La vigilessa

vigilessa

di Pier Paolo Tarsi

 

Abbassa la paletta e si avvicina al mio finestrino con una sicurezza da fare invidia a Chuck Norris, lei, la vigilessa. Si abbassa un po’ per guardarmi in viso e controllare che abbia messo le cinture, poggiandosi sul gomito, lei, la vigilessa. Mi chiede i documenti, dopo una ventina di minuti li trovo. Lei nell’attesa è impassibile, la vigilessa, come Ken della scuola di Hokuto in mezzo alla battaglia. Prende i documenti e si allontana per scrutarli con due sopracciglia spietate, all’ombra delle quali ti chiedi da quanti anni non paghi il bollo, da quanti non fai una revisione e altre cose più o meno inquietanti. Con un avanzare tosto come Yosemite Sam, lei, la vigilessa, si riavvicina e mi rivolge la parola. “Dovrei farle la multa, lo sa?”. “Perchèaueue?”, biascico liquido e stremato io. “Perché ha l’assicurazione esposta sul lunetto laterale, è obbligatorio metterla sul parabrezza anteriore”. “Ah. Non lo sapevoueo, mi scusieoue, rimedieròueo”. “Per questa volta la lascio andare”! “Oh, grazieuoe, molto gentiueleo”. Il tempo di rimettere in ordine tutte le carte che avevo tirato fuori alla ricerca del libretto (ossia certificati di battesimi, scontrini, bollette di quella che fu la SIP, biglietti promozinali del circo Orfei per lo spettacolo di Natale scorso e altre cose indicibili), il tempo di rimettere la cintura, rimettere in moto…e vedo lei, la vigilessa, ripartire in auto col suo collega alla guida. Entrambi senza cinture, si immettono in strada senza segnalare con la “freccia”. Hai capitoeauo?

Desideri di metamorfosi di innamorati d’altri tempi

di Armando Polito

immagine tratta da http://www.iovivoaroma.it/public/images/210_26.jpg
immagine tratta da http://www.iovivoaroma.it/public/images/210_26.jpg

 

Cosa non si è fatto, non si fa e non si farà pur di far colpo su una persona che sia oggetto, per i motivi più disparati, del nostro interesse! Così il politico promette mari e monti (anzi, autostrade, viadotti e gallerie, oltre all’immancabile riduzione delle tasse) e l’innamorato fedeltà eterna e una dolcezza che se fosse veramente mantenuta nel tempo farebbe morire di diabete il partner …

Ma, per restare nel tema dell’amore, pur di raggiungere il suo scopo, ognuno mostra il suo lato migliore. Non alludo al petto villoso del maschio di una volta (oggi glabro e serico come il culetto di un neonato) o alla maliziosa esibizione della caviglia delle ragazze di un tempo (oggi soppiantata dall’esibizione, quando essa raggiunge il massimo della pudicizia, del cosiddetto lato B, frutto, il più delle volte, di un accanimento estetico precoce), anche se gli altri animali (ma l’uomo resta il peggiore a causa del suo allontanamento dall’ordine naturale delle cose) hanno comportamenti più o meno (più meno che più …) assimilabili. Credo, però, che la finzione morale sia infinitamente più grave di quella fisica (pur se quest’ultima, in realtà, spesso tradisce la prima), anche se nell’amore autentico (sempre finchè dura …) ognuno sinceramente  tenta di offrire il meglio della sua psiche, salvo poi giungere anche all’omicidio quando non è più corrisposto.

Certo, in questi ultimi tempi si assiste da un lato al fenomeno di un numero sempre meno cospicuo di donne che tentano il suicidio da una parte e di uomini che perseguitano e, addirittura, ammazzano la ex dall’altra.  Ecco, allora, che, dopo la giusta cancellazione del delitto d’onore, si pensa di poter risolvere il tutto con un provvedimento che mi sembra fare il pari con le quote rosa: ci si inventa un nuovo reato, cioè il femminicidio, che potrebbe pure starmi bene se non ci fosse già l’omicidio. Lo dico per un motivo pratico: se dovesse aumentare il numero di donne che fanno fuori l’ex partner, verrà cancellato il femminicidio oppure omicidio assumerà il significato ristretto di uccisione di una persona di sesso maschile? Non bastava applicare (ma applicare veramente …) le aggravanti già previste per l’omicidio per motivi abietti (o, forse, ammazzare il marito è meno grave che ammazzare la moglie?). Che imbecille che sono, io che faccio esibizione di scienza (?) etimologica! Omicidio deriva da hominem=uomo+caedere=fare a pezzi. E allora, che voglio se, per eliminare il maschilismo insito in questo vocabolo, ci si è inventati il femminicidio? Sì, però, i guai cominceranno quando si dovrà dare il nome all’uccisione di un(‘) omosessuale perché si dovrà inventare la parola omocidio (dal greco omos=uguale e –cidio dal già visto caedere) e non sarà certo una i invece di una o a scongiurare dopo la confusione dei sessi anche quella delle parole. Sul tema, poi, mi pare traballante anche omofobia [=paura dell’omo(sessuale)] perché, secondo me, avere paura di qualcosa o di qualcuno non è un reato, ma diventa qualcosa di estremamente pericoloso  quando la paura si trasforma in odio che, pure esso, non è ancora un reato ma ne costituisce il prodromo quando sfocia nella violenza di ogni tipo, compresa anche quella estrema. E allora, anziché omofobia, perché non si usa nel frattempo misomia [odio dell’omo(sessuale)] sul modello di misogenia (odio della donna)? Se la legge è incoerente già nelle parole che la compongono ci meravigliamo poi che la sua applicazione, dovendo pagare il tributo alle interpretazioni autentiche e non, ai riferimenti al suo spirito (già si da per scontato che il legislatore sia ubriaco? …), diventi un rebus che nessuno riesce a risolvere? E noi saremmo la patria del diritto!

Meglio lasciare le divagazioni e tornare a bomba. Come i comportamenti amorosi seguono modelli atavici, lo stesso avviene per la loro espressione più o meno artistica;  così il topos, cioè il luogo comune, è l’ingrediente della poesia d’amore di ogni tempo,  Consideriamo, per esempio, l’adýnaton (parola greca che alla lettera significa cosa impossibile): se in passato si scomodavano immagini del tipo vedrai gli uccelli nuotare tra i flutti e i pesci volare nell’aria prima che il mio amore per te abbia fine, oggi potrei dire vedrai un politico dare prova di intelligenza o di onestà prima che il mio amore per te abbia fine.

Un altro topos (concettualmente parente dell’adýnaton per il suo carattere di impossibilità) è quello introdotto di solito dalla locuzione vorrei essere, in dialetto neretino ulia bbessu o ulia cu bbessu.  Proporrò oggi alcuni esempi tratti da una raccolta che ho già utilizzato altre volte (Antonio Casetti e Vittorio Imbriani, Canti popolari delle provincie meridionali, v.II, che, a sua volta, fa parte del secondo volume della collana Canti e racconti del popolo italiano, a cura di D. Comparetti e A. D’Ancona, Loescher, Roma, Torino, Firenze, 1871, pp. 125, 126, 132, 187 e 271) aggiungendovi di mio solo la trascrizione in italiano e qualche nota.1

 

 

L’ultimo dei tre componimenti che costituiscono questo primo gruppo è un inno all’amore materno imperniato sulla differenza tra l’anonimo e ipotetico ci=chi e ca=che (congiunzione dichiarativa che con l’indicativo indica certezza).

 

 

L’immagine del vascello può sembrare piuttosto artificiosa ma serve per introdurre l’altra del mare di lacrime e del finale altri mari.

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1 Un’integrazione sul tema, ma con riferimento alla poesia dialettale “colta”, è in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/07/08/ulia-bessu-vorrei-essere/

2 Sul topos del vorrei essere …  s’innesta qui l’altro, antichissimo, del paraclausýthuron, per il quale vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/21/il-paraclausithyron-di-nardo/ 

3 Una nota nella raccolta (pag. 125) considera farcone sinonimo di balcone, senza altro dire.  Non so come quest’ultimo possa collegarsi a  calamita (sempre che il canto sia stato raccolto correttamente) se non pensando, in modo piuttosto contorto, che il balcone simboleggi l’innamorato i cui sguardi sono attratti da lei al balcone affacciata. Nel dialetto neretino farcone (variante di varcone, accrescitivo dell’italiano varco) è sinonimo di finestrella e nemmeno con questa ci sarebbe un collegamento se non pensando alla riservatezza (allora obbligatoria, anche se non sentita …) di lei che si sottrae, chiudendo la finestra con un meccanismo a calamita, agli sguardi di lui. Ho preferito la prima interpretazione che, perciò, ho registrato in traduzione.

4 Diminutivo deformato del latino càtula=cagnolina, a sua volta diminutivo di canis=cane, cagna.

5 Trapassare da un altro mondo (cioè tornare a vivere …) fa quasi il paio con vorrei morire e non vorrei la morte.

6 Probabilmente l’innamorata era una tessitrice, attività in passato quasi obbligatoria per le ragazze.

7 Vedi nota 1.

Ci vuole una canna

canna

Cosa c’è ancora da riscoprire in questa faccenda di vita in verticale? È buio intenso e le luci non hanno specchi, e non mi va di dire ci vuole il cuore, dobbiamo farcela, coraggio… sono stufo. Al bar un bicchiere di risate dura poco. Vorrei una saggezza di furfanteria, per divertire il mio migliore stato d’animo fin troppo tenuto nell’idiozia della regola. Una canna mi farebbe bene, almeno penso, ma sì perché non fumarla abbandonando la chesterfield per una sola fumata.

Ci vuole un respiro per quel sapere importante ed essenziale che non appaga mai. Per fortuna che c’è il caffè, dopo la doccia e il profumo del dopobarba, quando mi sono fatto (rifatto) ancora una volta per un giorno che non sia grottesco ed estremamente piegato in foglietti di felicità zingaresca.

Cosa posso fare per cambiare l’aspetto esteriore delle cose nel pieno della festa picaresca che non sopporto per niente? Ora che non si potrà più cantare cosa si farà? Il vino non scioglie la parola, a filosofare in questo banchetto di amici c’è il rischio di immoralità. Se almeno ci fosse un dio coraggioso, avido di anime, o magari un demonio pentito, o un santo, per un’idea di conclusione finale.

Ci vuole la canna per non morire di questa fottuta angoscia di vivere.

Il pallone

da repubblica.it
da repubblica.it

di Andrea Fachechi

 

Da bambino quando giocavo per strada, guardavo con rabbia a quei bambini che avevano la fortuna di possedere un pallone e che quando la partita prendeva una piega che non li soddisfaceva, si prendevano il pallone e se ne andavano, impedendo di fatto a gli altri di giocare. Oggi invece guardo con compassione chi, ormai cresciuto, si comporta in egual modo dimenticando che ognuno ė il pallone di se stesso.

Le pietre

ph Marco Cavalera
ph Marco Cavalera

 

di Marco Cavalera

“Quando ero piccolo e andavo in campagna con mio padre, mi portavo a casa delle pietre che dall’esterno non comunicavano nulla, potevano anche sembrare brutte. Ma le pietre sono come le persone. Ognuna ha dentro di sé qualcosa di buono, basta conoscerla e scoprirla. Così ogni pietra di scarto (cit. don Tonino Bello), ogni frammento ha una bellezza nascosta e accarezzandola, levigandola si apre e ci mostra il suo lato più intimo e celato. In ogni materia che incontri ci sono infinite forme, tante quanto la mente ne sa creare e quanto le mani ne sanno trovare. La pietra si racconta e ci racconta, è un palinsesto di segni e tracce che testimonia la storia della nostra terra”

 

(tratto da “VITO RUSSO, SCULTORE E PITTORE SALVESE. LA BELLEZZA, LA SEMPLICITÀ E L’ARMONIA D’INSIEME NELLA SUA FILOSOFIA ARTISTICA”, di M. Cavalera e S. Sammali).

2013, di nuovo alle Terme – Dopo l’armonica a bocca, la bella Italia

da "Come eravamo"
da “Come eravamo”

di Rocco Boccadamo

 

A proposito del piccolo strumento che, come annotato nel reportage di sabato scorso, ho visto suonare sul Viale delle Terme di Abano, a riprova del mio perenne attaccamento al Salento, un sentimento che mi arde dentro anche a mille chilometri di distanza, mi viene di ricordare che, oltre mezzo secolo fa, nella natia Marittima c’era un compaesano di nome Angelo, in gergo dialettale detto l’Ancilu ‘a Ddolurata ‘u Fiuranu, il quale, da autodidatta, armeggiava, giustappunto, con l’armonica a bocca.

Lo faceva, abitualmente, di sera, dopo la giornata lavorativa e la cena, come pausa di svago e di distrazione, all’interno del negozio di barbiere gestito da Alessandro, nei pressi della piazza, dove, in aggiunta agli sparuti clienti bisognosi del taglio della barba o dei capelli, solevano riunirsi gruppi di giovani, interpreti di semplici e allegri cori sulle note dell’armonica.

Della compagnia, faceva parte ‘u Pippi ‘a Semira, dotato – lo è tuttora – di una bella voce, che negli anni successivi, fra l’altro, sarebbe divenuto cognato di Ancilu.

Le due suddette figure sono viventi ancora adesso e, quando mi capita d’incontrarle, scatta sempre una sorta di ritorno ideale alle lontane stagioni della bottega da barbiere, allietata da armonica a bocca e cori.

M. è nata nel 1991 in una cittadina sulle colline torinesi, rinomata, fra il resto, per la famosa “Lettera 43” e i cui abitanti sono denominati eporediesi. Figlia unica, dopo la maturità, per il proseguimento degli studi ha scelto di lasciare la sua terra, frequenta, infatti, psicologia in un ateneo del Veneto: le pesa un po’ il distacco dalle amiche delle elementari, medie e superiori, oltre che la separazione, nel senso chilometrico, dal suo ragazzo, rimasto a lavorare nel Piemonte.

Nella sede universitaria, abita in un appartamento preso in affitto, dove, per risparmiare sul canone,  condivide una camera con una ragazza, mentre una seconda stanza ospita uno studente d’origine pugliese, aspirante filosofo.

Forse alla stregua di naturale reazione al suo stato di figlia unica, è contenta di abitare insieme con i due giovani, si adopera ai fini della preparazione comune dei pasti, con ciò compiendo un utile tirocinio in vista dell’eventuale, futura creazione di una sua propria famiglia.

Con il ragazzo, nell’estate 2012, ha trascorso una breve vacanza nel Salento, conserva un ottimo ricordo dei luoghi, in particolare dei mari e della gente.

M. sente molto la responsabilità di conseguire un buon profitto nei corsi accademici, così da ripagare i sacrifici economici dei genitori; in pari tempo nutre fiducia circa il suo futuro professionale, tendendo volutamente a immaginare che, intanto che lei completi gli studi, la situazione in giro possa subire notevoli modifiche in meglio, rispetto ai risicati e precari sbocchi ora, come noto, offerti ai giovani.

La coinquilina di camera, G., viene invece dal Sud, dalla Basilicata, esattamente dal paese di Stigliano, ubicato in un’amena zona del Materano, ricca di verde e di corsi d’acqua, caratterizzata da estensioni di terreni non pianeggianti, bensì ondulati, con una serie di avvallamenti, i cosiddetti calanchi.

La terra d’origine della ragazza richiama alla mente le plaghe del famoso poeta, sindacalista e politico locale, Rocco Scotellaro, vissuto solamente trent’anni: tra le sue opere, da ricordare in speciale modo “L’uva puttanella” e “Contadini del Sud”. Inoltre, si ricollega a un affascinante monumento religioso, che si erge su un’altura, il santuario dedicato a Maria Regina di Anglona, meta di nutriti pellegrinaggi da parte di devoti, provenienti sia dai territori vicini, sia da località distanti.

A proposito della “emigrazione” per studio della lucana G., anche lei iscritta a psicologia, colpisce in particolare il suo fermo intendimento di concentrarsi al massimo sulla strada scelta, restandosene fissa nella sede universitaria senza ravvicinati week end verso Sud e ciò rappresenta, inconfutabilmente, una palese conferma della grande forza di volontà che l’interessata pone sul fronte della realizzazione dell’obiettivo prefisso.

Ho ritenuto, oggi, di basare i miei appunti su sprazzi di semplici e sommarie storie di ragazze, vicende belle, senza enfasi o retorica, di e per un’Italia bella, in questo momento particolare in cui, alla ribalta della cronaca, dominano, purtroppo, altri, assai differenti eventi, riguardanti giovani donne, addirittura adolescenti.

Meno male che, alla luce della generalità della vita comune che scorre quotidianamente, alla fine è dato di poter costatare che si tratta di puntini neri isolati ed eccezionali.

 

Candidatura di Lecce a capitale della cultura 2019

lecce piazza duomo

di Gianni Ferraris

C’è stato dibattito sulla candidatura di Lecce a capitale della cultura 2019. Detrattori, sostenitori, indifferenti e via dicendo. In tutto questo parlare la città ha superato il primo step, nel 2014 ci sarà la sentenza definitiva. Forse è prematuro parlarne, tuttavia non è tempo perso, potremmo sintetizzare la discussione sul comprendere se la scelta è da rigettare tout court perchè arriva dalla maggioranza al governo della città, oppure se pensare al tutto come un’opportunità.

