tavoli del buffet approntato a bordo piscina. Un trio di musica popolare, armato di chitarra, tamburello e organetto, intrattiene gli ospiti sino alle ore piccole. La pizzica incanta tutti i presentti. Molti fanno foto, qualcuno filma, qualche intervista. L’intreccio vocale evoca a tratti, a detta di ospiti ispanici presenti, il fremito del fado cantato sulle sponde del Tago a Lisbona. Alla mezza molti ospiti abbandonano la struttura del Parco degli ulivi secolari, facendo ritorno in hotel. Non così una trentina di convenuti tra giornalisti e Addetti Consolari. “Pizzicati” dalla musica del trio, ispirati dai polifenoli del negroamaro, che forse scorre quanto la fontanella della piscina, ballano sotto le stelle davanti ai verdi giganti sacri alla dea Minerva. Quel mentore della serata, oltre che del Premio Caravella 2015, Tommaso Forte, inventa lo stratagemma di un tamburello che passa di mano in mano. Chi più chi meno a rotazione maltratta maldestramente il re della percussione manuale. Venuto il mio turno, da ex compagno di scuola di Amedeo De Rosa, e memore dei suoi insegnamenti, col tamburello riesco a non sfigurare tra la meraviglia degli astanti: tra questi, un conduttore della rassegna stampa serale del TgCom 24, una giornalista di Sky News 24, un inviato de L’Espresso e un altro del Corriere del Mezzogiorno, un ammiraglio della Marina Militare. Un suo addetto stampa del centro Comunicazioni romano dello Stato Maggiore pretende una mia intervista. Illustro per sommi capi il valore terapeutico della pizzica, le varie tipologie e le tecniche. Vogliono saperne di più sulla danza scherma di Torrepaduli e il culto di San Rocco. Rimangono tutti affascinati. Un gruppo di danzatori salentini (da Maglie e da Lecce), presenti al Concertone del 18 agosto a Torrepaduli, ad opera della Fondazione Notte di San Rocco, ribadisce di aver assistito ad uno spettacolo coreutico-musicale senza eguali. Alla fine un grande cerchio improvvisato di danza, come nei matrimoni, una chitarra in mano all’ambasciatore del Marocco in Italia, tra gente di mezza Europa e Africa, che ha approfondito i legami con la cultura di un magico Salento. Vallo a dire, penso in un lampo, a quei soliti detrattori di turno.
La sera successiva, sabato 12 settembre 2015, nell’accogliente contesto della Porta Alfonsina del Castello di Otranto si svolge, come da programma, la 7^ Edizione del Concorso Giornalisti del Mediterraneo. Promossa dal Comune idruntino, la manifestazione riscuote ancora una volta un grande successo di pubblico e di critica, affidata alla direzione artistica di Chiara Coppola, a Luigi De Luca Vicedirettore di Apulia Film Commission e alla organizzazione del giornalista Tommaso Forte, storico organizzatore del Premio. Due le sezioni nell’OFFF: la prima European and International Landscape (La cooperazione culturale per la costruzione della pace nell’area euromediterranea. Giornalisti e Istituzioni a confronto); e la seconda Short Film & Documentaries, Omaggio al dialogo interculturale. Alle 19,30 di sabato 13 settembre Guest Event. Premio Internazionale Giornalisti del Mediterraneo. Vincitrice della 7^ Edizione è Tamara Ferrari del settimanale Vanity Fair. Vincitori delle due sezioni sono, invece, Michele Sasso de L’Espresso, sezione “Primavera Araba” e Daniele Bellocchio del periodico Nigrizia, sezione “Minori nei conflitti di guerra”. Il Premio Giuria (presieduto da Lino Patruno) è andato a Vincenzo Mattei (Al Yazeera). Il premio per il miglior racconto è stato assegnato a Luciana Borsatti (Ansa e AnsaMed). Premio Città di Otranto a Massimiliano Menichetti (Radio Vaticana), Premio Salento da Amare è stato attribuito a Nicola Masetto (Il Messaggero di Sant’Antonio). Il Premio Caravella 2014 è stato assegnato, tra l’altro, ad Assan Abouyoub (Ambasciatore del Regno del Marocco in Italia, a Roberto Gervaso (giornalista e scrittore), a Soufiane Ben Farhat (La Presse de Tunisie), a Zouir Louassini (Rai News 24), a Giovanni Valentini (La Repubblica), a Italo Cucci (Italpress), ad Angelo Rossano (Corriere del Mezzogiorno), a Vincenzo Magistà (Telenorba), a Edoardo Winspeare (Regista Cinematografico).
L’evento di Otranto facilita, come è ovvio, incontri, conoscenze, scambi di esperienze. Chi viene nel Salento, terra ormai presa d’assalto dai flussi turistici estivi, porta anche semi di analisi e di confronto; chi al Salento, come noi, è legato per natali ed affetti, per elezione, per cultura è per forza di cose spinto a valicare il mare dell’isolamento, del campanilismo e ampliare i propri orizzonti di relazione in ogni campo. Approcciandosi magari a chi la pensa in maniera diversa, costruendo contesti sociali utili a tutti, in spirito di collaborazione e contro ogni tipo di pregiudizio nocivo alla collettività ad allontanare il rischio che ognuno perda per sempre la propria identità e le comuni radici.
Le analogie tra Xylella fastidiosa e la flavescenza dorata della vite. L’esperienza in viticoltura ci può insegnare che un eccesso di trattamenti chimici non sortisce l’effetto sperato. Nel Salento contro Philaenus spumarius, la cicalina che porta il batterio di olivo in olivo, si può intervenire con sostanze repellenti
Emergenze sanitarie causate dall’importazione accidentale di insetti non sono certo una novità per l’agricoltura italiana. Dal Nord America lo Scaphoideus titanus, vettore di un fitoplasma pericoloso per le viti, ha creato e continua a creare problemi ai viticoltori del nord Italia. E’ un parente strettissimo, delle cicaline che trasmettono Xylella fastidiosa agli ulivi e lo si sta combattendo dagli anni 50.
Il problema degli ulivi del Salento presenta moltissime analogie con la Flavescenza dorata della vite ma è stato ingigantito da pratiche agricole errate o assenti. Per cercare possibili soluzioni, che non prevedano l’abbattimento selvaggio o la sterilizzazione della vita intorno e sugli ulivi, è utile ripercorrere brevemente le esperienze già fatte e le possibilità alternative di prevenzione e trattamento…
Sempre più ricerche dimostrano come l’olio extra vergine d’oliva possa essere considerato quasi come un farmaco. Dai componenti minori del succo di oliva un farmaco contro il cancro al colon e dal consumo quotidiano di questo prezioso alimento una protezione contro l’Alzheimer
Dagli Stati Uniti e dall’Italia due buone notizie per il mondo olivicolo oleario che dimostrano, una volta in più, come l’olio extra vergine d’oliva sia più di un alimento.
L’Università di Teramo sta analizzando i componenti minori dell’olio, in particolare quelli in grado di aumentare l’espressione del gene oncosoppressore Cnr1, e proteggerci dal cancro al colon…
di Angelo Salento e Giuseppe Pesare – Il Quotidiano di Puglia 4.9.2015
A condizione che non la si interpreti come mera rivendicazione campanilistica, la petizione contro la scelta di Trenitalia di escludere il sud della Puglia dal servizio Frecciarossa ha ragioni solide. Quella scelta rivela chiaramente il paradosso della gestione cosiddetta aziendalistica dei servizi: i servizi sono resi soltanto sin dove sono remunerativi; e con ciò, di fatto, cessano di essere servizi pubblici.
La vicenda dell’alta velocità nel Salento, tuttavia, è soltanto la punta di un iceberg, e non rendersene conto sarebbe un’occasione sprecata. Da almeno un decennio tutti i contesti locali italiani, e in particolare quelli del Mezzogiorno, pagano le conseguenze della “ristrutturazione” delle ferrovie. Il fenomeno, in verità, è di scala europea: in molti Paesi la cosiddetta liberalizzazione, iniziata con la Direttiva n. 440 del 1991, è stata interpretata come un’occasione per rendere più oneroso l’accesso dei cittadini al trasporto ferroviario, e più redditizie le imprese di trasporto. Persino nel Regno Unito, che spesso è considerato un modello di riferimento, l’ampia redditività delle imprese (private) di trasporto è garantita da un ingente flusso di risorse pubbliche.
Tuttavia, cifre alla mano (fonti: bilanci aziendali, CNIT, Istat), in Italia la tendenza a far pagare ai cittadini la redditività aziendale appare particolarmente eclatante. Entro la fine del 2015, com’è noto, una quota rilevante del capitale di Ferrovie dello Stato Italiane, ad oggi interamente nelle mani dal Tesoro, passerà a privati. Quella che andrà in vendita è un’azienda strepitosamente profittevole, con una redditività (EBITDA margin) che, stando al bilancio del Gruppo FSI, supera il 25% (per intendere: Deutsche Bahn è intorno al 12%, la francese SNCF fa circa l’8%).
A quali condizioni le Ferrovie dello Stato sono diventate un business così appetibile? In estrema sintesi, gli aspetti da considerare sono tre.
In primo luogo, soprattutto a partire dalla gestione Moretti (Amministratore Delegato dal 2006 al 2014, attualmente al vertice di Finmeccanica), le dimensioni complessive dell’azienda e del servizio sono state drasticamente ridotte: ridotta la forza-lavoro (da 120mila a 70mila lavoratori fra il 1998 e il 2013); dimezzato il materiale rotabile (da 80mila a 30mila mezzi viaggianti fra il 2001 e il 2013); ridotto il volume dei servizi (da 46 a 38 miliardi di passeggeri-kilometro e da 60 a 28 milioni di treni-kilometro nel trasporto merci, fra il 2006 e il 2013); ridotta la rete in esercizio (tra il 2006 e il 2014, soppressi 1.187 km di ferrovia, una cui frazione infinitesimale è divenuta percorso ciclabile).
La seconda chiave della redditività è stata la vera e propria rivoluzione nel rapporto dell’azienda con le finanze pubbliche, ovvero con le risorse dei contribuenti. Quanto ai sussidi per i servizi di trasporto, il valore complessivo dei contratti di servizio è passato da 1,7 a 2,3 miliardi all’anno fra il 2006 e il 2014; i costi sostenuti dalle Regioni per i servizi di trasporto regionale sono aumentati del 50% nello stesso periodo (da 6 a 9 centesimi per passeggero-km). Ma bisogna aggiungere che le finanze pubbliche sostengono anche le spese di manutenzione (5,3 miliardi nel Contratto di Programma Servizi 2012-2014) e gli investimenti (il portafoglio progetti, in ampia parte dedicato all’alta velocità sul versante tirrenico, sfiora i 99 miliardi nel Contratto di Programma Investimenti 2012-2016).
La terza mossa è stata spostare l’offerta di servizi verso le attività più redditizie. Paradossalmente, a fronte dell’ingente leva sulle risorse pubbliche, il servizio universale, ossia l’alternativa alle costose “Frecce”, è divenuto quasi impraticabile, per quantità e qualità. Fra il 2006 e il 2014 i servizi a lunga percorrenza sussidiati sono stati ridotti da 38 milioni a 23 milioni di treni-km, mentre i servizi a costo “di mercato” (si fa per dire, visto che le ferrovie sono un monopolio naturale) sono aumentati da 46 milioni a 55 milioni di treni-km.
