Li fiuri de la Pathria. Recisi combattendo sul Carso, credendo nell’Italia

Fernando Rausa,  Li fiuri de la Pathria (I fiori della Patria),   
Poesie sulla Grande Guerra, a cura di Paolo Rausa,
progetto grafico di Ornella Bongiorni

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Sull’Altopiano di Asiago alle falde del Monte Ortigara, un giorno di luglio alle ore 22, la richiesta della parola d’ordine: “Altolà chi va là?”. “Alpini” è la risposta. “Alpini no basta. Parola d’ordine!” – è la replica. “Traminer, Malvasia, e Vitovska.” – risponde il nuovo arrivato come lasciapassare. “Vito cossa?” – non capisce. “Xe vin de Trieste.” – non può non conoscerlo. “Allora passa, can de l’ostia” – riconosce così il fratello. Nello scambio di battute nei dialetti veneti e lombardi si configura il luogo del dramma della Grande Guerra, che il prossimo anno conta cento anni dall’inizio delle ostilità. Il giornalista Paolo Rumiz ha percorso in lungo e in largo i luoghi della memoria, 600 km di fronte da Trieste al gruppo Adamello, ha trascritto le cronache di questi viaggi immaginando le trincee strapiene di soldati in attesa di essere mandati al macello sotto i colpi delle mitraglie del nemico, mentre il regista Alessandro Scillitani fissava momenti ed emozioni in un video, pubblicato con il titolo  “La Grande Guerra. I sentieri del sangue perduto”.

Il viaggio inizia da Trieste, città natale di Paolo Rumiz, contesa all’Impero Austro-Ungarico, mentre immagina di vedere giungere nel porto le salme dell’arciduca d’Austria e della consorte, uccisi nell’attentato di Sarajevo e traslati sul treno per Vienna, il 2 luglio 1914.

Il giornalista ci tiene a far sapere che questa storia è da Trieste che deve iniziare, ma qui come in Trentino gli avvenimenti prendono corso sotto un’altra bandiera e non nel maggio del 1915, come è stato fatto credere finora agli italiani, ma ‘in quel mattino di luglio del 1914. Un anno in più da raccontare.”

Abbiamo premesso all’opera poetica di Fernando Rausa da Poggiardo (Lecce) la cronaca della Grande Guerra e le riprese nei luoghi della memoria.

A più di mille chilometri di distanza, nel profondo  sud-est dell’Italia, un fervente italiano nel 1972 vergava il suo poema dedicato  ai simboli dell’Italia redenta e a quegli eroi che lì si erano immolati per un futuro migliore per sé e per i propri figli. Resta da capire se ne valeva la pena per i costi in vite umane e per i risultati conseguiti, a distanza di un quarantennio. Il poeta sa che scrive su dettatura dello spirito, del demone che lo possiede, e sa che ricordare chi ha creduto in un ideale fino allo stremo e al sacrificio della propria vita sia un’opera degna di essere compilata per noi e per i nostri figli e per questo lo ringraziamo.

 

 

Fernando Rausa  nasce a Poggiardo il 3 gennaio del 1926 e vive qui, salvo la parentesi come emigrante in Argentina negli anni 1950 e 51, fino alla morte il 25 febbraio 1977. Di  famiglia operaia, edile,  e ultimo di cinque figli, molto legato alla madre, consegue la licenza elementare con successo, titolo che allora era considerato già un notevole traguardo.

Purtroppo per lui (e per noi) la sua continuazione negli studi, seppure caldamente consigliata dalla scuola, si interrompe per le povere condizioni economiche della famiglia. Non poteva permettersi di mantenere un figlio agli studi. Inizia così l’esperienza lavorativa nei cantieri edili. Prosegue  con questa “scelta” la tradizione paterna, venendo a contatto fin da ragazzo con la dura vita lavorativa, che lo forgia, meglio la sua anima. Fondamentale risulterà la lezione di vita appresa con le esperienze di prima mano delle sofferenze sociali.

La saggezza popolare e la sobria educazione gli forniscono gli strumenti per l’impronta di rigore morale acquisita, che si manifesta in atteggiamenti dignitosi  e nella spinta al riscatto culturale dalle infime condizioni sociali. Fiuto, destrezza, professionalità nel mestiere da una parte, consapevolezza della dura realtà unita alla bonarietà e alla solidarietà dall’altra diventano la cifra della sua adesione alla vita con un atteggiamento pervaso di leggerezza ironica.

Questi sentimenti trovano espressione poetica in componimenti, per lo più improvvisati e ispirati a forme grezze ditirambiche e satiriche, tipici della tradizione licenziosa popolare, che vengono recitati nelle forme dei  “brindisi” nelle varie occasioni delle feste familiari, l’esposizione dei panni della sposa, le nozze, il battesimo ecc., e sul lavoro a compimento del tetto della casa, quando il padrone faceva interrompere la fatica della costruzione per offrire vino, formaggio fresco, polpette, pezzetti di cavallo, lupini, taralli, ecc. il tutto annaffiato da abbondante vino stillato di fresco dalle botti d’annata (il “capicanale”).

Il poeta combina insieme poesie ricordate a mente e declamate e altri appunti vergati in varie circostanze. Si accorge a un certo punto che questa produzione poetica non può correre il rischio di essere dimenticata – il tempo passa! E allora si chiede se non sia il caso di mettere nero su bianco e andare verso una prima pubblicazione, scrivendo a macchina i testi e affidando la stampa magari ad un ciclostile. I costi impediscono edizioni di pregio o almeno normali! Ecco che dalle poesie d’occasione si passa a quelle sentimentali e dalla forma ondivaga del verso a quella retta della prosa. Un romanzo d’amore, tuttora inedito, forza le porte della giovane innamorata, Antonietta. Poi ancora poesia, in lingua italiana, così così. In dialetto, lingua ‘ca mamma e tata me ‘mparasti ‘ddicu’ è copia di versificazioni. Escono le raccolte “Poggiardo mia” e “L’occhi ‘ntra mente” nel 1969, poi “Fiuri… e culuri”nel 1972 e infine “Guerra de pace” nel 1976. L’anno successivo muore.

L’oblio dopo trent’anni viene interrotto dalla ripubblicazione delle liriche, rivedute con aggiunte, di “Terra mara e nicchiarica”, introduzione dell’emerito Donato Valli, propugnatore del valore letterario dei geni salentini – bella la sua definizione di Fernando Rausa come “una voce fuori dal coro” e di “L’Umbra de la sira”.

Qui, ora, viene proposta la pubblicazione di una serie di poesie ‘patriottiche’, rimaste finora inedite. L’occasione è l’anniversario della Grande Guerra, il primo centenario, un’occasione per ripensare a questo evento bellico planetario, depurandolo dalla falsa retorica nazionalistica.

Ha senso – ci siamo chiesti – pubblicare in dialetto salentino versi che trattano avvenimenti lontani nel tempo e nello spazio? Ci siamo risposti di sì! Perché ovunque arda l’amore per la propria terra e per l’estremo atto di sacrificio, ovunque ci si ricordi di un Ettore che sotto le mura di Troia non esita ad affrontare il nemico/avversario in una sfida fatale, lì il verso sprona a veder oltre, a lacrimare sulla sventura nelle trincee della vita.

Infine per non far cadere nell’oblìo l’opera d’arte di un poeta, autodidatta, figlio del popolo, e per non dimenticare, nonostante l’eroismo profuso, il significato e il costo, in termini di perdite di vite umane e di abbrutimento generale, della guerra perché sia bandita una volta per tutte dalla coscienza dell’umanità!

S.O.S. per gli ulivi del Salento!

Visita guidata e osservazioni presso gli oliveti situati a Sud-Est di Gallipoli interessati da un disseccamento della chioma

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Il 21/09/2013, il sottoscritto Prof. Vincenzo Mello, docente di Fitopatologia ed Entomologia agraria, insieme al Dirigente Scolastico Prof. Walter Livraghi e agli alunni delle quinte classi dell’Istituto Tecnico Agrario “G. Presta” di Lecce, ha effettuato un sopralluogo presso gli oliveti situati a Sud-Est di Gallipoli interessati da un disseccamento della chioma.
La prima visita ha interessato gli olivi nei dintorni della stazione di servizio ESSO “Li Sauli” sulla S.S. Gallipoli-Leuca. Le piante hanno una circonferenza del tronco di cm 150-200 e presentano la chioma con gravi disseccamenti riguardanti alcuni rami o addirittura intere branche.
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La prima osservazione che gli alunni hanno fatto è che le foglie secche, delle parti interessate, si sono accartocciate a sigaretta e sono rimaste attaccate ai rami. Ciò vuol dire che il ramo si è disidratato repentinamente, tanto da non dare il tempo necessario alla foglia di formare il cuscinetto di abscissione e cadere, come spesso avviene in risposta della pianta a sofferenze di varia natura.
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Molti rami secchi presentano, oltre alle foglie, anche le olive rinsecchite. Ciò fa pensare che il disseccamento di quei rami è avvenuto circa un mese fa.
Molti rametti di due anni, con le drupe in accrescimento, presentano un disseccamento basipeto. L’estremità è del tutto secca mentre andando verso la base le foglie e le olive sono sempre meno disidratate. E’ come se il rametto fosse stato strozzato da un qualcosa che non permette il flusso normale della  linfa.
 Spesso questi rametti si ergono da rami del tutto verde o viceversa si vedono rametti verde che partono da rami quasi secchi.
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Gli  studenti hanno messo in pratica le loro nozioni e armati di forbici da pota e coltelli da innesto hanno prelevato un po’ di materiale da osservare. Dapprima hanno effettuato delle sezioni oblique, a becco di clarino, alla base dei rami sofferenti ma non del tutto secchi per rinvenire eventuali imbrunimenti nel tessuto legnoso. Ciò avrebbe potuto far pensare ad una malattia fungina che insinuandosi con le ife nei vasi xilematici possa averli ostruiti impedendo così la salita della linfa grezza, costituita principalmente da acqua e sali minerali. La Tracheo-verticilliosi è una malattia dovuta al Verticillium dahliae che attacca molte piante sia erbacee e sia arboree tra cui anche l’olivo e da una sintomatologia molto simile a quella in esame. Ma, dall’osservazione macroscopica, non sono stati individuati imbrunimenti anulari dei cerchi legnosi che possano ricondurci a questa patologia.
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Continuando ad esaminare le chiome malate è stato osservato un sensibile attacco da Fleotribo (Phloeotribus scarabaeoides). All’ascella di molti rametti si rinvengono profonde ed estese erosioni di alimentazione dell’Insetto e molte di queste hanno permesso la penetrazione del batterio Pseudomonas savastanoi che causa la Rogna dell’olivo, consistente in evidenti escrescenze tumorali legnose. L’infestazione da parte di quest’Insetto, insieme all’Ilesino bruno (Hylesinus oleiperda), potrebbe provocare disseccamenti dei rametti e/o la loro caduta, sotto l’azione del vento e la colatura delle mignole che sono le infiorescenze dell’olivo. Non è da escludere quindi pensare che l’azione di questi Insetti, aggravata da quella della Rogna, possano aver fatto seccare all’inizio i rametti e poi via via i rami sempre più grandi fino ad interessare le branche o addirittura l’intera chioma, come abbiamo potuto osservare in altri oliveti di zone limitrofe.
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La Zeuzzera pyrina o Rodilegno giallo è una farfalla le cui larve, scavando gallerie nel legno e tranciando i vasi legnosi, potrebbero causare gravi ed estesi disseccamenti della chioma. All’osservazione però non sono stati individuati molti fori di areazione o di sfarfallamento dell’Insetto. I pochi fori osservati sono vecchi e interessano alcuni rami del tutto verdi. In questo caso è difficile pensare che sia il Rodilegno giallo il responsabile di tutto ciò.
Inoltre, nei tre oliveti della zona ispezionati, sono state rinvenute, sulla nuova vegetazione dei polloni e dei succhioni, macchie gialle sulle foglie e in corrispondenza di esse, sulla pagina inferiore, imbrunimenti ben definiti. Osservando prima con le lenti contafili in campo e poi con lo stereo-microscopio nel laboratorio dell’Istituto si notava che  i peli stellati cadevano facilmente evidenziando leggere escrescenze del tessuto fogliare.
Gli olivi che ricadono nell’areale dove si è notata per prima la manifestazione sono stati potati drasticamente o addirittura capitozzati. Le piante hanno reagito emettendo una grande quantità di polloni e succhioni. Ma anche su questi ultimi si nota la medesima sintomatologia con disseccamenti di alcuni giovani rami incastonati tra quelli verdi.
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Gli olivi che non sono stati potati, ricadenti sempre nella stessa zona, presentano quasi tutta la chioma disseccata e qua e la si evidenziano rametti ancora verdi. Spesso questi si notano all’estremità di grossi rami assurgenti del tutto secchi. In entrambi i casi i polloni sono molto vigorosi, sia i selvatici e sia i gentili, anche se su questi ultimi si osservano gli ingiallimenti sopra menzionati. Questi farebbero pensare a una lieve micro carenza e comunque di poca importanza dal punto di vista fitopatologico.
Tantomeno si può pensare ad inquinamento della falda o del terreno perché avremmo dovuto assistere alla morte dell’intera pianta, compresa la radice. Invece dal piede degli olivi nascono molti polloni vigorosi e sani che però possono seccare dopo due-tre anni.
Ovviamente gli Istituti di ricerca, le Università, il Servizio Fitosanitario Regionale, ecc. dovranno approfondire le indagini con esami di laboratorio per individuare con sicurezza l’agente responsabile, biotico o abiotico che sia per poter intervenire opportunamente per circoscrivere e bloccare la patologia.
Tornando a Lecce, tra l’uscita per Galatina e quella per San Donato sono stati individuati diversi olivi con la medesima sintomatologia.
Anche sulla strada provinciale San Donato-Copertino sono stati individuati molti olivi con parziali disseccamenti della chioma. Anche queste mostrano un notevole attacco da Fleotribo e/o Ilesino.
Sappiamo bene che non bisogna fare allarmismi inutili e dannosi ma sarebbe auspicabile che questo problema venga affrontato tempestivamente e risolto quanto prima. Una cosa è certa, questa manifestazione il sottoscritto l’ha notata da circa quattro-cinque anni ed interessava solo un’esigua superficie in località “La Castellana”, mentre ora investe diversi chilometri quadrati di superficie.
Prof. Mello Vincenzo
Alunni partecipanti:
Classe V A: Ciurlia Mirko, Corciulo Alexander, Della Giorgia Filippo, Durante Federico, Mandrà Monia, Marzo Biagio, Nicolì Marco, Rizzello Alberto, Romano Andrea, Tridici Samuele, Zecca Lorenzo e Zezza Matteo.
Classe V B: Aprile Alessandro, De Santis Kevin, D’Ospina Alessandro, Elia Serafino, Iasi Luca, Mariani Salvatore, Martina Gabriele, Miccoli Carlo, Pagano Alessio, Pinzi Giorgio, Sansone Biagio, Savarelli Angelo, Sicuro Andrea, Simone Ferderico, Stabile Adriano, Tondo Samuel e Vantaggiato Federico.
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I dipinti di Paolo De Matteis (1662-1728) nella cappella del Seminario di Lecce*

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di Stefano Tanisi

Del pittore giordanesco Paolo De Matteis (1662-1728) negli ultimi anni sono state proposte nuove attribuzioni che hanno così ampliato il già significativo catalogo[1]. Le opere del pittore presenti nel Salento sono collocabili tutte nell’arco di un trentennio: tra 1696 e il 1726[2].

A Lecce sull’altare maggiore della cappella dell’antico palazzo del Seminario è collocato il noto dipinto di Paolo De Matteis del 1696 raffigurante San Gregorio Nazianzeno, patrono del Seminario. Sulla nuvola al centro si legge l’ampia firma del pittore e la data “Paulus de Matteis 1696”[3].

Il santo taumaturgo, assiso su nubi, è raffigurato in abiti vescovili, con la mano destra sostiene il pastorale mentre la sinistra è appoggiata su di un libro aperto retto da un angelo. Il suo volto barbuto è diretto verso l’osservatore. Circondano il santo gli angeli, di cui uno al centro regge la palma del martirio.

A sinistra da quello maggiore è l’altare di san Vincenzo levita e martire, il quale fu voluto – da come si ricava dall’epigrafe nel fastigio – dall’ecclesiastico “Vincentius Antonius Capotius” nel 1705. Lo stesso prelato ha probabilmente commissionato il coevo dipinto della Vergine col Bambino e san Vincenzo diacono (fig. 1) inserito al centro dell’altare. Questo dipinto è stato riferito al De Matteis dal De Simone e poi confermato dal Galante, il quale, scriveva nel 1985:

 

“Considerato il suo stato di conservazione, sembra difficile confermare senza riserve al pittore la Vergine appare a S. Vincenzo Diacono che si trova nella cappella del Seminario a Lecce e che portava un riferimento al pittore già nella guida del De Simone. E tuttavia il dipinto, stranamente trascurato negli interventi più recenti, mostra ancora nelle parti integre la sua qualità e la sua vicinanza ai modi del De Matteis nei caratteri così decisi, quali i colori chiari, delicati e luminosi, la composizione in diagonale simile a quella della Madonna del Rosario della chiesa Matrice di Grottaglie – si veda il tipico angioletto nell’angolo in basso – alla quale sembra prossima per il risentito marattismo che si legge nella definizione più decisa delle forme e nella più insistita ricerca della bellezza delle fisionomie. Né è da sottovalutare la circostanza che proprio per l’altare maggiore della stessa cappella sia stato fatto il già citato S. Gregorio Nazianzeno[4].

 

Nel 2008 il dipinto è stato infine attribuito al pittore Giovanni Battista Lama (1673 – dopo 1748)[5].

Il recente restauro (2011) ha fatto finalmente riemergere l’autografo del pittore, sciogliendo finalmente i dubbi sull’autore e l’epoca di esecuzione: in basso al centro, sul gradino, compare la firma “Paulus de Matteis F[ecit] 1705” (fig. 2).

In alto, troviamo la Vergine seduta su nuvole con il suo sguardo rivolto a sinistra verso san Vincenzo. Essa stringe nelle sue braccia il Bambino intento a consegnare la palma del martire al santo. Ai piedi di Maria la falce di luna e il serpente che tiene tra le fauci la mela del peccato. Il santo, vestito con una lunga dalmatica, è inginocchiato a sinistra su di un gradino. Vicino le sue ginocchia le catene che lo hanno imprigionato, mentre alle spalle, si affaccia un soldato che varcata la porta resta sorpreso in seguito alla visione miracolosa. In alto, tra le nubi, angeli osservano la scena. In basso a destra chiude la composizione un angelo seduto su di un gradino che rivolge lo sguardo verso l’osservatore. La luce che proviene da sinistra mette in risalto l’incrocio di sguardi tra San Vincenzo, la Vergine e il Bambino.

A queste opere leccesi[6] va accostato il dipinto della Madonna di Costantinopoli e i santi Giuseppe e Carlo Borromeo conservato nella chiesa dell’Addolorata di Maglie[7], che mostra chiari riferimenti alla pittura del De Matteis: ritroviamo, infatti, le solite tonalità calde e contrastate, i dolci e delicati volti dei personaggi come quello del Bambino e gli angeli dai tipici riccioluti e biondi capelli.

Pubblicato su Il delfino e la mezzaluna n°2

 


* Il presente lavoro integra i miei precedenti contributi: Il pittore delle nuvole. I dipinti di Paolo de Matteis (1662-1728) nella Cappella del Seminario di Lecce, in “Il Paese Nuovo”, Anno XX, Numero 18, 22 gennaio 2012, p. 23; Paolo de Matteis e i due dipinti del seminario, in “L’Ora del Salento”, Anno XXII, Numero 27, 14 luglio 2012, p. 4.

[1] Cfr. G. Mongelli, Paolo De Matteis in Puglia, in Ricerche sul Sei-Settecento in Puglia, dirette da L. Mortari, Fasano 1980, pp. 105-136; Paolo De Matteis a Guardia Sanframondi, Catalogo della mostra, Guardia Sanframondi 15 luglio-15 settembre 1989, a cura di F. Creta – A. M. Romano, S. Nicola la Strada 1995;

[2] Cfr. G. Mongelli, Paolo De Matteis in Puglia, cit.

[3] Il dipinto è stato assegnato al De Matteis in M. Paone (a cura di), Lecce Città Chiesa, Galatina, 1974, tav. XL.

[4] L. Galante – R. Poso, Questioni Artistiche Pugliesi, Galatina 1985, p. 14.

[5] Cfr. Aa.Vv., Lecce: Antico Seminario, Lecce 2008, p. 44.

[6] Nel Museo Diocesano di Lecce è conservato il dipinto del Riposo nella fuga in Egitto, proveniente dalla chiesa conventuale dei Carmelitani, attribuito al De Matteis nel 1985 dal Galante (cfr. L. Galante – R. Poso, Questioni Artistiche Pugliesi, cit, p. 15-16 e fig. 9) e confermato dalla Barbone nel 1995 (cfr. N. Barbone Pugliese, Scheda n. 57, in Il Barocco a Lecce e nel Salento, Catalogo della mostra, Lecce Museo Provinciale 8 aprile-30 agosto 1995, a cura di A. Cassiano, Roma 1995, p. 72). Come è stato giustamente notato dal Vetrugno, tale dipinto è invece firmato e datato “A. Diego Rodriges f. 1716” (cfr. P. A. Vetrugno, Un’aggiunta all’attività di Paolo De Matteis nel Salento, in Scholae patrum. Per i cento anni del Liceo “P. Colonna” di Galatina, Galatina 1999, pp. 3341-344), pertanto va ripensata la paternità dell’opera. Da notare, inoltre, che un dipinto dalla simile composizione è esposto nella sede della Soprintendenza per i Beni Artistici di Bari presso S. Francesco della Scarpa.

[7] Cfr. S. Tanisi, Il dipinto della Madonna di Costantinopoli di Paolo De Matteis nella chiesa dell’Addolorata in Maglie, in “Spicilegia Sallentina”, n° 6, 2009, pp. 65-68.

L’arciprete di Lucugnano… poco arci, per nulla prete (forse)

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di Elio Ria

 

Chi era costui? Un prete esistito nel XVI secolo, in un periodo che va dal 1520 al 1560. Fu arciprete dal 1589 al 1591  nel paese di Lucugnano frazione di Tricase, quasi nel lembo estremo del Salento: luogo che tende la mano al capo di Santa Maria di  Leuca, dove le pietre sono l’icona della durezza della semplicità.

Papa Galeazzo era dedito quanto basta alle cose di Dio, con una predisposizione smisurata alla burla, fuori dai canoni, imprevedibile, cinico, giocondo, beffardo. Non si conosce il suo curriculum vitae et studiorum: le notizie riguardanti la sua vita sono scarne. I suoi culacchi sono frutto della fantasia popolare,  manipolati e aggiustati nel tempo per renderli  piccanti.

Un’invenzione letteraria del popolo salentino – vessato e oppresso –   per menare sberle a destra e a manca ai signori e al clero. Dal ritratto del Buia, il nostro arciprete appare con il viso tondo e gonfio, due occhietti spiritati, un naso troppo dritto con narici spesse, baffi all’inglese, mento piccolo, capelli lunghi ondulati. Così come ci è stato tramandato nel disegno pare più un bonaccione che un burlone. Di statura piccola e grassottello, non disdegnava qualche approccio amoroso con la contadina del luogo.

Nei fatterelli, raccontati nel libro, curato da Michele Paone, Il Breviario di Papa Galeazzo, (edito da Congedo, 2001), il gusto morboso della risata accompagna il sentimentalismo populistico con cui sono narrati i vizi, la miseria, la frustrazione e la tipica concezione fatalistica della gente del Sud a tirare a campare, comunque.