Partiamo dalla considerazione che Lecce, al di là e oltre il suo valore aggiunto che richiama turisti nonostante scelte urbanistiche e politiche che sembrano volerla penalizzare, (cito le colate di plastica bianca in Piazza Sant’Oronzo, la mancanza di piste ciclabili, la mancata pedonalizzazione, una viabilità indecorosa per una città d’arte, parcheggi ovunque fin quasi sotto la colonna del Santo, marciapiedi in circonvallazione dove un passeggino non passa perchè sono troppo stretti, allagamenti nelle strade ad ogni temporale, ad esempio via Oberdan, provate a passarci a piedi durante un temporale, arriverete a casa bagnati fradici), e via dicendo.

Troppe cose non funzionano nella città che è fra le più belle d’Europa. Questo detto rimangono i numeri citati nell’articolo di Quotidiano di Puglia (http://www.quotidianodipuglia.it/lecce/capitale_della_cultura_per_lecce_progetti_da_210_milioni_e_4700_posti_di_lavoro/notizie/360607.shtml).

Son di un’importanza immensa per una città ed una provincia che soffrono una crisi epocale, cascate di quattrini da investire e di possibili posti di lavoro. Non è poco veramente!  Inutile dire che il ruolo della politica è assolutamente essenziale ed inevitabile, e quello dell’amministrazione imprescindibile, allora come ci si pone criticamente verso questa opportunità?

Se le cose funzionassero come democrazia prevede e come intelligenza chiederebbe, ci si siederebbe attorno ad un tavolo, maggioranza, opposizione, associazioni culturali e del territorio, univesrsità ecc. e si farebbe il punto della situazione, si discuterebbe sul come fare una commissione  senza maggioranze precostituite, ma per competenze, una sorta di giunta esecutiva ed un consiglio “di amministrazione” che controlli nella più ampia trasparenza gli appalti, le scelte, le nomine, le assunzioni. Il tutto facendo sì che non si possa dire che tizio è stato assunto perchè cugino di caio e con un pacchettino di voti per sempronio.

Soprattutto, visto che si tratta di fare opere imponenti ed importanti, la commissione deve controllare che ogni mattone, ogni albero piantato, ogni piccolissima opera, dovrà avere una ricaduta futura per la città tutta. Magari recuperare invece di costruire, magari valorizzare anzichè abbattere.

Mi torna in mente la sfavillante Torino di Italia ’61, nel centenario dell’unità il capoluogo piemontese fece opere faraoniche, da palazzo Vela alla monorotaia e via dicendo. Un intero quartiere trasformato per quell’anno di festeggiamenti, miliardi spesi. Dopo il ’61 e per vent’anni tutto iniziò a decadere, inutilizzato, salvo poi utilizzarlo in buona parte per altri scopi. Questo non si deve ripetere assolutamente.

La programmazione e la progettazione debbono essere al servizio della città e della provincia negli anni a venire. Questo e altri saranno i termini della discussione, e da qui occorre partire per comprendere se lasciar fare tutto quanto ad una parte sola osservando da fuori e criticando, oppure rendendosi protagonisti del combiamento (perchè di questo si tratta). Una bella scommessa ed un modo di lanciare non una sfida, piuttosto l’opportunità di cambiare il modo di concepire la politica stessa, l’amministrazione.

Vediamo chi dirà no. Penso che lasciar fare dicendo che sono cose che non ci riguardano potrebbe essere un boomerang  se quesi quattrini verranno spesi male, dati in mano ai soliti noti, senza controlli sulla legalità e sulle spese, sono però pubblici, di tutti. In sostanza, Lecce è in ballo, se vincerà l’ultimo giro di danza si può avere l’opportunità di chiedere e pretendere una giusta collaborazione paritaria, o lasciar fare, offrendo ad altri la possibilità di progettare il futuro di tutti. Chi rinuncia a questa opportunità o la respinge, si assumerà tutte le responsabilità del caso.

Chissà forse sono sono pensieri in libertà, utopia, però ci si può pensare.

Ulivi del Salento, Xylella e interessi speculativi?

ph Mauro Minutello
ph Mauro Minutello

 

Roma – Il vicepresidente della Commissione agricoltura della Camera Adriano Zaccagnini, del gruppo misto, fa notare in un comunicato che nelle aree “rosse” colpite dal parassita xilella “gli alberi d’ulivo, che nei mesi scorsi avevano perso le foglie, sono in pieno vigore rigenerativo” e presentano “nuovi germogli dai grandi tronchi, nelle parti alte”.

Il deputato afferma che “il comportamento di chi ha ingenerato il panico con arrampicate falso-scientifiche e ipotizzato l’intervento massiccio di pesticidi e addirittura l’intervento UE con fondi per l’eradicazione, e’ a dir poco criminale e potrebbe celare interessi speculativi”. (ab – agrapress).

L’arte di scrivere a mano – Che fine ha fatto l’esercizio della bella scrittura?

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di Elio Ria

 

La scrittura a mano è un esercizio piacevole che dà soddisfazione. Una lettera scritta con le proprie mani ha un altro sapore linguistico ma anche una denotazione di come si è. La tastiera ha sopraffatto la biro, la vecchia cara biro, che ha scritto milioni di messaggi indirizzati a familiari e amici. Adesso un sms risolve tutto con abbreviazioni e sterile impatto emotivo. Per scrivere con la tastiera non serve una bella calligrafia essendo le lettere omologate e standardizzate secondo caratteri predefiniti.

La scrittura a mano è in disuso, appartiene al passato, sono poche le persone che ancora ne fanno uso, eppure va in qualche modo preservata anche per evitare il rischio di dipendere soltanto dalla tecnologia. Un modo per ricordare di scrivere correttamente le parole mettendo da parte le ossessive e onnipresenti abbreviazioni che sconfortano e infastidiscono. Certo bisogna rendere tutto più veloce, anche la scrittura purtroppo deve assoggettarsi a questo comandamento. Quarant’anni fa nelle scuole elementari il maestro insegnava l’arte della bella scrittura e rendeva orgoglioso lo scolaro che prima doveva cimentarsi nella brutta copia e poi nella bella copia. Ma ancora prima doveva esercitarsi con le aste e i cerchi e poi passare alle lettere tonde e miste, miste con gambe verso il basso e prolungamenti verso l’alto, in un impegno costante per un testo pulito, senza macchie e chiaro.

Adesso per molti c’è la difficoltà di realizzare manualmente e correttamente i grafemi, rendendo la propria scrittura indecifrabile con segni di scrittura nervosi e svogliati. Dopo l’Unità d’Italia la Bella scrittura è presente nei programmi formativi ministeriali per tutte le scuole ed esistevano manuali per apprenderne l’arte e imparare a scrivere correttamente.

Nostalgia? No! Piuttosto una riflessione che, al di là delle comparazioni con gli attuali  sistemi di comunicazione, invita a rivisitare un mondo di parole scritto  con gli artifici e l’estro dell’arte. Quel mondo forse oggi chiede di essere rivisitato, studiato per non continuare ad esagerare con la scrittura della tastiera.

Mannaggia Santa Pupa

 

 copertina

 

Mannaggia Santa Pupa è un’esclamazione, ingenua e simpatica. Uno sfogo utile quando prendi coscienza di non aver imparato la chitarra (pur avendo in casa un padre chitarrista), quando ti svegli al mattino con i capelli attorcigliati dallo scirocco, quando nelle campagne salentine “incontri” un panorama fatto di terra rossa, ulivi, muretti a secco e… materassi e frigoriferi abbandonati. Non è una bestemmia, Santa Pupa non è mai esistita.

Mannaggia Santa Pupa è un grumo di ricordi del protagonista, istantanee della memoria legate ai nonni, ai genitori, all’asilo con le suore, al calcio, alle angurie, al mare, che invece di finire lentamente nel dimenticatoio, diventano le pagine di questo libro. Scandite da capitoli da titoli curiosi e accattivanti: “Abbiamo consumato le lingue nei ricci”, “Suor Realina”, “Premio Pulitzer, categoria barbieri”, “Nino dei gelati”, “Ti saluto o croce santa”, “A portieri volanti”.

I ricordi personali in primo piano, dunque, e sullo sfondo il Salento (“magnifico e insopportabile”, un posto ipocrita e schiavo dello scirocco, una terra che è un caffè sospeso) e i salentini (a cui basta guardarsi allo specchio e dire a se stessi “sole, mare e vento”, sempre in ritardo, sempre lenti).

 

BANDELLA

Nella “metropoli delle angurie”, paesone di provincia situato alla fine del mondo, dove il caldo umido e appiccicaticcio dello scirocco tutto avvolge e sconvolge, nasce e cresce un ragazzino timido che fa sogni abbastanza banali. Quello di fare il calciatore. Uno alla Van Basten, il suo mito. Oppure di diventare una rockstar, pelle abbronzatissima, chitarra al collo e stuolo di fan al seguito. Invece la vita gli ha riservato un futuro diverso. Colpa del padre, Silvano il barbiere, che non gli ha mai insegnato a suonare la chitarra. Colpa della madre Rosaria, la Lumacher con la 126 beige, che lo ha sviato dalla carriera calcistica. O forse solo colpa del destino.

Il protagonista si abbandona ai ricordi, lasciandosi guidare dal flusso dei pensieri, raccontando un’infanzia in un mondo che appartiene soprattutto agli anni Ottanta. Le giornate all’asilo con Suor Realina, le estati a Mondonuovo, in campagna dai nonni, la salsa fatta in casa, il rosario e gli scherzi ferragostani, Mescia Nena, la nonna paterna, donna tutta d’un pezzo, che sembrava essere immortale. E ancora i pomeriggi scanditi dall’attesa del gelataio Nino e le domeniche dalle partite della squadra di calcio del suo paese. Paese di una terra magnifica e insopportabile, dove pullulano i cervelli di cemento armato e dove i vecchi materassi si buttano sui cigli delle strade di campagna. Una terra che è un caffè sospeso.

Ricordi, stati d’animo, riflessioni, rimpianti, per giungere ogni volta alla stessa conclusione: “Mannaggia Santa Pupa!”

 

 

142 pagine

Lupo Editore

12 euro

uscito il 17 ottobre

 

La casa del sale. Storie di un altro Salento

wilma

La Casa del Sale è un’antologia di storie, di racconti che narrano di un altro Salento e di un tempo sospeso nello spazio dell’anima. È difficile quanto inutile cercare il confine tra racconti e ricordi autobiografici a cui l’autrice attinge come a uno scrigno segreto, che custodisce frammenti preziosi che diventano nella scrittura ricami di arazzi introvabili.

Pur conservando la sua unitarietà nell’ispirazione della scrittura, il libro consta di cinque sezioni: Ritratti, Fantasticherie, Naturalia, Istantanee, Miscellanea. A ognuna corrisponde una raccolta di scritti su argomenti diversi e davvero dei più vari, dall’arte alla musica, dall’autobiografia al sogno. E così l’autrice ci accompagna in un Salento che a volte si fa paesaggio ben definito, territorio con tutte le sue delizie e le sue croci, a volte sfuma fino a diventare un anfratto nascosto dell’anima.
Nell’ultima parte del libro, l’autrice ha voluto ospitare alcuni racconti di un caro e giovane amico, Lucio Toma, la cui scrittura ben si integra con il resto dell’opera, e senza nessuna frattura, gli ultimi tre racconti costituiscono una sorta di epilogo in bilico tra sogno e realtà.

 

LA CASA DEL SALE
Storie di un altro Salento

 

In appendice tre racconti di Lucio Toma

 

ISBN 978-88-95161-93-8
cm. 15×21; 164 PAGINE; € 13,00
Collana: Racconti

 

Il bluff del “mal affaire Xylella”

 Gli stupendi uliveti acquitrinosi del cuore del bassoSalento, beni paesaggistici da-tutelare, foto di Giovanni Enriquez

Gli stupendi uliveti acquitrinosi del cuore del bassoSalento, beni paesaggistici da-tutelare, foto di Giovanni Enriquez

a cura di Forum Ambiente Salute

Le voci circolavano già da alcuni giorni, ma domenica 17 novembre 2013, tanti cittadini attenti hanno voluto verificare con i loro occhi, e si son recati nelle aree definite “rosse”, di massima pesantezza del fenomeno (dette anche “d’insediamento”), ma vi hanno trovato gli alberi d’ulivo, che nei mesi scorsi avevano perso le foglie, in pieno vigore rigenerativo, e non solo dalla base vi stanno spuntando innumerevoli polloni, ma anche nuovi germogli dai grandi tronchi, nelle parti alte. Tutto questo in uliveti abbandonati, che non hanno subito nessun intervento “curativo”, (potatura del secco o trattamenti specifici su piante e suolo) ed è tutto un tripudio di germogli e di nuova vivissima vegetazione!

Le tante foto, che smascherano il bluff del “mal affaireXylella”, messe subito in rete, hanno avuto, in pochissimo tempo, un’ immensa condivisione che continua in queste ore.

L’indignazione è tanta nei cittadini del Salento, e non solo! Ad accorgersi di tutto questo anche alcuni giornalisti più attenti e critici che, nei giorni scorsi, sui quotidiani locali avevano parlato di ulivi, che come dei “Lazzaro” dei Vangeli, stavano risorgendo proprio nelle aree dove gli strani tecnici, comparsi nella vicenda, avevano parlato di “cimitero” di ulivi.

Dicevano, dopo solo pochissimi giorni di sopralluoghi: “le piante d’olivo si son eradicate lì da sole, sono morte e non c’è alcuna speranza!”. E, poi, persino chi diceva: “i terreni lì sono ormai contaminati e mai più vi potrà essere ripiantato l’olivo”, sebbene poi anche alcune varietà di olivo, nella “zona rossa”, non hanno mai presentato alcun disseccamento! L’area interessata comprende dagli 8.000 ai 10.000 ettari, gli uliveti su cui penderebbe lo spettro dell’eradicazione, che taluni stanno tentando di imporre, contano una numerazione che va dai 6.000 ai 600.000 alberi d’olivo, più i mandorli, e tutte le altre specie su cui potenzialmente potrebbe vivere la Xylella, oltre alla correlata flora autoctona dei canali e dei “sipali” (la macchia di vegetazione spontanea lungo i margini dei campi), delle iper-tutelate macchie, più il verde urbano, privato, pubblico e stradale! Numeri biblici, per uno scenario di devastazione da film di fantascienza!

ph Marco Cavalera
ph Marco Cavalera

Nocivi pesticidi contro i potenziali vettori della Xylella – le cicalellidi – ( e di conseguenza contro tutti gli altri insetti) e diserbanti chimici da gettare con la scusa di eliminare tutti i definiti “serbatoi di inoculazione”, (si parlava, persino, di irrorazione dall’alto con l’uso degli aerei), e squadre, financo, di militari, lanciafiamme contro erbe e muschio, ed eradicazioni! Si è parlato, non a caso, con preoccupazione e rabbia da parte dei cittadini, di “shoah degli ulivi”, e di “olocausto chimico del Salento”, e in tanti hanno perso il sonno per via degli incubi di tutto questo assurdo scenario da guerra contro tutto ciò che vuol dire Salento! La sintomatologia degli alberi l’avevano definita, gli strani tecnici, “complesso del disseccamento rapido dell’ulivo”, forse dovremmo parlare di “indotta psicosi dell’agognato, da alcuni, disseccamento rapido degli ulivi salentini”, che tutto sono meno che disseccati e morti, ma un tripudio di vita che ritorna! E, in effetti, non nutrivamo dubbi sulla proverbiale forza rigenerativa dell’olivo, e non a caso, il suo ramoscello è a contorno di ogni stemma civico dei comuni d’Italia!

Ulivi vita millenaria da salvare - ''l'Ulivo urlatore'' - Salento, entroterra otrantino, ARCHIVIO FORUM AMBIENTE E SALUTE
Ulivi vita millenaria da salvare – ”l’Ulivo urlatore” – Salento, entroterra otrantino, ARCHIVIO FORUM AMBIENTE E SALUTE

Avevamo, per questo, anche invitato, seguendo i più attenti veri tecnici scesi in campo, a considerare e studiare il fenomeno sotto molteplici aspetti, considerando l’effetto dello stress idrico estivo, particolarmente prolungato, tanto più nella fascia occidentale salentina, ed altri fattori chimico-fisici, di natura antropica, o meno, riguardanti le falde, l’aria, i suoli, l’ inquinamento più o meno doloso che fosse, e avevamo invitato ad indagare le pratiche insane, svolte in taluni oliveti, avvelenati dalla agrochimica da troppi anni irresponsabilmente, per capire i motivi di estivazione con disseccamento di alcuni rami, o di indebolimento immunitario, con regressione vegetativa, degli alberi; fattori, che andavano studiati con rigore e serietà, e che avevano favorito l’insorgenza, infatti, non di uno solo, ma di più patogeni, come anche da tutti i tecnici riconosciuto, sugli alberi indagati presentanti la sintomatologia in questione.