Tutto questo ha permesso all’Azienda di aumentare strepitosamente i propri ricavi. Dal 2000 al 2013, i ricavi totali dal trasporto viaggiatori sono aumentati del 33% (del 67% se calcolati per passeggero-km).
In breve, non si può dire che il business ferroviario sia stato portato a una sostenibilità economica, anche perché continua a drenare risorse pubbliche; piuttosto, è stato reinventato, trasformando un’azienda di servizio pubblico (con tutte le sue innegabili inefficienze) in una fabbrica di utili, che persegue la propria redditività più che la mobilità dei cittadini.
Come molti altri diritti fondamentali – la salute e l’istruzione in primis – anche il diritto alla mobilità (art. 16 Cost.) è rimasto schiacciato sotto la promessa dell’efficienza gestionale. Oggi i cittadini pagano due volte: come contribuenti, finanziano infrastrutture e manutenzione, coprendo il rischio d’impresa; come viaggiatori, pagano il prezzo “di mercato” (a un’impresa sostanzialmente monopolista) per un servizio che promette alta velocità. Si realizza così una redistribuzione perversa di risorse: tutti i contribuenti, anche quelli che abitano in contesti periferici, pagano per infrastrutture e per servizi che restano confinati ai contesti più ricchi, dove l’impresa può produrre maggiori introiti.
L’Italia – lo mostra chiaramente anche il rapporto Pendolaria 2014 di Legambiente – oggi è un Paese “a due velocità”, più di quanto lo sia mai stato: il mito dell’alta velocità torna a essere una bandiera e certamente conta molti utenti entusiasti, ma i servizi ordinari e accessibili a tutti sono sempre più ridotti e scadenti; le aree metropolitane più ricche sono adeguatamente servite (per chi può permetterselo), ma le aree periferiche sono sempre più marginalizzate.
In conclusione, si chieda pure al gestore dei servizi ferroviari di (ri)portare il Frecciarossa in tutte le province pugliesi. Ma non resti, questa, una richiesta estemporanea e isolata. Sarebbe un grave errore, del resto, ottenere l’alta velocità al costo di ulteriori sacrifici sui servizi di base, o di un’ulteriore pressione sui bilanci regionali. Non restare tagliati fuori da un servizio è un obiettivo importante, anche sul piano simbolico. Ma risparmiare un’ora nei collegamenti con il Nord sarebbe un traguardo parziale, e servirebbe soltanto a recuperare fragili consensi, se si dimenticasse che i collegamenti Sud-Sud sono praticamente inesistenti, che il trasporto dei pendolari è in cronica sofferenza, che i collegamenti notturni a lunga percorrenza sono stati pressoché soppressi, che l’intermodalità è un miraggio. Per la gestione “aziendalistica” delle ferrovie, persino poter portare la bicicletta sul treno regionale non è scontato: Trenitalia pretende che per questo servizio, considerato un principio di civiltà in Europa, i viaggiatori paghino un supplemento, o che lo paghino in loro vece le Regioni (la Regione Puglia è stata la prima a farsene carico, dal 2007).
È su tutto questo, e non su rivendicazioni estemporanee, che si deve misurare la capacità delle forze politiche e delle amministrazioni del Sud Italia. Dall’Azienda e dal suo Azionista unico si pretenda che il trasporto ferroviario sia gestito a tutti gli effetti come servizio pubblico. L’Italia e soprattutto il Mezzogiorno hanno bisogno di investimenti nell’economia fondamentale, ovvero nelle infrastrutture della vita sociale: nella qualità della vita quotidiana di un popolo estenuato.
Tre eventi culturali scandiscono ogni anno il panorama culturale del Salento: la fòcara di Novoli, la notte di San Rocco a Torrepaduli e la notte della taranta a Melpignano. Tre appuntamenti che tracciano, sempre nel contesto sacrale della notte, la dimensione mitologica del fuoco, nel culto igneo di Sant’Antonio a Novoli, in pieno inverno, e, in piena estate, quella coreutico-musicale della pizzica-scherma, una nel culto di San Rocco a Torrepaduli e l’altra nella riproposizione della vetrina della tradizione musicale salentina del piazzale dell’ex convento degli Agostiniani a Melpignano.
Due santi della tradizione cristiana europea, Sant’Antonio e San Rocco, a sottolineare l’elemento primordiale del fuoco, a Novoli, e la passione del ballo della danza–scherma, tipica di Torrepaduli e l’appuntamento laico della notte della taranta, giunta ormai alla diciottesima edizione.
Grande festa popolare, il 22 agosto 2015 a Melpignano, che ha visto sul palco del concertone, insieme all’Orchestra Popolare, Luciano Ligabue ed artisti internazionali quali Paul Simonon (fondatore dei Clash, celebre band punk-rock britannica degli anni ’70 e ’80), Tony Allen (fondatore della musica Afrobeat, forse il più grande batterista al mondo, secondo Brian Eno) Andrea Echeverri (famosa cantante e chitarrista, componente degli Aterciopelados) Anna Phoebe (violinista inglese, abile nel cimentarsi in generi musicali diversi) e Raul Rodriguez (grande chitarrista dei Tres Flamenco), sotto la mirabile guida del maestro concertatore Phil Manzanera.
Grande successo mediatico, come da ventennale tradizione nonché di presenze stimate circa duecentomila nella serata conclusiva.
Imponente successo di pubblico, oltre sessantantamila presenze, anche a Torrepaduli, il 18 agosto 2015, nello spazio sacro, come spesso definito da Pierpaolo De Giorgi, del Largo San Rocco, nella ottava edizione del Concertone della Notte di San Rocco. Evento organizzato, dal 2008, dalla Fondazione Notte di san Rocco, presieduta da Pasquale Gaetani. Un evento prodotto, come già da un triennio, dal direttore generale Cesare Vernaleone e presentato per le reti di Telerama dall’artista Rosaria Ricchiuto, che per ore fino all’alba del giorno seguente ha presentato ospiti di tutto riguardo, come Michele Placido , Eugenio Bennato e Beppe Fiorello.
Placido ha letto testi di Carmelo Bene; Bennato s’è rifatto alla tradizione musicale napoletana; l’attore Fiorello ha proposto alla platea di spettatori una una intensa rievocazione di canzoni di Modugno.
Una notte di San Rocco, quella di Torrepaduli non nata proprio ieri, attestata storicamente almeno dal 1531, e che presenta tradizione e pizzica, musica e devozione, uniti nel ritmo della festa popolare, che sublima il ferragosto, richiamando decine di migliaia di turisti e devoti del Santo di Montpellier, lanciandoli nell’agone della danza popolare, la pizzica-scherma di Torrepaduli.
Qui canti e stornelli, alla corte del re tamburello, che ammalia e non stordisce mai, tracciano ancora i meandri della civiltà contadina, a riproporre attuali dispute tra studiosi su danza dei coltelli e mimo della rappresentazione della lotta, della danza maschile a mani nude protese a ricordare, forse anche la pizzica del corteggiamento di un tempo. Una danza, che sotto l’ottocentesco campanile di San Rocco, trova la sua massima espressione: qui sta parte del merito della Fondazione Notte di San Rocco, che punta ad innescare, con molteplici iniziative, il salto qualitativo di una cultura del territorio, da tutelare e tramandare, quando non si accontenta di coinvolgere una rete rocchina di feste patronali nell’intero Salento, con manifestazioni diffuse sul territorio e appuntamenti storico-culturali di prestigio.
La “notte” così è una dimensione culturalpopolare, fortemente sentita, e non può ridursi al solo fatidico “15 agosto”, quando la vacanza e il caldo sembrano favorire il formarsi di centinaia di “ronde” accanto al Santuario del Santo guaritore.
La notte di San Rocco, dunque, può dilatarsi per lungo tempo e durare anche fino ai fatidici “Quaranta” di Torrepaduli, quando il simulacro del Taumaturgo, dalla Matrice farà ritorno nella sua Chiesa-Santuario.
E’ questa, forse, la prerogativa assoluta del fascino della festa di San Rocco a Torrepaduli: un patrimonio di secolare tradizione e di esperienza umana, ancorato alla storia del luogo, e che la Fondazione di Gaetani si ripropone di far conoscere al grande pubblico di fruitori e studiosi, promuovendo, con eventi studiati su base scientifica, convegni e meetings di carattere internazionale.
Tamburelli, armoniche a bocca, violini e fisarmoniche, anche astraendo dalle moderne contaminazioni, non fanno altro che far sentire al mondo della cultura mediterranea, il trofeo di esperienze umane, sedimentate nella storia, da Torrepaduli, come sottolineato dal sottoscritto nella relazione al Convegno Europeo del 2013 a Lisbona. E allora alla brava regista e attrice Rosaria Ricchiuto, già alla terza esperienza di sapiente conduzione della “notte di Torrepaduli” non è stato difficile, insieme con Attilio Romita direttore del Tg della Puglia, presentare sul palco anche il regista salentino Edoardo Winspeare, Antonio Castrignanò, il Canzoniere Grecanico Salentino ed Enzo Pagliara, Rocco De Santis per ricordare il poeta Antonio Verri, Ruggero Inchingolo allievo di Luigi Stifani, il barbiere violinista delle tarantate, i Tamburellisti di Torrepaduli, i Mariglia Pizzica Salentina, i giovanissimi del gruppo Malià, Rachele Andrioli e Rocco Nigro, gli Sparrosh, la ballerina del Cilento Gessica Alfieri, la Compagnia di Scherma Salentina di Davide Monaco.
L’evento meritava di essere diffuso in diretta sul digitale terrestre delle TV Regionale di Telerama,, Canale 12 e Telesalento Canale 73, ma anche dalla emittente Regionale Viva La Puglia Cnale 93, dall’emittente nazionale Gold Tv Cnale 128 e dalle due reti Sky Made in Italy Cnale 875 e in Streaming su www.nottedisanrocco.it, www.trvews.it, www.regno.fm e su www.irdm.us.
Se batte forte dunque, come, è stato scritto, il ritmo della Taranta nel Salento, a rimarcare l’importanza dell’evento di Melpignano, non meno significativa è la “notte di San Rocco”, che, ricordiamo, è stata antesignana col Presidente Gaetani nella costituzione in Ente di Fondazione, nel 2008.
Soltanto due anni dopo, nel 2010, nel Palazzo Pasanisi di Torrepaduli, il gruppo di Sergio Blasi cominciò a coltivare l’idea di una Fondazione della Notte della Taranta. Del resto richiamare qui primati o primogeniture non avrebbe certo senso. Ma quanto a identità e genuinità di tradizione, in ambito antropologico e musicale, per Torrepaduli è forse più di una semplice iperbole quanto scritto sul Corriere del Giorno del 1 settembre 2005, da Giovanni Pellegrino: La notte più significativa in estate del Salento e della Puglia è quella di Torrepaduli. Se passasse dal Salento un redivivo Caio Giulio Cesare, preferirebbe essere il primo schermidore di Torrepaduli piuttosto che il secondo organetto di Melpignano. Ciò con rispetto di tutti i professionisti in campo musicale e buona pace di ogni scatenato ballerino estivo.
