Il documentarista Luigi Di Gianni torna ancora una volta nel Salento. Sabato 9 aprile 2016, a Montesano Salentino e a Ruffano, avrà luogo una giornata di studi in suo onore, al cui termine gli sarà conferita una cittadinanza onoraria. Tra i sessanta documentari girati e i vari sceneggiati televisivi, Di Gianni, presidente della Lucana Film Commission e già sodale di Ernesto De Martino, aveva girato, tra il 6 e il 7 agosto 1965, proprio a Montesano Salentino, il cortometraggio “Il male di San Donato”, un documento antropologico unico su pratiche terapeutiche ormai scomparse. Così, Silvana Serrano, sindaco di Montesano Salentino, e Carlo Russo, sindaco di Ruffano, su progetto di Alessandro Turco, in collaborazione con la “Fondazione Notte di San Rocco” di Torrepaduli, con media partner Telerama, hanno reso possibile l’ importante incontro odierno con il regista Luigi Di Gianni, nastro d’argento alla Biennale di Venezia del 1975 per il film “Il tempo dell’Inizio”.
A lui erano state dedicate, infatti, numerose rassegne internazionali presso vari Istituti italiani di Cultura (Vienna, Monaco di Baviera, Stoccolma, Helsinki, Copenhagen). E l’Università di Tubinga, oltre a dedicargli una retrospettiva personale, ha istituito una Fondazione Archivio per la conservazione e la diffusione dei suoi film documentari.
Il Festival di Berlino, nel 2003, lo ha celebrato con la proiezione di cinque sue opere. Anche per questo il ritorno di Di Gianni nel Salento assume un’importanza veramente significativa, cui gli ideatori hanno dato il tema Incontro con Luigi Di Gianni. Il cinema che si ispira all’antropologia. Il Sud del silenzio.
Nella mattinata del 9 aprile, alla presenza di folte scolaresche della scuola dell’obbligo, nel tragitto dalla chiesa matrice di Montesano al Santuario di San Donato, Di Gianni sarà accompagnato e intervistato dall’attrice Rosaria Ricchiuto. Nel pomeriggio, presso il Teatro dell’Oasi di Ruffano, dopo la proiezione di alcuni suoi filmati e i saluti istituzionali di Carlo Russo e Silvana Serrano, sindaci delle due cittadine, seguiranno gli interventi dello storico Ermanno Inguscio, dell’etnomusicologo Pierpaolo De Giorgi ( Comitato Tenico-Scientifico della Fondazione Notte di San Rocco, presieduta da Pasquale Gaetani), del regista Edoardo Winspeare e della conduttrice-regista della serata Rosaria Ricchiuto.
La presenza di Luigi Di Gianni in Salento, mirabile idea-progetto di Alessandro Turco, si configura anche come un omaggio a Ernesto De Martino, che nei suoi studi aveva etichettato questa terra japigia come “ terra del rimorso”, studiando fenomeni etno-antropologici tra Nardò, Torrepaduli, Lecce e Galatina. Luigi Di Gianni, sin dai tempi del suo documentario “Magia Lucana”, si era appassionato alle tematiche che istituiscono interessanti paragoni tra riti e costumi simili del tarantismo, e che per diverse ricerche aveva avuto la consulenza scientifica proprio di Ernesto De Martino.
Immagini e soggetti rappresentati del resto da Di Gianni e da Gianfranco Mingozzi consentono di riconoscere ritualità popolari ormai quasi scomparse e offrono lo spunto per uno studio e comparazione con l’analogo rito tradizionale e popolare della danza scherma, che si svolge ogni anno presso il Santuario di San Rocco di Torrepaduli. La relazione tra San Donato e San Rocco è di pregnante significato, perché si svolge in un’area omogenea di interesse etno-antropologica, nella quale la devozione popolare assume toni, caratteri e comportamenti simili e di un analogo significato terapeutico.
E’ quanto era stato già ribadito nei Meetings internazionali di Lisbona e Montpellier di qualche anno fa ed é proprio ciò che gli studiosi presenti all’incontro cercheranno di rimarcare alle comunità di Ruffano e Montesano Salentino, sotto l’egida storico-culturale del grande documentarista napoletano Luigi Di Gianni.
* Attento a quello che mangi tu oggi, perché potresti usare il tuo spiritoso, secondo te, regalo per me come carta igienica …
Dopo meno di un’ora:
* Il suo era un semplice cartello, quello che son riuscito io ad incollargli sulla giacca che, senza accorgersene, si è appena infilato, e un cartello-bersaglio; fra un decimo di secondo se ne accorgerà …
La voce daprile nell’intero testo cui si riferisce il frammento che ho riprodotto ricorre ben 39 volte. Sarebbe da stupidi considerarlo un errore di ortografia per una serie di motivi. Il principale, dal quale dipendono tutti gli altri, è costituito dal fatto che il volume è un incunabolo, cioè stampato a pochi decenni di distanza dall’invenzione dei caratteri mobili di Gutemberg. In testi simili, perciò, non si può pretendere l’accuratezza di stampa che è legittimo aspettarsi in quelli dei secoli successivi. Ecco, perciò, l’assenza di spaziatura in igrassi e iquali e, al contrario, la sua illegittima presenza in l ungamente; assente, poi, il segno dell’apostrofo (e questo dettaglio, come il precedente, riguarda l’intero testo) in lhumidita e in lacqua; era una scelta, a questo punto obbligata e coerente, comporre daprile e, per ben 29 volte nell’intero testo, solo ed esclusivamente dagosto. Poi, si sa, il calo dell’attenzione porta ad incongruenze ingiustificate come, nel frammento riportato (ma il discorso vale per l’intero testo) di giennaio da una parte prima e dall’altra poco dopo difebraio e dimarzo.
Quasi tutti, dunque, più che errori di stampa, scelte grafiche connesse con la tecnologia del tempo.
Oggi c’è il correttore automatico, ma, secondo me, è meglio fare attenzione, essere rigorosi, rivedere e, se è il caso, correggere piuttosto che fidarsi alla cieca di questo strumento. Il tributo del tempo da pagare è poca cosa di fronte a certe figuracce ed equivoci sempre in agguato. In alcuni casi particolari, poi, e il mio uso della scrittura rientra tra questi, il correttore automatico può dare solo fastidio. Come faccio, infatti a non tenerlo perennemente disattivato, obbligato come sono a riportare parole latine o greche, per non parlare di quelle dialettali, onde evitare che sul monitor appaia una specie di corrida multipla con tanti tori (le parole sottolineate in rosso) trafitti da banderillas?
La tecnologia che ci facilita la vita non deve essere un invito alla superficialità, alla mancanza di riflessione e di controllo, un catalizzatore della nostra ignoranza che trova il suo alibi in inesistenti tasti difettosi o nello spazio ristretto a loro disposizione sulla tastiera e nelle loro dimensioni, che propizierebbero non una singola battuta ma in parecchi casi un triangolo o, addirittura, un’ammucchiata …
Comunque: che nessuno mostri questo post a qualche studente (e non solo …) sufficientemente sveglio per sfruttarlo nel caso in cui si vedesse rimproverato il suo più che improbabile daprile!
di Pino de Luca
E’ quasi l’una di notte, il jet leg dell’ora legale mi ha scombussolato. Metto insieme i pezzi del prossimo articolo del venerdi. Sono contento, molto contento di come alcuni pezzi di Salento, in particolare uno che non disvelo, stiano crescendo in manera prorompente, quasi sia stato levato un tappo che li comprimeva. O forse è stato levato per davvero. Non è compito mio giudicare. E guardando le carte e le storie sono incappato nelle date, in vecchie foto e vecc…hi articoli. Vecchi si, come a volte mi capita di essere giudicato. Forse a buona ragione. In quelle vecchie foto, con tanti chili in meno e tanta rabbia in più ne ho trovate alcune di un 31 marzo fatto al Belvedere di Porto Selvaggio. Molti anni fa. Che tempi ho avuto l’onore di vivere, che persone ho avuto il piacere di conoscere, molte personalmente e molte per contatto pubblico. Era il 1984 alla prima esperienza di Consigliere Comunale da meno di un anno, cominciavo a comprendere cosa significava muoversi in un comune difficile, avere sulle spalle le speranze degli sconfitti da sempre e di fronte la forza e l’arroganza di chi aveva sempre vinto. C’era tanta fiducia, entusiasmo, ingenua lealtà e incrollabile fede nell’utopia dell’eguaglianza e del comun sentire. Era il 31 di marzo e giunse a notizia orrenda: Renata Fonte, assessore al comune di Nardò, era stata uccisa a colpi di pistola mentre tornava a casa. Sapevamo bene cosa fosse già la quarta mafia e sapevamo bene che cresceva grazie alla miopia e alla sottovalutazione, quando non alla complicità delle istituzioni.
Ricordo i giornali del tempo e le veline che, come sempre, cercavano di instillare nell’opinione pubblica idee balzane e, trattandosi di una donna, la pista passionale era la preferita. Fino ad indicare persino il marito come possibile coinvolto. Che vergogna. Molti anni dopo si capirà che dietro c’era una mano criminale ma mai si è giunti al terzo livello … ci si è fermati al secondo. Eppure le sentenze di quell’ulteriore livello ne parlano ma restò inaccessibile. E comunque Renata ha vinto. Il Salento ha ancora Porto Selvaggio strappato alla speculazione grazie proprio al suo impegno. A Sabrina e Viviana il mio caro saluto.
Ci sono state Persone come Renata che hanno dato la vita per la loro terra e ci sono persone che ne fanno strame vendendone brandelli ai passanti. Il Salento esiste, ma i salentini continuano ad esistere ancora?
A noi la scelta!!!
Sabato 2 Aprile alle ore 20,00 l’Associazione Culturale Labirinti Artistici, sita in via delle Anime n° 4 a Lecce, ospiterà la prima personale di Erika De Simone.
Il titolo della mostra Quaeridum (dalla composizione di quaerens e frigidum – “che cerca”-“il freddo”) è di per sé la summa delle principali caratteristiche delle opere in esposizione.
Erika, infatti, è un’artista in continua sperimentazione, alla ricerca dell’equilibrio nella composizione e dell’armonia nei colori.
In Quaeridum la sua esplorazione s’insinua attraverso cromie fredde e sguardi vacui, in una danza tra trasparenze e matericità, tra la simmetria della forma e l’incompiuto che lascia trapelare il supporto divenendo parte integrante del dipinto.
Protagonista assoluta è qui la figura femminile, osservata però da un punto di vista peculiare, come attorniata da una sensazione di smarrimento, al contempo immobile e vacillante. Anche la resa dell’incarnato, che appare marmoreo svuotato da qualsivoglia richiamo al rossore vivifico, asseconda la percezione d’incertezza che si percepisce in ogni lavoro.
La mostra rimarrà aperta fino a giovedì 7 aprile e potrà essere visitata ogni giorno negli orari di apertura dell’associazione: 9.00-13.00; 17.00-21.00.
Ogni qualvolta ci accingiamo a parlare del Salento, sappiamo bene che ogni definizione di questa nostra terra appare riduttiva rispetto alla ricchezza della realtà che vuole descrivere. Crocevia di popoli, di civiltà, di saperi e sapori, di testimonianze e tradizioni; terra di pietre e grotte affascinanti, mari incantevoli, paesaggi solari e verdi pianure, di macchie spinose e colline sassose.
Potremmo dire che il Salento ha mille frecce al suo arco: cultura, arte, storia; o mille perle traboccanti da uno scrigno misterioso. Terra capace di farci provare emozioni infinite, atmosfere dense di segreti arcaici. Natura che tocca tutti i sensi, esaltandoli: scorci, suoni, sorrisi, profumi, gusti, musiche, lingue.
E ancora : terra di approdi, di conquiste e incursioni, disseminata di castelli, torri , masserie e cinte fortificate. Mosaico dalle mille tessere, caleidoscopio dalle infinite inimmaginabili sfumature cromatiche, favola in cui la narrazione si arricchisce di continui colpi di scena, in cui la misera vita di contadini e pescatori s’intreccia con le vicende dinastiche dei potenti, i muretti a secco e “li furnieddhi” contrastano con le dimore storiche nobiliari, con le architetture barocche e le ville liberty.
Terra di santi, poeti, marinai,contadini fieri del loro pane nero e vino forte, dell’olio dorato di trappeto: piatti da leggere e storie da mangiare!
Terra del mito, della memoria, di sirene e delfini, di mestieri e di danze, cripte nascoste in macchie di carrubi, corbezzoli, mirti, in campi profumati di mentastra, finocchietto e timo.
Distese infinite di olivi d’argento e di vigneti preziosi che da millenni continuano generosamente a regalarci oro liquido e nettare degno di dei.
E il mare: oltre duecento chilometri d’incanto e di suggestione. Strapiombi selvaggi battuti da tramontana e grecale sul versante adriatico,da S Cataldo a Leuca; lidi sabbiosi, dune sfarinate dallo scirocco sullo Jonio, da Leuca a Porto Cesareo.
Sorprendenti successioni di grotte marine, isolotti, scogliere, baie, falesie, arenili, e zone umide che non hanno pari in tutto il Mediterraneo.
Mare blu, turchese, verde smeraldo, che bisognerebbe percorrere col ritmo antico e cadenzato delle barche a remi o con quello dolce e silenzioso delle vele per poterne cogliere intensamente la magia.
Apuleio affermava: “Lo zefiro in terra d’otranto si chiama japigio” ed era opinione di Greci e Romani che lo scirocco nascesse dal promontorio Japigio che da Leuca porta ad Otranto.
Cicerone parla di Otranto come ponte magico per la Grecia, raggiungibile in cinque ore di navigazione. Strabone, Plinio il vecchio, Antonino Augusto citano il Salento come affascinante “itinerarium” verso l’Oriente. Virgilio narrò l’approdo di Enea in Salento: lo sbarco che avevamo identificato con Porto Badisco è stato dimostrato essere invece Castro, il “Castrum Minervae” del verso 677 del terzo libro dell’Eneide. “…il porto dell’ euròo flutto a riparo curvasi in arco; spumano del salso spruzzo le opposte rocce, esso si addentra; in doppio muro abbassano i turriti scogli le braccia e si fa indietro il Tempio.”
La storia e le storie si mescolano e popolano l’immaginario di noi Salentini, si sedimentano nella nostra identità e ci danno una particolare misura del tempo, una misura rarefatta e fluida, che è solo nostra, salentina.
Penso a Khalil Gibran che nel “ Profeta “ afferma: “Ciò che in voi è senza tempo sa che la vita è senza tempo e sa che ieri e domani non sono che il ricordo e il sogno dell’oggi “.
Ed anche al grande Agostino d’Ippona che afferma: “ La misura del tempo è il cuore dell’uomo” . Niente di meglio per definire il cuore, la passione,l’attaccamento alle radici, le memorie ancestrali del popolo salentino; il legame tra il passato e il nostro tempo quotidiano.
Siamo gli abitanti di una terra che fu meta e approdo di peregrinazioni memorabili, storiche e mitiche: Cretesi, Greci, Micenei, Messapi, Romani, Bizantini. E ancora Normanni , Svevi, Angioini, Aragonesi, Spagnoli. Una terra che fu Messapia, Calabria, Terra d’Otranto, Salento.
Innumerevoli fattori culturali, naturalistici, storici; letterari, artistici, folkloristici, che componendosi in armonia, formano quella meraviglia che chiamiamo salentinità.
Agli albori della storia, circa dodicimila anni fa, esisteva, a Ovest delle Colonne d’Ercole, una terra circondata dalle acque, in cui prosperava un regno dalla florida economia e dalle belle arti, ma… nel giro di un giorno e una notte, scriveva Platone nei suoi dialoghi con Crizia e Timeo, questa terra scomparve negli abissi dell’oceano, per misteriose cause naturali. “Atlantide” era il suo nome, dal nome del suo primo mitologico Re, Atlante figlio di Nettuno, forse presagio di quella fine… in fondo al mare.
Quel mondo passato, meraviglioso e affascinante, che si inabissa così d’improvviso nella notte dei tempi, lascia a noi o a chi gli si avvicina con l’immaginazione e col pensiero, ancora oggi a distanza di tanti millenni, una spiacevole sensazione di vuoto che vorremmo ricolmare riportandone a galla almeno la storia.
Quanti storici, studiosi, pensatori, sin dall’antichità, sono stati attratti da quel fantastico mondo scomparso… mentre altri, in epoche diverse, hanno tentato di cancellarne ogni traccia e ogni riferimento per opportunità politica o culturale.
Nel Medioevo, infatti, l’esistenza di una terra oltre i limiti del mondo allora conosciuto, non la si poteva nemmeno lasciare immaginare alla gente comune per non destabilizzare i cardini immodificabili della cultura di quel periodo. Era più che necessario, per i detentori della scienza di allora, che il mondo di Atlantide al di là delle colonne d’Ercole, con tutta la sua storia reale o virtuale che fosse, venisse occultato, caricandolo di pregiudizi e di paure e impedendone anche il semplice “racconto”, affinché non si permettesse alla mente umana e ai naviganti di mare e di pensiero, di varcare i limiti imposti dalla scienza ufficiale del tempo.
Non ci sono certezze sulla vera esistenza di quel mondo reso così verosimile dai racconti di Platone, da risultare comunque vivo e vero, tanto da entrare a far parte della storia, o come realtà concreta o come realtà di pensiero. Ma ogni cosa che entra a far parte della storia a qualunque titolo, la storia stessa ci insegna, in essa sarà per sempre e per quanto gli uomini possano e vogliano tentare di occultare un evento o una corrente di pensiero, non potranno mai cancellarlo da essa, come se non fosse mai esistito o pensato.
Quanti altri mondi scomparsi, o che si credevano tali, continuano a vivere in noi e nella storia successiva, in modo celato o manifesto, a volte in maniera ancor più intensa, quando l’uomo, per opportunità personali, ha cercato volutamente di cancellarli? La storia è piena di questi esempi, da quelli storici eclatanti, fino, nel nostro piccolo, ai mondi passati anche recenti delle nostre origini, belli e affascinanti nel ricordo, e poi apparentemente scomparsi o volutamente fatti scomparire!
Quanti esempi ci vengono alla mente in questo contesto, che ci aiutano a meditare su tutto ciò…
Nell’antico Egitto ci fu un Faraone, Akhenaton, che, ebbe l’ardire di trasformare radicalmente la religione e il clero di allora, radicato e consolidato da millenni di storia. Questi, come tutti sappiamo, fu il primo promulgatore della religione monoteista e dopo la sua morte, per rivalsa, si cercò di riportare lo stato delle cose a com’era prima del suo intervento e di far sparire ogni traccia della sua esistenza terrena, cancellando ogni segno e simbolo che riconducesse a lui e al suo successore Tutankhamon. Ma sia il nome di Akhenaton e Tutankhamon, sia la religione monoteista, sono sopravvissuti a quei tentativi di occultamento: oggi, per interesse e conoscenza, hanno superato gli altri faraoni e spiazzato le religioni politeiste del tempo.
Gesù di Nazareth, vissuto in Giudea, al tempo di Ponzio Pilato, governatore di quella regione durante l’Impero Romano, si cercò di farlo scomparire dalla storia già dalla nascita e fin dopo la morte. Viene spontaneo chiedersi: quanti, al tempo in cui Gesù era in vita, potevano considerare e conoscere il suo nome, rispetto a quanti invece conoscevano e temevano quello dell’Imperatore? E oggi, a distanza di due millenni, quante persone considerano o semplicemente conoscono il nome di Gesù di Nazareth in tutto il mondo, rispetto a quanti sanno solo dire chi sia l’imperatore Tiberio e cosa abbia fatto durante il suo regno? Come e perché, un apparente “povero Cristo”, dopo essere stato ucciso e occultato ha superato in maniera spropositata nei millenni della storia successiva, la notorietà dell’imperatore del mondo di allora? L’unica cosa che possiamo dire è che tutto ciò che è nella storia, non può sparire da questa, e nella storia stessa ogni cosa avrà in seguito l’importanza o la risonanza che si merita, quasi beffeggiando l’impegno che gli uomini mettono nel modificare, amplificando o occultando, certi eventi.
Tra gli ordini monastici del Medioevo si distinsero per gesta e conoscenza i Templari, di cui si cercò, tramite la scomunica, di accaparrarsi le ricchezze e di farne scomparire ogni traccia. Oggi, tra tutti gli ordini monastico-cavallereschi di allora, sono quelli che suscitano più interesse e… forse anche proseliti.