Il brutto gioco messo ad arte in traballanti piedi, e che oggi crolla rovinosamente, è ormai fin troppo palese. Dopo esser stati chiamati ad intervenire per studiare la particolare sintomatologia del disseccamento di alcuni rami degli ulivi, (chiamati anche da alcuni nostri attivisti, cittadini sensibili all’ambiente), dei tecnici preposti giunti sui luoghi vi trovano sugli alberi diversi patogeni, insetti e muffe, ma anche poi un batterio, di questo i primi studi ben dimostrano essere non patogeno per alcuna coltura, e addirittura un batterio che da studi scientifici pubblicati in letteratura, inoculato, negli esperimenti condotti sull’ulivo, non ha dato mai sintomatologie patogene “Si dà il caso che le indicazioni molecolari acquisite a Bari forniscano buoni motivi per ritenere che il ceppo salentino di X. fastidiosa appartenga ad una sottospecie (o genotipo) che non infetta né la vite né gli agrumi, e che esperienze statunitensi (California) indicano come dotato di scarsa patogenicità per l’olivo” (articolo pubblicato il 30 ottobre 2013 sul sito della Accademia dei Georgofili, per l’ ‘approfondimentto sul caso degli olivi salentini).

ph Marco Cavalera
ph Marco Cavalera

Per cui, dai tecnici locali, si è presentato tale batterio, qui nel Salento, come concausa della sintomatologia degli ulivi; sintomatologia bollata subito come “terribile contaminante epidemia senza alcuna speranza”; finché, poi, nelle uscite sui media più nazionali, dai medesimi tecnici, il batterio trovato è stato presentato come il principale imputato responsabile, il “batterio killer”! E così, è stato anche presentato da tutti gli enti sciacallo, e politicanti, accorsi sulla scena come avvoltoi per banchettare del Salento e sui possibili lauti fondi europei, nazionali e regionali così ottenibili.

Dove è il gioco allora: quel batterio è una sottospecie della Xylella fastidiosa, che per i danni fatti da altre sottospecie diverse del medesimo batterio, soprattutto in aree extra-europee, soprattutto in America, è stata inclusa come patogeno da quarantena in Europa! E, l’Europa, pertanto in sua presenza invita i paesi membri ad attivarsi per eradicare il batterio o per contenerlo! Mentre qui tutto questo lo si voleva fare, da parte dei tecnici scesi in scena, nella maniera più radicale e forsennata possibile, in forme estremiste pazzesche mai vistesi prima: eradicando la foresta degli ulivi del Salento e facendo un deserto piro-chimico avvelenato di ogni cosa! Per di più i cittadini mobilitatesi da subito, davanti a una sentenza troppo efferata da parte di uno studio durato pochi giorni, hanno scoperto che gli stessi enti, che oggi volevano imporre la quarantena da Xylella diffondendo terrore in tutt’Europa, in Italia e nel Salento, avevano tenuto tre anni fa, un corso, e proprio in Puglia, per formare tecnici sull’applicazione della “quarantena da Xylella fastidiosa”, spiegando, allora, come si legge ancora sui loro siti internet, che di questo batterio non c’era traccia in Europa, e coinvolgendo le università d’oltreoceano, oggi, da quegli stesi enti, chiamate qui ad intervenire come novelli “salvatori”, in un clima oscurantista di nulla trasparenza scientifica! Tanti interrogativi, dunque, su tutta questa vicenda.

ph Mauro Minutello
ph Mauro Minutello

Per di più l’innocuo batterio potrebbe essere persino endemico ed endofito, come anche ipotizzato da alcuni stimati docenti universitari locali, ovvero presente ovunque e da sempre nel Salento in maniera del tutto asintomatica, ergo, da qui, la possibilità di distruggere senza freni, con l’estremizzazione della quarantena, l’intero paesaggio salentino, e di emungere immense risorse statali e comunitarie a “difesa” dell’Italia e dell’Europa, da cosa dunque?! Il tutto condito da un’irresponsabile, per non dire altro, clima terroristico strumentale, mistificatorio e falso scientifico. Senza una diagnosi alcuna, o con una traballante diagnosi, vacillante e scarna, contestata anche pubblicamente da locali ricercatori universitari, si voleva procedere, o meglio, imporre con sanzioni e coercizioni, persino contro chi si sarebbe opposto: la TERAPIA FINALE, che ha richiamato alla mente i terribili filmati, (ridiffusi non a caso in rete dai virtuosi cittadini, in questa folle emergenza speculativa devastatoria!), degli americani che gettavano il diserbante “agente orange” sui bordi dei canali e sulla tropicale lussureggiante foresta vietnamita per defogliarla, disseccando ogni cosa, e avvelenando le genti locali con conseguenti e mostruosi effetti mutageni sulla prole per decenni. Il progenitore dei moderni odiosi diserbanti chimico-industriali da vietare!

Li abbiamo chiamati per osservare, analizzare e curare una sintomatologia particolare e poco nota degli ulivi, al fine di un’estate siccitosa, e di una prolungata estate dal punto di vista termico, fenomeno naturale possibile, che ha portato anche quest’anno, eccezionalmente, ad anticipate fioriture autunnali di tantissimi alberi nel Salento, e questi non solo non studiavano e curavano un bel nulla, ma si dedicavano a promuovere l’eradicazione del presunto paziente e di ogni possibilità di sua rigenerazione, avvelenando e cancellando tutto il vivente! Da troppo tempo, ormai, stiamo assistendo a vergognose e continue campagne di terrorismo speculativo sui naturalissimi parassiti delle piante, non ultima quella sui nostri lecci, in cui strani tecnici e politicanti, gridano al disastro, e mica per curare, ma solo per avere fondi pubblici per estirpare le piante, o potarle a morte, e per spandere tonnellate di prodotti chimici nocivi di ogni genere! Piante che diventano lucrosa biomassa. Interventi chimici che non hanno nessun effetto curativo, ma incrementano i danni a piante ed ambiente, mentre dove non giunge la mano sporca e velenifera dell’agro-chimica-speculativa i boschi di leccio son in perfetta ripresa! Così per il volgare mercato delle biomasse vengono fatti fuori con mille falsità pseudo-tecniche, falso-scientifiche e falso-forestali i nostri bellissimi e preziosissimi pini mediterranei ovunque, e non solo i pini! Un’ecatombe speculativa, immorale e intollerabile da fermare con massima urgenza, procedendo alle ripiantumazioni delle medesime specie!

ph Marco Cavalera
ph Marco Cavalera

Ed oggi la stessa malsana macchina guarda famelica agli ulivi! Le parassitosi sono fenomeni naturalissimi e transitori, e al più effetti di squilibri in cui intervenire ricostruendo gli ecosistemi, ripiantando di più, anche proprio le piante colpite, e favorendo così anche il ritorno dei predatori naturali, quanto più autoctoni possibile, dei parassiti, per ripristinare equilibri alterati a volte dallo stesso uomo; ricreando gli habitat degli insetti insettivori, le macchie ripariali e dei “sipali”, le stesse che oggi si vorrebbero cancellare nel Salento, in preda alla follia più cupa; non, dunque, cancellando parassiti, piante parassitate o semi-parassitati, e gli eventuali insetti vettori, cancellando ogni insetto ed il loro ecosistema, come nel parossismo intollerabile raggiuntosi con il “mal affaire Xylella” ora in Puglia! Dobbiamo, invece, aumentare non diminuire la biodiversità!

Attenti agronomi, ancora chiamabili così con onore, han ad esempio osservato come a Barcellona tante palme son sane, e sopra vi nidificano i pappagallini mediterranei ed europei della specie Parrocchetto dal collare (Psittacula krameri), questi stessi parrocchetti son stati visti predare in volo dei Punteruoli rossi (il parassita delle palme) anche nel Salento! Ma c’è persino chi, nel Salento, vede i pappagallini giunti in migrazione (come da sempre) e, anziché gioire per questa nota colorata di biodiversità comunque mediterranea da favorire, grida all’animale alloctono, sbagliando, e ne chiede lo sterminio, poveri ciechi la cui ignoranza è promotrice di intollerabili ecocidi, e poi chiede la nociva fito-chimica industriale per salvare le palme alloctone … che non ha salvato un bel nulla! Contraddizioni che nascono da una non conoscenza della Natura e dei suoi equilibri.

Così si deve piantare più palme mediterranee in reazione, non smettere di piantare palme, come la Palma da dattero (Phoenix dactylifera) e la italica Palma nana (Chamaerops humilis).

In Puglia ora, sul “mal affaire Xylella”pendono pesanti gli spettri della speculazione del mercato della biomasse, delle multinazionali della agro-chimica industriale, persino, degli OGM per produzione di biocarburanti, come quelli di mille speculazioni consuma suolo. Tutto quanto scoperto e diffuso in rete dai cittadini in pochi giorni, è impressionate. I legami di accordi e convegni di diversi enti ed associazioni di categorie, scese in scena in questi giorni, con le ditte delle industrie che speculano sulle biomasse; il finanziamento delle ricerche di università d’oltre oceano, oggi coinvolte nella questione Xylella in Puglia, da parte di multinazionali della agrochimica e degli OGM, il progetto Alellyx (che è impressionantemente l’anagramma del nome Xylella, con cui in paesi poveri i colossi mondiali delle multinazionali degli OGM e dei brevetti sulle sementi, son entrare ad egemonizzare le economie dei paesi del sud America, utilizzando la Xylella, come cavallo di Troia, per imporre varietà brevettate, presentate come ad essa resistenti, al posto della tradizione agricola delle locali genti per la produzione in prevalenza di bioetanolo); ecc.

ph Mauro Minutello
ph Mauro Minutello

Nei dossier e comunicati dei giorni scorsi abbiamo riportato solo alcune delle tantissime contraddizioni della vicenda, per cui rimandiamo a quelle pagine già diffuse ed inoltratevi.

Qui si osservi solo come l’altro giorno, nelle aree definite più colpite, dove i giornalisti hanno ben visto e segnalato i resuscitati olivi, (imbarazzanti per diversi di quei tecnici!), tecnici, gli esperti americani, e tantissimi giornalisti e curiosi, scorrazzavano sui presunti terreni contaminati senza alcuna protezione di profilassi, in una spettacolarizzazione oscena e ridicola, in cui si andava a caccia di insetti con i retini! Se vi fosse stata una epidemia, agire in tal modo voleva dire permettere ai giornalisti convenuti da tutta la Puglia e non solo, di infettare l’intera regione, una volta spostatisi da lì con le loro medesime suole delle loro scarpe che avevano calpestato i tanto “contaminati” terreni dal “terribile” batterio! Un’epidemia ad intermittenza, insomma, e con tante possibili deroghe alla bisogna! Ora dovremmo ribattezzarlo il “batterio della risurrezione”!?

Di fronte agli olivi che risorgono più onorevole sarebbe un “scusate ci siamo sbagliati!”, invece crediamo sia anche possibile assistere ancora a disonorevoli arrampicate falso-scientifiche ed illogiche sugli specchi! Questa segnalazione poi degli olivi che risorgono doveva venire data con giubilo da quegli stessi tecnici, ma invece … nulla, e come sempre devono essere giornalisti attenti e cittadini a colmare queste preoccupantissime mancanze! Più d’uno, oggi, dovrebbe pensare a dare le dimissioni, di fronte a questa scandalosa vicenda, e ci auguriamo che i futuri urgenti quadri tecnici e politici sian fatti di persone responsabili, preparate e di alta onestà intellettuale e scientifica, nonché persone attente davvero alla cura dell’ambiente, e senza ombra di rapporto con le industrie della agro-chimica, delle biomasse per le agro-energie, e lobby di altri interessi consuma-suolo.

Sia questa l’occasione per fare rinascere nel segno della salubrità il paesaggio pugliese, all’insegna delle pratiche virtuose e dei principi che abbiamo raccolto nel “Manifesto per l’urgente riconoscimento del vasto ecosistema dell’uliveto quale Agro-Foresta degli ulivi di Puglia!”

(vedi link: http://forumambiente.altervista.org/manifesto-per-il-riconoscimento-del-vasto-ecosistema-dell-uliveto-quale-agroforesta-degli-ulivi-di-puglia/ )

Vanno strappate a tutti gli “agronemici” le decisioni per il nostro futuro! Ringraziamo i tantissimi cittadini che hanno permesso, con le loro innumerevoli professionalità di smascherare il “mal affaire Xylella”. La nota più positiva, di tutta questa volgare mostruosa vicenda, è stata il loro impegno, come il loro cuore, la loro indefessa virtù, il loro Amore per il Salento!

Ora nel segno degli ulivi che riverdeggiano dobbiamo difendere tutti insieme la nostra salute, il nostro paesaggio, la nostra storia e la nostra biodiversità, nonché la nostra salubre tradizionale economia costruttrice di paesaggio pittoresco, attraverso il coinvolgimento di tutti gli enti ancora sani della nostra Regione, Nazione e Comunità Europea, e chiedendo tutela in tutte le sedi preposte per fermare la follia speculativa della “quarantena” pro deserto piro-chimico artificiale del Salento. E dovevano essere i medesimi tecnici e amministratori a spiegare anche all’Europa che non era il caso che si applicasse la quarantena, date le caratteristiche del batterio salentino e gli studi lacunosissimi ancora in corso, invece hanno fatto l’esatto contrario! Assurdo! 

La Regione Puglia deve d’urgenza fermare i 2 milioni di euro stanziati ai consorzi di bonifica, nel quadro della quarantena, per il biocidio della flora dei canali, che son i rivi, i fiumi di Puglia, dove vi è il rischio non solo del taglio meccanico dei canneti, che rinascono, ma anche dell’uso della chimica ad avvelenamento immorale di suoli, aria, ed acqua, intollerabile, e il serio rischio di taglio eradicativo degli alberi ripariali, protetti, che con le loro radici trattengono gli argini terrosi degli stessi rivi. Ma in questa corsa forsennata tutto il vietato diventa possibile, in un carnevale della politica amministrativa senza alcuna logica, e suicida per il Salento ed i salentini!

Quei soldi siano ridestinati ad opere di rimboschimenti con piante autoctone naturali NO OGM , magari da fare eseguire ad enti pubblici (eventualmente anche gli stessi) e privati! Come agli orti botanici universitari, e alla Forestale! Più alberi sui canali, non l’eradicazione degli esistenti che finirebbero come biomassa chissà dove, spacciati anche come lucroso rifiuto che non sono!

La Comunità Europea deve indagare su tutto quanto stava avvenendo, a danno di ogni cittadino europeo qui in Puglia, nel “mal affaire Xylella”, e avviare inchieste urgenti perché simili manovre oscene non si ripetano mai più, né qui, né altrove!

Il vero problema principale e precedente da risolvere è l’uso della chimica nell’olivicoltura che va risolto imponendo la conduzione dell’oliveto all’insegna delle filosofie del biologico e delle buone pratiche agricole. Ed oggi, invece, si voleva persino aggiungere chimica a chimica (quando una delle potenziali cause che può rendere un agente da endofito e innocuo a patogeno è proprio lo stress chimico!).

Il danno di immagine all’economia salentina creato da questi irresponsabili nel “mal affaire Xylella” è immenso ed inquantificabile, ma è l’ultimo dei problemi oggi, e siamo certi sarà risolto in breve tempo, ora che la stessa Natura, come sempre, dopo le copiose piogge autunnali, ha smascherato il piano di ecatombe biocida che, taluni, stavano portando avanti, progettando di fare di 10.000 ettari di Salento, e forse oltre, letteralmente “tabula rasa”! Arrivando persino a dire: “anche senza sintomi, piante da abbattere!”. Bestemmie, insomma, contro il sacro olivo ed il Salento terra di Atena dei messapi, dea dell’olivo! Un progetto inqualificabile dove ognuno ha il diritto di aggiungervi tutti gli aggettivi che ritiene più opportuno!

 

ph Mauro Minutello
ph Mauro Minutello

 

All’attenzione di

ASSESSORE RISORSE AGROALIMENTARI

REGIONE PUGLIA

f.nardoni@regione.puglia.it

segreteria.agricoltura@regione.puglia.it

g.bianco@regione.puglia.it

 

DIRETTORE AREA DI COORDINAMENTO POLITICHE PER LO SVILUPPO RURALE – SERVIZIO AGRICOLTURA E

OSSERVATORIO FITOSANITARIO

REGIONE PUGLIA – BARI

servizio.agricoltura@regione.puglia.it

 

P.C.

