Nel 1703 usciva postumo a Napoli per i tipi di Perrino Il Regno di Napoli in Prospettiva1, opera in tre volumi, di Giovan Battista Pacichelli (1634-1695). Le tavole che compaiono riprodotte nella varie parti del mio lavoro sono tratte tutte dal secondo volume che comprende la parte dedicata alla Terra d’Otranto; la prima immagine appena riprodotta appare mutila perché nel digitalizzarla non si è tenuto conto (per la fretta?2) che la pagina relativa era un inserto ripiegato, per cui qui segue quella intera tratta da http://www.vecchiaprovinciadilecce.it/images/small/pp6.jpg
Così appare la Terra d’Otranto nell’immagine che ho tratto ed adattato da Google Maps:
Come avviene per i migliori (?) palinsesti televisivi comunico che seguirà nella prossima puntata la parte dedicata ad Alessano. Infatti, per non fare torto a nessuno, ho deciso di seguire l’ordine alfabetico e non per provincia. Ho pensato pure che fosse opportuno premettere ancora volta per volta una breve (non sempre …) nota etimologica sul toponimo e le parole che lo stesso Pacichelli dedica alle località corredate di mappa in questo testo ma anche nei due precedenti, senza mappe, in cui registrò in forma di diario i quattro viaggi effettuati in Puglia in qualità di visitatore ufficiale di Altamura per conto del suo signore, il duca di Parma, Ranuccio II, titolare del feudo; da Altamura egli non disdegnò di operare diversioni turistiche in parecchi centri di Terra d’Otranto.3 Le citazioni (riporterò l’immagine originale del testo e non la sua trascrizione quando esso è piuttosto lungo) dal primo testo saranno contrassegnate da A, quelle dal secondo e dal terzo, rispettivamente, con B e C. Correderò pure, quando le trasformazioni indotte dal tempo e dagli uomini renderanno proponibile la comparazione, le nude immagini originali con qualche commento e con altre che documentano lo stato attuale dei luoghi o di alcuni dettagli.
Confido, infine, nell’aiuto dei lettori che vivono nel centro volta per volta preso in esame per apportare le dovute correzioni agli inevitabili errori di identificazione o di altro tipo; particolarmente gradite, poi, saranno le integrazioni possibilmente documentate anche fotograficamente.Dopo Alessano l’attenzione sarà volta per volta dedicata alle restanti dodici mappe che riguardano Brindisi, Carpignano, Castellaneta, Castro, Laterza, Lecce, Mottola, Oria, Ostuni, Otranto, Taranto e Ugento.
Concludo questa presentazione riproducendo dall’inserto originale (anche se mutilo, me lo consente) prima e dalla pagina iniziale della sezione dedicata alla nostra Terra d’Otranto poi (pag, 150), il dettaglio dello stemma; segue la comparazione con il suo adattamento nell’obelisco di Porta Napoli (foto dell’autore) e con l’attuale stemma della Provincia di Lecce, immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Provincia_di_Lecce-Stemma.png). Chi volesse saperne di più può leggere sull’argomento il saggio di Maurizio Carlo Alberto Gorra Il delfino nel mito, nell’estetica, nell’araldica pubblicato ne Il delfino e la mezzaluna, anno I n°1 (luglio 2012), pagg. 6-12 e quanto scritto dal sottoscritto in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/11/il-delfino-e-la-mezzaluna-prima-parte/
2 All’iniziativa estremamente meritoria intrapresa da Google per la diffusione della cultura l’unico appunto che si può muovere è proprio l’inconveniente rilevato, puntualmente ricorrente ogni volta che c’è nel libro da digitalizzare un inserto ripiegato (mappa, tabella, etc., insomma qualcosa spesso più interessante e prezioso dello stesso testo). Non credo sia complicato costruire (ammessa che non esista già …) una macchina digitalizzatrice automatica in cui ad un dito meccanico dotato di opportuni sensori sia affidato il compito di sfogliare le pagine, rilevare la presenza di inserti ripiegati e spiegarli prima della digitalizzazione.
3 I quattro viaggi in Puglia furono pubblicati in Memorie de’ viaggi per l’Europa Christiana (Regia Stamperia, Napoli, 1685) e in Memorie novelle de’ viaggi per l’Europa cristiana (Parrino & Muzio, Napoli, 1690).
Le testimonianze che seguono (solo la prima immagine a corredo, per motivi facilmente intuibili, è “d’epoca”) sono tutte attendibili perché non si basano sulla nebulosa tradizione di una leggenda ma hanno come padre il più famoso naturalista latino, cioè Plinio (I secolo d. C.)..
Esse registrano la rinomanza conquistata dalle genti salentine in alcuni settori produttivi. La prima riguarda la fabbricazione degli specchi, ricordata in due passi: 1) E per dire qui tutto sugli specchi: ottimi erano stati presso i nostri antenati quelli brindisini ottenuti dalla fusione di stagno e bronzo; per primo li realizzò Pasitele al tempo di Pompeo Magno1; 2) Lo stagno legato al bronzo nella realizzazione di vasi rende più gradevole il sapore [dei cibi], ostacola la formazione del velenoso verderame e, cosa mirabile, non aumenta il peso. Perciò i migliori specchi, come ho detto, si fabbricavano con esso. Si fabbricavano a Brindisi, finché anche le serve cominciarono ad usare quelli di argento2.
Un’eccellenza territoriale all’interno di quella regionale campione del mondo registra la produzione della lana: Ma la lana più pregiata è quella pugliese che in italia è detta di pecora greca, altrove italica. Il terzo posto lo occupano le pecore milesie. Quelle pugliesi sono di pelo corto ed adatte solo per i mantelli; hanno la massima considerazione quelle della zona intorno a Taranto e a Canosa3.
L’allevamento delle ostriche mostra un fenomeno simile a quello che nei tempi passati vedeva il nostro mosto utilizzato per il taglio di vini settentrionali e centrali ed ora vede il vino prodotto in Puglia (almeno si spera …) imbottigliato e commercializzato, magari con un’ammiccante forzatura onomastica, a Milano come a Pechino.4
Primo tra tutti Sergio Orata [come non credere al detto nomina omina=i nomi sono presagi?] al tempo di Lucio Crasso prima della guerra marsica scoprì a Baia vivai di ostriche, traendo da questa sua ingegnosità grandi vantaggi non a causa della gola ma dell’avarizia, cosicché fu il primo ad inventare i bagni pensili, vendendo poi le ville così incrementate di valore. Egli per primo attribuì un ottimo sapore alle ostriche del Lucrino, poiché le stesse specie acquatiche sono migliori a seconda del luogo, come il pesce lupo nel Tevere fra i due ponti, il rombo a Ravenna, la murena in Sicilia, l’elope a Rodi; e similmente altre specie, per non giudicare nel dettagli la cucina. Non ci servivano [ancora] le costiere di Bretagna quando Orata dava rinomanza alle ostriche del Lucrino. Poi sembrò più chic andare a prendere le ostriche alla parte estrema dell’Italia, a Brindisi e, perché non ci fosse lite tra i due sapori, da poco si è escogitato di compensare nel Lucrino la loro fame dovuta al lungo trasporto da Brindisi.5
La notizia contenuta nell’ultimo periodo verrà ribadita in un passo di un capitolo successivo della stessa opera:[Le ostriche] gradiscono lo spostamento ed essere trasferite in acque sconosciute. Si crede così che quelle brindisine dopo essersi nutrite nell’Averno mantengono il loro gusto e ne adottano [un secondo] dal Lucrino.6 Addirittura le povere ostriche, nate a Taranto, crescono prima nell’Averno e poi nel Lucrino.
Chiudo più che con un’eccellenza con un primato per me triste, perché infelice è lo stato di chi, uomo o bestia, ha perso la libertà, sia pure solo quella fisica.
Marco Lenio Strabone dell’ordine equestre per primo istituzionalizzò a Brindisi [la costruzione di] voliere in cui veniva chiusa ogni specie di uccelli. Da allora cominciammo a incarcerare gli animali ai quali la natura aveva assegnato il cielo.7
E ora? La domanda, direbbe Antonio Lubrano, sorge spontanea, ma dopo la desolante ultima immagine non me la son sentito di chiudere, e faccio solo due esempi, con quella di una ciminiera dell’Ilva o di una piantagione di pannelli fotovoltaici …
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1 Naturalis historia, XXXIII, 45: Atque ut omnia de speculis peragantur in hoc loco, optima apud maiores fuerant Brundisina, stagno et aere mixtis. Praelata sunt argentea; primus fecit Pasiteles Magni Pompei aetate.
2 Op. cit., .XXXIV, 48: Stagnum inlitum aereis vasis saporem facit gratiorem ac compescit virus aeruginis, mirumque, pondus non auget. Specula etiam ex eo laudatissima, ut diximus. Brundisi temperabantur, donec argenteis uti coepere et ancillae.
3 Op. cit., VIII, 73: Lana autem laudatissima Apula et quae in Italia Graeci pecoris appellatur, alibi Italica. Tertium locum Milesiae oves optinent. Apulae breves villo nec nisi paenulis celebres; circa Tarentum Canusiumque summam nobilitatem habent.
5 Op. cit., IX, 88: Ostrearum vivaria primus omnium Sergius Orata invenit in Baiano aetate L. Crassi oratoris ante Marsicum bellum, nec gulae causa, sed avaritiae, magna vectigalia tali ex ingenio suo percipiens, ut qui primus pensiles invenerit balineas, ita mangonicatas villas subinde vendendo. is primus optimum saporem ostreis Lucrinis adiudicavit, quando eadem aquatilium genera aliubi atque aliubi meliora, sicut lupi pisces in Tiberi amne inter duos pontes, rhombus Ravennae, murena in Sicilia, elops Rhodi, et alia genera similiter, ne culinarum censura peragatur. Nondum Britannica serviebant litora, cum orata Lucrina nobilitabat. postea visum tanti in extremam Italiam petere Brundisium ostreas, ac, ne lis esset inter duos sapores, nuper excogitatum famem longae advectionis a Brundisio conpascere in Lucrino.
Il primo, però, a ricordare questo ingegnoso palazzinaro ante litteram era stato Valerio Massimo (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Factorum ac dictorum memorabilium libri, IX, 1, 1: C. Sergius Orata pensilia balinea primus facere instituit. Quae inpensa a levibus initiis coepta ad suspensa caldae aquae tantum non aequora penetravit. Idem, videlicet ne gulam Neptuni arbitrio subiectam haberet, peculiaria sibi maria excogitavit, aestuariis intercipiendo fluctus pisciumque diversos greges separatim molibus includendo, ut nulla tam saeva tempestas inciderit, qua non Oratae mensae varietate ferculorum abundarent. Aedificiis etiam spatiosis et excelsis deserta ad id tempus ora Lucrini lacus pressit, quo recentiore usu conchyliorum frueretur: ubi dum se publicae aquae cupidius inmergit, cum Considio publicano iudicium nanctus est. In quo L. Crassus adversus illum causam agens errare amicum suum Considium dixit, quod putaret Oratam remotum a lacu cariturum ostreis: namque ea, si inde petere non licuisset, in tegulis reperturum (Caio Sergio Orata per primo decise di costruire bagni pensili. Quest’impresa limitata all’inizio quasi penetrò il mare per bagni di acqua calda sospesi. Egli per non aver la gola soggetta all’arbitrio di Nettuno escogitò per sé mari privati interrompendo i flutti con canali e chiudendo separatamente con pietre i diversi branchi di pesci in modo che nessuna violenta tempesta influisse a tal punto che la mensa di Orata non abbondasse di varietà di piatti. Chiuse pure le bocche del lago Lucrino a quel tempo deserte con edifici spaziosi ed alti per fruire della freschezza dei molluschi; dove, mentre si gettava a capofitto, incurante della sua avidità, nell’acqua pubblica, incorse nell’accusa dell’appaltatore di imposte Considio. Lucio Crasso che conduceva la causa contro di lui disse che il suo amico Considio sbagliava credendo che Orata allontanato dal lago sarebbe rimasto senza ostriche: infatti le avrebbe trovate nelle tegole se non gli fosse stato concesso di cercarle da lì).
Che Orata avesse il pallino della speculazione edilizia lo dimostra il fatto che Cicerone lo ricorda (De officiis, III, 67 e De oratore, I, 178) come parte lesa in un processo per via di una casa che gli era stata venduta gravata da servitù non dichiarata espressamente dal venditore ma della cui esistenza Orata era al corrente).
6 Op. cit., XXXII, 23: Gaudent et peregrinatione transferrique in ignotas aquas. Sic brundisina in Averno compasta et suum retinere sucum et a Lucrino adoptare creduntur
7 Op. cit., X, 71: Aviaria primus instituit inclusis omnium generum avibus M. Laenius Strabo BrundisiI equestris ordinis. Ex eo coepimus carcere animalia coercere, quibus rerum natura caelum adsignaverat.
Come un uomo non è riducibile al suo corpo, così un luogo non è riducibile a uno spazio fisico. Perché questo sia un luogo occorre anzitutto almeno una motivazione che lo abiti e lo organizzi, ci vuole almeno un significato complessivo che lo animi dotandolo di una identità funzionale minimale.
Questo è un luogo per lo studio, quello un luogo di culto, quell’altro un luogo per lo svago, ogni luogo è tale per almeno un fine che gli attribuiamo, ossia per un significato totale, identitario, connotante, sulla base del quale lo spazio è palesemente organizzato nei suoi elementi tangibili.
Il luogo è dunque la forma che organizza lo spazio fisico, la sua entelechia.
È nel luogo che si accomodano e si incontrano propriamente le persone, è ai luoghi che ci affezioniamo, è questo, e non lo spazio, lo sfondo sul quale si stagliano le nostre esperienze vissute. Tali esperienze si sedimentano nel tempo in memorie che, nel persistere identico per tutti dello spazio, ampliano invece continuamente i confini dell’altro, lo diversificano e lo pluralizzano in tanti micro-luoghi quante sono le persone e i loro incontri, apportandovi inoltre motivazioni ulteriori non ricomprese nel fine originario.
Si da allora il caso che vi siano, persino nel recinto circoscritto delle nostre case, porzioni di spazio che non sono mai diventate porzioni di un luogo per noi o qualcuno. Ci sono intere sale o angoli che non si sono mai prestati ad un nostro sguardo interessato, ad un significato qualunque, ad un frammento di memoria; ci sono vedute su questo spazio tracciato dai geometri e dai documenti che possiamo scoprire con stupore e possiamo abitare solo dopo questo nuovo ingresso.
Il nostro luogo-casa è ritagliato entro lo spazio-casa complessivo, ma non coincide mai con esso.
Ciò di cui possiamo veramente dire “è il posto in cui viviamo” è il nostro luogo personale, un ritaglio entro uno spazio oggettivo di cui sanno qualcosa solo gli atti notarili o i contratti d’affitto ma che noi di fatto non viviamo, non abbiamo conosciuto né testimoniato, non abbiamo mai investito di vissuti e significati, uno spazio che non ci è mai appartenuto, nel quale non vi abbiamo mai preso dimora. Ciò di cui possiamo testimoniare è solo il nostro luogo in quello spazio. La sedia che è lì, la porta che le è accanto sono elementi nello spazio a tutti accessibile. Ma il filo di ricordi che dipana da quella sedia, il suo significare per me, la connessione che mi riporta a chi me l’ha donata, mi appartengono personalmente come una parte del luogo in cui soggiorno solo io.
Posso cedere, vendere o affittare il mio spazio-casa ma non il mio luogo-casa, perché questo emana da tutta la mia personalità e dalla mia storia di singolo e dalla storia di chi mi è intorno: è più di un semplice bene immobile il cui possesso mi è riconosciuto dalle leggi o dai costumi, è un bene personale, è mio in un senso più inalienabile della proprietà, non posso che portarlo necessariamente con me come fosse il mio corpo, mi appartiene come un’estensione personale, è un habitus su misura.
Antonio Verrio pittore tra Italia, Francia e Inghilterra
L’avventuroso matrimonio del giovane artista leccese: due interessanti documenti
di Fabio Antonio Grasso
Antonio Verrio è un nome che risuona non poco nella sale del palazzo reale di Windsor così come in alcuni edifici di Tolosa (e non solo) in Francia. E’ un pittore di peso nella storia dell’Arte dell’Italia meridionale ed europea. Sugli inizi della sua attività artistica poco o nulla è noto. Sappiamo molto dei suoi ultimi anni e dell’anno della sua morte, il 1707. Non si conosce, invece, con esattezza né l’anno nè il luogo della sua nascita (1636, 1639 o 1634?, Napoli o Lecce?), quasi nulla dei suoi primi anni di vita; ipotizzata ma non ancora dimostrata la sua presenza a Roma.
In un documento recentemente ritrovato in Francia egli si dichiarerebbe nato a Napoli (DE GIORGI R., “Couleur, couleur!”. Antonio Verrio: un pittore in Europa tra Seicento e Settecento, Firenze:Edifir, 2009, p. 45). Non è noto al momento se sia stata fatta una ricerca nell’archivio della chiesa napoletana indicata, san Giovanni Maggiore. Certo è invece che la ricerca condotta da più studiosi sugli atti di battesimo relativi agli anni Trenta del Seicento (epoca presunta della nascita) custoditi presso l’archivio storico diocesano di Lecce sembra non avere trovato notizie a supporto di un’altra ipotesi: quella di Lecce come città natale dell’artista. Andrebbe detto, però, e non sembra sia stato segnalato dagli stessi storici, che nell’archivio appena citato manca il volume dei battezzati relativo al 1634, motivo per cui non si può escludere, in questa fase della ricerca e fino a che non verrà eseguita la verifica scaturita dal documento francese, che la nascita del pittore possa essere avvenuta anche a Lecce e proprio in quest’anno archivisticamente mancante. Il percorso di ricerca è tracciato, non rimane che seguirlo.
Diventano particolarmente interessanti a questo proposito due testimonianze presenti in un fascicolo (ACA Le, Fondo Matrimoni e Stati Liberi, Busta 20, fasc. 2271, a.1681) sul cui ulteriore contenuto si ritornerà a breve.
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Il 28 novembre 1681 il clerico Celso Trezza di cinquantatre anni, a Lecce da trentadue, afferma sotto giuramento: “ […] dicho io conoscei per molti anni Antonio Verrio / perche costui fu clerico e diverse volte quando io / ero caporale in questa Curte à tempo di / Monsignor Pappacoda venne carcerato in queste carceri. […]”, e poi poco oltre continua “[…] Sono molti anni che manca da Lecce si / disse che andò in Roma, e che poi fusse / passato avanti […] lo conobbi molti anni per clerico e doppo si casò / con una giovane di chi non so il nome / (ma) // era sorella di Pompeo, e di Giovanni Giacomo Tornese / di Lecce.”
“In quale luogo fu celebrato il matrimonio?”, chiede l’interrogante. Celso Trezza risponde: “Questo lo carcerammo una notte dentro / la casa di detta sorella de Tornesi, che habitava / verso la strada dell’Arco di Prato e lo / condussimo carcerato in queste carceri vescovali ma perche poi / disse che la volea per moglie il matrimonio / tra di loro mi ricordo che si celebro sopra / lo corrituro di questo Palazzo dove venne la detta / giovane, e si fèper ordine di dettoMonsignor Vescovo. […]”.
Lo stesso giorno presta la sua dichiarazione anche un altro testimone il cinquantottenne leccese Carlo Guarino. Alla domanda se conoscesse A. Verrio risponde: “[…] Io ho conosciuto Antonio Verrio figlio del Pittore / che si chiamava Giovanni (a) perché eramo / paesani, e con occasione di esso era clerico ed io / son stato molto tempo cursore di questa Curte / alcune volte lo carcerammo in queste carceri. / […] Sono molti anni che partì da Lecce / dicono, che andò in Roma, e poi fusse / passato in Francia. / […] questo Antonio si casò con una / giovane di chi non mi ricordo il / nome, ma era sorella di Pompeo, e // e di Giovanni Giacomo Tornese di questa città. / […] detto Antonio allora era clerico che havea da / quindici anni e più, et hebbimo l’avviso, / che stava in casa di detta Tornese, io con / clerico Celso Trezza allhora capurale di questa / Curte, et altri nostri compagni li diedimo l’assalto / in casa di detta giovane che habitava in una / casa verso l’Arco di Prato, e lo trovammo in / detta casa, e là lo carcerammo, e lo portammo / carcerato in queste carceri vescovali, e stando carcerato per ultimo / disse, che la volea per moglie e de facto il / matrimonio tra lui, e detta giovine si celebrò / sopra il currituro di questo Palazzo avanti alle / dette carceri, e questo è quanto passa. […]”.
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Nel fascicolo contenente queste due testimonianze segue poi un’altra dichiarazione, quella prestata da Lorenzo Dedas di Casarano il 27 novembre del 1681. Questi si trova in carcere perché querelato da una donna di Scorrano, tale Giuditta Stradiotti,“[…] per causa che io (dice il dichiarante, ndr) la conobbi carnalmente […]”. Tale ultima dichiarazione (riportata qui in modo estremamente sintetico) non sembra avere relazione alcuna con le due testimonianze precedenti dello stesso fascicolo e Antonio Verrio. Verrebbe da pensare a un errore “di unione” delle prime carte alle seconde, la pratica infatti è identificabile con il nome del terzo dichiarante e della Stradiotti. Se dovessimo ragionare per analogia con quanto si vede nelle altre pratiche simili dello stesso fondo archivistico si potrebbe pure pensare che le carte di cui ci occupiamo siano la parte di una sorta di “processo” relativo all’accertamento di Stato Libero proprio del pittore. La loro parzialità consente di avanzare diverse ipotesi ma di non accettarne nessuna con certezza. Si ricordi, inoltre, a questo proposito, che le due prime testimonianze risalgono al 1681 e non possono essere quindi parte della documentazione (non reperibile) per il già noto matrimonio del pittore (avvenuto nel 1655 circa) con Massenzia Tornese. Non può escludersi, a questo punto, ma è solo una delle ipotesi, che tali carte siano quanto rimane della documentazione relativa a un secondo matrimonio del pittore. Altra questione lasciata aperta, a giudicare da quanto affermato dalla più recente e autorevole storiografia, è quella legata al padre, Giovanni. Questi, segnalato durante la stesura di un atto notarile (AS Lecce, Protocolli notarili, BRUNETTA D. M., not. in Lecce, atto del 5 ottobre 1630, cc. 238v – 243) in qualità di testimone, è identificato senza titoli professionali come : “Joannes de Verrio de Neapoli Litij commorans” ovvero è napoletano e vivente a Lecce. Il rogito è utile anche perché attesta che egli era nel capoluogo salentino (non è noto se con la sua famiglia o meno) già nel 1630. Giovanni è presente, ancora sempre senza titolo professionale, anche in altri documenti fra cui un altro rogito (AS Lecce, Protocolli notarili, CAROPPO G., not. in Lecce, atto del 4 novembre 1651, cc. 134 – 136v) riguardante il figlio Giuseppe (non è indicato in tale documento ma è noto che di professione era pittore) e la moglie di quest’ultimo, Lucrezia Bibba. Ammesso che sia vero quanto dichiarato dai documenti, Giovanni oltre ad essere avvocato e giureconsulto (documento francese) fu anche pittore (testimonianza di Carlo Guarino) così come lo era l’altro figlio Giuseppe. Antonio Verrio, in sintesi, proveniva da una famiglia di pittori, andò a Roma ed ebbe una adolescenza turbolenta se è vero che fu più volte carcerato.
Un probabile suo autoritratto, non distante dall’epoca dei fatti narrati in questi documenti, potrebbe essere il giovane vestito di rosso in un dipinto presso la chiesa leccese del Gesù (FIGG. 1-2). Della sua vicenda d’artista una cosa colpisce in particolare: l’allora vescovo di Lecce, padre nobile del Barocco leccese, mons. L. Pappacoda forse non comprese l’alto valore artistico di questo giovane, almeno non tanto da trattenerlo a Lecce con commissioni. Forse fu per il passato turbolento di A. Verrio, certo è che andando via da Lecce questo pittore fece la sua fortuna.