Con un salto pindarico e, senza immaginare ancora cosa la storia ci riservi in seguito, mi sono ritrovato con la mente al tempo dei primi anni di scuola – e non solo ai primi – quando nell’insegnamento della storia, dopo aver dato il giusto risalto allo studio dei Greci e dei Romani, si nominavano gli antichi stati italiani, tra i quali spiccava il Papato, il Piemonte col Regno di Sardegna, il Regno Lombardo-Veneto e poi, appena accennato, il Regno di Napoli, senza che ci potesse nemmeno sfiorare l’idea che di fatto era stato per oltre mezzo millennio il nostro regno, con Napoli capitale e i suoi Regnanti dai Normanni fino ai Borboni, quasi del tutto sconosciuti a noi studenti. Era quasi come se la nostra terra non fosse mai esistita almeno fino a quando è entrata nella storia con i vari Mazzini, Garibaldi e Vittorio Emanuele II Primo Re d’Italia, ecc…
Mi chiedevo allora, studente, noi chi eravamo prima dell’arrivo dei Piemontesi? Il nostro mondo, la nostra comunità, la nostra terra, i nostri padri non avevano una storia prima di quella data? Sconosciuti figli di NN, eravamo costretti quindi a studiare la storia, che era solo la “Storia degli altri”… Due risposte molto semplici mi venivano spontanee per quei problemi così posti: o noi non avevamo una “storia propria degna di nota” che riguardasse il Regno di Napoli con la sua economia, i suoi regnanti, i suoi artisti, oppure, per la politica dell’insegnamento di allora, era opportuno non farcela conoscere. Quella storia doveva scomparire anche dalla memoria, immolata al nobile ideale della nostra bella “Italia Unita” (o piuttosto immolata agli interessi del Nord e della sua, di lì a breve, industrializzazione, realizzata con il capitale, prima, e la manodopera, poi, prelevati dal Sud). Era meglio che la nostra “vecchia” storia scomparisse, perché il sentimento patriottico per l’Italia non fosse adombrato da rancori su quanto ci era stato tolto e quanto ancora avremmo dovuto subire.
Ed ecco che, come Atlantide, pure quel nostro mondo così ricco, anche d’arte, colori, musica e poesia (basti pensare a Napoli del Settecento) nel giro di pochissimo tempo scompare rapidamente nel nulla per evidenti opportunità politiche.
Nella storia, però, e in noi con essa, anche se occultato, resterà per sempre.
La nostra economia subì quindi una brusca frenata. Avevamo perso gran parte delle nostre ricchezze, ma in compenso avevamo imparato a produrne altre, che consistevano nell’aiuto reciproco, nell’affetto e nel calore umano, nuovi valori su cui contare per vivere dignitosamente e superare le difficoltà quotidiane, all’insegna del rispetto per la vita, dei doveri a essa legati e dei rapporti umani.
Avevamo dato vita a un nuovo mondo, il “Nostro Mondo Meridionale”, misero nell’economia, ma ricco nei valori umani, nella sopportazione delle difficoltà con determinata accettazione di ogni regola e dovere.
Accettare di emigrare per lavoro, lontano dai propri affetti; accettare di partire in guerra per la nuova patria affrontando lutti e gravi disagi familiari; accettare e rispettare la persistenza delle classi sociali, senza invidie, rancori e recriminazioni, quale struttura portante della società in cui si svolgeva la “Vita”, sufficiente da sola a ripagare ogni sacrificio; erano gli esempi di un mondo basato sull’Essere e non sull’Avere. Un mondo pieno di difficoltà, ma anche di tanta umanità e poesia; un mondo vero e concreto, ma comunque destinato anch’esso a evolversi e quindi a scomparire. Siamo passati così, in breve tempo, da un mondo basato sui “doveri pacatamente accettati”, a un altro dai “diritti a volte a prescindere” per un “Avere” che spesso rende gli uomini schiavi di se stessi, insoddisfatti, inappagabili e “miseri” in tutti i sensi.
È banale quindi fare delle critiche a quel mondo avendo come riferimento quello attuale e viceversa, specialmente considerando che quest’ultimo non è altro che la progressione del primo. Sarebbe come se un figlio professionista misconoscesse il padre contadino che ha faticato per dare una professione alla sua discendenza o viceversa. Non possiamo giudicare una cosa fuori dal suo contesto. Non possiamo dire e nemmeno pensare, per non rasentare la stupidità, che ieri era meglio o peggio di oggi. Ogni organizzazione sociale è stata determinata dalla stessa società secondo le sue esigenze del momento e il rispetto per quelle sue regole, anche se errate o inadatte per il mondo successivo, è d’obbligo da parte di ognuno al di fuori di esso.
La facile critica che si potrebbe fare oggi è quella della miseria della povera gente. A tal proposito, però, posso affermare che tra i pochi superstiti di allora, i maggiori nostalgici di quel mondo, sono proprio quelle persone provenienti dalle classi meno abbienti. Il vedere quei vecchietti e vecchiette illuminarsi nel volto ai ricordi belli e brutti della loro infanzia, e iniziare racconti interminabili sulla loro vita, esperienze, conoscenze e rapporti anche con i cosiddetti “signori” senza che si possa percepire alcuna invidia verso di questi, ma rispetto e addirittura gratificazione per la loro “vicinanza”, mi fanno ricredere sul concetto di “miseria”, che può avere diverse accezioni, di cui quella economica, non è certo la peggiore. Al contrario, non ho mai notato quello stesso trasporto illuminante che ho riscontrato nei poveri anziani, nelle parole e nel volto dei sopravvissuti “signori” del tempo, a evidenziare che quel mondo era veramente una realtà diversa da quello che oggi possiamo immaginare e stupidamente criticare. Quel mondo era e sarà il mondo ormai estinto delle nostre origini. Un’altra “Atlantide” inabissatasi così repentinamente nei flutti inesorabili del Progresso e del Divenire, per dare vita e spazio a quello attuale.
A quel mondo, senza nostalgia, ma con tanto affetto, sono dedicate le riflessioni e le poesie che seguiranno.
Il Salento piange Giuseppe Corrado: il “migliore scultore italiano”
MONTESANO SALENTINO – Si è spento nella notte sua casa-museo di Montesano Salentino a 56 anni. Il Salento piange Giuseppe Corrado, pittore e scultore noto e apprezzato in tutto il mondo, che per seguire l’istinto di artista abbandonò giovane, a soli 24 anni, l’insegnamento nella scuola pubblica.
Diplomato al Liceo artistico di Lecce e laureato in Scienze motorie a Foggia, si dedicò per un breve periodo…
Eroi senza volto. E dimenticati. Sabato 12 marzo (ore 21), al Teatro Cavallino Bianco di Galatina (via Grassi, 0836.569984), va in scena “Milite Ignoto – quindicidiciotto”, uno spettacolo di e con Mario Perrotta, tratto da “Avanti sempre” di Nicola Maranesi e dal progetto “La Grande Guerra, i diari raccontano” a cura di Pier Vittorio Buffa e Nicola Maranesi, collaborazione alla regia Paola Roscioli, luci e suoni Eva Bruno, produzione Permàr/Archivio Diaristico Nazionale/dueL/La Piccionaia. Durata 70 minuti.
Riannodando i fili della Storia con una lingua d’invenzione che impasta tutti i dialetti del nostro Paese, Mario Perrotta racconta il primo, vero momento di unità nazionale, esperienza umana e politica, prima ancora che militare. Lo spettacolo riporta in teatro l’eco lontana delle voci e delle sofferenze dei soldati della prima guerra mondiale che si incontrano in trincea, metafora della perdita di identità di un popolo disgregato nell’immane massacro. Proprio nelle trincee di sangue e fango del primo conflitto mondiale veneti e sardi, piemontesi e siciliani, pugliesi e lombardi si conoscono e si ritrovano vicini per la prima volta, accomunati dalla paura e dallo spaesamento. È questo l’ultimo evento bellico in cui il milite ebbe un qualche valore anche nel suo agire solitario, mentre da quel conflitto in poi il milite divenne “ignoto”, dimenticato in quanto essere umano con un nome e un cognome, un volto e una voce. Nella prima guerra mondiale, gradatamente, anche il nemico diventa “ignoto”, perché non ci sono più campi di battaglia per i “corpo a corpo”, dove guardare negli occhi chi sta per colpire a morte, ma ci sono trincee dalle quali partono proiettili e bombe anonime, senza un volto da maledire prima dell’ultimo respiro. Un conflitto spersonalizzato in cui gli esseri umani coinvolti diventano semplici ingranaggi del meccanismo e non più protagonisti eroici della vittoria o della sconfitta. Così, seduto su sacchi da trincea, tra il fetore del sangue e della carne, Perrotta racconta le piccole storie, gli sguardi e le parole di singoli uomini che hanno vissuto quei tragici eventi.
«Ho scelto questo titolo, Milite Ignoto, perché la prima guerra mondiale fu l’ultimo evento bellico dove il milite ebbe ancora un qualche valore anche nel suo agire solitario, mentre da quel conflitto in poi, anzi, già negli ultimi sviluppi dello stesso, il milite divenne, appunto, ignoto. E per ignoto ho voluto intendere “dimenticato”: dimenticato in quanto essere umano che ha, appunto, un nome e un cognome. E una faccia, e una voce. E proprio per questo – come sempre accade nel mio lavoro – andrò controcorrente e la mia attenzione sarà diretta alle piccole storie, agli sguardi e le parole di singoli uomini che hanno vissuto e descritto quegli eventi dal loro particolarissimo punto d’osservazione, perché questo è il compito del teatro, o almeno del mio teatro: esaltare le piccole storie per gettare altra luce sulla grande storia», annota Mario Perrotta, attore, regista e drammaturgo leccese, considerato una delle figure di spicco del nuovo teatro italiano.
Una raccolta di canti intonati con malcelata nostalgia alla terra natìa e a quel relativo mondo lontano delle proprie origini, mondo appena conosciuto, nei primi anni dell’infanzia, mentre si inabissava perdutamente, nei flutti inesorabili del tempo, del progresso, del divenire.
A testimonianza di quel mondo che ci ha generati e formati, per poi così silenziosamente e discretamente lasciare il posto ai “Successori”, sono nate queste mie impressioni e riflessioni in versi dialettali, in cui il motivo principale della scelta del vernacolo corrisponde all’oggetto delle composizioni medesime: cioè quello di rievocare tutto quel mondo della Vita di allora con l’Idioma ad essa collegato.
Un secondo, ma non secondario, motivo della scelta di questo idioma, è dato dalla speranza di riuscire a cogliere e trasmettere, con questi versi, tutta quella “musicalità” che si può avvertire come “celata nel nostro dialetto”: una lingua apparentemente così dura nelle parole, dagli accenti decisi e poco flessibili, parole volte ad esprimere concetti per una vita, come quella di una società agraria di un tempo, caratterizzata dall’essenzialità degli atti quotidiani. Atti basati su “Certezze…schiette e indiscutibili” (dure come le nostre rocce “Cuezzi”), che poco avevano da spartire con virtuosismi poetici o di pensiero, ritenuti in quei tempi ed in quella vita, di nessuna praticità se non addirittura destabilizzanti.
Cogliere ora quella musicalità nascosta in questa lingua apparentemente così dura, è per me come riscoprire tutta quella poesia altrettanto presente e nascosta nella vita di allora che, anche se rigida nella forma, comunque sana e schietta nella sostanza, e… sotto sotto piena di tanta umanità e tenerezza che forse oggi nemmeno si riesce ad immaginare: “la vita dei nostri padri”.
E’ nel ricordo di questi ultimi che, vorrei mantenere vivo nella memoria quel loro-nostro mondo di origine con tutti i suoi pregi e difetti, quale base imprescindibile del successivo mondo culturale e sociale, base sempre degna di rispetto e di amorevole ricordo.
È morto il prof. Giovanni Cosi.
Il prossimo 27 ottobre avrebbe compiuto 93 anni, l’amico Giovanni Cosi, ricercatore di storia locale e grande frequentatore dell’Archivio di Stato di Lecce. Era nato nel lontano 1919 ad Arigliano, frazione di Gagliano del Capo. Aveva impiegato gran parte della sua lunga vita a ricostruire piccole e grandi tessere della storia della sua terra e del Salento. Ha ricercato con pazienza certosina e con incrollabile passione soprattutto tra i docume…nti notarili tra ‘500 e ‘700 scampoli significativi di storia dei personaggi e della società del Salento che ha generosamente offerto ad un pubblico sempre più vasto che lo ha apprezzato per la sua serietà e semplicità espositiva. Lo avevo conosciuto la prima volta alla fine degli anni ’70 del ‘900 quando andava pubblicando su “La Voce del Sud” le sue pillole di storia salentina poi trasfuse in gran parte nelle sue preziose monografie, tra cui, nel 1992, “Il notaio e la Pandetta” in cui figurano importanti contributi archivistici su Giovanni Andrea Coppola, Giandomenico Catalano, i conventi gallipolini dei Domenicani, Francescani e Cappuccini, la storia di tre reliquie e di un’accademia gallipolina del ‘600, oltre ad una messe immensa di documenti su Lecce, Nardò, Galatone, Tricase, Copertino, ecc. Spero che almeno la sua Terra gliene sia grata e lo ricordi con l’affetto col quale io e tutti gli amici che lo hanno conosciuto lo ricorderemo sempre. Ciao Nino.
Se n’è andato Giovanni Cosi. Persona silenziosa e umile, storico attento e che ha ipotizzato e confrontato elementi scientifici diversi, oltre le pratiche compilative della storiografia, facendo parlare le pietre con i meandri più nascosti del nostro patrimonio archivistico. Poliedrico, masticante la geografia, la storia moderna, l’archivistica e l’archeologia del paesaggio, vivrà ancora per sempre negli scaffali pubblici e privati. Ha vissuto ad Arigliano, nel lembo estremo del nostro Salento, coi suoi testi fin da piccolo ho viaggiato nel tempo e guardato muri e pietre con occhi diversi. Grazie per tutto.
Tra le sue opere vanno almeno ricordate:
Torri marittime di Terra d’Otranto
Collana BCP (Biblioteca di Cultura Pugliese, n° 3)
formato 17×24, pp. 232, illustratoIl materiale inedito che il Cosi mette a disposizione, contribuisce a rendere possibile una revisione di tutta la storia dell’architettura salentina tra 500 e 600 e ad impiantare un’indagine, tutta da fare, sul lavoro e la tecnica edilizia, con le loro regole di misura, i materiali, le quotazioni salariali con le diverse gamme di retribuzione.
Anno: 1988
Codice ISBN: 8877860782
Il notaio e la pandetta. Microstoria salentina attraverso gli atti notarili (secc. XVI-XVII)
formato 17x24cm, pp. 228, 230 ill in b/n.
In questi ultimi anni uno dei motivi caratterizzanti la rinascita degli studi salentini è stato certamente la scoperta – ma forse sarebbe meglio dire la riscoperta – dell’Archivio di Stato di Lecce. Infatti ad una sempre più intensa attività didattico-espositiva che ne divulga i contenuti senza dimenticare le esigenze scientifiche, si è affiancata l’operosità di una non sparuta schiera di seri e intelligenti giovani studiosi e da una sempre più abbondante messe di pubblicazioni di vario spessore culturale con potuti emergere quei prodotti che meglio danno testimonianze di questa fortunata stagione.
Attraverso gli articoli raccolti in questo volume, ricavati da documenti notarili dell’epoca, s’intende tratteggiare un profilo sociale e professionale del notaio in Terra d’Otranto nei secoli XVI e XVII.
Autore: Cosi Giovanni (a cura di Mario Cazzato)
Anno: 1992
Codice ISBN: 8877861166
(le note bibliografiche sono tratte dal sito dell’Editore Congedo:
Può una raccolta di poesie diventare un documento storico? Senz’altro. Soprattutto quando viene trasmessa con un amore viscerale verso la propria terra e tutta la sua tradizione. Il libro di Nicola Manieri-Elia è più di una silloge e più di un saggio, più di un trattato di filosofia e più di un romanzo: è un vero e proprio scrigno ricolmo di frammenti preziosi. La scelta dell’Autore è, a suo modo, molto coraggiosa: il dialetto stretto, a volte duro e stridente, con cui vengono composte le poesie trascina con sé un’epoca ormai trascorsa, mantenendone inalterati i sapori e conservando tutta la sua musicalità. In un tempo in cui la corsa alla tecnologia regna sovrana, trovarsi a contemplare un paesaggio del Salento nella pace assoluta può essere un’esperienza davvero indimenticabile.
Iniziativa promossa dal Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Puglia, in collaborazione con Regione Puglia, Città Metropolitana di Bari, Università degli Studi “Aldo Moro” di Bari, Arcidiocesi di Bari – Bitonto e d’intesa con la famiglia Campione.
Il premio, istituito per ricordare, attraverso la promozione del lavoro dei colleghi più sensibili e capaci, la figura del giornalista e intellettuale barese scomparso nel 2003, è suddiviso nelle sezioni: carta stampata – internet, radiotelevisione – agenzie e fotografia.
Questi i premiati nel corso della cerimonia tenutasi nella mattinata di domenica 28 febbraio 2016, nel capoluogo pugliese, nella sontuosa cornice della Sala consiliare, già della Provincia e ora della Città metropolitana di Bari:
– Annalisa Monfreda – direttore del settimanale Donna Moderna – Premio alla carriera;
– Sezione carta stampata – internet:
– Savino Carbone- The Post Internazionale – cronaca;
– Roberto Guido – Corriere del Mezzogiorno – cultura e costume;
– Vito Prigigallo – Gazzetta del Mezzogiorno – sport, ex equo con
– Giuseppe Dimiccoli – Gazzetta del Mezzogiorno, sport;
– Sezione internet – radiotelevisione:
– Lorenzo Turi – Sky TG24, cronaca, ex equo con;
– Marianna Canè – Rete 4, cronaca;
– Michele Piscitelli – Repubblica TV – cultura e costume;
–
– Sezione Agenzieampa:
– Paolo Malchiorre – Ansa – cronaca;
– Sezione fotografia:
– Lucia Casamassima – La Lettura, supplemento del Corriere della Sera – cultura;
– Carlo Tesser – Repubblica TV – cronaca;
– Donato Fasano – Corriere dello Sport – sport, ex equo con
– Giovanni Evangelista – Gazzetta del Mezzogiorno, sport.
In aggiunta, sono stati attribuiti riconoscimenti, sotto forma di segnalazione a: Lia Mintrone, Angela Balenzano, Maria Cristina Fraddosio, Tea Sisto, Pasquale Vitagliano, Vanni Sgobba, Giovanni Di Benedetto e Sara Pacella.
Fra le autorità presenti alla cerimonia, il Prefetto di Bari Carmela Pagano, il Sindaco di Bari Antonio Decaro e il Rettore dell’Università di Bari Antonio Uricchio.[
Torna anche quest’anno “Erbe buone nel Parco – in bici alla scoperta delle foje reste”, un’iniziativa di Terrarossa Cooperativa Sociale, Salento Bici Tour e Parco Naturale Costa Otranto – Leuca e bosco di Tricase, nell’ambito del progetto “Sapori autentici di comunità” del SAC “Porta D’Oriente”.
Paparine, cicoreddhe, zanguni, spruscini.. sono alcune le foje reste (selvatiche)’ , ormai quasi dimenticate, che però un tempo rivestivano grande importanza nella dieta locale. Grazie a questo “laboratorio di comunità” si potranno riconoscere e degustare!
Appuntamento Domenica 28 febbraio alle ore 9.30, presso gli spazi del Palazzo Baronale di Tiggiano: esperti, conoscitori, estimatori e semplici curiosi potranno confrontarsi durante un seminario informale nel quale verranno presentate le principali essenze eduli del Parco: le loro proprietà, il loro utilizzo in cucina e altre curiosità.
A seguito di una prima passeggiata di riconoscimento nel giardino del Palazzo, si partirà in bici per le campagne senza veleni di Tiggiano, per una raccolta guidata ed una dimostrazione di mondatura.
A chiudere in bellezza una di degustazione delle maggiori pietanze a base delle piante eduli spontanee!
La quota di partecipazione di 5,00 euro comprende seminario, assicurazione e borsa in tela per la raccolta.
Il pranzo di degustazione e le bici a noleggio sono disponibili solo su prenotazione ai nr 320 770 9937 (Daniele) e 340 586 8242 (Mattia).
I Frati Minori del Salento, insieme alle Clarisse, ai Giovani Francescani, all’ordine Francescano Secolare, con la collaborazione di numerose associazioni e persone di buona volontà, presentano la Mostra Itinerante Dinamica Laudato si’, a ingresso libero, spronati dalla Lettera Enciclica Laudato si’, del Santo Padre Francesco, sulla Cura della Casa Comune (Dato a Roma, presso San Pietro, il 24 maggio, Solennità di Pentecoste, dell’anno 2015, terzo del mio Pontificato, Tipografia Vaticana). Centro Giustizia Pace e Integrità del Creato dei Frati Minori del Salento ˗ Chiesa di San Pasquale, via Pitagora n. 32, Taranto.