MINISTRO POLITICHE AGRICOLE ROMA

ministro@mpaaf.gov.it

ministro.caposegreteria@mpaaf.gov.it

capogabinetto.segr@mpaaf.gov.it

 

COMMISSARIO AGRICOLTURA

E SVILUPPO RURALE – U.E.

dacian.ciolos@ec.europa.eu

roger.waite@ec.europa.eu

georg.haeusler@ec.europa.eu

 

Al Presidente della Regione Puglia

segreteria.presidente@regione.puglia.it

presidente.regione@pec.rupar.puglia.it

 

Al Vicepresidente della Regione Puglia

vicepresidente@regione.puglia.it

 

All’Assessore per la Qualità e Assetto del Territorio

segreteria.territorio@regione.puglia.it

assessore.territorio@regione.puglia.it

assessore.assettoterritorio.regione@pec.rupar.it

t.abbadessa@regione.puglia.it

 

All’Assessore Qualità dell’Ambiente Reg. Puglia

segreteria.ambiente@regione.puglia.it

assessore.ambiente@regione.puglia.it

l.nicastro@regione.puglia.it

l.abadessa@regione.puglia.it

 

ARPA Puglia

dg@arpa.puglia.it

g.assennato@arpa.puglia.it

 

CORPO Forestale dello Stato

coor.puglia@corpoforestale.it ,      

cs.otranto@corpoforestale.it ,

cs.tricase@corpoforestale.it ,

cp.lecce@corpoforestale.it

n.masiello@corpoforestale.it,

 

Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici

– Puglia

sbap-le@beniculturali.it

 

Al Presidente della Provincia di Lecce

presidenza@provincia.le.it

 

Difensore Civico Provincia di Lecce

sen. Giorgio De Giuseppe

difensorecivico@provincia.le.it

ph Mauro Minutello
ph Mauro Minutello

 

Info:

Coordinamento Civico apartitico per la Tutela del Territorio e della Salute del Cittadino

rete d’azione apartitica coordinativa di associazioni, comitati e movimenti locali e non, ambientalisti, culturali e socio-assistenziali

sede c/o Tribunale Diritti del Malato – CittadinanzAttiva

c/o Ospedale di Maglie “M.Tamborino”

Via N. Ferramosca, c.a.p. 73024 Maglie (LECCE) e-mail:coordinamento.civico@libero.it , coordinamentocivico@yahoo.it

 

Forum Ambiente e Salute del Grande Salento, rete apartitica coordinativa di movimenti, comitati ed associazioni a difesa del territorio e della salute delle persone

Lecce, c.a.p. 73100 , Via Vico dei Fieschi – Corte Ventura, n. 2

e-mail: forum.salento@yahoo.itforum.salento@libero.it , gruppo facebook:http://www.facebook.com/groups/123107425150/ Sito web:http://forumambiente.altervista.org/

Spazi Popolari Sannicola (Lecce)

e-mail: spazipopolari@gmail.com , Sito web: http://spazipopolari.blogspot.com

I disegni a penna di Alessandro Amoroso

amoroso

di Gianni Ferraris

 

Ancora due giorni, fino al 20 novembre, c’è la possibilità di vedere la mostra di Alessandro Amoroso, giovanissimo artista di origini baresi presso il Caffè Matteotti, nella rassegna Artè. Sono disegni a penna, sono tratti, dettagli. Il particolare è reso in maniera quasi “maniacale”. Il ragazzo è giovanissimo ma ha “mestiere”, lo si vede anche in alcuni lavori ad olio che ho avuto la fortuna di vedere.

Nei disegni c’è il fumetto, ci sono, come mi dice lui stesso, emozioni e sensazioni che arrivano da letture e ascolto di musica, un sottofondo che si percepisce in chi guarda. Ci sono atmosfere oniriche o talmente reali che pare di toccarle, di ricordarle perchè si sono già lette, ascoltate, viste da qualche parte, in qualche vita precedente, in qualche volo di fantasia. Abbiamo chiacchierato, davanti a un bicchiere di vino.

amorosouno

 

“Alessandro Amoroso, anni?”

“Sono del 91”

 

“Stai studiando?”

“Ho fatto il professionale di grafica, ora sono iscritto all’accademia qui a Lecce”

 

“Questi disegni stanno fra la grafica il fumetto e che altro?”

“Definiamole illustrazioni. Certo, arrivo dalla grafica, poi per passaggi successivi sono arrivato qui. Studio il dettaglio nel tratto, mi piace il particolare. Solitamente si cerca ul quadro generale nel quale inserire ogni sfumatura, ogni particolare. Mi piace dire che c’è un aspetto sociologico: l’insieme (la società) e il singolo. Quello che troviamo nei disegni lo vediamo anche nella realtà”

 

“L’ispirazione da dove arriva?”

“Uno in particolare (due uomini davanti ad un saloon n.d.r.) l’ho fatto quando avevo appena letto Steinbeck. Diciamo che le idee arrivano come flash, ascoltando musica, vedendo un film.”

 

“Il disegno è una meta o un passaggio?”

“Lo definirei passatempo. Mi succede di disegnare ascoltando lezioni o altro. Questi disegni li faccio d’impeto, con la tela invece è diverso, non mi definisco artista, devo ancora fare un pò di strada. Sono due anni che dipingo ad olio.”

 

“Hai fatto mostre, esposizioni e quali progetti per il futuro?”

“Qualche settimana fa con due amiche ho esposto a Monteroni, un mio pezzo è là. Per quanto riguarda il futuro sono aperto a tutto. Pensavo di inviare qualche disegno, scrivo racconti brevi. Leggo molto. La scrittura mi piace, è creatività come la pittura”

 

In sostanza è un ragazzo che sta studiando il mondo come gira. In un’Italia allo scatafascio non è poco, non mi ha parlato di volersene andare anche se, come tutti i ragazzi, ne avrebbero mille e un motivo.

“Auguri”

 

L’inno alla leccesità: Arcu te Pratu

Foto 6 Arco di Prato
Nel 1938 viene invece pubblicato l’inno alla leccesità: Arcu te Pratu (Corallo-Corallo). Il brano, scritto da Menotti Corallo e musicato dal fratello Gino, era cantato dal “Trio leccese”.
Sul finire degli anni Settanta fu Gino Ingrosso, col Gruppo Liscio del Salento (che annoverava nelle sue fila Annabella, Ciccio Perla e Luigi De Gaetano, in arte Ginone, recentemente scomparso) ad inciderlo come brano d’apertura dell’album “Le più belle canzoni leccesi”.
Il merito del maestro Ingrosso fu anche quello di scriverne la musica, dato che lo spartito originale non era disponibile. Fu anche cavallo di battaglia di Bruno Petrachi, grandissimo interprete della canzone leccese.
Queste ultime più recenti versioni, tuttavia, riprendevano tre o al massimo quattro delle undici strofe che originariamente costituivano Arcu te Pratu e che, nel complesso, forniscono un fresco e gustoso quadretto di una Lecce che, nei primi decenni del Novecento, doveva essere più viva di quanto si potrebbe immaginare.
Ecco dunque la descrizione dei caffé all’aperto, stracolmi di persone che discutono degli argomenti più vari e che “Cu lingua a serpente / Te tagghianu tutta la gente / E pe’ ogn’unu ca passa, / Ca trase o ca esse / Nna fila te cuerni ni tesse”; si parla anche dei costumi delle ragazze che sono “Tutte ngraziate / gentili, sapute, ngarbate” e delle loro madri che, pur di trovare un buon partito per la figlia, sono disposte a sopportare i numerosi corteggiatori.
E ancora, avanti, si evidenzia quel cambiamento radicale, dal punto di vista non solo sociale ma anche urbanistico, che il Capoluogo subiva “Cu tantu rreuetu / Palazzi menati / Patruni e nquilini sfrattati / Te iti surgere a bbuelu / Ddu menu te criti / Casedhe te tufi e pariti” e poi della “mezza colonna” posta fuori Porta Rudiae.
Ma Corallo canta anche dell’arguzia dei leccesi e della loro capacità di riuscire a prendere col sorriso anche le situazioni più gravi, come del caso di quel pover’uomo che, trovandosi senza soldi e con la casa sotto sequestro, pensò bene di sostituire la mobilia con dei blocchi di pietra, facendo rimanere a bocca aperta l’esattore.
(da http://sataterra.blogspot.it)

Sfogliando un libro di letteratura…

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di Livio Romano

 

Uno sgomento mi ha preso sfogliando il libro di letteratura del quarto ginnasio di mia figlia. Professoresse all’ascolto, spiegatemi. E’ una scelta dell’insegnante questo studiare la roba per “aree d’interesse”, per argomenti, per mappe mygod concettuali? Oppure si fa proprio così oggigiorno al liceo? Tipo, la fiaba. Un guazzabuglio che mette insieme i fratelli Grimm, Calvino, Esopo e chi più ne ha più ne metta. Poi si approda alla “crisi” passando per “il racconto realistico” e altre amenità che a me fanno orrore.

E io che credevo stesse studiando I Sepolcri, come si deve a ogni quattordicenne che intraprenda studi classici. Niente più seguire la storia della letteratura e della cultura? Solo queste “reti” di “narrazioni”? Sono sbigottito, sul serio.

Io so una cosa. Ok. Al liceo poi si studia tutto ben benino. Ma se nel primo biennio non avessi navigato dall’illuminismo al romanticismo al decadentismo al realismo all’avanguardia scoprendo via via Voltaire, Allan Poe, Wilde, Baudalaire, Mallarmè, Rimbaud, Joyce, Kafka, Mann, Zola, Flaubert, Ibsen, Beckett e tutto il resto DEL BEN DI DIO, be’ nessuno poi più me ne avrebbe parlato né, incontrandoli, io li avrei saputi collocare in un’epoca, uno spirito del tempo, un movimento, una filosofia.

Qualcosa (poca, pochissima roba) in letteratura inglese, ma nulla di più.

Paesaggi, Giardini, Archeologie. A Maglie e a Lecce

INVITO 21 NOVEMBRE

La pianificazione paesaggistica: strumenti, obiettivi, progetti e partecipazione sociale -Maglie 21 novembre 2013-

Paesaggi, Giardini, Archeologie  -Lecce 29 novembre 2013-

Il 18 novembre 2013 alle ore 11,00, presso la sede della Presidenza  della Regione Puglia, alla presenza della vicepresidente Angela Barbanente saranno presentati ufficialmente entrambi gli eventi. Siamo tutti invitati a partecipare.
Si prega inoltre di provvedere, al più presto, alla registrazione della partecipazione agli eventi in quanto il numero di posti disponibili è in via di esaurimento.  
locandina 21 novembre

Mal affaire Xylella

ph Marco Cavalera
ph Marco Cavalera

di Oreste Caroppo

 

Lo sporco squallido e abominevole “mal affaire Xylella” evidenzia purtroppo forte il problema dell’ istruzione in Italia, abbiamo risolto l’analfabetismo, ma non si può avere una popolazione per oltre il 90% completamente digiuna dei rudimenti basilari della biologia, e più in generale delle scienze. Non è questione qui di formazione universitaria, ma di formazione di base!

Il mal funzionamento dell’ istruzione poi permette a dei farabutti ascesi a settoriali conoscenze, di costituire una casta dalla quale presentare traballanti costruzioni pseudo-scientifiche per imporre i loro piani nel pubblico spaventato appoggio! Una meschinità. Ma quand’anche non si hanno rudimenti di liceale biologia, almeno la logica, la logica, che è innato appannaggio di tutti, si cominci ad applicare quella, e le contraddizioni così emergono ugualmente palesi; e le contraddizioni o son frutto di incompetenza o di macchinazione, e nell’ uno e nell’altro caso quanto sta accadendo va fermato in tempo!
Chi poi specializzato nei settori più coinvolti vede e può vedere più degli altri, ha una responsabilità morale e professionale, e non può continuare a tacere!

ph Marco Cavalera
ph Marco Cavalera
ph Marco Cavalera
ph Marco Cavalera
ph Marco Cavalera
ph Marco Cavalera
ph Marco Cavalera
ph Marco Cavalera

NdR:

https://www.facebook.com/notes/tin-up/lincognita-fantomatica-e-fastidiosa/181075572091756

Lecce nella ‘short-list’ delle candidate italiane a Capitale europea della Cultura 2019

lecce piazza duomo

Tra le sei città italiane candidate a  Capitale Europea della Cultura 2019 vi è anche Lecce, oltre a Cagliari,  Matera, Perugia-Assisi, Ravenna e Siena. Sono state scelte dalla giuria europea, presieduta da Steve Green, e comunicate dal Ministero dei Beni Culturali e del Turismo.

“La giuria europea, presieduta da Steve Green e composta da membri italiani e stranieri, scelti e concordati con la Commissione Europea – si legge nella nota diffusa dal Mibact – al termine delle audizioni, quale momento conclusivo della valutazione intrapresa dopo il 20 settembre 2013, data ultima di consegna dei dossier di candidatura, ha annunciato la redazione di un testo di preselezione delle città che concorreranno all’ultima fase dell’Azione comunitaria “Capitale Europea della Cultura”.

Come scrive la Commissaria europea per l’istruzione e la cultura, Androulla Vassiliou, la sola nomination “può arrecare alle città interessate importanti benefici a livello culturale, economico e sociale, a condizione che la loro offerta sia inserita in una strategia di sviluppo a lungo termine basata sulla cultura”.

La giuria tornerà a riunirsi nell’ultimo trimestre del 2014, per valutare i progetti modificati delle città preselezionate, sulla base delle raccomandazioni che saranno formulate dalla giuria stessa.

 

Basilica_di_Santa_Croce_e_Celestini_Lecce

lecce piazza duomo

Fine pasto salentino

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di Francesco Giannachi

Fine pasto carico di struggenti ricordi (non solo gastronomici) ed innumerevoli suggestioni per chi è lontano ma ama valorizzare la propria identità e quella del luogo in cui vive.
Dal Salento le ultime melagrane, “ta arudia” per noi greco-salentini, ancora dolcissime, ed i fichidindia, “ta sicaindia”, ma quelli autunnali più sodi e croccanti

2013, di nuovo alle Terme – Il mio amico R.

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di Rocco Boccadamo

 

L’odierna giornata di venerdì è nata, andata avanti e terminata, ininterrottamente immersa in un’ovatta color grigio scuro di brutto tempo, sotto la pioggia senza un attimo di tregua, tanto da scoraggiare i progetti di uscita per una passeggiata in giro.

Condizioni climatiche a parte, di buonora, nell’abituale dormiveglia rilassato e rilassante del fango, non so come sia successo, il pensiero del ragazzo di ieri ha avuto per oggetto e obiettivo un amico, R., coetaneo novembrino del 1941, appartenente a una famiglia compaesana numerosa, penultimo di ben sette figli, fra maschi e femmine, l’unico del nucleo ad aver avuto spontanea e precisa predisposizione per lo studio.

Un bravo soggetto, R., educato e compito sin da piccolo, anche se un po’ timido e introverso. Dopo le elementari, frequentate con il medesimo maestro Alfredo, abbiamo proseguito, insieme e parallelamente, anche le medie e i primi corsi delle superiori.

Sennonché, intorno ai diciassette anni, R. rimase vittima di un malaugurato incidente domestico, precipitando dal tetto, sfondatosi, di un vano deposito situato nel giardino di casa e fracassandosi più parti del corpo, con danni gravi, in particolare, al femore di una gamba. Passaggio tristissimo per il buon R., serbo ancora davanti agli occhi l’arto sospeso o appeso in alto, rispetto al letto, per lungo tempo, fra i dolori e le sofferenze del mio povero amico.

La caduta si riverberò talmente pesante, tra iter di guarigione sommaria, rieducazione, eccetera, con vai e vieni ripetuti da casa all’ospedale, da impedire all’interessato di iscriversi regolarmente e frequentare i corsi a scuola, subendo, in pratica, la perdita di un anno.

Per via del buon legame che ci univa da sempre, nella circostanza dell’infortunio, ricordo di essere stato particolarmente vicino all’amico, sovente mi trattenevo accanto al suo letto, quasi alla stregua degli stretti familiari, seguivo tutte le fasi sanitarie e di recupero.

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Dicevo, prima, che R. era un soggetto buono, riservato e introverso. Alla luce di ciò, talvolta finiva con l’essere oggetto di scherzi, critiche o burle maliziose per opera dei compagni pari età.

Ad esempio, in un certo periodo, suo padre gestiva, nella piazza del paese, un esercizio di macelleria, contraddistinto dall’insegna, del resto comunissima, “CARNI SCELTE”. Noi del gruppo di amiconi, tutte le mattine impattavamo in primo piano con detta insegna, giacché attigua alla fermata della corriera per Maglie e Lecce e, ogni volta, restavamo colpiti dalla coppia di parole, invero in netto contrasto, tutt’altra cosa nell’enunciazione, rispetto al corno, di mucca o di bue, che restava abitualmente appeso a un gancio, fissato sul muro fuori dall’esercizio commerciale.

Facile quindi, in occasione degli incontri con R., contestargli, con tono di sfottò, quella contraddizione, osservandogli letteralmente: ”Figurarsi se non si trattasse di carni scelte! Chissà quali schifezze vedremmo appese!”.  E via a ridere, lo faceva anche R.

In una successiva stagione, il genitore si occupava della vendita di meloni e angurie, fatti arrivare dalle zone di produzione del brindisino; in questa circostanza, Renato soleva dare una mano all’attività, collaborando alla vendita e, però, noi discoli, se per caso capitava qualche frutto sfatto o ammaccato, non perdevamo l’occasione per rinfacciargli la bassa qualità della merce.

In un’altra fase, ancora, gli affari di famiglia erano incentrati sulla conduzione di un bar, comprendente fra il resto, la produzione artigianale di piccoli quantitativi di gelato, attraverso un recipiente di metallo cilindrico, immerso in un tino pieno di ghiaccio, che si faceva ruotare per mezzo di una manovella, sino a ottenere il congelamento della materia prima, in una piccola serie di gusti, approntata e immessa nell’aggeggio in precedenza.