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A Lecce A. Verrio rimase pochi anni. Afferente alla sua prima produzione è il dipinto raffigurante il martirio di santo Stefano collocato nell’altare omonimo datato 1662 (entrando nella chiesa di santa Irene è il primo a sinistra). In quest’opera il martire è al centro, con lo sguardo rivolto al cielo dove uno stuolo di angeli in circolo genera una singolare e coinvolgente scena luminosa allusiva della santità cui conduce il martirio stesso. Tutto attorno al martire quattro figure di cui due pronte a scagliare le pietre della lapidazione, un altro intento a raccogliere da terra un sasso e infine un soldato di spalle. La scena è evidentemente un frammisto di crudezza e serafica tranquillità. Nella chiesa del Gesù sono due dipinti collocati nei corti bracci del transetto, in quello di sinistra è l’opera dal titolo “Beniamino accusato del furto della coppa d’argento”, nel transetto destro, l’altro dipinto ha per titolo: “Giuseppe si fa riconoscere dai fratelli”. La drammaticità del “martirio di santo Stefano” cede il passo in questi due ultimi dipinti del Gesù a una narrazione più contenuta nei toni, sembra di fatto, soprattutto la seconda opera, una fotografia istantanea dell’evento dove il pittore sembra cogliere di sorpresa i personaggi della scena (ambientata in uno spazio interno, a tratti irreale, sul cui fondo si apre un arco e quindi il cielo). Nel primo dei due dipinti, le figure appaiono tutte a favore di camera, come si direbbe oggi, ovvero tutti hanno il volto verso l’esterno del quadro e l’osservatore del dipinto. Ancora a Lecce dello stesso autore potrebbe essere (la critica non è concorde) il dipinto raffigurante la Strage degli Innocenti collocato in un altare sotto lo stesso titolo nella chiesa di santa Maria degli Angeli. Quest’opera dal macabro sapore è un continuo e drammatico aggrovigliarsi dei corpi dei bambini trucidati e dagli assassini mandati da Erode. Nell’opera dal titolo “San Francesco Saverio appare al Beato Marcello Mastrilli” (Lecce, Pinacoteca Provinciale “Giuseppe Palmieri”) il tono diventa più soffuso e intimista, le fonti di luce principali sono l’uomo disteso nel letto e l’aureola del Santo che gli è al fianco. Il resto è dominato da tinte scure da cui emergono i volti degli altri personaggi perché illuminati dalla luce di alcune candele e da quella della santità. La presenza a Lecce di Antonio Verrio è segnalata assieme a Giovanni Andrea Coppola nella realizzazione della tela dal titolo “San Giusto converte Sant’Oronzo” collocata nell’altare di san Giusto in Cattedrale. Come detto, A. Verrio lasciò Lecce per andare a Roma, Firenze, quindi in Francia e infine l’Inghilterrra dove dipinse molti degli ambienti della celebre residenza reale di Windsor.
La prima testimonianza
Die 28 novembris 1681 Lycij in Curia Episcopali coram Rev. (…) / Clericus Celsus Trezza de T(e)rra Paludis Lycij degens / ab annis triginta duorum filius qm Josephi aetatis suae / annorum quinquaginta trium in circa ut dixit …[prosegue formula di rito del giuramento]
(…) An ipse testis cognoverit, et cognoscat Antonium / Verrio de Lycio et qua occasione. / Respondit. Signore dicho io conoscei per molti anni Antonio Verrio / perche costui fu clerico e diverse volte quando io / ero caporale in questa Curte à tempo di / Monsignor Pappacoda venne carcerato in queste carceri / (…) Ubi ad praesens deg(at). / Respondit. Sono molti anni che manca da Lecce si / disse che andò in Roma, e che poi fusse / passato avanti. / (…) An sciat dictum Antonium remansisse clericum vel / in matrimonium se collocasse, cum qua ubi, et / quando. / Respondit. Lo conobbi molti anni per clerico e doppo si casò / con una giovane di chi non so il nome / (ma) // era sorella di Pompeo, e di Giovanni Giacomo Tornese / di Lecce. / (…) In quo loco fuerit celebratum matrimonium / predictum. / Respondit. Questo lo carcerammo una notte dentro / la casa di detta sorella de Tornesi, che habitava / verso la strada dell’Arco di Prato e lo / condussimo carcerato in queste carceri vescovali ma perche poi / disse che la volea per moglie il matrimonio / tra di loro mi ricordo che si celebro sopra / lo corrit(u)ro di questo Palazzo dove venne la detta / giovane, e si fè por ordine di detto Monsignor Vescovo. / (…) De contestibus. / Respondit. Ci fu Carlo Guarino servente di questa Corte / et altri nostri compagni. / …[formula conclusiva di rito della testimonianza giurata seguita dalla firma del testimone]
La seconda testimonianza
Eodem die (ibidem civitate) eodem / Carolus Guarino de Lycio filius Josephi aetatis / suae annorum quinquaginta octo circiter ut dixit …[prosegue formula di rito del giuramento]
(…) An ipse testis cognoverit, et cognoscat Antonio Verrio / de Lycio, à quanto tempore et qua occasione. / Respondit. Io ho conosciuto Antonio Verrio figlio del Pittore / che si chiamava Giovanni (a) perche eramo / paesani, et in occasione di esso era clerico et io / son stato molto tempo cursore di questa Curte / alcune volte lo carcerammo in queste carceri. / .. Ubi ad praesens degat. / Respondit. Sono molti anni che partì da Lecce / dicono, che andò in Roma, e poi fusse / passato in Francia. / (…) An dictus Antonius quandoque habuerit / uxorem. / Respondit. Signor si questo Antonio si casò con una / giovane di chi non mi racordo il / nome, ma era sorella di Pompeo, e // di Giovanni Giacomo Tornese di questa città. / (…) Ubi fuerit celebratum matrimonium (predictum) / Respondit. Detto Antonio allhora era clerico che havea da / quindici anni e più, et hebbimo l’avviso, / che stava in casa di detta Tornese, io con / clerico Celso Trezza allhora capurale di questa / Curte, et altri nostri compagni li diedimo l’assalto / in casa di detta giovane che habitava in una / casa verso l’Arco di Prato, e lo trovammo in / detta casa e là lo carcerammo, e lo portammo / carcerato in queste carceri vescovali, e stando carcerato per ultimo / disse, che la volea per moglie e de facto il / matrimonio tra lui e detta giovine si celebrò / sopra il corrituro di questo Palazzo avanti alle / dette carceri, e questo è quanto passa. / (…) De contestibus / Respondit. Lo detto Celso et altri nostri compagni. / …[formula conclusiva di rito della testimonianza giurata seguita dalla firma del testimone]
L’immagine appena riprodotta è un brano (con Salentium evidenziato in giallo) tratto da Leandro Alberti, Descrittione di tutta l’Italia et isole pertinenti ad essa, Ugolino, Venezia, 1596, pag. 230.
Il Salentium dell’Alberti è una forma aggettivale, attributo di promontorium, invece di Salentinum che è quella che comunemente è riportata dai codici1; anzi, Salentium ricorre solo in un codice dei commentari di Servio a Virgilio. La forma aggettivale Salentinum (che nei codici si alterna con Sallentinum) suppone un sostantivo Salentum (o Sallentum) che non è attestato ma la cui ricostruzione ha dato il titolo all’omonima Sallentum. Rivista quadrimestrale di cultura e civiltà salentina curata dall’Ente provinciale per il turismo di Lecce per l’Editrice Salentina di Galatina e diretta da un comitato di redazione composto da G. De Donno, Donato Valli e Vittorio Zacchino.
Ѐ molto probabile che il nostro aggettivo (Salentinum/Sallentinum) sia derivato dalla voce greca Σαλλεντία (leggi Sallentìa) presente nell’Ethnicà di Stefano Bizantino (grammatico probabilmente del VI secolo) e così definita: πόλιςΜεσσαπίων. Τὸ ἐθνικὸν Σαλλεντῖνος (città dei Messapi. L’etnico è salentino).
Da questa città, insomma, si sarebbe formato in latino l’etnico Salentinus o Sallentinus passato, poi, ad indicare la popolazione di un territorio più vasto, il *Salentum o *Sallentum, appunto.
L’ideatore dell’etichetta è andato a sfruttare il Salentium dell’Alberti, presente, come ho detto, in un solo manoscritto e lo ha tradotto in Salenzio.
Che l’operazione sia casuale o no (difficile che dello staff addetto al marketing faccia parte un filologo …), essa mi appare, ad ogni buon conto, sottesa dal bisogno di evitare qualsiasi inconveniente di natura giuridica che sarebbe potuto emergere se il vino si fosse chiamato sic et simpliciter Salento. E poi, vuoi mettere il fascino che emana dalla lettura in etichetta di Salenzio è l’antico nome del Salento? Io magari, se mi capiterà, berrò questo vino, ma, per quanto riguarda l’antico nome, non me la bevo già da adesso…
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1 Modellato, probabilmente, sul Σαλαντίοι (leggi Salantìoi) che è in Giovanni Tzetze (XII secolo), Historiae, I, 766 e sul Σαλεντία (leggi Salentìa) di un frammento dell’Historia Romana di Dione Cassio (II-III secolo) citato dal ricordato Tzetze nello scolio 662 all’Alessandra di Licofrone.
Purtroppo, l’assunto di cui al titolo di queste note non è una celia, bensì una dolorosa e triste realtà.
Ho recentemente letto che, durante il 2012, nel nostro paese si è registrato un fatturato legale per giochi e scommesse pari a novantaquattro miliardi d’euro, cifra che fa letteralmente tremare le vene ai polsi, considerando anche che va integrata di ulteriori dieci miliardi relativi all’analogo giro d’affari illegale.
E dire, che si sta attraversando una lunga parentesi di crisi, anzi di crisi tremenda, paragonabile unicamente a quella del 1929.
Siamo proprio sicuri che la piaga della ludopatia sia una conseguenza della fase congiunturale depressiva, come taluni vogliono sostenere? Non è che, al contrario, sia l’abnorme spesa in giochi e scommesse a incidere, in parte, sulla crisi?
Ad ogni modo, di fronte ai novantaquattro o centoquattro miliardi scialacquati maldestramente entro i nostri confini, si pensi che i cinque paesi più poveri del mondo – Sierra Leone, Guinea Bissau, Burundi, Liberia e Congo – dove vivono oltre cento milioni di persone, vantano un prodotto interno lordo, in totale, di appena trentacinque miliardi d’euro, su cui, evidentemente, si deve basare il mantenimento o sopravvivenza di, giustappunto, cento milioni di nostri simili.
E noi giochiamo.
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Il governo ha appena deciso, con un decreto, l’abolizione
del finanziamento pubblico, o rimborso delle spese elettorali o contributi che dir si voglia, a beneficio dei partiti politici. La notizia è stata data con toni solenni e roboanti, quasi si trattasse di evento storico.
Riguardo alla cancellazione in parola, che sarà operante definitivamente a far data dal 2017, un comunicato di Palazzo Chigi rende noto che ”già con riferimento alla dichiarazione dei redditi relativa al 2013, ciascun contribuente potrà destinare il due per mille della propria imposta sul reddito delle persone fisiche a favore di un partito politico che si sia dotato di statuto”.
Ma, a parere dello scrivente, il meccanismo di soccorrere i partiti con una percentuale dell’Irpef è semplicemente una diavoleria, non sta né in cielo né in terra, giacché i milioni d’euro che pioveranno nelle casse dei partiti andranno pari pari in diminuzione del gettito nelle casse dell’Erario.
Insomma, una colossale presa in giro, quando, specie di questi tempi, ciò che è pagato sottoforma di tasse dalla generalità dei contribuenti deve restare, sino all’ultimo centesimo, allo Stato.
Finiamola, una volta per tutte, i partiti siano mantenuti unicamente da contribuzioni volontarie di simpatizzanti, iscritti, sponsor, eccetera, ma niente rivoli o rivoletti a valere sulle imposte pagate dalla generalità dei cittadini.
Né vale il particolare che è lasciato alla discrezionalità di ogni singolo dichiarante di crociare oppure no la casella del due per mille: siffatto percorso non deve essere proprio previsto.
“Per aver saputo cogliere la disgregazione del mondo contemporaneo”.
Questa è la motivazione del premio UBU (l’oscar italiano per il teatro) a Mario Perrotta. Cinquantatre critici, al teatro Grassi di Milano, hanno voluto premiare con il premio speciale il salentino che vive a Bologna, ma che a Lecce ha iniziato a camminare con la recitazione. Il curriculum di Mario Perrotta lo troviamo sul suo sito (ww.marioperrotta.com) e rende bene l’idea di questo autore/attore che si porta appresso storie molto salentine come Italani Cincali, la Turnata, Emiganti express, per arrivare alla trilogia sull’individuo sociale: Il Misantropo di Moliere, I cavalier idi Aristofane, Atto finale di Flaubert. Regista di opera lirica a Spoleto, fino al lavoro finale, l’incredibile e stupendo: Un bes – storia di Antonio Ligabue, a cui è legato il progetto Ligabue (www.progettoligabue.it) .
Un solo enorme rammarico per la città di Lecce, incomprensibilmente Mario Perrotta sembra non trovare posto per portare il suo teatro e la sua arte in Salento. Un figlio di questa città e di queste terre che racconta con forza, sembra dimenticato. Ricordiamo altri snobbati da questa terra, ricordiamo Antonio Verri, il poeta citato in ogni dove e altri ancora. Ora Mario è un artista da oscar, vediamo se ancora c’è la voglia di scordarlo mentre in Europa lo vogliono in tantissimi. Penso non occorra neppure fargli delle scuse, è sufficiente aprirgli i teatri.
Curriculum di Mario Perrotta
2013
31 maggio – debutta in Prima nazionale al Festival Primavera dei Teatri lo spettacolo “Un bès – Antonio Ligabue” con il quale Perrotta inaugura il nuovo progetto triennale.
2012
Ottobre – Su RAI3 va in onda la seconda serie di “Paradossi Italiani”, 4 micromonologhi per la trasmissione Sabato Notte del Tg3.
Settembre – Debutta nell’opera lirica, scrivendo e firmando la regia di “Opera migrante” per il Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto. L’opera composta da due atti (Andante italiano alla belga/Musica di Lucio Gregoretti e Fuga straniera con moto/Musica di Andrea Cera) è diretta dal Maestro Marco Angius.
Maggio – Settimana di permanenza/direzione artistica al Teatro Valle Occupato, dove propone tre spettacoli e due laboratori.
Febbraio – Debutta su RAI3 “Paradossi Italiani”, una serie di micromonologhi per la trasmissione Sabato Notte del Tg3.
2011
12 dicembre – Teatro Piccolo di Milano: Perrotta vince il Premio Speciale Ubu, il più ambito riconoscimento teatrale italiano, per la Trilogia sull’individuo sociale “del quale coglie la disgregazione nel mondo contemporaneo” (dalla motivazione).
4 settembre – debutta in prima nazionale al Festival Castel dei Mondi “Atto finale – Flaubert” il terzo e ultimo capitolo della Trilogia sull’individuo sociale.
12 maggio – nell’Aula Magna dell’Università di Bologna, interpreta la sua Odissea, preceduto dalla splendida lezione dello psicanalista Massimo Recalcati “Patris imago – conoscere il padre”. 1700 spettatori.
28 aprile – grande successo di pubblico e di stampa a Bruxelles con la regia del suo Italiani cincali, nella versione francese interpretata da Hervé Guerrisi, anche traduttore del testo.
24 marzo – debutta in anteprima con lo spettacolo Il Paese dei diari, tratto dall’omonimo romanzo scritto nel 2009. La Prima nazionale va in scena in giugno all’interno della settima edizione del Biografilm Festival.
2010
4 settembre – Prima nazionale de I Cavalieri-Aristofane cabaret, al Festival Castel dei mondi di Andria.
27 agosto – in onda su Rai3 con 6 nuovi monologhi per la trasmissione televisiva La Grande Storia.
La puntata del programma dedicata all’emigrazione italiana è accompagnata dai monologhi scritti da Perrotta, che scandiscono le tappe del documentario.
Luglio – anteprime de I Cavalieri-Aristofane cabaret. Seconda tappa della trilogia inaugurata da Misantropo.
2009
Il 30 settembre esce in libreria Il Paese dei Diari il secondo romanzo di Perrotta edito da Terre di Mezzo.
A luglio è ospite speciale di una tappa del tour di Simone Cristicchi, insieme a Laura Morante e Andrea Camilleri.
24 giugno – debutta Il Misantropo di Molière. Lo spettacolo inaugura il nuovo progetto triennale “Trilogia sull’inviduo sociale” che si completerà con Aristofane (2010) e Flaubert (2011).
20 giugno – vince il Premio Hystrio per la drammaturgia 2009 con lo spettacolo Odissea.
Febbraio – E’ invitato a Parigi insieme a Stefano Benni, Massimo Carlotto e Valeria Parrella per la “Festa del libro e della cultura italiana”.
Gennaio – finalista ai premi Ubu 2009 nella categoria Miglior Attore per lo spettacolo Odissea.
2008
16 novembre – per “Il consiglio teatrale” diretta de La turnata su Rai Radio3.
8 novembre – Debutta lo spettacolo Prima Guerra, dedicato all’esperienza dei trentini nel primo conflitto mondiale. In scena con lui, Paola Roscioli e gli stessi musicisti di Odissea.
Il 13 settembre riceve il Premio Città del Diario 2008, assegnato in precedenza a Marco Paolini, Ascanio Celestini e Rita Borsellino dall’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve S. Stefano (AR).
Il 20 marzo esce in libreria Emigranti Espréss pubblicato da Fandango Libri.
2007
Il 16 novembre debutta in prima nazionale Odissea, il nuovo spettacolo scritto, diretto e interpretato per la Compagnia del Teatro dell’Argine. Le musiche di scena sono composte ed eseguite dal vivo da Mario Arcari e Maurizio Pellizzari.
Ottobre – Concorso radiofonico internazionale della TRT, Radio Televisione Turca. Primo Premio all’inglese BBC per Mummies and Duddies.
La trasmissione Emigranti Esprèss di Perrotta per Radio Rai 2, vince il Premio Speciale della Giuria.
Settembre – La trasmissione Emigranti Esprèss è finalista al Prix Italia, premio internazionale per la radio, televisione e web.
Estate – Presentazione studio di Odissea, con musiche dal vivo dei Tetes de Bois.
Febbraio – Presentazione a Roma (Teatro Palladium) e a Milano (Teatro dell’Elfo) di una mostra fotografica e un documentario con le interviste realizzate nei quattro anni di lavoro dedicati all’emigrazione. L’allestimento della mostra è contestuale ai giorni di replica dei due spettacoli del Progetto Cìncali.
2006
Il 18 dicembre debutta su Radio Rai Due il programma Emigranti Esprèss, 15 puntate in musica e parole tra storie e voci di emigrazione.
Il 21 settembre la Compagnia del Teatro dell’Argine riceve il Premio Hystrio – ANCT consegnato presso il Teatro Argentina di Roma.
Reading di Caos Calmo accompagnato dal vivo dai Tetes de Bois. Lo spettacolo è preceduto dall’intervista all’autore Sandro Veronesi realizzata da Stefano Tassinari all’interno della rassegna La parola immaginata.
Pubblicazione per il settimanale Diario di un lungo articolo sulla commemorazione dei 50 anni della tragedia mineraria di Marcinelle.
Febbraio – Direzione artistica insieme a Rossella Battisti della collana in DVD “Teatro Incivile” per il quotidiano L’Unità. Presenti nella collana: Ascanio Celestini con Fabbrica, Mario Perrotta con Italiani cìncali! parte prima:minatori in Belgio, Emma Dante con ‘mPalermu, Davide Enia con maggio ’43, Giuliana Musso con Nati in casa e Armando Punzo con I Pescecani ovvero quel che resta di Bertolt Brecht.
2005
Settembre – Debutta La turnàta – Italiani cìncali parte seconda
Festival Bella Ciao diretto da Ascanio Celestini. Lo spettacolo è scritto insieme a Nicola Bonazzi ed è prodotto dalla Compagnia del Teatro dell’Argine.
Luglio – Presenta al Mittelfest e al Festival dei Mondi uno studio preparatorio per il secondo capitolo del Progetto Cìncali.
2004
Italiani cìncali è finalista al Premio Ubu come miglior testo italiano.
Durante la tournée all’estero di Italiani cìncali, raccoglie 60 ore di interviste, su cui costruirà il secondo capitolo del Progetto Cìncali.
2003
Novembre – Targa commemorativa della Camera dei Deputati allo spettacolo Italiani cìncali con la seguente motivazione: “All’attore e regista Mario Perrotta e al drammaturgo Nicola Bonazzi, per l’alto valore civile del testo e per la straordinaria interpretazione che ricostruisce con assoluta fedeltà una parte della nostra storia che non possiamo dimenticare”
Settembre – Debutta Italiani cìncali! parte prima: minatori in Belgio scritto insieme a Nicola Bonazzi – Compagnia del Teatro dell’Argine.
Mercante di Venezia di Shakespeare, regia Elio De Capitani – Teatro dell’Elfo – Festival shakespeariano di Verona
Direzione artistica della terza edizione del Festival Otranto In Scena.
Dirige e interpreta per l’Università di Bologna la Casina di Plauto, tradotta da Francesco Guccini in dialetto pavanese. Sulla scena anche lo stesso Guccini nelle insolite vesti d’attore.
2002
Dedica gran parte dell’anno alla ricerca di materiale per il Progetto Cìncali, raccogliendo quasi 100 ore di registrazioni in Italia e all’estero.
Drammaturgia e regia di Billie Holiday – la signore canta il jazz, concerto per due attrici, pianoforte e contrabbasso.
Luglio – Direzione artistica della seconda edizione del Festival Otranto In Scena.
2001
Houdini! vita, morte, miracoli di Luca Barbuto, regia Andrea Paolucci – Compagnia del Teatro dell’Argine.
Progetta e dirige la prima edizione del Festival Otranto In Scena che ospiterà tra gli altri: Peppe Barra, Paolo Rossi, Teatro dell’Elfo, Laura Curino, Ascanio Celestini.
Drammaturgia e regia di Utòpolis Cabaret, dai testi di Aristofane, per tre attori, pianoforte e one man band.
La sera della prima di Cromwell – Compagnia Rossella Falk
2000
Drammaturgia e regia di Molière suite
Variazioni Enigmatiche di Schmitt – Compagnia Glauco Mauri
Film Piccolo mondo antico regia Cinzia Th Torrini
1999
Dodicesima notte di Shakespeare regia Lorenzo Salveti – Teatro Stabile Abruzzese
Regia de La Moscheta di Ruzzante – Compagnia della Gàbola
1998
La Compagnia del Teatro dell’Argine vince il bando di concorso per la gestione del Teatro ITC di S. Lazzaro di Savena
La Locandiera di Goldoni regia Lorenzo Salveti – Festival di Borgio Verezzi
Il sotterraneo e il sogno di Nicola Bonazzi – Teatro dell’Argine
Drammaturgia e regia di Giovanni ed io dal Don Giovanni di Moliére
1997
Film Senza Paura – regia Marco Melega
Con la Compagnia del Teatro dell’Argine interpreta testi di Beckett, Savinio e Verga.
1996
Film Il quarto re – regia Stefano Reali
La commedia degli errori di Shakespeare – Teatro dell’Argine
1995
Isabella, tre caravelle e un cacciaballe di Dario Fo – Teatro Dehon
Agamennone di Alfieri – Teatro dell’Argine
1994
Enrico IV di Pirandello e il Malato immaginario di Moliére – Teatro Dehon
Lisistrata di Aristofane – Teatro dell’Argine
1993
Avaro di Moliére – Teatro Dehon
Noccioline scritto da Pietro Floridia e Andrea Paolucci e diretto da Paolucci per il Teatro dell’Argine.
Si diploma insieme a tutti i futuri fondatori del Teatro dell’Argine presso la scuola di teatro Colli di Bologna.