Frate Francesco Zecca – Responsabile GPIC, le Clarisse, i Giovani Francescani, l’ordine Francescano Secolare, numerose associazioni e persone di buona volontà, hanno organizzato la Mostra Itinerante Dinamica Laudato si’, prendendo spunto dalla seconda Lettera Enciclica Laudato si’, del Santo Padre Francesco, sulla Cura della Casa Comune, in cui si legge: «La sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale, poiché sappiamo che le cose possono cambiare. […] L’umanità ha ancora la capacità di collaborare per costruire la nostra casa comune» (L. S., Il mio appello, n. 13, cit.).
La mostra «ha lo scopo – si spiega in un comunicato stampa dell’evento – di educare allo stupore, imparare, come cristiani e cittadini, ad indignarci quando il bene comune viene calpestato e deturpato, imparare a scoprire la relazione con tutto il creato». Essa viene sempre inaugurata dai bambini, perché, prendersi cura della ‘Casa Comune’, significa rispettare e prendersi cura delle generazioni future.
La mostra è divisa in 3 parti, in cui sono raggruppati 4 percorsi pedagogici che sono: stupore, indignazione, relazione e cambiamento. Questi 3 percorsi-viaggio hanno l’obiettivo di guidare il visitatore “alla scoperta delle bellezze e sofferenze di sora nostra madre Terra”. I 3 percorsi-viaggio, sono espositi graficamente in alcuni pannelli informativi e fotografici e in alcune opere realizzate dagli stessi frati e dalle clarisse in occasione dell’evento espositivo.
Il primo percorso-viaggio, che comprende i primi due percorsi pedagogici denominati “stupore” e “indignazione”, guida il visitatore alla scoperta o riscoperta di luoghi e storie delle nostre province di Lecce, Brindisi e Taranto. Questo percorso, attraverso 13 pannelli fotografici, fa conoscere alcune storie che raccontano la bellezza e la passione per il nostro territorio, per educarci allo stupore e alla meraviglia, poiché, quando scopriamo la bellezza intorno a noi, allora sappiamo anche indignarci ogni volta che questa viene deturpata. Inoltre, prendersi cura del bene comune, significa saperlo difendere e saper denunciare chi lo deturpa.
Un pannello informativo riporta un passaggio del Salmo139 che loda, appunto, le bellezze della natura: «Sei tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre. Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio; sono stupende le tue opere, tu mi conosci fino in fondo».
Sei pannelli fotografici riferiti alla città di Taranto e riportati qui di seguito, hanno titoli allusivi, ed affrontano il tema ambientale, divenuto, negli ultimi anni, un caso internazionale: 1-Le sofferenze del creato di Taranto; Ilva e Vale … quartiere Tamburi e i villaggi dell’Amazzonia legati al ferro! 2-Inquinare l’aria, le acque e il suoloè un atto criminale: uccide, ammala e costa!3-IlMar Piccolo: una ricchezza da salvaguardare. 4-Meraviglie nascoste: tra terra e mare; Oasi Palude la Vela.5-Storie di resistenze e rinascitatra le masserie. 6-Rifiuti, discariche e scarichi. Dietro un grande business, un grande disastro ambientale!; Le ecomafie e le discariche abusive; Lo stato di abbandono della discarica Vergine a Lizzano; Scarico a mare.
Sette pannelli fotografici riferiti alle città di Brindisi e Lecce, elencati qui di seguito, si soffermano sul patrimonio culturale, paesaggistico e storico della Puglia: 1-Storia, castelli e natura; Torre Guaceto. 2-Un’economia al servizio della vita! Dall’economia del profitto ad un’economia solidale. Dalla cultura dello scarto ad una cultura inclusiva!; Una salsa di pomodoro per la lotta al caporalato; “Made in carcere” – un nuovo stile di moda. 3-Incantati… tra mare e coste. Tutto il mare salentino, con le sue meravigliose coste, riempie lo sguardo di stupore e meraviglia. Sono paesaggi che aprono all’infinito e raccontano storie molto antiche e recenti; Il fascino di Porto Selvaggio; Il sacrificio di Renata Fonte; La storia e i segreti delle grotte; Il sistema difensivo delle torri. 4-Le sofferenze di fratello ulivo e di fratello mare; L’impegno della Chiesa locale; La lotta anti-trivelle. 5-Viaggio tra biodiversità e giustizia; La ricchezza della biodiversità: i giardini di Pomona a Cisternino; Una terra restituita alla comunità: Terre di Puglie – Libera Terra. 6-Una terra da scoprire. Castiglione d’Otrantoe il recupero dell’ambiente rurale; La miniera dismessa. 7-Ecologia culturale; Sulle tracce della storia per la custodia del nostro patrimonio; «Insieme al patrimonio naturale, vi è un patrimonio storico, artistico e culturale, ugualmente minacciato […]. Bisogna integrare la storia, la cultura e l’architettura di un determinato luogo, salvaguardandone l’identità originale. Perciò l’ecologia richiede anche la cura delle ricchezze culturali dell’umanità nel loro significato più ampio» (L. S., Ecologia culturale, n. 143, cit.); Due ulteriori esempi dell’archeologia delle provincia di Lecce.
Il secondo percorso-viaggio, che comprende il terzo percorso pedagogico denominato “relazione”, accompagna il visitatore a guardare con occhi nuovi il creato, a rileggere in modo artistico il Cantico delle Creature e ad interpretare le opere realizzate dai francescani. Esiste una fraternità cosmica di cui noi facciamo parte; tutto è in relazione, tanto che San Francesco d’Assisi chiama fratello il sole, il vento, il foco; e sorella l’acqua, la luna , le stelle e la madre terra.
Il Cantico di Frate Sole, opera di grande risonanza culturale e spirituale, composta nel Duecento, contiene dieci periodi che corrispondono, ciascuno, ad una lode al Signore. I modelli formali sono quelli biblici, dell’Antico Testamento, precisamente i Salmi, da cui deriva la formula di Laudes. L’incipit, da forma impersonale ‘Laudato sie’, diventa plurale ‘Laudate’ e ‘benedicete’ nell’ultimo distico, a sottolineare la coralità della lode rivolta a Dio. San Francesco, loda Dio per tutta la creazione e per l’intenso rapporto di amore con le cose. Egli valorizza anche l’uomo, ponendolo al centro del creato, ed enfatizza il concetto di fraternità. Dal Vangelo, ed in particolare dal discorso delle Beatitudini proviene l’espressione ‘Beati quelli’ dei versi 25 e 30 (Mt 5,3-10 e Lc 6 20-23, cit.), ed il suggestivo ‘Guai a quelli’ (Mt 11,21 e Lc 10,13, cit.). L’opera viene sottolineata nella stessa enciclica, nel capitolo intitolaro San Francesco d’Assisi, che la indica come una possibile via per ristabilire un rapporto equilibrato con la natura, educando lo sguardo allo stupore e alla contemplazione: «D’altra parte, san Francesco, fedele alla Scrittura, ci propone di riconoscere la natura come uno splendido libro nel quale Dio ci parla e ci trasmette qualcosa della sua bellezza e della sua bontà» (L. S., San Francesco d’Assisi, n. 12, cit.). Ed ancora, un altro pannello informativo, riecheggiando il concetto di fratellanza così recita: «I rapporti umani sono sempre più trascurati, perché la nostra grande preoccupazione sono le cose e non le relazioni umane».
Il terzo percorso-viaggio, che comprende il quarto ed ultimo percorso pedagogico denominato “cambiamento”, è un percorso attorno a nostra madre terra. Un pannello informativo dichiara: «Proponiamo qui un sentiero di conversione ecologica, che ci aiuti, personalmente e comunitariamente, a prenderci cura della casa comune per giungere ad un’ecologia integrale: “sora nostra madre Terra”! Un percorso per educarci alla cittadinanza ecologica, assumendo nuovi stili di vita!». Un altro pannello riporta un passaggio dell’enciclica papale, che così recita: «Rivolgo un invito urgente a rinnovare il dialogo sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta. Abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca tutti, perché la sfida ambientale che viviamo, e le sue radici umane, ci riguardano e ci toccano tutti» (L. S., Il mio appello, n. 14, cit.).
Un successivo pannello informativo riporta un passaggio dell’enciclica, tratto dal capitolo, La conversione ecologica, in cui, Papa Francesco auspica: «Vivere la vocazione di essere custodi dell’opera di Dio è parte essenziale di un’esistenza virtuosa, non custodisce qualcosa di opzionale e nemmeno un aspetto secondario dell’esperienza cristiana» (L. S., La conversione ecologica, n. 217, cit.).
Due pannelli fotografici, infine, riportano due preghiere, in epilogo all’enciclica, intitolate: Preghiera per la nostra Terra e Preghiera cristiana con il creato. È importante mettersi in ascolto del grido della terra e dei poveri, come ci insegna il papa, e per questo il viaggio nelle sofferenze di “sora nostra madre Terra”, diventa importante per ognuno di noi.
La Mostra Itinerante Dinamica Laudato si’, richiede uno spazio espositivo che sia custodito, non all’aperto, e può essere richiesta massimo per una settimana, concordando le date, inviando una mail a frazecca@tiscali.it
Durante la permanenza della mostra, la Commissione GPIC dei frati Minori del Salento, si rende disponibile per organizzare sia una conferenza, in cui verranno presentati i contenuti della Lettera Enciclica Laudato si’, sia una celebrazione sul creato.
Calendario delle tappe della mostra a ingresso libero (altre tappe saranno aggiunte in seguito):
Per quanto riguarda il Salento, la còrnula, così vengono appellati tanto l’albero quanto il frutto di questo albero, si trova diffusa prevalentemente in esemplari isolati, alcuni dei quali di dimensioni davvero monumentali, ma la sua presenza per quanto attualmente numericamente limitata non sfugge certo alla vista, soprattutto in estate, quando questi alberi, risaltano lussureggianti nella loro verzura, incuranti dell’arsura circostante.
Li si ritrova spesso nelle adiacenze di antiche masserie, lungo i loro stradoni di accesso e in luoghi tanto pietrosi, aridi e scoscesi da essere stati considerati inidonei persino alla coltivazione dei pur parchi ulivi. La densità di questi alberi aumenta man mano che ci si avvicina a santa Maria di Leuca, ove insieme al fico d’India riesce a caratterizzare piacevolmente molti, altrimenti brulli, declivi rocciosi.
Anche nel passato, nel Salento, di rado la loro produzione, è stata utilizzata per l’alimentazione bestiame, cui venivano destinati alimenti ben meno nobili, ma oltre che essere destinata in tempi di magra all’alimentazione umana, veniva ammassata alla stregua dei fichi secchi di scarto per essere avviata alla produzione dell’alcool.
Chiunque abbia visto un carrubo, non può che convenire sulla sua valenza estetica, cosa già sufficiente a privilegiarne il suo utilizzo nella costituzione di nuove aree verdi, se a questo poi si aggiungono le limitatissime, per non dire nulle esigenze colturali, la sua frugalità e la non peregrina circostanza di poter utilizzare la sua produzione anche a scopi alimentari, industriali ed energetici, si capisce come questo bellissimo albero debba essere rivalutato come essenza dal valore strategico.
A tal proposito, a nessuna persona dotata di un minimo di sensibilità ambientale e buon senso non possono non venire in mente le troppe estensioni di terreno abbandonato a ridosso degli agglomerati urbani; i tanti relitti stradali, non ultime le tantissime piazzole delle nuove rotatorie e le centinaia di chilometri di viali delle nostre zone squallide zone industriali, che con poca spesa, anzi usufruendo dei fondi attualmente messi a disposizione con un apposito bando dalla Regione Puglia, potrebbero essere riqualificati con buona pace del paesaggio e dell’ambiente, con questo nostro nobile, storico e generoso amico.
Sono arrivato al mondo, una grossa gerla di calendari fa, secondo nato in seno ad un nucleo famigliare numeroso, ossia dire composto da padre, madre e ben sei figli.
Eguale quantificazione, per i rispettivi focolari d’origine dei miei genitori, così che, senza porci alcunché di mio, mi son trovato contornato da una pattuglia di dieci figure, fra zii e zie d’ambedue i rami, numero raddoppiato, per effetto delle loro unioni matrimoniali, alla considerevole cifra di venti.
E, ancora, sull’immediato gradino di discesa generazionale, si è gradualmente collocata una vie più folta schiera di cugini e cugine, pari, per la precisione, a trentuno unità, in cui io occupo il secondo posto in classifica per anzianità anagrafica.
Tuttavia, non è una novità anzi è naturalmente risaputo, che alla data di nascita non sempre sono commisurati, in una sorta di sintonia armonica, gli altri eventi importanti della vita, i cui rintocchi e modalità rispondono a variabili del tutto indipendenti.
In siffatto quadro di svolgimento esistenziale, in questi giorni se n’è, purtroppo, andato, antesignano fra i trentuno, il cugino M., di gran lunga più leggero d’anni rispetto a me e, casualmente, inserito in un’attività lavorativa analoga alla ex mia.
Correlati in modo indicativo a M., mi scorrono nella mente e davanti agli occhi, estremamente freschi e nitidi, due avvenimenti.
All’atto della nascita di M., io frequentavo la terza media e, la sera della festicciola per il suo battesimo in casa degli zii L. e P., all’amico parroco del tempo don Giuseppe, il quale mi chiedeva notizie circa l’andamento del mio profitto scolastico, potetti rispondere che proprio quel giorno il professore ci aveva mostrato, in classe, gli ultimi compiti di italiano corretti (tema sull’Odissea, avente per titolo lo sbarco di Ulisse sull’isola dei Feaci), non senza precisare che, nel consegnarmi il mio elaborato con voto otto, il docente mi aveva gratificato con le parole: “Bravo, hai compiuto un bello sbarco sull’isola di Nausicaa”.
Inoltre, nel Santuario della Madonna del Rosario a Castro Marina, quando, nel 1964, mi sono sposato, presente e officiante il già citato don Giuseppe, insieme con don Salvatore, parroco di Castro, M. adempiva al ruolo di chierichetto, in cotta bianca, com’è rimasto fissato nelle ormai vetuste riprese fotografiche di quella cerimonia.
Sembrano danzare irrefrenabilmente i corsi delle cose, grandi o piccoli che siano, finanche sotto forma di sequenze minutissime e di primo acchito insignificanti, e, in realtà, non ci lasciano mai indifferenti, catturando di volta in volta eppure senza soluzione di continuità barlumi di nostri sguardi e frammenti d’attenzione e riflessione.
Stamani, un venditore ambulante con camioncino carico di frutta e verdura, in barba al freddo insolito per queste plaghe, andava proponendo ad alta voce e di buona lena, ai passanti, in particolare “tre cassette di scarcioppole (carciofi), scontate a otto euro, anziché a nove euro”.
Mentre, di lì a poco, nell’anticamera dello studio del mio medico di famiglia, una donna si disperava all’indirizzo della segretaria del professionista perché “le aveva scangiatu la lizzetta” (le aveva dato una ricetta sbagliata).
Intanto che un altro anziano paziente in attesa, seduto in un angolo avvolto in una giacca a vento con la scritta “Aigle” sui gomiti, si toglieva il copricapo di lana, estraendo contemporaneamente e rapidamente dalla tasca un pettinino e passando quindi a darsi una sistemata a puntino alla bianca capigliatura, muovendo con estrema precisione il piccolo attrezzo dalla parte anteriore delimitante la fronte stempiata verso l’indietro.
Nel medesimo luogo, aspettavano in fila il loro turno un uomo e una donna dall’incarnato decisamente bruno e con gli altri tratti somatici tipicamente orientali.
Il curioso narratore s’avvicina loro con qualche domanda: sono marito e moglie, provengono dallo Sri Lanka, vivono in Italia da trent’anni, quasi interamente trascorsi a Lecce, si trovano bene, hanno due figli, di cui il primo universitario e il secondo frequentante l’Istituto alberghiero, il capofamiglia fa lo stalliere in un centro d’equitazione sulla via per San Pietro in Lama, la donna, invece, è semplicemente casalinga.
In sintesi una bella normale coppia, come tante delle nostre.
Perché si sparge tanta generalizzazione nell’argomentare sulla realtà degli immigrati? Appena sette gradi segna il termometro, l’aria è frizzante e, però, due micetti, a loro modo forse più saggi di noi umani che ci lasciamo perennemente prendere da mille incombenze e impicci, se ne stanno a prendere il sole beatamente accovacciati e quasi sonnecchiando sul tettuccio d’una rossa moderna utilitaria.
Mentre vado completando le presenti righe, volgendomi verso il balcone, ho agio di godermi lo spettacolo del soleggiato pomeriggio leccese, che mi piace abbinare a quello dell’affascinante mare di Castro, catturato con la fotocamera l’altro ieri.
Cinque Istituti alberghieri in competizione tra loro il 21 gennaio 2016
Con Vincotto&Lode le tradizioni …fanno scuola
Studenti in concorso con cucina creativa a base di vincotto
Tra i giudici grandi chef, esperti e giornalisti mentre le aziende “Più Gusto”
mettono a disposizione i loro ingredienti di altissima qualità
“Vincotto&lode” è il primo concorso di cucina creativa per studenti degli Istituti Alberghieri mirato alla ri-scoperta del Vincotto, un antico prodotto di tradizione pugliese, riconosciuto dalla Regione Puglia tra i suoi PAT – Prodotti Agroalimentari Tipici. Il concorso avrà luogo il 21 gennaio 2016 e nasce da un’idea dell’Istituto “A. Moro” di S. Cesarea Terme, dell’Associazione di cuochi “Sapori Oriente d’Italia” e dal produttore salentino di vincotto Antonio Venneri.
A contendersi il ricco (e gustoso) premio del concorso saranno gli studenti di ben 5 Istituti Alberghieri pugliesi, l’IPSSEOA di Otranto, l’IISS “F. Bottazzi” di Ugento; l’IISS “N. Moccia” di Nardò, l’IISS “Presta – Columella” di Lecce e l’IPSEO “A. Moro” di Santa Cesarea Terme. Il concorso si svolgerà presso la sede di quest’ultimo.
“Vincotto&Lode” rappresenta un modello di valorizzazione delle ricchezze del territorio in grado di fornire nuove prospettive occupazionali per i giovani salentini. Gli obiettivi prefissi sono: avvicinare e soprattutto contaminare il mondo della scuola (istruzione superiore) sui grandi valori della “tradizione”, della “qualità”, della “innovazione” e della “sperimentazione”; rendere gli studenti protagonisti; creare una connessione reale, un ponte collaborativo tra “Scuola” (studenti concorrenti e curatori della comunicazione), “Impresa” (aziende del circuito di qualità Più_Gusto), “Alta cucina” (giurati) e “Media” (giornalisti e blogger); innovare le attività di valorizzazione delle ricchezze del territorio nell’ottica di nuove prospettive occupazionali relative ai giovani.
Una prima particolarità è che a curare la “comunicazione” del concorso (ufficio stampa, web, social media) sono altri studenti, ossia i giovani comunicatori dell’Istituto “Galilei-Costa” di Lecce, i quali faranno rientrare il progetto nel più ampio concept “N2Y4” (Never too Young for – mai troppo giovane per), in questo caso specifico: N2Y4_CreativeCooking.Hanno realizzato il sito web del concorso (www.n2y4.org/vincottoelode) e curato l’evento su Facebook.
A giudicare le capacità creative e tecniche dei partecipanti saranno grandi chef, esperti e giornalisti di levatura nazionale ed internazionale: Attilio Caputo (Direttore Caroli Hotels), Donato Episcopo (Chef stella Michelin), Domenico Maggi (World Chef Association continental director for Southern Europe), Fabio Tacchella (Chef giudice World Chef Association), Lorenza Dadduzio (cofounder e direttore creativo di Cucina Mancina), Flavia Giordano (cofounder e direttore editoriale di cucina Mancina), Antonella Millarte (Giornalista “food” Gazzetta del Mezzogiorno e curatrice della Guida al Buongusto di Puglia e Basilicata), Antonella Ricci (Direttrice Med Cooking School), Luigi De Bellis (Direttore del DiSTeBA – Università del Salento), Michele Di Carlo – (Gustosofo e Master of food Slow Food), Angelo Iaia (Vice Presidente Slow Food Puglia), Mario Graziano Manconi (Presidente onorario Ass.ne Sapori Oriente d’Italia), Paolo Marchi (Ideatore e curatore di Identità Golose), Nunzio Pacella (Giornalista Salento in Tasca, Gazzetta del Mezzogiorno), Massimo Vaglio (Giornalista e scrittore enogastronomico esperto dei PAT di Puglia).