Anche intorno a quest’ultimo business, non mancavano gli amici bontemponi, magari per cercare di rimediare qualche mezzo cono di gelato, pronti in ogni caso a prendere bonariamente di mira il buon R.

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Superate, per fortuna, la parentesi e le conseguenze della brutta caduta, R. andò a frequentare la penultima classe delle superiori, mentre io, contemporaneamente, iniziavo la quinta e ultima classe. Analogamente al passato, egli non fece il pendolare con la corriera delle Sud Est, ma restò in pensione presso una famiglia di Maglie. Quella volta, anch’io decisi di regolarmi allo stesso modo e, così, divenni compagno di pensione di R. nella cittadina, in via Vittorio Emanuele, 223.

Si badi bene, eravamo ospiti in un  piccolo appartamento: già vi abitavano la padrona di casa e la sua bimba di pochi anni e, perciò,  i due pensionanti studenti erano sistemati con due lettini in una stanza all’interno verso il giardinetto di casa, dove trovava posto anche un tavolino per la consumazione dei pasti e per studiare; insomma, certamente niente da Grand’Hotel e neppure da moderno bed & breakfast, ma, in compenso, eravamo più comodi per andare e tornare da scuola.

R., chiaramente, era abituato a quel genere di soggiorno a Maglie, conosceva la località  a fondo, era solito recarsi sovente a vedere qualche film in uno dei due cinematografi, il Moderno e l’Oriente, rammento che era un fan dell’allora giovane, bellissima e anche brava attrice italiana Sofia Loren.

Io, invece, appena arrivato dal paesello, non era affatto un assiduo frequentatore di cinematografi e,  però, attraverso qualche rotocalco che mi capitava di sfogliare, conoscevo e ammiravo due giovanissime attricette, le cosiddette “cognatine” Lorella De Luca e Alessandra Panaro, le quali avevano interpretato qualche pellicola popolare e commerciale insieme a una coppia di attori giovani, Renato Salvatore Maurizio Arena, nel ruolo di fidanzatine dei medesimi.

Così,  talora, mi avventuravo a intavolare discussioni con R.,  sostenendo che, a mio avviso, le “cognatine” non erano da meno della Loren e, di sicuro, la sopravanzavano in fatto di avvenenza fisica. Il mio interlocutore, ovviamente, non ci stava, sicché l’esercizio dialettico sul tema, con l’intento del sottoscritto di stuzzicare, si rinnovava frequentemente.

Il mio forte e consolidato legame con il paesello natio, ogni qualvolta arrivava la fine della settimana, non mi lasciava prendere pace, per il giorno di vacanza volevo ritornare a ogni costo a Marittima, per poi rientrare a Maglie la domenica sera.  Non solo, ma insistevo con R. affinché mi facesse compagnia, in genere l’amico mi rispondeva di non volerne sapere, ma poi si arrendeva.

Con pochi spiccioli in tasca, ci toccava arrangiarci per ciò che riguarda il viaggio: un furgone o un autocarro di passaggio e, in extremis, qualche traino, bastava che si riuscisse a coprire il percorso di diciotto chilometri, senza alcuna importanza se con un’oretta di tempo in più.

Sempre per celiare con l’amico,  io avevo addirittura la sfacciataggine, mentre  il mezzo di trasporto che avevamo trovato arrivava a superare Sanarica e si andava avvicinando a Poggiardo, di tirar fuori l’esclamazione: “Renato, a questo punto, credimi, ho già  l’impressione di respirare l’aria di casa”,  e lui sistematicamente a  replicare stizzito: “Dai, sei proprio fissato, non cercare di coinvolgermi con le tue manie”.

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L’anno scolastico dei due pensionanti, intanto, andava passando. Mi sovviene che R. aveva un’amica nei paraggi della nostra temporanea dimora magliese, una ragazza occhialuta, timida forse più di lui, e che ogni tanto andava a trovarla. Per la piena verità, più frequentemente era lei che veniva a incontrare R. fra le mura che ci ospitavano.

In seguito, quel legame inizialmente sommario e un po’ impacciato ha finito col consolidarsi, R. ,una volta diplomatosi e entrato nel mondo del lavoro,  si determinò a sposare la ragazza in questione, insieme hanno fatto una figlia e hanno una nipote ormai già adulta.

R., col titolo di ragioniere, trovò un impiego presso la più grande Cassa di Risparmio italiana, a Milano, lì occupandosi per lunghissimi anni di credito fondiario; ovviamente, a suo tempo, ha messo casa nel capoluogo lombardo, dove tuttora risiede.

Ad ogni modo, d’estate, non manca di rimpatriare per qualche tempo nella natia Marittima, cosicché, ci capita d’incontrarci e di scambiarci qualche sorriso di allegria, nel ricordo delle antiche e spensierate frequentazioni. Mi piace, in ogni occasione, ricordare a R. che, prima di trasferirsi a Milano, quasi mezzo secolo addietro, egli si trovò a partecipare al mio matrimonio e, inoltre, guidando la macchina di un suo fratello, una Fiat 1500, accompagnò i novelli sposi, nel pomeriggio, alla stazione ferroviaria di Lecce, per l’inizio del loro viaggio di nozze.

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Annotavo, in apertura, che oggi, qui ad Abano, è stata una giornata da lupi, accompagnata da incessanti scrosci d’acqua: ciononostante, alcuni ospiti dell’hotel, forse tedeschi, non hanno voluto rinunciare alla nuotata nella piscina termale all’aperto, mentre lo scrivente, più italianamente, si è limitato a scattare un’istantanea della medesima vasca, senza in alcun modo bagnarsi, dal balconcino della propria camera.

 

Da Napoli al Salento il meridione è stracolmo di rifiuti interrati

ph Mauro Minutello
ph Mauro Minutello

di Gianni Ferraris

Al link http://www.vocepertutti.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=947%3Acampania-ecco-alcune-aziende-che-hanno-sversato-rifiuti-tossici&Itemid=63 troviamo un primo ed assolutamente provvisorio elenco di aziende dedite allo smaltimento illegale di rifiuti tossico nocivi. Oggi escono le dichiarazioni di vari pentiti che ammettono dove, come e quando hanno seppellito fusti e altre porcate, ultimamente è stata desecretata quella di Schiavone che disse alla commissione antimafia quel che conosceva, aggiungendo “entro vent’anni là moriranno tutti per cancro”. La politica si prese la briga di segretare tutto quanto. Forse perché il popolo deve rimanere bue.

Da Napoli al Salento il meridione è stracolmo di rifiuti interrati che provocano cancro. E’ infatti conclamato l’aumento di tumori in terra salentina, come evidenziano ricerche e dati. Anche un pentito della Sacra Corona Unita ha dichiarato di essere stato autore di seppellimenti in zona Casarano.

Neppure le proteste delle popolazioni della terra dei fuochi sono state ascoltate, è stato necessaria la pubblicazione delle rivelazioni Schiavone per creare un “minimo” scandalo.

Le parole del camorrista pentito le troviamo al ink: https://www.dropbox.com/s/2bgys8sh51jfprn/schiavone.pdf

Una prima domanda: perchè il deputato Gianfranco Saraca (UDEUR), i Senatori Giovanni Lubrano Di Ricco (Verdi, l’Ulivo), Roberto Napoli (UDEUR) e Giuseppe Specchia (AN), presenti all’interrogatorio Schiavone  hanno deciso di segretare tutto?

Dall’elenco pubblicato da “voce per tutti” si evince che i tossici nocivi arrivavano da tutte fabbriche del nord, compresa l’ACNA di Cengio, già tristemente nota alle cronache sanitarie piemontesi.

Leggere e memorizzare quell’elenco è istruttivo. Insegna come certo capitalismo non guarda in faccia a nessuno, come per quei signori e per le mafie sia importante solo ed esclusivamente il guadagno. In estrema sintesi, si impara come siano identici esecutori e mandanti, stessa vis mafiosa. Per avere un termine di misura possiamo dire che un fusto interrato al sud costava al mafioso dirigente dell’ACNA, la somma oggi quantificabile in 500 euro, contro i 2000 euro dello smaltimento legale. A questo punto chi è più mafioso di chi?

Ancora stiamo ad ascoltare gli eredi di Renzo Bossi che dicono che il meridione è una palla al piede? La mafia al nord esiste da sempre, perchè questi sono comportamenti mafiosi a tutto tondo. A dimostrazione dei comportamenti collusi e vili cito i cinque ammazzamenti dell’ultimo mese a Milano e nel suo hinterland, dove edilizia, molti centri commerciali, sale gioco, compro oro, movimento terra, finanziarie ecc. senza generalizzare, per carità, ci sono anche finanziarie non mafiose, compro oro non collusi, però esiste una zona grigia che passa attraverso alcune di quelle attività,  sono la linfa che nutre le mafie.

A fronte delle sparatorie milanesi la risposta è stato il silenzio, come silenziosi sono i taglieggiati. A nord come e forse peggio che a sud. Peggio perchè si continua a dire da molte parti che la mafia non riguarda il nord. Peggio perchè i rifiuti maledetti provengono dal profondo nord.

Altro capitolo è la politica. Quando finalmente venne chiusa l’ACNA di Cengio che colorava ogni giorno di tinte diverse il Torrente Bormida, ci fu la bonifica. Chi, come, e dove si bonificò? A chi vennero affidati i fanghi da smaltire? Chi pagò e chi prese mazzette per non vedere? E ancora, nei comuni dove si sono seppelliti tossico nocivi in meridione come in settentrione, gli amministratori mai si accorsero di centinaia di camion che vagavano la notte per le campagne? Chi prese mazzette per non vedere?

Perchè è stato ammazzato il consigliere comunale di Ugento Peppino Basile che denunciava movimenti strani?

L’impressione è che ci siano collusioni talmente ampie da sembrare invincibili, la certezza rimane invece che a crepare di cancro siano i cittadini tutti. Chi mangia i pomodori distribuiti a livello nazionale? Chi i pesci pescati nello stesso mare dove le mafie affondavano navi cariche di fusti? E le mozzarelle di bufala campane da dove arrivano? Quale erba brucano le bufale? Quella delle cave riempite e ricoperte forse? E ancora, sotto le autostrade del nord, nelle fondamenta delle nuove costruzioni per l’expo, sotto i grandi centri commerciali, cosa c’è? Chi si è occupato del movimento terra? E’ un caso che la camorra e la ‘ndrangheta in Emilia, in Lombardia, Piemonte e Liguria si occupassero proprio di quel settore? Chi fa buche e poi deve riempirle, cosa ci mette dentro? Chi controlla?

E ancora una domanda sorge spontanea: come può rimanere in Senato un ex premier che aveva alle sue dipendenze il signor Mangano poi condannato per mafia? E’ possibile tollerare questi intrecci senza che neppure un piccolo sospetto sorga? E come mai nessuno si sente in dovere di dimettersi e di lasciare il posto a persone senza sospetti?

Il libro che mi porterò all’inferno

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ph Mauro Minutello

di Pier Paolo Tarsi

Le classifiche dei libri sono ridicole, come tutte le altre, e forse anche un po’ più delle altre. E tuttavia non ho dubbi che il libro che mi porterò all’inferno sarà l’unico scritto da un uomo quasi sconosciuto che si chiamava Fernando Manno, Secoli tra gli ulivi. Ecco, l’ho detto.

2013, di nuovo alle Terme. Appunti e immagini da Abano, in tempi di… spending review

di Rocco Boccadamo

 

A suo tempo, prima di raggiungere i quaranta, sono riuscito, da studente lavoratore e capofamiglia, a conquistarmi anche una laurea.

Ciò, più che altro, per il bisogno di soddisfare una forte e irrequieta esigenza interiore, che mi prendeva da quando, ventenne o giù di lì, ero stato costretto a lasciare momentaneamente da parte la frequenza dell’università per dedicarmi al lavoro.

Tuttavia, devo precisare, con sincera obiettività, che non ho mai tenuto a ostentare e/o esibire il mio titolo accademico; anzi, provo un certo disagio e fastidio imbattendomi in talune persone che, al contrario, scrivono, ad esempio, la qualifica di dottore prima del nome del mittente in calce o in alto a una lettera, oppure lo declamano nel presentarsi, non solo al telefono ma anche e addirittura di persona.

E però, ieri mi è capitata un’occasione in cui mi è venuto spontaneo non provare avversione, ma riconoscere, al contrario, apprezzamento davanti all’esibizione pubblica dell’appellativo di dottore.

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Una circostanza, se si vuole, non proprio comune, nel senso che mi son visto passare accanto, lentamente, un camioncino, del genere di quelli da lavoro, verniciato di rosso, con rimorchio scoperto e pareti basse, recante, sul fronte, sui lati e sul retro, la scritta in stampatello e caratteri cubitali “Zennaro Dottor Rudy” e, immediatamente sotto, l’aggiunta “pavimenti e rivestimenti”.

Tra me e me, mi sono indotto subito a pensare “quanto è stato bravo questo signore, il quale, invece di fare voli pindarici ed esibizionistici con la sua pergamena,  dottore o  non dottore, ha piantato i piedi sul terreno della praticità, mettendosi a fare un lavoro che , in genere, è svolto da persone prive di titoli di studio, magari gratificate dal titolo di maestro (mesciu in dialetto salentino)”.

E di rimando a tale riflessione, mi sono venute in mente, con riferimento al mio paese, le figure dei vari mesciu Ucciu, mesciu Dunatu, mesciu Lindu, mescio Vitali, mescio Sinu, per citarne alcuni.

Sfilato via il camioncino, per curiosità, sono andato in internet, dove, effettivamente, ho reperito una serie di riscontri relativi, giustappunto, a una ditta dalla denominazione di “Zennaro dottor Rudy”, con sede in Piove di Sacco, provincia di Padova.

°   °   °

 

Non è una novità che, sia pure in via eccezionale, intorno a San Martino, vale a dire in questo periodo, nella terra delle Terme capitino belle giornate, come quella di ieri qui.

Situazioni che si traducono in autentiche, gradevoli tavolozze chiazzate con i colori dell’autunno, vuoi sulle chiome degli alberi, vuoi sulle distese delle aiole.

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Al centro della cittadina termale, stamani ho rivisto la mitica edicola, già osservata in occasione dei precedenti soggiorni, dove, sulla vetrina, appare sempre esposto in bella vista il cartello, mai notato altrove, recitante I – Le informazioni si danno alle persone educate”.

Una volta, ho anche osato di chiedere al titolare l’origine e il perché della strana puntualizzazione, mentre, nell’odierna circostanza, mi sono, invece, limitato a sfilare a fianco dell’edicola stessa, semplicemente rivolgendo uno sguardo alla moglie del titolare presente all’interno.

Di seguito, giacché si è in tempi di spending review,  l’occhio del comune osservatore di strada non ha mancato di soffermarsi su qualche vetrina dell’isola pedonale e, ovviamente,  durante l’esercizio, sono  venute fuori certe chicche affatto trascurabili.

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A iniziare da un negozio di scarpe, dove, in piena vetrina, sono posti in bella mostra mocassini Tods color marrone al modico prezzo,  cartellino minuscolo, di euro 440. Facile capire, ora, come mai mister Tods, in chiaro il dottor Diego Della Valle, benché naturalmente anello non unico della catena distributiva del prodotto, sia un uomo dal faccione pacioso, sempre tranquillo, neppure una ruga, pronto, con tono distaccato, a dire la sua, a distinguersi un po’ da primo della classe, credo bene, 440 euro (quanto riscuote mensilmente un pensionato al minimo) da pagarsi per un paio di scarpe e, forse, non sarà neppure il prezzo più alto della linea Tods.

Intanto, sarebbe interessante sapere a quanto ammonta il costo effettivo di produzione dell’articolo in questione.

In un’altra vetrina, si espone e propone un albero natalizio innevato, beninteso artificiale, con quattrocento lucine, offerto a 500 euro, quasi niente.

Poi, come poteva mancare, nella breve galleria di quotazioni, l’elegante fruttivendolo che mostra sui banconi una cassetta di marroni extra a euro 9 il chilogrammo? Ciò, obiettivamente, può sembrare un’esagerazione, ma, ad ogni modo, il listino è calmierato dal prezzo delle melagrane (side, in dialetto salentino) che è pari ad appena euro 4,50.

Meno male che un negozio d’arte antica presenta in vista, dietro la vetrina, l’iconografia di una Madonna e, però, accanto all’articolo, non figura alcun prezzo.

Dirimpetto all’azienda di soggiorno, da alcuni anni, trovasi trapiantato un albero d’ulivo, che, nel frattempo, è divenuto grandicello.

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Nonostante che, sui rami e fra le foglie, non si noti la minima ombra di frutti, la pianta pare in buona salute, verdeggiante e sana. Al che, il mio pensiero non può fare a meno di andare alla criticissima condizione in cui, da qualche tempo, sono precipitate migliaia d’alberi d’ulivo di una vasta zona del Salento, purtroppo, con scarsissime possibilità di rimedio, a quanto sentito dagli esperti, e la probabilità se non la certezza dell’inevitabile abbattimento di questi maestosi  monumenti della natura; con la speranza che l’epidemia non si espanda funestamente in altre aree, la qual cosa si  tradurrebbe in un immane, disastro, segnerebbe la fine di un vero e proprio mito nelle colture italiane e pugliesi in particolare.