Nell’accingersi a raccontare un evento, semplice o complesso, recente o remoto che sia, gli storici si sono da sempre confrontati con un problema o, per meglio dire, con “il” problema: le fonti. Edward H. Carr, nelle oramai classiche Sei lezioni sulla storia, sosteneva: “Ma che cosa ci dicono i documenti, i decreti, i trattati, i libri mastri, i libri azzurri, i carteggi ufficiali, le lettere private e i diari – allorché ci accostiamo a loro? Nessun documento è in grado di dirci di più di quello che l’autore pensa – ciò che egli pensava fosse accaduto […] o forse soltanto ciò che egli voleva che altri pensassero che egli pensava”[1].
Anche una storia di carattere prevalentemente locale, come quella sulla rivoluzione neretina del 1647 narrata in Nardò Rivoluzionaria. Protagonisti e vicende di una tipica ribellione d’età moderna, deve necessariamente fare i conti con il problema delle fonti. I racconti coevi, le ricostruzioni dei secoli successivi, le cronache e le storie generali utilizzati per ricostruire i fatti, rappresentano da un lato dei tesori informativi, dall’altro dei veri e propri nidi di insidie. Gli intenti che di volta in volta gli autori si sono posti nel descrivere la vicenda, il particolare punto di vista utilizzato, lo stesso contesto storico in cui queste fonti sono maturate rappresentano, per chi consulta i documenti, degli imprescindibili punti da attenzione.
Nel caso di Nardò Rivoluzionaria, tra tutte le fonti consultate, una in particolare ha rappresentato, per completezza, equilibrio e chiarezza, un vero e proprio cardine del racconto: il Libro d’annali de successi accatuti nella Città di Nardò, notati da D. Gio: Battista Biscozzo di detta Città. Per quanto lacunosa sia la vicenda personale dell’autore, l’abate neretino Giovan Battista Biscozzi, nondimeno questo suo libro di “notamenti”, più cronaca che diario, ha rappresentato una miniera di notizie per tutti coloro che, dal settecento in poi, si sono confrontati con questa pagina di storia. Non siamo certamente di fronte ad una fonte “oggettiva” (ciò renderebbe questa opera, a nostro modo di intendere le fonti, non solo eccezionale, ma assolutamente unica), nondimeno la sua utilità è indiscutibile.
Nelle righe degli Annali l’abate Biscozzi appunta i principali avvenimenti avvenuti in città tra il 1632 ed il 1666, con un’eccezionale frequenza di notazioni negli anni della rivolta. La sua posizione è esplicitamente quella di un cittadino ostile al feudatario, pur non essendo un ribelle. Proprio per questo, la sua narrazione è distaccata: il prelato cerca di tenersi lontano da giudizi di valore e solo di tanto in tanto soccombe all’emozione, ad esempio nel racconto del martirio di altri sacerdoti; è una cronaca che non cede quindi a pretese di oggettività ed assolutezza, riportando le voci del popolo, dei protagonisti e, seppur raramente, dello stesso Biscozzi. Il risultato di tutto ciò è una fonte sicuramente affidabile e, in ogni caso, impareggiabilmente ricca di informazioni. Nessun’altra cronaca, tra quelle a noi pervenute, racconta così nel dettaglio i fatti che si svolsero a Nardò, soprattutto nel biennio 1647 – 1648.
Una ricchezza che purtroppo non può essere riportata totalmente in un volume dal carattere più generale e dal taglio critico come intende essere Nardò Rivoluzionaria. Ogni passo non citato è stato quindi il frutto di una scelta difficile e sofferta e, proprio per questo, si è deciso di promuovere una ristampa dell’originale per garantire al lettore di apprezzare a pieno l’eccezionale valore del testo del Biscozzi. In assenza dell’originale, purtroppo perso, si è deciso di ripubblicare la versione più completa a noi giunta, ossia quella curata da Nicola Vacca nel 1936 per la rivista Rinascenza Salentina e tratta da un manoscritto conservato nella Biblioteca Scipione e Giulio Capone di Avellino[2].
[1] E. H. CARR, Sei lezioni sulla storia, Torino, Einaudi, 1966, p. 20.
[2] Per notizie sulle varie versioni dell’opera e sullo stesso autore si veda N. VACCA, G. B. Biscozzi e il suo “Libro d’Annali”, in «Rinascenza Salentina», A., n. XIV, 1936, pp. 1-25.
Questo pomeriggio, nella chiesa parrocchiale di Marittima, intitolata a S. Vitale martire protettore della piccola località, è stato tributato l’estremo saluto a un compaesano, di nome, non a caso, Vitale.
Sul preciso punto, mette infatti conto d’annotare che, sino ad alcuni lustri addietro, in omaggio al venerato Patrono, tale appellativo di battesimo era nettamente il più diffuso fra la popolazione, mentre adesso, per via dell’inesorabile cambiamento dei tempi e delle mode, la tradizione è venuta pressoché del tutto meno.
Dello scomparso, cordiale e instancabile contadino di lungo corso, rammento, in particolare, che era buon amico di mio zio Vitale, anche lui andatosene ormai da tempo.
I due, quando erano liberi dagli impegni lavorativi e/o famigliari, erano soliti recarsi insieme sulle rive, o meglio scogliere, del nostro bel mare, per battute di pesca con canne e lenze, ovviamente inframmezzate da conversazioni e commenti. Aguglie e cefali formavano, abitualmente e maggiormente, il loro bottino, e però con saltuarie catture anche di prede di maggior pregio, ossia occhiate e saraghi.
Intorno a un rito religioso come quello cui ho appena presenziato, non vi può essere, ordinariamente, spazio per soverchia cronaca, tuttavia, nella circostanza, mi è stato dato di cogliere, imprevedibilmente, una minuscola pennellata, diciamo così, di colore, quasi adatta e funzionale ad alleggerire l’atmosfera dominante intorno all’evento.
Giusto all’inizio della funzione, mediante un repentino guizzo, non si sa quanto voluto ovvero semplicemente fuori rotta, una rondine ha attraversato l’ingresso principale della chiesa, penetrando e mettendosi a piroettare, con ampie traiettorie, all’interno. Non senza concedersi ravvicinate soste su un bassorilievo o sulla cornice d’un affresco o su una vetrata, e ciò, chiaramente, per riprendere fiato.
Il bruno e simpatico volatile ha assistito al rito per l’intera sua durata, anzi il fedele eccezionale cronista, uscendosene al termine, l’ha lasciato ancora nel luogo sacro.
Certo, sarà la spinta d’un moto soggettivo e suggestivo, ma sono portato a immaginare che la rondine abbia, così, inteso istintivamente e misteriosamente contraccambiare le tantissime volte, le mille albe, in cui Vitale, mentre si recava di buon mattino a lavorare nei campi, ha vissuto incontri, e ha in certo qual modo scambiato saluti, con stormi d’uccelli della medesima specie.
Le ombre della bella sera estiva sono appena calate sulle ultime sinuosità a saliscendi della litoranea Castro – Leuca, itinerario fra i più fantastici e magici.
Accanto al porto di Finibus Terrae, alla base della cascata terminale dell’Acquedotto Pugliese, lo sguardo è portato a girarsi in alto per contare i fasci del faro e, già, s’aggiungono pensieri e poesia.
Poi, a un certo punto, proprio sulla cupoletta luminosa e ruotante del manufatto, amico di marinai e naviganti, giunge ad appollaiarsi la faccia della luna, lanterna di splendore caldo inondante la volta blu.
Così, la mente e il cuore hanno la sensazione di serbare dentro il mondo intero, a cominciare dalle risorse, la forza, le ansie e le emozioni della gente del Tacco d’Italia, umilmente semplice e in pari tempo grande.
Con cerimonia privata, cui si accede per invito, sarà presentato e distribuito questa sera l’ultimo lavoro inserito tra le pubblicazioni della Fondazione, Nardò e i suoi. Studi in memoria di Totò Bonuso.
Un volume di 400 pagine, cartonato, in formato 24×30 cm, con saggi tutti riguardanti Nardò, a cura di Marcello Gaballo, presentazione di Luciano Tarricone. Edizione non in vendita. ISBN: 978-88-906976-5-4.
Saggi di Francesco Giannelli, Armando Polito, Maurizio Nocera, Gian Paolo Papi, Giuliano Santantonio, Fabrizio Suppressa, Paolo Giuri. Giovanni De Cupertinis, Marcello Gaballo, Stefano Tanisi, Alessandra Guareschi, Alessio Palumbo, Elio Ria, Maurizio Geusa, Pino De Luca, Letizia Pellegrini, Massimo Vaglio, Valentina Esposto, Daniele Librato, Mino Presicce, Pippi Bonsegna.
Luciano Tarricone, presentazione ……………………….……………………………………. p. 1
Francesco Giannelli, Tracce di preistoria e protostoria nel territorio di Nardò …… 5
Armando Polito, Un toponimo sulla riviera di Nardò: la Cucchiàra ………………….. 11
Maurizio Nocera, Della tipografia e dei libri salentini ……………….……………………. 15
Gian Paolo Papi, La “Madonna di Otranto” in territorio di Cascia
tra i possibili lavori del neritino Donato Antonio d’Orlando ……………………………… 29
Armando Polito, Antonio Caraccio l’Arcade di Nardò ……………………..……………… 41
Giuliano Santantonio, Ipotesi di attribuzione di alcuni dipinti
a Donato Antonio D’Orlando, pittore di Nardò ………………………………………………. 67
Fabrizio Suppressa, Torre Termite, la masseria degli olivi selvatici …………………. 81
Paolo Giuri – Giovanni De Cupertinis, Il seminario diocesano di Nardò dal xvii al xix secolo …………………………………………………………………………………………………….. 91
Marcello Gaballo, Un’architettura rurale impossibile da dimenticare.
Lo Scrasceta, dalle origini ai nostri giorni ………………………………………………………101
Stefano Tanisi, Lo scultore leccese Giuseppe Longo
e l’altare di San Michele Arcangelo nella Cattedrale di Nardò ………………….……… 117
Marcello Gaballo, Achille Vergari (1791-1875) e il suo contributo
per debellare il vajolo nel Regno di Napoli ……………………………………………………. 131
Alessandra Guareschi, L’arte “nazionale” di Cesare Maccari nella Cattedrale di Nardò ………………………………………………………………………………………………………. 147
Alessio Palumbo, Il mito di Saturno in politica: le elezioni del 1913 a Nardò ………………………………………………………………………………………………………. 185
Elio Ria, Piazza Salandra, un esempio di piazza italiana. ……………………………….. 193
Maurizio Geusa, Uno sconosciuto fotografo di Nardò al servizio dell’Aeronautica Militare ……………………………………………………………………………………………………… 199
Pino De Luca, Histoire d’(lio)……………..…………………………………………………………. 227
Letizia Pellegrini, Scritture private e documenti.
L’archivio privato di Salvatore Napoli Leone (1905-1980) ………………………………… 231
Massimo Vaglio, Olio e ulivi del Salento ………………..………………………………………. 257
Maurizio Nocera, Diario di un musico delle tarantate. Luigi Stifani di Nardò …………263
Valentina Esposto – Daniele Librato, L’archivio storico del Capitolo
della Cattedrale di Nardò. Inventario (1632-2010) ……………………..……………………. 289
Mino Presicce, Edizioni a stampa della tipografia Biesse di Nardò (1984 – 2015) …377
Pippi Bonsegna, Ricordo di Totò Bonuso una vita per il lavoro… e non solo
Sino all’età di diciannove anni, ho vissuto permanentemente nel luogo di nascita, inserito a trecentosessanta gradi in quella minuscola comunità, a voler dire che, secondo il costume in voga fra coabitanti tre quarti di secolo fa, ero conosciuto è seguito da tutti, sin dalla fanciullezza e poi procedendo verso l’adolescenza e la prima giovinezza, queste ultime correlate, nel mio caso, con la frequenza delle Superiori.