L’agire dell’arciprete si stemperava in riparazione di errori commessi dalla gente del luogo, come incomprensioni coniugali e sociali, bisticci e altro. Consolatore degli afflitti con piglio sarcastico, come nel caso della Marchesa di Alessano sofferente per i dolori del parto, stesa sul letto di una stanza, dove su una parete era collocata l’immagine sacra di Santa Liberata. Alle implorazioni della nobildonna, Galeazzo si rivolge alla santa, a mani giunte, proferendo:

Oh, mia Santa Liberata,

Fa che dolce sia l’uscita

Come dolce fu l’entrata,

Oh, mia Santa Liberata.

 

La marchesa rise così tanto che il marchesino venne alla luce.

Un microcosmo, quello dell’arciprete, in cui si dipanano gli eventi spiccioli che coinvolgono protagonisti e comparse. I racconti sono ridotti alla dimensione di figurine Panini, di soldatini di collezione. Si leggono d’un fiato, alcuni divertono, altri privi di condimento letterario sono insipidi e deludono  per l’overdose d’insignificanti aspetti narrativi.

Il prete nei fatti assorbe la centralità per le sue eccentriche e bislacche trovate innestate nell’umorismo campagnolo del Sud, che allora era assoggettato fin troppo alle cose dei preti e agli affari della chiesa. Un vizio che ancora la gente del Sud non riesce a scrollarsi di dosso.

 

Nei fatti del Breviario non è difficile, comunque, scorgere l’ironia dei valori e dei principi: la religione come arma per sottomettere anime “innocenti” e condannarle alla servitù del culto; i galantuomini che dominano sui cafoni,  seppure in una condizione sociale apparente  di buonismo trasfigurato in una narrazione favolistica, priva di riferimenti storiografici.

 

L’arciprete è una caricatura della quale manca il perfezionamento dei tratti somatici da identificare con il simbolo di rappresentatività di un’epoca che nello sfondo dei fatti di cui egli è protagonista è  marginale. Spicca invece il suo spirito libero e indomito che gli fornisce gli strumenti per confezionarsi una vita senza troppi problemi perennemente in conflitto tra la realtà e l’irrealtà, tra il vero e il falso. Giocoso, bislacco, icastico irriverente, insomma assomma a sé fin troppe specificità caratteriali che lo rendono nei fatterelli adattabile a situazioni differenti. Tra l’altro era ostile e irriverente all’ortodossia e alla gerarchia ecclesiastica, e questo è inverosimile che un prete, in particolare modo nel sedicesimo secolo, si comportasse in quel modo. Valga a mo’ di esempio, il fatterello dal titolo Le reliquie di S. Cristoforo:

 

Tra un quarto di secolo e l’altro i Vescovi solevano procedere alla verifica delle reliquie. […] Papa Galeazzo, che non aveva reliquie da presentare[…] non volendo rinunziarvi, pensò di confezionarsi una reliquia, come infatti fece, rivestendo con un vecchio manico marocchino un bel manico di zappa […] tempestato da mille bolli di cera rossa. […]Monsignore […] giunse così all’Arciprete di Lucugnano. – Che reliquia avete portato? Domandò il Vescovo.

–        Il … di S. Cristoforo, rispose Papa Galeazzo, reliquia molto miracolosa nei casi di sterilità. Eccellenza.

–        I documenti?

–        I documenti, Eccellenza? I documenti? Meglio documento di questo!!? rispose subito Papa Galeazzo. Quale Santo. Eccellenza, poteva portare in terra un …, che uguagliasse questo?

 

Invero, è irrispettoso il comportamento di Galeazzo nei confronti del Vescovo di Alessano; c’è da supporre, come in altri aneddoti che lo riguardano, che la fantasia popolare avesse davvero costruito l’episodio per manifestare il proprio disprezzo nei confronti di un clero arrogante per minarne la credibilità. Tutto questo spiegherebbe l’assenza di uno stile e di una eleganza letteraria negli aneddoti di papa Galeazzo che si perdono in episodi di scarsa vena inventiva, statici e in molti casi dozzinali, con l’unico scopo di rimediare una risata immediata come nelle migliori barzellette moderne italiane; sono pagine in cui l’ironia diventa troppo acre e la volontà di colpire si fa troppo scoperta.

 

Indubbiamente nelle facezie dell’arciprete vi è il gioco dei valori e dei principi, in cui prevalgono l’affermazione dell’egoismo individuale, la supremazia dei più forti, la scaltrezza della povera gente, il primato dell’utilitarismo, l’egoismo come significazione dell’altra faccia (esasperata) del bisogno. In un contesto sociale così omologato dalle necessità primarie si può comprendere l’assenza di eroi, vi sono rappresentate, invece, piccole furbizie, occasioni di imbrogli, furtarelli di fichi.  Galeazzo del sistema sociale è la vittima, mai l’eroe: gli attribuiti affibbiategli dalla tradizione popolare sono troppi ed esagerati… insomma forse sarebbe il caso di reinventarlo.

 

DI MICHELE SAPONARO …E DELLA SUA TERRA D’ORIGINE

di Maurizio Nocera

Michele_Saponaro
«Michele Saponaro – afferma Antonio Lucio Giannone, ordinario di Letteratura italiana contemporanea presso la Facoltà di Lettere  e Filosofia dell’Università del Salento, dalle cui pubblicazioni trarrò molte delle notizie sullo scrittore contenute in questo scritto – è stato uno degli scrittori di maggior successo in Italia nella prima metà del Novecento”.

I suoi libri sono stati pubblicati dagli editori più importanti del secolo passato e venivano  continuamente ristampati, ottenendo sempre un grande favore presso il pubblico dei lettori. La sua firma compariva sui principali quotidiani e su riviste prestigiose. Per oltre mezzo secolo insomma Saponaro è stato al centro della società letteraria italiana.

[…] Direi che Saponaro merita di essere letto ancora oggi perché aveva doti di autentico scrittore, al di là dell’immagine di narratore “di consumo”, che proprio il convegno [di San Cesario, marzo 2010] ha definitivamente rifiutato» (v. G. Virgilio, “Lo scrittore ritrovato”, in «il Paese nuovo», 1 aprile 2010, p. 6).

Questo giudizio su Michele Saponaro, espresso in occasione del Convegno di studi nel Cinquantenario della morte dello scrittore, tenuto a San Cesario di Lecce il 25-26 marzo 2010, è del massimo esperto in Salento sulla vita e l’opera del sancesariano. Effettivamente la produzione letteraria di Michele Saponaro, che scrisse e pubblicò anche con lo pseudonimo di Libero Ausonio, è stata vastissima, oserei dire impressionante: molti i romanzi, le biografie romanzate, i reportage, i saggi, le opere teatrali, gli articoli, e tra le tante anche delle liriche, raccolte postume in un libro del 1963. Si calcola che abbia pubblicato 42 titoli, molti dei quali con la casa editrice Mondadori, ma pubblicò anche con altri editori, tra cui Bideri di Napoli, Amalia Bontempelli di Roma, Puccini di Ancona, Vitagliano e Ceschina di Milano, sicuramente con altri ancora. Ecco perché, a guardare la sua imponente produzione scrittoria, sembra di trovarsi davanti a un autore che abbia svolto gran parte della vita scrivendo. L’amore per la letteratura e la scrittura sicuramente gli venne dalla continua frequentazione degli ambienti dei libri (biblioteche e librerie) e dalle redazioni di prestigiosi giornali e riviste. È risaputo che lo scrittore fu inizialmente impiegato bibliotecario a Catania e, successivamente, a Brera; fu redattore e giornaliste di testate come «La Tavola Rotonda» (1906-9), sulla quale pubblicò il “Manifesto del Futurismo” (14 febbraio 1909), quando ancora questo importante documento non era stato pubblicato dal quotidiano parigino «Le Figaro»; fu direttore della «Rivista d’Italia» (1918-20), giornalista di «Sera» (1924-8), «Corriere della Sera», «Stampa», «Giornale d’Italia», «Resto del Carlino», «La Gazzetta del Popolo», «Nuova Antologia», «Rassegna Contemporanea». Importante fu anche la sua partecipazione, come collaboratore (1908-9), alla rivista «Poesia», dove conobbe e frequentò Filippo Tommaso Maria Marinetti.

Come si vede, si tratta di una molteplice attività letteraria, che egli svolse per buona parte dei suoi 74 anni di vita e che, indiscutibilmente, è un dato che lo pone fra i più importanti scrittori della prima metà del Novecento.

Michele Saponaro era nato a San Cesario di Lecce il 2 gennaio 1885 e morì a Milano il 28 ottobre 1959.  Si era laureato in Giurisprudenza all’Università di Napoli nel 1906 ma, senza ombra di dubbio, il suo primo e più grande amore fu scrivere e, infinitamente, gli piacque stare nel mondo dei libri.

Col suo vero nome e, prima ancora, con lo pseudonimo di Libero Ausonio, firmò alcuni libri di un indubbio successo editoriale, quali: “Novelle del verde” (Napoli 1908) con prefazione di Luigi Capuana; “Rosalocci” (Ancona 1912); “La vigilia” (Roma 1914); “Il peccato” (Milano 1919); “Amore di terra lontana” (Milano 1920); “La perla e i porci” (Milano 1920); “Le ninfe e i satiri” (Milano 1920); “La casa senza sole” (Milano 1920); “Nostra madre” (Milano 1920); “Fiorella” (Milano 1920); “L’idillio del figliol prodigo” (Milano 1921); “L’altra sorella” (Milano 1923); “Un uomo: l’adolescenza” (Milano 1924-25); ripubblicato col titolo “Adolescenza” (Galatina 1983) a cura di Michele Tondo; “Inquietudini” (Milano 1926); “Un uomo: la giovinezza” (Milano 1926-27); “La bella risvegliata” (Milano 1928); “Io e mia moglie” (Milano 1928, 1929, 1930); “Paolo e Francesca” (Milano 1930); “Avventure provinciali” (Milano 1931); “Zia Matilde” (Milano 1934); “La città felice” (Milano 1934); “Bionda Maria” (Milano 1936); “Il cerchio magico” (Milano 1939); “Prima del volo” (Milano 1940); “L’ultima ninfa non è morta” (Milano 1948); “Racconti e ricordi” (Torino 1957/8); “Il romanzo di Bettina” (Milano 1959).

Importante la sua produzione di commedie e tragedie: “Mammina” (Milano 1912, premio naz. Sonzogno); “Sogno” (1922); “Filippo” (Milano 1954); “Andromaca” (Milano 1957); “Antigone” (Milano 1958).

Come importante fu anche la sua produzione di biografie di grandi personaggi della storia: “Vita amorosa di Ugo Foscolo” (Milano 1939); “Carducci” (Milano 1940); “Leopardi” (Milano 1941); “Mazzini” (Milano 1943-4, due tomi); “Michelangelo” (Milano 1947); “Gesù” (Milano 1949); “I discepoli” (Milano 1952, 1954).

Sua è la firma della prima guida Touring “Attraverso l’Italia. Puglia” (Torino 1937). Dall’editore Ceschina di Milano, fu pubblicato postumo il suo “Diario 1949-1959” (Milano 1962), che dà la dimensione vera dello scrittore e delle sue sconfinate relazioni letterarie.
Intensa fu la sua corrispondenza con gli autori più noti in quel momento in Italia, come Luigi Capuana, Benedetto Croce, Salvatore Di Giacomo, Giovanni Gentile, Arnaldo Momigliano, Eugenio Montale, Ada Negri, Luigi Pirandello, Giovanni Verga e altri.

I suoi numerosi carteggi li sta studiando il prof. Antonio Lucio Giannone sulla base del «prezioso Archivio dello scrittore, donato dai figli Giovanni e Silvia attraverso la mediazione di Tondo, […all’Università del Salento e conservato] presso la Biblioteca del Dipartimento di Filologia, linguistica e letteratura».

Michele Saponaro non disdegnò la politica e il fare politico, svolti sempre in un ambito democratico repubblicano e socialdemocratico (ad una delle legislatura degli anni ’50, fu candidato per il partito di Giuseppe Saragat), attento ai movimenti culturali e, quando fu il tempo dannato del fascismo, non si appiattì sulle problematiche del regime. Anzi, fu uno dei firmatari del Manifesto antifascista di Benedetto Croce. Certo fu uno scrittore amato soprattutto dalla piccola e medio borghesia illuminata prevalentemente del nord Italia, ma egli, da buon figlio del Meridione, non si fece influenzare dai costumi e dai modi di vita di quella classe, anche se non li escluse del tutto ma, al contrario, fu invece lui ad iniettare in essa molti dei sentimenti e della condizione psicologica della gente del Sud. Per questo Saponaro viene spesso indicato come l’autore di romanzi e novelle, al cui interno i personaggi sono indagati dal punto di vista esistenziale con un’attenzione quasi sempre autobiografica, che poi noi sappiamo qual era la sua condizione di figlio del Sud.

«Per il gusto naturalistico, per la tematica fortemente ancorata alla terra d’origine – scrive A. L. Giannone – i testi sono vicini ai maestri del verismo, Verga e Deledda; per il linguaggio letterariamente sostenuto paiono risentire dell’influenza di Carducci e D’Annunzio. […] Ci sono vari aspetti dell’attività […] dello scrittore che meritano di essere riscoperti. Ce ne sono almeno tre principali e altri secondari. Innanzitutto ovviamente c’è l’aspetto del narratore. Saponaro è autore di numerosi romanzi e racconti che rientrano quasi tutti […] nella categoria della narrativa d’intrattenimento, [… tuttavia] anche questa produzione di carattere più commerciale presenta notevoli motivi di interesse perché permette di conoscere concezioni, valori, ideali che si sono affermati nella società italiana, o in determinati gruppi sociali, in un preciso momento storico. […] Ma soprattutto occorre individuare il nucleo più genuino e valido della sua opera e verificarne la tenuta ai nostri giorni, perché Saponaro ebbe anche indubbie qualità letterarie che si rivelano, in modo particolare, in certi romanzi a sfondo autobiografico, nei quali è costantemente presente il motivo della terra d’origine.

Sulla tesi della sua terra d’origine come personaggio principale delle opere di Michele Saponaro, Giannone ritornerà ancora rispondendo ad una domanda dell’intervistatrice Serafino: «Il ricordo del Salento riecheggia sempre nella scrittura di Saponaro sin dal suo primo romanzo “Vigilia”, del 1914. […] A Saponaro si deve il merito di aver inserito, per la prima volta, il Salento nella geografia letteraria del Novecento» (v. Pamela Serafino, “Michele Saponaro, un raffinato narratore”, in «EspressoSud», settembre 2010, p. 27).

È una tesi questa confermata recentemente anche dallo studioso Ginò Pisanò che dello scrittore-poeta, rileggendo la sua ode “Su lo Jonio” (canto per Gallipoli), scrive: «Correva l’anno 1906 quando un giovane poeta salentino, ormai lontano dalla sua terra, la rievocava in versi sospesi fra dolente nostalgia e vitalistica coscienza» (v. G. Pisanò, “Gallipoli in un’ode barbara di Michele Saponaro”, in «Anxa news» (settembre-ottobre 2010, p. 11). Pisanò coglie bene il senso profondo dell’operare letterario di Michele Saponaro, soprattutto per quanto riguarda la sua poesia. Ecco perché, qui, mi piace chiudere proprio con un riferimento al suo libro “Poesie” (Laterza, Bari 1963), introdotto dalla bellissima presentazione di Mario Sansone e Michele Tondo, due suoi meritevoli amici, che scrivono: «Questi versi […] ripropongono i temi di affetto, di memoria, di disincanto che appaiono nella sua narrativa: un gusto autobiografico che si scioglie lentamente dalle tentazioni del moralismo e dell’ironia o di certa satira un po’ indispettita, per salire ad un timbro idillico, originale nella dosatura del sentire e del colore: un patire quieto ed accettato, ma con una sua dignità e forza, un idillismo che, se mai, trova il suo limite nelle pretese reattive e pungenti, non nell’invocato oblio della vita e delle sue responsabilità» (p. 5).

Un gusto autobiografico spesso dolente e vibrante come si effonde dalla seguente lirica: «Terra dammi le tue linfe,/ perché il mio corpo riviva/ nei tronchi, nelle radici,/ nei rinascenti germogli/ della foresta profonda./ Ecco, disteso nel solco,/ la fronte rivolta al cielo,/ sento il mio peso carnale/ solversi nella natura./ Cielo, dammi le tue ali,/ perché il mio cuore riviva/ nelle nuvole, nei venti,/ e nelle innumeri stelle/ del firmamento infinito.// (novembre 1946)» (p. 35).

 

pubblicato su Il Filo di Aracne

 

Un “bestiario” medievale sulle antiche travi della Cattedrale di Nardò (4)

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Stemmi civili e religiosi sulle travi. Alle origini dell’araldica

 di Marcello Gaballo

 

Un altro aspetto per niente trascurabile che offre la lettura delle nostre travi è rappresentato dal repertorio di stemmi civici e religiosi che si intercalano nel brulichìo di figure ed ornamenti. Un vero e proprio stemmario assai originale e molto precoce, essendo ancora oggi ben poche le raccolte di insegne anteriori al 1351.

La presenza di testimonianze araldiche sui tetti delle chiese pugliesi non è invero esclusiva del nostro tempio, anzi forse una consuetudine per molte altre chiese, tra le quali certamente va ricordata quella di Otranto[1].

Il loro rinvenimento certifica che essi sono senz’altro i primi esemplari di stemmi gentilizi a Nardò, in un’epoca in cui l’araldica, pur comparsa in Europa nel secondo quarto del XII secolo e iniziata ad essere riprodotta solo agli inizi del secolo successivo, lentamente si radicava anche in Terra d’Otranto. La nobiltà locale, fortemente condizionata dalle corti palermitane e napoletane, subendo gli influssi svevi e angioini, si adeguava alle abitudini dei pari nobili giunti da ogni parte del regno e come quelli, prendendo parte attiva a battaglie, ma anche a giostre e tornei, adottava un proprio simbolo e lo apponeva sull’equipaggiamento militare[2]. Come nelle altre parti dell’Europa inizialmente si servì di immagini animali o vegetali o elementi decorativi di varia natura, che vennero poi gradualmente codificati in veri e propri stemmi, trasmissibili ereditariamente. L’intento di richiamare subito al possessore fece sì che, quale signum proprietatis, lo stemma fosse rappresentato sui propri oggetti, sulle facciate dei palazzi o sugli ingressi delle masserie. Ma anche sulle cappelle di patronato o su opere pubbliche realizzate con i propri fondi, in modo tale da trasmetterne imperitura memoria. È ciò che accadde anche per le nostre travi, per la cui realizzazione o rifacimento contribuirono con consistenti finanziamenti diverse nobili famiglie, come testimoniano le loro armi dipinte su di esse.

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particolare dei rilievi delle travi della cattedrale di Nardò disegnati da Primo Panciroli

Ma oltre a segnalare la committenza gli stemmi ci consentono anche di datare con maggior precisione le stesse travi, in ciò aiutati anche dall’iscrizione di cui si è detto, confermando dunque l’epoca in cui esse furono realizzate e fornendo un valido repertorio del mondo baronale della Nardò trecentesca.

Mancando fonti documentarie araldiche medievali è evidente la difficoltà di poter individuare tutte le famiglie cui gli stemmi spettavano e solo per alcuni si è pensato di riuscirci, considerato che molti di essi poterono essere variati dai discendenti sia nelle figure che nei colori. Un’ulteriore difficoltà deriva indubbiamente dalla poca comprensibilità del disegno originario, dipinto su un materiale facilmente degradabile come il legno, riprodotto dal Panciroli o dall’Armanini ben oltre cinque secoli dopo.

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particolare dei rilievi delle travi della cattedrale di Nardò disegnati da Primo Panciroli

Ecco, dunque, quanto ci offrono le nostre travi:

nella seconda fila della tavola II si scorgono due stemmi non identificati, di cui il primo può blasonarsi: d’argento all’aquila di nero, probabile emblema della casa sveva; il secondo: di verde al leone rampante d’argento, che può attribuirsi ad uno dei Gentile, i filosvevi conti di Nardò, il cui capostipite fu Simone. A lui Federico II aveva donato la città nel 1212, quale premio per aver recuperato molti territori pugliesi usurpati dall’imperatore Ottone. La presenza di questi stemmi potrebbe essersi voluta per ricordare chi ricostruì o ampliò l’abbazia dopo il terremoto del 1245.

Sulla quarta fila della tavola III si alternano una serie di cornici a losanga e plurilobate. Nelle prime è inserita una stella a otto raggi, nelle seconde una croce potenziata nera.

Lo sfondo (il campo) della prima losanga è blu e la stella è d’oro, nella seconda rosso con stella bianca; il motivo si ripete per buona parte della trave. Lo sfondo delle cornici polilobate è invece sempre color oro e la croce è nera. Nel primo caso potrebbe trattarsi dello stemma della famiglia Del Balzo: di rosso alla cometa di sedici raggi d’argento. Storicamente risulta che dei Del Balzo, in questo periodo, vivesse Francesco, duca di Andria e conte di Avellino, cognato del già menzionato principe di Taranto Roberto, per aver sposato sua sorella Margherita, da cui poi ebbe Giacomo.

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Amphivena, immagine tratta da un bestiario medievale

Nella fila 4 della tavola IV sono riprodotti dei frammenti di decorazioni e su uno di essi è raffigurato un toro, in merito al quale il Panciroli annota nella fila seguente: «fondo bianco. Il toro di colore rosso è lo stemma di Nardò». Quasi certamente corrisponde alla nostra arme civica, anzi ne è in assoluto la prima testimonianza, ribadendo che l’uso degli stemmi delle città europee ebbe inizio nel XIV secolo, lo stesso delle nostre travi[4].

Nella sesta fila della tavola VII sono raffigurati altri tre stemmi gentilizi non identificati, di cui il primo con sfondo azzurro e bande e sbarre d’argento; il secondo presenta la prima e quarta parte d’argento, la seconda d’argento scaglionato di azzurro, all’opposto della terza parte che è azzurra con gli scaglioni d’argento[5]. Il terzo stemma, anche questo non attribuito, è d’oro con un drago nero.

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immagine tratta da un bestiario medievale

Nella prima fila della tavola VIII si ripete per due volte un emblema: d’argento alla croce patente di nero, che è poi la croce teutonica. Potrebbe trattarsi dell’insegna dell’Ordine di Santa Maria, detto dei Cavalieri Teutonici, che furono presenti nell’abbazia di S. Maria de Balneo[6] della balia di Puglia, almeno sino al 1435. Non è difficile pensare che anche questo Ordine avesse contribuito alla ricostruzione della cattedrale.

Nella terza fila della stessa tavola sono ritratte una serie di stelle a nastri incrociati ed archeggiati che racchiudono al loro interno un giglio: uno d’argento su sfondo rosso, gli altri rosso su sfondo nero, argento su sfondo rosso e nero su sfondo oro. Semplici variazioni dell’unico emblema del rex francorum, degli Angioini, quali erano il principe Roberto[7] e suo padre Filippo, probabili committenti del coevo affresco della Madonna detta del Giglio, nella navata destra della cattedrale.

Un altro stemma compare nella quarta fila: d’azzurro al castello d’oro sulla pianura erbosa di verde (si ripete in tav. XI, V fila). Si tratta certamente dell’arme della nobile famiglia neritina Del Castello, baroni di Paretalto ed Acquarica, di cui si ha notizia in Terra d’Otranto sin dai tempi di Federico II e che nel periodo di nostro interesse possedevano anche i feudi di Acquarica del Capo, Bagnolo, Andrano e Taurisano. Il fratello di Goffredo Del Castello da Nardò figura tra i baroni nel 1239, mentre lo stesso Goffredo e Filippo compaiono tra i feudatari di Terra d’Otranto nel 1284. Matteo fu vescovo a Nardò nel 1387, destituito poi da Bonifacio IX nel 1401.