Stamani, il Corso delle Terme ad Abano non è granché affollato, corre una stagione di afflussi relativi, anche se si avvertono già i primi segnali premonitori delle festività di dicembre.

A breve distanza l’uno dall’altro, vi ho potuto cogliere due musicanti di strada, impegnati a diffondere gradevoli e famose note e arie musicali, per il godimento dei passanti: il primo, aiutandosi con un clarinetto, il secondo armeggiando con mani e braccia una fisarmonica, il tutto in cambio e nell’auspicio di qualche spicciolo

“Davanti a San Pietro – poesia su ordinaria follia”

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ph Mauro Minutello

di Raffaella Verdesca

‘Gli ulivi che a Taviano alti e schietti
Van da Gallipoli in marea piana,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardar.
Mi riconobbero, e bisbigliaron ver me co ‘l capo chino
Perché non parli? Perché non ristai?
Se voi sapeste! … via, non fo per dire,
ma oggi so di finanza e un po’ d’affari,
di biomasse e pannelli solari,
di rondò e ragnatele stradali.
Un mormorio pe’ dubitanti vertici
ondeggiò.
Una gentil pietade avean di me,
e presto il mormorio si fe’ parole:
Ben lo sappiamo: un pover’uomo tu se’.
Rimanti, e i rei fantasmi che da’ fondi neri
Del cuore tuo battuto dal pensier
Guizzan come dai cimiteri
Putride fiamme innanzi al passegger.
Rimanti, e ti canteremo noi ulivi i cori
Che vanno eterni fra la terra e il cielo.
Il dissidio, o mortal, de le tue cure
Ne la divina armonia emergerà
A salvare noi miseri da fine certa
 o voi prodighi da dubbia salvezza … ’

Forse così avrebbe scritto oggi il Carducci se fosse stato allevato da zolle
di Salento, quello che piange veleni e vomita rimedi.
E non me ne voglia il grande poeta se ho preso in prestito il suo amore per i
cipressi di Bolgheri, ‘in duplice filar’, per riaccendere la passione salentina
degli ulivi, in sconfinata distesa, intorno a Gallipoli, la zona dell’attuale
focolaio d’infezione da Xylella Fastidiosa,…forse.

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ph Mauro Minutello

Eh già, perché i georgofili si astengono dall’identificare con certezza la
causa di questa  parassitosi nella Xylella, rinominata ormai batterio killer.
Terrorismo mediatico, diffamazione di una povera ‘Concausa’ elevata al rango
di ‘Flagello Esclusivo’, endemica strampalata Messalina senza particolari
fortune né piaceri. In poche parole una vecchia conoscenza della nostra terra
con all’attivo qualche buon colpo messo a segno nel passato, un lungo periodo
di buona condotta  e una condanna di complicità con taglia pendente sulla
testa. E non solo sulla sua. Attenzione quindi alla testa nostra e a quella
degli ulivi contagiati, quasi 600.000 alberi per circa 8.000 ettari di terreno
interessato. Una vera strage.
“Non c’è cura, non c’è speranza di guarigione e gli alberi sono da abbattere
senza se e senza ma!”, questo il tenore delle dichiarazioni degli organi
competenti locali.

ph Mauro Minutello
ph Mauro Minutello

Sbaglio o gli alberi si curano ‘senza se e senza ma’?
Provate a convincermi che per curarli si debba ucciderli.
Se questa fosse la regola valida per alterazioni e malattie, l’intero globo
terrestre sarebbe oggi pressocchè disabitato: pochi esseri umani sopravvissuti
al delirio di onnipotenza, al contagio della corruzione, alla speculazione
famelica su ogni diritto;
lande deserte animate dal rosso diafano di qualche pomodoro OGM, sagome di
alberi di carta proveniente dalla deforestazione e riforestazione proveniente
dall’imponente richiesta di carta;
poche mucche meno pazze delle sorelle passate a miglior vita, qualche suino
privo di raffreddore, di maschera al silicone e di pass per i festini alla
Provincia, uno sparuto nugolo di api indenni ai pesticidi e alla squalifica per
doping, e un piccolo gregge di pecore geneticamente modificate, in grado d’
insegnare ai lupi come fare a ingannare i bracconieri, i rimborsi dell’Ente
Parchi e le esche estrogenate.
E in mezzo a questa Torre di Babele di buone intenzioni, di effetti estremi e
di ottimi profitti, credete davvero oneroso e insensato provare a salvare gli
ulivi del Salento piuttosto che i ‘detersivi’ per smacchiare denari e
coscienze?
Sarebbe criminale ricordare che le parassitosi si superano con la
sopravvivenza degli esemplari ad esse resistenti e che non è necessario
estirpare le piante colpite fingendolo un penoso dovere da emergenza
fitosanitaria?
Se un’emergenza c’è, riguarda il coinvolgimento di esperti nazionali e
internazionali in materia di bonifica, d’interventi di risanamento, di cura e
di salvaguardia degli uliveti dall’inesorabile diffusione del patogeno e della
speculazione.

ph Mauro Minutello
ph Mauro Minutello

Il nostro parco oleario fa invidia a tanti, si sa, i piani di sfruttamento
selvaggio del territorio non hanno mai avuto il vezzo della timidezza in questa
regione, e tutto, come d’incanto, può diventare all’improvviso business per
pochi, la cura come l’abbattimento.
E’ il modo più rapido per squarciare un’economia già in ginocchio.
Eppure, novelli Carducci, camminando per le nostre campagne dovremmo trovare
irresistibile il richiamo dei fedeli amici argentati, monumentale tempio di
forza, bellezza e sapienza senza età.
Nel magico rituale che attorno a loro si consuma da secoli, ci ritroviamo nel
cuore di una natura che si fa raccogliere e spremere per nutrire, di un’
atmosfera che suggestiona e incanta per identificare.
L’ulivo è infatti simbolo dell’identità di ogni suo abitante, è l’anello di
congiunzione tra il lavoro dell’uomo, le tradizioni e la cultura storica del
popolo salentino.
Albero sacro, elemento peculiare di un paesaggio che tutto perderebbe senza
quelle nodose promesse di vita che attraggono, non adescano.
Davanti alla chiesetta di San Pietro dei Samari, nella gallipolina Palude de
li Foggi, così come Carducci davanti a San Guido, nel cuore della Maremma
livornese, dovremmo idealmente raccoglierci tutti per opporci alle soluzioni
spicciole proprie della vita profana, identificata oggi nella condanna senz’
appello degli alberi infetti.
L’elevazione spirituale offerta dagli ulivi rimane perciò una realtà da
perseguire e un’importante ragione per cui lottare,… ma attenti all’ “asin
bigio”!
“… l’asin bigio, rosicchiando un cardo
Rosso e turchino, non si scomodò:
tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo
e a brucar serio e lento seguitò.”
Come non capirlo, povera bestia? Ha occhi solo per il suo bel cardo da
rosicchiare, unico mezzo attraverso cui crede e sente di realizzarsi, rimane
indifferente a tutto ciò che gli accade attorno, non si scomoda neanche se gli
crolla il mondo addosso: asino bigio di pura razza bigio asinina!
E pensare che suo cugino, per spaventare gli altri animali o forse solo per
primeggiare su di essi, un giorno volle mettersi addosso una pelle da leone,…ma
finì sbranato.

Vino “te lussu”

di Andrea Fachechi

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Questo è un cartello che invita all’acquisto del vino. Oltre ai tanti aspetti riguardanti il marketing messo in campo da questo negozio di frutta e verdura mi ha particolarmente colpito l’espressione “te lussu” che sentivo dire spesso a mio nonno. Già, perchè quello che può sembrare un semplice intercalare, o un superlativo assoluto fatto in casa, in realtà richiama al vero concetto di lusso della società contadina salentina nel post-guerra. La possibilità di bere un vino o mangiare qualcosa qualitativamente notevole, elevava infatti il contadino (seppur nelle mura domestiche) al rango di signore.

Espresso 906

di Fabrizio Suppressa

Metto in disparte, seppur per una breve manciata di righe, le mie pietre e i miei castelli, per poter scrivere una tradizionale avventura che capita di rivivere

ogni qualvolta lascio il mio Salento alla volta della mia Torino. Potrà forse risultare un retaggio dei terribili temi delle scuole elementari dal titolo “Le mie vacanze” o forse un piccolo sfogo sui servizi ferroviari italiani, spero però sia inteso dal lettore come una delle tante infinitesime storie che percorrono quotidianamente le nostre vie ferrate. Devo premettere che per me l’Espresso 906 non è un anonimo mezzo di locomozione, ma piuttosto uno di quei luoghi del cuore o forse uno dei quei luoghi non luoghi. Ne conosco odori e rumori che ripercorro dall’età di tre settimane, quando fui trasportato in fasce a Copertino per poter essere “analizzato” nei particolari dalla folta parentela, alla ricerca della razza a cui più somigliassi.

Come di consueto, l’Espresso 906 lascia la città di Lecce alle nove e venti in un brulicare di mani salutanti dalla banchina ferroviaria. Le carrozze, traboccanti di passeggeri, sono un via vai di persone intente a sistemare i propri bagagli; si respira un’aria d’altri tempi, quella dell’emigrazione, una sensazione forse accentuata dalle stampe d’epoca delle varie Venezia e Pisa messe a decoro dell’arredo interno. Nello scompartimento in cui le valigie non “cacciano” mai a causa del carico di prodotti tipici, vi è sempre qualche salentino, di solito di “sotta lu capu“, che con famiglia si reca dopo le vacanze al Nord a lavorare, nell’attesa di una pensione tarda ad arrivare. Si fa subito amicizia, con i soliti discorsi e luoghi comuni; «mo che arriviamo.. chissà il tempo?!», o sovente vi si accenna una gara per il più lungo ritardo o il peggiore disservizio capitato, o in altri casi si elencano i vari tentativi, riusciti o meno, di furto in treno; quelli si che sono sempre di moda! Passano i minuti e i chilometri, presa confidenza, reciprocamente si va all’attacco con il solito «volete favorire?!» esibendo dentro confezioni richiudibili varie manicaretti che per rispetto ai deboli di cuore ne ometterò la descrizione.

Lungo il tragitto, il tempo cessa di essere affidato alle lancette dell’orologio; al suo posto l’incessante sbattere delle porte. «Sbam!». Con un semplice gesto della mano del capotreno, la porta sbatte, e con lei, le molteplici porte del convoglio. Un fischio, un segnale luminoso e con quella porta chiusa, il treno lascia la stazione appena raggiunta per la sua prossima meta, quante storie, amori, tragedie dietro quel semplice tac: è la porta che parla o che vorrebbe parlare e che nessuno è capace di  ascoltare.

Arrivati a Bari, il treno deve attendere l’innesto delle carrozze provenienti dalla Calabria (perennemente in ritardo). Da questo momento ci si prepara per la notte, si spengono le luci esi allungano i sedili. I due bambini dello scompartimento si stendono uno con i piedi in faccia all’altro, mentre gli altri passeggeri cercano di sistemarsi al meglio. Preferisco prima di mettermi a riposo, fare due passi in corridoio e approfittarne per una tappa alla “ritirata“. Varcato il corridoio mi accorgo di non essere più un passeggero della Freccia Adriatica, ma piuttosto di un Indian Express. Dopo un mega slalom tra valigie, cani, gente coricata a terra, fumatori incalliti di Marlboro e tra rifiuti di ogni genere e tipo, torno al mio posto per usufruire del mio sedile cinquanta per cinquanta di colore azzurro Trenitalia. Si rimane in dormiveglia il più del tempo, riuscire a chiudere occhio è un’impresa da record. Si rimane attenti, impauriti un po’ dai discorsi iniziali sui furti, ma ci si può accontentare di una magra consolazione, possedere il posto sopra al carrello del treno non fa certo addormentare. La notte prosegue lunga e rumorosa, «addò’stamu???» si bisbiglia «bo’!? Bologna?» «Rimini?» ma una voce elettronica inizia a ripetere «Ancona, stazione di Ancona!» il viaggio è ancora lungo. Vi si intravedono da una striscia della tendina non tutta abbassata, luci e teste di persone che camminano. Ritorna il sonno. All’improvviso qualcosa mi sveglia, un leggero colpo in testa e poi sul fianco, focalizzo un po’ rincoglionito, niente; è un calzino (con un piede dentro) del bambino (al quanto sonnambulo) che sta a fianco del mio sedile, gli prendo l’arto e lo riposiziono di nuovo nei pressi del volto di suo fratello. Ne approfitto per capire nei pressi di quale stazione siamo, ma con uno sguardo veloce intravedo molta gente stesa a dormire sul pavimento del corridoio; mi reputo fortunato ad aver trovato in tempo la prenotazione. Sono le cinque e mezza, la posizione da Buddha seduto mi ha reso i legamenti muscolari come un elastico al sole salentino, mi alzo per fare quatto passi in corridoio. Niente da fare; camminata rinviata: uno stramaledetto omino con cappellino rosso e carrellino, incede per le carrozze urlando a squarciagola «caffè, cornetti, birra (birra??), tramezzini, cocacola» svegliando l’intero convoglio, obbligando chi è sdraiato in corridoio ad alzarsi per permettere il passaggio del trabiccolo.  Questo è il segno che siamo alle porte di Bologna, e che per fortuna molti passeggeri devono scendere.

«Bologna, stazione di Bologna»! Cinque e trenta del mattino, scendono molti studenti e molti giovani turisti con sacco a pelo e idee rivoluzionarie. «Menu simu, megghiu stamu!» si sente esclamare in qualche scompartimento (concordo pienamente con quest’anonimo passeggero, sicuramente salentino). Fuori Bologna, alle prime luci dell’albeggiare si intravede dal finestrino un paesaggio agrario quasi estraneo. Distese monotone di granoturco abbinate ad un cielo nuvoloso rendono triste un risveglio non certo dolce. L’Espresso 906 continua il suo percorso accumulando sempre più ritardo ad ogni anonima stazione ferroviaria della Pianura Padana.

Piacenza, Stradella, Voghera, Tortona, Alessandria, Asti, Lingotto… il treno giunge a destinazione, Torino Porta Nuova. Si salutano i conterranei, compagni di sventura di una notte e ci si aiuta tra sconosciuti nella discesa dei bagagli. L’ultimo gradino metallico e il piede poggia Torino …nonostante tutto; a quando la prossima discesa?

Incantevole vigoroso ulivo

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di Elio Ria

 

Informi rami nodosi

decorano la tua chioma

a cadere quasi per terra,

e gli abbracci di tronco

lasciano intendere

il grand’albero che sei

 

ulivo  dei secoli

dei tuoi sguardi gibbosi

allerti lo scirocco, e

s’accoda al tramonto

 il passero

che in un incavo ha casa

 

ulivo dei silenzi

accomodi all’ombra

colui che fatica riposa

e quando il clamore del vento

s’annuncia forte

raddrizzi il tronco

a fronteggiare miseria.

 

Cervelli che ritornano nel Salento

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di Andrea Fachechi

 

 

Esistono storie di cervelli che ritornano. Storie che abbracciano il territorio e gli studi fatti altrove. Storie che mettono a valore tutto un sistema di economia insita nella nostra struttura sociale fatta di famiglie, rapporti di vicinato e cumparanze. L’emigrazione ha impoverito questa terra. L’immigrazione di ritorno sta risarcendo (con gli interessi delle competenze e capacità acquisite fuori).

 

http://www.iltaccoditalia.info/sito/index-a.asp?id=24839

Xylella e ulivi del Salento

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di Silvana Bissoli

Negli ulivi salentini non si riscontra il batterio ‘Xylella’ nella sua forma genomica fastidiosa. Non solo, il ceppo batterico osservato dall’Accademia dei Georgofili e dai ricercatori dell’Università del Salento, sarebbe asintomatico, appartenente ad una sottospecie, probabilmente di natura endemica, ovvero presente da millenni e assolutamente presenza innocua.

Lo sostiene il Forum Ambiente e Salute del Grande Salento che invita a dire ”basta al mistificatorio terrorismo contro i nostri ulivi” e ribadisce la convinzione che, in realtà, ”non ci sarebbe alcuna emergenza fitosanitaria”.

Primarie e Prim’arie

ciabattino

di Pino de Luca

Al mio paese c’era Mesciu Ginu. Mesciu Giunu era un omone alto e grosso che di mestiere faceva il ciabattino. Appena si comprava un paio di scarpe, specialmente da ragazzini, si andava da Mesciu Ginu per farsi mettere i “minzetti”. Dei parasuola che i possidenti si curavano fossero di cuoio mentre i meno abbienti mettevano di ferro. Altro che gli anfibi, il passo di un ragazzino si riconosceva da lontano.

Lui era li, da mane a sera, a cucire tomaie, a incollare suole seduto dietro al finestro della porta sempre aperta o sul marciapiede. Perché Mesciu Ginu soffriva di meteorismo cronico, sarà stata l’alimentazione, le colle, o il lavoro sedentario o tutte le cose insieme ma Mesciu Ginu scoreggiava come un facocero.