“ Quando gli uomini hanno grossi problemi, devono rivolgersi ai bambini, sono loro ad avere il sogno e la libertà”
( F. Dostoevskij )
Ricominciare dalla Scuola
E’ il percorso che io e Maurizio Nocera in collaborazione con “LE STANZIE Agriturismo” stiamo facendo, a cominciare dall’Istituto comprensivo di Supersano che comprende anche i comuni di Nociglia, Botrugno e S.Cassiano.
I temi che porteremo all’attenzione degli studenti delle scuole elementari, medie ed insegnanti sono:
Il rapporto con la Terra, l’Arte e il Paesaggio.
La Terra come matrice della nostra esistenza, l’Arte come regolatrice delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti e il paesaggio come testimonianza della nostra identità e della nostra storia.
Queste tre importanti e indispensabili componenti della nostra vita sono sottoposte, in questi ultimi decenni all’abbandono e al degrado.
Lo scopo è rimodulare con esse un rapporto nuovo, partendo dai bambini che, oltre ad essere più sensibili e ricettivi, hanno più di ogni altro la possibilità di coinvolgere gli adulti.
Chiunque può unirsi all’iniziativa e contribuire ad allargarla per coinvolgere tutto il nostro territorio.
Maurizio Nocera, LE STANZIE” ed io ringraziamo le ditte di artigiani che su nostro invito si sono unite per eseguire gratuitamente la pitturazione dei locali della scuola in occasione della manifestazione.
ISTITUTO COMPRENSIVO
(Botrugno – Nociglia – S. Cassiano- Supersano)
IL MONDO CHE VORREI
Terra- Arte- Paesaggio
L’umanità sa, l’ha sperimentato sulla propria pelle, che un mondo ideale, perfetto, luminoso, nella realtà non esiste, come pure sa che esso è difficilmente raggiungibile. Tuttavia, essa sa pure che un tale mondo ideale irraggiungibile possa essere ugualmente perseguibile, e per questo s’impegna quotidianamente e vive nella speranza di un domani migliore.
Oggi sappiamo che il pianeta sul quale viviamo non è più in buone condizioni fisiche, molti acciacchi lo tormentano e, purtroppo, la causa di questi suoi mali è dovuta a scelte sbagliate fatte da noi stessi umani.
Qualcuno oggi si è accorto di tutto questo e cerca con infinita umiltà di correre ai ripari, rimodulando il suo rapporto con la TERRA, col PAESAGGIO e con l’ARTE, partendo proprio da quello che è sempre stato (ed è) l’humus vivo della stessa umanità: i giovani, gli studenti e tutti coloro che amano sentirsi partecipi di un nuovo processo di rivitalizzazione del pianeta Terra.
All’interno di questa progettualità, l’ISTITUTO COMPRENSIVO di SUPERSANO (Scuole Elementari e Medie), LE STANZIE e l’artista EZIO SANAPO, hanno pensato bene di proporre una serie di eventi per dare il loro contributo alla rivitalizzazione del proprio territorio e del Salento.
20 dicembre 2013
-SUPERSANO-
Aula Magna
ISTITUTO COMPRENSIVO SUPERSANO
Ore 9,00: Presentazione del Progetto:
IL MONDO CHE VORREI
L’intento dell’incontro è assegnare la tematica IL MONDO CHE VORREI agli studenti per un loro elaborato (tema, poesia, disegno e altro frutto della creatività dell’età evolutiva) da consegnare entro il primo marzo 2014. Una giuria di esperti valuterà gli elaborati e, ai migliori classificati, il 22 marzo, inizio della primavera e Giornata Mondiale della Poesia, indetta dall’Unesco, assegnerà dei Premi-Libro.
Ore 10,00:Inaugurazione Mostra di
EZIO SANAPO
Interventi:
Prof.ssa Caterina SCARASCIA ( Preside),
Maria BONDANESE (Consigliera alla Cultura),
Franco CONTINI (Docente Accademia di Belle Arti di Lecce),
da FORUM AMBIENTE E SALUTE (Rete apartitica coordinativa di movimenti, comitati ed associazioni a difesa del territorio e della salute delle persone) – sede in Lecce
da COORDINAMENTO CIVICO APARTITICO PER LA TUTELA DEL TERRITORIO E DELLA SALUTE DEL CITTADINO (Rete d’azione apartitica coordinativa di associazioni, comitati e movimenti locali e non, ambientalisti, culturali e socio-assistenziali) – sede c/o Tribunale Diritti del Malato – CittadinanzAttiva in Maglie (Lecce)
rivolto ai seguenti enti
Commissione Fitosanitaria UE
Commissario Agricoltura UE
Commissario Salute UE
Presidente Commissione Agricoltura Parlamento Europeo
EFSA – European Food Safety Authority – Parma
Ministro Agricoltura del Governo Italiano
Assessore agricoltura della Regione Puglia
Osservatorio Fitosanitario – Bari
e per conoscenza, all’attenzione
Provincia di Lecce
Parlamentari della Repubblica Italiana
Commissione Agricoltura della Camera
Commissione Agricoltura del Senato
C.R.A. (Centro Ricerche Agronomiche) con sede a Rende (Cs)
Soprintendenza per i Beni Culturali e Paesaggistici della Puglia
Corpo Forestale dello Stato
ARPA – Agenzia per la Prevenzione e Protezione Ambiente – Puglia
ASL – Agenzie Sanitarie Locali del Territorio Salentino
Sindaci dei Comuni Pugliesi, massime autorità sanitarie locali
Organi di Stampa
OGGETTO:
NO A EVENTUALI E IPOTIZZATI INTERVENTI DI DEVASTAZIONE DEL PAESAGGIO E DELLA BIODIVERSITA’ (ANCHE IN DEROGA A NORME E VINCOLI REGIONALI, NAZIONALI, COMUNITARI), NON GIUSTIFICABILI per nessunissima ragione, e tanto meno per un’emergenza fito-sanitaria, tutta da verificare e approfondire, persino non imputabile, sulla base delle nozioni scientifiche ad oggi emerse sin dalle prime ricerche divulgate, al batterio della specie Xylella, in nome del quale si paventa invece il rischio dell’applicazione di un regime di quarantena nocivo per la salute pubblica e chimico-eradicativo finanziato con immensi fondi pubblici.
PREMESSO CHE
– le analisi sulla sintomatologia del disseccamento di alcuni rami degli ulivi in una zona limitata del Salento, sud-ovest, particolarmente osservata a macchia di leopardo nel corso della scorsa estate 2013, a detta di alcuni tecnici avrebbe permesso, in seguito ad analisi svolte, anche il rilevamento della presenza di un batterio appartenente ad un ceppo della specie Xylella, di cui si è data comunicazione nei convegni in cui sono state elencate le differenti e varie presenze di patogeni riscontrati sugli ulivi più colpiti, tra questi funghi muffe e l’insetto rodilegno giallo;
– le indagini di laboratorio, per accertare la sottospecie di Xylella e l’eventuale patogenicità, e quindi in tal caso il grado di patogenicità, sono in corso e non saranno concluse a breve termine, e che dai primi riscontri i tecnici hanno scritto dell’appartenenza della Xylella salentina a sottospecie non patogene per l’ulivo e non patogene per le altre colture e piante locali (vedi l’articolo in merito sul sito internet ufficiale dell’Accademia dei Georgofili, pubblicato il 30 ottobre 2013, link:http://www.georgofili.info/detail.aspx?id=1510).“Per quanto riguarda la patogenicità della Xylella nel 2010 R.Krugner per l’Univ. della California ha pubblicato uno studio in cui si afferma come l’inoculazione della Xylella in piante di olivo sane non ha portato a riscontrare gli stessi sintomi del disseccamento, questo ha dimostrato come la patogenicità al momento non è dimostrata per l’ulivo e ancora da dimostrare scientificamente” (ha scritto l’ On. Adriano Zaccagnini il 4 dicembre 2013). I postulati di Henle-Koch per la patogenicità della Xylella per l’ ulivo non son stati ad oggi mai confermati;
– gli studi in merito finora sono stati gestiti dal C.N.R. ed Università di Bari; di recente sono stati coinvolti anche il C.R.A. (Centro Ricerche Agronomiche) con sede a Rende (Cs) e l’E.F.S.A. Con sede a Parma;
– altri enti scientifici (tra cui l’Università del Salento, che ha denunciato il mancato coinvolgimento, nonché l’ingiustificata segretezza e non trasparenza delle indagini ad oggi svolte) intendono collaborare all’approfondimento delle indagini di laboratorio: ciò va favorito per una più articolata e veloce analisi e diagnosi del fenomeno;
– è doveroso rendere pubblici protocolli e risultati della ricerca, alfine di un rigoroso confronto e riscontro scientifico di una pluralità di enti e istituzioni; laddove ragioni ad oggi poco comprensibili hanno portato all’accentramento delle indagini e della gestione dei risultati solo presso il CNR e l’Università di Bari;
– occorre abbinare la pluralità e velocizzazione delle analisi (per conoscere appieno la ad oggi alquanto dubbia eventuale patogenicità del microorganismo), alla prudenza volta a scongiurare inammissibili interventi drastici, irreversibili e devastanti, che nessunissima ragione potrebbe giustificare e tanto più, ad oggi, assolutamente sproporzionati alla luce dei risultati delle analisi, delle opinioni scientifiche di autorevoli esperti, e della situazione del territorio. Situazione che vede oggi, soprattutto dopo le piogge autunnali, la stragrande maggioranza degli alberi d’olivo, che in questa estate (particolarmente arida e siccitosa, e che ha visto l’imperversare di numerosissimi incendi), avevano manifestato sintomatologie di secco su alcuni rami, esser tornati perfettamente rivegetanti e rigogliosi;
– tale prudenza, (motivata dal buon senso, dall’evidenza empirica, dagli incerti e parziali risultati delle analisi), è sostenuta anche da dichiarazioni autorevoli:
per il prof. Alexander Sandy Purcell dell’Università California: “non abbiamo prove al momento”, in riferimento alla patogenicità dellaXylella fastidiosa per l’olivo, “In California non siamo riusciti a causare la fitopatologia su ulivi partendo dal batterio in coltura, isolato” “ Credo che X. è molto diffusa nel Mediterraneo e più volte rilevata in Europa; probabilmente ci sono molti casi di X. non conosciuti o non denunciati: infatti la sua presenza è spesso asintomatica , senza danno alle piante che la ospitano” (Gazzetta Mezzogiorno 5 novembre 2013);
per il prof. Giovanni Martelli dell’Università di Bari “le indicazioni molecolari acquisite a Bari forniscono buoni motivi per ritenere che il ceppo salentino di Xylella appartenga ad una specie che non infetta viti e agrumi e che esperienze USA ritengono di scarsa patogenicità per l’ulivo”, “non vi sono al momento elementi per ritenere Xylella l’agente primario del disseccamento dell’ulivo” (Gazzetta del Mezzogiorno 5 novembre 2013). Vedi anche in merito l’articolo del Prof. Martelli pubblicato sul sito internet ufficiale dell’Accademia dei Georgofili, il 30 ottobre 2013, link: http://www.georgofili.info/detail.aspx?id=1510;
anche per il brasiliano prof. J. Chaves Barbosa la Xylella è comune nei paesi del Mediterraneo;
anche per il prof. L. De Bellis dell’Università del Salento, non si può escludere, a priori, che la Xylella riscontrata nel Salento appartenga a ceppi endemici nel territorio e nell’area mediterranea presenti da tempo immemore;
gli stessi esperti dell’EFSA , interpellati ad hoc dal Commissario alla salute UE, hanno evidenziato che la Xylella nell’U.E. ha una vasta gamma di piante ospiti note, sia di produzione agricola, che selvatiche autoctone, ad ulteriore sostegno della potenziale endemicità del microrganismo;
lo stesso Assessore alle Risorse Agroalimentari della Regione Puglia, Fabrizio Nardoni, durante l’audizione informale dell’ 11 dicembre 2013, presso la Commissione Agricoltura della Camera a Roma, ha parlato della Xylella come di un microrganismo presente da molto tempo nella biodiversità pugliese, dunque non si comprende perché ora lo si tenti di presentare come oggetto di un’ emergenza urgentissima;
-non risulta prima di ora che siano state fatte analisi per verificare la presenza di X. in Puglia; per questo non si può escludere la sua endemicità, sostenuta dai suddetti scienziati; né si hanno prove che essa sia stata importata con piante di provenienza extraeuropea: è solo una comoda ipotesi, talora spacciata come vera, da taluni evidentemente poco documentati;
– gli esami avrebbero dovuto anche riguardare anche lo stato chimico-fisico dei terreni, e le condizioni idrogeologiche e climatiche, per valutare vari fattori di stress, naturali (stagionali, ecc.), o antropici, (inquinamento, magari anche proprio legato all’ uso ad esempio di pratiche agricole troppo industrializzate, di disseccanti chimici, ecc.), causa dell’ indebolimento delle piante, con conseguente proliferazione di muffe-funghi, e insetti xilofagi, come appunto riscontrato. Lo stress idrico estivo durato diversi mesi, e più marcato proprio nell’area sud occidentale del Salento, ha creato uno stress idrico negli alberi che ha comportato una debilitazione generale per perdita di acqua per evapotraspirazione. L’ albero per gestire la perdita di acqua, è ipotizzabile che abbia potuto attuare, come strategia di sopravvivenza, la limitazione della superficie fogliare abscindendo parti di chioma. Una apoptosi. Ora i medesimi alberi d’olivo hanno una vegetazione ricca di foglie lucenti e sono carichi di olive, alla ceppaia sono pieni di polloni verdi e folti
– la marcata presenza di Rodilegno giallo, (Zeuzera pyrina, un lepidottero dalla larva xilofaga la cui diffusione è oggi favorita dall’abbandono di antiche pratiche naturali di olivicoltura), e di varie specie di funghi-muffe, viene considerata basilare da tutti i tecnici che stanno studiando il fenomeno, (oggi in regressione per l’azione combinata e salutare delle piogge e delle basse temperature), per la comparsa della sintomatologia del disseccamento osservato su alcuni rami. Lo sviluppo opportunistico del batterio Xylella sarebbe favorito proprio dalle concomitanti situazioni di indebolimento ed aggressione della pianta, nonché da numerosi inverni miti che si son susseguiti nel Salento dove le temperature di gennaio non sono inferiori ai 5 gradi (temperatura di soglia mortale per il batterio): è il caso del Salento e soprattutto della zona sud-ovest, più protetta dai venti freddi; e dunque al più, la Xylella potrebbe essere una concausa ma non certo la causa, a detta degli esperti, della sintomatologia in questione;
– ad oggi le piante disseccate e semi disseccatesi in estate presentano una nuova rivegetazione persino già precedente alle piogge autunnali, ancora ben rigogliosa e in fase di ulteriore accrescimento dopo diversi mesi;
– la sintomatologia in questione si è presentata in aree limitate nella zona ionica del Salento sud occidentale a macchia di leopardo e non a macchia d’olio: quindi impossibile parlare di una diffusione generalizzata, come invece alcune dichiarazioni allarmistiche e frettolose di taluni hanno fatto immaginare danneggiando in tal modo gravemente l’economia e l’immagine del Salento e dei suoi prodotti ;
– la sintomatologia non ha neppure interessato l’insieme delle varietà di cultivar presenti nel Salento sud occidentale;
– assolutamente da stigmatizzare le irresponsabili ipotesi di svellimento delle piante ospitanti l’innocuo batterio avanzate da alcuni e sbandierate come metodica da perseguire per contenere la presenza del batterio;
– lo svellimento delle piante ospitanti il batterio non è assolutamente una pratica obbligatoria né vincolante (d.l. 214/2005), ma al più opzionale, e certamente folle, se applicata su culture legnose e persino con piante pluri secolari per loro natura iper resistenti come nel caso dell’ulivo, dove ipotizzare una tale drasticità d’intervento costituirebbe una violazione palese di principi costituzionali, comunitari ed internazionali inerenti la tutela dell’ambiente, del paesaggio, della cultura, dell’assetto idrogeologico, etc., etc., etc.;
– l’espianto che è stato da taluni immaginato per migliaia di alberi d’ulivo, da 6.000 fino addirittura a 600.000-700.000 e più, su 8.000-10.000 ettari di territorio salentino, cifre apocalittiche, (e si è parlato persino di espiantare alberi del tutto verdi o anche non del tutto secchi ma in ripresa, solo perché ospitanti il microorganismo che forse in quegli alberi potrebbe vivere da sempre in maniera del tutto innocua, come sopra espresso), sta portando una parte crescente di ora in ora dell’opinione pubblica a ritenere la questione Xylella funzionale alla distruzione della locale economia agricola fondata su antiche cultivar ben adattate al territorio e sulle quali non pende alcun brevetto, funzionale all’introduzione in massa di nuove piante brevettate, d’ulivo o altre culture, anche eventualmente geneticamente modificate, dichiarate resistenti al batterio (di cui non si comprende neppure, nel Salento, sulla base di quanto sopra esposto, quale sarebbe la sua pericolosità patologica per i vegetali), così come avvenuto in Brasile, con agrumi ogm di multinazionali della agro-chimica e del biotech, dichiarati resistenti proprio guarda caso alla Xylella, e con colture transgeniche per la produzione di biocarburante. Ombre pesanti rese ancor più vivide da quanto asserito in alcuni convegni tenuti nel basso Salento in queste settimane, dove alcuni relatori hanno affermato che si dovranno cambiare colture e/o varietà nel verso di quelle resistenti allaXylella, che anche dopo tutti i catastrofici interventi previsti, continuerebbe a contaminare, a loro dire, i suoli per almeno 10, 20 o 30 anni. Così preoccupante allo stesso modo che delle multinazionali dei pesticidi e degli ogm, in questi giorni, in convegni a Bari, pubblicizzino prodotti diserbanti destinati espressamente agli uliveti pugliesi! Negli ultimi anni il Salento ha bocciato il progetto di introdurre la coltivazione di piantagioni per biocarburanti su decine di migliaia di ettari, per numerose centrali biodiesel previste sul territorio; ciò è avvenuto in sintonia con le nuove linee anche dell’UE, della FAO, dell’ONU contro le agroenergie. Aleggia il sospetto che lo svellimento, ipotizzato da alcuni, irresponsabilmente, anche di ben 600.000 piante di ulivo, possa essere funzionale a reintrodurre progetti agroenergetici già bocciati e condannati, come anche a far legno-biomassa facile; né vanno esclusi ipotetici interessi di modificazione urbanistica dei suoli a fini speculativi;
– allo stesso modo nell’opinione pubblica è cresciuto il dubbio del possibile coinvolgimento di interessi delle multinazionali dei pesticidi, da quando alcuni, hanno tentato di affermare l’inevitabilità (contro ogni logica scientifica), di interventi massicci di chimicizzazione a tappeto, perfino non escludendo l’uso degli aerei per irrorare i pesticidi; interventi presentati come fito-sanitari, e coinvolgenti l’irrorazione di quintali e quintali di diserbanti-disseccanti e di pesticidi a distruzione, anche con l’uso del fuoco (con lancia fiamme), praticamente di ogni forma di vita vegetale (domestica e selvatica) e del microcosmo animale nei 10.000 ettari e più di territorio salentino. Ipotesi di intervento altamente nocive persino per la popolazione salentina. L’opinione pubblica legittimamente allarmata da queste ipotesi di interventi ha sottolineato anche i possibili interessi a fare biomassa del legno degli alberi e così dell’olio che si è fatto produrre quest’anno e che, guarda caso, anche in teoria nelle aree dette più colpite non ha visto significativi cali nella produttività, mentre sta riscontrando un inevitabile crollo della domanda per l’immane danno d’immagine causato. Così l’opinione pubblica vede nel tentativo di svellimento degli uliveti e della flora naturale e delle macchie e dei margini dei campi, come dei canali, habitat, questi, prioritari e tutelati, da norme nazionali (articolo 9 – Tutela del Paesaggio, articolo 32 – Tutela della Salute Pubblica, due articoli della Costituzione Italiana), europee e internazionali, possibili interessi a liberar suolo da vincoli ambientali e da ogni coltura tradizionale per speculazioni legate al cemento, all’attività estrattiva, ai villaggi turistici, a nuove infrastruttura stradali ridondanti, attività industriali e non ultimo persino per assurdi progetti di neo-campi da golf proprio nelle aree definite “affette”;
– è irresponsabile che si parli di lotta integrata coinvolgente la chimica per gli eventuali interventi e non, invece, della priorità di perseguire un approccio agro-ecologico e di lotta biologica ben possibile, (senza alcun uso di chimica industriale, tanto più nel carsico Salento, la cui acqua potabile viene dal sottosuolo), attraverso il potenziamento della biodiversità naturale e domestica, a partire dal valore ridato ai manti erbosi ad alta biodiversità negli stessi uliveti come della flora e fauna, compresa l’entomofauna e l’avifauna insettivora negli ecosistemi naturali lungo i canali come al margine degli uliveti. Un’offesa alla cultura sentire ancora parlare di malerbe, erbe infestanti e di attacchi indiscriminati agli insetti buoni, come a tutti gli altri come anche di conseguenza ai danni delle importantissime api;
– inoltre va ricordato che l’agricoltura , e in particolare l’olivicoltura salentina, è già pesantemente vittima di un uso scriteriato e incontrollato di pesticidi (insetticidi ed erbicidi in primis) che hanno devastato l’equilibrio ecologico, la falda freatica, danneggiando la salute degli abitanti, e distruggendo la biodiversità e specie animali fondamentali, a partire dalle api. A ciò va posto rimedio ripristinando le antiche pratiche di agri-cultura. Inutili sono gli interventi drastici sui canali (illegali e criminali se chimici) , la cui avifauna e flora vanno tutelate; eppure per questi sono stati stanziati 2 milioni di euro, che andrebbero utilizzati per incentivare pratiche di bioagricultura;
– quand’ anche si trattasse di fenomeni epidemici per la sintomatologia osservata sugli ulivi ogni approccio deve tener conto che solo alcuni o molti individui vengono contagiati, di essi una percentuale , in genere prevalente, sopravvive alla malattia sviluppando resistenza. Mentre nel Salento anziché attendere e curare taluni vorrebbero distruggere e annientare ogni cosa nel verso della realizzazione di un criminale deserto avvelenato piro-chimico;
– centinaia di migliaia di ulivi secolari e millenari della Puglia sono sopravvissuti a numerose epidemie fungine, batteriche, virali, da insetti, sviluppando anche imprevedibili e forse sconosciute capacità di resistenza e immunizzazione;
– l’enfatizzazione, (cui non erano estranei giganteschi interessi imprenditoriali ed economici), negli ultimi anni, della virulenza di epidemie influenzali e del loro contagio, poi ridimensionata se non sconfessata, impone un ulteriore preventiva prudenza e massima vigilanza su quanti si fanno promotori di soluzioni drastiche. Anche solo propagandare l’abbattimento di un albero, come l’uso di prodotti chimici deve portare all’apertura di inchieste urgenti atte a fermare i danni annunciati, perseguendo i colpevoli e stanandone interessi e mandanti;
– negli ultimi anni si è assistito in parte all’abbandono delle tradizionali pratiche di agri-cultura più impegnative, a vantaggio di insani interventi fito-chimici, oggi da vietare assolutamente, che hanno alterato l’equilibrio ecologico, inquinando l’ambiente. È quindi necessario da parte di tutte le istituzioni favorire pratiche di agri-cultura, di rigenerazione del suolo, di tutela ambientale, economica, culturale del territorio e della biodiversità protetta dalla Conferenza Internazionale di Rio del 1992 e dalla Direttiva Habitat 92/43/CEE (Natura 2000);
– la nuova politica agricola comunitaria (P.A.C.) avendo abbassato da quest’anno gli incentivi elargiti per gli alberi d’olivo può alimentari insani appetiti in chi può avere interessi ad abbandonare e sostituire con colture più incentivate la millenaria cultura dell’olivo che rappresenta per il Salento una presenza agro-forestale dalle molteplici positive implicazioni, il cui svellimento sarebbe foriero di negatività non dissimili da quelle che portano la comunità internazionale a condannare unanimemente l’abbattimento della Foresta Amazzonica in Brasile;
– tale crisi economica si è aggravata negli ultimi mesi a causa dell’allarme che ha terrorizzato i mercati, allarme non del tutto ponderato, sui disseccamenti osservati ; il mercato dell’olio è stato ulteriormente compromesso, con danni economici incalcolabili; il territorio non tollererebbe che ad essi si aggiungano altri danni ambientali paesaggistici, culturali, prodotti da interventi irreversibili, forse ingiustificati e inefficaci;
– la confermata proprio in questi giorni maxi frode comunitaria delle quote latte deve allertare verso le richieste di maxifinanziamenti regionali, nazionali, comunitari e di pieni poteri, in vista di una quarantena che implicherebbe pratiche devastanti e inquinanti;
– già il territorio pugliese ha assistito a interventi scriteriati e schizofrenici assolutamente inutili nonché esibizionisti da parte di autorità sanitarie locali che in nome di rischi per patologie influenzali danneggiarono mortalmente in anni recenti la preziosissima popolazione di cigni reali svernanti nei bacini regionali accanendosi contro i grandi uccelli ritenuti possibili vettori, quando poi migliaia e migliaia di piccoli passeriformi migratori ben potevano trasportare l’ipotetico virus ben di più di quei pochi grandi e splenditi cigni che costituivano un bene ambientale e paesaggistico di prim’ordine per la regione Puglia. Un crimine grave poco balzato ingiustamente agli onori della cronaca e i cui danni devono essere ancora risanati;
– è necessaria stigmatizzare e condannare l’azione allarmistica che è stata montata intorno alla Xylella nel Salento sull’assenza di dati certi con campagne d’opinione battenti, convegni intrisi di retorica e varie falsità, con azioni contraddittorie, non ultima, quella di vietare il prelievo di foglie e rametti per analisi indipendenti per il rischio di “contaminazione” di altre aree, e, poi, aver invece permesso la raccolta delle olive, e quindi di foglie e rametti, e la produzione dell’olio senza alcun limite territoriale per la scelta dei frantoi, contaminando, in tal modo, se vi fosse stata un’epidemia, l’intera regione e più, con lo spostamento delle olive e con lo spargimento nei campi, e negli oliveti, delle acque di vegetazioni prodotto secondario della molitura delle olive. Contraddittorio l’aver parlato di emergenza, insistendo sulla richiesta di finanziamenti pubblici, senza attuare nei fatti alcun cordone sanitario nelle aree definite “più colpite”, ma, anzi, facendovi accedere, senza alcuna precauzione, giornalisti e curiosi, giunti da ogni dove, convocati per assistere alla scena dell’esperto americano di Xylella dell’Università della California chiamato in Puglia, mentre prelevava campioni e catturava gli insetti con un retino nei pressi degli ulivi: ulivi questi che taluni avevano definito “morti stecchiti-eradicatisi da soli”, ma che in realtà i giornalisti presenti hanno osservato in piena rivegetazione e definito dei “Lazzaro” che ritornavano in vita dall’oltretomba. Di fronte poi ai tentavi di taluni di sminuire le rivegetazioni in corso, parlando di neo germogli “già disseccati”, ha voluto vederci chiaro anche l’ Onorevole Adriano Zaccagnini, Vicepresidente della Commissione Agricoltura della Camera, che ha appurato con i suoi occhi, in un suo recentissimo sopralluogo nelle aree definite “rosse” di massimo “attacco”, la veridicità delle rigermogliazioni copiose (nuovi vivi germogli tanto sui tronchi alti, quanto dalla radice), sugli alberi d’olivo che avevano presentato in estate la sintomatologia del secco. Osservazioni divulgate poi in convegni e in sue note stampa dall’ Onorevole;
Un agire contraddittorio che solleva tanti dubbi, come ad esempio la tardiva, solo in questi giorni, ordinanza di blocco parziale dell’attività dei vivaisti,mentre si chiedono all’ Europa lauti finanziamenti per attuare l’intero apocalittico progetto, volto nei fatti, come è stato presentato sui media e nei convegni sin dalle prime ora, (vedi il servizio solo ad esempio, di TrNews http://www.trnews.it/2013/10/28/moria-ulivi-interventi-decine-di-milioni-di-euro-che-ci-sono/12364801/ ), alla cancellazione del Salento e di tutto ciò che esso rappresenta. Contraddittorie le informazione elargite da taluni, e differenti a seconda dell’uditorio, così mentre ai contadini si diceva che il batterio fosse stato introdotto dai vivaisti con l’importazione di piante, ai vivaisti si raccontava che il batterio è causa dei contadini che avrebbero abbandonato le terre; mettendo in tal modo le categorie le une contro le altre, aumentando il livello di confusione e la conflittualità sociale.