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Il leone, immagine tratta da un bestiario medievale

Nella quarta fila della tavola XI vi sono altri tre stemmi, sostenuti da altrettante coppie di animali e figure antropomorfe[8]. Anche questi appartengono ad altrettanti feudatari neritini. Il primo o il secondo potrebbe essere dei De Noha, antica e nobile famiglia di origine normanna, vissuta in Nardò sino al secolo scorso. Da alcune pergamene del monastero di santa Chiara si desume che Pietro De Noha nel 1239 è uno dei baroni di Nardò fedeli a Federico II, mentre Guglielmo e Rao lo sono nel 1269 e 1284. Nello stesso secolo, nel 1253, Pietro, vivente a Lecce, è barone del casale di Noha.

Conclude la quarta fila uno stemma: d’oro alla croce di rosso accantonata da quattro bisanti dello stesso. Non è improbabile che si tratti  di un’esemplificazione dell’insegna del principato di Taranto, che araldicamente si descrive: di rosso alla croce d’oro accantonata da quattro bisanti d’argento, caricati ognuno da una croce di verde.

Nella quinta fila vi è l’emblema della Chiesa, le chiavi di Pietro decussate: di rosso alle chiavi d’argento poste in croce di sant’Andrea, con gli ingegni in alto, rivolti verso i lati dello scudo, rappresentando la prima il potere che si estende al Regno dei Cieli, la seconda l’autorità spirituale del papato sulla terra[9]. Nello stemma papale, in verità, una chiave è d’oro e l’altra è d’argento e sono tenute insieme da un laccio passante tra le due impugnature delle chiavi, quale segno dell’unione indissolubile dei due poteri[10]. Accanto si ripete lo stemma dei baroni Del Castello.

Se fosse stato possibile esaminare tutte le figure delle travi probabilmente si sarebbero rintracciati molti altri blasoni, scoprendo così nella nostra cattedrale un vero e proprio museo di araldica inserito nella più importante testimonianza pittorica cittadina.

fine

 

Le precedenti parti si possono leggere in:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/10/16/un-bestiario-medievale-sulle-antiche-travi-della-cattedrale-di-nardo-1/
https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/10/17/un-bestiario-medievale-sulle-antiche-travi-della-cattedrale-di-nardo-2/
https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/10/19/un-bestiario-medievale-sulle-antiche-travi-della-cattedrale-di-nardo-3/

[1] Anche sulle travi delle cattedrali di Bari e di Bitonto furono rinvenuti degli stemmi, la cui identificazione ha poi permesso di collocarle cronologicamente (cf Gelao, Tecta depicta, 12 e segg.; 21-22; Fantasia, Il Duomo di Bari, 78).

[2] L’ elmo d’ altronde, calato sul volto, li rendeva irriconoscibili. A partire dall’inizio del secolo XIII l’uso dello stemma si estese alle donne, agli ecclesiastici, agli abitanti delle città; quindi alla fine del XIII e inizi del XIV secolo l’uso si estese alle comunità civili e religiose, alle istituzioni in genere (Enciclopedia dell’Arte Medievale,  II, s.v. Araldica).

[3] Di essa fecero parte: Galtiero, che compare tra i feudatari del regno di Napoli al tempo del re Manfredi, insieme a Filippo Sabatino. Enrico, che nel 1239 figura tra i baroni di Terra d’Otranto. I suoi figli seguivano le opinioni del re Federico II in aperto contrasto col papa (così come facevano altri baroni neritini: il fratello di Goffredo Del Castello, Pietro De Noha, Filippo De Persona, Tommaso Gentile, Nicolò e Ruggero Maresgallo, Guerriero Montefuscoli). Guglielmo, di Enrico, nel 1273 è signore di Racale; ebbe una figlia, Caterina, che nel 1274 sposò Risone della Marra. Francesco nel 1328 fu tra i baroni di Terra d’Otranto che ricusarono di andare alla custodia della Calabria.

[4] La distinzione tra i due quadrupedi andava fatta: in araldica il bue si distingue dal toro per avere le corna basse e la coda pendente, mentre le corna del toro sono montanti e la coda si ripiega sul corpo.

Il decreto di riconoscimento dello stemma è dell’ 11 novembre 1952, data in cui è stato trascritto nei Registri della Consulta Araldica di Roma. Per la sua descrizione v. M. Gaballo, Araldica Civile e religiosa a Nardò, Nardò Nostra 1996, 82-83.

[5] Ivi, 124.

[6] Il monastero sorgeva dove oggi c’è la masseria Fiume, a meno di 300 metri dal rudere delle Quattro Colonne, a sud del piccolo abitato costiero di Santa Maria al Bagno, sulla Serra prospiciente, a circa 35 metri dal livello del mare.

[7] L’iscrizione prima riportata può anche far pensare che Roberto possa essere il re di Napoli, figlio di Carlo II. In tal caso la datazione delle travature dovrebbe ridursi al 1343, anno della sua morte. Ma contraria tale ipotesi l’ emblema angioino qui raffigurato, che certamente non è quello del re in questione, al quale infatti è attribuito il seguente: interzato in palo: nel I a fasce alterne rosse e oro; nel II d’azzurro seminato di gigli d’oro col lambello; nel III di rosso all’ aquila d’oro. Questo stemma è visibile in S. Maria del Fiore a Firenze, in cui sono pure visibili le chiavi pontificie di cui si dirà in tavola 11, V fila.

[8] Notevoli somiglianze si osservano con i disegni delle travature un tempo esistenti nella chiesa di S. Agostino a Palermo, alcuni dei quali riportati nel più volte citato saggio della Gelao, Tecta depicta…, tavv. 30-31, oltre che in Lanza, Saggio sui soffitti siciliani, 178,214.

[9] Le chiavi, nell’ araldica ecclesiastica, appaiono nel XIII secolo, affiancate (“in palo”) e con gli ingegni rivolti in alto. Dal XIV secolo figurano invece incrociate (“in decusse”), come nel nostro caso.

[10] Le chiavi pontificie venivano rappresentate sempre da sole, come nel nostro caso, talvolta col triregno sovrapposto oppure con l’ombrellone o gonfalone papale. Nei secoli successivi vennero disegnate fuori dallo scudo papale, al di sopra, come un vero e proprio “capo” araldico (cf. G. Bascapè-M. Del Piazzo, Insegne e simboli. Araldica pubblica e privata medievale e moderna, Roma 1999).

Salento che cambia: cresime, padrini e madrine, doni e regali

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di Rocco Boccadamo

 

Domenica scorsa, durante la Santa Messa al paesello, l’Ordinario diocesano, nell’occasione celebrante, ha anche amministrato il sacramento della Cresima a diciassette ragazzi e ragazze, frequentanti in prevalenza la prima media.

Fra le immagini colte nel corso della cerimonia, ha colpito, innanzitutto, il particolare che alcuni dei “confermandi” sovrastavano, quanto a statura fisica, i rispettivi padrini e madrine, e ciò a riprova della progressivamente crescente altezza media fra una generazione e l’altra.

Seconda inquadratura indicativa e un po’ spettacolare, a metà Messa, il corteo del gruppo di adolescenti, i quali, in coppia, hanno recato verso l’altare, a titolo di dono o omaggio al vescovo, grandi cesti, chiusi da cellophane e nastrini, contenenti, è proprio il caso di dirlo, ogni ben di Dio.

E, ancora, al termine della cerimonia, con i neo “soldati di Cristo” tutti insieme intorno al vescovo  e al parroco, gli scambi di confidenze fra i protagonisti circa i regali ricevuti: sono risuonati, fra gli altri, i nomi di telefonini, smartphone, iPad, personal computer, orologi, biciclette da corsa, motorini, roba, insomma, di un certo, se non addirittura consistente, valore.

Una breve litania di evidenti segni caratteristici sul mutamento dei tempi e delle abitudini.

Il ragazzo di ieri che scrive ha vissuto la sua cresima nel lontanissimo 1948, quando aveva appena sette anni, ma conserva ancora viva nella memoria la figura del vescovo dell’epoca, francescano cappuccino con il volto incorniciato da una folta barba, tale Monsignor Cornelio Sebastiano Cuccarollo, Arcivescovo Metropolita di Otranto e Primate del Salento.

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Nel ruolo di padrino, un compaesano contadino classe 1928, compare Uccio, coetaneo e stretto amico di un mio zio paterno. All’uscita dalla chiesa, l’anzidetto “nunnu”, in gergo dialettale, con un rapido gesto discreto ma in certo qual modo anche solenne, passò a consegnarmi il suo regalo, una banconota da cinquecento lire, dicendo testualmente: “Tieni, così potrai comprarti un paio di pantaloni” (sarebbero stati ovviamente pantaloni corti, gli unici indossati, all’epoca, dai ragazzini.

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Per avere un’idea del valore della carta moneta di quel taglio, si consideri che lo stipendio mensile di un operaio andava da venti a venticinque mila lire, il costo del giornale era pari a venti lire, una tazzina di caffè si pagava trenta lire, il pane cento – centodieci lire al chilogrammo, la pasta centotrenta lire, la carne bovina ottocento lire.

V’è però da rimarcare che, nelle passate stagioni, a prescindere dell’entità del regalo dal padrino al figlioccio, fra i due e fra i rispettivi nuclei famigliari, s’instaurava un legame fortissimo, intenso, quasi si trattasse di vera e propria parentela.

Al riguardo, ricordo che una volta compare Uccio, ormai ultra sessantenne, in compagnia della figlia, incontrandomi casualmente e dopo i saluti disse alla giovane donna: “Tieni presente che, se e quando ti servirà un consiglio o un’informazione o un suggerimento, non dovrai esitare a rivolgerti al mio figlioccio (“sciuscetto”, in dialetto) che, sono sicuro, non mancherà di aiutarti e assisterti”.

Sempre a proposito di cresima, un’altra compaesana, l’amica Anita, classe 1930, mi ha confidato di aver avuto per madrina, nel suo caso correva l’anno 1940 o il 1941, mia zia Maria, sorella di mia madre, la quale le diede in dono un libricino di preghiere con copertina bianca in finta madreperla.

 

Terra rossa

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di Sonia Colopi Fusaro

 

Terra rossa, quella salentina,

dove l’amor si abbarbica

nel profondo, come edera a

reconditi anfratti.

 

Volteggia Pan con Elfi celioni,

sulle brune zolle, pregne d’humus ferroso

e dal vomero aperte ad accoglier

la semenza che mai delude

nel raccolto atteso.

 

Terra unica e ubertosa, par resa

più feconda dal taurino sangue

di vittime immacolate

su are di nostrani dei.

 

Terra incastonata tra chiaroscuri sassi

di muri a secco ad inanellar

quei campi che la luce del sole

nutre e il paesaggio tinge

di quei colori macchiaioli e forti

propri delle nostre rurali contrade.

Olio e manodopera

ph Donato Santoro
ph Donato Santoro

di Livio Romano

Un tempo chiamavi un contadino e si faceva fifty fifty con l’olio che veniva fuori dalla spremitura delle olive. Poi la percentuale è diventata 60 a lui e 40 a te. Poi ha cominciato a voler essere pagato in giornate. L’anno dopo ha voluto che pagassi io il frantoio e gli comprassi le reti perché aveva le sue impegnate in altri uliveti. Arrivammo a una sera che mi portò due litri di olio come unico e solo frutto di tutto il lavoro. Pagai quell’olio, dunque, intorno ai 350 euro a litro. “Signor Livio non si crucci, la campagna è così: anni meglio, anni peggio”. Da allora ho deciso che si fottano le olive: le lascio cadere a fare humus agli alberi stessi.

Gallipoli. Tra i deserti del carparo, la “Mater Gratiae” di Daliano

                             L'affresco di Mater Gratiae                                                                                                                                           di di Piero Barrecchia

 

Esiste un luogo sacro, tra Gallipoli ed Alezio, da tempo immemorabile. Fino a qualche decennio addietro l’edificio era preannunciato da un maestoso Osanna, sormontato da una croce, al quale, defilato sulla destra, faceva compagnia un pozzo con paraste semplici, doppia coppia di colonne quadrate ed un arco a tutto sesto. L’invito all’edificio sacro, nelle sue semplici modanature, è interrotto da quell’unica nicchia che incorona l’ingresso principale, contenente una Madonna in pietra, monocromatica, di quel colore dell’alba che connota la pietra leccese, assisa su un tronetto biondo di carparo, di quel carparo estratto dalle vicine cave. Chiaro omaggio del luogo alla Vergine da cui prende il nome  “matercrazia”.

E’ un luogo di equilibrio tra la vita cittadina ed il riposo dello spirito. Lo fa intendere anche la sua posizione. In mediazione, tra i baratri delle “Tajate” e la rassicurante pianura su cui sorge da secoli. Luogo sacro,  prima inviolato, poi dimenticato e defraudato, infine recuperato.

In equilibrio, tra un passato troppo remoto, evanescente ed incerto ed un presente costellato da atti di donazione di opere, culto, fede e fatica. Equilibrio tra cripte oscure portate nell’intimo e santuari innalzati, spontanei, ispirati dall’affresco, bizantino, sulla parete di fondo, la “Mater Gratiae”.

Alla visione si può accedere dalle tre porte, segno evidente di una struttura importante. E’ facile intravedere tra le crepe della galatea calce un avanzo d’affresco, cosa che fa presuppore ad un intero ciclo pittorico che svela il suo apice nell’affresco centrale della Vergine con Bambino, fino ad innalzarsi oltre il mediano cornicione, sulla parete di fondo, che imprigiona un paradiso di Santi ossidati, ove solo la Trinità resiste nelle sue cromie.

Il tutto risulta equilibrato da scansione di archi ciechi, a tutto sesto, che convogliano le loro forze ritmate verso l’arco centrale sovrastante il presbiterio. Tutto è armonico, tra l’alternanza dei chiaro-scuro delle finestre, delle quali una funge da ingresso centrale alla luce ed irrompe sul prospetto principale. Tutto è unanime, persino gli ornamenti scolpiti del soffitto ed i cornicioni perimetrali, nel condurti a quello sguardo materno, con, sulle ginocchia, un Figlio benedicente, colorato da tempere tenui e da ricordi svaniti di pennellate staccate, non più recuperabili. Tutto risulta sobrio, ma non povero, armonico eppur barocco. Persino le memorie conducono a quell’unico affresco che ha attraversato i secoli e le strutture, rimanendo sempre e comunque, l’unico superstite.

Da ”Assunta dei Basiliani” a “Sancta Maria de Balneo”, da “Madonna Adigria o Odigria” a “S.Maria di Costantinopoli”, fino a “Santa Maria delle Grazie o di Daliano” all’attuale “Mater Gratiae”, dal periodo bizantino fino all’era contemporanea.

L’interno era ornato da due statue lignee di S.Lazzaro e S.Domenico, riposte nelle due nicchie laterali del presbiterio. Vi erano due dipinti rappresentanti S.Francesco e S.Andrea, che affiancavano l’affresco principale della Vergine, racchiuso in una lignea cornice, attualmente in restauro. Inoltre, impreziosivano l’interno, due tele, di notevole dimensione, sfondo alle due arcate adiacenti la zona presbiterale e rappresentanti l’una la “Presentazione della Vergine al Tempio” e l’altra la “Nascita del Redentore”. Memoria antica e storia gloriosa, si confondono con i vaghi ricordi.

Il tempo che ha consunto le opere e mani sacrileghe che hanno trafugato sculture e dipinti, non hanno potuto nulla per asportare una devozione mai interrotta e sempre viva. Nulla rimane degli antichi e preziosi omaggi a quella Madre che, per fortuna, da secoli, è riuscita a trattenere sulle sue ginocchia quel Figlio benedicente. L’amore spontaneo verso tale luogo ha, comunque sia, contribuito a restituire alla memoria collettiva l’importanza e la sacralità del sito.

Da ormai un decennio il culto è stato ripristinato ed anche l’aspetto del sito si è arricchito di recenti donazioni spontanee, tutte di fattura locale. All’esterno, nella nicchia sovrastante l’ingresso principale, è stata ricollocata una recente statua della Vergine.

Restituita l’Osanna, ai cui piedi campeggia una croce ferrea con i simboli della passione. Arricchito lo spazio esterno con un altare in carparo sovrastato da un crocifisso in pietra. Circondano l’opera le panche in cemento ed una via crucis in terracotta e carparo. Completano il decoro esterno un recinto ligneo che custodisce il simulacro di S.Pio da Pietralcina ed un basamento, in carparo, sovrastato dalla statua del Beato Giovanni Paolo II, figure moderne di spiritualità, festeggiate nelle loro rispettive memorie liturgiche.

La chiesa è aperta ogni sabato per le funzioni religiose e l’inglobato edificio monastico è  annualmente scenario di un suggestivo presepe vivente, oltre che della spettacolare accensione della “focaredda” in onore di S.Antonio Abate.

Prospetto principale della Chiesa
particolare del prospetto principale della chiesa

L’ingresso.  

L’ingresso al luogo di culto è stato arricchito da una bussola lignea. All’interno dell’aula liturgica sono stati collocati due confessionali ed una nicchia, lignea, finemente lavorata, proveniente dalla gallipolina chiesa di S.Francesco d’Assisi, che custodisce la statua, in cartapesta, della Madonna delle Grazie, dono della famiglia dei Cavamonti ed oggetto di venerazione nel terzo lunedì di Ottobre. Rifatte, in pietra locale, le acquasantiere che adornano i pilastri d’ingresso. Restaurato e riportato all’antico fascino l’affresco bizantino di “Mater Gratiae”, che negli ultimi anni del 1900 era stato picchettato e ridipinto. Le panche lignee sono un dono aletino. In restauro la fastosa cornice che circondava l’affresco. Una novella nicchia ospitante un bel simulacro di S.Antonio da Padova. All’interno dell’unica navata è appesa, sulla destra del centrale ingresso, una stampa oleografica del secolo scorso, rappresentante la Deposizione. Una nicchia lignea racchiude una statua del Cristo Risorto.

particolare dell'affresco absidale
particolare dell’affresco absidale

I pilastri sono scanditi da una moderna via crucis in gesso alabastrino, montata su supporti lignei. Le due porte laterali sono sovrastate da due dipinti, eseguiti e donati nel 2012, che hanno voluto restituire la memoria storica di quelli preesistenti, certo nel titolo, non nelle dimensioni, né nell’impostazione pittorica di quelli, di cui non rimane testimonianza, neppure fotografica.

A proposito delle attuali rappresentazioni, è necessario soffermarsi per spiegarne il contenuto, attinto dalla storia di questa chiesa-santuario. Quello sulla parete sinistra raffigura la “Presentazione della Vergine al Tempio”. Maria bambina è accolta dal sommo sacerdote, sul pronao di un ipotetico tempio, al vertice di una scalinata. Alle spalle delle scena principale, si apre un prospetto che coglie, in prima linea, i visi degli anziani genitori, i Santi Anna e Gioacchino, preludio all’orizzonte retrostante, composto dall’antica collina verde che discende dal sito di Daliano fino al centro storico di Gallipoli, assiso sul ceruleo mare. I riferimenti topografici fanno intravedere il percorso che va dalla Chiesa dei Cappuccini, detta “S.Anna”, sul colle S.Giusto, fino al Santuario di “Santa Maria del Canneto”. Il tutto è sovrastato da una scena cherubica.

L’altra tela rappresenta la “Nascita del Redentore” Le figure classiche del presepio sono  amalgamate con la tradizione locale. Il tutto si svolge in agro di Alezio, sublimato, sullo sfondo, dalla sagoma del Santuario di “Santa Maria dell’Alizza”, ospitante, nel suo pronao i quattro magi, come da tradizione locale. Mentre il riposo del dormiente trova collocazione ai piedi dell’osanna. La campagna distende i suoi sentieri ai locali pastori fino al luogo dell’evento, che per l’occasione si svolge in una cava. La Vergine è distesa, per ricordare un aneddoto aletino, secondo il quale, dopo aver salvato Alezio da un terremoto, la Madonna, stanca, si riposò in questa contrada. Ma, anche, per rendere omaggio al culto bizantino, che rappresenta usualmente, al momento del parto, Maria distesa nella mangiatoia, mentre il S.Giuseppe custodisce la divina maternità, ospitata in una cava di carparo ed annunziata dalla colomba dello Spirito Santo e dalla scena cherubica. Una popolana in primo piano, in offerente atto, porge un cesto ricolmo di olive. Chiara allusione alle passate fortune economiche della Città di Gallipoli, quando era dedita al commercio dell’olio lampante. Nella mano sinistra è visibile una corda, sulla quale è dipinta in vermiglio, la data “1544”. Tale data riporta ad un fatto storico avvenuto in quell’anno del quale, l’esito positivo venne attribuito all’intercessione della Vergine. In particolare, si tramanda che sull’acquasantiera alloggiata sul pilastro destro della chiesa, si conservava un pezzo di fune proveniente da una nave turca che fece naufragio, sulle coste gallipoline, determinando la salvezza di tutti gli ostaggi cristiani prelevati dalle scorrerie turche in terra salentina e calabrese.

Le due tele costituiscono, nel loro intento, un dittico che riproduce le due città limitrofe e che riporta, idealmente, gli eventi rappresentati, come se si svolgessero nel luogo di “Mater Gratiae”. I dipinti sono racchiusi da due artistiche cornici lignee, indorate. La premura della devozione antica, si fonde con il rinnovo contemporaneo e moderno, con l’estetica, l’architettura, la pittura, tra iniziative personali e corali, a volte riparatrici di gesti e di ingiurie, a volte, solo, piene di gratitudine. Sempre volontarie.

Non è opportuno tralasciare i luoghi intorno alla chiesa, pregni da alto valore artistico e naturalistico che si coordinano tra loro, lasciando un senso di equilibrio e di armonia nel visitatore. Per un invito alla conoscenza del luogo descritto, si rimanda ai paragrafi contenuti in recenti pubblicazioni, quali “Sulle orme di Maria” di Giuseppe Marino e “Gallipoli Sacra” di uno scrittore locale.

E’ indubbio il valore del lavoro monografico più rilevante, stilato da S. Bolognese, nel suo “La chiesa di S.Maria delle Grazie o di <<Taliano>> nel territorio di Gallipoli”,  pubblicato in “Contributi”, Rivista della Società di Storia Patria per la Puglia, Anno V, n.1 marzo 1988, Ed. Congedo. Il testo ora citato, oltre ad offrire un contributo eccezionale e puntuale dal punto di vista storico ed artistico del sito, ci regala una foto d’altri tempi, che esprime tra le righe, una descrizione sulla vita quotidiana di allora in queste contrade, quando i “cavamonti”, invocavano la loro Vergine ed a lei si affidavano: (…)””a questa categoria si deve ancora oggi quella minima cura e la conservazione del rito con una festa che si tiene il giorno successivo alla seconda domenica di ottobre di ogni anno. (…) Il loro lavoro si svolgeva dall’alba al tramonto sotto le viscere della terra in enormi ed esotiche gallerie o vani a campana. Questo lavoro veniva sospeso soltanto per la consumazione di un frugale pasto composto da un pezzo di pane bagnato, cosparso, qualche volta, d’olio d’oliva con qualche pomodoro o peperoncino e per bevanda l’acqua che si raccoglieva in <<ombili>> o <<quartare>> (recipienti di terra cotta tipici del posto) lì dove la roccia lambiccava gocce d’acqua freatica che, attraverso il materasso freatico, filtrava e filtra ancora oggi. Alla Vergine  questa gente si è rivolta e continua a rivolgersi invocandone la protezione e rifugio (…)””. Questa piccola, grande oasi di “Mater Gratiae”, grazie ai custodi scrupolosi, che amorevolmente la curano, ha ricominciato a rifiorire, tra i deserti del carparo di Daliano.

Viandante, se giungi in Puglia

di Paperoga

Viandante, se giungi in Puglia ti ritroverai nella regione più lunga d’Italia, un lungo tubo stretto che pare andare alla deriva in direzione sud-est. Sarà un viaggio ricco di insidie e tranelli stradali, un on the road popolato da alcune forme di irragionevolezza tipicamente levantine che sarà bene riconoscere per tempo.