Essendo un brav’uomo, educato e ligio alle leggi, aveva un certificato medico incorniciato nella sua bottega che dichiarava la sua malattia e diceva a tutti “iu li pepiti li pozzu fari, me l’ha dittu lu tottori” tradendo, nel linguaggio, le sue origini brindisine.

Mesciu Ginu era informato di tutto, colto e attento osservatore della piazza dalla sua botteguccia. E  dal ciabattino ci passano tutti prima o poi.

Si racconta che una signora locale, di nome Salvatrice ma per tutti Tota, ospitasse per la ricorrenza del Santo Natale il figlio e la nuora, Anita sposata nel nord Italia.

La signora Anita accompagnata dalla Tota acquistò delle scarpe con il tacco alto, la Tota suggerì alla nuora di “minzittare” tacco e punta da Mesciu Ginu. Le due signore passarono dalla bottega, mentre entravano la Tota, in fretta e furia, raccontò la particolarità “espressiva” del maestro e disse alla nuora che non doveva scandalizzarsi.

Mentre discutevano sulle modalità del rivestimento da applicare alla scarpa elegante della bella signora, l’amica locale chiacchierava con “Mesciu Ginu”.

“Mesciu ce dici te ste votazioni alla parrocchia?”

“Se ne sentinu tante cummare Tota, ssignuria vai cu minti la cruce?

“Ulia cu vau Mesciu Gi’, ma moi tegnu figghiuma a casa e nu ne sta capiscu nienti, ma se vota te Santa Lucia o te la MMaculata?”

“Te la MMaculata cummare…”

“Ma ssignuria ci tici ca ince cumpare Ginu?” disse la Tota con voce ammiccante … e continuando disse “Lu Gianni te l’altitalia?” e lì, Mesciu Ginu aggrottò le ciglia e diede fiato alle trombe intonando un Sol vibrante.

La Tota sorridendo continuò “o lu Gianni te quabbasciu?” A mesciu Ginu venne una scorreggina piccola che sul pentagramma sarebbe stato un Mi.

“Nu creu ca ince lu Pippi” disse la Tota e Mesciu Ginu accompagnò la frase con un Re breve ed intenso.

“E ci è ca è rimastu? Ah lu Matteu cu la camisa bianca” e qui Mesciu Ginu si esibì in una di quelle espressioni come un Do di petto lungo e squillante.

La signora Anita era, insieme, esterrefatta e divertita. “Che strano modo di commentare” pensò e disse alla suocera “ma sono sondaggi attendibili?”

E Mesciu Ginu dal suo trono: “cu la vocca si potinu tire buscei, lu culu è sempre sinceru!!!”

Uscendo dalla bottega, la nuora disse alla suocera: “Però non si sente cattivo odore …”

“Figghia mia, queste so’ Prim’arie, e le prim’arie non puzzano mai, è quando ti avvicini alla mberda, con rispetto parlando, ca si sente lu fetore. Ma quelle non si sentunu, si fannu cittu cittu e quando ti arriva allu nasu già t’anu futtutu. E nu ni l’ha dittu mancu lu dottore!!!” rispose la Tota nella sua ipotetica lingua italiana.

E andarono via caracollando sulla strada accidentata le cui buche testimoniavano l’incuria che ne avevano i parrocchiani

Ionio

 

di Elio Ria

 

È Ionio

il mare che in agosto succede ai cieli

fra le albe pettegole di sole

e le onde bizzarre di mezzogiorno.

 

Gli occhi superbi

di questo mare prudente e forte

immaginano oceani,

ma nell’intendere cede fantasia.

 

E del luogo natio non sovverte ordine

Con aria distinta incede lento

Distende le onde per mozzare scogli

Allunga il passo di luna nelle notti ostili

 

–         Del mare è il mare –

 

 

La foto è di Armando Polito

Ai tanti problemi sul tappeto, ora si aggiungono anche i piccioni

 piccioni

di Rocco Boccadamo

 

Prolificano più che mai, abbondano e imperversano, i “piccioni”, e però, attenzione, almeno in questo caso, niente allusioni allegoriche o sagaci e maliziosi accostamenti al pianeta, assai di moda e chiacchierato, delle escort e/o massaggiatrici.

Oggetto e protagonista delle presenti note è il piccione inteso come volatile – con accezione  più aggraziata e gentile, detto anche colombo – appartenente all’ordine dei “columbiformi”, selvatico per natura, ma facilmente addomesticabile.

La sua immagine tipica – fagottino compatto di piume, punteggiato da due occhietti dal bordo nitido e arrossato, che se ne va volando di qua e di là alla ricerca del cibo, cui poi attinge col becco pronto caracollando sul terreno – rimanda  a scenari antichi, a tradizioni passate rimaste impresse nella mente.

Per via delle sue carni leggere e gustose, quasi “nobili”, nel Salento, fino a qualche decennio addietro, il piccione era allevato da tutte le famiglie abbienti, alcune delle quali destinavano a tale attività  apposite caratteristiche costruzioni, erette nei giardini o nelle campagne, chiamate proprio “colombaie”, contenenti all’ interno centinaia di cellette  con funzioni di “case” per i pennuti, che in quei siti solevano puntualmente ritirarsi per covare le uova, per allevare i piccoli  e per dormire.

Sulle mense dei ricchi, perciò, le pietanze a base di carni di piccione erano consuete e frequenti. Così non succedeva, invece, per la gente povera: ma anche quest‘ultima – almeno in certe circostanze, specialmente in occasione dei parti –  non mancava mai di procurarsi, al caso acquistandolo,  appunto uno o qualche  piccione.

Si affaccia ancora emozionante, in chi scrive, il ricordo delle zuppiere, contenenti porzioni del volatile e relativo brodo, servite amorevolmente dai familiari ad una povera mamma all’atto della nascita dei tre più piccoli di casa, tra fratellini e sorelline.

Quanto ai risvolti economici, a parte la costruzione delle colombaie, crescere i piccioni non costava pressoché niente, il loro nutrimento risultando costituito da larve, bacche, qualche frutto sfatto sui rami o ai piedi delle piante, isolati resti di cibo rinvenuti  in giro.

Negli ultimi tempi, così come sono usciti letteralmente stravolti tanti schemi e modelli dell’esistenza umana, sembra che ogni cosa  si sia modificata  pure nel vivere del piccione, al punto che la sua stessa immagine non viene più vista alla maniera del passato.

Si rammenta da tutti che gli stormi di piccioni costituivano un gradevole ornamento di certi larghi spazi, come Piazza del Duomo a Milano e Piazza S. Marco a Venezia; ora, al contrario, tali pennuti sono più che altro considerati come fonte di gravi danni e di degrado per monumenti, edifici e manufatti in genere, e ciò  a causa degli elevati indici di ripopolamento e, in particolare, dei loro… escrementi.

Ovunque, sia nelle città, sia nei piccoli centri e in campagna, la presenza dei piccioni, tranne che per l’orecchiabile tubare, prima non era proprio avvertita, mentre oggi, purtroppo, esiste ovunque un vero e proprio problema piccioni.

Non si possono stendere i panni ad asciugare senza il rischio di vistose e sgradevoli macchie, i balconi, le terrazze, gli infissi e le ringhiere ricevono copiose piogge non pulite né salutari, pare insomma di trovarsi di fronte ad una vera e propria “emergenza piccioni”. Si discute, non senza contrasti, su eventuali rimedi, preventivi o repressivi, ma intanto lo stato critico permane diffusamente.

Il fenomeno, purtroppo, colpisce finanche le arterie cosiddette eleganti di questa città. Difatti, lungo tali strade, a causa della ricordata opera dei piccioni, consistenti sezioni delle facciate degli edifici appaiono talvolta ridotte ad uno stillicidio di bianco-grigie “stalattiti” di escrementi, penzolanti o incollate sulle pareti e sulle vetrate: pensare che le forme delle stalattiti, in genere, si stagliano gradevoli agli occhi allorquando si incontrano nelle grotte, mentre, nella fattispecie, si presentano con effetti negativi, quasi stomachevoli.

E’ proprio il caso di dirlo, autentiche e moleste impertinenze di volatili.

Cinema. Mine vaganti

mine vaganti

di Barbara Melgiovanni

Numerosa e stravagante famiglia leccese: i Cantone. Gli occhi blu di Riccardo Scamarcio. Mine vaganti che entrano nei panni di Tommaso, in fuga da Lecce, perchè in cerca di libertà e indipendenza. Si trasferisce a Roma, nascondendo ai genitori il reale indirizzo di studi universitari (lo credono un commercialista), Tommaso, invece, si è laureato in Lettere, (ottima la scelta). Non vuole dar di conto, ma fare lo scrittore. Il padre, Vincenzo (Ennio Fantastichini) è il tipico uomo del sud, proprietario di un pastificio, orgoglioso dei suoi due figli maschi. Come confessargli quindi, la propria omosessualità?L’occasione si fa ghiotta: l’espletamento di alcune pratiche notarili per l’ingresso di un nuovo socio nell’azienda di famiglia portata avanti dal fratello Antonio (Alessandro Preziosi), si offre come la scusa adatta per tornare a Lecce e confessare tutto, magari seduto a tavola davanti a tutto il parentato. Confessa il suo intento ad Antonio, anch’egli all’oscuro che il fratello fosse gay, ma durante una cena con tanto di ospiti importanti, mentre Tommaso finalmente prende coraggio per fare la sua rivelazione… Colpo di scena: Antonio lo anticipa. Sono due gli omosessuali in famiglia. Antonio, disonore della famiglia è messo alla porta e il padre per la concitazione del momento ha un infarto e finisce in ospedale. Ha così inizio, quindi, la pantomima di Tommaso, che per evitare il colpo di grazia al padre, si mette a capo dell’azienda di famiglia. Intensità tagliente e corale, tanto da rimanerne spiazzati. Con sacrificio ognuno racconta e mette in scena i suoi drammi. E va oltre, molto oltre. Da sfondo un grande triangolo d’amore durato fino alla morte. Memorabile Ilaria Occhini, nonnina chic e sprint, sobria anticonformista, che si muove come una danzatrice classica tra pennellate surreali e oniriche di un barocco che, schivo, la osserva. Volteggia sulle punte tra presente e passato, intrecciandoli e allo stesso tempo dipanando e districandone i nodi. (Echi felliniani di estrema eleganza). Una bellissima Lecce da cartolina. Ulivi contorti. Pasticciotti. Il mare gallipolino. Sanguigni e incatenanti topos: “questo non si dice, questo non si fa”. Cliche’. Sembrerebbe un film banale, scontato. Ma non lo e’. Lo definirei giocato su un falso: “Ho già capito tutto”. Anticonformista. Anticonvenzionale. Rappresentativa in tal senso una delle scene più eloquenti del film: la bellissima cena di Tommaso e Alba (affascinantissima Nicole Grimaudo, personaggio enigmatico, ma che rimane in ombra), a base di tramezzini. Mandati giù a suon di sguardi. Senza parole, con sottofondo di Pensiero stupendo di Patty Pravo. Un’amore che non nasce, non sboccia. Fortissima la valenza data al cibo. I dolci di ogni forma e colore accompagnano anche la morte della nonna. Se ne abbuffa fino a morirne, riappropriandosi di quei piaceri che le sono stati a lungo, per tutta una vita, negati.

Un’aria turca su cui tutti danzano chiude questo suggestivo film. Gli opposti si riconciliano e danzano abbracciati. I vivi con i morti. Il presente con il passato. La realtà con i sogni.
“Sei felice?” – chiede la sorella a Tommaso. Alla fine solo questo conta.

Se il Salento perderà gli ulivi non avrà più ragion d’essere

ulivo-raffaella

di Pier Paolo Tarsi

 

Se il Salento perderà gli ulivi non avrà più ragion d’essere. Avrà perso semplicemente tutto.

Ci renderemo conto della visione fatua che la ribalta turistica ci restituiva, ci renderemo conto di quello che davvero contava, ci renderemo conto che non siamo mai stati votati al mare, ma sempre e soltanto alla terra.

Questo dramma potrebbe risvegliare più dei vani discorsi di ogni anno, ma forse e soltanto per una contemplazione irrimediabile di morte.

In un mondo regolato da…

don tonino

a cura di Pino de Luca

 

“Sicché in un mondo regolato dal denaro, angosciato dai crolli delle Borse, retto dalle bilance di pagamento, che flirta con la speculazione, che si infischia dei debiti dei popoli in via di sottosviluppo, che si lascia sedurre dalla massimizzazione del profitto, che monetizza perfino il rischio delle popolazioni i cui terreni sono espropriati per farne basi militari, che sfrutta i poveri con il traffico delle armi, che è sordo alle esigenze di un nuovo ordine economico internazionale…come può esplodere la gioia?

Ci si lascia vivere. Si amoreggia col fatalismo.

Ci si appiattisce in una esistenza che scorre, senza più stupore, senza più spessore, come le immagini sul video.

E noi compiamo le nostre scelte come se spingessimo i tasti di un telecomando: crediamo di scegliere e invece siamo scelti. Si muore per anemia cronica di gioia. Si moltiplicano le feste, ma manca la festa.

E le letizie diventano sbornie; gli incontri, frastuoni; e i rapporti umani, orge da lupanari”.

(Liberamente tratto dalla Lettera a San Giuseppe di Tonino Bello)

Cinque francobolli per ricordare il sesto centenario della Cattedrale di Nardò e della civitas Neritonensis

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Il 7 novembre 2013 cinque preziosi affreschi riportati  nella serie dedicata all’Ecclesia Mater dalle Poste Vaticane sottolineano la fede, la storia e l’arte del vetusto monumento pugliese

 

di Marcello Gaballo

Per la prima volta nella storia la filatelia dello Stato della Città del Vaticano si occupa del massimo monumento religioso della diocesi di Nardò (ora Nardò-Gallipoli) e lo fa il 7 novembre 2013 tramite l’emissione filatelica di ben cinque valori, utili a ricordare il sesto centenario della elevazione della chiesa abbaziale benedettina di S. Maria de Nerito in Cattedrale, con l’insediamento del vescovo Giovanni De Epiphanis (1355-1425), e contestualmente dell’elevazione della “Terra” di Nardò al rango di Città.

L’anniversario è stato solennemente celebrato l’11 gennaio 2013, data in cui fu emessa  la relativa bolla dal pontefice Giovanni XXIII nell’anno 1413, documento che si conserva in originale presso l’Archivio Storico della Diocesi e dal quale è stato tratto il motto “Ecclesiam in Cathedralem, Terram in Civitatem Neritonensem” riportato sui valori bollati.

I francobolli nascono dalla proposta di Marcello Gaballo, presidente della Fondazione Terra d’Otranto, che oltre due anni fa presentò al direttore dell’Ufficio Beni Culturali della Diocesi don Giulano Santantonio e al Vescovo Mons. Domenico Caliandro (oggi Arcivescovo di Brindisi), quindi alla Commissione di Arte Sacra della Diocesi, la proposta, poi felicemente accolta e fatta propria dall’Ufficio filatelico della Città del Vaticano.

I bozzetti furono realizzati da Sandro Montinaro, su foto di Raffaele Puce. In pochi centimetri il grafico di Carpignano Salentino, autore anche del logo ufficiale, ha riassunto le preziose testimonianze di arte, storia e fede dell’edificio religioso, limitate a cinque particolari di preziosi affreschi del XIII-XV secolo, tra i più  antichi, significativi e leggibili che decorano le pareti e le colonne del massimo tempio cittadino.

Grazie alla professionalità e alla cortesia del Dott. Olivieri e della Dott.ssa Marica Fabris, dell’Ufficio Filatelico e Numismatico del Vaticano, finalmente la Diocesi col suo pastore Mons. Fernando Filograna potrà annoverare tra le sue importanti iniziative anche questa singolare e preziosa occasione, utile per trarre dalla memoria storica elementi sicuri per un rilancio del desiderio di futuro, sia sul piano sociale che su quello pastorale.

Copia di francobollo 0,05

Il valore di 0,05 € riporta un particolare dell’affresco di Sant’Agostino (m. 2,50×0,88), nella navata destra, sul secondo pilastro.

Il santo indossa mitra, guanti e un prezioso mantello, finemente decorato con motivi geometrici, fermato da una fibbia rotonda sul petto e sovrapposto alla tunica monastica, della quale si vedono il cappuccio e la parte superiore. Con la mano destra il Santo indica un cartiglio, ormai illeggibile, retto dall’ altra mano che stringe il pastorale. L’ iscrizione, AGUSTIN con l’US finale nascosto dal pastorale, posta ai lati del capo, attesta il Santo.

Copia di francobollo 10

Il valore di 0,10 € riporta un particolare dell’affresco di Santa Maria delle Grazie o Madonna della Sanità (m. 1,80×0,80), nella quarta cappella della navata destra.

L’ immagine è posta tra due angeli musicanti di stile quattrocentesco ma dipinti alla fine del secolo scorso, in occasione dei restauri della Cattedrale, da Pietro Loli Piccolomini da Siena, assistente di Cesare Maccari.