– il paesaggio è tutelato fortemente dalla Costituzione Italiana; gli ulivi e gli alberi monumentali da leggi regionali, nazionali e sopranazionali;
– tale agire allarmistico ha compromesso gravemente il mercato dell’olio d’oliva, con danni economici incalcolabili per tutto il settore agricolo salentino come anche per quello turistico; un agire che ha visto un intervento di forte pubblica denuncia e stigmatizzazione da parte anche dell’ Onorevole Adriano Zaccagnini. E, a tali danni alla immateriale immagine del Salento vi è il rischio di aggiungervi ora immani danni materiali di tipo ambientale, paesaggistico, storico, culturale, e alla salute, prodotti da interventi sproporzionati e assolutamente ingiustificabili. Mai vistisi nella storia!
– l’ulivo rappresenta non una qualsiasi pianta, ma la storia, l’identità, la cultura, il paesaggio, l’economia del territorio: il simbolo della Regione Puglia; l’olivicoltura rappresenta per la Regione Puglia, ancor più per i 90.000 ettari della provincia di Lecce;
– lo sradicamento di una pianta d’ulivo era punito con la pena di morte nell’Atene patria della civiltà occidentale (Aristotele: Costituzione degli ateniesi). Le istituzioni non possono macchiarsi dello stesso reato!
tutto ciò premesso con la presente
SI DIFFIDANO
formalmente gli enti, rappresentanti e pubblici sopra citati, i destinatari ciascuno per la propria competenza
– dall’ adottare misure irreversibili quali l’espianto degli alberi d’Olivo (uno come di più alberi – giovani come vetusti che siano), data la loro ripresa vegetativa, data la necessità di un periodo di tempo almeno di alcuni anni di mancata vegetazione e di mancata pollonatura per appurarne l’effettiva morte, data anche la possibilità di innestare le antiche e tradizionali cultivar sui nuovi polloni radicali, motivo anche per cui si deve stigmatizzare ancor più l’aver voluto parlare e proporre, da parte di taluni, non solo tagli, ma addirittura eradicazioni degli ulivi;
– le medesime prescrizioni del punto superiore valgono anche per tutti gli altri alberi delle altre specie domestiche e selvatiche autoctone (come Mandorli, le tante preziose specie di Querce, ecc., da tutelare massimamente!), e/o alloctone, (giovani o monumentali che siano), presenti nei campi come lungo i loro margini come nelle aree a macchia e lungo i bordi dei canali, come anche per gli arbusti tra cui i preziosi Oleandri presenti nel verde pubblico e privato e lungo i margini delle strade, importanti presenze verdi da tutelare e curare massimamente;
– dall’impiego di prodotti fitosanitari di chimica industriale (diserbanti, disseccanti, pesticidi antifungini, etc. etc.) nelle definite strategie di lotta integrata;
– dal consentire l’impiego dei 2 milioni di euro stanziati dalla Regione Puglia ai consorzi di bonifica per l’aggressione e cancellazione della flora lungo i canali e degli insetti con pratiche chimiche lontane da ogni buon principio di agricoltura biologica e di agro-ecologia;
– dal consentire l’impiego di parte dei 5 milioni di euro (o più) stanziati dall’attuale legge di stabilità dal Parlamento e dal Governo italiano, per opere di eradicazione degli alberi o per interventi chimici (insetticidi ed erbicidi) sul territorio:
– dal consentire e/o propagandare l’impianto, la produzione e la diffusione nei vivai salentini, come nelle aree oggi olivetate e nel resto del Salento e del territorio pugliese, di altre varietà d’olivo, o di altre colture, presentate, con la scusa, come resistenti alla Xylella, o meno, frutto di ibridazioni (contaminanti rispetto al patrimonio di cultivar locali tradizionali), varietà biotech magari anche proprio brevettate, e/o addirittura OGM, da organismi geneticamente modificati;
– dall’accettare e eseguire le predette o altre misure irreversibili e devastanti per l’ambiente passivamente , senza far valere le ragioni del territorio;
SI INVITANO
i destinatari, ciascuno per la propria competenza
– a valutare con estrema prudenza, sostenuta da articolata , complessa, pluralistica attività di indagine, la situazione in atto e l’adozione degli interventi;
– a favorire invece pratiche di agricoltura volte a risanare i terreni olivetati contaminati questo sì da troppa agrochimica industriale attraverso l’applicazione dei principi dell’agro-ecologia e le filosofie dell’agricoltura biologica fondate sull’incremento della biodiversità per un naturale incremento delle popolazioni di insetti utili, degli uccelli insettivori, e per il raggiungimento dei un dinamico equilibrio tra parassiti e predatori dei parassiti; buoni principi e buone pratiche volte a rafforzare la salubrità delle piante e dei terreni, già provati dalla eccesiva chimicizzazione da aborrire;
– a provvedere, anche in regime di autotutela, alla sospensione e blocco dei finanziamenti pubblici già eventualmente stanziati nel verso delle pratiche chimico-eradicative dannose al territorio e alla natura contro le quali sopra si diffida.
SI SIGNIFICA, INOLTRE
che, qualora non fossero osservate queste indicazioni di minimo buon senso dagli enti pubblici coinvolti e qui chiamati in causa ai vari livelli, regionali, nazionali e comunitari, saranno adite le competenti vie legali in sede giurisdizionale per il perseguimento dei colpevoli.
I contadini e i cittadini del Salento, già danneggiati pesantemente dall’allarmismo legato all’ipotesi “quarantena”, non possono subire e non permetteranno ulteriori danni dall’imposizione di irreversibili misure quale l’espianto e o la contaminazione chimica dei suoli e delle acque, e sono pronti per questo a rivolgersi a tutte le autorità giudiziarie nazionali ed internazionali. Inoltre, il territorio si sta attivando anche per la cura del danno d’immagine gravissimo già subito con conseguenze incalcolabili.
Ci si riserva pertanto di tutelare legalmente i diritti , eventualmente calpestati dei contadini e l’immagine vilipesa del territorio in tutte le sedi nazionali e internazionali; soprattutto se, ai danni finora derivati dall’irresponsabile e contraddittoria gestione dell’allarme Xylella si uniranno quelli legati all’ipotesi quarantena, e all’imposizione di irreversibili misure quale l’espianto o la chimicizzazione del territorio.
Iinvitiamo infine i destinatari a ponderare con estrema prudenza la situazione, ristabilire la serietà scientifica, cercare la saggezza che deve ispirare sempre e comunque ogni atto politico e amministrativo.
Info:
Coordinamento Civico apartitico per la Tutela del Territorio e della Salute del Cittadino
rete d’azione apartitica coordinativa di associazioni, comitati e movimenti locali e non, ambientalisti, culturali e socio-assistenziali
sede c/o Tribunale Diritti del Malato – CittadinanzAttiva
Forum Ambiente e Salute del Grande Salento, rete apartitica coordinativa di movimenti, comitati ed associazioni a difesa del territorio e della salute delle persone
Lecce, c.a.p. 73100 , Via Vico dei Fieschi – Corte Ventura, n. 2
Non è un giorno qualunque, oggi 13 dicembre, giacché ricorre la festa di S. Lucia, celebrata diffusamente.
Prima di tutto, quindi, mi viene spontaneo rivolgere un sincero augurio di buon onomastico a tutte le Lucia.
Inoltre, mi piace ricordare che, a Venezia, esiste una chiesta, dedicata a S. Geremia, dove sono custodite le spoglie mortali della Santa di Siracusa e, percorrendo in vaporetto il Canal Grande, sulla parete dell’abside di tale tempio, è dato di leggere la seguente grande iscrizione:
LUCIA
VERGINE DI SIRACUSA
MARTIRE DI CRISTO
IN QUESTO TEMPIO
RIPOSA
ALL’ITALIA AL MONDO
IMPLORI
LUCE E PACE
E, ancora, negli anni intorno al 1950, puntualmente ogni 13 di dicembre, la mia nonna paterna, di povera e numerosa famiglia contadina, soleva recarsi da Marittima a Scorrano, due paesi del sud Salento, per la fiera, giustappunto, in onore di S. Lucia, protettrice della vista, verso la quale nutriva profonda devozione.
In quell’occasione, l’anziana donna non mancava mai di acquistare un dono per ciascun nipote, ossia una pigna, l’inflorescenza lignea in cui sono contenuti i frutti del pino (pinoli). Il relativo costo ammontava ad una o due delle vecchie lire a pezzo.
Quel dono voleva rappresentare un’anticipazione del pensiero della nonna per l’imminente Natale, evento che avrebbe visto arrivare nelle mani di ogni bimbo anche un’arancia.
E’ stata inaugurata a Maglie, presso la Libreria Universal, la mostra fotografica di Mauro Minutello, nostro validissimo collaboratore ed amico, che resterà aperta fino al termine dell’anno, con ingresso libero.
Con una soluzione originale e senz’altro piacevole, tra i libri troveranno posto alcuni degli scatti più interessanti dell’artista, che da tempo, timidamente e rispettosamente, esprime particolare sensibilità ed amore per la terra in cui vive ed opera.
Nelle fotografie di Mauro Minutello le persone sono assenti, emergendo invece le loro opere, specie quelle dei tempi che furono, le cui antichità sembrano sfidare l’obiettivo pur di evocare inconsapevolmente antiche nostalgie e perle di saggezza di abili costruttori e coraggiosi massari, specie quando il fotografo adopera sapientemente il bianco e nero, con inquadrature che trasformano quelle opere in icone di una mitica terra come il Salento, che Mauro ama e riesce ad immortalare, fino ad evocare il misticismo di luoghi e anfratti che solo lui sa scovare.
Una terra luminosa e distensiva la sua, straordinariamente ricca e generosa, tanto da offrire piante e animaletti che difficilmente si notano se non li si va a cercare, magari appostandosi per ore e giorni, come riesce a fare solo un innamorato.
Perchè di amore si tratta, e solo questo riesce ad esaltare pietre a secco e pajare, giunchi e acquitrini, fichidindia e corbezzoli, rivalutando anche l’ultima foglia della vite che la stagione ha destinato alla fine.
Un occhio di riguardo Mauro lo riserva all’ulivo, l’eterna pianta che gioca a mettersi in posa, provocando la fantasia dello spettatore con le sue innumerevoli rughe, tronchi e fronde rabbiose e fragili, protese verso quel cielo che solo questa terra tra i due mari possiede, piantati in quelle distese senza tempo che richiamano il senso della vita, reclamando il diritto alla libertà di epressione, trattenendosi a forza tra le rosse zolle dell’arida terra salentina, con una lotta perenne con quanti li vorrebbero sradicati per farne buona legna da ardere.
Visitare una mostra di Mauro equivale ad un percorso nella memoria e negli ideali del Salento, tra simboli contraddittori del nostro vivere quotidiano che potrebbe sedare l’ansia dilagante, che certamente scemerebbe di fronte a quelle scenografie affettuosamente immortalate, senza distinzione tra terra e mare, sabbia o scogli, città o campagna.
Una visita alla mostra è il minimo che si possa fare, magari lasciandosi dietro la frenesia degli acquisti natalizi, alla ricerca di luoghi e paesaggi che difficilmente qualcun altro riesce a presentare così bene.
in un appuntamento organizzato in collaborazione con Libera
Il gioco d’azzardo è ormai una realtà della quale non si può evitare di parlare. Una piaga sociale vera e propria, gestita anche dallo Stato che diventa biscazziere.
L’Italia, con il suo 1% della popolazione mondiale, rappresenta il 15% del mercato europeo del gioco d’azzardo e oltre il 4,4% di quello mondiale. L’Italia è al primo posto per la vendita di gratta e vinci, (il 19% dei biglietti venduti al mondo è italiano). Il 23% dei giochi on-line parla italiano. Nei primi otto mesi del 2012 ogni cittadino maggiorenne del Bel paese ha speso mediamente 1703 euro, ma non sempre questi soldi finiscono in mano pubblica, ma spesso ingrassano gruppi economici privati.
Da ricerche curate da alcune associazioni si rileva che chi ha la sola licenza elementare gioca di più di chi ha un diploma ed una laurea, che gioca di più il lavoratore precario di quello con posto fisso. Soprattutto si nota come i minorenni, nonostante i divieti, abbiano giocato almeno una volta l’anno nel 75% dei casi.
Ad oggi si stima che 1,7 milioni di italiani siano a rischio ludopatia, 500 mila rispondono a criteri diagnostici certificati come patologici. Calcolando i costi diretti (medico di base, ambulatori psicologici, ricoveri sanitari, cure specialistiche), indiretti (perdita di reddito, perdita di performance lavorativa) e della qualità della vita (problemi familiari, violenza, depressioni, ansie, idee suicidarie, ossessione da gioco) la società ha un costo complessivo che oscilla dai 5 ai 6 miliardi di euro annui.
Il tutto sebbene le possibilità di centrare un sei al superenalotto sono di una su 622 milioni. Per dirla con la voce di un matematico che studiò il problema “le possibilità di fare sei sono identiche a quelle di alzare la cornetta, fare un numero ad occhi chiusi e parlare con Sharon Stone”.
E a Lecce? Davvero il cielo della nostra città è sempre e solo blu? O esiste un problema anche nella nostra città e per le nostre famiglie?
Nell’imminenza dell’approvazione della legge regionale, di tutto ciò si parlerà venerdi 13 dicembre dalle ore 16,00 all’Open Space in Piazza Sant’Oronzo a Lecce in un incontro di studi organizzato dall’ADOC, in collaborazione con Libera e col Patrocinio del Comune di Lecce. Interverranno: Pino Salamon e Alessandro Presicce (presidenti rispettivamente di ADOC regionale e provinciale), Catiuscia Quarta, legale e delegata ADOC Lecce, Maria Iolanda Distante, psicologa, Gianni Ferraris per Libera, Rachele Cantelli, Direttore generale AAMS Puglia, Carmen Tessitore, vice sindaco e ass. ai Servizi Sociali di Lecce, Loredana Capone, Ass. regionale Sviluppo economico e consumatori. Il convegno sarà moderato da Paola Ancora, giornalista di Nuovo Quotidiano di Puglia.
L’associazione è via P. Palumbo, n. 2 (nei pressi di viale dell’Università) e riceve dalle 11,30 alle 13,00 tel. 0832.246667, lecce@adocpuglia.it
Saltando ora, apparentemente, di palo in frasca (espediente che sostituisce il famigerato debbo fare ora una breve premessa …), tutti conoscono il nesso civiltà dell’immagine come etichetta affibbiata a quella dei nostri tempi. L’immagine ha avuto sempre la sua importanza e a tal proposito basta pensare alle miniature dei manoscritti medioevali e alle tavole che corredavano i primi testi a stampa.
Tra questi le Favole di Fedro e le Metamorfosi di Ovidio possono essere citate come emblematiche di un’intensa attività editoriale in cui il testo (e il discorso vale soprattutto per entrambi gli autori appena citati) che facilmente si prestava a trasfigurazioni moralistiche veniva corredato di commento e di immagini relative ai passi più importanti. Allora, però, il testo continuava ad essere l’elemento fondamentale, il punto di partenza e l’immagine solo una sua parziale integrazione; oggi, invece, mi pare che l’immagine sia diventata preponderante in tutti i sensi, sostituendosi, ahimè!, non solo al testo ma, più estensivamente e con gli effetti devastanti che nemmeno la disperata condizione di oggi ci spinge a capire nella loro autentica dimensione, all’essere che risulta strangolato dall’apparire.
Questo post, che è la naturale integrazione di quello presente nel link citato all’inizio, ha solo la pretesa di offrire un repertorio iconografico relativo alla favola ovidiana, tratto dalle innumerevoli edizioni delle Metamorfosi che si sono susseguite (per ragioni di spazio il lasso di tempo abbracciato va dal XVI al XVIII secolo) . Tutte le tavole, laddove non è specificato diversamente, sono state tratte da testi digitalizzati che il lettore potrà trovare all’indirizzo http://gallica.bnf.fr/; si tratta del sito della Biblioteca nazionale di Francia, attivo già da molti anni e questo la dice lunga su quanto la cultura, intesa come vettore dell’autentica democrazia, sia tenuta in conto da chi nel nostro paese (non ho la spudoratezza di scriverlo con l’iniziale maiuscola …)1 avrebbe il dovere, primario, di promuoverla concretamente e non con semplici dichiarazioni d’intenti che ormai mi fanno solo vomitare.
Il lettore avrà notato che l’elemento saliente delle tavole fin qui riprodotte è assolutamente identico. Questo fenomeno, che oggi si definisce plagio, in passato (?) era particolarmente diffuso non solo perché la relativamente limitata diffusione delle opere a stampa rendeva meno probabile la scoperta del furto ma anche perché spesso, per risparmiare, si utilizzavano per edizioni diverse gli stessi legni o, magari, ad essi ci si ispirava abbondantemente per la creazione di parzialmente nuovi.2 Per gli appassionati di giochi enigmistici il materiale si presterebbe a un Trova le differenze …
Evidentissima anche negli elementi di questo gruppo la catena di dipendenza già notata in quelli del precedente.
Anche qui il lettore può divertirsi a scoprire le differenze rispetto alla tavola precedente.
Ho riportato per ultima questa tavola, contravvenendo all’ordine cronologico fin qui seguito, per sottolineare la sua originalità compositiva e il dinamismo quasi tragico che la anima, in contrapposizione all’atmosfera quasi idilliacamente festaiola e piuttosto rilassata e rilassante che anima le altre.
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1 La digitalizzazione del patrimonio librario (quello non più soggetto ai diritti d’autore) ed archivistico (quello non più soggetto alla tutela della famigerata privacy) è solo la tappa iniziale che richiederà tempi lunghi soprattutto a causa di quello perso e che continuiamo a perdere. Nel frattempo, però, dovrebbe attuarsi veramente un processo di alfabetizzazione informatica che dovrebbe avere come protagonista la scuola in cui i soggetti (docenti e discenti) dovrebbero essere in grado di trasformarsi in “ricercatori continui” sfruttando le immense opportunità della rete. Mi pare, invece, a mesta conferma di tutti i condizionali che prima ho usato, che le giovani generazioni non riescano ad andare al di là dell’uso della tastiera di un telefonino con l’abilità e la rapidità di un prestidigitatore (per converso non sono in grado di scegliere la parola chiave da usare e da digitare, altra impresa, correttamente …, in un motore di ricerca e men che mai ad orientarsi in tempi ragionevoli nella selva di collegamenti che vengon fuori) e che nel frattempo i pc, magari costati una cifra alla parte di collettività che paga le tasse, fanno bella mostra di sé, quando va bene sottoutilizzati, quando va male usati a scopo pubblicitario per invogliare all’iscrizione in quell’istituto che trionfamente li esibisce agli studenti visitatori che l’anno successivo dovranno intraprendere un nuovo ciclo …
2 Il trascorrere del tempo, la tecnologia e la rete hanno amplificato parossisticamente questo fenomeno antico che può essere considerato, perciò, come un copia-incolla ante litteram. Non è raro, perciò, trovare in rete testi-mosaico in cui quasi sempre le varie tessere (spacciate per proprie) sono cucite malamente. Ma non tutti i rapsodi [da ράπτω (leggi rapto)=cucire + ἀοιδός=cantore] possono essere Omero …
Il laùru1 era un dispettoso folletto che imperversava nei racconti popolari con qualche testimonianza di esperienza diretta fino alla metà del secolo scorso. Invito chi voglia saperne di più sulle sue gesta a leggere il contributo di Rino Duma, pubblicato su Il filo di Aracne2, anno III n. 1, gennaio-febbraio 2008, pp. 15-17, dal titolo Il fantastico mondo del Lauri, ove l’autore mette a confronto questi ultimi, evidenziandone analogie e differenze, con i Lari e i Lemuri.