Viandante, se giungi in Puglia noterai, appena dopo qualche kilometro, che qualcosa di nuovo e strano avviene lungo la A14. Nelle decine di km diritti in mezzo al nulla che dai laghi di Lesina portano sino a Cerignola, comincerai a vedere dietro di te automobili che sfanalano senza apparente motivo. Sullo specchietto retrovisore noterai dei segnali  misteriosi, codici inaccessibili, abbaglianti usati da solerti marconisti per inviare messaggi la cui urgenza si manifesta nel nervoso abbagliare. Non distrarti a chiederti cosa significhino, chè te lo spiego io: non ne ho la più pallida idea. Mi scervello da 30 anni a capire perchè appena arrivati in Puglia le macchine comincino ad usare gli abbaglianti per segnalare la loro posizione anche 40 secondi prima di sorpassarti. La teoria più interessante credo sia il bisogno di comunicare qualcosa, l’urgenza di un chiacchiericcio a distanza che ci prende a noi pugliesi al mercato così come all’uscio di casa e ci porta via. Se ci fosse la possibilità grideremmo quello che abbiamo da dirti, ma nell’impossibilità ci limitiamo ad un Codice Morse riveduto e corretto.

Viandante, se giungi in Puglia e non ti fermi in Gargano o a Trani o a Castel del Monte, giungerai a Bari, e dopo essere uscito dalla A14 entrerai in tangenziale. Il primo impatto provocherà la perdita del tuo senso dell’orientamento: ti chiederai dov’è la destra, dov’è la sinistra, qual’è la corsia di sorpasso, quale quella di marcia, e se i limiti scritti sui cartelli stradali sono semplici consigli spassionati o obblighi, oppure quel 90 di limite sottintende ad una diversa misurazione della velocità, tipo non so, le miglia baresi, che corrispondono ai 180 km orari in Italia. Quando entrerai in tangenziale infatti capirai che non c’è una corsia di marcia distinta da quella di sorpasso. Come in un grazioso circuito nascar cittadino, le macchine sfrecciano zigzagando impazzite, sorpassando in terza corsia in attimo prima di derapare tagliandoti la strada perchè devono imboccare l’uscita successiva a destra. E in tutto questo ti risparmio le furentisegnalazioni degli abbaglianti davanti di dietro di sopra dovunque, che qui in tangenziale raggiungono il picco dell’intensità e frequenza pugliese, tant’è che credo che da un satellite la tangenziale di Bari appaia come un corpo celeste che emette pulsazioni luminose da fare invidia ad un quasar. L’unico consiglio che posso darti, viandante, per sopravvivere a quei dieci km scarsi senza trasformare il tuo viaggio in un ameno autoscontro da giostre, è di pregare alla Madonna.

Viandante, se giungi in Puglia e decidi di lasciarti Bari alle spalle per scendere ancora più a sud, ti sarai ormai abituato all’uso sconsiderato degli abbaglianti, ma non sai che stai per entrare in un territorio in cui ben altre sono le irragionevolezze stradali. Ora, non ho dubbi che il Salento sia identico al barese o al brindisino, ma tant’è, qui ci sono nato e vissuto, e dunque posso parlare male solo della terra che mi ha vomitato.

Viandante, se giungi in Salento dovrai percorrere il più grande uliveto del mondo interrotto e puntellato da oltre 100 comuni. Le strade di grande comunicazione sono ben poche, il resto è un intricato dedalo di strade provinciali nel quale ti infilerai come in una giungla subtropicale. Queste strade sono molto simpatiche, perchè hanno il vizio di entrare dentro ogni sacrosanto paese senza mai sfiorarlo o tangerlo con delicatezza. Questo significa che, se vorrete andare dal paese A al paese E, dovrete necessariamente passare per i paesi B, C e D. Ma questo è il meno. Ogni volta che sei costretto ad entrare in un paese, fatti il segno della croce o datti una bella aggiustatina ai maroni, perchè rischi di rimanerci invischiato come un insetto sulla tela di un ragno. Ci sono paesi muti, in cui manca qualsiasi indicazione stradale. Oppure l’unica indicazione che troverai sarà l’utilissimo “Tutte le direzioni“, che è il corrispondente salentino del mitologico “Di qua” e “Di là” della città di Paperopoli. Se hai un navigatore satellitare, probabilmente ti salverà la vita ma comincerà anche a fumare sovrariscaldato. Oppure ci sono paesi in cui i segnali stradali sono stati decisi e installati dopo una riunione alcolica dell’ufficio tecnico del comune, tra un bicchiere di rosso e due kili di salsiccia, in cui i beoni di turno hanno distribuito alla cazzo di cane quattro segnali in croce. Il risultato è che le indicazioni appaiono e scompaiono senza motivo. Ad un incrocio le trovi, al prossimo no, poi ne trovi altre che ti indicano qualcosa di simile ad un “no ci siamo sbagliati, vai di là“, poi altre ancora in cui campeggia l’equivalente di un “stavamo scherzando“. Il risultato è che giunto al termine del paese, spossato e preso per il culo, spesso ti trovi su una provinciale diversa da quella che volevi. Dietro di te hai il maledetto paese di 3000 anime in cui sei rimasto 15 minuti, davanti a te un altro di 2000 in cui ne rimarrai 20. E la meta ti sembrerà sempre più irraggiungibile.

Viandante, se giungi in Salento devi sapere una cosa: qui la gente per strada o va molto veloce o va molto piano. Non ci sono vie di mezzo. Incontrerai vetture tarantolate che su strade provinciali strettissime schizzano come missili arrivandoti incollate al culo e le vedi ansiose e disperanti nel volerti sorpassare come in in inseguimento alla Hazzard, e se moltiplichi questa scena per cento al giorno ti chiederai “ma sti salentini dove cazzo vanno sempre così di fretta? minchia devono davvero avere così tanto da fare in così poco tempo! che urgenza, che fretta, ma non era un posto dove la gente si gode la vita senza stare appresso a ritmi serrati?” Viandante, se giungi in Salento non stare a porti queste domande, perchè non c’è risposta razionale che possa soddisfarti. Anche perchè, alternati a queste teste di cazzo che sfrecciano a 120 all’ora laddove c’è un limite di 50, troverai vetture quasi immobili, che proseguono a 20 all’ora (e non scherzo, 20 fottuti kilometri orari!) senza alcun motivo. Dentro non ci sono solo vecchiazzi a cui è stata criminalmente prolungata la patente, ma anche donne e uomini di ogni età, che proseguono alla velocità di una bicicletta, con le braccia appoggiate al finestrino abbassato in una posa che invita alla siesta.

E poi, viandante, se giungi in Salento dovrai fare i conti con i mortali nemici di ogni automobilista salentino: gli Apecar e i trattori. Degli Apecar te ne accorgi un metro prima di finirci addosso. Placidi nel loro rollìo e beccheggio, proseguono a 30 all’ora su qualunque strada carichi di frutta o di ferraglia, bloccando la sede stradale e non dando nemmeno segno di preoccuparcisi troppo. Potresti passare metà della tua vacanza dietro i fumi mefitici di questa fottuta tre ruote, caro viandante. I trattori per fortuna sono più rari, ma mica tanto. Di quelli te ne accorgi dalle code improvvise e kilometriche che si formano in strade di solito deserte. Enormi caterpillar che schizzano fuori tocchetti di terra dalle loro ruote mastodontiche spiaccicandoli sul tuo parabrezza, raggiungono al massimo i 15 all’ora, scaricano velenosissimi gas di scarico banditi persino in Cina, e ti tirano fuori anche se non vorresti kilogrammi di bestemmie dolenti.

Viandante, se giungi in Salento ricorda anche che non usiamo mettere le frecce, lo riteniamo un gesto forse demodè. Siamo gente risoluta che ama i fatti, quindi se dobbiamo voltare a destra lo facciamo, mica lo stiamo a segnalare. Se vogliamo sorpassare detto fatto, mica vi stiamo a chiedere il permesso. Oppure sostituiamo le frecce con gli abbaglianti, come spiegato sopra.

Che poi la guida salentina non sia troppo diversa da quella di ogni pugliese, caro viandante, lo deduci passando un quarto d’ora in macchina mentre guida la baresissima Sunofyork: limiti di velocità bellamente oltraggiati, uso degli abbaglianti e del clacson quasi a segnalare bullescamente la propria presenza o a segnare il territorio come fanno i cani quando pisciano sui muri, uso promiscuo delle corsie di marcia e di sorpasso come se il mondo fosse una grande tangenziale barese.

Viandante, se giungi in Puglia sappi che siamo gente umanissima ma irragionevole, generosa ma del tutto incoerente. E che sulle strade non facciamo che proiettare le fattezze di ciò che siamo nella vita di ogni giorno. Quindi, buona fortuna…

Sulla campagna profonda

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di Eugenio Giustizieri

 

Sulla campagna profonda

gli olivi a guardia

sentono l’aria di sonno,

forse destino che s’incrocia

con l’amato, perso incanto

d’ogni giorno.

 

S’espande un battito d’ali

nel vento delicato

appena nato,

più bianco delle case,

del dolore

d’essermi salvato.

Dall’assurda fiscalità dell’INPS al pane a prezzo d’oro

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di Rocco Boccadamo

 

Poveri noi! Le accurate verifiche poste in atto dalla celebrata “basilica” della previdenza nazionale in merito alle prestazioni erogate, nell’arco di più anni, a favore di un pensionato, controlli terminati con l’accertamento e la conseguente richiesta di rimborso di un centesimo d’euro, sono una clamorosa contraddizione in termini.

E’ difatti bastevole pensare ai miliardi di contributi evasi di cui l’INPS, com’è noto, rimane vittima, spesso irrimediabilmente, per opera di veri e propri eserciti di “briganti” grandi e piccoli.

Si potrà obiettare che, nel caso del centesimo, tutto è stato fatto dalla procedura, dai programmi informatici, compreso finanche l’imbustamento della raccomandata spedita all’assistito reprobo. E, però, appare davvero poco credibile che neppure l’ombra di un collaboratore o addetto di genere umano si sia accorta dell’assurdo rendiconto finale.

Da queste parti, in regolari esercizi commerciali, si trova pane di buona qualità a euro 2,40 il chilogrammo. Tuttavia, personalmente, almeno riguardo a tale alimento essenziale, sono solito fare uno strappo, trattandomi alla grande mediante il consumo di pane DOP di Altamura, precisamente ciabattine, il cui prezzo da un negozio all’altro oscilla da tre euro a tre euro e venti centesimi, sempre per chilogrammo.

Così a Lecce. Invece, in un’altra località italiana, capoluogo di provincia della Lombardia dove abita un mio figlio, un chilo di pane, normali filoncini, costa, nei panifici, la bellezza di 6,90 euro il chilo.

Perché? Come mai? A mio avviso, non possono esistere spiegazioni che reggano.

Non mi resta, purtroppo, che riprendere l’esclamazione iniziale e adattarla in “Povero figlio mio!”: rispetto alle quotazioni di Lecce, per il solo pane, gli tocca sostenere un maggiore onere mensile di oltre cento euro.

La Fiera di San Vito a Ortelle

Fiera di Ortelle-il cibo nei quadarotti

La Fiera di San Vito a Ortelle (Le), in mostra i prodotti dell’agricoltura, dell’artigianato e dell’allevamento, locali e salentini.

In ricordo di Giorgio Cretì.

 

di Poalo Rausa

 

Torna dal 24 al 27 ottobre ad Ortelle, un paesino a sud-est in provincia di Lecce a metà strada fra gli insediamenti messapici di Vaste (Basta) e di Castro Marina (Castrum Minervae), un qualche migliaio di  abitanti, territorio prevalentemente agricolo e fecondo di artisti – tacendo dei viventi, è necessario citare almeno il pittore Giuseppe Casciaro (Ortelle, 9 marzo 1861 – Napoli, 25 ottobre 1941), l’avvocato e benefattore Francesco De Viti (Ortelle, 4 giugno 1875 – Ortelle 19 Luglio 1919) e da ultimo, non per importanza, Giorgio Cretì (Ortelle 1933 – 9 gennaio 2013), giornalista, fotografo e scrittore, amante della sua terra al punto di aver rivolto il suo esclusivo interesse alla cucina salentina, alle ‘erbe e malerbe’ (il titolo di un suo saggio) e all’epopea dei vinti, in racconti e in romanzi (di ‘Pòppiti’ si sta proponendo la ripubblicazione a cura del Comune e della Fondazione di Terra d’Otranto e la rappresentazione teatrale su testo della scrittrice Raffaella Verdesca e regia di Paolo Rausa).

Intorno al Santuario di San Vito e Santa Marina, costruito poco dopo il 1770, e alla cripta della Madonna della Grotta del XIII secolo, su un sito di culto  preesistente di epoca messapica e forse preistorica, si è sviluppato questo luogo di scambio o mercato  la cui data di origine si perde nella notte dei tempi.

Fiera di Ortelle-vendita del vino
Fiera di Ortelle-vendita del vino

Questo spazio diviene per alcuni giorni, verso la fine del mese di ottobre – quest’anno dal 24 al 27 – , capitale del maiale ospitando la tradizionale Fiera di San Vito, una delle più antiche del Sud Italia. La manifestazione si fregia del riconoscimento di “Manifestazione Fiera Regionale” e si prepara a divenire riferimento per le fiere tradizionali dei paesi del Mediterraneo meridionale. Piatto forte, oltre all’esposizione di prodotti agricoli e artigianali, è la carne di  maiale, preparata e servita in svariate modalità, dalle più tradizionali (lessa e servita con sale e pepe a volontà) alle più originali, che ne valorizzano sapore e proprietà.

La fiera di San Vito però non è solo gastronomia. Oltre alle prelibatezze culinarie, infatti, offre diverse iniziative di arte, cultura, musica tradizionale (protagonisti saranno Nandu Popu dei Sud Sound System che presenta il libro “Salento fuoco e fumo” e il gruppo degli Aria Corte)  e riti sacri.

Spazio anche ad un concorso di fotografia, aperto ai fotoamatori con l’esposizione degli scatti che hanno ripreso la fiera negli anni precedenti, mentre un premio è previsto per lo scatto più significativo che riprende l’evento di quest’anno.

La Fiera di San Vito è organizzata con la collaborazione di Mercatini nel Salento. Info: Comune di Ortelle, Pasquale De Santis, tel. 329.2740780 – infofiera@comune.ortelle.le.it).

Deserto e occhi

rotonda1

di Andrea Calabrese

 

L’asfalto non riflette

l’attesa che rallenta,

non rispecchia

il tempo imminente,

le parole vane,

gli ossimori permanenti.

Cadono nel vuoto

i rimpianti e i pentimenti

e il mio sguardo accarezza

capelli che sanno

di burrasche lontane

e di fichidindia.

I tuoi occhi inconsapevoli

smarriscono,

mentre ti osservo

in silenzio

attraverso vetri diafani

di un pomeriggio di solitudine.

Occhi.

La samaritana e il clandestino

samaritana

di Gino Schirosi

Chi è e cos’è dunque “clandestino”? La voce ha chiara origine francese: “clandestin” (lat. “clam”, di nascosto, e aggiunta mutuata dal lat. “destinare”, attaccare). Oltre ogni interpretazione etimologica e semantica, indica non solo chi, fuori dal proprio habitat naturale, cela pubblicamente il vero stato d’identità per simularne un altro, ma soprattutto chi opera senza l’approvazione e contro il divieto dell’autorità costituita, non obbedendo, volutamente o no, a norme vigenti di qualsivoglia diritto. E fin qui, senza dubbio, dovremmo essere un po’ tutti d’accordo.

Clandestino/a si attribuisce a una varietà di situazioni: giornale, foglio, pubblicazione, edizione e tipografia, bisca, lotto, gioco e scommessa, gruppo, movimento, partito e lotta, mercato, commercio e traffico, passeggero e persino matrimonio.

Non esiste però in assoluto l’uomo che sia di per sé clandestino o, se si vuole, irregolare, specie se viene a trovarsi in uno stato di necessità e di pericolo, in particolari contingenze piuttosto tragiche della storia. L’essere umano resta comunque una creatura di Dio, seppur irregolare secondo parametri istituzionali, del tutto convenzionali e variabili. Si potrebbe tuttavia definire irregolare chi, per dolo o profitto, cerchi di vivere in condizioni di clandestinità, ovvero senza documenti o con documenti falsi, all’interno di uno Stato cosiddetto di diritto; ma in ogni modo il termine ha valore relativo, in quanto non sarebbe sempre tale altrove e altrimenti, non essendo omologabili o comparabili le regole e le circostanze. Fatto è che in relazione a varie e molteplici motivazioni storiche, etno-socio-antropologiche, politiche, economiche e naturali possono esistere altre realtà mutevoli della condizione umana.

Chiunque, ufficialmente regolarizzato, acquisisce di fatto la patente di cittadino, ma per varie ragioni potrebbe finire per perdere il diritto della propria cittadinanza e assumere altra identità più o meno definitiva: nomade, apolide, migrante, emigrante, immigrato, rifugiato politico, profugo, confinato, esiliato, deportato. Tutte categorie d’individui sradicatidal proprio vissuto familiare e sociale, condannati, ovviamente contro la propria volontà, a dover affrontare ogni disagio in cerca se non di migliore fortuna almeno di un futuro diverso, migliore e garante della sopravvivenza, il che nessuno può avere il potere e la presunzione di impedire, vietare o negare.

In verità ogni uomo per natura nasce eguale agli altri suoi simili, sia “villano, papa o re”, ognuno cittadino del mondo, cosmopolita appunto, sebbene, a sua insaputa, venga registrato da una anagrafe per essere catalogato e quindi riconoscersi membro del consesso sociale d’origine, distinto da convenzioni precostituite, secondo cui solo per puro caso ciascuno si trova a nascere e/o a vivere lungo un meridiano o ad una certa latitudine, in un emisfero o in un altro, a nord o a sud del mondo, ad avere disparità di pelle, lingua, religione, costume, civiltà, diverso in tutto dal resto della sua stirpe. Per una sola ragione: sin dalla nascita è costretto ope legis dal “contratto sociale”, che identico dovrebbe appartenere a tutta l’umanità, a far parte di una ben definita e consolidata società “nazionale” circoscritta entro precisi confini, ma si trova pure schedato e inquadrato dalla legislazione vigente a convivere entro determinati schemi di una cosiddetta “patria”, che assai spesso, per svariati motivi, è persino in contrasto con concorrenti e rivali limitrofi da cui difendersi.

Non credo tuttavia che, dopo millenni, vi sia oggi qualcuno che possa vantare la sua origine autoctona, a gloriarsi della purezza del suo albero genealogico, della sua discendenza, progenie, razza. Se c’è, va ricordato che proprio la storia dell’umanità ha mutato la geografia del pianeta. È una storia infinita di guerre e di sangue, lutti, sopraffazioni, violenze, rivoluzioni, trasformazioni, perché, tutto sommato, la storia dell’uomo è la ricerca affannosa di spazi vitali, di competizione a conseguire fortune, primato, progresso. Ma è anzitutto una storia di migrazione, una fuga incessante da est verso ovest, da sud verso nord, in una corsa frenetica dalle sacche di miseria alla speranza, a cominciare dai nostri avi e dai loro antenati sin dalla notte dei tempi… A fronte di tale argomentazione ci si accorge facilmente quanto occorra riflettere e meditare con serietà senza essere banali né superficiali.

Ciò premesso, comprendo benissimo che è molto più facile definire clandestino chi, pur potendo vivere felicemente in uno Stato ordinato e tranquillo senza problemi, ad un certo punto per capriccio o per motivi futili o discutibili progetta di lasciare la sua terra, la sua casa, la sua famiglia in cerca di ventura e, solo per fare altre esperienze anche negative per sé e per la comunità ospitante, tenti d’inserirsi “subdolamente” in una nuova realtà esistenziale e sociale.

Ma come si può invece tacciare di essere “clandestino” chi, povero di tutto ma ricco solo di dignità quale essere umano al pari di noi, l’altro da noi, di noi più sventurato, rischia la vita per sfuggire ad una condizione disumana di degrado, malessere e inferiorità, di grave iattura, come tirannide, oppressione, repressione, paura, guerra, morte, miseria, fame, epidemia, precarietà, incertezza, emergenza, tutto il male che noi fortunati qui in occidente non possiamo in alcun modo conoscere né tanto meno immaginare? Costui non può essere un irregolare, perché, al di là dei documenti, va considerato un profugo, quali che siano le ragioni, politiche o economiche. Sciagure che, come spada di Damocle, notoriamente non risparmiano nessuno ed ovviamente possono capitare a chiunque, anche a chi si sente estraneo, immune o al sicuro (“Lu bbinchiatu nu’ crite lu dasciunu”).

Chiamiamoli pure come si vuole, forse più correttamente quali in realtà mostrano di essere, straccioni, indesiderati, persino “rompiballe”, e meglio spiegheremo cosa intendiamo per clandestini. Saremo più onesti e sinceri, tradendo il nostro vero volto di farisaica ipocrisia, vigliaccamente occultando la nostra indole razzista. Ma è proprio questo il punto di demarcazione, il confine che separa due avverse scuole di pensiero, due orientamenti ideologici, storicamente contrapposti. Chi vive tutelando il proprio esclusivo orticello, mentre osserva il mondo dall’alto della propria agiatezza, è indubbiamente malato di egoismo. Ma solo chi, nel benessere, guarda al di là del proprio io, per interessarsi del “prossimo”, può davvero sentirsi appagato e gratificato del proprio ruolo nella società, stando in pace con sé e con gli altri, con la propria coscienza, con l’etica dell’esistere e del consistere tra i suoi simili. Questa si chiama semplicemente carità cristiana, praticata nell’anonimato, ed è l’altruismo, che non è un brutto termine tra quelli negativi del nostro vocabolario.

In conclusione l’insegnamento evangelico non dev’essere una facciata di maniera, si realizza nella pratica quotidiana, non a chiacchiere. Sta proprio in tale interpretazione della vita il senso più profondo e positivo della civiltà. Accoglienza e ospitalità sono concetti nobili e non astratti, propri della filantropia. L’umanitarismo è appunto il fondamento sostanziale della democrazia, che, orfana di solidarietà e tolleranza, è solo demagogia e pura propaganda, deleteria e ingannevole soprattutto quando si definisce cristiana. È ciò che l’umanità dovrebbe perseguire con coraggio, ancorché sembri utopia e forse resti un sogno. Questo è comunque il pensiero di un cristiano e di un democratico, come mi sento di essere, ma non avrei dato giudizi diversi se invece fossi stato ebreo, islamico, buddista o scintoista.

La questione è sorta in occasione dell’esegesi del passo evangelico relativo alla Samaritana, ben noto per chi conosca i rapporti ostili tra Samaritani e Giudei sotto l’aspetto etnico e religioso. Al cospetto della donna straniera e sconosciuta seduta al pozzo di Giacobbe, Cristo, il giudeo, stanco e assetato, appare come un clandestino bisognoso di accoglienza e di soccorso, anzitutto del bene primario come l’acqua. Ma, si è voluto precisare, sulla terra non ci sono né devono esserci clandestini, nella misura in cui deve essere debellata la povertà insieme col bisogno ed ogni discriminazione. La ricerca di altra acqua più duratura e di altro genere di soccorso è problema che compete alla Fede, alla dottrina e al fine escatologico, per antonomasia il mistero apparentemente inesplicabile, il dogma basilare del Cristianesimo.

Protagonista don Salvatore Leopizzi, parroco di S. Antonio da Padova a Gallipoli. La sera di domenica 27-3-2011, durante l’omelia (legata al tema dell’acqua con gli inevitabili risvolti e riferimenti teologici e sociali) ha lanciato un messaggio di verità. Ha gridato con la commozione in gola e con tutta la “rabbia” covata in corpo chissà da quanto: “Cosa significa clandestino? Non ci sono clandestini nel mondo! Nessuno è clandestino!”. L’assemblea dei fedeli, in piena sintonia, è rimasta sensibilmente turbata e ammutolita, mostrando apprezzamento ma soprattutto condivisione. Per tante ragioni l’episodio meritava quanto meno un approfondimento.