La Vergine, dai lineamenti dolcissimi e con mesta pensosità, aureolata, con veste bianca e mantello blu orlato d’ oro, è seduta su un elegante baldacchino e regge sulle ginocchia il Figlio, che con la mano destra sorregge un pomo e benedice con la sinistra. Il Piccolo, con il nimbo crociato, veste un abito bianco con delicata tunica rosa. In basso a sinistra si intravede un devoto genuflesso.

L’ imago Beatissimae Virginis Sanitatis, in origine ubicata in fondo alla navata sinistra, nel 1573, da mons. Salvio fu traslocata dove oggi c’è la sede vescovile “per dar più onorato luogo alla sacra immagine…, e per mirarla di continuo avendola sempre all’incontro, e perchè stesse più esposta e alla vista della venerazione de’ popoli”. Da Mons. Girolamo De Franchis (1617-1634) fu di là trasferita nel sito attuale.

Copia di francobollo 15

Il valore di 0,15 € riporta un particolare dell’affresco della Madonna del giglio (m. 2,50×0,88), sul quarto pilastro della navata destra, da ricondurre al momento angioino dell’edificio.

La Vergine, seduta su trono con schienale curvo e raggiungibile tramite tre gradini, è dipinta col volto lievemente rivolto verso il Figlio. Indossa ampia tunica rosa e manto azzurro ed ha il capo coronato avvolto da un nimbo giallo orlato di perle; con la mano sinistra regge un bianco giglio angioino e con la destra sostiene il Bambino, il cui volto è circondato da un nimbo crociato ed orlato. Indossa una tunica rossa con cingolo bianco e indica con la sinistra il giglio.

Sullo sfondo azzurro spiccano le abbreviazioni greche delle due figure, inserite sotto un arco trilobo a tutto sesto.

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 Il valore di 0,25 € riporta un particolare dell’affresco di San Nicola di Myra (m. 2,48×0,80), sul secondo pilastro della navata sinistra.Il santo benedicente alla maniera greca, secondo lo schema bizantino, è ritratto frontalmente e a figura intera, veste tunica bianca, mantello rosso, omoforion bianco nerocrociato e tiene nella mano sinistra un Vangelo decorato con gemme. In alto, a sinistra, la Madre di Dio porge il pallio, mentre all’ opposto il Cristo, anch’ esso a figura intera, porge il Vangelo. Le iniziali latine sono scritte in caratteri gotici e inquadra il tutto una cornice di color corallo, complementare all’azzurro dello sfondo.

 

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Il valore di 0,45 € riporta un particolare dell’affresco del Cristo Pantocrator (m. 2,50×0,90), sul terzo pilastro della navata destra.

Seduto su un trono, in posizione frontale e benedicente alla greca, Cristo regge con la mano sinistra un Vangelo aperto su cui si legge Ego sum lux mundi qui sequitur me non ambulat in tenebris (Io sono la luce del mondo: chi segue me non cammina nelle tenebre (Vangelo di Giovanni, I, 5).Indossa una veste rossa orlata di oro e un manto olivastro; il viso incorniciato da barba corta e scura ha un nimbo crociato orlato di perle. Interessante la forma del trono, rappresentato da uno schienale tondo abbastanza alto, che è “elemento diffuso nelle scuole artistiche bizantine della seconda metà del XIII secolo, collegato molto probabilmente al tema del <trono della Sapienza>, della Sofia <sapienza divina>, in cui Cristo è raffigurato in trono”.

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Nella parte inferiore dei valori a sinistra è riportato il logo del Vaticano, a destra quello delle celebrazioni neritine, in cui domina la croce patriarcale, che ricalca quella antichissima scolpita sulla facciata della Cattedrale, alla cui base sono opportunamente innestate le due lettere NC, compendiando la valenza nello stesso tempo laica e religiosa dell’evento, essendo abbreviazione N di Neritonensis e C di Cathedralis e di Civitas. Nell’ambito della seconda lettera trovano allocazione le due date 1413 e 2013.

Tra i due loghi è compreso il titolo dell’emissione: VI Centenario della Cattedrale di Nardò.

 

 

La facciata della cattedrale di Nardò, disegnata da Ferdinando Sanfelice
La facciata della cattedrale di Nardò, disegnata da Ferdinando Sanfelice

Caratteristiche tecniche dell’emissione:

Titolo: VI Centenario della Cattedrale di Nardò

data emissione: 7 novembre 2013

serie composta da 5 valori da € 0,05 – € 0,10- € 0,15 – € 0,25 – € 0,45

Tiratura: 150.000 serie complete

Tecnica Stampa: Offset a  quattro colori

Dentellatura 13 ¼ x 13

formato dei francobolli: 32,13 x 38

Stamperia Cartor (Francia)

Rifiuti tossici interrati nel Salento

campagna salentina (ph Fondazione TdO)
campagna salentina (ph Fondazione TdO)

Alla luce delle rivelazioni in salsa camorrista sui rifiuti tossici interrati nel Salento, l’anziano che raccoglie le cicorine selvatiche e le rivende a bordo strada, svolge la stessa funzione dell’ insetto che trasporta il batterio che sta uccidendo gli ulivi (Andrea Fachechi).

 

http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/veleni-interrati-dalla-mafia-un-pentito-salentino-svela-sepolti-intorno-a-casarano-no666245?fb_action_ids=695049913840877&fb_action_types=og.likes&fb_ref=.UnS7ZnTG7e4.like

La “joint venture” della mia fanciullezza

capretta

di Rocco Boccadamo

La locuzione sostantivale “joint venture”, mutuata, al pari di tante altre, dalla terminologia inglese, ma ormai divenuta di uso comune in tutto il mondo, dà, di primo acchito, l’impressione di qualcosa di complicato, difficile.

Invece, come è noto, tradotta in italiano, può significare, anche e semplicemente, alleanza, collaborazione.

Ad ogni modo, vocabolo a parte, nella specifica fattispecie è il caso di osservare che gli amici anglo sassoni non hanno scoperto proprio alcunché di originale.

I miei nonni materni, i quali vivevano insieme con i sei figli in una modesta abitazione a piano rialzato, fino a quando non sono divenuti vecchi o inabili, hanno sempre allevato una capretta, che, di giorno, conducevano immancabilmente al libero pascolo nei loro fondicelli, tenendola poi, la sera e durante la notte, ricoverata in un angolo della cantina a livello interrato.

Una compagnia, fissa e costante, per la famiglia, dunque, il mite ovino, e, in più, una fonte di esigui guadagni a beneficio del magro bilancio domestico.

A proposito del contributo dell’animale in termini di utilità, serbo nitido, sebbene siano trascorsi circa sessanta anni, un particolare ricordo.

Dalla mungitura della capretta, la nonna Lucia ricavava quotidianamente un quantitativo di latte assai modesto, assolutamente insufficiente per mettersi a trasformarlo in formaggio. E però, la brava donna rimediava alla limitata “produzione propria”, mediante un accorgimento concordato con le famiglie del vicinato, anch’esse proprietarie di un ovino per ciascuna.

Un determinato giorno, gli allevatori, praticamente consorziatisi sulla parola, erano chiamati a conferire le rispettive produzioni, in blocco, alla famiglia X, il giorno seguente ad un’altra e così via. Presso ciascun nucleo, veniva così a concentrarsi, ogni volta, un’apprezzabile raccolta di bianco liquido, bastante per ricavarne, attraverso una lenta operazione di bollitura e con l’ausilio del caglio naturale, una piccola forma di formaggio.

Ho ancora davanti agli occhi la semplice perizia, la cura, con cui la nonna Lucia girava e rigirava, quasi accarezzandola, la ricotta, tirandola man mano su e sistemandola in una fiscella di vimini che, alla fine, veniva deposta, con un rito quasi sacro, sull’alta scansia sporgente da una parete, per il processo di essiccazione e stagionatura.

Nonostante la lontananza temporale, dentro di me riecheggia finanche il sapore di quel prodotto casalingo, che aveva per catena di montaggio la mungitura della capretta, la bollitura del latte nella pentola sul fuoco di legna, la maturazione del semilavorato sulla scansia.

Un’ultima notazione: quando ricorreva il turno della nonna Lucia, noi nipotini eravamo direttamente interessati al processo lavorativo, giacché, dopo il prelievo della ricotta “buona” per il formaggio, nella pentola restava un residuo liquido di colore giallo (siero, nel nostro dialetto “seru”) con piccoli grumi bianchi (in gergo, “minora”), che ci spartivamo nei nostri minuscoli bicchieri d’alluminio, per intingervi e bagnare la “frisella” della prima colazione.

Insomma, cosa sarà mai una joint venture! Ne esisteva ed era attiva una, già a metà del secolo scorso, a Marittima, in Via Convento.

Nero(è)Notte. Ovvero il racconto del raccontare

neronottemare

di Francesco Pasca

 

Esiste un popolo della notte. Ma esiste anche la notte non uguale per ogni singolo di quel popolo. A quel singolo può capitare di avere avuto assegnato il nome di “Ermanno” e che può averlo avuto e determinato da chi ha voluto scrivere della sua storia e di un NERO NOTTE.

All’apparenza la seguente asserzione parrebbe nell’ovvio. Chi ne vuole pronunciare e scrivere, con la recensione di quel che si è letto, è uno di quei “lupi della steppa” e lo farà perché vorrà dedicarlo assecondando l’amico Paolo Vincenti e Hermann Hesse per quel: “Soltanto per pazzi”.

Come per l’introdurre dirò che: ”il semplice non è il banale” e che, “il complesso non è il difficile”.

M’è parso un buon motivo per scriverne e per soffermami. Dapprima dialogando sul titolo, che ho anch’io voluto segnare con il lungo prologo, poi descrivendo il seguito suggerendolo con un altrettanto brevissimo epilogo (Vincenti del suo NERO/NOTTE ne ha fatto del prologo centocinquantacinque pagine e solo un capoverso di tredici righe dell’epilogo).

Paolo Vincenti mi ha bloccato nell’illimitato sulla prima di copertina e mi ha fatto rileggere più volte quel titolo, quel “Nero Notte”.

Ho avuto la strana sensazione, per me che ne trattavo, di una “copula” sottratta, di un Tempo del voler persistere necessariamente e volutamente mancante, di un volersi affermare e corrispondere per e a un ulteriore “rovello” che si può dipanare in una Notte, di un dover immaginare una clessidra dal collo così largo da non poter concedere che essa si possa riempire o svuotarsi.

Non sono ma mi dispongo, nello scrivere, come il gemello giovane ma più “anziano” che si trova al cospetto del suo gemello più vecchio ma più “giovane”. Sono il paradosso di Einstein che ha visto violare il suo e l’altrui Tempo. L’asserzione di quel che dico è parzialmente dovuta al fatto che, con Paolo Vincenti ho in comune lo stesso giorno, probabilmente anche la stessa ora, ma l’anno di quella nascita diverge, si altera per ragioni non solo di scrittura anagrafica in paradosso.

Fatta questa breve considerazione eccomi a voler caparbiamente affermare che l’aggettivo Nero è il soggetto ed ha per nome Ermanno e che il sostantivo Notte ne è la sua specificazione ma non lo stato in luogo.

Fra Nero/Notte provo ad immaginare un Nous, una terza Enne che pone essere nell’ES, l’intimo dovuto dall’ònfalo-ὀμϕαλός nato dallo stesso, che è d’argento ed è stato deposto dalla Notte e, nel frattempo, divenuto Fanete, nonché il Dio che prova a trovarsi ad essere la romanza di Eros e Thanatos e districarsi dall’essere orfico, morfico, metamorfico.

Oppure matematicamenteorficonellasuaprobabiletrasformazioneonirica.

Messa così parrebbe proprio quel “semplice” e quel “complesso” di cui ho sopra accennato.

La sorpresa maggiore di quel che ho pensato, cioè di quand’ero con sosta obbligata in prima di copertina, l’ho trovata fortunatamente a pag. 28 nel luogo delle Parche. L’amico Paolo mi ha dato conforto scrivendo di un’immagine, di un dipinto: «… L’opera, che aveva intitolato sic volvere Parcas, con Virgilio, era divisa in tre sezioni: nella prima Cloto a filare, nella seconda Lachesi a distribuire il filo e nella terza la crudele Atropo a reciderlo; sui tre campi incombeva un signore dall’aria malvagia che era il Tempo …»

Bene! Mi son detto e poi aggiunto: gli ingredienti per il racconto ci sono tutti.

Nel frattempo, cioè nel lasso di un voltare e leggere pagina dopo pagina, ho rammentato quel che precedentemente il Vincenti ha voluto scrivere di Ermanno e a come ne ha dato titolo, dapprima, esaltandolo con: [dal diario poetico di Ermanno] pag. 19 (… e sono attimi/che passano/si consumano/evaporano/non tornano …) e poi ancora a pag. 34 (le cose cambiano, cambiano le persone/e così siamo cambiati anche noi/ci siamo concessi un ultimo amplesso …), poi, ricucendolo con patina nerastra.

Ma dicevo anche del Nero e della Notte, così come di Amore e di Morte ed ancora del Giorno e della Notte nonché di Luce e Buio. Altresì, da gemello, facevo sostare il Tempo.

Mi concedo, scrivendo, di alterarlo, di posporlo, di alternarlo ad altro gemello e lo scorgo a pag. 37 (… Gerry, un barbone venuto da un’altra città …).

Paolo Vincenti mi dà la prova di racconto, di saper trovare e scrivere del racconto. Vincenti mi convince del trova e del prova e mi dà la certezza di far specchiare il suo personaggio.

Ermanno è lì davanti allo specchio, è lo specchio, è la scrittura/pensiero dello stesso Vincenti con: (… che aveva conosciuto anni prima …) e il racconto impresso in quello specchio con: (… mentre sovrapensiero camminava …)

Come giustifica e al contempo allontana il NeroErmanno da quel rispecchiarsi?

È il compito dello scrittore far stringere il collo alla clessidra e riportare il Tempo dov’è il Tempo. A pag. 47 c’è la soluzione. (“ Allora Ermanno: «sai, abbiamo un rapporto molto diverso con il tempo, io e te. Tu aspetti il futuro, un futuro prossimo, vicinissimo, perché sai che da questo … otterrai … io invece …»)

Tocca ancora una volta allo scrittore Vincenti trovare la reale differenza fra futuro e futuro, sia esso semplice o anteriore. Dovrà stabilire se quell’essere dovrà essere coniugato con “io sarò” o “sarò stato”. Vincenti ancora una volta trova e mi dà prova con il ricordo di un attraversamento nel Nero e in una Notte con: a pag. 68.(… ci sono luci che a volte si accendono dentro/ma durano così poco, solo un attimo/… in qualche posto imprecisato/…/è così raro …)

Il Nero è la descrizione, è il modo del dubbio, della possibilità, dell‘eventualità, dell‘irrealtà … quel che spinge il lettore a non fermarsi. A superare e a come lo descrive è il Nostro a pag. 89 (… quante volte ho detto: noia/ma era la speranza/quante volte ho detto: via/ma era il bene perduto/… ho pensato all’acqua/ma era fuoco/e ho pensato fuoco/ma era acqua …)

Vi ho detto del mio prologo che sarà lungo e di una Notte ch’è stata lunga, lunghissima per la descrizione di Paolo Vincenti, ma ch’è anche lunga o breve, grande o piccola quanto può essere piccolo o grande il Nero.

Per meglio descrivere quell’eternità di Nero/Notte, di un solo attimo consumabile con un gesto andrò a rileggere e a raccomandarvi di leggere anche voi bene quel che è stato scritto a pag. 117.

Andrò a rileggere e voi a ricordarvi che Vincenti conosce qual è il racconto e da dove nasce e chi lo ha insegnato. Conosce e sa che era Omero a far riposare i suoi guerrieri dopo la battaglia. Appura che vi è differenza fra combattere ed arrendersi. Scrive che non ci si può bagnare nello stesso fiume, se tutto scorre. Vede che scompaiono le anime smarrite al chiarore del giorno e sa dell’esistenza di Elena che può reclamare la sua bellezza sfiorita: “O, tempo consumatore delle cose, e o invidiosa antichità, tu distruggi tutte le cose da duri denti della vecchiezza a poco a poco con lenta morte!

Elena quando si specchiava, vedendo le vizze grinze del suo viso, fatte per la vecchiezza, piagne e pensa seco, perché fu rapita due volte.

O tempo consumatore delle cose, e o invidiosa antichità, per la quale tutte le cose sono consumate!” (Leonardo da Vinci)

Lo scrittore urla Wanted dead or alive! Può condurre alla ricerca del proprio Nous con l’imperativo: Ricercato(ricercatelo) vivo o morto! 

Ricercare per Vincenti è avere dinanzi a sé continue visioni e quelle visioni si apprestano ad essere reclamate alla fine del suo lungo prologo, a pag.155: “vide … udì … vide,vide,vide, … si rivide … ebbe … sentì”.

Vi ho parlato anche di un breve epilogo. Il gesto scrittura farà coincidere i due tempi al futuro. Coinciderà il Tempo del crederà di Elena con quello di un non crederà di Ermanno.

Buona lettura!

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