Per il carattere vivace, la sveltezza nell’approccio, la confidenza istintiva e spontanea nei confronti dei compaesani, il buon profitto negli studi e, più in generale, il ruolo di spicco fra coetanei e non solo, non passavo, invero, inosservato.
Forse, questo insieme di connotati, in aggiunta all’appartenenza a un nucleo famigliare modesto ma stimato, ha fatto sì che, sovente, fossi scelto quale padrino di piccoli battezzandi e/o cresimandi; ciò è accaduto anche nei primi periodi in cui mi trovavo già lontano da Marittima per lavoro.
Se la memoria non m’inganna, essendo ormai trascorso così tanto tempo, m’è capitato di essere chiamato a svolgere la funzione in parola dodici o tredici volte.
Si badi, non si trattava di un evento o rito, o come lo si voglia definire, di carattere momentaneo e isolato; al contrario, ogni volta, s’instaurava e materializzava un importante e speciale nuovo valore aggiunto, in pari tempo interpersonale e comunitario, oltremodo diffuso e allargato, ossia a dire esteso anche alla parentela completa dei diretti genitori del/della figlioccio/ figlioccia.
Da considerare, altresì, che il vincolo o legame di compare/comare che si formava in virtù di ciascuna chiamata, era destinato, anche tutt’ora è così, a permanere senza soluzione di continuità, valicando le generazioni, insomma per sempre.
Non è, perciò, un caso fortuito o strano che io, pure il giorno d’oggi, girando per Marittima e incrociando i miei compaesani, sia portato a scambiare il saluto “buongiorno, buonasera, caro, cara, ciao”, non semplicemente con l’aggiunta del nome dell’incontrato, ma inserendo e anteponendo chiaramente l’appellativo di “compare” o “comare”.
Fra i maschi, uno dei dodici/tredici marittimesi con cui, nell’epoca citata prima, ho avuto la ventura o il privilegio d’intessere rapporti più intensi in collegamento alla somministrazione di sacramenti, è compare Vitale, un contadino che ora ha pressappoco ottantacinque anni, nato e vissuto in un vicoletto attiguo alla piazza del paese, da qualche tempo rimasto vedovo di comare Salvatora, attivo come pendolare fra casa e qualche campagna mediante il suo moto furgone Ape, in altri termini sostanzialmente autonomo, sia pure con spunti d’assistenza resigli dalle figlie.
Quando mi trovavo già impegnato in altra residenza per via dell’attività impiegatizia, da lui e da sua moglie fui designato a battezzare una neonata, la prima o la seconda della loro numerose parole, cinque femmine e un maschio.
Lontano dal paese al momento del battesimo e rimasto fuori per circa quaranta anni, non ho mai avuto l’occasione di distinguere e tantomeno di conoscere la figlioccia in discorso.
Anche se, più o meno in tutte le occasioni in cui ritornavo momentaneamente al paese, avevo l’opportunità di notare o d’incontrare fugacemente i genitori, specialmente compare Vitale.
Un paio di estati fa, mia figlia Imma, la quale vive all’estero, si trovava a Marittima, per trascorrervi, come accade immancabilmente, una parentesi di vacanza insieme con la sua bambina e mia adorata nipotina bionda Elena, all’epoca avente circa quattro anni.
Una sera, rientrando nella nostra villetta del mare, Imma richiamò la mia attenzione su un particolare piacevole episodio che l’aveva appena coinvolta, nell’atto di entrare in un bar del paese per acquistare un ghiacciolo per la piccola.
Seduto all’esterno del locale, se ne stava un anziano signore, occupato a sorbire lentamente la sua birretta. Se non che, mentre madre e figlia s’avvicinavano ed erano sul punto di accedere nel bar, egli si determinò veloce a domandare qualcosa a un vicino di sedia, apprendendo così che le due figure erano rispettivamente la mia figliola e la mia nipotina.
“Come, fanno parte della famiglia del mio compare Rocco? “, si chiese e chiese in un baleno compare Vitale e, sempre rapidissimo, si fece avanti nei confronti di Imma, presentandosi e dichiarando, deciso, che, in virtù dell’antico legame esistente, si sentiva in dovere di essere lui ad offrire ciò che erano intenzionate ad acquistare nell’esercizio.
“Papà, non c’è stato verso”, passo a precisarmi Imma, “il tuo compare ha voluto, ad ogni costo, regalare il ghiacciolo a Elena”.
Ma, a proposito di continuità e valenza di costumi, più precisamente del perpetuarsi oltre le generazioni anche del ruolo di compare, senza volerlo e del tutto casualmente, ecco un secondo e indicativo episodio, più o meno correlato, successo una settimana fa nella vicina Castro.
Com’è nostra consolidata abitudine al termine d’ogni uscita in barca a vela, io e Vitale A., non il compare, bensì un altro Vitale mio carissimo amico, ci siamo fermati ad uno dei chioschi del porto, accomodandoci all’ombra per una breve sosta rigenerante e ordinando la solita gassosa arricchita con due dita di granita di limone.
In aggiunta alla titolare dell’attività, ho scorto, a servire al banco, una simpatica e sveglia ragazza mai vista prima, che, per la verità, non si poteva non notare, a motivo del suo capo completamente rasato e tinto di biondo.
Nel momento in cui la giovane si è accostata per servirci le bibite, l’amico Vitale, a bassa voce, mi ha riferito: ”Guarda, Rocco, questa ragazza dev’essere mezza marittimese, per via della madre, a suo tempo andata in sposa a uno di Castro”. Ha quindi continuato Vitale: “Deve appartenere alla famiglia di tale Vitale, conosciuto con il nomignolo o soprannome ‘u cuzzune “.
Guarda caso, proprio il mio compare del quale ho raccontato prima. Al che, è scattata la solita molla della curiosità, che sovente finisce con impattare o fare incrocio con concomitanze o coincidenze, quasi ne fosse alleata.
“Giada” tale il nome della ragazza dalle lunghe chiome “tu hai forse un nonno Marittima? Come si chiama?”.
Prontissima, come fosse stata proprio nell’aria, la risposta: “Vitali (Vitale) ‘u cuzzune”.
“Guarda, Giada, che tuo nonno è mio compare, avendo io tenuto a battesimo, molti decenni fa, una sua figlia, fra quelle, mi sembra di aver sentito sei, da lui avute”.
E Giada a replicare: “Sì, esattamente sei, cinque femmine e un maschio”.
E io: “Ora, non so stabilire quale fra le cinque sia la mia figlioccia”.
Nuovamente svelta e determinata la ragazza, a smanettare sullo Smart Phon: ”Mamma, come si chiama il tuo padrino di battesimo?”.
Dall’altra parte del telefono: “Si chiama Rocco, e però non l’ho mai conosciuto”.
Ancora da figlia a mamma: “Guarda che è qui, accanto a me, al chiosco del porto, il tuo padrino, in carne ed ossa”.
E la genitrice: “Oddio, dopo cinquanta tre anni, è un autentico prodigio, passamelo, gli voglio parlare, Giada e dopo, ti raccomando, fagli una foto per me”. Quindi a me: “Compare Rocco mio, che sorpresa, che piacere”. E io a risponderle: “Cara Anna”, questo è il nome della figlioccia ritrovata, “sono anch’io contento e commosso, mi fa molto piacere, complimenti per tua figlia, mi sembra in gamba. Allora, ti sei sposata a Castro?”.
E lei di rimando: “Ero sposata a Castro…Desidero conoscerti presto di persona, segnati il seguente mio indirizzo……..”.
Finale ed esito doveroso e scontato dell’imprevisto e inatteso incontro/colloquio, mi sono formalmente impegnato ad andare quanto prima a trovare Anna.
Intanto, lei, avanti di scrutare dal vivo le sembianze del suo padrino finalmente ritrovato, potrà prepararsi e familiarizzare attraverso il selfie scattato e sicuramente passatole da Giada.
Come è ampiamente noto agli studiosi e ai cultori della materia, sulle torri costiere del Regno di Napoli esiste ormai una vastissima bibliografia, che copre pressochè tutte le prospettive di ricerca. L’argomento, però, è tutt’altro che esaurito: fonti storiche sempre nuove vengono progressivamente alla luce, confermando o confutando le ipotesi formulate dai ricercatori.
Presentiamo appunto ai lettori, in questa sede, un documento inedito, relativo allo stato delle torri costiere del Regno al 1624, redatto dal regio percettore Giacomo Antonio Galano.
Il testo illustra alcuni aspetti del funzionamento del sistema delle torri di avvistamento, mettendo altresì in evidenza le problematiche connesse alla manutenzione di questa rete di fortificazioni, che andava ad integrare quella costituita dai castelli.
Il complesso sistema difensivo era stato eretto a partire dalla seconda metà del sec. XVI per far fronte al pericolo delle incursioni corsare, e secondo le più recenti ricerche (e al di là di consolidati luoghi comuni) dovette assolvere il suo compito con discreto successo).
Il documento, tratto da un volume manoscritto conservato nella Biblioteca Nacional de Espana (mss/988), fa parte delle ”Papeles historico-politicos tocantes a Napoles”, tomo 3, pp.285-292, ed è consultabile, come risorsa digitale, sul sito della Biblioteca Digital Hispanica (“bdh.bne.es”).
Relazione di Giacomo Antonio Galano sullo stato delle torri del Regno di Napoli (12 Giugno 1624)
Fol.279 r
Al Circunspetto (?)
Havendome Vostra Signoria ordinato che come credenziero delle Regie Torri si faccia relazione di quante torri sono in questo regno, che soldati vi dimorano, che soldo tengono, che armi vi sono, et che distanzia vi è da una torre all’altra, et hobedendo come devo, ho riconosciuto la scrittura della visita generale per me fatta l’anno 1620. D’ordine dell’Illustrissimo Signor Cardinal Borgia, allhora vicerrè, et della Reverenda Camera della Summaria giontamente con l’ingegner Bartolomeo Cartaro, et altre scritture c’appresso di me si conservano, ritrovo che diece province di questo regno participano del mare al lito, delle quali per sua maestà vi sono edificate molte torri per custodia d’esse, et naviganti oltre delli cavallari che se pongono presso le torri convicine alla marina alli quali se li paga il lor salario a ragione de ducati quattro ciascheduno cavallaro il mese per sette mesi dell’anno da marzo per tutti setti in la mittà per la Regia Corte, et l’altra mittà per l’università convicine, et detti cavallari se deputano secondo il sito, et distanza della marina et sono obligate contribuire tutte le altre universita’ che sono infra il numero di miglia dodici alla marina pro rata focularia et nelli lochi alpestri, et montuosi dove li cavallari non possono scorrere la marina ne se deputino guardiani a piedi in loro se detti cavallari quali se pagano alla ragione come di sopra et l’altra mitta’ alle università per ducati dui per ciascheduno pedone il mese la mittà anco paga la Regia Corte per il tempo utile et le Province sono cioè Terra di Lavoro Principato Citra, Basilicata Calabria Citra, Calabria Ultra, Terra d’Otranto, Terra di Bari, Capitinata, Apruzzo Citra et Apruzzo Ultra, nelle quali sono edificate le infrascritte torri in territorio delle infrascritte terre che participano al mare.