La verità è che non è stato tuttora risolto un vecchio enigma, se cioè gli uomini di Chiesa abbiano diritto di curarsi esclusivamente delle anime e non anche del destino degli uomini, specie degli ultimi e derelitti soggetti passivi di un’emergenza umanitaria, occupandosi parimenti di giustizia, libertà, legalità, dignità, dei valori etici calpestati in un’epoca storica in cui è palese l’assenza di esempi positivi che provengano dall’alto. La Chiesa a buona ragione, oggi più che nel passato, allorché si sentiva sollecitata e coinvolta a sostegno di determinate istanze politiche collaterali alla vecchia classe dirigente, deve avvertire l’obbligo morale di fare da supplente a chi è latitante o distratto. Specie se la società e la politica, smarrendosi egoisticamente dietro a risibili e non sempre vaghi disegni e trasgredendo ai propri doveri e alla propria missione, sono impegnate a predicare tutt’altro, anche privilegiando con faziosità il proprio “particulare”, anteponendo gli interessi privati e personali, ma trascurando spudoratamente l’utilità pubblica, il bene comune.

Al riguardo, giusto per offrire un contributo più concreto e una risposta più adeguata al tema trattato, la figura di Don Tonino Bello, il Vangelo della carità senza pregiudizi o remore sperimentato per strada nella realtà dell’impegno sociale, sembra la più emblematica e la più esaustiva, anche perché non ha bisogno di ulteriori commenti. Ma non è più tra noi, come Padre Balducci e Padre Turoldo, altri paladini scomodi del civismo libertario e democratico. Resta la testimonianza coraggiosa di Don Luigi Ciotti, isolato nella lotta contro il malaffare e l’illegalità, a tutela quindi dei principi laici e valori etici di civiltà. Che fare? Lo priviamo della scorta, lo confiniamo all’interno di una chiesa obbligato a dir soltanto messe e a provvedere alla salvezza spirituale dei fedeli oppure lo mettiamo all’indice per il suo disimpegno nella difesa del potere oligarchico e temporale?

Le feste di San Rocco nel mondo

ITINERARI DI TURISMO CULTURALE                                      

         A Lisbona  un Convegno Internazionale di studiosi di sette Paesi

convegno san rocco

di Ermanno  Inguscio

Un Convegno Internazionale a Lisbona, la città natale di Sant’Antonio, per  gli Italiani il Santo da Padova, su “Le feste di San Rocco nel mondo: tracce di cultura”, dal 4 al 7 di ottobre 2013, non è sembrata da subito un’iniziativa azzardata per gli organizzatori lusitani, l’Irmandade da Misericordia e di San Rocco, l’Università Nuova e il Centro Italiano di Cultura della città. Vi hanno, infatti, partecipato delegazioni e “conferencistas” provenienti dal Belgio, dalla Francia (Montpellier), dalla Spagna (Llanes), dalle Isole di Capo Verde (Città Velha), dal Brasile, dal Canada (Toronto e Montréal), dal Portogallo e naturalmente dall’Italia (Venezia, Cremona, Torrepaduli, Sarmato, Voghera).

L’obiettivo, finalità primaria del meeting, era dato dalla possibilità d’indicare strategie comuni per nuovi itinerari di turismo culturale. E in Portogallo, terra storica di naviganti e scopritori dell’evo moderno, non era difficile confrontarsi su uno schema di riflessione orientato al viaggio come nucleo di conoscenza e aggregazione tra genti diverse. L’incontro internazionale si è articolato per tutto il sabato, 5 di ottobre u.s., nell’Auditorium del Museo Nazionale della Farmacia, dove i diversi relatori, ciascuno nella propria lingua, hanno esposto il proprio punto di vista con il considerevole supporto della traduzione simultanea in cinque lingue (portoghese, francese, italiano, spagnolo e inglese), irradiata dalla cabina di regia. I contributi della prima parte dell’Incontro, nella mattinata,  dovevano rimarcare “la valorizzazione e la diffusione del patrimonio culturale materiale e immateriale delle Associazioni di San Rocco”.

San Rocco

Dopo la presentazione del tema della giornata da parte di Edoardo Cordeiro Concalves ed Helena Concalves Pinto, membri della Commissione Scientifica, da Montpellier la presidente Anne-Marie Conte-Privat ha riferito su “Azioni, esperienze e testimonianze dell’Associazione Internazionale di San Rocco di Montpellier” e  Claudio Braghieri sulle “Attività svolte e le nuove prospettive di ricerca” dell’Associazione Italiana da lui presieduta. Paolo Ascagni, direttore del Centro Studi Rocchiano (Cremona-Italia) ha aggiornato i numerosi convenuti sui risultati di decenni di studi storici e biografici su San Rocco, anche a nome dello studioso Pierre Bolle, direttore del Centro Culturale di Charleroi (Belgio) e i suoi importanti studi fatti in questo ultimo decennio.

Il portoghese Joao Neto, direttore del Museo della Farmacia, ha tracciato, da un punto squisitamente laico, una netta distinzione tra l’ambito devozionale della Fede e l’area scientifica della cura delle malattie, prendendo spunti dalle conoscenze delle antiche culture tribali e da quelle coeve delle società occidentali dell’epoca moderna, tutte in lotta per il miglioramento sanitario della condizione umana. L’architetto veneziano Franco Posocco, “Guardian Grando della Scuola Grande di San Rocco”, ha illustrato con maestria la pregnanza di quello scrigno artistico,  nella città lagunare, definita autentica “Sistina di Venezia”.

Per la seconda parte della giornata di studi, “Le feste di San Rocco, patrimonio culturale e religioso mondiale per un dialogo interculturale”, il Commissario Culturale, Capitano di Vascello della Marina Militare portoghese, José Rocha e Abreu, ha rivelato novità archivistiche sulla Cappella di San Rocco nell’Arsenale Reale della Riviera della Navigazione. Il museologo  della Camera Municipale di Lisbona, Joao Alpuim Botelho e Antonio José Morgado, tesoriere dell’Irmandade (Regia Confraternita), hanno riferito sulla Cappella di San Rocco di Viana del Castello.

Per la parte più specificamente orientata alle nuove possibilità di turismo culturale, da Llanes, cittadina nelle Asturie spagnole, non lontana da Santiago de Compostela, ha relazionato Anìbal Puròn Sànchez, Presidente del Bando (Confraternita) di San Rocco della sua città, offrendo in chiusura un ottimo video su “San Rocco di Llanes; Festa di interesse turistico nazionale”. Dalla Città Vecchia delle Isole di Capoverde, l’ing. Elìsio Correira Lopes, Presidente dell’Associazione Generale dei Pescatori e dei Pittori di Cidade Velha, ha anch’egli riferito, con slides e uno spettacolare filmato, sulla festa di San Rocco in quelle lontane isole dell’Oceano Atlantico.

Per l’Italia, a chiusura della Giornata Internazionale di confronto, con il supporto di un centinaio di slides proiettate  nell’Auditorium, chi scrive ha parlato ai numerosi presenti  della “Tradizione e danza popolare nel ballo di San Rocco nell’Italia Meridionale”, fenomeno etno-musicale, nel caso delle tre modalità di pizzica-pizzica, che coniuga aspetti coreutico-terapeutici con particolari simbologie gestuali e cromatiche, sulla base degli ultimi studi scientifici dell’ultimo mezzo secolo.

Ermanno Inguscio al convegno di Lisbona
Ermanno Inguscio al convegno di Lisbona

Con la sottolineatura della pizzica-scherma, danza rituale praticata ogni ferragosto, sin dal 1531, presso il Santuario di San Rocco in Torrepaduli, nel contributo si è fatto riferimento al concetto di itinerario culturale tra i giovani, che superando devozione e sentimento popolare, dovranno approdare all’obiettivo privilegiato di organizzare attività per lo sviluppo della cittadinanza europea, arricchita dalle sue diversità. Un meeting internazionale saldamente organizzato, in definitiva, quello di Lisbona, in un mite inizio d’ottobre, nel quale ogni delegazione di studiosi stranieri, europea o extra europea, ha apportato interessanti contributi d’analisi su nuove opportunità di turismo culturale.

san rocco

Questo, infatti, può spesso alimentarsi anche nelle tradizioni e nella devozione popolare, di genti, come quella portoghese, che da secoli, per vocazione, a dirla con le parole dell’Ambasciatore d’Italia in Portogallo, dott. Renato Varriale, nell’incontro con tutte le delegazioni avvenuto lunedì 7 ottobre u.s., è con la mente all’Europa di Bruxelles e con il cuore  sempre ai venti delle rotte oceaniche dei suoi Storici navigatori. E l’estuario del Tago, sulle cui sponde si diffondono a Lisbona le struggenti note del “fado”, trova, ogni giorno, nell’Oceano Atlantico, il suo rinnovato abbraccio fatale.

Un “bestiario” medievale sulle antiche travi della Cattedrale di Nardò (3)

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particolare di disegni rilevati da Primo Panciroli sulle travature della cattedrale di Nardò

di Marcello Gaballo

 

Le decorazioni e il bestiario medievale

 

Dall’osservazione delle diverse figurazioni è risultato come esse non siano state eseguite casualmente, per soli fini ornamentali, rivelando invece una struttura quanto mai affascinante e ricca di significati. Nel groviglio di immagini, simboli e personaggi, almeno per quanto ci è pervenuto e ci è dato ancora di notare sulle travi superstiti, risaltano motivi zoomorfi e fitomorfi che ebbero una grande diffusione nelle arti medievali, ben rispondenti alle esigenze di un mondo imbevuto di simbolismo, carico di allusioni e di mistero, che fece larghissimo uso della carica espressiva dell’allegoria.

Le nostre figurazioni non possono allora immaginarsi come frutto esclusivo di cultura locale, evidentemente insolite e troppo originali per essere ritenute semplice esercizio di fantasia. Quando si voglia dare un senso a quell’intercalarsi di figure, stemmi, gigli, foglie d’acanto, formelle, archi o ellissi, occorre immaginarli parti di un più grandioso racconto pittorico che doveva conferire particolare suggestione all’edificio.

La spiritualità dei monaci che lo commissionarono e poi custodirono certamente ha dovuto influire sull’artista, monaco o mercenario, indigeno o forestiero, probabilmente siciliano[1].

è possibile che a progettare l’impianto decorativo sia stato lo stesso abate Bartolomeo, visto che “gli abati erano coinvolti in prima persona, non solo come committenti o promotori, nella produzione artistica” e tenendo conto pure che per i benedettini «l’esercizio delle arti rientra negli instrumenta artis spiritualis elencati dalla Regola, è otium laboriosum contro i rischi del taedium»[2].

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particolare di disegni rilevati da Primo Panciroli sulle travature della cattedrale di Nardò

La chiave del linguaggio simbolico racchiuso nelle nostre figurazioni l’abbiamo trovata nei “bestiari”[3], specie di enciclopedie didattico-morali manoscritte che tanta fortuna ebbero nel Medioevo, a partire dal secolo XII, nei quali erano adombrati non solo i vizi e le virtù degli uomini, ma anche i loro rapporti con Dio e con la Chiesa. In essi, così come negli erbari e lapidari, «…tutto si voleva rivestire di significati riposti, desunti, o dalla etimologia dei vocaboli, o dalle particolari proprietà delle cose prese in esame, all’unico scopo di soddisfare l’ossessionante desiderio di ammaestramento morale che pervade l’intera classe dei dotti, siano essi religiosi o semplicemente laici»[4].

«… È “muta predicazione”, secondo la definizione di Pietro il Venerabile, abate di Cluny, e sospinge con la sua bellezza visibile verso l’invisibile»[5]. Non c’è dunque una descrizione fisica degli animali, tra l’altro numerosi sono quelli inesistenti, che invece offrono il pretesto per ricavare da essi un insegnamento morale e scoprirvi precetti della dottrina cristiana e modi per giustamente relazionarsi col Creatore.

Oltre ai testi sacri[6] ebbe un ruolo fondamentale per l’iconografia e iconologia degli animali nell’arte medievale il Physiologus, un trattato di storia naturale moralizzata in quarantotto capitoletti, composto alla fine del II secolo da un ebreo anonimo di Alessandria convertitosi al cristianesimo[7]. Noto in più varianti e traduzioni latine, il trattato conobbe notevole diffusione nel Medioevo, e molte opere successive si rifecero a quello.

In epoca carolingia i testi del Physiologus si arricchirono di particolari estratti da altre opere, specialmente le Etymologiae del vescovo di Siviglia Isidoro (560-636)[8] e l’Hexaemeron di sant’Ambrogio, il commento ai sei giorni della creazione del mondo, preparando così l’apparizione dei bestiari, i cui primi esempi conosciuti risalgono alla prima metà del sec. XII[9].

Dal Physiologus e dai bestiari trasse poi ispirazione l’imponente plastica architettonica delle chiese romaniche e poi gotiche con miriadi di animali apparsi su campanili, absidi, facciate, archi, basi di colonne e capitelli, amboni, stalli, codici. Di tali testimonianze ritroviamo frequentissimi esempi in svariati edifici sacri europei: Cluny, Reichenau, Montecassino, Assisi, Modena, Pisa, Siracusa e Palermo. Anche la Puglia ne è ricchissima e valgano fra tutte le sculture di san Leonardo di Siponto e di san Benedetto a Brindisi, delle cattedrali di Bari, Bitonto, Trani, Troia, Ruvo e Giovinazzo.

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particolare di disegni rilevati da Primo Panciroli sulle travature della cattedrale di Nardò

Ci è piaciuto riprendere un esempio dal Bestiario Moralizzato di Gubbio[10], uno dei tanti, per comprendere quale fosse il modo di descrivere l’animale e quali proprietà gli fossero attribuite.

La descrizione riguarda la manticora, un essere ibrido dal volto umano e col corpo di leone, che è raffigurato anche nelle nostre travi:

 Manticora

Una fera manticora kiamata

pare d’ omo et de bestia concepta,

però k’ a ciascheduno è semegliata

e carne umana desia e afecta.

 

Ane una boce bella e consonata

nella quale ki l’ ode se delecta:

a lo nemico pare semeliata

ke, variando, nell’ anima decepta.

 

Semiglia ad omo per demostramento,

kè, volendo la gente a sè trare,

fasse parere angelo de luce,

 

a bestia k’ è in reo delectamento:

fa ki li crede tanto delectare,

k’ a la dannatione lo conduce.

 

Alla manticora si affiancano diversi altri animali reali o immaginari quali l’Agnus Dei, la colomba, il leone di san Marco, il corvo di san Benedetto, la iena, il leopardo, l’aquila e tanti altri a chiave meno esplicita.

Tra gli animali carnivori prevalgono sicuramente il leone ed il grifone, tra i volatili l’aquila, tra i rettili il serpente ed il basilisco, spesso varianti dell’immagine del drago.

basilisco
basilisco

Il leone, il più forte tra tutti gli animali, nel Medioevo simbolizza la Resurrezione perché, quando i suoi piccoli nascono, giacciono come morti per tre giorni e la vita non entra in loro finchè il padre non aliti sul loro muso: «la voce sonora del leone, ne gli orecchi loro inalzata, non serve che per cavargli dall’ombre, nelle quali si trovavano sopiti, ed obbligargli a svegliarsi, e goder la chiarezza della luce»[11]. è ancora l’Apocalisse ad indicare in questo animale un simbolo di Cristo: «Colui che si chiama Leone della tribù di Giuda e Germoglio di Davide ha vinto la sua battaglia» (Ap 5,5).

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Come altri animali del bestiario esprime esso duplici connotazioni, positive e negative. I leoni stilofori che dovevano ornare il protiro della nostra cattedrale, e di cui non resta più alcuna traccia, o quelli ancora visibili ai lati del portale della chiesa del Carmine, per la loro funzione di custodia e di difesa dell’edificio sacro senz’altro avevano una valenza positiva. Lo stesso non può dirsi quando essi sono associati alla figura del telamone o quando vengono schiacciati da possenti opere in muratura, come si vede in alcuni altari della stessa cattedrale o ancor meglio nel cinquecentesco cenotafio dei duchi Acquaviva nella chiesa di sant’Antonio, chiara allusione del male schiacciato dal bene.

Sugli altri animali, numerosi nelle tavole di cui ci interessiamo, svariate sono anche le figure geometriche, come pure le ricorrenti rappresentazioni in coppia di leoni, grifi e draghi. è evidente, anche dall’osservazione diretta di quanto è sopravvissuto, l’ordine delle figure, che sembrano disposte con logica e si evidenzia una ricerca di eleganza.

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[1] Nell’isola è ampiamente documentata la tradizione artistica di dipingere i soffitti lignei, tra i quali in special modo il soffitto dello Steri di Palermo.

[2] G. Orofino, in Enciclopedia dell’ Arte Medievale, III, 347.

[3] Il termine è stato fatto derivare dalla frase iniziale di un capitolo delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia, di cui si dirà dopo.

[4] De Bernardi, Disegno Storico della Letteratura Italiana, 26.

[5] Orofino, in Enciclopedia dell’ Arte Medievale, III, 348.

[6] Dall’Antico Testamento si ricavano due generi distinti di classificare gli animali. In Genesi 1,20-25 sono divisi a seconda del comportamento e dell’habitat naturale, ma più interessante appare la suddivisione in animali puri e impuri, che è presentata in Levitico 11 e Deuteronomio 14, 3-20 su base moralistica, prima ancor che igienica. Nel Nuovo Testamento viene abolita la distinzione tra animali puri e impuri, mantenendosi però una valenza negativa in chiave demoniaca, come per il serpente. Assumono particolare rilievo l’agnello e la colomba, che con il pesce, assumono estrema importanza nel simbolismo dell’arte cristiana (Enciclopedia dell’ Arte Medievale, II, s.v. “Animali”; Maspero- Granata, Bestiario medievale, Piemme, Casale Monferrato 1999, soprattutto 6 e segg. per la suddivisione in classi degli animali nella Bibbia).

[7] Per la descrizione di alcuni dei bestiari, conservati in Francia e Inghilterra, cf. A. Payne, Medieval Beasts, British Library, London 1990, 12-16; S. Panunzio, Bestiaris, voll. 2, Editorial Barcino, Barcellona 1963, I, 197-210, con ampia bibliografia; F. Zambon (a cura di), Il Fisiologo, Adelphi, Milano 1982, particolarmente 17-32; N. Pice, A proposito dei “bestiari fantastici” delle Cattedrali, in Studi Bitontini, Bitonto 1995, 77-88; F. Mezzalira, Bestie e bestiari, Allemandi, Torino 2001.

[8] Opera in 20 libri, la cui principale fonte fu soprattutto Plinio il Vecchio (c. 23-79 d. C.) per la cui descrizione si rimanda a P. Castelli, Alcuni appunti sulle Etymologiae di Isidoro di Siviglia, in Iconografia di San Benedetto, 355-358.

Nell’opera gli animali vengono divisi in 4 classi: i quadrupedi, che vivono in terra e distinti in animali utili all’uomo e bestie crudeli e feroci; gli uccelli, che vivono nell’aria, pesci, che vivono nell’acqua, e rettili, che strisciano sulla terra.

[9] Una rassegna cronologica delle opere più importanti che affiancarono il Physiologus è riportata in I. Malaxecheverrìa, Bestiario Medieval, Ediciones Siruela, Madrid 1986, XII-XXI, tra le quali la Naturalis Historia di Plinio, il Liber monstruorum de diversis generibus (sec. VI), lo Speculum naturale di Vicenzo de Beauvais (+1264), il bestiario di Filippo e Thaun (XII sec.), il bestiario latino conservato nella biblioteca di Cambridge, quello di Guillaume le Clerc (1210), Il Tesoro di Brunetto Latini (c. 1220-1294), De animalibus di Alberto Magno (c. 1193-1280).

[10] Opera anonima di un italiano del XIV secolo. Contiene sessantaquattro sonetti, ognuno con le diverse proprietà dell’animale da cui si ricava l’insegnamento morale o simbolico.

[11] F. Picinelli, Mondo simbolico formato d’imprese scelte, spiegate, et illustrate, Stamp. Francesco Vigone, Milano 1680, 271.

Galatina

ph Fernando Scozzi
ph Fernando Scozzi

 

di Martin Andrade

 

Sui campi di papaveri
strisciano le macare.

 In ostería
il settebello abbaglia.

Il frinire delle cicale
apre le palpebre della ragazza
morta ieri l’altro.

Passeri malandrini
stanno a cinguettare in piazza
e donne dai corpi levigati
-taciturne-
sognano il morso dell’amore.

Ad un angolo,
una tarantola dagli occhi azzurri
ed un tatuaggio sulla schiena
sceglie la sua preda.

Un sublime spettacolo naturale nell’autunno leccese

lecce piazza duomo

di Rocco Boccadamo

 

Giovedì 17 ottobre, una bella mattinata nel capoluogo salentino, arietta di tramontana fresca ma gradevole, temperatura oscillante, verso mezzogiorno, intorno ai 19 – 20 gradi, atmosfera tutta da gustare, specialmente ove ci si trovi a passeggiare, come nel caso di chi scrive, a cavallo della bici.

A rendere ancora più straordinaria e fantastica la situazione anzi descritta, viene, per prodigio, ad aggiungersi un quadretto che attira e colpisce l’attenzione degli occhi, oltre a stimolare la mente e il cuore.

In alto, sulla volta azzurra, fa irruzione uno sterminato nugolo di piccoli uccelli bruni, storni per la precisione, chissà quante e quante migliaia, che, probabilmente, sta percorrendo la rotta migratoria verso i caldi territori africani.

Ma tali creaturine, stimolate forse dalla tiepida temperatura, danno l’impressione di voler stazionare sui cieli di Lecce, stazionare beninteso a modo loro, producendosi, cioè, in una serie di rapidissimi ghirigori dalle forme più svariate, autentici ricami che mutano, negli schemi e nei contorni, da un attimo all’altro.

STORMO_DI_STORNI

Dalle piroette dei minuscoli alati sembra trasparire un senso di gioia di divertimento.

 

Chi ha alzato e tiene fisso lo sguardo la su non può fare a meno di pensare che nessuna umana maestria pittorica o di cesello sarebbe in grado di realizzare, con getto così istantaneo, analoghi mirabili e versatili disegni scuri, sullo sfondo turchino del cielo.

 

La visione induce a immaginare con la fantasia cose irreali: al punto che un aereo che, da più in alto, sopravviene ad intersecare la popolosissima colonia di storni, lasciandosi dietro la caratteristica scia bianca, conferisce un’impressione speciale, a guisa che si trattasse di una straordinaria stella cometa in pieno giorno e nel cuore dell’autunno.

 

Non c’è che dire, una sensazione leggera e benefica per lo spirito.

 

A Porto Cesareo

da fotoamore.it
da fotoamore.it


 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

 

Sparse lungo la riva,

le tue case

son come lievi, fragili conchiglie

dallo Jonio, sulla sabbia, abbandonate.

 

Incendio d’oro

a mezzodì tu sei,

allor che il sole a picco

ha baci ardenti

per le tue bionde spiagge.

 

A sera, t’addormenti mollemente

fra l’amorose braccia del tuo mare,

mentre ti bacian l’onde,

mormorando

una canzone vecchia di millenni,

e stende il cielo

una coperta d’astri.

 

Venghino siori, venghino…

totò

di Stefano Manca

In molti festeggiano perché un colosso mondiale dei supermercati, l’azienda tedesca Lidl, aprirà con ogni probabilità uno dei suoi discount anche a Lecce. Avanti tutta coi curricula, muovetevi meridionali pigroni, qui servono addetti alle vendite e commessi specializzati.
Si annuncia in pompa magna l’ennesima infornata di posti di lavoro. Il mercato. Lo sviluppo del territorio. Tutto quello che volete. Ma io, per sicurezza, mi faccio un nodo al fazzoletto. Chissà che fine farà tra qualche anno lo spropositato entusiasmo di oggi, quando vi accorgerete in che condizioni di precariato lavorano in realtà moltissimi addetti alle vendite e commessi. Ascoltateli, quei ragazzi, e poi scrivete ancora di sviluppo del territorio, se avete coraggio.