Debbo, però, muovere al lavoro un appunto di fondo perché Lauro e Lauri sono scritti costantemente senza accento, il che autorizzerebbe a leggere, rispettivamente, Làuro e Làuri. Ora, solo sulle parole piane non c’è bisogno, per convenzione, di segnare l’accento e la sua assenza può essere tollerata anche in casi in cui l’equivoco è impossibile a verificarsi per via del contesto: per esempio, il caso di àncora e ancòra. Con le parole dialettali si può fare a meno di segnare l’accento solo nel caso di parole piane, ma, forse, per quanto dirò, per evitare equivoci e conclusioni arbitrarie e catastrofiche, sarebbe opportuno segnarlo sempre. Nel caso di Lauro/Lauri, infatti, non vedendo, come avviene nel contributo del Duma, alcun accento, io sono autorizzato a leggere Làuro/Làuri considerando au dittongo. In realtà la voce dialettale ad indicare il nostro folletto è laùru che è parola di tre sillabe (au non è dittongo) e che, quindi, potrei anche scrivere lauru perché, in fondo, al pari dell’altra, è piana. Insomma, l’assenza di accento rende impossibile ad uno che non sia di madre lingua dialettale essere sicuro della reale pronuncia; da qui il mio suggerimento di segnare sempre l’accento tonico.3
L’importanza di questo accorgimento emergerà prepotentemente da quanto ora dirò. Il Duma, a proposito dell’etimo di Lauro/Lauri, così scrive: La connessione dei nostri Lauri con i Lari è dovuta più che altro alla somiglianza dei nomi. Infatti, se per sincope, si elimina dalla parola italiana la lettera “u”, si ottiene quella in uso nel mondo degli antichi romani. Ma vi è un altro aspetto, non meno importante, che unisce i due termini. Si tratta dell’alloro (o lauro), pianta sempreverde sacra al dio Apollo, molto venerato dai Latini e, probabilmente, legato alle feste Lemularia. I nostri Lauri, o anche Auri, sono spiritelli, a volte dispettosi, a volte benevoli, che amano vivere in campagna e trovano rifugio tra le fronde dell’alloro, prendendo da quest’alberello il nome. Con il trascorrere dei secoli, però, l’identità dei Lari andò via via scontornandosi, acquisendo caratteristiche ben diverse da quelle originarie di “numi tutelari”. Quasi certamente, con l’avvento del Cristianesimo, la loro sacra figura fu messa al bando, venendo definitivamente soppiantata da immagini sacre di madonne, di santi ed angeli. Furono, invece, mantenute in vita le “energie negative”dell’antica tradizione latina, le larvae. Anche queste, nel tempo e presso le varie genti, subirono continue manipolazioni ed alterazioni sia nella funzione sia nell’aspetto. Fu così che le Larvae si trasformarono da spiriti inquieti (Phantasmata) in entità corporee, sino ad assumere una conformazione umana, molto vicina a quella di un piccolo nano.
Dopo aver corso il pericolo di affermare che i Lari sarebbero dei Lauri dimagriti o che, più probabilmente, questi ultimi sono dei Lari ingrassati, il Duma, per far derivare lauru da alloro, s’inventa la storiella dell’albero tra le cui fronde questi esseri troverebbero riparo e formula l’ipotesi (basata su quale fonte?) che Apollo fosse legato alle feste Lemularia, facendo capire, anche se non lo dice espressamente, che, secondo lui dopo il rapporto anoressico-bulimico tra Lari e Lauri ce ne sia uno, non si sa di che tipo, tra questi e i Lemuri. Per completare, poi, l’orgia di queste entità inquietanti mette in campo pure le Larvae come se alcuni fonemi in comune e generici contatti semantici bastassero a rivendicare collegamenti arbitrari tutti figli della semplicistica, strumentale osservazione iniziale “Se per sincope si elimina dalla parola italiana [làuro] la lettera u si ottiene si ottiene quella in uso nel mondo degli antichi romani [Lari]”4. L’articolo del Duma risale al gennaio-febbraio 2008 (legittimo ipotizzare che sia stato preparato con largo anticipo) ma comincia a dare i suoi frutti perché in un articolo sullo stesso tema a firma di Angelo Nacci del 2/4/2011 all’indirizzo
leggo: … Lu laùru [a conferma, bisogna riconoscerlo, della corretta pronuncia] è uno spiritello dispettoso che agisce esclusivamente di notte mentre di giorno vive nascosto tra le foglie del làuro, dal quale appunto deriva il nome.
In data 20/10/2013 Tania Pagliara, poi, in http://www.iltaccoditalia.info/sito/index-a.asp?id=24641 riprende il dettaglio della derivazione di laùru da lauro o alloro per risolvere a modo suo un paradosso che l’angustiava da anni e per fare, sempre a modo suo (il lettore può giudicare leggendo l’intero contributo all’indirizzo che poco prima ho citato), un fritto misto del nostro folletto, del papavero e della papagna con la botta finale dell’immancabile grande madre.
Ma è possibile che nessuno abbia fatto caso al fatto che il folletto nel dialetto salentino è laùru, l’alloro làuru? Certo, chi si avventura in percorsi etimologici che seguono i crismi della paretimologia (in ultima analisi, senza che da parte mia ci sia intento offensivo, della suggestionabilità e dell’ignoranza popolare) e non della filologia (in ultima analisi della scienza) non può credere che la posizione di un accento sia un dettaglio di estrema importanza; perciò per lui è facile (per giunta è convinto che le cose stiano veramente così e, di conseguenza, si guarda bene dall’usare il modo condizionale o avverbi come forse e probabilmente) affermare che laùru e làuru hanno lo stesso etimo.
Così il Duma s’inventa la storiella dell’alloro-rifugio, il Nacci la riprende e la Pagliara pensa bene, dopo la pestifera pozione confezionata con la papagna in un altro suo contributo, di rincarare la dose associandoli, insieme con l’alloro, al laùru.
Se certe conclusioni restassero limitate all’ambito di appunti personali non farebbero alcun danno (o lo farebbero solo se il loro autore o, dopo la sua morte, qualche erede decidesse di pubblicare siffatte scoperte); oggi, però, c’è la rete che ha moltiplicato in maniera esponenziale le possibilità di ampliare la conoscenza ma anche il rischio di imbattersi in mastodontiche bestialità, per giunta spacciate come verità, da sedicenti studiosi e il copia-incolla, poi, simbolo della passività cerebrale dei nostri tempi, provvederà alla loro diffusione.
Se si dovesse applicare il metodo adottato nei due esempi sopra riportati (che trova l’apice della sua vergognosa celebrazione in quel santuario di banalità (quando va bene!) che è questo o quel social network, dove il mancato rispetto dell’ortografia e della grammatica, la superficialità e il pressappochismo sono elementi assolutamente fondanti, dovremmo giungere alla conclusione, riprendendo l’esempio già fatto, che àncora e ancòra hanno la stessa etimologia.
E allora? Ritengo che in ogni ricerca non si possa prescindere dalle proposte avanzate precedentemente da studiosi qualificati, e non, eventualmente, da dilettanti e ciarlatani (non è detto, poi, che i primi siano in totale buona fede …).
Per il Rohlfs5laùru è da un latino volgare agurium=augurium. Tra le varianti non letterarie risultano riportati un laùre per Carosino (TA) ed il nesso laùru di notte col significato di pipistrello per Mesagne (BR), nesso su cui tornerò fra poco. Ora debbo aggiungere che agurium è voce attestata nel latino medievale6 e la trafila dovrebbe essere stata aguriu(m)>l’aguriu>l’aùriu (lenizione di g)>l’aùru (scomparsa della i forse per influsso di aucurare)>laùru (agglutinazione dell’articolo). La difficoltà della scomparsa della i può essere superata ipotizzando che laùru sia derivato direttamente da acurare attraverso la seguente trafila: acurare>acùru7>l’acùru>l’auru>laùru.
Torno alla locuzione laùru di notte per dire che essa fa il paio con un’altra: ceddhu ti male aucùriu o ceddhu ti morte (uccello del cattivo augurio o uccello di morte) riservata al cuccumìu8(barbagianni). E mi piace chiudere col ricordo di questo grazioso uccello vittima, insieme col lupo e tanti altri animali, della nostra stupidità.
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1 Riporto qui gli etimi delle varianti ricordate nella vignetta:
a) SCIACUDDHIper il Rohlfs (Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976, pag. 609, lemma sciaguddi) è da un greco*σκιαούλιον (leggi schiaùlion]=piccolo spettro, diminutivo del greco σκιά [leggi schià]=ombra, fantasma, con influsso di agurium (augurium). La proposta mi sembra un po’ macchinosa, anche se non ho da farne una mia.
b) MONACEDDHU(come MUNACEDDHU, che è la variante di Nardò) è diminitivo di monaco.
c) SCAZZAMURRIEDDHU è composto da s– intensiva+cazzare=schiacciare+il diminutivo del germanico mahr=incubo.
d) CARCAGNULUè diminutivo di carcagnu=calcagno, con evidente riferimento, già semanticamente contenuto nella voce precedente, all’abitudine del folletto di sedersi e premere o calcare coi talloni sullo stomaco del malcapitato di turno (reo, secondo il mio punto di vista, di aver fatto fuori un piattone di peperonata o simili prima di andare a letto …).
2 Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino Athena di Galatina. Esemplare l’iniziativa di digitalizzare la rivista, i cui numeri sono integralmente leggibili all’indirizzo http://www.circoloathena.com/rivista-il-filo-di-aracne/
3 Che la pronuncia esatta comporti la grafia laùri lo conferma Giuseppe Gigli, Superstizioni, pregiudizi, credenze e fiabe popolari in Terra d’ Otranto, Tipografia salentina, Lecce, 1889 dal quale ho tratto l’immagine sottostante. Oltretutto il Gigli fa derivare laùru da Lar (senza minimamente porsi scrupoli filologici di carattere fonetico), operazione che, come vedremo, farà anche il Duma.
La grafia laùru sarà ripetuta dal Gigli un anno dopo in un articolo sul tema apparso su L’illustrazione popolare, del quale riproduco (v. XXVI, E.Treves, Torino, 1890) di seguito la parte iniziale.
4 Se questa metodologia fosse corretta si sarebbe potuto invocare a supporto quanto si legge nel glossario del Du Cange (op. cit., tomo V, pag. 32) al lemma LARVAE, che, corredato della mia traduzione, riproduco di seguito fotograficamente per fare più presto.
5 Op. cit., pag. 288, lemma laùru.
6 Du Cange, op. cit., tomo I, pag. 150, lemma agurium.
7 Augùro è attestato nella letteratura del XIV secolo (Jacopo della Lana, Commento alla Divina Commedia, passim; Niccolò De Rossi, Canzoniere, 317, 2) e del XV (Giovanni de Mantelli di Canobbio, Versi d’amore, 28a, 14).
8 La voce, di indiscussa origine onomatopeica, nella paretimologia viene interpretata, umanizzandola, come tutto mio! (con chiara allusione all’idea della morte da sempre associata agli uccelli notturni).
Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto
di Antonio Mele ‘Melanton’
Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.
Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.
Per quanto la civiltà moderna abbia modificato, e molto spesso stravolto, e finanche saccheggiato o disperso alcuni antichi valori della nostra tradizione, almeno uno – di solido fondamento laico, oltre che religioso – resiste inossidabilmente a qualsivoglia ingerenza e violazione: la festa di Natale.
Accanto alle celebrazioni che in tutto il mondo contrassegnano di vera gioia la ricorrenza di questo magico periodo dell’anno, il Natale riesce ad aggregare affetti, a sciogliere rancori, a renderci più disponibili verso il prossimo, e a tornare infine bambini, recuperando per un momento quella loro stessa innocenza, e quel senso di attesa, sorpresa, e gioiosa trepidazione, che nessuno di noi dovrebbe mai del tutto dimenticare.
La vera felicità – della quale di rado avvertiamo pienamente il senso – è spesso nascosta nelle cose semplici, nelle piccole emozioni di momenti quotidiani: nella bellezza di uno sguardo, di un profumo, di una canzone, di un sorriso. Senza per questo trascurare di obbedire ai doveri che la vita c’impone.
C’è un famoso racconto di Paulo Coelho, che parla di un mercante che mandò il figlio ad apprendere il segreto della felicità dal più saggio di tutti gli uomini. Il saggio – che viveva in una lussuosa dimora con saloni arricchiti da specchi ed arazzi, e giardini meravigliosi, e biblioteche ricolme di dipinti ed antiche pergamene, e tavole sontuosamente imbandite – mandò il ragazzo a farsi un lungo giro nel palazzo, tenendo però in mano un cucchiaino con dentro due gocce d’olio, che non doveva far cadere. Il giovane tornò dopo un paio d’ore, e il saggio gli chiese se aveva ammirato le bellezze incontrate nel suo cammino. «No», rispose quello, giustificandosi che aveva prestato massima attenzione alle due gocce d’olio, perché non cadessero dal cucchiaino. Allora il saggio lo invitò a rifare il giro del palazzo, e al suo ritorno gli fece la stessa domanda. «Sì», rispose il ragazzo, «questa volta ho ammirato proprio tutto». Ma il saggio gli fece notare che aveva rovesciato e perduto le due gocce d’olio. E gli spiegò allora che il segreto della felicità consiste nel guardare e godere di tutte le meraviglie del mondo, senza tuttavia dimenticare le due gocce d’olio nel cucchiaino…
Le leggende e i racconti delle festività natalizie e di fine-inizio anno s’incrociano spesso tra loro, e si somigliano un po’, al di là di latitudini diverse e lontane.
Come, ad esempio, una leggenda russa che parla di una Vecchia Signora, chiamata Babushka (che altri non è se non la nostra Befana), la quale, durante la Notte Santa, per via della neve e del gelo che avevano reso inagibili le strade, non riuscì a recarsi in visita alla Grotta dov’era nato Gesù Bambino. Dovette perciò rimandare l’incontro, e il giorno dopo, a cavallo di una scopa (per evitare di restare bloccata), giunse nel sacro luogo carica di doni, ma non trovò più nessuno.
Fu così che, da allora, subito dopo la ricorrenza del Santo Natale, la Vecchia Signora viaggia a cavallo di una scopa, con un sacco pieno di regali, che distribuisce a tutti i bimbi buoni, sperando che fra loro ci sia anche Gesù Bambino.
Tra leggenda e tradizione è la consuetudine tutta salentina che vuole che nel cenone di San Silvestro, aspettando il nuovo anno, si debbano consumare, come buon augurio, tredici pietanze diverse, fra cui non possono assolutamente mancare le pìttule cu lu cottu.
Sempre all’ultimo dell’anno, a Gallipoli si spara lu Pupu: in tutti i quartieri della città jonica si fa a gara a costruire con la cartapesta un ‘personaggio’ pittoresco che rappresenta l’Anno Vecchio, il quale a mezzanotte in punto viene bruciato, con grande frastuono di canti, balli, fuochi artificiali, e fiumi si spumante, tra la gente scesa per le strade. Chi non ha mai veduto questo spettacolo assolutamente straordinario di festa collettiva, non perda l’occasione di parteciparvi il prossimo 31 dicembre. Con i nostri Auguri!
23. Anche la storia del Presepio ha l’aria un po’ della leggenda, pur potendo contare sulla testimonianza storica degli evangelisti Luca e Matteo, che per primi descrissero la Natività, e su quella di San Francesco, che nel 1223, come vuole la tradizione, allestì il primo Presepio fra le aspre alture di Greccio, oggi in provincia di Rieti.
Nel Salento non mancano, durante le festività di fine anno, i Presepi viventi (a Gallipoli come a Casarano, Tricase, Calimera, Presicce, Collepasso, Sanarica, Galatone, Torrepaduli, Noha, per citarne soltanto qualcuno), e perfino un suggestivo “Presepe rupestre” – detto anche “dei pupi bianchi”), visitabile peraltro tutto l’anno, allestito sulle serre di Alliste, con numerose statue a grandezza naturale realizzate dallo scultore Luigi Sicuro.
Come Napoli, anche Lecce vanta un’antica scuola ‘presepistica’: i creatori cartapestai salentini – fra i quali merita una citazione d’onore il più longevo e attivo maestro in quest’arte, Antonio Malecore – ci hanno lasciato opere indimenticabili, che fin dal Cinque e Seicento fanno bella mostra di sé in alcune nostre Chiese e Cattedrali, come quello in pietra dipinta – opera del 1530 di Stefano da Putignano – che si può ammirare nella Chiesa del Carmine a Grottaglie.
24. Di buon augurio è anche la leggenda di Rossofiore o della Stella di Natale, molto suggestiva, anche se poco conosciuta, ambientata nelle contrade tra Sogliano e Cutrofiano. In casa nostra ce la raccontava la zia Carmeluccia, che per lunghi anni è vissuta proprio in quelle campagne, nel fondo denominato Colamaria, dove anche noi, da Galatina, negli anni Cinquanta, andavamo a villeggiare dall’inizio di settembre al periodo della vendemmia, trattenendoci qualche volta anche fino a “Santu Martinu”…
Pare che, nella notte dei secoli, quel territorio appartenesse al principe guerriero Raguccio, il quale aveva un figlio di nome Larenzio, naturalmente giovane, bello, forte e intelligente come lo sono tutti i principi delle leggende. Un giorno d’inverno, poco prima di Natale, andando a caccia nei boschi, Larenzio incappò in una stupenda cerva dal candido manto, che riuscì ad abbattere con un ben assestato dardo. Neanche aveva mosso il primo passo per avvicinarsi alla preda, che egli sentì levarsi da dietro un cespuglio grida e disperati lamenti, e subito dopo vide apparire una bellissima fanciulla, con un fiore rosso a forma di stella tra i capelli, che gli si gettò ai piedi, supplicandolo: «Aiutatemi, mio Signore! Voi avete ucciso la Cerva Bianca del Mago Nanni, della quale proprio io ero la guardiana, ed ora il Mago Nanni mi punirà terribilmente, traendomi come sua schiava…».
Ed ecco, infatti, che dalle alture innevate appare il Mago Nanni: alto, vestito di nero, con barba ispida e lunghe zanne, che stringe in mano una bacchetta magica da cui escono fiamme spaventose: «Tu, Rossofiore – urla alla giovane donna, e facendo tremare perfino gli alberi del bosco – hai mancato al tuo dovere di guardiana della sacra Cerva, e verrai ora con me nel mondo delle tenebre!». E difatti, ad un colpo della bacchetta, Rossofiore si trasforma in una nuvola di fumo, e subito dopo anche il Mago scompare nell’aria.
Innamorato più che mai della fanciulla, il principe Larenzio sembrò allora uscire pazzo, e si mise a cercare dovunque per trovare traccia del terribile Mago e di Rossofiore, avventurandosi perfino verso le scogliere di Otranto e Castro, e perlustrando tutto il Capo di Leuca, e ogni grotta, ogni selva, ma senza successo. Passarono così i giorni e le notti, fino al primo giorno di primavera, quand’egli, giungendo stremato in un altro fittissimo bosco, si riposò finalmente sotto una grande quercia.
Nel sonno, mentre i profumi della primavera addolcivano l’aria, gli apparve un fiore scarlatto, a forma di stella, che sembrava brillare sulla cima di un albero tutto attorcigliato e ricolmo di spine. Ma il principe Larenzio non stava sognando: quella specie di rovo gigantesco era proprio davanti a lui, e quel fiore purpureo gli riportava in mente la sua bella innamorata. Così, senza indugio, e con la forza della disperazione, cominciò a dare potenti colpi di spada alla base di quell’albero contorto e mostruoso, finché esso si piegò in due, abbattendosi al suolo in una nuvola di polvere e trasformandosi per incanto in una bella e dolce fanciulla, che era per l’appunto l’amata Rossofiore.
Inutile aggiungere che i due giovani si sposarono con grande festa di nobili e di popolo, ebbero molti figli, e vissero a lungo felici e contenti.
Con buona pace del tenebroso Mago Nanni e di tutti i Cattivi come lui, destinati – almeno nelle favole – a pagare il fio delle loro malefatte, scomparendo per sempre nel nulla.
Non essendo uno uno speleologo e non potendo fornire nemmeno il resoconto da esploratore dilettante, al lettore interessato a questo aspetto segnalo il link http://www.ilmiosalento.com/?p=9860.
Non sono in grado nemmeno di dire nulla sul nome della cavità, se non che zappa potrebbe contenere il ricordo di tante leggende connesse con l’acchiatura (il rinvenimento di un tesoro nascosto) e questo che è il principale ferro del mestiere del contadino potrebbe essere il protagonista di un racconto in cui alla fine si erge moralisticamente al ruolo di simbolo di quello che oggi, paradossalmente più di ieri, è diventato raro come un tesoro: il lavoro, quello onesto, e il pane, non rubato a nessuno, grazie ad esso guadagnato.
Pura ipotesi, così come tutt’altro che certa appare l’etimologia dell’altra parola scelta come titolo.
Nel dialetto neretino fùrchiu è la tana di un animale e, per traslato, dispregiativamente, un ambiente ad uso umano di dimensioni molto ridotte.
Cominciamo col vedere i lemmi presenti nel vocabolario del Rohlfs (per fare più presto riporto i dettagli fotografici):
Per il Rohlfs, dunque, tutto deriva dal latino fùrcula che, aggiungo io, significa piccola forca, forcella in Livio, puntello, sostegno in Festo e che è diminutivo di furca che può significare forca, forcone, appoggio, puntello a forma di forcone, patibolo, giogo.
La filiera fùrcula>fùrchia sarebbe indiscutibile e varrebbe anche per il nostro fùrchiu se rivelasse sul piano semantico la stessa perfezione che mostra su quello fonetico. Il rapporto concettuale tra la forca e la tana da una parte e la forca e la stalluccia per gli agnelli dall’altra mi sembra, infatti immaginabile pensando solo ad una sineddoche (la parte per il tutto), cioè ad almeno tre (dico tre) puntelli a forca che reggono la stalluccia; le difficoltà aumentano, poi, con la tana.
Tutto ciò indipendentemente dal fatto, che pure potrebbe contare, che nel latino classico non c’è ombra di questo significato e in quello medioevale (Glossario del Du Cange, tomo III, pag. 80) fùrcula è pars pectoris, ubi venae, quae ab hepate profiscuntur in furculas in furculas dividuntur (la parte del petto dove le vene che partono dal fegato si dividono in diramazioni che hanno la forma di forcelle).
E allora? Secondo me fùrchiu potrebbe essere nato per aferesi da cafùrchiu, lemma anch’esso presente nel Rohlfs e che di seguito riproduco.
Il lettore noterà in particolare che la voce è registrata pure per Nardò, dove in effetti essa è usata con lo stesso significato di fùrchiu. E allora, se cafùrchiu è dall’antico spagnolo cabuerco=buco, cosa impedisce di pensare che fùrchiu derivi per aferesi da cafùrchiu (lo stesso varrebbe per i composti ‘nfurchiarsi e ‘ncafurchiarsi usati come sinonimi di rintanarsi)?
Per me, in una scrittura, è molto importante entrare nel ritmo del respiro che emana, nel battito del cuore che l’ha ispirata. Per me, le pause sono importanti come i pieni. Come in architettura, come in musica, come dappertutto ci sia arte: tutto è una sequenza di pieni e di vuoti, di luci e di ombre, di frasi, di virgole di punti. Un equilibrio di presenze ed assenze.
Se, quando inizi a leggere, trovi immediatamente la sintonia di battito e respiro con lo scrittore te ne innamori subito, lo assimili, lo metabolizzi. I concetti, le storie, i messaggi vengono dopo; prima il ritmo.