[Segue l’elenco delle province del regno, con le torri costiere e le città nel cui territorio esse ricadono]
[……..]
Fol 285 r
Ne le quali torri per ognuna ne se deputa per suo comodo un torriero con il nome di caporale ed un soldato quali assisteno ne la guardia tutto l’anno tanto di notte come di giorno alli quali se li paga per la Regia Corte il lor salario cioè al caporale ducati quattro il mese et al soldato carlini 25 che se li pagano dalli Percettori Provinciali de denari dell’Imposizione della guardia delle torri, et l’estate (?) in territorio delle quali sono situate dette torri ne si pone un soldato aggionto per ogni torre dal mese di marzo per tutti sette a spese d’esse Università oltre delli detti cavallari o pedoni (?)nelle torri edificate in terra ferma però quelle che sono nell’isola ne se deputano dui soldati ordinary per la Regia Corte oltre il caporale et l’aggionto per le università et se li da’ anco per la Regia Corte una barchetta ogni otto o diece anni per posser andare, et venire da terra.
Et perchè la maggior parte di dette torri sono edificate dove vi sono Porti, ridotti o fiumare per la Regia Corte in alcune d’esse vi ha portato per posserhose difendere detti luochi uno o dui pezzi d’artelleria secondo la necessità del sito alli quali per dette università ogn’anno se provete di polvere, palle et miccio, cioè dove è un sacro diece rotole di polvere, dove ve ne sono dui venti rotole et quelle torri che sono edificate per coprire cale , et non vi sono artellerie tengono un mascolo per dar laviso, et dui archibusci per le predette università se li da’ quattro rotola di polvere ogni anno.
Et anco nella Provincia di Terra d’Otranto vi è una torre nominata San Cataldo, alla quale sua maestà ha fatta grazia di titulo di castellano et se li paga il solito salario di ducati cinquecento l’anno conforme se li pagano agli altri castellani del Regno. Et gode tutti li privileggi che godono tutti gli altri castellani del Regno.
Fol.285 v
Circa la distanza dall’una torre all’altra dove sono montagne ad ogni loco che vi è cala vi è edificata una torre che sarrà d’un miglio in circa, et dove sono spiagge ogni quattro, o sei miglia vi è una torre secondo le necessità dei luochi et in dette spiagge vi corrono anco li cavallari, et nelle montagne li pedoni in tempo d’estate che guardano dette marine quali si pagano come di sopra.
Lasciando de dire a Vostra Signoria, che vi sono molte torri incominciate, in più parti del Regno et non sono finite per la scarsezza de moneta, poichè si bene vi è la Imposizione per la fabrica de torri che si paga nel Regno che l’importa de diecemila ducati l’anno non se ne spende neanco ducati duimilia l’anno perchè li denari vanno in Cassa (?), dove si spendono per altro effetto, che si detta Imposizione andasse al banco come prima di detta situazione di Cassa (?), le dette torri in meno d’anni sei et spendendosi li denari ad altri effetti le fabriche incominciate se deteriorano, et marciscono, et dove al presente basterrebono di spesa per esempio ducati cento dacqua ad un anno ve ne bisognano cinquecento. quali infrascritti s’esigono dalla Regia Corte.
Da quelle terre che sono infra le dodici miglia alla marina grana (?) a foco l’anno et da quelle che sono distante oltre le dodici miglia la marina la metta’ che sono grana (?)quale Imposizione importa ducati diecemilia
Et cossi’ anco la Regia Corte exigge dal Regno la guardia de Torri da quelle terre infra le dodici miglia alla marina grana 4 e mezzo et detta imposizione importa ducati 34416 delli quali se ne pagano li caporali , et soldati di dette torri, et la Rata che paga la Regia Corte alli cavallari seu pedoni che guardano la marina del Regno come si è detto di sopra.
E questo è quanto posso referire a V.S. infino a questo
Fol.286 r
(?) et lunga vita bacciandoli le mani
Napoli 12 di Giugno 1624
La spesa per reparare , et finir le torri incominciate per quello che si puo’ giudicare ascenderia a ducati 800.000—Incirca
Mercoledì 19 agosto 2015 nel chiostro dell’ex Seminario verrà presentato, alla presenza del sindaco Marcello Risi e dell’assessore alla Cultura Mino Natalizio, il libro Nardò Rivoluzionaria. Protagonisti e vicende di una tipica ribellione d’Età Moderna, Congedo Editore. Interverranno don Giuliano Santantonio, direttore dei “Quaderni degli archivi diocesani di Nardò-Gallipoli”, l’autore Alessio Palumbo e la dottoressa Maria Luisa Tacelli, docente di Diritto Canonico presso l’Università del Salento.
dai soldati che il duca avrebbe inviato a loro danno.
In realtà si erano ribellati con il duca
che era loro signore e principe legittimo,
poiché si erano dati il diritto di prendere le armi contro di lui.[1]
[1] Archivio Segreto Vaticano, Archivium Arcis, Arm. E, 127 (Super Tumultis Populi Civitatis Urbini Anno Domini 1573), cc. 312 v – 320 v in A. DE BENEDICTIS, Tumulti: moltitudini ribelli in età moderna, Bologna, Il Mulino, 2012, p. 24.
Dopo la celebrazione della Messa, presieduta dal Vescovo di Nardò-Gallipoli Mons. Fernando Filograna, nel chiostro dell’ex Seminario (di fronte alla Cattedrale), ci sarà la presentazione del volume Nardò Rivoluzionaria. Protagonisti e vicende di una tipica ribellione d’Età Moderna, Congedo Editore. Interverranno don Giuliano Santantonio, direttore dei “Quaderni degli archivi diocesani di Nardò-Gallipoli”, l’autore Alessio Palumbo e la dottoressa Maria Luisa Tacelli, docente di Diritto Canonico presso l’Università del Salento.
La serata si concluderà con l’evento Una notte di note per i giusti: la lettura da parte di Elio Ria e Roberto Tarantino di alcuni passi dell’opera del Biscozzi inframmezzerà l’omaggio musicale curato dal maestro Luigi Mazzotta, fondatore e direttore dei Cantores Sallentini. Prenderanno parte alla manifestazione il coro polifonico “Parrocchia S. Antonio di Padova” di Parabita diretto da Aurora Nicoletti, i musicisti Elisabetta Braga, Marcello Filograna Pignatelli, Paola Liquori, Alimhillaj Merita, Caterina Previdero, Andrea Sequestro, Giusy Zangari e Alessio Zuccaro.
PROGRAMMA
Marco Frisina TRISAGHION
Coro Polifonico Sant’Antonio di Parabita, diretto da Aurora Nicoletti
Marco Frisina VERGINE MADRE (testo di Dante)
Coro Polifonico Sant’Antonio di Parabita
Ymer Skenderi MELODIA POPOLARE ALBANESE
Merita Alimhillaj, violoncello
Charl Gounod AVE MARIA – meditazione su un preludio di J.S. Bach per violoncello e pianoforte
Merita Alimhillaj, violoncello – Luigi Mazzotta, pianoforte
Maurice Ravel La Vallèe del choches (da “Miroirs”)
Marcello Filograna Pignatelli, pianoforte
Ernest Bloch PRAYER – per violoncello e pianoforte
Merita Alimhillaj, violoncello – Luigi Mazzotta, pianoforte
Robert Schumann TRAUMEREI per violoncello e pianoforte
Merita Alimhillaj, violoncello – Luigi Mazzotta, pianoforte
Paola Liquori DISTORSIONI IV (su due temi di Chopin)
CORO POLIFONICO “PARROCCHIA S.ANTONIO DI PADOVA” PARABITA
Il coro polifonico “Parrocchia S.Antonio di Padova” di Parabita, nasce alla fine degli anni ’70, con l’intento di animare le celebrazioni solenni nell’omonima parrocchia. Nel tempo, il coro ha consolidato la sua attività, svolgendo il servizio di animazione durante le celebrazioni di tutto l’anno liturgico. I suoi componenti, animati da spirito di servizio coltivano l’amore per il canto polifonico, convinti che la musica sia capace di toccare il cuore del credente, aprendolo alla contemplazione e rendendolo capace di cantare la propria fede. Ha partecipato a diverse rassegne canore riscuotendo positivi consensi. Particolare momento di grazia, vissuto dal coro con entusiasmo e impegno è stata l’animazione della messa per l’inizio del ministero episcopale di Sua Ecc.za Rev.ma Mons. Fernando Filograna il 28 settembre 2013 a Nardò.
DIRETTORE Aurora Nicoletti
TASTIERA Paolo Pasanisi VIOLINO Francesco Monteanni
SOPRANI CONTRALTI
Antonazzo Cristina Fracasso Anna Maria
Corrado Lucia Fracasso Anna Rita
Garzia Vincenza Greco Francesca
Giaffreda Irene Greco Stefania
Giannelli Anna Rita Guglielmo Rossella
Giannelli Fernanda Leo Lucia
Grasso Cristina Monaco Katia
Guglielmo Anna Maria Nicoletti Antonia
Latino Daniela Piccinno Gianna
Monteanni Maria Pia Piccinno Rosy
Nicoletti A.Franca
Nicoletti Rosalina
Rizzello Giuly
Russo Anna
Russo Fabia
Serino Lelia
TENORI BASSI
Cataldo Luigi Fiorenza Giorgio
Fersini Antonio Gabriele Marcello
Fracasso Giuseppe Greco Sergio
Fracasso Roberto Leopizzi Biagio
Garzia Pierluigi Tarantino Giuseppe
Merico Salvatore Vigna Luigi
Russo Guido
Vigna Cesare
Elisabetta Braga
Nata a Nardò, si diploma brillantemente in canto presso il Conservatorio di musica “Santa Cecilia” di Roma nel 2013. Comincia la sua attività concertistica esibendosi in vari teatri e sale da concerto Italia e all’estero, quali la Sala Accademica del Conservatorio “Santa Cecilia” di Roma, il Teatro Politeama Greco di Lecce, la “Tchaikoskj Concert Hall” di Mosca. Debutta nel 2015 a Roma come Mimì ne “La Bohème” di G. Puccini e a Rieti nel 2015 come Gilda in “Rigoletto” di G. Verdi. Si è perfezionata partecipando come allieva effettiva alla masterclass del soprano Sumi Jo tenuta a Roma in aprile. Attualmente sta per conseguire il Diploma Accademico di secondo livello presso il Conservatorio “Santa Cecilia” di Roma.
Marcello Filograna Pignatelli è nato a Nardò (LE), il 19-03-1991.
Ha iniziato lo studio del pianoforte fin dall’età di 6 anni. Ha vinto numerosi primi premi e primi premi assoluti in concorsi pianistici nazionali ed internazionali.
Ha conseguito con il massimo dei voti il diploma del corso tradizionale di Pianoforte presso il Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce sotto la guida del Mº Leonardo Cioffi.