Un’altra particolarità del concorso Vincotto&lode è che la quasi totalità degli ingredienti (tutti di altissima qualità e a km 0) che saranno utilizzati dai giovani cuochi creativi saranno forniti da importanti aziende locali, di cui molte appartenenti al circuito “Più Gusto”: Agricola Adamo (Alliste): Olio extravergine di oliva; Birrificio B94 (Lecce): Birre artigianali; Calemone (Torre Guaceto): Pomodoro fiaschetto semisecco Pres. Slow Food; Calò & Monte (Zollino): Comunità Slow Food dei legumi di Zollino; PastificioCardone (Fasano): pasta fresca di semola di grano duro sen. Cappelli; Caseificio Lanzillotti (S. Vito dei N.) Comunità Slow Food dell’Alto Salento; Gina & Sofia (Maglie): Pasta secca in formati e farine speciali; I Contadini (Ugento): Comunità Slow Food del cappero di Racale; Salumificio Santoro (Cisternino): Capocollo di M. Franca Presidio Slow Food; Terra Apuliae (Melissano): vincotto (balsamico, ingentilito, glassa, cuettu); Vizzino (Minervino): Passata di pomodoro gialla, rossa e i sott’olio.
Ad onor del vero, il processo di riscoperta del Vincotto è già in atto da qualche tempo, infatti questi che seguono sono i produttori locali che hanno deciso di sperimentare l’uso del vincotto e dei suoi “fratelli” nelle loro personali ed originali elaborazioni: APP – Associazione Pizzaioli Professionisti, con l’impasto al “cuettu” – vincotto dolce d’uva; Birrificio B94 (Lecce), con la birra con il “cuettu”; Biscottificio Preite (Casarano), con i tarallini al “cuettu” e le friselline al Vincotto balsamico; Cafè dei Napoli (Alliste), con i “mustazzueli”al “cuettu; Carlo Liuzzi (Galatina), con la bevanda “Cummare” un toddy dal cuore caldo al vincotto ingentilito; Dolce Arte (Cutrofiano), con il dolce vincotto; I Contadini (Ugento), con la cipolla al “cuettu”; Panificio Tagliaferro (Corsano), con i torcetti con farina ai semi d’uva e vincotto ingentilito; Vizzino (Minervino di Lecce), con i lampascioni al vincotto balsamico.
Mater meravilliosa, il tema centrale della mostra dal quale prende il titolo, vuole essere, anche, una riflessione sul concetto di Donne-Madonne nel loro aspetto di fonte di vita e immagine di fertilità.
Rimanda esplicitamente al culto antico della Grande Dea Madre.
Inevitabile diviene, qui, l’accostamento alle centinaia di “Veneri” scoperte in tutta Europa e oltre, databili tra i 20-30 mila e i 400mila anni a.C.; necessario, il riferimento alle “Veneri di Parabita” ma, anche, alla cosiddetta “Venere dei massi della vecchia”, la Grande Dea Madre di Giuggianello, entrambe in provincia di Lecce.
Così come in queste opere anche le sculture di Elio Talon prendono la distanza dalla facile riproduzione del reale. Solo la zona centrale del corpo conserva un riconoscibile riferimento alla natura: il ventre, il pube, le natiche, i seni, quasi a sottolineare il carattere simbolico-religioso dell’opera.
L’esagerazione di una determinata forma, sembra enfatizzare il potere di quella specifica parte e, soprattutto, delle sue funzioni: i seni ad indicare il potere nutritivo della Dea, la vulva quello generativo.
Sappiamo benissimo però che le ragioni di Talon sono altre. Va alla riscoperta dell’antica Dea per sondare il femminile divino dentro di noi.
Nella stessa maniera affronta il tema degli Angeli, altro soggetto presente in mostra.
Pur essendo plasmati con la terra refrattaria e dunque con un peso specifico ben preciso, esprimono una levità rara nella scultura contemporanea. Tanto da sembrare epifanie sospese a mezz’aria. Il loro essere asessuati è motivo per Talon per sostenere che l’idea della dicotomia è sbagliata e che, invece, tutto è uno. L’antica teoria filosofica cinese insegna che è con il reciproco scambio tra i poteri Yin e Yang che si manifesta l’intero mondo fenomenico. Nessuno dei due poteri può dirsi compiuto in sé ma è dalla loro reciproca combinazione che scaturiscono tutte le forme e le diversità di esistenza della natura. Lo Yin e lo Yang sono la rappresentazione dell’armonia della vita, dell’universo. Sono l’armonia degli opposti: femminile e maschile, acqua e fuoco, notte e giorno, sole e luna, bene e male.
Per un artista, trattare i temi della Grande Madre e degli Angeli, il rischio di essere retorico è al massimo grado.
Il risultato raggiunto da Talon, sia nella forma che nel contenuto è, invece, antiretorico.
Direi, anzi, che l’esito è altamente lirico e profondamente poetico.
È una scultura, la sua, dalla plastica assai dinamica, fatta di sporgenze e rientranze che vanno a comporre immagini dalla superficie materica preziosa, che tende alla continua ricerca e cattura della luce. Una materia plasmata e quasi accarezzata, con la piena consapevolezza che solo la luce può farla vivere.
Il risultato è che la forma sembra espandersi nello spazio in più direzioni senza soluzioni di contenimento. Nell’opera di Elio Talon è evidente la coesistenza delle ragioni dell’arte figurativa e quelle dell’arte astratta e, soprattutto, che dette ragioni paiono trovare una sintesi condividendo le istanze, e dell’arte concettuale, e della poesia visiva.
Mater meravilliosa, sculture e poesie di Elio Talon
Pinacoteca Comunale, Piazza della Libertà, Ruffano (LE)
Esposizione: 26 settembre 2015 – 15 gennaio 2016
Genere: arte contemporanea, personale di scultura
Orari: dal lunedì al venerdì dalle 15.30 alle 19.30
A proposito di gastronomia. Una leggenda – che avrebbe anche qualche fondamento storico – vuole che l’inventore della scapece, orgoglio della tradizione gastronomica gallipolina, sia addirittura Marco Gavio Apicio, il più celebre gastronomo dell’antica Roma, il quale ne parla anche nel suo libro De coquinaria.
Pare che un giorno, nonostante la gran fama (e forse, proprio per questo), l’imperatore Tiberio in persona avesse messo in dubbio le decantate prodezze ai fornelli del massimo mago della cucina di Roma. Così, in segno di sfida, gli inviò un canestro di piccoli pesci azzurri (vope, sarde, alici, pupiddhi, provenienti dal golfo di Taranto, e particolarmente dal mare di Gallipoli), che aveva appena ricevuto in dono, invitando Apicio a preparare una pietanza, degna d’essere gustata come una vera specialità. Al confronto con spigole, orate, dentici, saraghi o scorfani, quei pesciolini erano davvero insignificanti, ma Apicio non si scompose. Chiese soltanto un po’ di tempo, che l’imperatore naturalmente gli concesse, fissando la scadenza in un più che ragionevole lasso di cento giorni.
Per 99 giorni Apicio scomparve letteralmente dalla scena: nessuno lo vide più, né seppe dove viveva, lavorava o dormiva. Al centesimo giorno, accompagnato da un inserviente vestito di blu, che portava a spalla una larga tinozza di legno, il grande cuoco incontrò l’imperatore. Fece allora deporre la tina su un tavolo, e con movenze quasi di prestigiatore, levando il tovagliolo dalla bocca del recipiente, scoprì una superficie granulosa e compatta color giallo oro, da cui si effondeva un profumo intenso e attraente. «Questo – disse, porgendo una scodella di quel misterioso prodotto all’imperatore – è il nuovo cibo di Apicio!» (in latino: “esca Apicii“, da cui deriverebbe, per l’appunto, il nome “scapece“).
Inutile descrivere i grandi onori che l’imperatore Tiberio tributò ad Apicio dopo aver assaggiato quella deliziosa prelibatezza, creata (in gran segreto) facendo friggere il pesce, marinandolo poi in mollica di pane, insaporendolo con aceto, e cospargendolo di zafferano. Una ricetta che, a dirla tutta, Apicio pare l’abbia avuta da quell’ignoto inserviente vestito di blu, che era proprio un marinaio gallipolino, avvezzo a mangiare al suo paese quel genere di pietanza, altrove sconosciuta.
Castello Spinola Caracciolo di Andrano, sede del Parco Naturale Regionale Costa Otranto-Santa Maria di Leuca e Bosco di Tricase, Antonio Chiarello da Ortelle (Le) attende promesse di visitatori, qualche artista della zona, dei paesani e altri come noi, già da tempo messi a conoscenza di queste illustrazioni ‘frutto di trent’anni di amore per il Salento’, confessa l’autore. Antonio ha esplorato in lungo e in largo ogni luogo, ogni anfratto di questa terra ‘magica’, come la definisce lui e ogni volta ha trovato motivo di meraviglia e di contemplazione per il fatto che la natura ha donato a questi luoghi tanta diversità, tanta bellezza e del come le opere dell’uomo per millenni si sono integrate nella loro semplicità con l’imponenza del paesaggio semplice ma stratificato nel tempo. Non è nuovo a queste osservazioni Chiarello, a osservare e riportare su carta, su tela, sulla pietra (le chianche) gli elementi più disparati che la natura ha voluto disseminare e la cultura edificare in questa lingua di terra protesa verso il mare, come scrive Plinio il Vecchio dell’Italia nella Naturalis Historia. Gli acquerelli sono la sua tecnica che più privilegia, ‘ perché ti consente nella tenuità dei colori di tornare alla tecnica antica, quella della mano libera’. Delicatezza e gentilezza sono i suoi tratti salienti e l’arcobaleno variopinto di colori, dove tutto confluisce, elementi naturali, specie vegetali tipiche e animali, a definire i caratteri del territorio ora tutelato dal Parco, ma molto ambito da chi vorrebbe ‘spingere indietro con contrafforti persino il mare per costruire nuovi palazzi’ – così scrive sdegnato da tanto osare contro le leggi della natura Seneca a Lucilio. Le tavole sono un susseguirsi di particolari ambientali dove il cielo si confonde con il mare, mentre il verde e il marrone delle campagne partecipano ad una sarabanda di storie incise nel lavoro dei muri a secco, nelle strade percorse dai carretti, ora a piedi, da Otranto (l’Odra messapica) e dal suo mosaico pavimentale con la riproduzione del Paradiso Terrestre riprodotto nelle figure semplici e ignude senza vergogna di Adamo ed Eva, da Faro a Faro, dalla Palascìa a quello de finibus terrae di S. Maria di Leuca, dove i due mari si incontrano, si scontrano e si amano come è nella storia degli uomini, e dove ‘i salentini dopo morti tornano con il cappello in testa’, ricorda il poeta Vittorio Bodini. In mezzo porti, torri, vedute mozzafiato, elementi fusi nell’opera della natura e degli uomini che il Parco intende tutelare, meravigliando e facendoci innamorare innanzitutto con la matita e i colori di Antonio Chiarello confluiti in questo taccuino di viaggio, un itinerario che, così sollecitati, ci muoviamo a intraprendere senza frapporre indugio. In esposizione al Castello di Andrano (Le) fino al 6 gennaio, info: tel. 328 4242206, Castello “Spinola–Caracciolo” Piazza Castello Andrano (Le), tel. 0836/925049, fax; 0836/926830, info@parcootrantoleuca.it.
I lettori, che spero si stiano appassionando ai racconti degli artisti che intervisto, sanno già che di rado mi è capitato di conoscere ciascuno di loro in un contesto, diciamo così, ordinario. Perlomeno per questo genere di ambiente, come può essere ad esempio una mostra. Potrei invece dire che le circostante attraverso cui mi sono imbattuto nelle loro vite è stato più o meno casuale; d’altronde così è accaduto anche con il maestro Antonio Calabrese, con il quale mi sono incrociato per la prima volta circa un anno fa all’interno di un laboratorio per cornici. A seguito di qualche breve battuta ci siamo scambiati i contatti e da lì la promessa di rivederci presto. In effetti, a ripensarci, c’ho messo un po’ prima di farmi sentire.
Una sera, mentre mettevo a posto delle carte nei cassetti del mio studio, mi è capitato tra le mani il biglietto da visita che il mite professore mi aveva dato e ho prontamente provveduto a chiamarlo, per rimediare all’attesa e fissare quindi un appuntamento. Dopo un paio di giorni sono già suo ospite: nell’ingresso dell’abitazione dove vive, a Nardò, egli ha allestito una vera e propria galleria di quadri, quasi tutti dell’ultimo periodo e un paio di tele più datate, spiegandomi che solo da una decina d’anni, dopo cioè il pensionamento, ha potuto dedicarsi interamente alla grande e per troppo tempo trascurata passione che è la pittura.
D.:
La prima domanda sorge spontanea: come si conciliano la carriera di insegnante e quella di artista?
R.:
In realtà, nel mio caso, la carriera di insegnante di scuole elementari ha sottratto molto, certamente troppo tempo alla pittura ma soprattutto la concentrazione che naturalmente essa richiede. Inoltre l’assegnazione di cattedra a Verona mi ha portato lontano da casa per tantissimi anni e solo di recente mi ero stabilito finalmente a Nardò, insegnando presso diversi istituti scolastici della provincia di Lecce. In fondo una storia comune a tanti colleghi insegnanti. Per questo motivo non ho mai pensato alla carriera di pittore, almeno fino a quando non mi sono congedato.
D.:
Qual è stata la materia insegnata con maggiore entusiasmo?
R.:
Io faccio parte della generazione dove vi era un unico maestro per tutte le materie, per cui ho insegnato contestualmente geografia, storia e matematica ma gli studi sociali devo dire che mi hanno sempre appassionato in maniera particolare, e nel settore antropologico ho voluto soffermarmi, anche e soprattutto per mie ricerche personali.
D.:
Le prime opere a quale periodo appartengono?
R.:
Già dalle scuole medie e successivo Istituto Magistrale colsi nelle mie doti una certa propensione per la raffigurazione artistica e per la pittura in particolar modo, che però solo successivamente assecondai in maniera adeguata dedicandole, come hobby, gli esigui spazi che la professione di insegnante mi concedeva. Esposti in questa stanza, ad esempio, si possono vedere quadri di oltre trentacinque anni or sono ma dai quali, in fondo, emerge una sorta rodaggio stilistico, se confrontate con le raffigurazioni appartenenti all’attuale filone intrapreso ultimamente.
D.:
Quando ha avuto inizio il contemporaneo percorso dedicato a questi paesaggi eterei?
R.:
Esattamente dieci anni fa. Nel 2005 infatti realizzai un paio di opere che in un certo qual modo sancivano l’inizio del lungo cammino attraverso le fiabe che dipingo. Conservo ancora quelle tele, e molto gelosamente anche; sono le uniche dalle quali non ho intenzione di separarmi assolutamente. Fui a tal punto rapito da questa intuizione, dall’aver trovato lo stile identificativo, nonché il personale linguaggio espressivo, che continuai a lavorarci per migliorarlo e affinarlo. È una tecnica che mi appaga e giunto a questo punto io credo che non l’abbandonerò più.
D.:
Per quale ragione alcuni quadri sono corredati di testo?
R.:
Va detto che questi paesaggi fiabeschi sono creati per un pubblico anagraficamente variegato, ma possono essere letti meglio solo dal bambino innocente che è dentro ognuno di noi. Spesso, per rafforzare il messaggio, prendo in prestito alcune citazioni tra quelle che più mi hanno colpito; un esempio tra tutti è la canzone Imagine diJohn Lennon, il cui testo incarna perfettamente il mio pensiero e di conseguenza l’aspirazione ultima della mia attività di pittore, tant’è vero che ne ho recentemente utilizzato un estratto in un’opera.
Talvolta alcune frasi sono riportate a fronte della tela, a corredo dell’immagine, attraverso una poesia o poche semplici parole. Altre volte sul retro, rendendo il quadro double face.
D.:
Per quanto riguarda le poesie, prediligi qualche autore in particolare?
R.:
Le poesie di Gianni Rodari spesso mi sembrano concepite per descrivere i miei quadri giacché si rivolgono proprio al bimbo interiore, che poi è anche il mio interlocutore. Quella parte semplice, buona ma altresì scomoda, nella vita di tutti i giorni tendiamo a sfuggirla perché la società moderna ci preferisce artefatti. È per questo che dedico allo scrittore piemontese molta attenzione in quanto il suo linguaggio e i suoi pensieri il più delle volte collimano con i miei. C’è anche la poesia “Ho dipinto la pace” di Tali Sòrek che esprime molto bene il senso di ciò che faccio.
D.:
C’è stata o c’è qualche persona che ha contribuito più di altre affinché l’estro artistico fosse correttamente coltivato?
R.:
No, non una persona in particolare ma tutte quelle che nel corso degli anni si sono dimostrate attente alla mia arte hanno contribuito a motivarmi. Soffermarsi a guardare un quadro non è sufficiente. I quadri, se si apprezzano veramente, vanno acquistati affinché l’immagine, per catturare la sensibilità del maggior numero di persone, possa transitare il più possibile. Diversamente, se i dipinti restano relegati all’esposizione estemporanea, non ha quasi senso produrli.
Oggi, grazie soprattutto all’importante supporto della Galleria Art&Co. di Lecce, ho riscontrato un discreto successo presso gli appassionati che gradiscono e portano nelle proprie abitazioni i miei dipinti.
D.:
Certamente ci saranno invece dei punti di riferimento tra i grandi maestri della pittura. Quali?
R.:
Il metafisico Giorgio De Chirico e il surrealista Salvador Dalí sono i primi nomi che mi vengono in mente. Ma mi piacciono molto anche gli impressionisti. Attualmente guardo con parecchio interesse alle installazioni interattive moderne, molte delle quali le trovo suggestive ed estremamente efficaci.
D.:
È il Surrealismo la corrente artistica nella quale collocheresti i tuoi lavori?
R.:
Non credo che possa contenere appieno le mie opere poiché il Surrealismo originale tende a elaborare, imbellettare ciò che nasce ruvido. I surrealisti trattano i conflitti dell’animo, purificandoli; io invece prendo solo il buono che c’è e cerco di esaltarlo, anche perché della restante parte ne abbiamo già abbastanza.
D.:
Quanto ha influito, sulle tematiche trattate e sulla grafica scelta per illustrarle, l’aver avuto a che fare con i bambini?
R.:
Penso che ci siano delle connessioni e che l’innocenza dei bimbi abbia in qualche maniera influito sulle ambientazioni, ma non eccessivamente. Dopo tutto i paesaggi rappresentati appartengono a una dimensione metafisica, eterea, di sogno quindi. Ma un sogno cosciente, positivo, setacciato da ogni incubo o turbamento. Forse, più correttamente, potremmo dire che i miei quadri ritraggono un desiderio, una speranza di cambiamento per l’umanità. Quest’ultima, nel suo percorso evolutivo, deve necessariamente raggiungere un clima di fratellanza per non rischiare di estinguersi. Immagino perciò un universo dove ogni essere viva in pace col prossimo.
D.:
Mi è sembrato di capire che la musica abbia in qualche maniera influenzato questo pensiero “pacifista”. È così?
R.:
Certamente. Il singolo di Lennon è solo uno dei tanti esempi di canzoni alle quali mi riallaccio quando dipingo. Mi affascina gran parte del cantautorato internazionale compreso tra gli anni ’60 e ’70 perché era ancora vivo e palpabile, attraverso il significato dei testi, un senso di fiducia per la pace nel mondo e un futuro sgombro dalla minaccia della guerra. In quel periodo la parte sana dei giovani inneggiava alla crescita sociale e alla diffusione della consapevolezza attraverso l’esempio.
Non voglio credere che il discorso intrapreso da quella generazione si sia bruscamente interrotto, anzi desidero immaginare che presto rifioriranno, nuovi e splendenti, i grandi sentimenti di fratellanza e solidarietà che hanno contraddistinto quella che fu, per molti versi, una meravigliosa epoca.
D.:
Possiamo ritenere conscia la totale assenza, nelle raffigurazioni, di giocattoli moderni come possono essere i robot e i videogames?
R.:
Quella di omettere uno specifico genere di prodotti, a vantaggio di personaggi di pezza e giostrine, è sì una scelta, perché ho la presunzione di collocare i miei dipinti in una dimensione svincolata dalle epoche e dalle mode contemporanee. Ma allo stesso tempo, ovviamente, non posso nascondere che gli arcaici giochi dei sassolini e dei finti archibugi appartengono alla mia epoca, alla mia fanciullezza.
D.:
Considerando la personale esperienza, quanto è importante per un artista affidarsi a un gallerista?
R.:
Importantissimo, quasi una necessità! Per me la galleria Art&Co. ha rappresentato un valido aiuto sotto molti aspetti, sia dal punto di vista economico che da quello logistico. Per fare un esempio: occorre un professionista per preparare, allestire e curare una mostra personale o anche collettiva di successo, non si può improvvisare d’essere persone esperte. A ognuno il suo. Inoltre i contatti giusti possono fare la differenza sul buon risultato; e non parlo solo di clienti ma anche di critici coi quali sondare la soglia di apprezzamento delle opere. Tutto questo senza contare poi il trasporto del materiale espositivo laddove la mostra sia distante dalla residenza dell’artista.