Questa sincronia di respiro, questa empatia di ritmo è stata la prima cosa a colpirmi della scrittura di Wilma Vedruccio, subito dopo aver preso il libro LA CASA DEL SALE in mano ed averlo iniziato a leggere dall’incipit del primo racconto. Ché poi non sono racconti, nel senso di piccole storie indipendenti. Anche se a me i racconti intrigano tanto, perché son come gli spot pubblicitari fatti bene: in pochi secondi ti devono veicolare una storia, un ambiente, una sensazione o stato d’animo. Nel piccolo si deve coagulare il grande. E ci vuole maestria.
Il Romanzo ha tempo per dipanarsi, per descrivere, per svolgere; il Racconto è sintesi. Il racconto è Giulio Cesare: veni, vidi, vici. Tutta sostanza liofilizzata, ma senza perdere odori sapori colori, suggestioni, storie. Non sono racconti, si diceva, quelli nella Casa del Sale: sono parti di un unico grande affresco. Parti per gli strumenti di un’unica sinfonia. Ogni voce, ogni timbro serve a comporre armonia, colore, suggestione. Come i particolari di un quadro di Hieronymus Bosch, dove ogni personaggio è una storia, una metafora, un’allegoria e tutti concorrono nel formare un dipinto corale e complesso. Se vogliamo lasciare l’ “Alto” e sprofondare nel “Basso” della comunicazione, passando dalla pittorica alla fumettistica, possiamo pensare alle grandi tavole di Jacovitti: intrecci di personaggi singolari e di particolari eterogenei, di objet trouvée che diventano parti di un tutto inscindibile, con un suo ritmo grafico, senza soluzione di continuità; con un proprio indiscutibile “timbro”. Così le storie degli uomini e delle donne – quelle che poi preferisco- si alternano ai punti di vista degli animali o delle cose, dai mitili, ai cani fino alle coccinelle ed alle pietre stesse.
Si delinea così un paesaggio dell’anima, una geografia dei sentimenti, che trova spazio in un Salento minore, quello degli antichi piccoli borghi, delle liturgie di una volta, di quei riti domestici dignitosi e silenti, rispettosi dei tempi lenti della ruralità, e dell’incanto di un paesaggio archetipo e ancestrale. Personaggi arcaici, o di sempre, si affacciano in questo microcosmo panteistico con la discrezione di ospiti desiderati. Infondendo pace.
La prosa si veste di coefficienti poetici, senza travestirsi di involuti effettacci verbali, di trovate letterarie artificiosamente stupefacenti, ma rimanendo nella poetica delle piccole cose, nella scorrevolezza di un tratto semplice e lineare, limpido come un orizzonte marino in una giornata di vento freddo da tramontana. La Natura Madre, si veste di incanto, diventa accogliente e provvidente, si fa curare e coltivare secondo le descrizioni minute e accorte, ma mai pedanti, di una sensibilità femminilmente materna. Panteismo, dicevo, coralità e armonia tra uomo, animali e natura.
Uno sguardo che diventa un abbraccio di questo mondo che fa sfondo a questi piccoli cammei, dove il Salento è certamente personaggio coprotagonista, presente ma non invadente, ma che, si suppone, la sensibilità e la delicatezza della scrittrice potrebbe benissimo esprimersi altrove, su altri territori, con altri orizzonti ma con uguale sensibilità, purché si senta pienamente a casa. Perché, come scrive Josephine Hart nell’incipit de “il Danno”: “C’è un paesaggio interiore, una geografia dell’anima; ne cerchiamo gli elementi per tutta la vita. Chi è tanto fortunato da incontrarlo, scivola come l’acqua sopra un sasso, fino ai suoi fluidi contorni, ed è a casa” .
Le recenti abbondanti piogge avranno sicuramente procurato qualche infiltrazione di acqua dal tetto e qualche giovane avrà sentito non dal padre (che, ormai, si vergogna di usare il dialetto …) ma dal nonno che ha la fortuna inconsapevole di avere in casa espressioni del tipo eri bbutu cciare li chiamienti1 (avresti dovuto rimarginare le connessure del rivestimento del tetto). Il verbo in questione, però, può riferirsi a qualsiasi fessura o buco di una superficie.
Ciare ha il suo esatto corrispondente italiano in cibare (tal quale dal latino cibare, a sua volta da cibus=cibo) e questo la dice lunga sulla cura e il rispetto, oserei dire l’amore, che in passato si aveva anche delle cose, tanto che in riferimento all’uomo non si diceva ti cce tti si ccibbatu osce? (di che ti sei cibato oggi?) o ti cce tti cibbi? (di che ti cibi?) ma, rispettivamente, cc’è t’ha mmangiatu osce? (che hai mangiato oggi?) e ti cce c campi? (di che campi?). E il cibo era lu mangiare (il mangiare).
Poi vennero il benessere ed il consumismo, ancelle devote del profitto, spropositato e quasi mai onesto di pochi, e tiranni di sudditi che pensavano di aver raggiunto la definitiva loro realizzazione umana (indipendentemente dall’età …) solo se in possesso di qualche feticcio, anche tecnologico, status symbol che sancisse in positivo il loro status puro e semplice, l’apparire, mentre l’esse si allontanava sempre più.
Forse non tutto il male viene per nuocere e l’attuale crisi sta mettendo impietosamente in luce la demenzialità di quel sogno sbagliato che le leve della finanza (l’economia, sanamente intesa, tanto per cambiare …, nel suo significato etimologico, è altra cosa) e della politica (di ogni colore e di ogni ideologia, perché anche la più “cristiana”, quale poteva sembrare agli ingenui, nonostante il suo anticlericalismo figlio naturale dell’ateismo, quella di sinistra, è destinata al fallimento quando il potere non è inteso come servizio) hanno per troppo tempo tenuto in piedi.
Non vorrei sembrare cattivo e vendicativo ma, nonostante le mie tante colpe, mi auguro solo che il sogno tradito di tanti si rivolti in incubo per i pochi che lo hanno coscientemente alimentato non certo per filantropia ma, al contrario, per egoismo, solo perché faceva loro comodo in un modo o nell’altro approfittando del fatto che chi non ha nulla si accontenta anche delle briciole, e che l’umanità torni ad avere rispetto per se stessa prima ancora che per le sue cose, ammesso che i due comportamenti possano convivere, sia pure per poco, scissi.
È questo, per chi non l’avesse ancora capito collegandolo al mio cognome, il significato delle virgolette del politico del titolo. Quanto a poesia ricordo che essa è dal greco ποίησις (leggi pòiesis), a sua volta dal verbo ποίεω=fare, creare (e non distruggere, com’è avvenuto a danno di un’intera generazione e, forse, anche per la successiva).
L’intero corpus della cinquantina di brani riportati nel volume, frutto di abile scrittura piegata sempre a fissare emozioni, ricordi e riflessioni personali, ridisegna una scansione temporale, quella di un anno, cara alla sensibilità dell’autore, Rocco Boccadamo, secondo cui l’unicità dell’esperienza umana, a fronte dell’eternità del cosmo, travalica proprio con la brevità della vita, lo stesso infinitamente grande. E, forse, sembra affermare l’autore, svetta, sull’accostamento tra infinitamente piccolo e infinitamente grande, la potenza dell’intelligenza umana, per ciò che ha saputo costruire nei secoli, e tuttavia, anche distruggere con la guerra, i genocidi e il pericolo del dissolvimento degli equilibri planetari.
Il brano “Una matinée al Santalucia”, individuato da Boccadamo come titolo dell’intera raccolta, assurge emblematicamente a sintesi del suo messaggio scrittorio: l’amore riproposto come motore della vita, la genuinità dei valori di un tempo (tra cui la “complicità” trans generazionale), l’importanza della vita di relazione, il peso degli affetti familiari, la determinazione e la costanza nell’impegno dello studio e del lavoro, l’amore per la propria terra natale, il Salento.
L’ultimo nucleo narrativo dell’opera, che forse è il primo, è costituito dalla descrizione di emozioni vissute nel Salento: una terra magica, un “tacco” tra due mari, il fascinoso Ionio e l’affollato Adriatico. E’ la sua terra natale, con i suoi miti e le sue tradizioni, la sua particolare luce, il suo vivido cielo, i suoi olivi, connotazioni tanto decantate, col lapis sul suo immancabile taccuino, dallo stesso Gabriele D’Annunzio. E sotto i riflettori, sono proprio i centri abitati, già cantati dal poeta Bodini, come Marittima, Castro, Santa Cesarea Terme, Otranto e persino la piccola Torrepaduli, dove il furore ferragostano della danza scherma (nota come “ballo di San Rocco”) fa convenire migliaia di turisti – pellegrini a danzare per una intera notte, il 15 agosto, al ritmo folle di tamburelli e armonica a bocca. E poi lo stupore di fronte ai grandi flussi turistici verso le città d’arte come la regina del barocco, Lecce, e verso i tesori artistici degli edifici sacri di tanti grossi centri, come Gallipoli, Nardò, Maglie, Tricase, Galatina. Per non parlare dello splendore delle marine salentine, sullo Ionio e sull’Adriatico, insignite spesso da autorevoli riconoscimenti in ordine al rispetto dell’ambiente, della flora e della fauna del territorio. Se, dunque, l’autore ha riportato ben ventinove interventi, su cinquantuno dell’intero corpus scrittorio del volume, sul tema del Salento, deve esserci più di una ragione. La prima: i centri di Marittima e di Castro Marina, l’abbiamo osservato in altre occasioni, sono i due poli affettivi del primo “luogo dell’anima” di Boccadamo. Un autentico topos della scrittura di questo ex dirigente bancario, oggi felicemente prestato al giornalismo, la cui verve creativa gli ha permesso di recente, di cominciare ad inanellare qualche prestigioso riconoscimento nel non facile ambito della comunicazione, giustappunto, giornalistica. La seconda: l’amore per la sua terra, il Salento, archetipo mitico di una esperienza umana, accesa con il mistero della nascita, ingigantita da una quarantennale assenza con il girovagare per la Penisola, per motivi d’ordine professionale, e ripresa nell’attuale fase della sua vita, in ambito scrittorio. A tal proposito, infatti, a partire dal 2008, nella 1^ manifestazione “Castro – Estate”, Boccadamo è stato insignito del Premio Cultura de “Il Giglio d’Oro”, per avere redatto pagine appassionate per la sua Castro, la perla dell’Adriatico meridionale. Riconoscimento che non è l’ultimo e, in verità, l’autore dovrà cominciare ad abituarsi, visto il recente premio riconosciutogli dal Gruppo editoriale de “L’Espresso”, nella Edizione 2013 dei “Racconti di agosto”: con il racconto “Quell’indimenticabile spettacolo audace nella controra”. Boccadamo ha avuto ancora un prestigioso riconoscimento di qualità in ordine alla sua intensa attività pubblicistica su “Affari Italiani”, il più grande giornale italiano on line. Una terza ragione, per spiegare l’onnipresenza tematica del Salento, nelle pubblicazioni di Rocco Boccadamo, è costituita dalla riflessione, fatta con sapiente modalità affabulatoria tra l’onirico e il fantastico, su una serie di “siti” terrestri e marini, in un Salento, posto a cavallo di due trati di mare che da sempre ispirano, in vario modo, la sete del racconto dell’autore. L’Ariacorte, l’ Acquaviva, il “palummaru”, il promontorio di Santa Maria de Finibus Terrae, il Pizzo Mucurune, le vestigia dell’antico casale Ciddrini, la litoranea Santa Cesarea-Castro-Andrano-Tricase-Ciolo, assumono una valenza quasi antropomorfica e catartica d’interpretazione del mondo. Sono siti dove la fantasia dell’autore, in ogni angolo di scogliera o di cielo, appare capace di riaccendere la frenesia della mitologia classica, pronta a far prendere corpo a miti come quello del vecchio guerriero Ulisse, a consuntivo del suo eterno peregrinare, in cerca della sua Itaca. Emozioni che l’autore sa rinverdire di persona ogni estate sull’Adriatico, con la vela della sua piccola barca “My three cats”, con il vento dell’ignoto a placarsi alla vista del promontorio di “Castrum Minervae”. Per non parlare dell’umile pescatore descritto a preparare il suo “conzu”, del vecchio suonatore d’organo, del contadino sudato nel rito della ientulatura, del venditore di nastrini colorati alla fiera di San Rocco di Torrepaduli, del venditore di tamburelli alla festa di San Pietro e Paolo di Galatina, della venditrice di noci, delle raccoglitrici di tabacco o di olive, dell’ultimo impagliatore di sedie o del raccoglitore di giunchi di Lido Marini (marine di Ugento): tutti personaggi, come l’abbraccio dei due ragazzi, effigiati da Colella in copertina, all’ingresso del cinema leccese Santalucia, presenti nella memoria dell’autore, rivisitati con la lente della pacata maturità al di là del tempo e dello spazio, ormai ingigantiti nel ricordo e nella consapevolezza dell’inesorabile fluire delle stagioni della vita.
L’illustrazione, in prima di copertina, dell’artista leccese Carlo Colella assolve alla sua funzione didascalica, non in senso deteriore, mettendo subito in relazione la curiosità del lettore con il nucleo contenutistico della nuova fatica editoriale di Rocco Boccadamo. L’abbraccio della giovane coppia, ritratta di fronte al proscenio dello storico cineteatro leccese, il Santalucia appunto, gremito di spettatori, occupa cromaticamente il primo piano dell’illustrazione, vivificata, nell’intento pittorico di Colella, dalla folla assetata di spettacolo e di relax. E però quell’immagine della passata giovinezza, una mattinata di effusioni rubata all’impegno scolastico, non si chiude nello sterile ricordo della trascorsa gioventù, ma riprende vigore nell’animo dell’autore per riscoprire il mondo con animo nuovo.
Le prime testimonianze della presenza umana, stabilitasi a Riesci in agro di Arnesano (Lecce), vennero rinvenute in un’area compresa tra Carmiano, Monteroni, Lecce e la stazione di Surbo, già Collezione De Simone, custodita nella Casa Museo di villa S. Antonio in Arnesano, questa ricca e importante raccolta di oggetti litici di età neolitica, ora è al Museo Provinciale di Lecce ( Nicolucci 1879, Jatta 1914, De Giorgi 1922).
In prossimità di Arnesano (contrada Li Tufi) furono rilevate tracce di un insediamento dell’età del Bronzo ( Delle Ponti 1968).
Tutto il materiale litico e i frammenti di terracotta, rinvenuti a Riesci, compresi quelli che nel novembre del 1985 sono stati recuperati dal Soprintendente P. Ciongoli e conservati nelle cantine del Castello CarloV di Lecce, oltre ai fondi di capanne con intorno i fori dei pali le vasche di raccolta dell’acqua o buchi di libagione, le fosse di combustione, alcuni tratti di muro megalitico e un articolato sistema viario, costituiscono i resti del Villaggio Neolitico di Riesci (L.P.Pati 1986 e 2006).
La testimonianza più nota, ampiamente trattata in letteratura, è la sepoltura a grotticella artificiale scoperta nel 1968, completa di corredo, conservato nel Museo Nazionale di Taranto, costituito da tre vasi “tipo Diana” e un idoletto in pietra antropomorfo. Il corredo funerario, in un primo momento, aveva indotto a credere che fosse il prodotto del neolitico finale, 2400 a.C. (F.G. Lo Porto 1972), ma, il rinvenimento di una tomba nel 2001 a Carpignano Salentino (Lecce), datata alla metà del V millennio a.C., del tutto simile a quella di Arnesano (E. Ingravallo, I. Tiberi 2007), sulla quale si è potuto indagare con una diversa metodologia, riporta l’ effettiva datazione della sepoltura indietro di qualche millennio e riapre il dibattito sull’età dell’insediamento di Riesci.
Le basi del villaggio fondano a 20 m sopra il livello del mare, su un pianoro calvo di tufo che è, il “relitto geologico” della porzione di mare intrappolato all’interno del naturale anfiteatro nella Valle della Cupa, in fase di emersione dell’ultima attività tettonica che ha interessato la penisola salentina.
L’area in oggetto, di forma ellittica, è un bacino endoreico, senza deflusso a mare, definito dalla isoipsa dei 45 m s.l.m., compreso dai due distinti sistemi orografici delle serre, del nord e del sud Salento, si infossa a 16 mt s.l.m. con recapito finale nell’impluvio naturale di fondovalle, contrada Materdomini, dove defluiscono le acque meteoriche. Nei millenni conseguenti all’ultima glaciazione, si è alluvionato uno strato di terreno fertile e ricco di elementi vegetali (terra cupa).
Come un’isola illuminata a cielo aperto nella foresta primigenia, questa porzione di territorio iniziò ad allargarsi a causa della deforestazione, attuata per acquisire terreni da coltivare e per il pascolo, ma anche per reperire legna da ardere o da utilizzare per la costruzione di capanne (P. Laureano 1993).
Questo contesto paesaggistico, deve essere stato ottimale alle esigenze della comunità che scelse di occupare quest’area, centrale all’interno della penisola, a qualche ora di cammino dal mare, circondata da una foresta ricca di selvaggina e da un fertile terreno adatto a una agricoltura non irrigua, quale era quella originaria; abbondavano verdure selvatiche in tutte le stagione e risorse naturali di ogni tipo.
vano ipogeo area archeologica di Riesci (ph L. P. Pati)
Dal villaggio parte a raggiera un reticolo di vie di comunicazione, anche quelle preesistenti all’insediamento che sono state le correnti di penetrazione dell’intera penisola, come la strada cardinale vecchia Carmiano, transito orientato est-ovest da mare a mare e la strada maestra, allineata ai menhir di S. Donato, Lequile, Novoli e Campi Salentina, longitudinale al bacino della Cupa, che lo attraversa da sud-est a nord-ovest; a margine di questa fu rinvenuta una gora ossifera con resti di fauna del quaternario (U. Botti 1901), tra cui una zanna fossile di elephas antiquus (mammut), ambita preda dell’ uomo del paleolitico.
Queste due strade, con quella che porta da un verso a Surbo e dall’altro a Copertino, racchiudono in un triangolo l’area archeologica di Riesci.
A Surbo e a Copertino sono stati rinvenuti due “ripostigli di asce” del Bronzo (D. Novembre 1971).
Una strada, ancora in gran parte esistente, collegava il villaggio neolitico di Riesci con l’abitato dell’età del bronzo di Cavallino, a metà di essa, in epoca messapica si sviluppò la città di Rudiae, praticamente sono distribuite in 10 km le più significative presenze preromane della valle della Cupa.
Dalle tesi esposte e dalla consultazione della bibliografia elencata nello studio di G. Neglia del 1970, Il fenomeno delle cinte di specchie della penisolasalentina, sono individuabili su base toponomastica dieci specchie, ubicate lungo le vie di comunicazione che a 360° si diramano dal villaggio.
Le specchie, monumentali ammassi di pietre sotto forma di cumulo, “celebri e misteriose” sono una peculiare testimonianza del Salento antico.
Quelle che costituiscono la cinta intorno all’insediamento di Riesci, costruite a corona del territorio sottratto alla foresta, a comunicarne il possesso, sono, partendo dalla specchia posta a nord, di seguito elencate in senso antiorario con indicata in metri la quota altimetrica sul livello del mare e in chilometri la distanza approssimativa dal villaggio. Risultano visivamente collegate tra loro.
specchia di Trepuzzi, m 48 s.l.m., km 6,500 ;
specchia di S. Croce a Campi, m 32 s.l.m., km 6,750;
specchia di Carmiano, m 37 s.l.m., km 6,250;
specchia del Saetta a Monteroni, m 36 s.l.m., km 5,250;
specchia di Vittorio a Lequile, m 50 s.l.m., km 8,250;
specchia di S. Donato, m 82 s.l.m., km 11,500;
specchia di Ussano, m 87 s.l.m., km 10,750 ;
specchione di Cavallino, m 46 s.l.m., km 9,250;
specchia de Lauris a Lecce;
specchia de Tremititis a Surbo;
di queste due ultime è incerta la loro localizzazione ( C. De Giorgi).
Corrono tempi in cui faremmo volentieri a meno di grafici che sintetizzano l’evolversi di fenomeni come la disoccupazione, la corruzione, il famigerato spread e tanti altri simili. Ci sono stati tempi migliori in cui la visione degli stessi grafici era di gran lunga più gratificante. Si tratta, però, di rappresentazioni ben distinte nel tempo. Insomma, è impossibile trovare un grafico che registri il progressivo peggiorare di un fenomeno di per sé negativo per tutti che trovi gradimento in qualcuno che non sia affetto contemporaneamente da sadismo e da masochismo; così non esisterà grafico confortante per tutti che non trovi accoglienza calorosamente affettuosa. Va da sé che un unico grafico non può rappresentare contemporaneamente il peggioramento o il miglioramento della stessa situazione ad un’unica data.
Sembra un ragionamento banale , la cui razionalità, però si frantuma di fronte ai diagrammi che seguono.
Qui è registrato l’andamento dei contatti (ne ho riportato il numero in testa ad ogni colonna) da cui questo sito è stato onorato nel periodo 29 settembre-4 ottobre appena trascorso.
L’attenzione è subito attratta dal picco registrato il giorno 30 settembre, quando abbiamo appreso che avevamo perso, a parziale conforto solo fisicamente, un compagno di viaggio dello spessore di Nino Pensabene. Quel picco suscita contemporaneamente due sentimenti contrastanti: la gioia che la nostra stima nei confronti di Nino coincida con quella di tanti e contemporaneamente la tristezza che si sia spenta una voce che ci avrebbe ancora detto e dato tanto.
In questo secondo diagramma il picco, la cui onda risulta in atto già il giorno precedente e non estinta nei due giorni successivi, corrisponde alla pubblicazione del post “Il bluff del malaffare Xylella”. Se l’affare è malo, mala non è certo la sensibilità manifestata da tanti lettori.
Quel picco dolce-amaro è, dunque, nel primo e nel secondo diagramma la rappresentazione grafica di un ossimoro, che non è semplicemente una figura retorica ma, almeno per me, la figura retorica per eccellenza, quella che riassume tutte le altre, perché è il simbolo e l’espressione dell’essenza della vita.
Così anche due freddi, razionali, asettici, esteticamente monotoni e insignificanti grafici, anche questi due che non avremmo mai voluto vedere e il cui accostamento, se fosse stato possibile mentre era ancora in vita, Nino avrebbe gradito, quando riescono a far coincidere in tutti sentimenti opposti, possono diventare, anch’essi, poesia.
Il mito di Myrsine si perde nei secoli del mediterraneo e rende il nome alla pianta del Mirto comune, così diffusa tra le macchie salentine. La pianta si associa alle virtù di una fanciulla imbattibile nelle competizioni ginniche dell’antica Attica uccisa a tradimento dall’imboscata di un uomo invidioso della sua vitalità.
In questi casi a rendere giustizia tra le piante c’è sempre una dea che si commuove e tramuta eroi e martiri in arbusti, foglie e fiori odorosi.
Il mirto di Mirsyne è considerato il simbolo di molte forme dell’amore, della bellezza e della gioia; era sacro perfino alla sensuale Afrodite, madre di Enea, che si rifugiò tra i suoi arbusti per sfuggire ai satiri che la rincorrevano.
I fiori propiziatori erano usati per decorare le case nuziali e il bouquet della sposa, i rametti intrecciati simboli di vittoria diplomatica di una battaglia e per premiare i poeti e letterati nell’antica Roma.
La pianta ricca di tannini è stata utilizzata dalle concerie del cuoio, della stoffa o dall’industria della cosmesi, della fitoterapia, i suoi fiori si raccolgono in piena estate mentre le sue bacche in novembre. Le foglie insieme all’alloro sono impiegate per insaporire le olive in salamoia e i piccoli frutti per fare ottimi liquori. Dal mirto si ricavano oli, decotti, estratti, che già i romani utilizzavano per proteggersi da malattie come quelle delle vie respiratorie. Il mirtolo olio etereo ricavato dalla distillazione del mirto, un tempo impiegato nella cura della malaria, è usato come antisettico, sedativo o balsamico.