Attualmente frequenta il biennio specialistico di 2º livello di Pianoforte con il Mº Pierluigi Secondi presso il Conservatorio “Luisa D’Annunzio” di Pescara e contemporaneamente frequenta la facoltà di Medicina e Chirurgia presso l’Università degli Studi “Gabriele D’Annunzio” di Chieti.
Paola Liquori si è diplomata in pianoforte presso il Conservatorio di Lecce col massimo dei voti sotto la guida della prof.ssa Mariagrazia De Leo. Ha partecipato a diversi concorsi nazionali ed internazionali ottenendo il primo premio e nel 2011 è stata selezionata per suonare al Festival delle Murge in occasione del bicentenario dalla nascita di Liszt. Collabora fin da quando aveva 15 anni in formazioni cameristiche. Studia composizione col M° Gioacchino Palma presso il Conservatorio Tito Schipa di Lecce ed ha partecipato sia nel 2014 che nel 2015 alle due edizioni consecutive del Festival Del 18esimo secolo, in occasione del quale sono state eseguite alcune delle sue composizioni.
Luigi Mazzotta
Agli studi classici e giuridici ha affiancato lo studio del pianoforte con il m° Enzo Tramis e la prof.ssa Vittoria De Donno, lo studio dell’organo e composizione organistica presso il Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce con il m° Nicola Germinario e a Padova con il m° Wolfango Dalla Vecchia.
E’ stato allievo effettivo del corso triennale di “Pratica corale e direzione di coro” alla scuola del m° Giovanni Acciai del Conservatorio “G.Verdi” di Milano, frequentando altresì i corsi di contrappunto vocale con Marco Berrini, di tecnica vocale con Marika Rizzo e Stew Woudbury, di canto gregoriano con Fulvio Rampi, Alberto Turco e Anselmo Susca. Si è perfezionato in polifonia vocale con Adone Zecchi e Bruno Zagni ed in musica barocca con Sergio Siminovich.
Dal 1984 opera nelle Stagioni Liriche del Teatro di Tradizione di Lecce, prima come artista del coro quindi come maestro preparatore e collaboratore del coro, maestro del coro di voci bianche, maestro alle luci. E’ stato maestro del coro e direttore musicale di palcoscenico in diverse opere liriche di cartellone eseguite in varie località del centro-sud d’Italia. Ha collaborato, come maestro del coro, anche con l’Orchestra ICO “Tito Schipa” della Provincia di Lecce sotto la direzione di Carlo Vitale, Aldo Ceccato, Marcello Rota e Carlo Frajese; ha svolto il ruolo di altro maestro del coro nel “Requiem” di Giuseppe Verdi sotto la magistrale direzione di Romano Gandolfi e nel “Requiem” di Mozart con il CORO LIRICO di Lecce con il quale ha effettuato,come direttore, numerosi concerti suscitando unanimi e positivi consensi di pubblico e di critica. Ultimamente ha fondato e dirige i Cantores Sallentini eseguendo la Petite Messe Solennelle di Rossini in versione originale per soli (C. Fina, soprano – A. Colaianni, mezzo soprano – F.Castoro, tenore – D.Colaianni, baritono), due pianoforti (P.Camicia e V.Rana) ed harmonium (R.Pastore); ed inoltre, Il Gloria, il Credo, il Magnificat, il Beatus Vir di Vivaldi ed il Te Deum di Mozart con l’Orchestra da Camera Salentina riscuotendo lusinghieri apprezzamenti.
Nel maggio 2012, a Lecce, in occasione della prima edizione del “Convegno Internazionale sulla Musica Sacra”, col patrocinio anche del Pontificio Istituto di Musica Sacra della Santa Sede, è stato invitato a dirigere brani corali a cappella con repertorio rinascimentale, barocco e contemporaneo.
Alimhillaj Merita
Cittadina italiana (pugliese) di origine albanese diplomata con il massimo dei voti in violoncello presso l’Accademia delle Belle Arti di Tirana. Vanta numerose collaborazioni con diverse orchestre tra le quali: l’Orchestra “Venus” di Monopoli, l’EurOrchestra da camera di Bari, l’Orchestra del 700 di Ceglie Messapica, l’Orchestra della “Magna Grecia” di Taranto, l’Orchestra “S. Leucio” di Brindisi, l’Orchestra “Leonardo Leo” di Lecce, l’Orchestra “Terra d’Otranto”, l’Orchestra da Camera Salentina. E’ stata più volte membro di orchestre in programmi televisivi della Rai. Premio Barocco, Premio Regia Televisiva , collaborando con artisti di fama internazionale e nazionale: Paolo Belli, Riccardo Cocciante, Massimo Ranieri, Gianna Nannini, Antonella Ruggero, Ron, Gianni Morandi, Al Bano Carrisi, Gino Paoli, Renato Zero, Alessandra Amoroso ecc. Attualmente è docente di violoncello presso l’Istituto Comprensivo “centro”, plesso Salvemini, di Brindisi.
Caterina Previdero è iscritta e frequenta l’ VIII anno della scuola di pianoforte presso il Conservatorio Tito Schipa di Lecce nella classe della prof.ssa Maria Grazia De Leo. Nel corso di questi anni ha partecipato a diversi concorsi pianistici classificandosi sempre trai primi posti. Nell’attività di canto del Conservatorio ha fatto parte in qualità di corista nel coro di voci bianche ‘’Sull’Ali del Canto’’ diretto dalla prof.ssa Tina Patavia, per i cui meriti ha percepito anche una borsa di studio. Scopre così di avere un’altra grande passione oltre al pianoforte: il canto lirico ed attualmente studia sotto la direzione del prof. Michael Aspinall.
Andrea Sequestro nasce il 25 ottobre 1994. La sua formazione pianistica inizia a 5 con la Maestra Francesca Iachetta, a Cosenza, per continuare a Nardò con la Maestra Serena Caputo. Partecipa sin da bambino a numerosi concorsi e masterclass e attualmente continua i propri studi presso il conservatorio Tito Schipa di Lecce sotto la guida della professoressa Concita Capezza.
Alessio Zuccaro inizia lo studio del pianoforte col M. Ekland Hasa. Ammesso presso il conservatorio “Tito Schipa” di Lecce prosegue il cursus di studi col M. Corrado De Bernart. Affianco all’attività come solista, che lo ha portato ad esibirsi in prestigiose occasioni come il “Festival del XVIII secolo”, intraprende un percorso cameristico che lo porta a collaborare con l’Associazione “Tasselli Salentini” nell’esecuzione (come cembalista) delle “Quattro stagioni” di Antonio Vivaldi e con l’orchestra ICO di Lecce come pianista in orchestra. Nel 2013 vince ex-aequo una borsa di studio come “allievo più meritevole” indetta dal Rotary Club.
Nel 1632 il quasi ventenne Giovan Battista Biscozzi, prossimo ad essere ordinato sacerdote, decide di redigere un diario. Non un diario di pensieri e considerazioni personali; non un’annotazione di vicende relative a sé stesso o alla propria famiglia; bensì una cronaca sui principali eventi verificatisi nella propria città, Nardò. Dell’abate Biscozzi, morto nel gennaio del 1683 all’età di quasi settant’anni, poco altro è rimasto: le sue annotazioni rappresentano quindi una delle poche testimonianze della sua stessa esistenza. Dai decenni successivi alla sua morte fino ai nostri giorni, la cronaca, giunta nelle mani degli studiosi per varie vie e in varie versioni, ha rappresentato una delle principali fonti documentali per lo studio della storia neretina di metà seicento.
In occasione della pubblicazione del libro Nardò Rivoluzionaria. Protagonisti e vicende di una tipica ribellione d’età moderna, la Fondazione Terra d’Otranto ha deciso di curare la riedizione, in un piccolo opuscolo gratuito, di una sezione del Libro d’annali de successi accatuti nella Città di Nardò, notati da D. Gio: Battista Biscozzo di detta Città. Di certo, l’autorità riconosciuta dagli studiosi a tale libro può rappresentare di per sé una valida ragione per una riedizione, ma non è la sola.
Sin dalla sua nascita, la Fondazione si è riproposta non solo di incoraggiare lo studio scientifico del territorio, della sua cultura, delle sue tradizioni e della sua storia, ma anche di porre nel giusto risalto i valori, gli insegnamenti, le testimonianze di senso civico ed amore per la propria terra che da questi studi si sarebbero potuti ricavare. La pubblicazione del Libro d’annali coniuga perfettamente questi due obiettivi. Come detto, esso è una fonte storica di inestimabile valore, ma è anche la testimonianza dei valori che hanno spinto un’intera città a ribellarsi al proprio signore. L’autore è sicuramente un osservatore pacato e storicamente affidabile degli avvenimenti cittadini, ma è altrettanto sicuramente un uomo ostile al tiranno e ciò, abbandonando il garantismo storiografico, ci consente di dire che era schierato dalla parte dei “giusti”, ossia dalla parte di coloro che, stanchi di vessazioni e desiderosi di libertà, destituirono i rappresentanti del despota, serrarono le porte della città e combatterono duramente, sacrificando la proprio stessa vita, nel nome della città e della propria dignità di uomini. Il Libro d’annali è infine un’opera del proprio tempo, ma anche un monito e un insegnamento fuori dal tempo: i valori, le idee che animarono i protagonisti dei fatti narrati, rappresentano, a nostro modo di vedere, dei modelli ancora validi.
Alla luce di tutto ciò, la Fondazione Terra d’Otranto ha deciso di ristampare il Libro d’Annali rieditando parte della dettagliata versione trascritta nel 1936 da Nicola Vacca. La speranza sottesa a tale pubblicazione è che essa possa largamente diffondersi nelle aule dove si formano i nuovi cittadini, nelle case e nei luoghi di ritrovo, dove vivono ed operano i neretini di tutte le età. Le gesta dei nostri concittadini, narrate da uno di loro, possano rappresentare da un lato uno stimolo alla conoscenza della propria storia, dall’altro un invito a vivere con pienezza ed attivamente il presente, schierandosi sempre a difesa dei propri diritti e della propria identità.
Lo spettacolo teatrale ‘Pòppiti ‘ è tratto dall’omonimo romanzo (Il Rosone, 1996) di Giorgio Cretì, (Ortelle, 1933-2013). L’adattamento teatrale del testo è della scrittrice Raffaella Verdesca, la regia di Paolo Rausa.
Protagonista della vicenda narrata e rappresentata è il mondo rurale salentino con le sue fatiche, le sue passioni, la sua voglia disperata di amore, a cui fanno da contorno il paesaggio naturale, i prati, le erbe e le malerbe, presenze animate che colorano la vita dei nostri ‘pòppiti’, i contadini, i cafoni.
Sullo sfondo incombe la guerra di Libia, è il 1911. Tripoli, bel suolo d’amore! Nel minuscolo universo della masseria si intreccia la storia d’amore di Ia e di Pasquale, che l’ha ingravidata e perciò decide di portarla via, in fuga. Pasquale è poi richiamato in guerra, Ia resta col bimbo da svezzare. Il marito è fatto prigioniero e per mesi non dà sue notizie. Sindaco e speziale non sanno dire niente di più sulla sua sorte. La ragazza soffre la solitudine. Potrebbe avere tutti gli uomini delle masserie vicine, ma a guardarla con desiderio è il vecchio suocero. Quando Pasquale ritorna, trova la situazione che meno si sarebbe aspettato. Un dramma che spinge ancora una volta alla fuga con la moglie e il figlio, per iniziare una nuova vita dove può coltivare un’altra terra, lontana, quella che “con il sangue abbiamo conquistato in Libia”.