D.:
C’è qualche artista locale che ti piace per il suo lavoro?
R.:
Conosco personalmente e apprezzo moltissimo lo scultore neretino Daniele Dell’Angelo Custode per le sue indiscutibili doti pratiche e artistiche. Daniele, che è molto più giovane di me, è ancora alla ricerca della sua strada da percorrere ma ha molto talento ed è ambizioso. Riuscirà a raggiungere di sicuro gli obiettivi che si è prefissato.
D.:
In che modo il nostro territorio risponde alle necessità crescenti degli artisti salentini?
R.:
Con difficoltà, io credo. C’è ancora tanto da fare e le amministrazioni pubbliche hanno il dovere di individuare nuovi spazi per l’arte, al fine di permettere agli artisti di lavorare ed esporre anche gratuitamente. Capisco che non viviamo a Milano ma avere anche qui dei poli museali per l’arte consentirebbe alle famiglie di apprezzare opere che magari non tutti possono permettersi di avere in casa. A me, un paio d’anni addietro, è stata data la possibilità di esporre in maniera permanente un quadro, addirittura all’interno di una importante pinacoteca in Egitto; la stessa cosa non vedo perché non possa avvenire da noi.
D.:
A cosa serve, oggi, qui, produrre arte?
R.:
Chi fa arte sa di sollecitare determinate consapevolezze e si prefigge di ingentilire gli animi, di smusare certi spigoli propri dell’uomo. Sono dei propositi altissimi soprattutto se si considera che oggi siamo contaminati da innumerevoli inasprimenti. Poi l’arte è un bisogno che nasce da dentro. Chi fa arte spesso è alla ricerca di risposte che intimamente già conosce. Gli artisti, in tal senso, sono dei ricercatori instancabili che leggono, si informano, ascoltano buona musica e tutto questo induce loro e chi li osserva ad essere mentalmente aperti, disponibili ai cambiamenti, nonché meno propensi ai contrasti.
D.:
Quali attese riserva il nuovo anno?
R.:
Io spero di continuare a dipingere con la stessa costanza, perché le giornate trascorse senza dipingere per me sono quasi vuote. E poi vorrei che il messaggio di pace contenuto nei miei quadri si diffondesse in tutto il mondo come un virale e colorato passaparola. L’opera dal titolo “Niente per cui uccidere o morire” è la mia personale presa di posizione contro le armi e ogni altro tipo di violenza. La guerra, infatti, è una forma di dialogo da evitare con cura.
In mera ottica di senso civico e, insieme, di rispetto delle istituzioni, desidero rivolgere al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella il mio sincero plauso e vivo apprezzamento per aver inserito, fra i punti nodali del suo primo messaggio di fine anno, il problema (forse, sarebbe più giusto parlare di piaga) dell’evasione fiscale.
Al riguardo, la massima carica dello Stato ha testualmente detto: “L’evasione fiscale econtributiva, in Italia, nel 2015 ammonta a 122 miliardi”, aggiungendo: “Dimezzandol’evasione, si potrebbero creare oltre trecentomila posti di lavoro” e chiosando ancora: ”Le tasse e le imposte sarebbero decisamente più basse se tutti le pagassero”.
La cifra di 122 miliardi testé citata dal Presidente ricalca e conferma le conclusioni cui, già alcuni anni addietro, pervenne il Sole24Ore, a seguito di un’indagine sull’infedeltà fiscale in Italia basata sui dati ISTAT dell’economia sommersa, laddove si quantificava in 250 – 270 miliardi di euro all’anno l’area del sommerso economico, ossia dei redditi “sfuggiti” al prelievo tributario e/o contributivo e, di conseguenza, in 115 miliardi il gettito sottratto, ogni dodici mesi, all’Erario.
Si tratta, inconfutabilmente, di cifre terrorizzanti. E’ come dire che, senza le “perdite” inflitte da tale, lungamente datata, realtà, in Italia, nonostante gli sperperi e gli sprechi, non si sarebbe punto formato il debito pubblico o, con proiezione verso il futuro, che, nel giro di venti – trenta anni (appena un baleno nella vita e nella storia d’una nazione), si potrebbe rientrare completamente dall’attuale, faraonico “fardello”, giustappunto, del debito pubblico.
Però, bisogna cambiare radicalmente registro, la caccia e la lotta ai “furbi” – di qualsivoglia dimensione – che non pagano le tasse, deve diventare dura, implacabile, i rei scoperti e accertati, oltre a essere obbligati all’integrale refusione del maltolto, vanno puniti, non solo con pene restrittive della libertà, ma anche con il lavoro obbligatorio durante la detenzione, in modo che si auto mantengano e paghino i costi delle strutture carcerarie.
La faccenda è ormai indifferibile e assolutamente vitale, non si lasci nulla d’intentato per, finalmente, sistemarla, si ricorra, al caso, anche all’aiuto e alla collaborazione, con costi ovviamente a nostro carico, del Governo degli U.S.A., dove, come noto, le tasse sono corrisposte da tutti e su qualunque reddito, così da mettere finalmente a regime, anche da noi, un’efficiente macchina fiscale e far dare allo Stato, che, in fondo, s’identifica con le tasche comuni di noi cittadini, ciò che è dello Stato.
Tra le figure più affascinanti e controverse del ‘500 salentino vi è certamente quella di Giovanni Bernardino Bonifacio, marchese d’Oria (1517-1597) noto agli studiosi nel suo duplice aspetto di fine umanista e di precoce aderente alla confessione protestante augustana.
La sua vita fu per molti versi singolare: proprietario del feudo di Oria, e signore di Francavilla e Casalnuovo/Manduria, dopo la sua giovanile conversione al protestantesimo, che lo rese inviso all’Inquisizione, fu costretto ad abbandonare le residenze salentine (i castelli di Oria e Francavilla) e iniziò a vagare in esilio per l’Europa, alla ricerca di un luogo in cui poter professare liberamente la sua fede. Morì a Danzica, città alla quale donò la sua collezione di preziosi volumi a stampa, che egli era solito portare con sè nei continui spostamenti.
I testi di proprietà del marchese (che trattavano gli argomenti più vari e in cui non mancavano classici latini e greci) costituirono, di fatto, il primo nucleo librario della nascente Biblioteca Civica di Danzica, di cui l’esule oritano può considerarsi a pieno titolo il fondatore.
Tra i principali conoscitori della vita e del pensiero di Giovanni Bernardino Bonifacio vi è lo storico ed archivista svizzero Manfred Edwin Welti (1936), grande studioso del protestantesimo .Egli ha dedicato molti anni allo studio delle vicende dell’esule religionis causa, focalizzando la sua attenzione, in ultimo, perfino sulla psicologia e sulla vita privata del marchese, allo scopo di definirne meglio la non comune personalità. Lo storico svizzero si è avvalso, in questo senso, soprattutto dello studio dei componimenti poetici, delle lettere e delle note marginali che il Bonifacio soleva apporre ai volumi letti (diverse centinaia), dall’analisi delle quali emergono i dati principali relativi alle sue convinzioni in materia di morale e di fede.
Ne risulta una personalità complessa e ricca di sfumature, in continua evoluzione, orientata, come sottolineano gli studiosi, in direzione di un protestantesimo di marca melantoniana, con forti accenti moralistici.
Al fine di approfondire la nostra conoscenza di questo personaggio per più versi eccezionale (purtroppo sconosciuto al vasto pubblico) abbiamo contattato personalmente il Prof.Welti, con il quale abbiamo anche discusso del metodo utilizzato nelle sue ultime ricerche, fondato sull’approccio cosiddetto psicostorico.
In relazione alle vicende ed al pensiero di Giovanni Bernardino Bonifacio, Welti ha sostanzialmente richiamato le osservazioni fatte nei principali volumi da lui dedicati all’esule, vale a dire “G.B.Bonifacio, Marchese d’Oria, im Exil, 1557-1597”(Ginevra 1976); ”Dall’Umanesimo alla Riforma. G.B.Bonifacio, Marchese d’Oria, 1517-1557 (Brindisi 1986); “Un addio a G.B.Bonifacio Marchese d’Oria ,1517-1597 (Basilea 2011).
A questi contributi, oltre che alla vasta bibliografia sull’esule oritano, rimandiamo il lettore che volesse approfondire l’interessante argomento. Rispetto invece al metodo di indagine utilizzato, Welti ha sottolineato che esso risulta incentrato appunto sulla prospettiva psicostorica.
La psicostoria costituisce un indirizzo storiografico che, per definizione, tende ad “integrare nell’indagine storica gli approcci metodologici propri delle discipline psicologiche” (cfr. PBM Storia, ad vocem). Si tratta di una prospettiva innovativa di ricerca storica, non di rado osteggiata dagli ambienti accademici, ma che possiede comunque una sua dignità scientifica. Essa si fonda appunto sull’ interpretazione dei dati documentari e filologici alla luce delle nozioni fondamentali della psicologia.
Attraverso il metodo psicostorico si sono indagate personalità eminenti quale , ad es., quella di Martin Lutero (Cfr.E.Rivari, La mente e il carattere di Lutero, 1914), nonchè aspetti fondamentali della mentalità, delle istituzioni e del costume degli uomini dei secoli passati.
Rispetto all’approccio psicologico, con cui Welti ha indagato anche le vicende dell’esule Bonifacio, lo storico svizzero sottolinea che esso deve fondarsi comunque sempre su una solida base filologico-documentaria , al fine di evitare di ricadere nel romanzo storico, con i suoi inevitabili caratteri di finzione letteraria. Anche se lo scopo della ricerca storica resta quello di giungere ad una ricostruzione verosimile della realtà dei fatti, fondata sui documenti, un utile contributo può comunque venire , come già detto, anche dalle discipline psicologiche, che possono rivelare aspetti delle personalità e dei popoli del passato spesso non sufficientemente illuminati dalla tradizionale documentazione d’archivio.
Il ricercatore che si avvale del metodo psicostorico non esita ad indagare anche gli aspetti più reconditi delle figure del passato, come, ad esempio, la vita sessuale ed i rapporti familiari e sentimentali, allo scopo di fornire un quadro più esaustivo delle personalità studiate.
Il prof.Welti ha già prodotto una serie significativa di pubblicazioni sull’argomento, che, redatte in tedesco, attendono solo di essere tradotte in lingua italiana e diffuse presso il grande pubblico. E se è vero che un romanzo come Anna Karenina può fornire una serie di indicazioni più che attendibili sulla società russa dell’Ottocento, al pari di ogni ricerca storica puntuale condotta sull’argomento, è prevedibile che gli studi psicostorici avranno ancora lunga vita.
“Come da abitudine Tap continua a intrattenere con il territorio salentino una relazione costruita su promesse da marinaio. I lavori per la costruzione del gasdotto non coinvolgeranno nessuna azienda pugliese, e questo nonostante le promesse e le rassicurazioni che all’inizio della vicenda venivano rilanciate a livello locale dai tanti fautori dell’approdo a San Foca, tra i quali gli stessi rappresentanti locali delle imprese oltre a una schiera trasversale di esponenti polit…ici dei quali in queste ore non sentiamo le voci.
Spiace constatare come questo territorio continui ad essere considerato come una sorta di colonia e la sua classe dirigente, non solo politica, come una creatura facilmente addomesticabile, con l’anello al naso. Dopo aver letto in passato che quest’opera avrebbe portato sviluppo e lavoro per le aziende locali, oggi leggiamo che per l’economia locale ci sarà spazio nei subappalti. Si tratta di zuccherini per addolcire quella che sarà una umiliazione e un’offesa. Stiamo concedendo un prezioso tratto di costa, uno dei più interessanti in Puglia dal punto di vista turistico e ambientale, in cambio di niente.
Insopportabile è poi il trattamento che Tap riserva alla Regione Puglia e al suo Presidente, “snobbato”, come titolano i giornali di oggi, da una azienda che di fatto ha chiuso le porte a qualsiasi tipo di confronto”.
di Pino de Luca
Andare a Brindisi, percorrere strade dell’adolescenza mi è sempre fonte d’entusiasmo. Arrivarci, guardarsi intorno ed anche più in là fa stringere il cuore. Anche i posti abbelliti sono tristi, vuoti, un senso di solitudine e di abbandono.
La percezione diretta ed immediata che il “DIVIETO” sia l’unico mezzo per evitare il degrado. Divieti, multe, sanzioni dal peso crescente per l’uomo comune. Uno stato peggiore dello Stato di Polizia, quello aveva… una logica, questo è solo uno schema di gabellotti che tassano la maleducazione. Dei morti di fame. Chi è ricco può essere maleducato senza alcun problema, perché “io so’ io e voi nun siete un cazzo!” diceva il Marchese del Grillo.
Come per la vicenda Xylella della quale mi ero ripromesso di non parlare e non ne parlerò, ma è semplicemente vergognoso l’attacco alle questioni sollevate dalla Procura di Lecce. Nessuna risposta nel merito solo affermazioni calunniose e petizioni di principio sulle quali ci sarebbe molto da discutere anche a livello semplicemente di principio. Nessuno vuole sentirsi messo in discussione in questo paese, una volta messa una berretta si diventa subito infallibili. Se volete essere infallibili in ministero dovete rassegnarvi ad usare la mitra non la coppola o il cilindro.
Difendetevi nel processo se avete ragioni da opporre, collaborate, date spiegazioni e sarete assolti. Voi potete farlo, gli ulivi no, loro non hanno potuto e voi avete proceduto ugualmente senza nemmeno pensare che possero esserci altre vie. Voi che siete gli esperti e avete consumato due anni e diversi milioni senza venire a capo di nulla.
Non dirò Buon Natale con allegria quest’anno, non lo è affatto. Per ragioni private e per ragioni pubbliche. Ho sentito donne musulmane che pretendono (e hanno) “piscine per sole donne” e inventano costumi da bagno castigati. Sono tollerante con tutte le religioni ma questo non mi impedisce di continuare a pesare che esse (o il loro uso) siano una delle ragioni che rendono l’umanità infelice e sottomessa.
Caro Gesù tu non c’entri nulla, ci hai rimesso pure la ghirba e hai vissuto pene e sofferenze, ti hanno condannato innocente per salvare un criminale. Son passati duemila anni e siamo sempre allo stesso punto …
P.S.: Divertitevi più che potete. La vita è triste La vita è dura Qualche volta Fa proprio paura. Ma diventa assai più bella cu la zampogna e cu la ciaramella.
“Sappiamo che la classifica del Sole24ore è solo una delle possibili modalità con le quali possiamo misurare come si vive davvero nei vari territori d’Italia. Ma di certo non fa piacere scoprire che il più autorevole quotidiano economico collochi il Salento sul fondo della classifica della qualità della vita. Se vogliamo fare i conti con la realtà dobbiamo considerare le carenze che la ricerca del Sole24ore ci indica come altrettante sfide per migliorarci.
C’è per esempio il grave deficit sulla dotazione di asili nido, sul quale è fondamentale investire. Lo diciamo da anni, ma questa opera di infrastrutturazione sociale a beneficio soprattutto delle madri lavoratrici e dei padri lavoratori non è stata ancora compiuta. C’è il capitolo sull’ambiente, che vede il nostro territorio gravemente inquinato dagli ecomostri di cui ci siamo fatti carico nei decenni passati, e che è un dovere riconvertire a modalità produttive più sostenibili e da un sistema di trasporto pubblico che va rivoluzionato investendo sulla metropolitana di superficie, in grado di sostituire il traffico e l’inquinamento delle automobili.
C’è il capitolo dell’economia che vede, nonostante i continui proclami, la provincia di Lecce gravemente in ritardo sulla percentuale di produzioni locali che vengono esportate: siamo una economia ancora troppo chiusa su sé stessa e senza un investimento nelle nostre produzioni locali e su politiche economiche rivolte al dialogo con i nuovi mercati emergenti, resteremo un popolo, come sottolinea ancora la ricerca del Sole, i cui giovani sono destinati all’emigrazione, anche per il bassissimo tasso di occupazione.
Va ancora troppo male, qualunque cosa affermi il sindaco di Lecce, la spesa dei turisti stranieri nelle nostre località. E ciò perché, nonostante l’attitudine di molta classe politica, come lo stesso Perrone, a vantare prestigio e riconoscimento internazionale, nelle nostre città i turisti stranieri sono scarsamente assistiti, gli operatori, a partire dalle pubbliche amministrazioni, non parlano le lingue straniere e non riescono a stabilire un rapporto duraturo con chi visita il Salento.
La bassa prestazione sul fronte della sicurezza, in particolare estorsioni e rapine, ci mostra poi quanto ancora ci sia da fare e da denunciare sul fronte della lotta alla criminalità organizzata, la quale, come le recenti indagini della magistratura dimostrano, è presente e riesce a stabilire rapporti con amministratori pubblici.
Tutto ciò produce, inevitabilmente, un tenore di vita basso, anzi bassissimo, dovuto in primis dalla carenza di infrastrutture di cui soffre il Salento e dunque dell’impossibilità di comunicare con il mondo.
Da parte mia accolgo questa classifica non certo come il Vangelo, ma certamente come una ulteriore indicazione sui campi e sui temi sui quali bisognerà lavorare nei prossimi anni. La retorica del sole, del mare e del vento non deve mai essere usata dalla politica per evitare le proprie responsabilità. C’è, invece, bisogno di rimboccarsi le maniche, non solo per riguadagnare posizioni, ma soprattutto per rendere il Salento un posto davvero migliore in cui vivere”.
Mi infilo in quello sgabuzzino che apro tre o quattro volte l’anno e raccolgo quei sacchi neri dove avevo riposto tutto, giusto un po’ prima della scorsa Pasqua. Libero l’angolo dove il mio capolavoro dovrà venire alla luce e anometiddiu comincio. Faccio la prova della prima serie di luci, non funziona, figurati! Per un attimo mi compiaccio profondamente che siano sottopagati quei fottuti operai cinesi, imparassero a fare cose durature! Mi ricordo del cacciavite, il mio unico attrezzo per ogni lavoro di casa (dovrebbe dare l’idea della mia intraprendenza nel fai-da-te). Non è a croce, e nemmeno a taglio, è semplicemente spezzato, non pervenuto insomma, per le mie necessità è sempre stato abbastanza però, potrei persino difendermi da un armadillo inferocito un giorno, vi pare poco? Provo con quello a smontare la scatolina in cui termina il filo delle lampadine e addirittura ci riesco. Provo a collegare un filo staccato, collego alla presa e per poco non ci resto secco nella sfiammata che ne segue. “Fanculo, non ci esco di casa manco morto”, decido di farmi bastare l’altra serie (già, l’altra serie!). Comincio a comporre l’opera, apro l’albero artificiale, ne distendo i rami, ci appendo le solite palle rosse decorate e tutte le carabattole variopinte, qualche angelo e qualche pigna finta. Dopo una mezzoretta, ai piedi ci metto una capanna, due pecorelle che non stanno in piedi, una madonna e un sangiuseppe, un bue e un asinello, una culla e due re magi (il terzo è disperso, non esco, non esco ho detto!). “È fatta quasi, è fatta dai..” – nemmeno il tempo di pensarlo e suonano al citofono. No! Lo zio M., lo zio M. cazzo! Lo zio M. ha deciso da un paio di mesi a sta parte di fare finalmente il gran salto dal telefonino allo smartphone, e ha deciso naturalmente che dovrò immetterlo io nella nuova era. Col computer ho impiegato solo sette anni a fargli capire come si manda una mail, e ciò nonostante mi chiama ogni volta che deve inviarne una. Niente, respiro profondamente e mi rassegno a una mezzora di inutile consulenza informatica e divagazioni sul senso della vita. Sono ad ogni modo là col puntale di polistirolo dell’albero in mano, pronto a godermi il momento imminente in cui dovrò riporre la ciliegina sulla mia torta quando, alle spalle, sento la voce dello zio M. che entra: “Hei, hai visto che hai una ruota della macchina forata?”. “Forata?”. “Si, vieni a vedere”. Esco col puntale dorato e brillantato in mano e non ci sono più dubbi: sabato sera andato! Impossibile trovare un gommista aperto! Una illuminazione mi risolleva: anche se molto sgonfio ho visto un ruotino prima in quello sgabuzzino e vado a prenderlo. C’è, che culo, c’è! Seppure molto sgonfio c’è davvero! Lo zio M. decide saggiamente di tornare un’altra volta ed io mi metto a smanettare, sudo come un camionista australiano finché non riesco a infilare quel ruotino. Vado a raccogliere crick e l’altra ferraglia necessaria a cambiare la gomma e a quel punto mi accorgo che il cane sta sgranocchiando quel che rimane del puntale di polistirolo che avevo poggiato per terra! Ormai è ridotto a brandelli! “Porc….nel canile ti dovevo lasciare, nel canile, maledetto!”. Fa nulla, “anche senza un puntale sarà un lavoro accettabile” penso mentre rientro a casa soddisfatto! Le mani imbrattate come un minatore mi costringono a un’ultima incombenza prima di dedicarmi a gustare il mio capolavoro, lavarle. Sapone finito, ecchecazzo! Non importa, anche zozzo voglio contemplare l’opera, me lo merito: vado a collegare la seconda serie di luci (ve la ricordate?!) e niente, buio totale, nemmeno un bagliore nell’universo oscuro! L’imprevisto sul lavoro di riparazione della prima serie mi aveva distratto e non ho più pensato a testare l’altra prima di procedere all’addobbo! Tutto da rifare, non ci posso credere! Sporco e sudato me ne sto accovacciato al buio sotto l’albero a chiedermi: quali scienza che indaga il caos può spiegare tutte queste sfighe intrecciate? Nessuna, solo questa è la ragione: sono veramente, indiscutibilmente, arrivate le feste!