Il video “SAL SAL INA SAL ENTO,il mito della Poesia Visiva”, a cura di Salvatore Luperto, è un interessante progetto multimediale che vede la luce nel nostro Salento patria artistica e letteraria di collaborazioni e sinergie stimolanti quanto creative.
In questo video infatti interagiscono artisti e promotori culturali salentini con artisti nazionali ed internazionali, quali gli esponenti della poesia visiva.
Tutto si lega insieme. Infatti Salvatore Luperto, anima di questo progetto, è impegnato sul campo della riscoperta e valorizzazione delle arti verbo-visive ormai da decenni, e forse il coronamento dei suoi sforzi, oltreché la rappresentazione plastica del suo impegno militante, è rappresentato dal “MACMA” di Matino ( di cui abbiamo parlato a suo tempo), vale a dire il Museo di Arte Contemporanea ( dedicato al pittore Luigi Gabrieli), e di cui Luperto è direttore.
Questo museo è il primo in Puglia ad accogliere importanti autori della Poesia Visiva, tra cui Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti, Michele Perfetti, Adriano Spatola, Mirella Bentivoglio, Lucia Marcucci, Emilio Isgrò, Franco Vaccari, Luciano Caruso, Martino Oberto,William Xerra, ecc.
Chiunque sia interessato alla poesia verbo-visiva dovrebbe vistare la mostra del “Macma”, allocato nel bellissimo Palazzo Marchesale Del Tufo di Matino e consultare il prezioso catalogo che la accompagna, “Di segni poetici La collezione di poesia visiva del Museo Arte Contemporanea Matino” , edito da Del Grifo (2011), curato dallo stesso Luperto e da Anna Panareo.
Il video “SAL SAL INA SAL ENTO”, curato da Salvatore Luperto, e con la regia di Giovanni Giangrande, l’interpretazione di Liliana Ebalginelli, la grafica video di Rodolfo Stigliano e le musiche di Biagio Putignano, è sponsorizzato dalla Banca Popolare Pugliese, e viene presentato da Lamberto Pignotti, nel booklet inserito nel cofanetto.
Realizzato in occasione del Cinquantenario dalla nascita della Poesia Visiva, vuole essere un omaggio dovuto ma sentito da parte dei suoi ideatori ad un fenomeno culturale che, a partire dal “Gruppo Settanta”, nato nel 1963 da alcuni giovani intellettuali provocatori come Miccini, Pignotti, Perfetti, Marcucci e Malquori, si diffuse a partire dai primi anni Sessanta anche in Puglia e specificamente nel Salento, dove diede vita ai gruppi di avanguardie come, solo per citare alcuni, Gramma di Giovanni Corallo, Salvatore Fanciano e Bruno Leo, nel 1970, Ghen di Francesco Saverio Dodaro nel 1976, e il Laboratorio di Poesia di Novoli di Enzo Miglietta, nel 1980.
Il sale del titolo, oltre a richiamare il toponimo Salento rimanda al sale, che è quello presente nella suggestiva location in cui si è deciso di ambientare il cortometraggio: la salina di Torre Colimena, frazione di Manduria in provincia di Taranto.
Una bellissima e suggestiva performance di Liliana Ebalginelli, autrice anche (insieme a Salvatore Luperto) della sceneggiatura e dei testi, che ella mirabilmente interpreta in questo scenario, ci fa entrare in un’atmosfera irreale, come metafisica, mentre le riprese sapientemente danno al paesaggio brullo ma significativo della salina un aspetto quasi lunare.
La Elbaginelli interpreta la ninfa Colimena, una delle cinquanta nereidi, secondo la mitologia greca, la quale, approdata in questa stupenda baia diviene la custode della Salina dei Monaci e scorge, sparse al sole, diverse opere di poesia visiva e si interroga sui loro significati. Ella ricerca il “sal” ovvero lo spirito di queste opere della sperimentazione verbo -visuale e si rivolge ai Manes, gli spiriti dei defunti nella religione romana, per dare delle spiegazioni sul contenuto delle varie opere.
La performance artistica è magistralmente accompagnata dalle musiche tratte da varie opere del maestro Putignano, come “Resonare”, “Da un manoscritto di Qumran” “Frammenti di Parmenide”, “Oscillum”, “Come luce sottile”, “Tra le voci dell’alba”.
Il video è stato presentato nel maggio 2013 dal noto critico Claudio Cerritelli presso l’Accademia di Brera di Milano, poi nella Biblioteca Comunale di Tuglie (Le), all’Accademia BB.AA di Roma, ed è inserito nei programmi delle iniziative culturali (in luoghi istituzionali e non) delle città di Firenze e di Palermo. Infine, in questi giorni, presso la Primo Piano LivinGallery, con la mostra PAPER,dal 19 ottobre al 13 novembre.
Sembra trascorso un secolo da quando lo studioso Ernesto De Martino, calato nel Meridione con la sua équipe di studiosi, interessandosi con perizia scientifica al fenomeno del tarantismo, aveva finito col definire il Salento “terra del rimorso”. Egli aveva così inseguito e rintracciato gli ultimi esempi viventi, donne provenienti da ceti popolari, ma anche uomini, che legavano i propri disagi psicofisici al mito dell’onnipotente paterfamilias e si rifugiavanonell’illusione della cappellina di San Paolo in Galatina (Lecce), per mezzo del ballo della pizzica pizzica, che fosse l’unico strumento di sollievo e persino di guarigione dai propri mali. Ed era quasi impossibile avere testimonianze dirette o riferite delle contraddizioni della vecchia civiltà contadina al cui interno, e sembra passato più di un secolo, esplodevano conflittualità di ruoli socio-familiari e di contesti economico-culturali di un tempo ormai svanito dietro la massificante opera dei mezzi della odierna comunicazione sociale.
Ma è proprio di ieri, in quel di Ruffano, dove oggi la locale biblioteca comunale “Don Tonino Bello” organizza un incontro culturale con l’Università del Salento dal titolo Racconti di una tarantata. Ruffano e il tarantismo di Michela Margiotta,che mi è occorso di dover ascoltare una storia singolare di un mio vecchio compagno di scuola. Costui, non me ne aveva mai fatto cenno, nel ricordarmi di fare un salto in biblioteca ad ascoltare sul tema l’antropologo Eugenio Imbriani, moderatrice Monia Saponaro, mi riferisce di essere rimasto orfano di madre in tenerissima età, una tarantata con tipici disturbi ricorrenti, finita suicida in un pozzo d’acqua, dopo che le preghiere al Santo dei serpenti e della tarantola, San Paolo di Tarso, fatte ogni anno a Galatina, nella sua cappellina, accanto al “pozzo dei miracoli”, si erano tragicamente rivelate vane.
L’amico mi racconta con foga che lo scetticismo del padre lo aveva portato, anche per dare un taglio all’appuntamento annuale con la visita al Santo, da fare in traino col cavallo fino a Galatina, a cercare di dissuadere la povera moglie spesso in preda alla micidiale trance: da un muretto di pietre era sbucata una serpe nera, che si era attorcigliata attorno alle gambe della povera donna. Se n’era liberata soltanto dopo avere promesso di tornare a pregare il Santo dei tarantolati. L’allora bambino di tre anni, finito poi in collegio come conseguenza dell’orfanezza, solo da adulto aveva potuto più volte ascoltare il racconto del triste destino della povera madre.
Sono rimasto di sasso all’ascolto di tale tragica esperienza e ho dovuto rimarcare che il tema del convegno, il fenomeno del tarantismo nel nostro Salento, che mi ha visto impegnato in ottobre scorso in un Convegno Internazionale a Lisbona, non è poi una tematica tanto lontana dalla nostra vita.
In effetti spunto dell’incontro lo ha offerto un vecchio libro di Annabella De Rossi, Lettere da una tarantata (De Donato Editore, 1970), che nel proprio nel1963, venendo a Ruffano, nel territorio dove insiste Torrepaduli , nota per la pizzica scherma del “ballo di San Rocco”, aveva conosciuto Michela Margiotta, anch’essa tarantata, e ne aveva trascritto le lettere, appuntate dalla povera vecchia ormai quasi settantenne, tra errori grammaticali ed espressioni idiomatiche, che pure riuscivano ad aprire uno squarcio su delicati dissidi interiori.
Ma “la Margiotta”, Michela Margiotta, per noi ragazzini terribili dissacratori di ogni cosa, al tempo della cosiddetta infanzia felice, era l’oggetto dello scherno e degli schiamazzi nella vecchia piazza del paese ad ogni suo passaggio per recarsi in qualche suo podere. Faceva un po’ paura, di bassa statura, vestita di nero, scura in volto e baffuta, con una sporta di vimini dove qualche adulto vociferava albergassero aracnidi di ogni tipo e talvolta piccoli rettili, tagliava in un baleno lo slargo “Carmelitani”, dopo avere indicato le campane della vicina Confraternita e minacciando i più discoli di farli sparire nel sacco di iuta sulle sue spalle. Un vero terribile spauracchio, utilizzato dalle giovani mamme di fronte ai capricci dei più piccoli. Ma per quegli scavezzacollo di ragazzini più grandicelli, il passaggio in paese della Margiotta costituiva una implacabile palestra dello sberleffo. Quel micidiale coraggio dello scherno gratuito non allignava in me, ragazzino, che osservava dietro le finestre di casa il passaggio di quello strano personaggio, nella centrale via San Rocco.
Non ho mai saputo, da bambino, che in Michela si celassero disagi e dissidi degni almeno di umana pietà e commiserazione. Oggi il convegno, voluto nella sua patria, all’interno della rassegna culturale “Librare tra storia, cultura e società”, mette sotto la lente dell’analisi storica un personaggio della nostra società di ieri. Non vi era certo il benessere di oggi, ma era tuttavia il tempo del vero focolare domestico, tra il calore del camino e i racconti dei nonni, tra le caldarroste di San Teodoro e una fetta di pane arrostito all’olio appena prodotto nell’oliveto di famiglia.
Ricordi di adulti, ricordi di bambino, come quello mio personale quando, e fu l’unica volta della vita, in cui accompagnai mia madre, negli anni Sessanta, alla festa di San Paolo a Galatina. Tanto caldo, tanta gente sconosciuta, odore rancido di candele bruciate nella chiesa parrocchiale, ne riferii nel mio volume “La Pizzica scherma di Torrepaduli” (2007): ho visto donne, vestite di nero, strisciare con la lingua sul pavimento a chiedere la grazia ai Santi Pietro e Paolo, come le ho poi riviste soltanto a Madrid nel 2005 e piccoli venditori di nastrini colorati da utilizzare nelle danze delle tarantate.
Nella festa del Santo delle “pizzicate”, San Paolo, non ho visto serpi far capolino dal pozzo, né donne in cerca di guarigione né in trance né danzare né con violinisti, tantomeno con guaritori e parenti. Ma ho nelle orecchie, ancora oggi, il fremito assordante dei tamburelli, forse a mimetizzare tragedie sopite e da nascondere. Come mi nascondevo io al passaggio di Michela Margiotta, che per me non era certo una tarantata. E dire che pensavo di non averne mai conosciute: nell’anno Duemila, poi, non potevano essercene.
Ma mi sbagliavo. Le tarantate erano tra noi, vicino alle nostre dimore. Ma quell’amico, che ha perso da bambino sua madre suicida nel pozzo, la tarantata, l’essere che gli aveva dato la vita, glielo vedo negli occhi, ce l’ha ancora nell’anima.
Quanto è accaduto in Sardegna lo abbiamo già vissuto nella Valtellina, a Genova, in Sicilia, nella Lunigiana, e se ci addolora la scomparsa di numerose vittime e il conseguente cambiamento morfologico del territorio, certamente, richiama forte la nostra responsabilità ad aver cura del nostro paese, a diventare cittadini maturi e consapevoli in grado di mettere in atto comportamenti rispettosi della natura, che hanno il diritto di chiedere alle Amministrazioni locali di esercitare una politica urbanistica rispettosa del territorio e dei cittadini che vi abitano.
Per saperne di più vi invitiamo a partecipare all’incontro sulla salvaguardia del creato Venerdì 6 dicembre 2013 alle ore 18,30 nella sala Pollio della Chiesa di San Biagio in Galatina.
Relatore è il geologo prof. Sansò dell’Università del Salento. L’ incontro, presieduto da don Pietro Mele – parroco della Chiesa di San Biagio – rappresenta un’occasione molto importante per tutti i cittadini, le istituzioni locali, gli imprenditori, gli studenti, i professionisti, le associazioni di volontariato, culturali e ambientaliste presenti sul territorio.
Gianni Ferraris ha scritto un bellissimo pezzo sulla declinazione dei verbi nei dialetti salentini. Notoriamente privi del tempo “futuro”.
Bello e pieno di emozioni, non ultime quelle legate all’arbulu te ulie di Mino De Santis.
E allora se tutto è scritto e tutto è bello perché macularlo con altri tratti, per elongarlo? Per marcar presenza con elogi ed adulazioni?
Nient’affatto, non mi permetterei mai.
È che Gianni ha dimenticato alcuni modi di dire che comprendono il futuro in ieri piuttosto che nell’oggi, “uei, a ce stai?” “moi nà, aggiu rriatu” (A che stai? – Un momento, sono arrivato) nel migliore dei casi “sta rriu” (che sarebbe un sono in viaggio ma tradotto in sto arrivando, una sorta di “Je suis en train” dei francesi.) Tanto che in alcuni dialetti si annuncia il proprio arrivo effettivo con un solenne: “rrivai!!!” è già diventato passato remoto …
La lingua e il pensiero si intrecciano in ciascuno ed in tutti, e nelle parole troviamo le tracce della storia. Come potevamo immaginare un tempo futuro caro Gianni vista la frequenza con la quale cambiavamo dominatori?
Non si faceva in tempo ad abituarsi ad alcune leggi che subito arrivava un altro che le cambiava. E allora era inutile fare progetti, immaginarsi proiettati nella incertezza più assoluta. Non restavano che “li cunti”, i nonni li raccontavano ai nipoti e i nipoti ascoltando le storie dei nonni di un tempo lontano e confrontandolo con quello che accadeva notavano che era proprio attuale, che quello che sarebbe accaduto domani era la stessa cosa, mutatis mutandis, di ciò che era accaduto ieri.
E il futuro si fa passato e passato si fa futuro, alternandosi in un presente che oscilla tra ieri e domani, tra nustierzu e puscrai al massimo, ma con la capacità di tornare indietro oltre che di andare avanti.
E quando al signor Francesco (Lu Cicciu) si raccontava delle “èbbuche de moi” (del mondo moderno) lui, che di “èbbuche” ne aveva viste tante, rispondeva dondolando la testa “càngianu li cauci, ma lu culu è sempre lu stessu.”
E nessuno si meravigli dei Salentini che costruiscono futuro fuori dal Salento, è che in Salento il futuro lo hanno già conosciuto, al di fuori si può declinare, in Salento solo coniugare al passato.
“E duminica ci trase sciamu alla prima missa, ci campamu!!!”
Si sa che accanto al latino classico e medioevale esiste anche quello scientifico, l’unico che ancora si salvi (ma per quanto?) dall’invasione e dalla conquista dell’inglese. Per questo la nomenclatura delle specie vegetali ed animali, anche di quelle di recente scoperta, continua a seguire la tradizionale designazione in latino (magari, come vedremo, con parole trascritte dal greco), sicché, accanto a, cito a caso, Myrtus communis L. (1753), nome scientifico del mirto (in dialetto neretino murteddha, per cui vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/11/07/il-mirto-o-mortella-tra-le-essenze-fondamentali-della-macchia-mediterranea/), c’è, e questa volta non cito a caso, Xylella fastidiosa W. (1987).
Per il primo dico, per i pochi che non lo sapessero, che L. è l’abbreviazione di Linnaeus, naturalista svedese del XVIII secolo, padre della nomenclatura binomiale, che 1753 è l’anno in cui la specie venne classificata e che per Myrtus communis rimando allo stesso link di prima.
Per la seconda valgono gli stessi riferimenti procedurali: W. è abbreviazione di Wells e 1987 non ha bisogno di spiegazione. Xylella deriva dal latino xylon che in Plinio (I secolo d. C.) è il nome di un arbusto egiziano ma che qui ha recuperato il significato generico (legno, tronco) della voce originaria greca ξύλον (leggi xiùlon). Alla radice originale, poi, è stato aggiunto il suffisso diminutivo che mal si adatta al potere distruttivo del batterio, che nemmeno il successivo fastidiosa riesce ad esprimere compiutamente.
Ma al peggio non c’è mai fine e lo dimostra il temibilissimo Malafides destruens P. (2013), sottospecie della razza umana che rischia di annientare pure le pietre. Esso esiste da tempi immemorabili ma nessuno se ne era preso cura né tanto meno l’aveva classificato; ma procediamo con ordine.
Malafides è una parola composta dalle voci latine mala=cattiva e fides=fede e corrisponde al nostro malafede; destruens è participio presente del verbo destrùere=distruggere, abbattere; il nesso, perciò, può essere reso con malafede distruttiva. P. è abbreviazione di Politus (rispetto a Linnaeus e a Wells non dirà nulla a nessuno, ma tant’è …).
Malafides destruens P. mostra inquietanti analogie con Xylella fastidiosa W. perché ogni giorno se ne scopre un nuovo ceppo: quello specializzato nella frode fiscale, quello che pur di essere eletto o confermato blatera promesse che non potrà mantenere nemmeno per se stesso, le multinazionali di sementi geneticamente modificate che hanno la faccia tosta di affermare che così risolveranno il problema della fame nel mondo, il ricercatore che falsifica i dati pur di ottenere fondi, il divulgatore che utilizza a modo suo le fonti pur di spettacolarizzare, e non solo in tv …, la sua attività, etc. etc. … per chiudere con un governo volontariamente pasticcione che, pur servendosi di tecnici e consulenti che evidentemente non sanno neppure far di conto, profumatamente pagati con i soldi dei contribuenti soliti (ad esser tali), e di sadici burocrati in grado solo di sfornare un nuovo, non necessario modello più complicato del precedente, si vanta di aver eliminato un’imposta per accorgersi qualche giorno dopo che l’aumento delle aliquote da parte degli enti locali (da lui stesso autorizzato) rimetteva tutto in discussione. Altro che federalismo, è il trionfo del fanfaronismo!
E la xylella sarà pure fastidiosa, ma la malafede, non solo quella forma che in questi ultimi tempi ha inculcato ad arte tanta paura per i nostro olivi, è esiziale.
Indicativo, congiuntivo, imperativo, infinito, gerundio, presente. Nel dialetto salentino manca il futuro, non esiste, si deve comporre.
Per il futuro semplice si ricorre al presente accompagnato da qualche avverbio di tempo appropriato : tra nnu picca allucisce (fra poco albeggerà).
Per il futuro anteriore si usa il passato prossimo dell’indicativo: me pigghiu a ttie dopu ci lu rre è addentatu surdatu rasu (ti sposerò dopo che il re sarà diventato soldato semplice)[1].
Al di là della questione squisitamente etimologica e grammaticale, la mancanza del futuro potrebbe sottendere ad una mancanza di futuro? Leggendo ed ascoltando l’impressione è che nella lingua salentina ci sia una sorta di pudore, un modo di stare con i piedi ben piantati per terra, nel qui ed ora. Se dico: “Io farò un caffè”, è una certezza che non lascia spazio al dubbio, io lo farò costi quel che costi. Ed è, tutto sommato, un azzardo. Non tiene conto della possibilità che nel tragitto fra la poltrona dove sto seduto e la cucina possa squillare il telefono ed io debba uscire precipitosamente per qualche impegno imprevisto ed improvviso rimandando il bisogno impellente di drogarmi di caffeina, addirittura scordandomene poco dopo.
Costruendo come si fa nel dialetto salentino futuro che, proprio in quanto tale, non esiste, sembra si possa lasciare un piccolo spazio all’imprevisto, all’improvviso. Al dubbio? Forse, chissà. E‘ meno perentorio, almeno, così sembra essere, perchè sappiamo che il re non potrà mai diventare soldato semplice, al massimo potrà essere decapitato o finire fuori dai palazzi del potere. Tuttavia nell’immaginario di chi ascolta si può escludere categoricamente che una rivoluzione incruenta costringa il potente di turno a ripartire da zero? Dire invece: “io non ti sposerò mai” è tranchant, definitivo, non lascia spazio al ripensamento.
Gli altri tempi invece ci sono tutti, soprattutto i passati: remoto e prossimo. Quello della storia e delle storie che stanno nelle pietre e nei monumenti, nei dolmen e nei menhir. Quando ascolto parlare dei martiri d’Otranto quasi mi guardo attorno per vedere se qualche turco sta girovagando in Piazza Mazzini, quando leggo di Maria d’Enghien mi pare di vederla camminare per le vie di Lecce. Il passato sta nella storia delle pietre che parlano e dell’arbulu te ulie (albero di olive) cantato magistralmente da Mino De Santis. Storie che si rincorrono guardando un “banalissimo” albero pieno di storia, di amori passati là sotto, di sofferenze e lavoro. Forse una delle più belle canzoni del giovane cantautore salentino.
No, il futuro non esiste, occorre costruirlo, la saggezza antica lo chiede, e lo fa con i tempi verbali che si toccano, si palpano voluttuosamente, si accarezzano teneramente, anche nella loro ruvidezza.
D’altra parte il salentino sa che: Ci vae ti ggiustu passu rria a ddo’ ole (Chi procede col passo giusto arriva dove vuole)[2]
E rimane la certezza che:
Il dialetto è sempre la lingua degli affetti, un fatto confidenziale, intimo, familiare. Come diceva Pirandello, la parola del dialetto è la cosa stessa, perchè il dialetto di una cosa esprime il sentimento, mentre la lingua di quella stessa cosa esprime il concetto[3].
[1] Antonio Garrisi – Grammatica el dialetto leccese – Congedo editore marzo 2005.
L’opera si compone di 13 racconti scritti un anno dopo l’altro per una circostanza particolare: la “fera te santa Lucia” (13 dicembre). La festa di santa Lucia è la ricorrenza durante la quale tutti gli artigiani (e i dilettanti) di figurine del presepio (in cartapesta o in gesso) espongono e vendono. Una tradizione leccese.
Accogliendo questi dati di tradizione, l’Autore ha fatto protagonisti dei suoi racconti uomini e pupi che ricordano i Natali del passato, riflettono sul senso di una giornata particolare, fanno i conti con il proprio passato o con la propria funzione in quella che è la tradizione del presepio. Rimpianti e delusioni, piccole gioie ritrovate, scettico sguardo su una tradizione che sempre più ha perduto i suoi connotati originali, malinconica presa d’atto di tante promesse mancate della vita.
Varietà di toni e di registri sono armonizzati da una scrittura piana e attraente; l’invenzione va da una memoria dell’infanzia che si cerca di recuperare per interrogarne i remoti trasalimenti (A Natale i treni) allo sguardo disincantato e alla memoria pungente di L’uomo che guarda le stelle; dall’ilare invenzione di Ma che cos’è questastoria della Befana? e di Uno strano caso al vario atteggiarsi dell’animo dei protagonisti del presepio (da I Magi a Baldassare per la strada a L’albero cantava).
Non si tratta, come si potrebbe pensare, di racconti per ragazzi o di piccole storie consolatrici. Sullo sfondo c’è il nostro tempo, con le sue angosce e i suoi affanni quotidiani.
Ciascun racconto è corredato da una illustrazione realizzata da Gabriella Torsello.
Niente teneri boccioli, ma solo petali decisamente appassiti e, quindi, destinati a cadere miseramente, mi sembra di scorgere accanto alla notizia, appena riportata dai mass media, dei centodiciottomila locali, in Italia, al cui interno sarebbero installate Slot Machine, apparecchiature che, complessivamente, ammonterebbero all’incredibile numero di trecentoottantamila pezzi.