La Compagnia ‘Ora in Scena’ ha rappresentato questo spettacolo, una storia d’amore e di passione nel Salento rurale, in anteprima il 1° gennaio 2014 al Faro della Palascìa a Otranto all’Alba dei popoli, aspettando il nuovo anno, a Ortelle il 1° giugno, il 10 agosto alla masseria di Capriglia, fra Vignacastrisi e S. Cesarea Terme dove nel 1911 si svolsero i fatti narrati nel romanzo, il 30 agosto al Parco archeologico dei Messapi di Vaste (frazione di Poggiardo), il 22 ottobre alla Fiera di S. Vito a Ortelle (Le), il 10 dicembre 2014 allo Spazio Oberdan-Cineteca Italiana di Milano e il 1° maggio 2015 al Teatro Comunale ‘Domenico Modugno’ di Aradeo.
Dal soffitto della piccola e preferita stanza, affacciata civettuola su pini e ulivi, vorticano, a mezza velocità, tre pale chiare, che agitano la massa d’aria racchiusa fra le pareti e/o andante, dentro fuori, attraverso le feritoie delle tapparelle.
Ne derivano, rivoli di ventate, non importa se del tutto naturale o forzose, mai così confortevoli, che, provvidenzialmente, aiutano a respirare, a trovare sollievo nell’attuale fase di calura, obiettivamente decisa se non opprimente.
Non annoi il particolare, ricorso alle pale, giacché l’eremita della “Pasturizza”, da alcuni anni, la scelto di tener mute le bocchette seducenti e, bisogna riconoscerlo, senz’altro più attuali ed efficaci, del climatizzatore.
Del resto, non c’è che dire, ogni età viaggia e si accompagna a determinati effetti collaterali o a problemi di controindicazione.
Oggi, ricorre la vigilia del 15 del mese vacanziero per antonomasia, della festa dell’Assunta, come a me piace appellare il giorno, in luogo della definizione diffusa e modaiola.
Per mia buona sorte, non vado registrando unicamente la spinta salutare delle pale appese un po’ in alto, ma anche, finalmente, la spinta al ritorno alle dita impugnanti una penna.
Mi riabbraccio con la diletta sorella scrittura, dopo una lunga parentesi, quanto meno tre stagioni nel senso astronomico, d’abbandono, apatia, riluttanza, deconcentrazione, invero mai capitatami durante i tre lustri di narrazione, racconti, materiale ed effettivo trasferimento d’emozioni, volti, luoghi, immagini, storie, dalla mente e dal cuore al fedele foglio, alle abituali e copiose raccolte.
Guarda caso, mi piace molto annotare questa concomitanza, proprio nell’odierna mattinata, in occasione di un breve incontro, la giovane amica Ada mi ha lasciato in dono il suo volumetto di poesie avente per titolo “Emozioni del tempo”.
Laddove, io, ragazzo di ieri, sono consapevole che, rovesciando le parole, devo vivere il tempo che mi rimane con l’accortezza di non fargli mancare, neppure per un istante, la compagnia, giustappunto, delle emozioni.
Insomma, se mi è permesso l’auspicio, siano, le presenti righe, benvenute e salutari al pari e ancora di più delle pale del ventilatore richiamato all’inizio.
Stamani, come successo durante tutta la settimana, la mia sveglia ha suonato di buon ora e, alle 6:00, mi trovavo già alla “Marina ‘u tinente”, per portare a compimento un’operazione agricola caratteristica e fondamentale in questa stagione: la raccolta con un rastrello, in piccoli mucchietti opportunamente posizionati e distanziati ai piedi dei giovani ulivi, delle erbacce, rasate, quando non sradicate, mediante il decespugliatore, nello scorso mese di luglio.
In stagioni lontane, i miei famigliari o compaesani erano soliti porre in atto l’intervento in discorso, con l’analogo scopo di liberare e far meglio respirare gli strati di terra rossa, in un’unica fase, detta “roncatura”, imperniata su forza di mani, braccia, spalle, gambe, ovviamente fra bagni di sudore, questi ultimi immancabili e inevitabili pure adesso.
S’è trattato, non v’è dubbio, di un lavoro un tantino faticoso, e però l’esecutore, lungo la sequenza dei terrazzamenti della predetta Marina, che s’arrampicano progressivamente sino a un dislivello di quarantacinque metri, ha avuto, in cambio, la gioia d’essere ripagato, da un lato dalla vicinanza con il silenzio più assoluto e corroborante, dall’altro dalla visione, sull’arco d’orizzonte di fronte, della prima ascesa del sole, una palla coloro rosso acceso e vivo d’autentico sogno e dell’incantevole tratto costiero in direzione S. Maria di Leuca.
Inoltre, a fatica agricola ultimata, sul percorso di ritorno a casa in scooter, non sono mancate due istantanee felici, in linea o in qualche modo collegate con lo scenario appena vissuto.
Prima immagine, sotto un secolare albero d’ulivo, in un appezzamento di sua proprietà, l’anziano amico e compaesano Angelo, da giovane tenace lavoratore dei campi ma anche suonatore d’armonica a bocca, ora un po’ limitato nell’incedere e nei movimenti, intento a spargere intorno alla pianta un bel quantitativo di bucce o scorze di frutti di fico d’India, chiaramente con finalità di ammirevole e lodevole concimazione naturale.
Seconda sequenza, poco più avanti, in un altro fondicello, ecco Orlando, intorno ai novanta compleanni, il quale più facilmente del primo si muove ancora in sella a uno scooter che, da parte sua, d’anni d’immatricolazione, ne conta all’incirca la metà di quelli del proprietario guidatore.
Orlando, dunque, occupato a raccogliere, con l’ausilio di un coltellino e senza tema di pungersi le dita con le spine dei fichi d’India, un bel mucchio di tali gustosi frutti di stagione.
Ritornando al titolo di queste righe, io, rispettando la consuetudine, nell’entrante festività dell’Assunzione di Maria in cielo, mi riprometto di sottolineare la ricorrenza non seguendo le ritualità e abitudini quotidiane – commissioni varie, uscite in barca – bensì con due piccoli, e tuttavia per me assai indicativi, accenti: indifferente al traffico accentuato e alle moltitudini di turisti e bagnanti, compirò una lunga camminata da Marittima a Castro e viceversa, con passaggio e una breve sosta, verso la fine , fra conosciuti vialetti di cipressi, per un saluto e l’augurio di “Buona festa dell’Assunta” ai miei.
Coloro che dal 30 aprile al 3 maggio 2015 hanno visitato la sesta edizione di “Externa – Salone nazionale dell’arredo degli spazi esterni” presso il polo fieristico di Piazza Palio, si saranno certamente imbattuti in “Exter Arte”, rassegna curata dall’artista Stefano Garrisi e dedicata alla scultura. Qui ho apprezzato per la prima volta, tra le altre, le opere di Enzo De Giorgi.
Con quest’ultimo il 24 luglio ci siamo incontrati de visu a Tuglie (LE) dove alcune sue opere erano esposte insieme a quelle di altri artisti all’interno del Museo della Civiltà Contadina del Salento, in occasione di “CARPìE – Miscellanea Visiva”, mostra collettiva di arti figurative realizzata in concomitanza con la decima edizione del “Premio Teatrale Nazionale Calandra”.
Enzo apprezza sin da subito la mia attenzione nei riguardi dei suoi disegni e senza indugio si rende disponibile per un incontro. Lo raggiungo dopo qualche giorno nella sua abitazione a Trepuzzi (LE) alle 10:30 di una torrida mattina di agosto.
Ci accomodiamo all’interno di un ampio salone passando attraverso una casa dove è difficile scorgere angoli di parete sgombri da tele, sculture, piastrelle decorate e altri oggetti d’arte.
Il mio sguardo si posa su alcuni violini e il padrone di casa mi spiega che fanno parte di una passione del padre di costruire strumenti musicali e affini.
Poi è lui a prorompere con una domanda, chiedendomi quali particolari mi abbiano attratto nei suoi quadri. Io gli rispondo che ho trovato curiosi gli elementi tipici del paesaggio salentino all’interno di rappresentazioni contemporanee come i “fumetti” che realizza.
D.:
So che attualmente insegni Discipline Pittoriche presso il Liceo Artistico di Lecce. Insegnante e artista prolifico. Quale delle due passioni è nata per prima?
R.:
“Necessitate virtute”, sarei tentato di dire.
Bisogna premettere che ci sono artisti che nascono da famiglie agiate e che hanno per questo la comodità economica che consente loro di frequentare l’Accademia di Belle Arti e gli artisti, di dipingere ed esporre tranquillamente. Per me è stato diverso perché, viceversa, vengo da una famiglia normale: mio padre operaio, mia madre casalinga. Io il maggiore di cinque figli. Aggiungici che in casa non c’era una tradizione scolastica, ciò significa che dopo la terza media si andava direttamente a lavorare presso il primo cantiere edile che fosse in cerca di manovalanza. Ma amavo disegnare, così a quattordici anni convinsi mio padre a iscrivermi all’Istituto d’Arte. Andò lui stesso in segreteria e dato che di professione faceva il fabbro/serramentista, quando gli dissero che tra i vari corsi c’era la sezione “arte dei metalli” lui non ebbe dubbi su quale fosse l’indirizzo degno di suo figlio. È superfluo aggiungere che avrei voluto fare pittura.
Chi ha frequentato questo genere di istituti sa che le classi, pur appartenendo a percorsi differenti – arredamento, ceramica, tessuto, ecc. –, si mescolano durante le lezioni delle materie comuni; trascorsi così cinque anni sbirciando nelle cartellette dei compagni, tra i loro appunti, nell’intento di carpire e apprendere informazioni su quella che già allora era la mia grande passione: disegnare.
In quegli anni, tra l’altro, presso l’Istituto d’Arte di Lecce insegnavano grandi maestri del colore come Oronzo Castelluccio e Alberto Moscara.
Il riscatto avvenne con l’Accademia perché mi iscrissi nel corso di decorazione. E qui mi riallaccio alla tua domanda perché la necessità di dipingere è sempre andata di pari passo con la possibilità di poterlo fare.
Iniziai a frequentare l’accademia delle Belle Arti di Lecce subito dopo il militare e nel frattempo, per mantenermi negli studi, lavoravo in un albergo come portiere di notte. Ora puoi immaginare benissimo che la mattina avevo giusto il tempo di levarmi dal collo la cravatta e indossare i jeans prima di entrare in aula.
Non ho mai avuto la possibilità di fare “l’artista a tempo pieno” ma studiai per esserlo anche quando dovevo guadagnarmi da vivere. E fu così che in albergo arrotondavo vendendo i miei primi quadri.
D:.
Chi acquistava le tue opere?
R.:
Solitamente erano i clienti dell’albergo, persone che venivano soprattutto dal nord Italia ad alcune delle quali ho arredato interi appartamenti solo con i lavori che realizzavo in accademia. Difatti non mi è rimasto quasi nulla di quel periodo, solo qualche rullino pieno di foto da sviluppare.
D.:
Ho letto che le prime cattedre furono nel nord Italia; per scelta o anche lì si è trattato di necessità?