“Anita, detta Nnita – Lettere ai giornali e appunti di viaggi”, Edizioni Spagine, Fondo Verri – Lecce, dicembre 2015, prezzo € 10.
E’ stata appena pubblicata una nuova raccolta di narrazioni di Rocco Boccadamo, scrittore salentino, nonché nostro collaboratore.
Il predetto autore è nato a Marittima e vive a Lecce.
Già dirigente bancario, dal marzo 2009 è iscritto, come pubblicista, all’Albo nazionale dei giornalisti.
Ha dato alle stampe i volumi: Volare in alto (2004), Il geco e la coccinella (2005), Ad una Lei (2006), Luminosa stella (2007), Io sono chi (2008), Il barbiere di Natale (2008), Il cavamonti sognatore (2009), Righefuori schema (2010), Quell’antico suonatore d’organo (2011), Quando il gallo cantava la mattina (2012), Una matinée al Santalucia (2013), L’asilo di donna Emma (2014)
Inoltre, nel 2014, ha pubblicato, per i tipi di Capone Editore, il volume Compare, mi vendi una scarpa? – Luoghi vicende e volti di un cantastorie salentino e, con Spagine – Fondo Verri Edizioni, il saggio Fratello narrastorie! Ricordo di Giorgio Cretì, dedicato allo scrittore salentino, nativo di Ortelle, recentemente scomparso.
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Di “Anita, detta Nnita”, riportiamo di seguito la prefazione curata da Ermanno Inguscio:
L’autore di questa pubblicazione, Rocco Boccadamo, presenta nel volume una serie di quarantasei racconti, scritti tra l’ottobre del 2013 e il giugno 2015, con la finalità di dare spazio a paesi e figure del Salento di un tempo, quasi un viaggio interiore di esperienze che sempre si rigenerano. L’humus contenutistico della raccolta affonda saldamente le radici nell’esperienza giornalistica ormai decennale dell’autore, costellata anche, da qualche tempo, da prestigiosi riconoscimenti in campo scrittorio ed editoriale. E’ sempre il sottotitolo dell’opera, Lettere ai giornali e appunti viaggi, a fornire al lettore l’indicazione dell’orientamento di Boccadamo in un campo di scrittura a lui ormai congeniale: il giornale e il viaggio, le lettere e gli appunti. Il viaggio è sete di conoscenza, è desiderio di allacciare nuove relazioni, è bisogno di comunicazione, anche e soprattutto con se stessi; il giornale è voglia di scrivere e storicizzare sia esperienze compiute per la vecchia Europa, sia in altri contesti, come in altre parti del globo, come nella antica Cina; è voglia di fermare l’eterno correre del lettore davanti a un flash di mezza cartella, irradiata da una rivista online su tematiche di attualità e del semplice vivere quotidiano. Per cui accade che la riflessione sul grande tema della conservazione della biodiversità della Terra e dei rischi connessi alle condizioni climatico-ambientali, sembra, quasi, pacarsi davanti alla descrizione disincantata di un lembo di Salento, di fronte al sito di Castrum Minervae. Un viaggio nei quarantasei brani del volume, scelti da Boccadamo in questa pubblicazione, che prende le mosse dall’incedere dell’autunno 2013 sino all’esplodere della rovente estate 2015. Un percorso, per questo arco temporale, ripreso dal suo ritorno ai fanghi di Abano Terme, che si conclude con una gita di gruppo a Santa Maria De Finibus Terrae di Leuca, sul promontorio japigio. Nel primo gruppo di brani, l’autore riferisce di fatti e personaggi incontrati in terra veneta, giustappunto ad Abano T., al consumarsi della stagione autunnale 2013; nel secondo, campeggia, tra i ventotto scritti, il racconto salentino di Anita, detta ‘Nnita’, che dà il nome alla raccolta. Nell’ultimo, si racconta del terribile naufragio del traghetto “Norman Atlantic” nel Canale d’Otranto, ma, a farla da padrone, sono i molti angoli della terra tra due mari, con Castro Marina, Serrano, Marittima, non senza puntate nella memoria delle esperienze lavorative del giovane bancario, fatte alle pendici dei Peloritani, delle Prealpi Venete e in Brianza. Ma quanti personaggi sembrano accalcarsi davanti all’inesorabile filtro del tempo: un vecchio parroco, persino le belle deputate presenti nel Parlamento nazionale, lu cumpare signurinu, la Nunziata di Castro, Zi’ Miliu e Vitale: su tutti l’autore si riversa con la sua voglia di raccontare e il garbo di un’accennata ironia a sferzare, quando è il caso, comportamenti utilitaristici di personaggi pubblici, amministratori delegati di colossi finanziari che sacrificano al dio – profitto persone e cose. Nell’ultimo gruppo di lettere-appunti, a coprire il primo semestre del 2015, Boccadamo abbraccia con la sua esperienza scrittoria tutta la Puglia, dalle Isole Tremiti, a Lecce, alla sua amata Castro e dando un tributo di affetto al Santo del Gargano, Padre Pio, il quale per buona parte del Novecento, dalla sua montagna sacra sino a Punta Meliso di Santa Maria di Leuca, ha fuso esperienze di umana solidarietà con la potenza della preghiera e l’eccellenza della scienza medica nella “Casa Sollievo della Sofferenza”, struttura di San Giovanni Rotondo a servizio di tutta la comunità nazionale. Ciò non è frutto di una specie di distrazione tematica per Rocco Boccadamo. Il suo Salento, come vero luogo dell’anima, non viene affatto mortificato da riferimenti come quello fatto al Santo cappuccino della sofferenza, testimone del Novecento, che polarizza devozione e un riconosciuto fenomeno di flussi turistico-spirituali verso il Gargano. Nel Salento, del resto, come anche in tutta la Penisola, non vi è contrada che non presenti testimonianze di affetto per il Santo da Pietrelcina, con statue ex voto, altarini, cappelle e manifestazioni di autentico culto popolare. Questo volume pubblicato dall’autore, dunque, continua a percorrere, a cominciare dal titolo, Anita, detta ‘Nnita, un campo di esperienza scrittoria, che scopre un orientamento verso le problematiche del mondo femminile, l’altra metà del cielo dell’esperienza umana, presentate come universo di riferimento obbligato per chi voglia dare un senso alla propria esistenza. Ed anche la stessa copertina della pubblicazione, riproduzione di una pittura di Carlo Colella, artista leccese di buon gusto e raffinata creatività, riproduce in sintesi un tipico paesaggio contadino del Salento di un tempo, affidato a delicati profili collinari e a una incisiva valenza cromatica floreale. Boccadamo, dunque, sebbene con i piedi sulla terra del suo magico Salento, mostra sempre attenzione ai drammi dei continenti di tutto il mondo, come quello dell’11 settembre 2001 a New York, dell’Iraq, dell’Afghanistan, del Medio Oriente, della Siria, della Libia. Ma nel brano pubblicato il 12 gennaio 2015, significativamente annota: “Non possiedo galloni di penna da richiamo, né tantomeno di fonte di cultura e di opinione. Sono soltanto un comune narrastorie”. A rimarcare che la sua visione del mondo, negli appunti e nelle sue riflessioni, va al di là dell’ambito di sola ispirazione campanilistica, collocandosi in una doverosa dimensione glocalistica. Ma il narrastorie Boccadamo è sempre più affascinato dal braccio di mare di Castrum Minervae, il cui scenario e palcoscenico, per la maestosità della distesa tra Adriatico e Ionio, tra le coste dell’Albania e le isole greche, fanno del terrazzamento della Marina ‘u tinente la piattaforma privilegiata dei suoi pensieri: il silenzio, la muta presenza dei giovani olivi, il profumo della macchia mediterranea, lo riportano agli affetti famigliari spesso goduti, com’egli scrive, tra “la tenuta della Pastorizza, la pinetina, la Marina ‘u tinente, nei panni di novello eremita del terzo millennio. Così, il cammino lungo l’attuale tratto esistenziale è sempre vivo ed ha il pregio di lasciarmi attivi e vivi, dentro, segni e sentimenti d’ideale gioventù”. E questa può essere una motivazione in più, per il lettore, a volersi immergere, ancora una volta, nel piacere di una buona lettura.
Il recente scandalo delle quattro banche colpevoli di aver letteralmente bruciato i risparmi di una vita per più di 100.000 cittadini, ricorda per molti aspetti un’altra truffa bancaria, risalente a non molti anni fa. Il riferimento è alla brutta vicenda che sfociò nelle vendita di Banca Del Salento a MpS.
Era il 1999, del misterioso mondo dei derivati non si sapeva tanto, e forse proprio per questo sono stati venduti un po’ a chiunque. La Banca de Salento, per esempio, li piazzò in prodotti che, causa la struttura altamente rischiosa, non dovevano essere venduti “al dettaglio”. Ad esempio non dovevano finire nel portafogli della vecchia figura del piccolo risparmiatore, quello che per intenderci vuole continuare ad usale la banca alla vecchia maniera: deposito e investimento mirato ad accumulare riserve. I derivati, su indicazione dei vertici della banca salentina, finirono invece in prodotti tossici dai nomi rassicuranti come MyWay, 4You e Dolcevita, proposti come soluzione ideale a qualsiasi richiesta di risparmio. Direttori di filiale e promotori finanziari non si fecero scrupoli a definirli sicuri e convenienti, in barba al rapporto di fiducia tra risparmiatore e istituto di credito a forte carattere territoriale.
Come riportano le cronache dell’epoca (1), i bilanci della Banca del Salento erano pieni di centinaia di migliaia di prodotti a rischio, il cui scopo era doparne i conti in attesa di vendere l’istituto al miglior offerente, in quel caso il Monte dei Paschi. Al prezzo di 2.500 miliardi di lire MpS acquistò 94 sportelli, 1400 dipendenti, 1700 promotori finanziari e 16mila miliardi di lire di raccolta. Qualche anno prima, quando ancora non si vendevano derivati truffando i risparmiatori (finanza creativa, così la chiamano), i dipendenti erano 877 e raccoglievano circa 5mila miliardi di lire di capitale.
Le modalità di raccolta di capitale da parte delle banche, oggi come ieri, hanno poco a che vedere con l’investimento in economia reale e la sicurezza che, almeno i risparmi di una vita, restino fuori dall’azzardo della finanza creativa. Per lo più si tratta di vere e proprie operazioni coordinate a livello centrale, finalizzate a rastrellare contanti dal territorio piazzando quanti più crediti deteriorati possibile. Premi rapportati alle quantità di derivati venduti, carriere veloci e frequenti spostamenti di sede sono stati un buon controcanto per direttori e cassieri di Banca Etruria. Esattamente come furono ottimi rimedi a salvaguardia dei dipendenti di Banca del Salento.
Ma soffermiamoci un momento sul sistema di salvataggio delle Banche. La truffa MyWay/4You finì inizialmente nel calderone MpS, salvata a livello centrale dalla comunità europea insieme all’intero sistema bancario dopo la crisi del 2007 con soldi dei contribuenti degli stati membri. Subito dopo lo scoppio della bolla immobiliare, provocata dalla speculazione finanziaria tramite derivati, i costi della crisi vennero scaricati interamente sui bilanci dei singoli Stati. Quei salvataggi, insieme al pagamento degli interessi sui titoli di Stato negli anni seguenti il divorzio, furono le vere cause dell’aumento fuori controllo del debito pubblico italiano. La narrazione ufficiale degli ultimi anni ci ha raccontato una storia differente. L’aumento del debito contratto dagli Stati nazione, professavano politici ed intellettuali in tv e sui giornali, fu causato dagli sprechi di Paesi poco virtuosi, sopratutto nel capitolo spesa sociale. La soluzione si trovò in un regime politico emergenziale, tutt’oggi vigente, gestito imponendo austerità agli Stati colpevoli di aver speso troppo e male. I Governi che si sono succeduti da allora hanno usato, e usano ancora oggi, questa argomentazione per giustificare i continui tagli alla sicurezza, al welfare e alla sanità. Il mondo della politica si è posto a difesa della finanza speculativa, socializzando le perdite delle banche attraverso un processo di colpevolizzazione delle generazioni precedenti l’attuale. Come risultato abbiamo ottenuto un lento ma inesorabile svuotamento del sistema sanitario nazionale. Per non parlare delle continue riforme del sistema pensionistico o dei tagli al comparto sicurezza. Niente rende quanto il settore pubblico, quando c’è da trovare un colpevole.
Oggi però, alla vigilia della chiusura e ridimensionamento di 25 ospedali in Puglia volute da Emiliano per non aumentare le tasse, e causate delle politiche di austerità e ai tagli del Governo Renzi, è bene fare mente locale e capire che, le truffe perpetrate del sistema bancario nei territori non riguardano solo il danno economico di risparmiatori che vedono azzerati i propri risparmi, ma coinvolgono intere porzioni di Paese nel momento in cui si palesano gli effetti a lungo termine.
In questo gioco al massacro in cui a perdere sono sempre i cittadini, che siano visti come risparmiatori o posti letto poco importa, la politica ha giocato un ruolo di primo piano. Dai dalemiani che facevano bello e cattivo tempo su Banca del Salento ai renziani che hanno speculato su Banca Etruria poco o nulla è cambiato.
Anzi, qualcosa si è mosso. Oggi col Bail In la responsabilità è in capo al risparmiatore, così impara a farsi fregare dai banchieri. Speriamo solo che arrivato il momento di essere elettori, certe fregature, possano tornare utili.
Il concetto di dieta mediterranea, introdotto per la prima volta da Ancel Keys e Francisco Grande nel 1957, si può riassumere come il modello alimentare tradizionale riscontrato nelle aree olivicole del Mediterraneo, a cavallo tra il 1950 e il 1960. Questo tipo di regime alimentare è caratterizzato dall’elevato consumo di frutta e verdura, cereali integrali, prodotti panificati, frutta secca, e da un uso medio-basso di carni bianche e rosse, pesce, prodotti caseari, uova e bevande alcoliche fermentate, come il vino abbinato ai pasti. L’olio d’oliva rappresenta la fonte principale di acidi grassi monoinsaturi ed è largamente utilizzato sia per il condimento che per la cottura dei cibi. Dall’inizio degli anni Novanta, svariati studi epidemiologici hanno dimostrato che la dieta mediterranea è in grado di prevenire numerose malattie cronico-degenerative…
Che farsene del Natale? Dei personaggi del presepe? Perché dovremmo ancora baloccarci con questo giocattolo? Non ci coinvolge solo il tempo dell’infanzia, per poi essere relegato nelle chincaglierie puerili? Se non possediamo affezioni, barlumi di sentimento verso i riti, perché semplicemente non dimenticarli e lasciarli scomparire? Perché questa ostinazione?
Siamo capaci di viverlo come viene, gustando il piacere di stare insieme, degli abbracci, dei sorrisi, dei regali? Proprio questi sono spesso causa di rifiuto verso una apparato di comportamenti che francamente vorremmo evitare. Nel mezzo di una giostra di pensieri, di voci che discutono, che si tirano da una parte all’altra. Sullo sfondo della battaglia, una macchia di luce (una cometa?), spesso offuscata da nubi di dubbio, come un occhio ci osserva lacrimando inquietudine.
Il lavoro di Wilma incarna questa ostinazione a riproporci la “faccenda”, ma è un’ostinazione soffice e, quello che fa più timore, sincera. I personaggi di “Voci per un presepe” sono sotto l’influenza di un bisogno metafisico. Il punto di vista cristiano non è una limitazione, ma una chiave. Questo è un bisogno che non dipende dalla loro condizione di povertà, non è il loro oppio. È la loro urgenza ad infiammare la cometa, a farne un fenomeno più che astronomico. Se distogliessero lo sguardo dal cielo, se interrompessero i loro passi, la cometa si spegnerebbe all’istante come una stella filante. Si può fare a meno di questo bisogno? Se ne può fare a meno, certo, ma resterebbe sempre in fondo un frammento caldo che pungolerebbe l’animo per tutto il tempo della vita. Nessuno sfugge a questa urgenza tra i personaggi del presepe di Wilma, neppure quelli in apparenza più calcolatori. Sono convinto che sotto la saccenza dello Scriba e l’interesse del Mercante si celi il maggior bisogno. Il loro passo è il più svelto verso la stalla e non per dimostrare l’ignoranza della gente o per la fretta di fare affari. È un malanno da cui i personaggi sono affetti, proprio come lo siamo noi in quanto uomini. Li vediamo alcuni di questi personaggi sulle tavole di Marco Musarò. Scolpiti in blocchi di colore, restituiscono una solidità in cui tutto appare come un mosaico di pietra dura, avvolto dalla morbida luce notturna. Con le sue tavole, ci racconta, in modo personale, i diversi punti di vista, la peculiare sospensione di ogni figura davanti all’insolito avvenimento, che accade in realtà nel firmamento interiore. Possiamo avvisare un silenzio di stupore, un loro pensiero giocoso o di carità, qualcosa di pratico che si dicono sottovoce.
Le voci che si alternano nel libro sono voci di una coscienza unica che oscilla tra incredulità e abbandono, tra il vizio della ragione e l’assurdità del dono. Queste voci, sebbene usino a volte le parole di speranza, p.es “[…] Colui che ci sgraverà dal peso della vita e ci darà ali per volare[…]”, la speranza l’hanno già risolta. I loro passi verso la stalla sono già un volo, carichi di un’energia che li ha riempiti, e ha nutrito il loro bisogno.
La notte del presepe non è una notte silenziosa. Alle voci immaginate da Wilma, se ne aggiungono altre. Non è affatto difficile vedere i musicisti e i cantanti protagonisti del disco aggregarsi ai personaggi del presepe, avvicinarsi piano e sedersi intorno alla culla. E poi incominciare a suonare i loro strumenti, sommare una a una le loro voci per la Strina oppure intonare la ninna nanna per il bambino. Immaginiamo, per puro caso, oggi, di avere l’animo intirizzito, che ha abusato del cinismo, delle sicurezze di una ragione utilizzata con sicumera. Sguainiamo il coltello della ragione, contro nemici invisibili, mentre sono le nostre mani a sanguinare. Cosa potremmo augurare a noi stessi? Rispondono volti amici che aprono la porta, t’offrono un bicchiere, ti fanno accomodare davanti al camino e cantano e suonano con tanta sincera lietezza che vorresti spaccare il bicchiere e fuggire via. Ma è troppo tardi ormai, perché t’è sfuggito il primo sorriso e non puoi più tornare indietro. Ahimè sei a tuo agio, sei fregato e ora vuoi restare nel cerchio che ti sembra perfetto e non importa se auguri o meno buon Natale, sei un ceppo anche tu ora del focolare. Qualcuno maledica la nostra debolezza umana che ci lascia sensibili alla musica, al vino, a un sorriso.
È un disco briccone, che s’insinua nell’orecchio, velenoso. Ci propone la sfacciataggine di temi tradizionali, l’arroganza di lingue minori in via d’estinzione e perfino (sic!) del dialetto. Ci ha preso già la mano e intontito dai ghirigori del fuoco, batti una gamba, o forse lasci andare gli occhi ad una ninna nanna, o ti maledici di non sapere bene le parole di quella canzone lì e poi ti culli sul quel tema di chitarra che è piacevole sentire prolungare ancora e ancora.
Nel disco avviene un incontro luminoso di esperienze artistiche diverse che vivono la propria terra amandola a cuore aperto, a cuore piagato dalla sua modestia, a cuore lacerato dalla sua ricchezza e bellezza svendute per pochi soldi, ma con dignità enorme e forza bellissima. Forse a chi fa il mestiere del musicista in questo angolino d’Italia, sembra delle volte di suonare in una stalla, per pochi zotici accorsi per una curiosità in apparenza molto poco metafisica. Ma il loro bisogno, come quello delle “Voci”, li tiene in equilibrio, li sostiene e loro non lo tradiscono, grazie ad un’ostinazione che sfiora la follia. Sono per noi riferimento, come una cometa alimentata dal calore che questa musica sprigiona. Siamo invitati a metterci in cammino.