3×2

prima

di Pier Paolo Tarsi

 

Un fenomeno ormai diffuso e assestato è la mania delle persone di far affiggere manifesti 3×2 per ogni evento: un compleanno, la maturità, l’esame di patente, un matrimonio, l’anniversario di morte di un caro estinto, spesso fotografato in presunte pose fighe (ci manca solo la scritta Leccenight talvolta). E tra la lista dei sacramenti non ci manca nemmeno la prima comunione, come mi ha fatto scoprire ieri Patricia. Questa è pornografia autentica, altro che seni generosi e sode chiappe per le pubblicità

Un “bestiario” medievale sulle antiche travi della Cattedrale di Nardò (2)

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Le iscrizioni

 

Fra le decorazioni policrome delle incavallature si sono trovate, nel restauro di fine Ottocento, alcune iscrizioni a grandi lettere gotiche, dipinte sulle facce laterali delle travi formanti le capriate. Esse rappresentano un notevole reperto epigrafico che aiuta sulla datazione, mentre non si è trovata alcuna indicazione per poter risalire agli autori. Sulla prima trave, a caratteri neri, si leggeva:

 

….TERTA SOLO TE(m)PLUM FUIT HOC RE(stitutum).

 

Sulla seconda, pure a caratteri neri, rimaneva la parte inferiore di poche lettere:

 

(p)ASTORIS BARTHULOM(ei)….SE(dentis?).

 

Sulla terza, a caratteri rossi, si leggeva:

):DOMINC….SEPTIV(?): REGALE:TENE(n)TI:PRINCIPAT(tu)

ROBERTO:NOSTRO:DOMINANTE:TARENTI:A(nno)M… [1]

 

I dati cronologici dell’iscrizione rimandano quindi ad un’epoca compresa tra il 1332, anno in cui Roberto d’Angiò successe al padre Filippo I d’Angiò nel principato di Taranto[2], del quale faceva parte anche Nardò, e il 1351, anno della morte dell’abate benedettino Bartolomeo (1324-11 aprile 1351), menzionato nell’iscrizione come vivente e che ha consentito l’esecuzione dell’opera[3]. Se si tiene conto degli eventi accaduti nel regno ed in città si potrebbe limitare il periodo fra 1350 e 1351.

Purtroppo non possediamo una letteratura adeguata che aiuti ad identificare meglio l’abate ed illustrarne la personalità, nè ci è dato di conoscere se possa essere stato egli stesso culturalmente in grado di sviluppare il programma iconologico di cui tratteremo o perlomeno sia stato capace di influenzarne la scelta. Di lui Giovan Bernardino Tafuri scrive che dal 1326 fu confessore del principe di Taranto Filippo e l’anno dopo partecipò al parlamento napoletano contro Ludovico il Bavaro. Da Filippo ottenne nel 1330 di far abitare il casale di San Nicola d’Arneo e nel 1349, dalla regina Giovanna, quello di Lucugnano, pure nell’Arneo. Di sicuro Bartolomeo fu  predecessore dell’abate Azzolino De Nestore, il cui nome, accanto alla data 1353, esistette sulla facciata della Cattedrale sino al 1652, con l’iscrizione: Abbas Azzolinus De Nestore A. D. Mcccliii. Certo è che se intervenne in modo così importante nell’abbazia di cui era reggente, preoccupandosi perfino di animare con vivaci dipinti le lunghe e piatte travi del soffitto, fu spinto o dall’intensificarsi dei pellegrinaggi o per la grande disponibilità dei benefattori, come testimoniano le memorie araldiche di cui si dirà più avanti, di sicuro per una cospicua presenza di monaci o anche solo di fedeli. Di certo conformemente alla Regola benedettina, che incoraggiava l’arte, strumento di vita monastica, in chiese e conventi.

 nardo_cattedrale_2009

 

Primo Panciroli e Pier Olinto Armanini

 

L’arte decorativa medievale dei soffitti dipinti è un aspetto poco noto e non esiste ampia bibliografia sull’argomento. Ancor più scarsa la documentazione se ci si limita alla Puglia, per la quale resta fondamentale lo studio di Clara Gelao[4], che per prima ha documentato l’esistenza di parte delle antiche travature della nostra Cattedrale, da tutti gli altri Autori date per distrutte.

La lettura delle figurazioni delle travi offre interessanti considerazioni e nuove prospettive di studio che ci sforzeremo di indicare in questo lavoro.

Le decorazioni furono in parte riprodotte da Primo Panciroli, nato a Roma il 2 giugno 1875 e morto ad Acireale il 13 settembre 1946[5]. Il giovane riproduttore giunse in Nardò nel 1896, in occasione dei restauri della Cattedrale. Egli si limitò a raccogliere sistematicamente quanto era rimasto sulle travi superstiti, senza entrare nel merito dei temi, della cronologia e dei maestri esecutori, salvandolo così dall’oblio. Le tavole furono rilegate nel 1904 dallo stesso Panciroli in un album, oggi conservato nella Biblioteca dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte di Roma[6]. Il volumetto, con 11 tavole acquerellate di cm. 40 x 50, è  titolato: Raccolta dei motivi decorativi appartenenti alla distrutta travatura della Cattedrale di Nardò[7], ed era stato realizzato «per poter riprodurre quanto sarà possibile questa mirabile ornamentazione che ha delle caratteristiche veramente geniali»[8].

La facciata della cattedrale di Nardò, disegnata da Ferdinando Sanfelice
La facciata della cattedrale di Nardò, disegnata da Ferdinando Sanfelice

Alcuni disegni furono pure eseguiti dall’architetto Pier Olinto Armanini, prematuramente scomparso all’età di ventisei anni il 10 maggio 1896, allievo dell’Accademia di Belle Arti di Milano, nonché discepolo di Camillo Boito ed amico del vescovo di Nardò Giuseppe Ricciardi. In occasione dei suoi studi romani sul Pantheon conobbe l’ispettore dell’Ufficio Centrale delle Belle Arti Giacomo Boni (1859-1925) e grazie a quest’altra conoscenza, ma anche per le sue indubbie capacità artistiche, ottenne il Pensionato Artistico Nazionale che durò dal 1892 al 1896. Il giovane architetto, anch’egli giunto nel gran fervore di intenti che animava la città di Nardò per il restauro della sua chiesa maggiore, quale saggio dei suoi studi realizzò nel 1894 una trentina di fregi ripresi  dalle nostre travi. I disegni furono pubblicati postumi nel volume La Cattedrale di Nardò-La cascina Pozzobello, che riguardo l’architetto riporta: «Innamorato delle svariate pitture decorative delle capriate, che, al dire del Maccari, forse in nessun altro monumento si presentano così copiose, svariate, ed in alcune travi-catene capricciose, l’Armanini si proponeva di tornare in Nardò per continuare nei rilievi; ma sventuratamente Nardò che tanto aveva amato ed ammirato l’aveva, e che di lui serberà imperitura memoria, più non lo rivide! Una infermità, che colpisce talora gl’ingegni più eletti non contenuti ne’ loro slanci da forza superiore, sventuratamente lo tolse agli studi. Quale vantaggio avrebbe arrecato all’arte il suo criterio esatto nell’esame dei monumenti!» [9].

Il tentativo fatto anche da questi lascia presupporre che già da allora più di qualcuno avesse intuito di trovarsi di fronte  ad un eccezionale documento di arte, di cultura e di fede, degno di essere trasmesso ai posteri.

Il Boni è stata senz’altro una figura importante per ciò che accadeva in Nardò in quegli anni. Tra gli architetti propugnatori dello stile neogotico che facevano capo a William Morris, era socio della “Society for the Protection of Ancient Building”. Per dieci anni svolse la sua attività nel Sud d’Italia e particolarmente in Puglia, dove tenace fu la sua opposizione a quanti pensavano di demolire la cattedrale di Nardò per scarso valore artistico: «se accadesse dovrei lacerare il diploma conferitomi per acclamazione dall’Istituto di Architettura di Londra, dovrei vendere al salumaio gli altri diplomi degli istituti congeneri degli Stati Uniti e dell’Accademia delle Scienze di New York». Infatti egli aveva individuato la chiesa normanna dell’XI secolo e tanta fu la sua soddisfazione d’essere riuscito a salvarla che ne curò personalmente il programma di recupero, preoccupandosi di studiare tutte le iscrizioni scolpite, dipinte e graffite, comprese le figure delle nostre travi.

Moltissimi elementi decorativi realizzati dal Panciroli servirono allo stesso Cesare Maccari (1840-1919) nell’affrescare il coro e alcune delle cappelle laterali dell’edificio, conformemente con quanto in quel periodo si studiava e dibatteva riguardo al Medioevo ed al passato più in generale[10].

 

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[1] C. Boito-G. Ricciardi-G. Moretti, La Cattedrale di Nardò-La cascina Pozzobello in Milano. Rilievi e studi eseguiti dall’ Architetto Pier Olinto Armanini durante gli anni del suo pensionato artistico in Roma, tipografia Umberto Allegretti, Milano 1898, 11. Le iscrizioni, rilevate dall’ architetto Giacomo Boni sulle travi della cattedrale, furono riportate nel Bollettino Ufficiale dell’Istruzione Pubblica, anno 1895, 2068.

[2] Roberto era anche signore di Puglia, avutala dalla regina Giovanna I, sua cognata per aver sposato il fratello Ludovico. Roberto nei documenti si firmava anche Romaniae Despotus, et Achajae, lasciategli da suo zio Giovanni di Sicilia, duca di Durazzo, Tarenti Princeps, Justiciarius, et Vicarius Principatus Tarenti…, oltre che Imperator Costantinopolitanus, dopo la morte della madre Caterina di Valois (Napoli, 1342), imperatrice di Costantinopoli, figlia di Carlo di Francia, conte di Valois, e Caterina di Courtenay, sua seconda moglie. Fratelli di Roberto, oltre il menzionato ed improle Ludovico, sposo di Giovanna I, furono Filippo II, che gli successe; Margherita, in prime nozze sposa di Edoardo re d’ Ecosse, ed in seconde di Francesco del Balzo, duca di Andria e conte di Avellino; Maria, nubile, e Giovanna, in prime nozze sposa di Leone I d’Armenia, della casa di Lezignen; in seconde di Leone II, zio e successore del regno di Armenia, col quale generò Leone III. Cf in merito anche S. Arcuti, I principi angioini di Taranto e la chiesa in Puglia, in Note di civiltà medievale. Numero speciale per l’ inaugurazione del nuovo edificio universitario “Oronzo Parlangeli”, Bari 1979, I, 209). Roberto, morto il 10 settembre 1364 e sepolto nella chiesa di san Giorgio il Grande in Napoli, sposò Maria di Bourbon, vedova di Guy de Lezignen.

[3] C. Gelao, Chiesa Cattedrale (già chiesa abbaziale di S. Maria Assunta), in Insediamenti benedettini in Puglia, Congedo, Galatina 1980, 3 voll., 436.

[4] In particolare ci si riferisce al suo saggio Tecta depicta di chiese medievali pugliesi, “I quaderni dell’Amministrazione Prov. di Bari”, Bari s.d. (ma 1981), corredato di numerose illustrazioni e con ampia bibliografia.

[5] Nato da genitori emiliani studiò all’istituto San Michele sotto la guida di Alessandro Ceccarini, diplomandosi nel 1894. Collaborò col Maccari anche a Loreto e al palazzo di Giustizia a Roma e da lui fu avviato alla grande decorazione murale, inserendosi di diritto nella scuola romana dei decoratori. Tra le opere principali gli affreschi al Comando Militare di Trento, sala Dante (1901-05), nell’Albergo “Acqua della Salute” di Livorno (1901-05), nella cattedrale di Acireale (1907-11), nella chiesa del Rosario e cattedrale di Bagnara Calabra (1921-22, 1937-40), nella chiesa dei cristiani copti al Cairo (1924-32), nella chiesa di S. Giovanni Battista a Ragusa (1926). Decorò anche i soffitti del Ministero dell’Agricoltura a Roma (1913) e del palazzo comunale di Acireale (1942). Approfittiamo per ringraziare il personale della Biblioteca Zelantea di Acireale per le notizie fornite sull’artista.

[6] Ancora un doveroso grazie alla Direzione della stessa.

[7] Quasi in tutte sono riportate la firma e l’anno di esecuzione, tra il 1896 ed il 1904. Esse sono state pubblicate monocromaticamente nel citato saggio di B. Vetere, S. Maria di Nardò: un’abbazia benedettina di Terra d’Otranto. Profilo storico-critico, in Insediamenti benedettini in Puglia, 228-240, e in Gelao, Tecta depicta, tavv. 19-26. Sempre qui sono riportate alcune foto di particolari sopravvissuti nelle travature (tavv. 8-18). Parzialmente i disegni del Panciroli sono apparsi nel volume curato da B. Vetere, Città e Monastero. I segni urbani di Nardò’ (secc. XI-XV), Congedo, Galatina 1986, figg. 29-35. Parte di una sola tavola è stata pubblicata nell’introduzione di M. Cazzato al volume di M. Marcucci, I mostri di Pietra guardiani della soglia. Civiltà della pietra leccese tra Medioevo, Barocco e Liberty, a cura di A. Costantini, Congedo, Galatina 1997, 6. Cazzato nel citato saggio accenna al divenire dell’imagerie medievale salentina, che raggiunge «livelli di saturazione visiva incredibili» nei secoli barocchi.

[8] Tafuri, Ripristino e restauro, 68. Un lavoro similare, ma limitato a poche tavole, fu realizzato per la Cattedrale di Bari da Pasquale Fantasia qualche anno prima. Cf C. Gelao, Tecta depicta, 11-12, tavv. 1-4; P. Fantasia, Il Duomo di Bari, in Annuario del R. Istituto Tecnico e Nautico di Bari, a. 1890, Bari 1892, tavv. XIX-XXII.

[9] «…l’Armanini, che aveva la prerogativa di non soffrire per la vista del vuoto, si inerpicò sulle travi catene e da vicino fece diversi rilievi di quelle pitture. Ma poi i rilievi furono completati e fatti con cura da uno dei discepoli del Maccari, Pietro Loli Piccolomini e raccolti in un album» A. Tafuri, Ripristino e restauro,  67-68). I disegni, come già spiegato, furono però eseguiti dal Panciroli e non dal Loli Piccolomini).

[10] In particolare furono soprattutto gli architetti francesi ed inglesi, poi anche italiani, che in quest’epoca si occupavano di studiare le arti applicate in ogni parte d’Europa, rivalutandole dal punto di vista estetico e storico-sociale. Negli anni in cui il Panciroli e l’Armanini lavorano a Nardò Camillo Boito, che era stato loro professore, pubblicava nel 1899, sulla sua rivista “Arte italiana decorativa e industriale”, una serie di pitture del soffitto dello Steri di Palermo realizzate da Giuseppe Alfano.

Un “bestiario” medievale sulle antiche travi della Cattedrale di Nardò (1).

 

La facciata della cattedrale di Nardò, disegnata da Ferdinando Sanfelice
La facciata della cattedrale di Nardò, disegnata da Ferdinando Sanfelice

di Marcello Gaballo

 

 

1. La Cattedrale e la sua copertura lignea.

Il monastero benedettino di Nardò fino ai primi decenni del XV secolo era immediate subiectum alla Santa Sede ed aveva una rigorosa organizzazione gerarchica al cui vertice c’era l’ abate, cui faceva capo tutto il territorio dell’attuale diocesi con le quattordici inferiores abbazie[1].

La cronologia della chiesa è incerta. Sicuramente essa esisteva nel 1092 (è di tale anno, infatti, la prima menzione diretta di un monasterium Sanctae Mariae de Neritono in un diploma col quale Goffredo, conte di Nardò e di Conversano, fa alcune concessioni all’ abate Everardo)[2].

Ai Basiliani erano subentrati due anni prima, per volere dello stesso conte Goffredo, i monaci Benedettini, pionieri del rito latino e del potere della Chiesa di Roma, che eseguirono importanti rifacimenti della struttura originaria dell’ edificio, ricostruendo la navata sinistra, il presbiterio ed il campanile, gravemente danneggiati dal terremoto del 1245[3]. Quest’ ultimo mostra infatti nelle decorazioni del primo ordine aspetti molto simili ad altre chiese angioine coeve[4].

I monaci, nello stesso secolo, istituirono nel monastero cattedre di letteratura greca e latina, di eloquenza e di matematica, e conservarono nella chiesa ad essi affidata la liturgia greca affianco alla latina.

L’ edificio, internamente scandito da pilastri con una serie di cinque arcate[5], fu ricostruito dopo il terremoto del 1350, come si fa cenno nella cronaca spuria di Stefano, abate benedettino[6], e fra gli ingenti danni riportati si registra anche il crollo del frontespizio.

L’ abate Bartolomeo, nominato da Filippo suo confessore, cappellano e consigliere[7], avrebbe fatto riparare la chiesa e il tetto danneggiati, con il concorso dei baroni della città. In tale occasione fu ingrandita con un prolungamento di circa 19 metri[8], che permise l’ aggiunta sul lato orientale del profondo coro terminante con l’ abside circolare e lo sfondamento delle nicchie absidali al termine delle due navate laterali.

Vennero eseguiti altri importanti lavori come il rifacimento della facciata principale (nel 1354, per volontà dell’ abate Azzolino De Nestore), l’ apertura di un portale sul fianco meridionale (la porta che oggi dà su piazza Salandra) caricato di un architrave col bellissimo rilievo della “Dormitio Virginis”, tuttora conservato a Nardò nella chiesetta delle Anime del Purgatorio[9].

Dall’ antipapa Clemente VII fu elevata a Cattedrale nel 1387, essendo vescovo Matteo del Castello, ma quando, nel 1401, terminò lo scisma, tornò ad essere semplice abbazia.

Le coperture del vasto edificio furono in origine costituite da travature lignee a vista, a due spioventi la navata centrale[10], ad uno le laterali. Le incavallature lignee della prima, “tra le più svariate ed originali forse in tutta Italia”[11], furono poi dipinte nel tempo di Roberto d’ Angiò, principe di Taranto, con vivacità coloristica forse ideata in funzione della ricchezza cromatica delle pareti interne, dove probabilmente era già stato realizzarto il ciclo di affreschi.

Sembra però che, nonostante la sostituzione dei pioventi, la tettoia in più punti cominciasse a subire dei guasti molto seri, per cui mons. Lelio Landi, vescovo di Nardò dal 1596 al 1610, la ricostruì per una metà nel 1606 e su una delle travi fece dipingere il suo stemma. Lo si deduce da un atto notarile conservato nell’ Archivio di Stato di Lecce, rogato dal notaio neritino Pietro Torricchio nell’ anno 1608. A c.43 recto del documento si legge infatti una dichiarazione del tesoriere della Cattedrale, l’ abate Giulio Cesare Rapanà, il quale sostiene ciuramento facto pectore more religiosorum che, tra gli altri lavori fatti eseguire per ordine del vescovo nel palazzo vescovile e nella Cattedrale, figurano anche quelli …per accomodare lo tetto della chiesa alla banda dello specchio che minacciava rovina per tavole, travi, maestranza…, eseguiti nel mese di marzo 1605, con spesa di ducati 47, …come appareno nel libro del mio esito distintamente.

Le spese furono però sicuramente maggiori, perchè negli atti dello stesso notaio, sempre del 1608, a c.7 recto, il “faber lignarum” Onofrio Fanuli da Galatone dichiarava con giuramento …di havere accomodato lo tetto della Cattedral chiesa della città di Nardò, quale minacciava rovina, in questo anno, e per la spesa necessaria per tavole, agionsioni di catene, crapiuli, ferrami, maestranza, calce e fabrica et altre cose necessarie per accomodare detto tetto, ci è stata di spesa ducati duicento novantasei, quali sono stati spesi e pagati per mano di Abb. Georgio Francesio V.I.D. can.co et procuratore di monsign. R.mo Lelio Landi, e passati tutti per mano mia…

Circa un mese dopo lo stesso mastro ribadiva sempre davanti al medesimo notaio (c.26 recto) di aver provveduto a riparare parte del tetto della Cattedrale …quale minacciava rovina questi mesi passati…, ricevendo la somma dovutagli. Aggiungeva inoltre che  …l’ altra parte del tetto di detta chiesa restò di accomodarsi, pure minaccia rovina e stà per cascare giorno in giorno, per haverlo conosciuto novamente e trovato le due catene di travi che stanno dov’ è l’ organo, sono relassate et marcitte e minacciano di cascare giorno per giorno che guastariano in tutto l’ organo di detta chiesa che, costa più di mille ducati, oltre l’ altro danno eccessivo che farebbe cascando e per resarcirlo et accomodarlo nel modo che stà accomodato l’ altro ci correrebbe di spesa ducati trecento in tutto fra ligname, fierri, tavole, mastria et altre cose necessarie, ma per fare nova detta parte di tetto che restò di farsi, ci vorrebbe di spesa mille ducati alla secura… Somma che comunque fu trovata. Infatti il vescovo Landi fece ricoprire le incavallature con un soffitto a lacunari, che in parte completò mons. Girolamo De Franchis (1617-1634).

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Di altri lavori delle coperture nei secoli successivi non è stata finora reperita documentazione.

Negli anni 40 del secolo scorso, nel togliere il predetto soffitto a cassettoni si ritrovarono le capriate del tetto decorate, “meno le prime 6 o 7 verso l’ altare maggiore che erano state rimosse recentemente dopo che il tetto fu sfondato per la caduta del campanile. Tra le due capriate sul piovente Nord e nella parte un po’ verso la porta maggiore sul  tavolato eravi lo stemma del vescovo Lelio Landi con sotto scritto Lelius Landus Suessano…”[12].

Oggi, tanto la navata centrale della Cattedrale quanto le minori, sono ricoperte da capriate lignee, in sostituzione delle originali, delle quali sopravvivono solo quelle poste sulla volta del coro, che mostrano tracce notevoli dell’ antica decorazione[13].

 

(fine prima parte)


[1]Esse erano: S. Anastasia, S. Angelo della Salute, S. Elia, S. Eleuterio, S. Maria de Alto di Nardò e di Felline, S. Maria de Civo, S. Maria della Tagliata, S. Maria di Cesarea, S. Nicola de Scugno, S. Nicola di Collemeto, S. Nicola di Pergoleto, S. Nicola Macugno, S. Stefano di Curano. Sulle vicende storiche cf. B. Vetere, S. Maria di Nardò: un’ abbazia benedettina di Terra d’ Otranto. Profilo storico-critico, in Insediamenti benedettini in Puglia, Congedo Ed. – Galatina1980, I, pp. 199-254.

[2]C. Gelao, Chiesa Cattedrale (già chiesa abbaziale di S. Maria Assunta), in Insediamenti benedettini, cit., II/2, pp. 434-440.

[3]Boito-Ricciardi-Moretti, La Cattedrale di Nardò-La cascina Pozzobello in Milano, in memoria di Pier Olinto Armanini; rilievi e studi eseguiti dall’ Architetto Pier Olinto Armanini durante gli anni del suo pensionato artistico in Roma, Milano 1898, p.25.

[4]Vedi per es. S. Maria del Casale presso Brindisi, S. Maria della Lizza ad Alezio, S. Maria della Giustizia a Taranto, S. Benedetto a Brindisi. Specie per quest’ ultima cf.  M. De Marco, Il Salento tra Medioevo e Rinascimento, Capone Ed. – Lecce 1997, p.31.

[5] Che sono a tutto sesto sul lato meridionale, a sesto acuto su quello settentrionale.

[6]Gelao, Chiesa Cattedrale…, cit., pp.436-7.

[7]E. Mazzarella,  La Sede Vescovile di Nardò, Congedo Ed. – Galatina 1971, p.46.