R.:
Già quando nel ’94 – sotto gli insistenti consigli di un amico – feci la domanda per l’insegnamento era molto difficile essere presi qui nel meridione, così scelsi un’altra destinazione. All’epoca la provincia di Cuneo era stata completamente allagata da una tremenda alluvione e quindi pensai che fosse poco ambita. La deduzione si rivelò esatta e iniziai con la trafila delle prime supplenze. Poi non ero proprio solo perché in provincia di Asti avevo dei parenti coi quali trascorrere qualche fine settimana.
D.:
In una descrizione che fai di quel periodo lo definisci “esilio”. Sono stati dodici anni difficili?
R.:
Ho diversi amici che hanno fatto il mio stesso percorso, ma la maggior parte di loro ha avuto la fortuna di installarsi in un unico paese per insegnare, magari anche nella stessa scuola. Per me è stato diverso perché la provincia di Cuneo è la più estesa del Piemonte e forse d’Italia – per questo viene anche detta “la Granda” – dove ci sono città che distano anche cento chilometri l’una dall’altra. Io, puntualmente, ogni anno venivo trasferito in posti diversi ed ero costretto a fare una vita da zingaro. Tieni conto che nel 2000 è nato mio figlio e quindi tutta la famiglia si spostava con grandi difficoltà tra paesi e regioni.
D.:
A Lecce dopo quanto sei tornato?
R.:
A Lecce sono rientrato nel 2008 in “assegnazione provvisoria” per diventare definitiva dopo un paio d’anni. Adesso sono già al quarto anno scolastico presso il Liceo Artistico e da quest’anno curo tre rami differenti essendo stato inserito nei corsi di Grafica e Multimedia oltre a quello di Pittura, naturalmente. Sono onorato e molto soddisfatto perché l’istituto vanta colleghi insegnanti molto preparati e, cosa più importante, coltivo con i miei ragazzi una buona intesa.
D.:
Hai delle figure di riferimento dei tuoi anni da allievo?
R.:
Come dicevo, avendo frequentato controvoglia la sezione dedicata ai metalli, lì non ho subìto l’influenza di importanti personalità. L’unico grande maestro al quale fui legato era lo scultore Nino Rollo. Ricordo che mi chiamava fuori dalle sue ore di lezione, durante educazione fisica o religione, per stare insieme a disegnare. Purtroppo è deceduto nel 1992, non aveva ancora compiuto cinquant’anni.
Qualche traccia del suo ascendente sulla mia produzione la si individua più in alcune sculture in effetti, poiché nella grafica io ero attratto più dai fumetti. Rollo invece era amante delle forme pure, sull’onda di Constantin Brâncuși e Henry Moore, promotori di quello stile pulito ed essenziale.
In ogni caso, benché con Rollo avessi un rapporto affettuoso e collaborativo, si tratta di influenze marginali perché io credo che ogni artista debba individuare un proprio stile espressivo che è univoco e inequivocabile, una sorta di tratto calligrafico e non uno “scimmiottamento” dell’estro altrui.
D.:
Lo studio del tuo segno caratteristico ora si è fermato oppure è in evoluzione?
R.:
Ciò che realizzo è frutto di un gesto naturale, spontaneo e per nulla forzato, perciò attualmente credo di aver raggiunto uno stile abbastanza autentico e riconoscibile. Certo è che, a confronto, i miei primi disegni erano caratterizzati da contorni molto più spigolosi rispetto agli attuali e questo è sintomo di una costante evoluzione. Anche la produzione pittorica ha subìto delle importanti metamorfosi dal punto di vista tecnico: agli esordi creavo opere polimateriche che contemplavano persino l’uso di parti meccaniche o elettriche come ingranaggi o transistor e quindi completamente differenti dalla produzione attuale.
Oggi, nella mia mente, continuo a concepire una infinità di progetti che spaziano dal fumetto alla digital art, passando per la scultura ma a causa di diverse ragioni non tutte le mie idee sono destinate a vedere la luce.
D:.
Infatti guardandomi intorno non posso non notare opere realizzate in maniera totalmente differente; vedo tufo, pietra leccese, schizzi con penna biro, terracotta e ovviamente tele. Quanto conta la ricerca sulla materia per te?
R.:
L’arte è ricerca! Non esiste l’una senza l’altra e se non crei nulla di nuovo stai solo rifacendo te stesso oquello che altri hanno realizzato prima di te, quindi sei a un punto morto.
D.:
Tra i nomi dei grandi maestri quali sono quelli che maggiormente hai amato?
R.:
Negli anni ’80 il fumetto, per noi ragazzi, rappresentava una forma di creatività assoluta e a me piaceva molto Andrea Pazienza, forse perché anche lui era di origini pugliesi. Da Pompeo a Zanardi ho amato tutti i suoi personaggi. Morì a 32 anni ma aveva già realizzato dei capolavori assoluti. Restando nella sfera fumettistica non posso non citare grandi maestri come Manara e Pratt. Tra gli illustratori contemporanei trovo notevole Gipi, col suo segno volutamente istintivo e una narrazione avvincente.
Per quanto riguarda la pittura invece i nomi sono diversi ma sempre appartenenti al ‘900: Picasso, Matisse, Paul Klee, Mirò, Chagall tracciano in modo certo quello che potrei definire il mio punto di partenza.
D.:
Quanto ti hanno influenzato i fumetti da ragazzo?
R.:
Non mi posso considerare un accanito lettore ma hanno fatto comunque sempre parte della mia vita. A sedici anni, per gioco, partecipai a un concorso organizzato dalla celebre rivista Topolino realizzando una locandina per un film d’animazione della Disney. Vinsi il primo premio che consisteva in un viaggio negli Stati Uniti a Disney World. Forse quel piccolo evento mi ha influenzato in diverse scelte successive.
D.:
Quando disegni cos’è che ti stimola nella realizzazione di un quadro, un fumetto o una scultura?
R.:
Noi viviamo nel secolo in cui imperano i mass-media, quelli che ci bombardano con immagini, film, pubblicità e tanto altro ma per quelli della mia generazione la musica rappresentava e rappresenta ancora un forte catalizzatore della fantasia. Le storie raccontate da De Andrè, Fossati, Guccini, Lolli e tutti gli altri grandi cantautori hanno contribuito alla nascita di molte mie opere. Difficilmente dipingo se sono slegato da una vicenda o da un racconto, che sia persino mitologico. E quando dipingo amo sempre avere la compagnia della musica.
D:.
C’è una corrente artistica che descrive le tue opere?
R.:
Sinceramente non saprei in quale filone stilistico collocare le mie opere. Forse a caratterizzarle è un certo surrealismo ma questo non implica assolutamente il fatto che io sia un pittore surrealista.
D.:
Una domanda che mi pongo spesso è se collaborazioni tra artisti nel meridione siano complicate. Lo chiedo a te che ai ragazzi, a scuola, insegni la cooperazione.
R.:
Le collaborazioni sono importanti ma non obbligatorie. È bello vedere insieme le individualità che si amalgamano ma è molto difficile che si realizzino lavori a più mani dove nessuno sia prevalso sulle scelte degli altri. Per quella che è la mia esperienza, la persona con la quale sono riuscito a individuare un’intesa artistica che si protrae e si rinnova da anni è Raffaele Vacca, eccezionale scultore col quale, tra l’altro, nella primavera del 2013 organizzai una mostra doppia personale presso la Fondazione Palmieri di Lecce, dal titolo “IronicOnirico”. Le due parole, l’una l’anagramma dell’altra, descrivono anche gli aspetti che sostanzialmente ci accomunano.
D.:
Le mostre sono l’unico mezzo di promozione per un artista?
R.:
Non solo. Prendo atto che i social network, per esempio, costituiscono il mezzo più efficace per farsi conoscere, più del sito internet personale e delle mostre, devo ammettere. Per essere pratici, la vendita qui nel Salento è disagevole perché i più ricorrono all’acquisto di un’opera d’arte quasi esclusivamente in occasione di un regalo, per un matrimonio o circostanze analoghe. Non è diffusa la cultura del collezionismo delle opere d’arte e men che meno dell’investimento. Il paradosso, infine, è che chi acquista il più delle volte non è spinto da un’intima attrazione verso la raffigurazione ma banalmente sceglie artisti già deceduti – o che comunque hanno raggiunto il culmine del loro valore economico – per mera convenienza, anziché puntare invece sui giovani emergenti che cercano di elevarsi tra mille difficoltà.
D.:
Le gallerie, in questo senso, possono offrire visibilità a un artista?
R.:
Probabilmente sì, ma per quanto mi riguarda, grazie soprattutto allo stipendio di insegnate (pur non essendo questo il massimo del guadagno..) che mi fa da paracadute, lascio che sia l’imprevedibile casualità a interessarsi di me. Come d’altronde casuale è stato il nostro incontro.
Ho avuto la possibilità di intraprendere la collaborazione con una pinacoteca ma i vincoli troppo restrittivi mi hanno indotto a desistere: se avessi accettato di sottoscrivere il contratto non avrei avuto neppure la libertà di regalare a un collega lo scarabocchio abbozzato durante un consiglio di classe. Per non parlare dei tempi e delle scadenze entro le quali avrei dovuto consegnare un determinato numero di opere. Mi è sembrato un ragionamento piuttosto meccanico, da catena di montaggio. L’arte ha i suoi tempi e le sue ovvie libertà. Lavorare nella scuola mi ha liberato dall’obbligo di dover “produrre arte” a tutti i costi per vivere.
D.:
Ho l’impressione che ci sia un proliferare di astrattisti. Un artista che elabora rappresentazioni figurative come percepisce l’arte informale?
R.:
È un dato soggettivo, ma personalmente, il più delle volte, nell’arte difficilmente riesco a percepire quello che vedo come una immagine fine a se stessa. Faccio un esempio. A me piace molto Alberto Burri. Quando osservo una sua opera, che si tratti di combustione della plastica o di lacerazione di un sacco di juta, non la vedo esclusivamente come nuda materia e neppure come fattore estetico, io ci vedo una città vista dall’alto, una foresta, oppure un corpo lacerato dalla guerra. Quindi mi viene naturale rapportare ogni immagine alla realtà oggettiva. Per semplificare ulteriormente dirò che un quadro informale può essere letto o come un dettaglio della realtà o la realtà vista da molto lontano. L’uomo, egocentricamente, tende a vedere e riconoscere se stesso e la realtà che lo circonda ovunque: nella forma delle nuvole, nella corteccia di un albero, nella macchia su un muro. Questo non significa negare o limitare l’importanza dell’astrazione, anzi, attribuisco all’arte informale un grande potere evocativo, lo stesso potere sensoriale che ha la musica di far immaginare, al suo ascolto, un prato verde, un mare in tempesta o dei cavalli bianchi…
D.:
Esiste una possibilità che l’arte diventi veicolo per il miglioramento della società?
R.:
Negli ultimi anni sto costatando l’incrementarsi di una genuina sensibilità da parte della società rispetto a determinati temi (ecologismo, contrasto all’abusivismo, lotta contro il maltrattamento degli animali, ecc.) che una volta erano a uso e consumo esclusivi dei pensatori, dei letterati, degli artisti in generale. Evidentemente, se in ognuno di noi si è sviluppata quella parte sensibile, lo dobbiamo anche a loro. Una società che scommette nell’arte non può che progredire in meglio.
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