Paolo Vincenti è una sorpresa piacevole, nel senso che è sorprendente… Nei sui romanzi ci trovi di tutto, amore innanzitutto, passione, humor, thriller, cultura, senso della vita, satura lanx, parresia, grottesco… insomma un pranzo o una cena da Paolo Vincenti ti costa ma ti sforna ogni ben di dio. Se poi accanto a lui schiera un certo strimpellatore di nome Michele Mike Bovino allora non ti salvi più. Resti inchiodato alla sedia e reclami un altro verso, un altro brano, un altro ritmo. Non finirà che con nuove letture, nuovi versi e brani e canzoni e poi altri… Rimani scioccato e colpito, chiedi venia, chiedi il bis. E’ tutto così bello che non ti accorgi del trascorrere del tempo… tutto fila liscio fino alla mezzanotte. Del dopo non rispondo, e neanche loro credo. Paolo Rausa
SANGUE DROGA E SESSO NEL CULTO DI CIBELE E ATTIS
“Nello svolgimento logico della vita, accadono dei fenomeni che facilmente sconvolgono la nostra traballante sicurezza, il nostro equilibrio precario. […] Al di là di ogni previsione, all’infuori di ogni prospettiva, si verificano delle coincidenze significative, che annullano la catena di causa ed effetto. È la sincronicità, il portento che ci afferra le braccia, il paradosso, l’occasione illuminante, lo scandalo, l’alchimia, il caso che entra nella nostra esistenza e in un attimo la scombina”. Queste parole aprono la seconda parte del romanzo “L’ombra della madre” (Edizioni Kurumuny, Calimera, 2015) di Paolo Vincenti e in esse sono condensati i momenti salienti del thriller-noir, anticipandone – a pensarci bene – il finale. In questo ultimo, in ordine di tempo, romanzo del giovane scrittore-professore di Ruffano vengono esaltate la grande cultura personale e la soprattutto la padronanza della materia trattata, il mistero, in cui si immergono i protagonisti del romanzo in terra salentina. Infatti Francesca, Riccardo, Fabrizio, Alessandra ed altri ancora, che vivono a Lecce, vengono ineluttabilmente assorbiti dai riti del culto antichissimo di Cibele e di Attis. La elegante narrazione avvinghia sempre più il lettore alle pagine del romanzo, mentre i personaggi (a volte vittima, a volte carnefice, a seconda delle situazioni) si immergono nei riti satanici col proprio e l’altrui sangue in un susseguirsi di droga, canti, balli (pizzica) e soprattutto sesso in tutte le sue accezioni, esercitato anche con gay e con trans. Ambientato nel Salento, il romanzo si sviluppa con continui colpi di scena assolutamente imprevedibili e con l’entrata in scena di personaggi nuovi che fanno da contorno ai protagonisti che, col trascorrere delle pagine, evidenziano la vera essenza della loro natura (demoniaca?). Il finale è mozzafiato e naturalmente non va svelato in questa sede: basti sapere che una stessa donna, la madre appunto, è stata artefice dei destini di tutti i protagonisti della storia. Il romanzo va sicuramente letto, anche perché la prosa di Paolo Vincenti, talmente ricercata da dover tenere sempre a disposizione un vocabolario della lingua italiana, introduce a studi specifici sul misticismo, solleticando la curiosità del lettore.
Rossano Marra
in “Il Galatino”, Galatina, 10 luglio 2015
“L’ombra della madre” di Paolo Vincenti, pubblicato da Kurumuny Editore, non è solo un noir in cui si intrecciano le storie di Francesca, Riccardo e Fabrizio, ma è soprattutto un romanzo psicologico nel quale si possono trovare sottili congiunzioni nella mente dei protagonisti che rivelano tra le pagine di un libro avvincente e ricco di pathos, dell’incredibile.
La trama ambientata nella cittadina leccese con vari richiami all’arte, alla storia, alla cultura, alla musica e alle tradizioni del Salento, è resa intricata per via dei misteri che cela con grande abilità Francesca Colasanti, una donna intelligente, affascinante e sensuale, ma con un risvolto inquietante della propria vita. Docente di Storia delle religioni presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Lecce, dopo gli anni trascorsi a Roma, Francesca agli occhi di chi le sta intorno risulta irresistibile eppure nella sua apparente determinazione e sofisticata spigliatezza c’è un lato oscuro che si svelerà lentamente. Ed è nella sua città d’origine che Francesca tenta di trovare il senso della sua vita. Intorno a questa figura intrigante e amletica c’è Sauro, il suo ex compagno, un uomo violento che non accetta la separazione da Francesca; Fabrizio, il suo amante, e Riccardo Valentini, professore alla sua seconda laurea, al quale è affidato il complesso compito di districare i nodi esistenziali della donna della quale si innamora perdutamente anche per l’aurea di mistero che la circonda. “Privilegio e dannazione: questo significava averla conosciuta”. Riccardo frequentando Francesca diventa sempre più consapevole di qualcosa di imponderabile che caratterizza il loro rapporto: “Sei bella e perversa” le diceva “e io sono caduto nella tua trappola, ci sono caduto e non ne so più uscire”. Con lei “Donna diabolica e bambina innocente, spudorata e selvaggia, eppure fragile e quasi ingenua” il ragazzo scopre una parte della propria natura rimasta per anni quiescente.
Essenza di questa storia è la ricerca storico-religiosa che prevale nel romanzo “L’ombra della madre” tanto da risultare impregnato di un aspetto arcaico ed esoterico come il rito ancestrale a cui lo scrittore già autore di vari testi, differenti tra loro ma simili nello stile raffinato e incisivo, fa riferimento. Si tratta di un culto antichissimo, orgiastico e salvifico che si praticava a Roma durante i primi secoli dell’Impero. “Fra canti languidi, musiche ossessive e danze vertiginose, i fedeli delle Magna Mater Cibele e del dio Attis si abbandonavano completamente alla mistica ammaliati dallo splendore e dalla pompa delle feste” .
Con richiami all’antropologia culturale e dettagli che rendono il volume oscillante tra un fantasy e un noir, padroneggia la bellezza senza tempo di una terra come il Salento alla quale le si attribuisce quell’aspetto magico che caratterizza una storia resa peculiare grazie all’abilità letteraria di Vincenti che squarcia quella patina un po’ stucchevole attribuita ad un territorio che in realtà sa essere in grado di sorprendere e stupire. Ne “L’ombra della madre” emerge un fascino celato da un buio depositario di segreti e rivelazioni.
Dev’esser arrivata fino in Paradiso la crisi se così tanti bimbi vengono chiamati in cielo ad impinguare le schiere di angeli e cherubini nunzianti.
Ed è un annuncio che ci costa molto questo, questo sacrificio di bimbi sulla Terra, ed è la sola cosa che fa sgorgare spontanee le lacrime in chiunque si sia indurito nel cammino della vita.
Viola dicevamo, la bella bimba che di angelo aveva le sembianze, capelli biondi ed occhi chiari come il cielo che ha raggiunto in queste ultime ore.
E viene rabbia a dover usare una metafora usata ed abusata nelle morti giovani. Ma come si fa a non ricorrere ad essa, Viola era un Angelo già in terra, per i famigliari che l’hanno avuta in questi brevi anni. Un Angelo certo per i suoi genitori, per quel “papà” che l’ha generata con quei buoni principi di cui è rappresentante e testimone.
Ma non è solo Viola ad essere sacrificata … tanti bimbi di cui non conosciamo il nome, e a conoscerlo avremmo difficoltà a pronunciare, tanti bimbi che, presi da un andare verso terre promesse, non ci arrivano o ci arrivano solo le loro spoglie.
E le lacrime non chiedono permesso … e la rabbia di non saper far niente per impedire questi sacrifici riempie gli occhi e il cuore.
Ci bastavano gli Angeli di sempre, le schiere d’angeli in festa nei dipinti degli artisti più bravi, nelle rappresentazioni di Cristo in Gloria e di Madonne assunte in cielo, negli annunci del Natale.
Bene e Natale sia ! ma una volta nati, li vorremmo tenere qui fra noi, sulla Terra.
Le Ferrovie Sud-Est macinano più debiti che chilometri,
può salvarle solo un commissario straordinario
di Paolo Rausa
L’azienda Ferrovie Sud-Est Srl, costituita a Roma nel 1931, gestisce mille km di linee ferroviarie. E’ così gravata da una pesantissima crisi debitoria da non riuscire più a percorrere i km della sua rete che come una ragnatela congiunge i paesini del Salento e si allunga fino a Taranto e a nord a Martina Franca (Ta) e a Bari Mungivacca. ‘1300 dipendenti e 1400 cause di lavoro!’ – Sergio Rizzo con un articolo sul Corriere della Sera analizza la sua situazione drammatica, frutto di anni e anni di cattiva gestione finanziaria che data al tempo della sinistra ferroviaria di Claudio Signorile. Non modernizzata nei mezzi utilizzati e nell’adeguamento delle rete ferroviaria alle effettive necessità di un Salento turistico, le Ferrovia Sud-Est sono rimaste ferme nell’utilizzo dell’impianto originario, con fermate lontane dai paesi e dai centri balneari come Otranto o Santa Maria di Leuca. Qui la fermata più vicina, Gagliano del Capo, dista 5 km. dal Santuario de finibus terrae. La situazione è davvero disastrosa, con 320 autobus destinati a studenti e pendolari di cui la metà inutilizzabili, le ditte di manutenzione che entro una settimana smetteranno di prestare la loro opera, i servizi informatici e contabili affidati ad una società esterna che minaccia di chiudere senza altra alternativa (guarda caso) se non l’assunzione diretta dei dipendenti, un direttore del personale che operava da Roma, dirigenti retribuiti con 220 mila euro annui, 311 milioni di debiti e 170 milioni di sbilancio contabile, mancato versamento da tre mesi all’Inps e al Fisco delle ritenute previdenziali e dell’Irpef dei dipendenti. Le consulenze esterne sono oggetto di indagine. Nell’inchiesta sulle grandi opere è stato coinvolto Ercole Incalza per almeno un decennio commissario governativo dell’azienda pugliese, di proprietà del Ministero delle Infrastrutture. Con lui risulta indagato anche l’ex amministratore unico della società pubblica Luigi Fiorillo. Tangenti e malaffare, sprechi come nel caso delle 25 carrozze passeggeri usate, acquistate dal Germania nel 2006 a 37.500 euro, poi vendute ad una società polacca e ricomprate dopo una sistemazione a 900 mila euro l’una invece delle 620 mila concordate. La società polacca Varsa era gestita da un pregiudicato, un prestanome, Carlo Beltramelli. Soldi intascati, tangenti, una macchina BMW regalata al braccio destro di Fiorillo e tante altre irregolarità hanno fatto muovere la Corte dei Conti che ha richiesto la restituzione di 9 milioni di euro e ha già messo sotto sequestro i beni. Il nuovo presidente Andrea Viero si è messo le mani nei capelli appena ha potuto accedere ai documenti aziendali ed è rimasto inorridito dalla ‘inadeguatezza drammatica di meccanismi operativi, processi decisionali e sistemi di controllo’, tanto che ha suggerito al Ministro del Rio di ricorrere urgentemente per il risanamento ad un amministratore straordinario. Intanto è da anni che si parla di una riconversione della Ferrovia a metropolitana leggera per tutto il Salento fino all’aeroporto di Brindisi. Nell’attesa si investe nelle autostrade del mare che dal capoluogo leccese si inabissano verso Otranto e verso Santa Maria di Leuca. Povero Sud, povera Patria!
A dicembre Lecce celebra il 50° anniversario della morte di TITO SCHIPA
Da mercoledì 9 a lunedì 14 dicembre, ogni giorno alle ore 18 al MUST
“L’USIGNOLO DI LECCE”. Riproposta dello SCENEGGIATO RADIOFONICO in 13 puntate sulla vita di Tito Schipa, prodotto da Radio Uno negli anni Novanta, con la partecipazione di 60 attori, leccesi e internazionali, e dell’Orchestra “Tito Schipa” di Lecce diretta da Ottavio Ziino. Sceneggiatura e regìa di Tito Schipa Jr. Le puntate sono ora audio-video (sono state aggiunte moltissime immagini rare provenienti dall’archivio Schipa-Carluccio) e saranno proiettate al MUST a partire dalle ore 18, due puntate al giorno e tre nel giorno finale. Ingresso libero.
MUST (Ex Monastero di Santa Chiara), Via degli Ammirati 11, Tel. 0832.241067
Martedì 15 dicembre
Kermesse Schipa al Teatro Paisiello Alle ore 21 Conferenza-spettacolo di Schipa Jr. sulla figura e sull’arte del Padre, con documenti audio e video rari o inediti. Doppia proiezione (alle ore 18 e alle 22.30) del film-opera-rock “ORFEO 9” di Schipa Jr. nella versione restaurata e risonorizzata dal giovane film-maker ERMANNO MANZETTI, con presentazione del triplo dvd prodotto di recente dall’Associazione Culturale Tito Schipa.
Ingresso libero. Teatro Paisiello, Via Giuseppe Palmieri, Tel. 0832.246517
Mercoledì 16 dicembre, alle ore 20.30, nel giorno del 50° anniversario della morte di Tito Schipa Sr. “Tito Schipa 1965-2015”, serata di gala al Teatro Politeama
Prima parte. Concerto lirico e Premio Schipa alla carriera al baritono LEO NUCCI.
Seconda parte. “Recital CanTANGO: Il TANGO da SCHIPA a GARDEL”, spettacolo di e con il celebrato tenore FABIO ARMILIATO, e con la partecipazione straordinaria del Soprano DANIELA DESSI’.
Teatro Politeama Greco, Viale 25 Luglio 30, Tel. 0832.241468
Sabato 19 dicembre, a Muro Leccese (Le) alle ore 19
“Vivere…”, serata dedicata a Tito Schipa. In ricordo del grande tenore leccese, gli alunni dell’Istituto Comprensivo “Tito Schipa” di Muro Leccese presentano l’evento dedicato all’”Usignolo d’Italia”, con l’esecuzione di alcuni tra i brani più celebri del suo repertorio. Sarà presente Tito Schipa Jr.
Nel 1271 i francescani di Nardò avevano avuto in dono dal re Carlo I d’ Angiò, tramite il suo parente Filippo de Toucy, reggente della città, l’ antico e rovinato castello (castrum temporum & bellorum iniuria destructum), ubicato nel punto più alto della città, per farne un loro convento[1].
Il complesso è nelle vicinanze della cattedrale neritina, identificabile con l’attuale palazzo Castaldo, già Del Prete-Giannelli, a ridosso della chiesa dell’ Immacolata e dell’ Ufficio Postale.
Da quell’anno e per i tre secoli successivi le notizie sull’ordine minoritico in città e sulla loro chiesa sono assai frammentarie. Recenti rinvenimenti di rogiti notarili cinquecenteschi hanno chiarito aspetti sino a qualche decennio fa del tutto oscuri.
La nostra chiesa da svariati Autori è stata sempre attribuita al celebre Giovanni Maria Tarantino, lo stesso delle chiese neritine dell’ Incoronata, S. Domenico e S. Maria della Rosa.
Poco noti sono invece gli interventi di altri fabricatores experti neritini, altrettanto abili, che sul finire del 500 dettero a Nardò l’impronta che in parte ancora possiamo vedere e che ci sembrano meritevoli di accurato studio, in ciò confortati dalla scoperta dei documenti nell’ Archivio di Stato di Lecce, che ci consentono di collocarli, al pari del più noto Tarantino, fra i grandi della storia dell’architettura salentina del XVI-XVII secolo.
Angelo e suo figlio Vincenzo Spalletta, Tommaso Riccio, Donato, Marco Antonio ed Allegranzio Bruno, Francesco delle Verde, sono tra quelli che prestarono la loro opera per realizzare il complesso di cui scriviamo, oltre al menzionato Tarantino, che però in questo caso si limitò a ricostruire il solo chiostro (ancora esistente e adiacente la chiesa, non visitabile).
È doveroso riconoscere al prof. Giovanni Cosi il merito di aver dato per primo alla luce alcuni dei capitolati di appalto per la costruzione del nostro complesso, realizzato in più riprese in circa 20 anni, a partire dal 1577.
Altri contributi sono stati pubblicati negli scorsi anni dagli architetti Mario Cazzato, Laura Floro, Giancarlo De Pascalis, contribuendo così a delineare, con gli ultimi miei rinvenimenti, una microstoria che oggi possiamo ritenere pressocchè definita.
Occorreranno certamente altri studi ed approfondimenti, che si auspicano numerosi, per riscrivere pagine di storia della nostra città, fra le più operose di Terra d’ Otranto, almeno nei tempi passati e, lo speriamo, nel futuro.
Il primo atto notarile sul convento è del 1577, quando i frati danno incarico ai mastri Donato e Allegranzio Bruno, Tommaso Riccio e Angelo Spalletta, affinché realizzino parte della chiesa di S. Francesco (che fu dedicata all’ Immacolata solo nel XIX secolo!).
L’ anno successivo, 1578, dei predetti si ritrovano esecutori dei lavori soltanto Angelo Spalletta e Tommaso Riccio, i quali tutta predetta frabica fino al presente giorno l’ hanno fatta tutti dui essi mastro Jo. Thomasi et mastro Angelo. Ma, per motivi non dichiarati, dopo qualche mese, viene sciolta la società e si conviene con concordia et transazione, che esso m.tro Jo. Thomasi cede et renuntia come già hoggi avanti di noi cede et renuntia a detto m.tro Angelo presente la p.tta frabica di detta ecclesia di S. Francesco.
Probabilmente c’è un fermo dei lavori a causa della mancanza di fondi e solo il 15 giugno 1587, con atto del notaio Tollemeto, viene stipulata una convenzione tra i frati, rappresentati dal guardiano Donato Tabba e dal vicario Angelo Assanti, ed Angelo Spalletta. Quest’ultimo, con i mastri Allegranzio Bruno, Giovanni Maria Tarantino, Giovanni Tommaso Riccio e Giovan Francesco delle Verde, realizzerà quattro claustri (super fabrica facienda quator claustrorum). Più in dettaglio il rogito riporta:
I detti mastri siano obligati scarrare à loro dispese lo claustro fatto vecchio, cortina de la cisterna et quanto sarà di bisogno, per la quale scarratura, succedendo rovina al convento, sia à danno et interesse di detti mastri, et la terra de la scarratura et cavatuira di pedamenta detti mastri siano anche obligati portarla fora al giardino di detto convento a loro spese;
item detti mastri saranno anche obligati fare detti claustri con cinque arcate per claustro à colonne con vintiquattro lamie di spicolo;
item saranno anche obligati detti mastri fare di novo la porta di battere di detto convento di carparo bastonata, con una loggia à lamia di palmi sidici di larghezza e vinti longa.
Mentre i frati provvederanno alla calce – continua l’atto – ai mastri spetterà fornire le pietre, che nel caso delle terrazze, capitelli e cornici delle colonne saranno della tagliata di Santo Georgio. Le pietre della facciata della chiesa del convento et li pezzi delle colonne siano di la tagliata di Pergolati (Pergoleto, Galatone), de la petra forte et negra.
La somma pattuita è di 400 ducati, di cui 20 dati come acconto[2].
Ma anche questa volta il contratto fu sciolto, per cause imprecisate, perchè l’anno dopo, a proseguire e completare i lavori si ritrova ancora Angelo Spalletta, consociato però con il congiunto Vincenzo, oltre a Sansone ed Ercole Pugliese, magistri fabricatores dicte civitatis Neritoni.
Nella convenzione si stabilisce che essi realizzeranno per la fabricam faciendam in aedificandis et construendis: crocera, cubula (cupola), sacrario (sacrestia) et campanile in ecclesia conventus[i][3]. Il capitolato, alquanto articolato e assai interessante, lo riporto in successivo contributo.
Due cartigli sulla facciata riportano a sinistra le cifre “S.T.” e a destra “S.B.”; si potrebbe ipotizzare che queste siano le firme dei mastri realizzatori (Spalletta-Tarantino; Spalletta Bruno?). Al centro ancora un cartiglio sembra riporti 1580 o forse 1589, più consono con le vicende della fabbrica, come è riportato nei documenti che si allegano.
Nel 1598 ancora un contratto (che si allega nell’altro post) documenta lavori da ultimarsi: il campanile, la sacrestia, parte delle volte. Sulla conduzione del convento e sulle vicende architettoniche successive si conosce ben poco. Nel 1783 comunque dimoravano in esso undici Minori Conventuali: sei sacerdoti e cinque conversi.
Nel primo decennio del XIX secolo, a causa della soppressione di molti ordini, il nostro fu requisito dal governo e venduto a Marcello Giannelli, che ne fece la propria abitazione.