[8] Oggi l’ edificio misura metri 54,40 di lunghezza e 20,35 di larghezza.

[9] Cf. Id., Nardò Sacra, a c. di M. Gaballo, Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò e Gallipoli, Nuova Serie, Congedo Ed. – Galatina 1999, p.73.

[10] Si tratta di capriate con catena e controcatena, indispensabili per sostenere l’ armatura di copertura del tetto a falde inclinate, cui fu aggiunto successivamente un tirante orizzontale in ferro.

[11]Boito-Ricciardi-Moretti, La Cattedrale di Nardò-La cascina Pozzobello…, cit., p.18.

[12]A. Tafuri, Ripristino e restauro della Cattedrale di Nardò, Roma 1944, pp. 67-68.

[13]Cui si accede scomodamente dal terrazzo della Cattedrale. Una delle travi della navata centrale è custodita dall’ Ufficio Beni Culturali della Diocesi, in attesa di restauro ed adeguata sistemazione. Non è dato di sapere il destino delle restanti travature rinvenute nel predetto restauro.

Marsala: 1860 lo sbarco dei Mille, 2013 la partenza di Ignazio

ferrovia

di Rocco Boccadamo

 

Ottobre, domenica pomeriggio a bordo di una “Frecciabianca” in servizio da Milano a Venezia e Trieste.

Seduto di fronte a chi scrive, un giovane dall’incarnato bruno, capelli nerissimi, occhi come autentici tizzoni, un filo di barba scientemente, ma non per mera incuria, sottratto al rasoio. Il volto emana una ventata di naturale simpatia che contagia ancor più spiccatamente alla luce della conversazione che, a un certo punto, imbastisce via cellulare con un amico, in corretto italiano, ma condita da inconfondibile e colorito accento siculo.

Due ragazze venete che occupano i posti a fianco chiedono al viaggiatore ormai al centro della scena quanti anni abbia (ventuno, ventitré?) e di quale località sia originario. Il nostro sembra quasi imbarazzato nel pronunciare il numero diciannove. Dopodiché, aggiunge di chiamarsi Ignazio, di essere nativo di Marsala, di aver appena conseguito il diploma di ragioniere, di aver iniziato – da due settimane – a lavorare da bidello nella scuola elementare di un piccolo paese in provincia di Padova, con l’incombenza di badare a quattro aule e a due servizi, comprese le pulizie al termine delle lezioni; contratto a tempo determinato fino a giugno 2014, stipendio netto mensile 900 euro circa, con cui fronteggiare, in primis, il costo di un appartamentino preso in affitto a 550 euro il mese.

Nessuna goduria, dunque, e però, conferma il buon Ignazio, nemmeno la minima esitazione, pur di “acchiappare” un lavoro, nel lasciare Marsala con familiari, amici, habitat, mare (vale a dire tutto) per la terra veneta.

Ascoltando tale racconto, le due viaggiatrici – diciamo così – indigene, restano letteralmente a bocca aperta. A me, ragazzo di ieri che per lavoro ha dovuto “emigrare” e sottoporsi a vari trasferimenti, viene invece spontaneo di regalare al giovane dirimpettaio un accentuato “Bravo!”; non solo, ma anche di esprimergli i complimenti per il suo coraggio e di manifestargli la convinzione, ben più di un formale auspicio, che riuscirà senz’altro bene nel lavoro, non solamente in quello attuale a scuola, ma anche nelle occasioni che sicuramente gli si presenteranno con l’andar del tempo, addirittura con possibilità di scegliere secondo gradimento e convenienza.

Come terminare: con la speranza che le presenti note non suonino alla stregua di occasionale richiamo retorico, bensì a guisa di testimonianza di un indicativo e positivo comportamento da parte di un ragazzo d’oggi, che ogni giovane del nostro Paese dovrebbe tener presente.

Confini inviolabili del luogo della poesia

ph Mauro Minutello
ph Mauro Minutello

di Elio Ria

 

 

Di questo strappo costante di poesia ogni giorno enumero disposizione di pensiero, diverso, sottile, conseguenziale alle idee, frattura di consuetudine, oscillazione di profumi di viole, conteggio di passi sui viali lastricati di piazze con chiese di facciata onesta, perseguo adempimenti di somiglianze di semplicità, dispongo cose nel disordine della prosa, ripeto a me stesso le insolite vicende, riguardo lo specchio infranto dalle illusioni, riscatto un senso perduto, elaboro un giorno, disegno la sera, immagino la luna di falce, inseguo un tramonto autunnale vaporoso di scirocco, azzardo un abbraccio.

Il passo di questa mia vita in prossimità del lontano non è di misura. Il luogo che è qui mi dà presenza e memoria, paesaggio e orizzonte; insieme si scompongono in un altro luogo dell’inventio. La poesia, la mia, è qui in questo luogo che ho voluto fra i luoghi della terra. Nell’aver luogo mi affanno all’atto poetico, per venire alla manifestazione non di tutto ma di qualcosa che mi è dato d’intendere, di svelare, poi, non in un’immutabile verità, piuttosto in una sostenibile sensazione di appartenenza nel luogo della poesia.

Questo luogo che mi ospita è di cielo di crema, di vento imperfetto, di campagna silente, di ulivi pretesi dall’uomo, di papaveri rossi, di granai di risvegli. Ho sfinimento di odori, di luce, d’insipienza, di sonno per l’ammanto che ne ho. Mi strugge la seduzione dei colori nelle erranze dei simboli di naufragio della scrittura. Gli stralci di pallore delle pietre bianche brizzolate mi ridanno memoria dell’inosservato paesaggio, sfuggito per un pensiero monco, portato a un a capo febbrile e collerico. Gli alberi di pino mi confidano, quando possono, le lacrime delle viole che sulle pietre afferrano le radici della vita, in basso poste al di là della superbia, in un canto di autunno, rimesso a nuovo dalle storie del tempo. Il cuore non sempre si trova, né paga i debiti delle emozioni. Un filo d’erba tra le altre erbe è più verde, si spande sulla terra umida e corrosa dal sole, taglia gli sterpi, rimonda la natura, mi ridà il cuore.

Devo congedarmi da questa astrattezza di luogo. Il giorno mi restituisce la propria immagine. A capofitto, in questi mattini trattenuti ancora dal sole d’estate,  ho osato addentrarmi nei confini inviolabili della poesia di un luogo.

 

Donne di Puglia

campana

 di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

 

Fiori d’alba

vanno nel primo sole

stornellando all’amore.

 

Nelle fonde pupille

recano fuochi

di fierezza antica;

nei bruni volti

mostrano solchi

che la vita incide.

 

Colme di lavoro hanno le mani

e sanno la tristezza dell’attesa,

l’ansia tormentosa

del domani.

 

Semi di speranza

spargono al vento,

tra le zolle,

mentre la loro mesta cantilena

si perde

fra l’argento degli ulivi.

 

Anche il ritorno le vede a schiene curve:

come alla ricerca di un tesoro,

sui cigli delle strade raccolgono cicorie,

provvidenza di Dio

religiosamente deposta nei grembiuli

che via via si gonfiano

a mo’ di ventre gravido.

 

Per riposarsi

siedono a rammendare

sugli usci delle case

l’un l’altra raccontandosi umili gioie.

 

Il dolore lo coprono pudiche

con scialli neri.

 

Copertino, 1959

Dall’antologia curata da Giovanni Villella “POETI DELLE PLEJADI”

Sul piano paesaggistico solo forti pregiudizi

portoselvaggio (ph Marcello Gaballo)

 

di Bruno Vaglio

Pptr: un Piano per la rinascita della Puglia, il resto sono solo preoccupazioni di chi vuole ancora costruire.

Ho letto con attenzione l’articolo sul PPTR Puglia apparso giorni fa su portadimare.it, e in principio mi è sembrato di avere a che fare con un’argomentazione di un ambientalista preoccupato che tiene al proprio territorio. Invece, le evocate “nubi grigie” e “prospettive rosee”, erano espressioni di preoccupazione, certo, ma focalizzate sulle limitazioni imposte dal Piano alle possibilità di continuare a costruire con le vecchie regole a maglie più variabili che larghe.

Credo che alla base delle molte critiche espresse contro il Piano ci siano forti pregiudizi, più che un’obiettiva e pacata analisi dei fatti concreti.

Un fatto concreto è per esempio che, mappe e dati alla mano, è stato edificato molto più del necessario rispetto ad una demografia stabile (o addirittura in decrescita), trasformando per sempre la vocazione plurima di interi territori, limitandone di fatto altre possibilità d’uso (reversibili) da parte delle future generazioni. Una di queste è certamente l’essenziale funzione del produrre cibo con l’agricoltura.

Un altro fatto concreto è che, sulla scorta di aspettative pregiudiziali, l’economia del cemento ha distolto e immobilizzato ingenti risorse da un’economia più diversificata compromettendo uno sviluppo equilibrato del territorio. Come risultato siamo nel pieno di una bolla immobiliare senza precedenti e siamo ormai da anni precipitati, soprattutto a causa dell’amore per il mattone, nel poco gratificante circolo dei cosiddetti paesi Pigs.

Un altro fatto ancora coincide con la impermeabilizzazione del suolo e con l’impatto ecologico dell’edilizia, e dell’infrastrutturazione connessa (viabilità, parcheggi, reti tecnologiche, ecc.).

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I tanto vituperati prati e pascoli naturali, per esempio non sono solo delle distese di anonimi fili d’erba ma il più delle volte dei preziosi habitat massimamente meritevoli di tutela data la loro ricchezza in termini di biodiversità. Con questo Piano, d’ora in poi la natura potrà esprimersi anche fuori dall’angusto perimetro del parco regionale di Portoselvaggio, dando così luogo alla sospirata rete ecologica regionale elevando finalmente la qualità complessiva del territorio con ricadute in termini ambiental, sociosanitari e di attrattività turistica.

Ma mentre scrivo mi assale un dubbio: come posso pretendere che si ragioni della necessità di tutela dell’umile erba di prati e pascoli, in un comune come quello di Nardò dove è avvenuto che si costruisse anche in zone classificate come bosco?

Ritengo oltremodo semplicistico il riferimento alle gravi ripercussioni sulla attività edilizia e sull’economia e l’occupazione senza preoccuparsi minimamente di comprendere l’articolata visione strategica del piano e le opportunità territoriali offerte dallo stesso per intraprendere la strada di uno sviluppo autosostenibile e durevole, dove l’agricoltura e la neoruralità, la filiera del cibo, l’integrazione tra urbano e rurale, le relazioni energetiche, oltre ai beni culturali materiali e immateriali, e le nuove forme di economia che ne derivano, trovano nel Piano quelle forme necessarie a dare nuova dignità politica a un settore, quello agricolo, in eterna crisi.

Ritengo inoltre, che il Piano assuma come strategico il ruolo storico e centrale dell’agricoltura nel progetto futuro del territorio regionale, nella consapevolezza che oggi la questione ambientale è innanzitutto una questione territoriale che trova nell’attività primaria l’opportunità per la produzione non solo di cibo ma di qualità locale e ambientale.

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Il PPTR, infatti, trova nel patto città-campagna forme nuove di organizzazione del territorio e nel parco agricolo multifunzionale uno strumento operativo per una sana valorizzazione del territorio. La figura del parco agricolo, oltre a trasformare radicalmente il concetto di standard urbanistico relativo al verde urbano, crea quelle necessarie opportunità territoriali che trovano nei programmi di sviluppo rurale e nelle nuove politiche europee, gli strumenti per una pianificazione integrata degli spazi aperti che riconoscono e attribuiscono all’agricoltura, oltre alle produzioni di qualità, anche nuove funzioni ambientali e paesaggistiche.

Sotto il nuovo PPTR finalmente Nardò dovrà dotarsi di un PUG davvero “moderno strumento di pianificazione” urbanistico e ancor più paesaggistico a prevalente vocazione agricola e turistica. Il vecchio modo di costruire dovrà porsi obiettivi di recuperare l’esistente e l’invenduto. Insomma si prospetta un innesco di ricadute virtuose a catena e di ciò non dovremmo che essere tutti contenti.

Credo che sia quantomeno un equivoco davvero malevolo ridurre la nuova complessa, lungimirante strategica visione del PPTR ai soliti angusti ragionamenti sulla mera regolazione di diritti edificatori.

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Quanti anni sono trascorsi dalla promulgazione della Costituzione che tutela il paesaggio e da quando il Presidente Einaudi affermava: <La lotta contro la distruzione del suolo italiano sarà dura e lunga, forse secolare. Ma è il massimo compito di oggi se si vuol salvare il suolo in cui vivono gli italiani>.
Ce n’è voluto di tempo e forse finalmente ci siamo!

Con questo Piano, che è molto più democratico di quanto ad un’analisi superficiale e parziale non sembri, la Regione guarda non soltanto all’intera odierna collettività ma anche avanti al bene delle future generazioni.

Un’accorata raccomandazione finale: leggiamolo questo Piano prima di liquidarlo come lesivo di diritti urbanistici. L’andazzo di questi anni ci ha abituati a fruire dei “benefici” di un’ampia discrezionalità amministrativa che ha alimentato un facile consenso i cui effetti si scaricheranno su coloro che verranno. Con l’applicazione del Piano, il territorio pugliese ha aperto una strada fino ad oggi inesplorata, basata sulla valorizzazione della preziosa varietà paesaggistica pugliese. Il vero asset economico strategico della Puglia. Con questo strumento la Politica recupera decenni di deriva morale non solo territoriale. Con la bellezza dei luoghi si potrebbe anche recuperare la bellezza di nuova qualità della vita per i pugliesi. Lo stesso turismo tenderebbe spontaneamente a riqualificarsi verso standard meno “riminieschi” di quelli di oggi.

Facciamo nostra la fertilità complessa delle ragioni profonde del Piano, che poi sono le ragioni del nostro stesso vero bene!

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Tempi moderni

chaplin tempi moderni

di Stefano Manca

 

Rischiare la vita per un rave party, dopo essersi imbottiti di droga. E’ accaduto ad una 22enne di Santa Cesarea Terme nella notte tra venerdì e sabato. Il rave – così si chiamano queste feste illegali a base di alcol, droga e musica elettronica – si è svolto nelle campagne tra Lecce e Torre Chianca. La ragazza pare sia fuori pericolo. A 22 anni le mie droghe erano i biglietti ferroviari di terza classe che mi portavano lontano da qui.

Lampedusa, non soltanto isola di sogno, ma anche triste teatro di tragedie e catastrofi umane

Lampedusa, da ilturistico.it
Lampedusa, da ilturistico.it

di Rocco Boccadamo

 

Con riferimento alle incessanti e spesso drammatiche operazioni di sbarco di disperati sull’isola di Lampedusa – si pensi, purtroppo, all’immane disastro di questi giorni e, al peggio non c’è mai fine, di queste stesse ultime ore – mi viene alla mente la sibillina denuncia «morale» formulata, alcuni anni addietro, dal vescovo di Agrigento, nella cui giurisdizione rientra l’arcipelago delle Pelagie: «Lampedusa lasciata da sola è diventata un cimitero».

Detta frase sintetizza fedelmente, riuscendo a fotografarlo meglio che le colonne dei giornali e i reiterati dibattiti radio-televisivi, il grosso problema degli approdi, sulle coste meridionali italiane in genere, di decine di migliaia  di extracomunitari – nella stragrande maggioranza gente oppressa, sbandata e affamata – e nel contesto, anzi nel cuore, di tali eventi, il dramma che sta vivendo, appunto, Lampedusa: non solo in veste di realtà dalle eccezionali attrattive turistiche, ma intesa, anche, come semplice comunità locale, l’insieme della gente che vi dimora.

Chi ha avuto occasione di portarsi, magari in vacanza, su quel lembo di terra affiorante nel Canale di Sicilia, più prossimo alle coste africane che alla nostra isola maggiore, è rimasto, di certo, affascinato dalle eccezionali meraviglie naturali, un susseguirsi, o meglio ancora un intervallarsi, di rocce a strapiombo, promontori quasi pianeggianti e baie ridenti, il tutto immerso in acque che, per la loro trasparenza, vanno addirittura oltre il concetto di cristallina luminosità.

Lampedusa, l’isola della beltà dove eleggono di andare a nascere e a crescere, in familiare consuetudine con le diffuse presenze di pesci e crostacei, altre fantastiche creature quali sono le tartarughe marine. Tanto fascino d’insieme, non fu «turbato» neppure dai missili indirizzati sull’isola, in una stagione ormai alle nostre spalle, dal dittatore libico Gheddafi.

Da molti, troppi anni, invece, gravi e pesanti turbative vanno cadendo sul suo suolo, a causa di una catena, un drammatico rosario, di approdi di gente allo stremo. Tragedia nella tragedia, accanto ai vivi che toccano terra, e ciò grazie soprattutto al lodevole prodigarsi dei nostri militari e agenti preposti alla vigilanza sulle coste e sui traffici marittimi, si registrano talvolta, come giusto adesso, in questo preciso momento, tanti loro compagni di sventura che soccombono e periscono durante il tragitto, per via degli stenti – fame, sete, freddo o caldo – oppure semplicemente a causa della «rabbiosità» del mare o di un banale incidente o di un’improvvida disgrazia, precipitando in un cimitero senza confini, quale è il fondo degli abissi, cui, v’è da credere, le povere vittime non avevano pensato durante la preparazione e all’inizio del «viaggio della speranza».

Corpi di uomini, donne, vecchi e bambini, in fondo al mare. Il solo pensare a immagini di tal genere, così crudelmente reali, non può non infondere in ciascuno di noi un marcato senso di tristezza. Purtroppo, nello stesso tempo, fa rabbia sapere e sistematicamente costatare che, accanto alla mala sorte e al crudele destino che tocca a innumerevoli nostri simili, allignano, realizzando cospicui lucri, schiere di affaristi, trafficanti di morte, traghettatori di poveri cristi.

Il problema è immensamente grande: in effetti, le autorità del nostro Paese da sole – non dovendosi, fra il resto, trascurare che devono pur sempre e comunque valere i fondamentali principi morali dell’accoglienza e dell’assistenza in favore di gente più sfortunata di noi – non ce la possono fare. Tutta l’Europa, ancor più ora che si è notevolmente allargata, occorre che sia coinvolta in prima persona, deve prendersi carico degli interventi o, quantomeno, delle risorse finanziarie che occorrono per fronteggiare l’emergenza nel migliore dei modi, tenendo conto della sua immane mole.

Sembra, quindi, il momento giusto perché il nostro Governo, avverta la responsabilità, tiri fuori gli attributi, gridi con forza e, soprattutto, non si stanchi, di farsi promotore e di insistere presso le massime istituzioni comunitarie e, direttamente, anche nei confronti dei governanti dei singoli Paesi membri, ai fini della messa a punto e della rapida attuazione di normative e provvedimenti concreti per tentare di dare, finalmente, un’idonea soluzione al problema.

La melagrana fa festa nel Salento

Dall’11 a domenica 13 ottobre

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La melagrana fa festa nel Salento

con “Lu paniri te e site”

A Palmariggi tre giorni ricchi di colori, sapori, suoni e profumi

 

Al riaprire della stagione autunnale torna puntuale uno degli appuntamenti più caratteristici dell’ottobre salentino, “Lu Paniri te e Site”, è la festa in onore della melagrana (detta “sita”, dalla stessa derivazione dal nome greco del grano, “sitos”), simbolo di fecondità. Tre giorni di festa, dall’11 al 13 Ottobre, per le strade del piccolo ma accogliente comune di Palmariggi, nel Salento, dedicati alla varietà tipica del frutto di questo centro idruntino denominata “dente di cavallo a coccio duro”.

 

L’ottimo frutto dai rossi chicchi dolcissimi troneggia nei “paniri” (cesti di vimini), che gli artigiani del luogo creano lavorando il giunco. Quando la festa si accende le vie del borgo antico di Palmariggi si animano di curiosi che passeggiano qua e là in una particolarissima esplosione di colori, sapori, suoni e profumi. “Paniri te e site” è un evento antichissimo che risale a 4 secoli fa; come da tradizione, la domenica mattina si svolge la fiera-mercato e già all’alba in tutto il centro abitato prendono posizione le numerose bancarelle.

 

Tante le pietanze, molte a base proprio di melagrana, che saranno a disposizione di tutti i palati, anche dei più esigenti: dagli antipasti ai primi piatti, dagli arrosti di carne alla porchetta Dop di Ariccia. E poi, ancora, i piatti della tradizione contadina salentina (come cicore crestegnummareddrhi, pittule, pezzetti di cavallo, …); i dolci tipici e le caldarroste, il tutto accompagnato dall’ottimo Negroamaro.

 

E la musica? Popolare! Tra pizzica e folk, si alterneranno sul palco nei tre giorni di festa i “Briganti di Terra d’Otranto”, i “Mute Terre”, e gli “Scianari”.

 

E’ bene sapere inoltre che si celebrano frutti che, oltre ad essere buonissimi, fanno anche tanto bene alla salute. Conosciute sin da tempi antichi per le loro proprietà benefiche, le melegrane (o balauste) hanno infatti proprietà astringenti e diuretiche, grazie alla presenza del tannino, e sono ricche di vitamina A e vitamina B, tanto che nell’antica Grecia erano prescritte come antielmintico e antinfiammatorio. Nel succo della melagrana sono presenti potenti agenti antiossidanti che agiscono sullo stato di benessere del nostro organismo ed hanno un ruolo importante nelle molteplici azioni contro diverse patologie. Il melograno è inoltre simbolo di fertilità, abbondanza e longevità.

 

Una nota di colore, se mai ce ne fosse bisogno, è data dall’organizzazione dell’evento che è curata dall’omonima Associazione “Lu paniri te e site” la quale è stata costituita appositamente per la manifestazione e non ha scopi di lucro ma devolve gli utili in beneficenza e per servizi utili alla collettività.

Fuoco, luce, racconto, energia nel percorso artistico di Orlando Sparaventi

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di Antonio Mele ‘Melanton’

 

Vado in Terronia a vedere com’è”, disse un bel po’ d’anni fa alla moglie Lella, che gli aveva già dato due bambini, il giovanotto di belle speranze Orlando Sparaventi da Urbino, patria dell’immenso Raffaello, e città d’arte fra le più seducenti d’Italia. Insegnava già da qualche tempo a Pesaro, dove s’era formato nel prestigioso Laboratorio di Franco Bucci, ma nel sud del Sud, a Parabita, in Terra d’Otranto, quasi ai confini del mondo, c’era bisogno di un maestro che istruisse e svelasse i segreti della tecnica ingegnosa e non facile degli smalti su metallo, e per la specifica sezione nel locale Istituto d’Arte gli era stato per l’appunto proposto tale incarico.

Quella cattedra sarà mia”, deve aver pensato il giovane e prode Orlando, “ma è meglio partire da solo, poi si vedrà”. E infatti s’è visto fin da subito: è stato, verso Parabita e il Salento, un innamoramento immediato e fatale, tuttora di forte impeto e vivacità. Così, ha di lì a poco chiamato “in Terronia” il resto della famiglia, e questo piccolo privilegiato paradiso è diventato una scelta gioiosa, un destino, una nuova amabile patria.

Qui, e da qui, nella sua grande casa sulle alture poco fuori paese, immersa tra ulivi e alberi da frutto, e protesa in un panorama palpitante che spazia fino alle marine di Gallipoli, Orlando Sparaventi ha costruito e costruisce passionalmente le sue magie, dando un senso d’arte e di vita alla materia, traducendola in fuoco, luce, racconto, energia.

Era da tempo che volevo incontrare da vicino quest’artista davvero speciale, che nel suo carismatico magistero, e dentro le sue feconde ispirazioni, racchiude ricerche tecniche molteplici e intense: di artigiano, di artefice, di pittore, scultore, modellatore, creatore di  arredi sacri, e filigrane, e gioielli, e soprattutto “smaltista”. Fra i più autorevoli in Europa (i suoi seminari nel Museo di Himmerod, in Germania, sono frequentati da professionisti già affermati, su prenotazioni di largo anticipo), e fra i pochi in grado di padroneggiare ed esaltare la complessa tecnica del cloisonnè, dello champlevè e soprattutto dello “smalto cattedrale”, tecnica raffinatissima consistente nel riempimento di un reticolo con smalti trasparenti, per ottenere appunto l’effetto delle vetrate delle cattedrali.

Sparaventi avevo avuto modo di conoscerlo una prima volta in occasione di una bella collettiva al castello De’ Monti di Corigliano d’Otranto, qualche anno addietro, su invito del cortese professore Luigi Mangia, promotore di quell’incontro, al quale parteciparono numerosi e valenti artisti salentini. Ma fu quello un incontro fugace, ancorché molto coinvolgente.

Ora, accompagnato da mia moglie Teresa, l’occasione si è rinnovata, e posso finalmente appagarmi del suo affabile e fascinoso discorrere sull’arte.

Orlando, per la verità, non parla molto. Per lui parlano gli occhi, talora pieni di divertita ironia. E ancor più le mani. Mai ferme, come se modellassero anche l’aria. Non che gesticoli, tutt’altro: il suo aplomb è sempre misurato e perfetto. Ma le mani di Sparaventi si capisce subito che sono dinamiche, sensibili, irrefrenabili, piene di vitalità, pronte a plasmare e a carezzare la forma inerte per darle vita e respiro.

sparaventi

Dalla nostra conversazione emerge anche un certo suo ‘caratterino’, che lo porta ad essere sempre fin troppo severo ed esigente con se stesso, capace di distruggere – come ci ricorda la signora Lella, anche lei esperta d’arte – intere produzioni di opere di non completa soddisfazione.

Di tanto in tanto si alza, e con passo felpato sparisce per ricomparire con nuove magnificenze. Con un certo orgoglio ci conduce infine nel giardino, dov’è allocato il forno per le cotture degli smalti, fra i più grandi in assoluto per questo genere di produzione: “Qui prendono vita le mie opere più impegnative, che possono avere misure straordinarie, pressoché uniche”, dice con un sorriso di giusto compiacimento.

Ma al di là della dimensione – che pure, in questo ambito specifico ha un suo non piccolo valore – gli smalti di Sparaventi (su oro, argento, rame e altri metalli) sono un autentico inno alla bellezza.

Astratto e figurativo, classico e moderno, si integrano e convivono armoniosamente, e il segno dell’arte pura è riconoscibile in ogni piccolo tocco o dettaglio, che da soli o tutti insieme spiegano meglio i ‘quattro elementi’ di cui parlavo, fondamentali, credo, per una lettura completa del variegato percorso artistico del maestro: il fuoco, da cui l’opera è contraddistinta, sancita, impressionata; la luce, che dall’opera stessa viene trasmessa in cangianti moltiplicazioni di visioni anche fantastiche; il racconto, che è la narrazione sostanzialmente tecnica, che l’autore stesso ci partecipa ed invita a condividere; l’energia, come trasferimento totale delle percezioni tra il maestro e l’osservatore, che rappresenta di fatto l’esaudimento conclusivo di piacere e di gioia, vale a dire una delle precipue finalità dell’arte.

Questa, peraltro, è arte di solida ‘fisicità’, che riverbera grazia e sentimento, proprio perché vivificata dalle mani e dal cuore dell’artefice: un’opera che rimane comunque pregna di una magica poetica e seduzione extrasensoriale.

È un uomo che parla poco, Orlando Sparaventi. Che non ama la luce dei riflettori. Eppure, avverti il suo spirito fanciullesco e la sua anima artistica  quando ti mostra qualcosa che ha creato con particolare entusiasmo, lasciando allora la parola alla semplice sapienza stilistica, che emerge con vigore dai suoi manufatti.

È un artista completo. Istintivamente sorpreso e invaghito del suo stesso talento, ma senza alcun narcisismo di maniera. Consapevole, al contrario, di questo dono naturale, ed anche della sua appassionante “missione” che instancabilmente conduce – a Parabita e altrove – con gruppi di giovani altrettanto rapiti dall’incanto creativo, ai quali insegna e trasferisce i suoi prodigi di sognatore.

Torneremo a parlare di questo maestro straordinario, concreto e ideale, venuto nella nostra terra per innamorarsene. Segno anche questo che le vie dell’arte, come quelle della vita, sono un meraviglioso, splendido, umanissimo mistero.

Puglia

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

 

Bende d’azzurro

recingono il tuo capo.

Ricanta il mare

attese millenarie,

mentre, fedele amante,

bacia le tue scogliere

e dona amplessi

alle tue bionde spiagge.

 

Bruno il tuo volto,

terra dei miei padri,

e le tue chiome,

verdi a primavera,

si fanno d’oro

quando, d’estate, il sole

baci  roventi alle tue labbra dona.

 

Come monili argentei

biancheggiano gli ulivi

e intessono colloqui con il vento

che sa di mare

ed ha profumo d’alghe.

 

Lungo le coste,

tormentati pini

respirano scirocco

–  vento caldo

che le carezze reca d’afra terra –

e ascoltano il remeggio dei gabbiani.

 

Copertino, 1960

Dall’antologia curata da Salvatore Maturanzo “D’ANNUNZIOil poeta soldato”, Ed. I.A.L.I.,  Milano, 1964

Pianoforte. Andrei Gavrilov a Lecce

Andrei Gavrilov

Una  Masterclass di Pianoforte con un docente d’eccezione: Andrei Gavrilov al Tito Schipa di Lecce

 

di Maria Pina Solazzo*

Ancora un’importante possibilità di crescita artistica per gli allievi del “Tito Schipa”: il 14 e 15 Ottobre, presso l’Auditorium del Conservatorio in via Ciardo, il celebre pianista russo Andrei Gavrilov,  incontrerà gli allievi salentini: le lezioni saranno individuali, aperte sia agli iscritti effettivi sia agli uditori e si terranno dalle ore 11 alle 19. Una Masterclass che si aggiunge alle numerose altre di analogo livello tenute nel corso dell’ultimo triennio.

«Queste occasioni – dichiara il direttore Pierluigi Camicia – sono un gradito riconoscimento per tutto l’impegno dei docenti – che sentitamente ringrazio – e degli allievi stessi della nostra Istituzione. Auguro a tutti i ragazzi una buona riuscita nelle audizioni  nella consapevolezza che queste esperienze artistiche generino sempre maggiori stimoli all’impegno negli studi musicali e, soprattutto, nella vita».

 

Pianista di fama mondiale, Andrei Gavrilov, appena diciottenne, vinse il primo premio al prestigioso Concorso Internazionale “Ciaikowskij” e, nello stesso anno, ebbe un debutto trionfale al Festival di Salisburgo sostituendo il grande pianista Sviatoslav Richter.

Ha suonato come solista con orchestra nelle più importanti città internazionali come New York, Los Angeles, Detroit, Cleveland, Chicago, Philadelphia, Montreal, Toronto, Londra, Vienna, Parigi, Berlino, Monaco, Amsterdam, Tokyo, Mosca, S. Pietroburgo sotto la direzione di rinomati direttori tra i quali Abbado, Muti, Haitink,  Ozawa, Svetlanov, Tennstedt, Rattle e Neville Mariner. Ha vinto diversi premi discografici internazionali tra cui il Gramophone Award nel 1979, il Deutscher Schallplattenpreis (Disco d’Oro Tedesco) nel 1981, il Grand Prix International du Disque negli anni 1985 e 1986, l’International Record Critics Award (IRCA) nel 1985. Inoltre, nel 1989, ha ottenuto il Premio Internazionale “Accademia Musicale Chigiana” (la giuria dei critici musicali lo ha definito in quell’occasione il più grande pianista del mondo). Nel 1998 Andrei Gavrilov è stato selezionato per essere inserito nella collana dei maggiori pianisti del XX secolo prodotta dalla Philips. Nel febbraio 2010 è stato invitato a suonare ben quattro concerti di fila nella stessa serata alla Sala d’Oro della Filarmonica di Vienna riscuotendo vere e straordinarie ovazioni da parte del pubblico e della critica.

 

*UPR Conservatorio “Tito Schipa” Lecce

 

Che cosa succede tra le cantine di Terra d’Otranto

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di Mimmo Ciccarese

 

I tralci alleggeriti dalla vendemmia e dalle foglie, iniziano a sbadigliare e appisolare i loro tessuti in un dolce vortice che la biologia definisce come quiescenza, una sorta di letargo invernale in cui la pianta rallenta le sue attività. Una dormienza che ogni pianta pianifica durante il suo sviluppo affinché abbia il giusto tempo di accumulare le riserve nutritive per il risveglio primaverile e per difendersi dai morsi delle gelate.

Tutt’altro che dormiente invece l’attività nelle cantine, il mosto ha quasi esaurito il suo fruttosio che altri organismi stanno lentamente trasformando in alcool, inizia a virare il suo carattere, aumentare il bouquet dei suoi profumi, assorbire dai barrique nuovi sentori.

Uno stato di calma per niente apparente, quindi, è quello che si descrive con i fermenti del dopo vendemmia, un gran movimento che porterà ad assestare le migliaia di essenze sulle nostre tavole.

Adesso aspettiamo trepidamente i rosati del negro amaro e la corposità dei primitivi che promettono bene; l’evoluzione del miglior vino salentino ora è in mano all’esperienza di chi lo custodisce.

Si percepisce il buon umore tra i viticoltori attraverso l’intensità degli aromi e del filtro di colori che decantano nell’alveo dei loro calici, dal travaso di note floreali che inizia ad abitare le cantine più rinomate che si spande tra i paesi del DOC Salice e Manduria; un effluvio di milioni di ettolitri pronti per la consueta festa del novello.

Fa piacere sentire che il Negroamaro e il Primitivo siano vini ricercati da nuovi mercati, davvero si possono ritrovare stupori di etichette, frutto del buon diletto e dell’operosità della viticoltura salentina.

Un’opera di rinnovamento iniziata grazie all’audacia di pochi tecnici dagli anni settanta dai tempi in cui il robusto Negro amaro era considerato solo come vino da taglio per i vini del settentrione; un processo evolutivo che ancora oggi continua a sorprendere che rende qualità e calore all’assaggio; le cantine che rincorro, adesso, sono liete di conoscervi.

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Stradetta di Copertino

copertino 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

 

Non ha mutato volto

la vita in via Iconella.

 

Sferruzzano, le donne,

o rammendano panni

sugli usci bassi,

all’ombra che trasmigra;

e vivacemente intrecciano parole

che sono di sfogo ai vari sentimenti.

 

Uomini, sudati e scalzi,

spaccano legna per l’inverno

al centro del selciato;

e alle scintille

che genera l’accetta

sognano dolcezza di camini accesi,

profumo di melecotogne

cotte nella brace,

sapore di legumi

nella vecchia pignatta di creta.

 

Grida di monelli

dilagano nel sole,

che festoso accoglie i giochi

e le innocenze.

 

Appese, lungo i muri, ad asciugare,

lenzuola di cotone barbarescu

si gonfiano nel vento;

e tanto, ma tanto è l’intreccio dei rattoppi

che per il forestiero

sono inediti mappamondi di miseria.

 

3 luglio 1964

Lecce. Premio Nazionale delle Arti per la sezione pianoforte

Premio Nazionale delle Arti: il “Tito Schipa” ospita la Sezione Pianoforte

Serata Finale al Teatro Paisiello sabato 12 Ottobre

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a cura di Maria Pina Solazzo*

Sabato 12 Ottobre 2013 alle ore 19,30 nella splendida cornice del Teatro Paisiello a Lecce si terrà la Prova Finale del Premio Nazionale delle Arti per la sezione Pianoforte organizzata dal Conservatorio di Musica “Tito Schipa” di Lecce alla presenza del Direttore Generale del MIUR Dott. Giorgio Bruno Civello e del Sottosegretario Gianluca Galletti.

Si tratta di una manifestazione promossa e organizzata su tutto il territorio nazionale dalla Direzione Generale AFAM, finalizzata a individuare e valorizzare i migliori talenti che studiano nelle Istituzioni del sistema dell’Alta Formazione Artistica e Musicale in Italia.

Il Premio è articolato in diverse sezioni: in una prima, i Conservatori individuano tra i loro studenti i più idonei alla partecipazione alla fase nazionale e li inviano nella sede di svolgimento del Premio. Al termine delle prove finali, viene individuato, per ciascuna specialità, il vincitore.

Si tratta di un complesso meccanismo, che dura un intero anno – dichiara Pierluigi Camicia, Direttore del Tito Schipama che alla fine porta alla giusta ribalta le tante realtà di giovani studenti che si formano nei Conservatori italiani. Si tratta di una sana competizione e una concreta opportunità formativa riservata ai migliori allievi di tutte le Istituzioni Musicali Italiane, a testimonianza del lavoro quotidiano svolto nelle sedi disseminate su tutto il territorio, per far apprezzare compiutamente le potenzialità e le risorse del settore dell’Alta Formazione Artistica e Musicale.”

Le prove  eliminatorie si svolgeranno l’11 Ottobre a Ceglie Messapica nell’Auditorium della sede staccata del Tito Schipa dalle ore 9 alle 20.

Prendono parte, a questa edizione, circa 20 concorrenti provenienti da diversi Conservatori italiani, ciascuno dei quali sarà giudicato da una prestigiosa Commissione costituita dal pianista e direttore d’orchestra Michele Marvulli (Presidente), il compositore e direttore d’orchestra Marcello Panni e il critico musicale Nicola Sbisà.

Per il Premio “Giovani Allievi” la Commissione sarà affiancata dalle tre giovani e brillanti pianiste che stanno esportando in tutto il mondo il nome della cultura musicale italiana: Leonora Armellini, Beatrice Rana e Mariangela Vacatello.

Ho voluto fortemente affiancare ai tre “storici” commissari le tre giovani concertiste – dichiara ancora Pierluigi Camicia – perché la loro età e il loro alto grado di professionalità rappresentano quel valore aggiunto in cui la scuola italiana deve continuare a credere.”

 

*UPR Conservatorio “Tito Schipa” Lecce

Ecclesia Mater. La fabbrica della Cattedrale di Nardò attraverso gli atti delle visite pastorali

cattedrale di Nardò

di Marcello Gaballo

 

Venerdì 11 ottobre, in Cattedrale, alle ore 19, alla presenza del Vescovo Mons. Fernando Filograna e dell’editore Mario Congedo, sarà presentato l’ultimo dei Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò-Gallipoli: Ecclesia Mater. La fabbrica della Cattedrale di Nardò attraverso gli atti delle visite pastorali, di don Giuliano Santantonio, parroco della stessa chiesa e direttore dell’Ufficio Beni Culturali della diocesi.

Il volume, sesto della collana, di 192 pagine, in ottavo, si inserisce nel programma delle celebrazioni per i seicento anni della Cattedrale di Nardò (1413-2013).

Arricchito da numerose illustrazioni, risaltano una trentina di foto di C. Greco da Nardò, tratte dal rarissimo volume: Vedute e monumenti di Nardò, edito a Gallipoli nel 1907 per i tipi della Tipografia Stefanelli e donato alla diocesi dal barone Pasquale Personé.

Ad incrementare l’apparato iconografico anche alcune foto inedite di Paolo Giuri, tra le quali il pregevole Crocifisso, in legno policromato del sec. XVII, conservato nella sagrestia. Sempre da questo ambiente provengono i tre dipinti riportati nel volume: S. Agnese, un olio su tela degli inizi del sec. XVIII, di scuola del Solimena; San Bartolomeo apostolo, anche questo olio su tela, degli inizi del sec. XVII eseguita da maestranze salentine; il bellissimo Volto di Cristo, olio su tavola, del sec. XVI, di ignoto autore e degno di grande attenzione da parte degli storici dell’arte.

Inedite sono pure le foto di reperti lapidei erranti, quasi tutti provenienti dal giardino dell’episcopio neritino, che probabilmente troveranno collocazione nell’istituendo museo diocesano, tra i quali un Frammento della lapide posta dal Sanfelice nell’abside, sotto la tela raffigurante l’arrivo delle reliquie di S.Gregorio Armeno, su pietra leccese, datato 1718; una  Lapide di Girolamo De Franchis posta presso il nuovo sito dell’organo, su marmo, del 1619 (foto Paolo Giuri, 2013).

Ancora originale il repertorio di alcuni dei reliquiari conservati nell’altare di Tutti i Santi, nella navata sinistra della Cattedrale, minuziosamente elencati nelle diverse visite pastorali e descritti nel volume. Tra i tanti preziosi reliquiari le due urne, delle quali una  con le reliquie di S.Fausto martire e l’altra con le reliquie di S.Pio martire; i reliquiari a ostensorio con diverse reliquie di santi, quelli a forma di braccio con reliquia di S.Trifone martire e San Gregorio Armeno.

 

Ma l’importanza del libro è data soprattutto dalla mole di notizie ed informazioni in esso riportate, utili per seguire ed interpretare le vicende storiche del tempio neritino attraverso le numerose visite pastorali dei vescovi che si sono succeduti sulla Cattedra neritina, a cominciare da quelle della metà del XV secolo.

Scrive l’A. nella premessa: “…L’evidenza che emerge in questo genere di ricerche è che occorre abbandonare la tentazione di immaginare un edificio, della natura di una chiesa, come una costruzione che sia possibile fossilizzare dentro il gusto, la sensibilità e le forme di una sola epoca, magari quella della sua prima costruzione: se così fosse si snaturerebbe il suo significato, che dipende dalla sua funzione, e finirebbe per essere presto avvertita come un corpo estraneo nel quale diventa impossibile riconoscersi. Le chiese sono invece realtà vive, che dialogano con il tempo e che per rimanere se stesse hanno bisogno di cambiare in continuazione. Come la Chiesa-comunità è semper reformanda, così anche il luogo nella quale essa si riconosce e vive: è nella logica del mistero dell’incarnazione, che esige che ogni tempo e ogni generazione consegni a chi viene dopo una traccia di sé, che racconti la continuità e l’unità della fede dentro l’originalità del divenire umano.

Naturalmente questo processo è virtuoso solo se avviene in quel rispetto che consente il dialogo e non la contrapposizione nella diversità. In questo senso la cattedrale di Nardò rappresenta un formidabile libro in cui convivono armonicamente la storia, la fede, i costumi, le tradizioni delle generazioni che nell’arco di mille anni e più hanno trovato in essa un punto stabile di riferimento e di identificazione…”.

 

Di notevole ausilio sono la ricca bibliografia e l’indice analitico del volume.

 

Trionfo in Francia del 16enne salentino Nocco nella Superstock 600 di Magny Cours

Il giovanissimo pilota ha il “Salento” in testa, letteralmente

Trionfo in Francia del 16enne salentino Nocco

nella Superstock 600 di Magny Cours

Alessandro Nocco (Alenox) si aggiudica il round francese della Superstock 600

davanti ai due connazionali: ancora apertissima la lotta per il titolo

 

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Gioia immensa, come immensa è la soddisfazione per la vittoria di ieri del giovanissimo pilota di Taviano Alessandro Nocco, 16 anni, nella gara francese del Superstock 600. E immensa è la soddisfazione anche di tutto il popolo salentino visto che Alessandro corre e vince con ilSalento in testa, letteralmente, in quanto ha fortemente voluto sul proprio casco il logo di “Salento d’Amare”.

 

Con l’Italia che centra la settima vittoria consecutiva, la 34esima nella storia dell’Europeo Superstock 600 monopolizzando (così come al Nurburgring) il podio, il grande protagonista di giornata non può che esser il 16enne salentino Alessandro Nocco, nuovamente in trionfoconcretizzando un sensazionale “Grand Chelem”: pole, vittoria, giro più veloce e corsa condotta dalla prima all’ultima tornata della contesa. Ennesima prestazione d’autore per il portacolori del San Carlo Team Italia, altrettanto da rimarcare l’emozionante duello per il secondo posto tra Franco Morbidelli e Christian Gamarino, con quest’ordine sul traguardo dopo una serie di quatto sorpassi-e-controsorpassi comprensivi di due contatti sfiorati ed evitati di un soffio nel finale.

 

Per la seconda volta stagionale ed in carriera Alessandro Nocco scatta dalla pole affiancato in prima fila dal proprio compagno di squadra Franco Morbidelli e Bastien Chesaux, apre la seconda Christian Gamarino (4°), dalla terza (8°) Gauthier Duwelz a completare il quintetto dei piloti in corsa per il titolo continentale. Con pista asciutta alle 18:01 lo spegnimento del semaforo premia Morbidelli, autore dell’hole-shot alla staccata della “Grande Courbe” su Nocco, Chesaux e Gamarino, quartetto che affronta il curvone “Estoril” e si presenta alla staccata del tornantino “Adelaide” dove Nocco si riporta in testa e Niki Tuuli travolge l’incolpevole Robin Mulhauser. In un lampo va in archivio il primo giro con le Kawasaki Puccetti di Nocco e Morbidelli a dettare il passo su Chesaux, Gamarino, Nekvasil e D’Annunzio, finisce a terra a seguito di un contatto con Dakota Mamola un altro figlio d’arte come Luca Vitali, autore di un buon spunto al via con la Suzuki Suriano.

 

La contesa perde un pilota italiano, ma sono tre in testa: Gamarino passa Chesaux alla “180°”, ora è terzo puntando il mirino nei confronti di Morbidelli, ma non su Nocco, letteralmente in fuga tanto da chiudere il secondo dei dodici giri previsti con 1″8 di margine grazie al primato sul giro di 1’45″191. Prime tre posizioni sostanzialmente definite, tutto ancora in gioco per il quarto posto con Chesaux, Nekvasil e D’Annunzio ai ferri corti regalando non poche emozioni in questa corsa che entra definitivamente nel vivo. Mentre Julian Mayer vola a terra tradito dal “tappetino” di erba sintetica oltre il cordolo di contenimento all’uscita dell’ultima curva, là davanti Nocco continua a fermare i cronometri sull’1’45″ basso lasciando ai connazionali Morbidelli e Gamarino la bagarre per la seconda posizione. Nel corso del quarto giro il pilota genovese sferra un primo attacco al curvone “Estoril”, ci riuscirà alla successiva staccata della “Adelaide” tentando un riaggancio quasi impossibile sul fuggitivo Nocco, ora con 3″6 da amministrare nei restanti 8 giri.

 

Al giro di boa della contesa il salentino del San Carlo Team Italia continua a dettar legge con un margine di 3″4 su Gamarino “braccato” da Morbidelli, dietro a loro Chesaux ora è pressato da Federico D’Annunzio, bravo nel sferrare l’attacco su Marco Nekvasil per la quinta piazza. Italiani protagonisti, ancor più nel duello che vale il secondo posto: Morbidelli si riprende la posizione su Gamarino alla “Adelaide”, la risposta decisa dell’alfiere GoEleven non si fa attendere ed arriva al curvone sinistrorso della “180°”. Prime scorribande che preannunciano un fenomenale ultimo giro: mentre Nocco transita indisturbato sul traguardo rilanciando le proprie quotazioni in campionato, Gamarino e Morbidelli giungono al contatto in due distinte occasioni e, al termine di una serie di quattro sorpassi-e-controsorpassi, è il “Morbido” a prevalere per soli 5/1000 su Christian. A completare la festa italiana Federico D’Annunzio è 5°, a punti anche Nicola Morrentino (12°), non Riccardo Cecchini (16°) e Simone Pellegrini (19°).

(fonte bikeracing.it)

 

Questo il commento di Alenox: «E’ stata una bella gara. Appena mi sono piazzato in testa dal muretto mi segnalavano che il vantaggio aumentava costantemente: una volta allungato non ho preso più rischi. Grazie al lavoro da parte della squadra sin dal venerdì ho avuto una moto perfetta. Dedico questa vittoria ai tanti tifosi che sono venuti fin qui per tifare per me. Ringrazio team, Sponsor e Federazione che mi stanno dando questa ottima opportunità.»

 

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