La chiesa rimase chiusa ed abbandonata, riducendosi in pessime condizioni statiche. A causa del crollo della tettoia, il vescovo Luigi Vetta, verso il 1850, fece realizzare la volta in muratura e la risistemò dedicandola alla Vergine Immacolata, gestita dalla confraternita omonima.
L’attuale chiesa, pesantemente riammodernata sotto il rettorato di Aldo Garzia, poi vescovo, risulta alta ed ampia, di forma rettangolare, con sette altari, il maggiore, tre a destra e tre a sinistra, collocati sotto arcate o cappellette.
Del primitivo altare maggiore, maestoso e in marmi policromi, poi barbaramente scomposto in più parti negli anni 70 del secolo scorso, sopravvivono due colonne con capitelli. Su una di esse, che sostiene il Vangelo, è scolpito lo stemma della famiglia Personè, probabile finanziatrice dell’opera. La balaustra, anch’essa rimossa e scomposta, è conservata nella sacrestia; niente sopravvive del pergamo e del coro ligneo dei frati, collocato un tempo dietro l’altare maggiore.
Entrati nel sacro edificio il primo altare di destra (della metà del Settecento)è dedicato a S. Giuseppe da Copertino, con una tela del titolare. Nella chiesa il santo ebbe un’estasi durante le Quarantore del SS.mo Sacramento, elevandosi sino all’altezza dell’ostensorio contenente l’Eucaristia e, nonostante le numerose candele accese, sostò tra le stesse in adorazione per qualche tempo[4]. L’ovale in alto riproduce la Visita della Madonna a S. Elisabetta.
Il secondo altare in origine era dedicato alla Presentazione di Maria al Tempio, la cui tela fu sostituita da un quadro in cartapesta a rilievo, coperto da vetro, raffigurante Santa Rita da Cascia[5].
Era privilegiato e in alto ospitava il dipinto di San Giovanni da Capestrano.
Il terzo altare era dedicato all’Assunzione di Maria, raffigurata nella tela; l’altro dipinto raffigura S. Biagio, commissionato dai baroni Sambiasi, che qui avevano diritto di sepoltura, come confermano l’epigrafe e lo stemma posti ai lati dell’altare.
Sul lato sinistro il primo altare, anche questo settecentesco, era dedicato alla Purificazione di Maria, come conferma la tela in alto. Un secondo dipinto si ritiene raffiguri il protettore cittadino, S. Gregorio Armeno; in verità sarei più del parere che si tratti di Simeone. Lo stemma del Vescovo Carafa conferma la datazione più tarda rispetto agli altri altari.
Il secondo era dedicato all’Annunciazione, con la relativa tela e l’altra sulla cimasa raffigurante la Maddalena.
L’ultimo ospita una tela con la Natività di Maria Vergine e in alto una mediocre, più piccola, raffigurante S. Giovanni Battista, forse in sostituzione di una precedente.
Rilevanti nella chiesa la grande tela con l’immagine dell’Immacolata posta frontalmente, sul presbiterio: l’artistico organo seicentesco, collocato su apposito palchetto a ridosso della controfacciata; l’interessante e molto bella statua lignea della Vergine, precariamente collocata a destra del presbiterio.
Per approfondire:
Coco Primaldo, I Francescani nel Salento, Lecce 1916.
Perrone Fr. Benigno, I conventi della Serafica Riforma di S.Nicolò in Puglia (1590-1835), voll.3, Galatina 1981.
Perrone Fr. Benigno, Neofeudalesimo e civiche Università in Terra d’Otranto, voll. 2, Galatina 1980.
Tafuri Giovanbernardino, Dell’ origine, sito e antichità della città di Nardò, in “Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Gio.Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò”, in A. Calogerà, Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, t. XI, Venezia 1735.
Vetere Benedetto (a cura di), Città e monastero – i segni urbani di Nardò (secc. XI-XV), Galatina 1986.
[1] Wadding Luca, Annales Minorum in quibus res omnes Trium Ordinum a S. Francisco iustitutorum ex fide ponderosius…, II e VIII, 1647: nel 1271 …Neritoni in regno Neapolitano Carolus Andegauensis huius nominis primum utriusque Siciliae Rex concessit in habitaculum Fratibus extruendum regium castrum temporum & bellorum iniuria destructum. Donationis instrumentum ipso rege praesente factum, apparet in vetusta membrana. Recensetur hic conventus sub Provincia S. Nicolai, & custodia Brundisina Patrum Conventualium.
[2] Per questo ed altri lavori del convento v. pure G. COSI, Il notaio e la pandetta, Microstoria salentina attraverso gli atti notarili (secc. XVI-XVII), a c. di M. Cazzato, Galatina 1992, pp. 72,75.
[3] Rimando al mio articolo La chiesa dell’Immacolata e il convento dei Francescani, identificati gli autori del complesso cinquecentesco, in “Portadimare”, dic. 1998, p. 3; L. Floro, La cinquecentesca chiesa di S.M. Immacolata, in “La Voce del Sud”, 22/11/1997; G. COSI, Spigolature su Nardò. Come venne su la chiesa di S. Francesco, in “Voce del Sud”, Lecce 14/11/1981; G. COSI, Spigolature su Nardò. Giovanni Maria Tarantino e il convento di S. Francesco, in “Voce del Sud”, Lecce 6/3/1982.
[5] Nel 1952 nella chiesa è stata istituita la Pia Unione di S. Rita da Cascia, che ancora attende alla cura ed al decoro del sacro luogo, alle funzioni liturgiche ed alla diffusione del culto e delle virtù della Santa.
Spiego, da docente di fede atea e di professione filosofica agnostica, perché ritengo utile e più attuale che mai l’insegnamento della religione cattolica apostolica romana a scuola. È certamente doveroso studiare anche le altre religioni e dare spazio a tutte, non solo perché nelle classi ci possono essere alunni di diverse fedi che in tal senso si vedranno accolti e riconosciuti, ma anche perché ognuno comprenda le visioni e le idee degli altri cittadini del mondo, prerequisito per (ri)conoscerle veramente.
Laicità non vuol dire eliminare tutte le fedi ma tutte accoglierle, nel presupposto unico e irrinunciabile che tutte accolgano, a loro volta, il principio di esistenza e libera manifestazione delle altre. E allora, perché non trasformare semplicemente l’ora di religione cattolica in qualcosa come la storia e l’analisi dei sistemi religiosi? Perché sarebbe un errore da almeno tre punti di vista intrecciati l’un con l’altro: storico-sociologico, formativo e didattico.
Sarebbe un errore storico perché la società italiana vive da tempo quel che si dice un inarrestabile processo di secolarizzazione. Ciò significa che sempre più sfilacciato si fa il tessuto della pervasività della visione religiosa cattolica e dei suoi principi nella pratica e nella conoscenza diretta dei futuri cittadini italiani. Ebbene, proprio perché si manifesta un simile processo, è importante affrontare oggi una sfida culturale (e non religiosa!), formativa (e non catechistica!): i futuri italiani avranno sempre più difficoltà ad accedere al linguaggio teologico cristiano e nei tanti mezzi in cui esso si esprime (arte, architettura, filosofia, letteratura, ecc.).
Togliete al lettore di Dante o Manzoni, togliete a chi contempla le tante opere d’arte delle nostre città, a chi studia Tommaso e Sant’Agostino – ovviamente – ma anche un Giordano Bruno o un Nietzsche una conoscenza approfondita della cultura cristiana e avrete combinato un disastro! Questo è appunto l’errore formativo.
Sarà in una certa misura inutile portare gli studenti a visitare musei, cattedrali, affreschi, come inutile sarà analizzare con loro tanti testi letterari e filosofici se li avrete privati del linguaggio con cui sono in parte (o in polemica al quale sono) costruiti, edificati e scritti i primi.
Molti dei poeti, degli artisti, pensatori, scrittori o pittori immensi che li apriranno alla vita dello spirito si esprimono proprio con l’alfabeto cristiano, del quale non possiamo e non dobbiamo allora privarli.
Del resto, vi domando, fareste un viaggio di arricchimento e conoscenza in Giappone senza aver prima letto o provato a capire qualcosa sul buddismo zen? Cosa cogliereste veramente di tanta parte del teatro, della poesia, dell’architettura, della pittura, dei giardini, dei rituali e dei costumi giapponesi senza passare da là? Nulla credo, o almeno non abbastanza da gustarne duraturi frutti. E allora, come potete pensare che i nostri figli possano, invece, incontrare tutti i giorni un mondo da due millenni cristiano senza conoscere a fondo il cristianesimo? Come potrebbero, inoltre, giungere a metterlo in discussione senza averlo prima almeno compreso? Veniamo così all’errore didattico, che a questo punto dovrebbe essere molto evidente.
Non è ammissibile dedicare allo shintoismo o all’islam o al buddismo lo stesso tempo che è invece giusto (per quanto detto sopra) dedicare alla religione cristiana cattolica! Quando i nostri alunni saranno fuori dalle aule – almeno nel momento storico in cui scriviamo – non incontreranno moschee né templi buddisti e shintoisti ma chiese, arte sacra ispirata al cattolicesimo, simboli e riferimenti di una civiltà cristiana.
Se è al mondo reale che abbiamo il dovere in primis di formarli, a una comprensione dello stesso, allora è didatticamente importante e indispensabile che il poco tempo da dedicare allo studio della religione sia utilizzato maggiormente (ma non esclusivamente!) per quella cultura religiosa che serve loro più delle altre a comprendere ciò che hanno intorno: il cattolicesimo appunto.
E questo vale anche per quegli alunni di altre fedi che abitano le aule: ciò che vedranno intorno a loro non dipenderà dai valori che professano o che hanno ereditato dalla propria famiglia. Uno studente buddista non incontrerà attorno a sé templi né opere d’arte ispirate ai principi del Budda: non prendere in considerazione questo dato di fatto, non riconoscerlo è assurdo e fallimentare sia per i formatori che per i genitori.
È strano come, a settanta e più anni da un celebre scritto di Croce – non certo un filosofo bigotto!- si rivela oggi, credo, ancor più urgente e attuale ribadire perché non possiamo -nemmeno io, ateo- non dirci cristiani. Le persone comprendono benissimo come 20 anni appena di Internet abbiano cambiato le loro vite, ma le stesse poi, stranamente, credono di non essere affatto lambite (dentro e fuori si sé) da 2000 anni di cristianesimo.
Molti, mi pare, nel timore di tradire i presupposti laici e pluralisti della democrazia e della scuola pubblica italiana, sacrificano così in questi giorni una ragionata e pacata riflessione all’altare del furore laicista, opposto dogmatico di un altrettanto sterile bigottismo.
Il ragionamento che qui invito a fare intende invece sfuggire a questa radicalizzazione paralizzante e cieca delle posizioni, l’una contro l’altra armata: non è affatto il punto di vista di un oltranzista e tradizionalista uomo di fede, ma quello di chi deve responsabilmente formare (come genitore e docente) dei ragazzi italiani a comprendere il proprio mondo, ossia un mondo intero frutto di secoli di opere, modi di pensare e concepire l’individuo, l’essere delle cose, i rapporti umani, il diritto, l’arte ecc. cristiani!
Non c’è nulla di più ingenuo che non tenerne conto, niente di più cieco dell’idea di poter o addirittura dover oggi fare a meno della cultura cattolica quale strumento essenziale per la lettura del nostro immediato reale. E a ricordarlo, per una volta, lasciate che sia un ateo, un ateo cristiano si potrebbe dire, nel senso che è proprio rispetto all’universo cristiano-cattolico in cui sono cresciuto che ho elaborato persino il mio ateismo, la mia forma intima e personale.
Anche questo è un dato di fatto, da cui non si può prescindere nell’inconsapevole e ingenua illusione obiettivista e laicista che per essere giusti e imparziali si debba, o soltanto si possa, parlare “da nessun luogo”, “da nessun punto di vista”.
Chi è il giovane Elio che presta il nome a questo libro? Ci sono più risposte a tale domanda, alcune sono immediate e manifeste, altre riposte con cura fraterna nelle pieghe più intime di pagine straordinariamente intense che danno luce a una sorta di lunga lettera che non giungerà mai al suo vero destinatario, scritta in cinque anni ma frutto di un percorso di elaborazione del distacco durato quasi una vita.
Sul palcoscenico della Grande Storia, quella in cui tutti interpretiamo inevitabilmente un ruolo da mera comparsa o ben più consistente, Elio è un giovane militante di Lotta Continua, attivo a livello internazionale sul finire degli anni Settanta. Seguiamone rapidamente le tracce.
Da Solero, il paesino della quieta provincia alessandrina in cui vivono i Ferraris, Elio giunge come geometra dapprima in Puglia, un Sud a portata di mano che gli donerà incontri molto significativi per la sua esperienza politica. In seguito, condotto dagli ideali della causa rivoluzionaria sposata, si spinge da combattente verso altri Sud del mondo, tra gli scenari remoti e, all’epoca, politicamente turbolenti e complessi del Sud America.
Da quelle terre Elio invia alla sua famiglia diverse lettere – talune riportate a stralci nel libro – che segnano le tappe tanto dei suoi spostamenti terrestri quanto del suo complesso itinerario umano.
Il militante scrive dal Brasile, dal Nicaragua e infine dal Salvador, ultima meta di un peregrinare inquieto ma lucidamente deliberato, conscio dell’imminente possibilità del sacrificio per la causa, delle sue motivazioni e del suo stesso valore. Da qui in poi segue solo un lungo silenzio, tanto sconfinato da confondersi con l’esistenza stessa di una intera famiglia a Solero, da distillarsi nel quotidiano di una casa, da impregnarne le mura e tramutarsi nella traccia persistente e dolorosa di una sorte comune sconvolta.
Fino al 1992, quando, per vie traverse, pervengono infine nelle mani dei parenti alcuni documenti personali del giovane e un laconico, conclusivo messaggio: «ilcompagnoElio è morto in appoggio al FLMNsalvadoregno in luogo e data imprecisati…». Fin qua questo libro è soprattutto Grande Storia, una fonte importante del suo passaggio nella vita di alcuni uomini, testimonianza e documento vivo di un passato appena compiuto.
Abbandoniamo ora il palcoscenico storico, accantoniamo la funzione stereotipa e anonima dei ruoli che la inscenano e lasciamo dunque avanzare allo sguardo le singolarità essenziali degli interpreti, il loro unicum. Seguiamo il profilo che ci conduce alla visione di uomini nella pienezza irripetibile del loro vissuto: dalla prospettiva appena guadagnata domandiamoci allora, nuovamente, chi è Elio?
Questi appare ora anzitutto come il fratello mai più tornato di Gianni Ferraris, autore di questo incantevole libro. Elio è in questa luce assenza profonda che ha accompagnato l’esistenza dell’altro, costretto dalle dette vicende a dare vita, fiato e parola al fratello scomparso nella sola forma di un alter confidenziale: un interlocutore privilegiato che si affaccia nel mezzo delle esperienze quotidiane di Gianni attraverso stralci delle ultime lettere ricevute, pensieri, domande cui non sempre seguono delle risposte, ricordi degli anni sereni trascorsi a Solero e osservazioni dell’autore sul proprio presente vissuto.
Elio è divenuto così il “tu” di molti dialoghi interiori di Gianni, il protagonista di un palcoscenico assolutamente intimo e personale, proprio del secondo. Ogni pagina diviene sotto questa luce una meravigliosa manifestazione del modo in cui le persone che ci sono state strappate si fanno presenza pervasiva e quotidiana, tanto da con-fondersi nel vissuto soggettivo di chi ne patisce l’assenza.
La voce di Elio può allora risuonare nei soliloqui interiori del fratello, può inserirsi nella forma di un flusso di coscienza in circostanze e incontri casuali che la vita di Gianni ha continuato e continua a produrre, tramutandosi nella forma vivente di pensieri ed emozioni che tingono di sé tutto ciò che l’autore contempla di un mondo la cui visione è negata all’altro.
Si tratta, però, di un mondo quasi mai somigliante all’orizzonte utopico che faceva palpitare gli animi ai due fratelli cresciuti sotto il cielo di Solero. Ne nasce uno stridore malinconico che tutto pervade, una nostalgia in cui si fa strada e si alimenta il bisogno di Gianni, più o meno consapevole, di una ricerca di senso per il sacrificio del fratello e per il dolore patito.
Ormai padre e uomo maturo, seguendo a modo suo l’antica direzione tracciata dal fratello, Gianni si lascia alle spalle il Piemonte, con i suoi affetti, per giungere nel suo personale Sud: il Salento. (Ancora un viaggio di sola andata?). Qui, si sa, i treni s’arrestano, la terra finisce, e per procedere oltre, più a Sud del Sud, verso il fratello, egli ricorre allora al mezzo della scrittura, a questa lunga missiva, al racconto.
Nasce così, finalmente, “Elio”. Tutto il libro, scritto proprio nel corso del lustro vissuto dall’autore a Lecce, poggia su una struttura dialogica tra Elio e Gianni: ne viene fuori una confessione a due voci che si fanno spesso unisono e danno vita a un particolare soliloquio malinconico su ogni cosa narrata. Chi è Elio allora?
Elio è ora Gianni, e Gianni è Elio. L’ombra dell’alter si affaccia in molte forme nella pagina, spesso in controluce: è una figura sullo sfondo della narrazione alla quale l’autore riporta il proprio angolo di Sud, una variopinta e attenta descrizione di vicende, memorie e persone, tutte legate a una terra lambita ma non solcata in vita dal militante. Leggendo il libro di questo amico crediamo di averlo potuto conoscere meglio e più intimamente, il che significa di averlo ri-conosciuto in altri aspetti del suo modo complessivo di essere quella realtà emergente, unitaria e tuttavia molteplice, cui alludiamo sempre col nominare qualcuno. Gianni. Per far ciò abbiamo dovuto incontrare anche il suo alter, emozionandoci fortemente. Elio. Una conoscenza questa che ha preso unicamente la forma dignitosa della scrittura delle pagine che andavano componendo gradualmente questo lavoro e che non ci era, pertanto, mai stata concessa prima, nei pur vari incontri e discorsi che generano e sostengono un’amicizia.
La scrittura di Gianni emana come una conseguenza immediata della sua personalità: è diretta, piacevole, briosa, equilibrata, sempre al confine e alla congiunzione di emozioni contrastanti. Questa non travalica mai nel tragico anche quando si fa più imponente e seria, l’ironia la sovviene quando occorre; il suo tono, anche intorno alle ferite, è pur sempre vivace e incalzante. La mancanza, il disincanto, la nostalgia per ciò che sarebbe il mondo se le rivoluzioni portassero almeno una volta “all’isola che non c’è” si ricompongono in dignità e si vestono di un abito totale dal sapore agrodolce e dal colore emotivo delicato: Saudade.
Elio e Gianni si riconciliano e si ritrovano in questo stato d’animo indefinito come fossero nuovamente in una stanza a Solero a sognar di cambiare il mondo, nonostante tutto. Mancanza e presenza si ricompongono e danno vita a una scrittura leggera ma penetrante, scorrevole e tuttavia capace di scuotere a fondo chiunque. Il testo è tutto costruito in equilibrio sulla linea in cui letteratura e memoria di vita collimano senza scadere nella reciproca confusione: ogni pagina è lucido riferimento a circostanze e fatti reali, mentre la scrittura costituisce il luogo ideale in cui il senso personale dell’esistenza dei due fratelli, le connessioni dei fatti storici e biografici, i legami tra i percorsi dei due, le assonanze tra il Sud incontrato da Gianni e quelli attraversati dal fratello Elio sono ricercate, raggiunte e finalmente fissate in una cornice definitiva, incise sul foglio.
Quel lungo silenzio che giungeva da lontano non ha avuto l’ultima parola, ci accorgiamo a questo punto che vissuti e pensieri di Gianni lo hanno riempito e colmato sino alla completa elaborazione che ci porta a queste pagine. Una riconciliazione questa che ha preso la forma impressa nell’inchiostro, materia prima di un rituale d’addio finalmente celebrato che predispone ora al possibile compimento, a un sereno distacco.
Con uno sforzo a trovar negli anni le parole con cui rompere lo sconfinato silenzio, attraverso un percorso di ricerca e una sofferta esteriorizzazione del senso sfociato nelle pagine che oggi ci dona, l’autore è riuscito, crediamo, a conferire un significato personale al martirio del fratello e all’atroce sofferenza della sua famiglia, consegnando alla memoria degli uomini il testimone, ossia un frammento di ciò che è stato e il dovere della ricerca di un suo significato condiviso.
Un significato quest’ultimo che spetterà nuovamente alla Grande Storia restituire, esplicitare e preservare: «La morte – scrive un Gianni dai capelli qua e là brizzolati – è una strada senza ritorno. Quello che so è che se non ne conserviamo memoria, se non se ne parla, è stato tutto veramente inutile».
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