Non ci sono parole, salvo una domanda che sgorga spontanea, credo, in ogni persona di buon senso: si tratta di pura e semplice ludopatia, di per sé già pericolosa, oppure di vera e propria pazzia? Giacché, com’è facile costatare accedendo a uno dei locali in questione, nel novero dei consumatori accaniti di giochi, scommesse, gratta e vinci, galline d’oro e via dicendo, sono compresi non pochi pensionati, percettori di un modesto assegno sociale: è naturale che, poi, si finisca col far fatica ad acquistare il pane e/o gli altri alimenti.
Questa volta sono stato costretto a non tradurre già nel titolo il nesso dialettale che vi è presente, nonostante, come si vedrà, ne esista in italiano l’esatto corrispondente. Frulu, però, come spesso succede, ha una gamma semantica più estesa e, quindi, avrei dovuto usare più parole italiane per tradurne una dialettale, col risultato di ottenere un titolo, se non incomprensibile, quanto meno strano (come se già non lo fosse …).
Frulu è il bambino vivace, irrequito, con riferimento anche alla rapidità con cui compie le sue marachelle. La voce corrispondente italiana è frùgolo ma è più usato frugoletto, che ne è il diminutivo, anche se, qualche etimologo alla Nino Frassica direbbe che si chiama così perché mette sottosopra il letto …
Naturalmente il letto non c’entra per niente, ma mettere sotto sopra sì. Frùgolo, infatti, deriva da frugolare, verbo riferito soprattutto al maiale che rovista, fruga con il muso tra la terra. Frugolare è intensivo di frugare (come, per esempio, mescolare da mescere), che a sua volta è da un latino *furicare, forma intensiva del classico furari=rubare, che è da fur=ladro. Da notare come nel passaggio da fur a frugolo l’iniziale carica, per così dire, delinquenziale della voce originaria e quella animalesca di frugolare hanno subito un drastico calo, anche se l’eco semantica della prima rimane in altre voci usate per il bambino vivace come, per esempio, brigante.
Frulu perciò sembrerebbe derivare da un *frùgulu che ha subito la sincope della sillaba atona.
Frulu, però, nel dialetto neretino è anche il nome di un tipo di fuoco d’artificio, quello che in italiano comunemente è chiamato stellina scintillante, stellina magica o candela magica. Nessun motivo, dunque, né di carattere fonetico né semantico ci impedirebbe di appellarci ad un unico etimo.
Che il problema sia tutt’altro che risolto con la condanna del porco ce lo rivela (colpo di scena processuale!) lo studio delle varianti di frulu nel suo significato pirotecnico, che riporto cumulativamente dal vocabolario del Rohlfs al lemma fùrgulu: fùrjele, fùrjulu, frùvulu, frùvele, tutte col significato di razzo dei fuochi artificiali e considerate dallo studioso tedesco come forme dialettali dell’italiano fòlgore.
Alla luce di quanto appena riportato, allora, il nostro frulu potrebbe essere, sempre per sincope della sillaba atona, dalla variante frùvulu. L’ulteriore passaggio che mi spinge a sposare questa ipotesi etimologica è che sarebbe strano che un *frùgulu avesse dato per la sua straripante vivacità il nome ad un tipo di fuoco per quanto artificiale, nonostante quest’ultimo sia stato certamente inventato dopo che il bambino da millenni continuava a sfogare la sua vivacità. La folgore, poi, è più antica di entrambi e si candida certamente come ascendente tanto del frulu/bambino vivace, quanto del frulu/fuoco pirotecnico; così non mi pare difficile individuare il suo grado di parentela in quello di padre del frulu/fuoco pirotecnico e di nonno del frulu/bambino. Mi pare irrilevante, infine, e dovuta a pura coincidenza la valenza onomatopeica della sillaba iniziale (fru-) che ricorda lo sfrigolio caratteristico del frulu.
Insomma, essendo state rispettate le condizioni fonetiche, semantiche e logiche, concludo dicendo che il corrispondente italiano di frulu non è frugolo ma folgore. E, in nome di tutti coloro che condividono, dichiaro assolto il povero porco per non aver commesso il fatto. A meno che qualche comunista non chieda la revisione del processo …
Ancora un francobollo per ricordare il sesto centenario della Cattedrale di Nardò. Questa volta delle Poste Italiane
di Marcello Gaballo
Ed anche le Poste Italiane per la prima volta nella storia della filatelia onorano la città di Nardò e la sua Cattedrale emettendo un francobollo del valore di 70 centesimi, che si aggiunge ai cinque emessi dalle Poste Vaticane il 7 novembre scorso.
L’emissione, autorizzata dal Ministero dello Sviluppo Economico, è di oggi, 30 novembre, accompagnata da un annullo speciale, da una cartolina e da un bollettino illustrativo, tutti stampati a ricordo del pluri-festeggiato sesto centenario della elevazione della chiesa abbaziale benedettina di S. Maria de Nerito in Cattedrale, con l’insediamento del vescovo Giovanni De Epiphanis (1355-1425), e contestualmente dell’elevazione della “Terra” di Nardò al rango di Città.
L’anniversario è stato solennemente celebrato l’11 gennaio 2013, data in cui fu emessa la relativa bolla dal pontefice Giovanni XXIII nell’anno 1413, documento che si conserva in originale presso l’Archivio Storico della Diocesi e dal quale è stato tratto il motto “Ecclesiam in Cathedralem, Terram in Civitatem Neritonensem” riportato sui valori bollati.
Il francobollo ordinario, del valore di 0,70 €, è uno dei cinque emessi nello stesso giorno, tutti appartenenti alla serie tematica “il Patrimonio artistico e culturale italiano”, dedicati alla Mole Antonelliana in Torino, alle mura rinascimentali di Lucca, al sito archeologico di Alba Fucene (L’Aquila) e al complesso monumentale di Santa Sofia in Benevento.
Stampato dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, è in calcografia, su carta bianca, patinata neutra, autoadesiva, non fluorescente; grammatura 90g/mq; il supporto è carta bianca, autoadesiva Kraft, monosiliconata da 80 g/mq; l’adesivo è del tipo acrilico ad acqua, distribuito in quantità di 20 g/mq (secco). Il formato carta è di mm. 40×48, mentre il formato stampa è di mm. 36×44. Il formato tracciatura è di mm. 47×54. La dentellatura è 11 effettuata con fustellatura, ad un colore.
I fogli sono di ventotto esemplari, per un valore di € 19,60.
La leggenda per il nostro è CATTEDRALE, NARDò, oltre la scritta ITALIA.
Il bozzetto del francobollo è di Rita Fardini. Il testo riportato sul bollettino illustrativo è a firma di Mons. Luigi Luperto.
La vignetta raffigura la facciata della Cattedrale, alta 21 metri, eretta dal vescovo Antonio Sanfelice su disegno del fratello, il celebre architetto napoletano Ferdinando.
Completata nel 1725, è rivolta a occidente e presenta tre portali, di cui il mediano è più alto, posti in corrispondenza delle tre navate.
Come si legge nel recente volume di Giuliano Santantonio Ecclesia Mater “è ripartita in tre ordini. L’ordine inferiore presenta sei lesene in carparo con le loro basi, tra le quali sono inserite le tre porte in modo tale che ai lati della porta maggiore vi sono due lesene accoppiate per parte, alle quali seguono rispettivamente le due porte laterali affiancate ciascuna da una lesena semplice. Sulle porte minori vi sono due finestre circolari con vetri che consentono di illuminare le navate laterali. Sulle lesene vi sono capitelli scolpiti e una cornice marcapiano composita che corre orizzontalmente da un estremo all’altro, sopra la quale si eleva il secondo ordine della fabbrica, al centro del quale tra due lesene si apre una finestra quadrangolare più grande con vetri, da cui entra luce in tutta la basilica. Agli estremi laterali, sui due plinti che reggevano due statue di marmo, è riprodotto lo stemma del vescovo Sanfelice. Al di sopra della grande finestra centrale vi è un’altra finestra ovoidale a vetro assai più piccola, che all’epoca serviva per illuminare la parte soprastante il soffitto a lacunari della chiesa. Anche le lesene del secondo ordine sono munite di capitelli e sostengono un’altra cornice orizzontale, che separa questa parte della fabbrica dal fastigio. Tutto il prospetto ha forma quasi piramidale. In alto al centro vi è lo stemma del papa Benedetto XIII e ai due lati estremi del frontone vi sono i simboli araldici dei papi Clemente XI e Alessandro VII, mentre al centro della cornice superiore, sopra un plinto, si elevava la statua marmorea dell’Assunta. Le porte erano in noce, dipinte. Al di sopra della porta maggiore vi era un’epigrafe su lastra di marmo:
D.O.M.
CATHEDRALEM BASILICAM
IN HONOREM
DEIPARAE IN COELUM ASSUMPTAE DICATAM
VETUSTATE AC TERRAEMOTU LABENTEM
ANTONIUS SANFELICIUS EPISCOPUS
A FUNDAMENTIS RESTITUIT
NOVAMQUE FACIEM ADIECIT ET ARAM
ANNO SALUTIS MDCCXXV”.
L’annullo speciale è stato realizzato da Filatelia di Poste Italiane.
Il francobollo e i prodotti filatelici correlati saranno posti in vendita oggi, sabato 30 novembre 2013, nell’Ufficio postale centrale di Nardò (Corso Garibaldi) (orario ufficio) e nel pomeriggio dello stesso giorno, dalle 16 alle 19, nel locale ubicato all’inizio di Corso Galliano.
Nel profondo Salento, fino a qualche anno fa, come nella insidiosa “conca di Torrepaduli”, non infrequenti erano le alluvioni, che allagavano anche il santuario di San Rocco, presso cui abitavo, ridotto spesso, nelle testimonianze fotografiche, a una moderna arca con la chiglia nel fango. Memorabile quella dell’ottobre 1981, che mi ha visto giovane protagonista in lotta con le forze della natura e, più volte, con i latitanti consorzi di bonifica, che non intervenivano mai sul territorio. E quella grande piazza, nell’agosto di ogni anno, era il magico contenitore della danza scherma della “notte di San Rocco”.
Di alluvione, dunque, conosco in prima persona le problematiche e mi sento ferito, ancora una volta, alla vista di ciò che le avverse condizioni climatiche hanno scatenato di recente in Sardegna. Terra magica, di tradizione e cultura, a cui l’Università di Lecce (oggi del Salento), aveva offerto, negli anni Settanta, con il mio fresco titolo professionale, un altro intellettuale in cerca di lavoro.
Con la recente alluvione, dunque, l’isola del turismo d’élite, del paesaggio incontaminato, della fascinosa Costa Smeralda, è letteralmente in ginocchio, sommersa dalla tragedia di perdite umane e da colluvie di detriti, che io, in quattro anni di insegnamento, nella scuola secondaria dell’isola, non ho mai visto tutto insieme. Olbia, Torpé, rio Posada, Uras, Golfo Aranci, Tempio Pausania, e tante belle località isolane, ieri terra di turismo e (per chi scrive) di lavoro, sono oggi, invece, di drammatica attualità. Gli elementi di una natura scatenata, improvvisamente divenuta matrigna, hanno flagellato città e territori un tempo sinonimi di esplosione edilizia e alberghiera, dove relax e confort la facevano da padrone.
Esse riempiono in questi giorni gli spazi dei media a ricordare all’uomo comune che la ricostruzione è impegno di tutti. Non di tutti era il privilegio, nel 1973, di lavorare nell’”isola dei ricchi”, anche se con la retribuzione di un docente di scuola, alloggiato in una struttura alberghiera a pensione completa, al servizio di tanta gioventù e a conoscere fieri allevatori dal conto in banca spaventoso, albergatori-banchieri, costruttori di ville e resort che aggredivano con calcestruzzo ogni caletta, da Orosei a San Teodoro, da Santa Teresa di Gallura all’isola di San Pietro e di Sant’Antioco: chilometri di costa mozzafiato e di fondali marini degni di vincoli di un parco marino da istituire tutto intorno all’isola. Ero sbarcato, la prima volta, da Roma al Venafiorita, vecchio aeroporto di Olbia, il mio primo volo, su un fokker di 40 posti ad ammirare dall’alto il mar Tirreno e a sudare freddo ad ogni vuoto d’aria dall’alto di soli tremila metri di quota di rotta. Poi mesi d’impegno scolastico nelle aule, a Torpé, a Budoni, a Brunella, a Macomer. Golfo Aranci e Olbia costituivano gli approdi con traghetto o nave della società Tirrenia, in entrata o uscita dall’isola dei sogni, che garantiva, anche se per concorso nazionale a cattedra, una salda collocazione lavorativa a ripagare, dopo il mirabile contatto con i giovani, anni di studio e di sacrifici.
Non vi era ancora la moderna superstrada Olbia-Nuoro, ma una sinuosa provinciale che la fiammante “500 L” percorreva più volte per condurci al cinema e ammirare le isole di Tavolara, Molara e Molarotto, a giocare a tennis con qualche industriale arabo, a rincorrere il pallone, con italica passione, in partite alunni contro professori. E quei bagni sul litorale di perla del rio Posada, tra San Teodoro e Siniscola, iniziati ogni anno con l’incoscienza giovanile il 19 di marzo, a Pasqua o al massimo il 1 di maggio: si ritornava in Salento con una abbronzatura che scoraggiava amici e parenti a credere che si fosse stati in Sardegna a lavorare. In ambito educativo la scuola costituiva un laboratorio di confronto e di esperienze di ogni tipo: ragazzi provenienti in genere da contesti agricolo-pastorali, genitori laboriosi e legati alle proprie tradizioni, colleghi provenienti da ogni contrada d’Italia: Salerno, Bologna, Bari, Genova, Gubbio, Palermo, Napoli, Roma, Lecce. Sistemazioni logistiche le più varie: chi in abitazioni private, chi in albergo, chi in collina, chi al mare. Nei pomeriggi, almeno sino ai tempi della crisi arabo-israeliana del Sinai che fece impennare i costi del carburante, quante borgate scoperte tra i monti, tra i profumi della macchia mediterranea e la visione di calette, a ingozzarci di ricci di mare o a collezionare pinne giganti, quanti raduni a degustare il porcetto cotto alla maniera dei pastori, le degustazioni di formaggi e prosciutti di cinghiale a Gavoi.Tra le colleghe una sarda, bionda, che si atteggiava ad attrice professionista, per aver fatto da controfigura a Mariangela Melato nel film della Wertmuller, Sperduti per un insolito destino nell’azzurro mare di agosto , con la magistrale interpretazione di un giovane Giancarlo Giannini
L’avevo salutata in nave da Olbia, la Sardegna, senza più tornarci per un trentennio, in un radioso primo di luglio del 1976, in un mare blu, inseguito da centinaia di delfini impazziti, mai immaginando di tradirla, per un’incolpevole assenza di lunghi anni, e una carriera scolastica, come dicono i Sardi, spesa in tutto “il continente”. Per decenni mai un ritorno, né da singolo né con i familiari né con gli amici né per vacanza né per lavoro. Nella primavera del 2011, finalmente, nel magico periodo pasquale, un secondo duplice volo in aereo, dal Continente nella terra dei nuraghi, delle mie due figliole: con la mia auto, in Sardegna per via marittima Civitavecchia-Olbia, recupero la prima all’aeroporto “Costasmeralda”, proveniente da Catania, e nello stesso giorno corro ad accogliere ad Alghero “Fertilia”, la seconda, proveniente da Milano Malpensa. Per loro e per mia moglie è la prima volta che possono ammirare la terra di Grazia Deledda, per me è il primo ritorno, nel quale ammiro ancora una volta gli arenili di San Teodoro, di Posada, le calette di Codacavallo, un po’ meno la noiosa nuova autostrada Olbia-Nuoro. Una (ri)scoperta per noi, la macchia mediterranea di Orosei e di Santa Teresa di Gallura, gli armenti sulle amene montagne, i murales di Orgosolo e i simpatici anziani, dai tradizionali vestiti di velluto scuro e l’immancabile coppola maschile sulla fronte. Ciò mi riporta a scene analoghe vissute nel Salento della mia fanciullezza: donne vestite di nero, artigiani della terracotta e del rame, carretti a trainare botti piene d’uva matura, profumo di fichi dai forni di pietra, merende con fette di pane e olio d’oliva, contadine semicurve tra filari di verde tabacco.
Oggi sgomento stento a credere, davanti a tanta distruzione e terribili disagi, che si tratti proprio della nostra isola di Sardegna, con una sorte da diluvio universale, toccata pure alle lontane isole delle Filippine, e le raccolte di fondi solidarietà si rincorrono, mirabili iniziative tra esseri umani, sul ritmo binario di bip, di sms di milioni di cellulari, di computer, di smartphone e di immagini televisive. Io sono ancora là, con il mio terzo volo, purtroppo solo quello di skype, a deglutire impotente immagini che rimangono in gola. Ma il cuore mi dice che l’orgoglio del popolo sardo cancellerà lutti e ferite e rifioriranno gli aranceti di Torpé, i pascoli di Budoni e di Oristano.Torneranno soprattutto a sorridere sui volti delle donne i coralli rossi-rosa dei fondali di Alghero e di Bosa Marina. Una natura non più matrigna, permetterà solo qualche nottata di maestrale invernale sulle insidiose Bocche di Bonifacio. Ma lentisco, timo ed alloro continueranno ancora a fare compagnia a migliaia di armenti in cerca di erba sulle colline.
Poco fa Servizio Pubblico ha mandato in onda il filmato della manifestazione berlusconiana di ieri a Roma. C’erano anche alcuni pullman partiti dalla mia città. L’inviato di Santoro ha avvicinato uno di questi miei compaesani che manifestavano – avrà avuto una ventina d’anni, boh? – e gli ha chiesto qualcosa sulle ultime vicende di Berlusconi. Quello non sapeva niente della decadenza e anche alcuni ragazzi neretini che erano con lui ridacchiavano senza rispondere a nulla.
A vent’anni manifestavo anch’io a Roma, quando Bush e Blair bombardavano mezzo mondo. Io e i miei amici, cresciuti a pane e Micromega, fieri delle nostre idee, coi thermos di caffè e i pullman presi di notte dal piazzale Agip di via XX Settembre. E quando nel corteo ci avvicinavano i giornalisti, parlavamo con loro di pace e diritti umani e del mondo che sognavamo. Questi non sapevano manco perché erano lì. Che schifo.
Nelle sale al piano terra, del cinquecentesco Palazzo Vernazza, splendidamente recuperato, nel centro storico, in via del Palazzo dei Conti di Lecce, sarà allestita la personale, di sculture in metallo di Daniele Dell’Angelo Custode. La mostra, curata da Paolo Marzano con il coordinamento espositivo e organizzativo di Nicola Massimo Elia, presenterà le ultime opere, frutto della ricerca e del lavoro incessante dell’artista, in questi anni.
Gli ormai famosi “metalli”, nelle loro incredibili varianti espressive, hanno continuato ad appassionare curiosi, osservatori e collezionisti. Dalle sale della GX Gallery, di Denmark Hill 43, della capitale inglese, in aprile/maggio, le sculture, sono poi ‘salite’ fino al 40esimo piano, del “Gherkin” Building di Londra, ed in particolare nell’esclusivo ‘Searcys Club’, al 30 di st. Mary axe, a giugno/luglio. Una parte di quelle opere, insieme ad altre creazioni inedite, dal 15 novembre al 15 dicembre, faranno parte della personale, organizzata nella prestigiosa, quanto antichissima sede di Palazzo Vernazza, a Lecce dove, lo ‘scultore’ del metallo Daniele Dell’Angelo Custode, ha scelto di esporre, nella sua tappa italiana.
Ancora una volta Lecce, coglie l’opportunità di avvalersi delle preziose potenzialità artistiche emergenti del suo territorio, proponendosi come virtuosa e concreta interlocutrice, nel complesso discorso internazionale, sull’arte contemporanea.
La mostra rientra nella rassegna di “MUST IN ART – Generazioni a confronto”.
La ‘tecnica’ dell’artista Daniele Dell’Angelo Custode, a conferma dell’ interessato entusiasmo, generato dalle ultime mostre londinesi, evidenzia le incredibili sequenze scultoree create ‘provocando’ il metallo e scandagliandone poi, i suoi stati limite. Una ‘pratica’ plastico-scultorea che mette in risalto l’energia potenziale e comunicativa dell’elemento naturale. Un approccio originale dunque per affrontare l’incontro/scontro col ‘ferro’ da cui conseguono quelle ‘variazioni di stato’ altamente espressive. L’ossidazione prima di diventare processo spaziale o fenomeno chimico-fisico, è tempo in nuce. E allora l’artista sollecita il corpo contorto, ‘s-piega’ la superficie che carica di peso materico, combinandone la consistenza, sottraendone spessori e disseminando tracce come ombre di sublimi ripensamenti/ripiegamenti. Ogni gesto può segnare la composizione e ampliarsi nel mondo ideale dell’artista. Graffi nello spazio ‘apparente’, tagli e lacerazioni come shock improvvisi. La cruenta sovrapposizione ‘di strato’ intelaia irrecuperabili fratture e conduce ad una ‘dis-trazione’, capace di alimentare ‘con-torsioni’, prolegomeni di codici interpretativi inattesi. Il lavoro audace di Daniele Dell’Angelo Custode, si inserisce intellettualmente nel processo di iper-consumo percettivo, della ‘pelle’, del nostro quotidiano, durante la sua necessaria e continua mutazione. In un tempo sempre troppo breve, giunge l’inesorabile conferma; nulla è, com’era, appena un attimo prima. E ancora più profonda, scopriamo essere, la realtà della nostra, ‘piega’.
Brano tratto dal testo critico inedito del catalogo di prossima uscita sulle opere dell’artista Daniele Dell’Angelo Custode, dal titolo “Le ragioni del ferro” – OPERE, a cura di Paolo Marzano.
E’ il titolo dell’ attesissima conferenza stampa la mattina a Lecce, ore 11 a Palazzo Adorno, il 28 nov 2013, e del convegno che si terrà la sera a Sannicola, ore 18.30 nel centro Polivalente “Insieme” in via Sferracavalli.
Dopo la kermesse nauseante dei convegni itineranti, popolarmente ormai definiti “convegni del terrore”, che si son tenuti nelle scorse settimane in tantissimi paesi salentini, dove taluni hanno cercato di diffondere il panico in merito alla presenza di un microbo sconosciuto fino ad oggi negli ulivi, è questo il primo contro-convegno organizzato dai cittadini insieme a medici e veri agronomi per denunciare pubblicamente la follia di quanto sta avvenendo in Puglia, e nel Salento in particolar modo, con l’ “affaire Xylella”.
Si tratta dell’irresponsabile tentativo da parte di alcuni tecnici e politicanti di fare scattare, sulla base di norme europee interpretate in maniera oltranzista, una quarantena coercitiva iperspeculativa e applicata nella maniera più parossistica, che si possa immaginare, storicamente mai vistasi per nessun altra parassitosi o epidemia (vera o falsa che sia): eradicando ulivi con sintomi di disseccamento su alcuni rami, come ulivi perfettamente sani, ma nei quali dovesse vivere questo organismo microscopico, distruggendo con tonnellate di pesticidi e diserbanti nocivi flora e fauna, autoctona e domestica su oltre 8000, 10000 ettari di Salento, con l’uso anche di lancia fiamme per bruciare il muschio al suolo, e aerei per le irrorazioni degli agroveleni. Sembra un incubo, un brutto film di fantascienza, eppure senza alcuna esagerazione è proprio questo il protocollo che dicono di volere e dovere(?) applicare nel Salento, nei “convegni del terrore”. Questo per un batterio di cui nei fatti non si conosce ad oggi granché, se non il fatto che sarebbe un parente di batteri patogeni per alcune colture, mai per l’ olivo, e che nel sud America, e non solo è stato usato come cavallo di Troia per sradicare le cultivar locali, ed affermare l’egemonia di multinazionali delle sementi modificate geneticamente e comunque brevettate per la produzione di speculativi biocarburanti. Medesimo spettro, quello della produzione di biocarburanti-biomasse, che da anni minaccia il settore agricolo dell’agroalimentare di qualità e tradizione salentino. E così, oggi, l’eradicazione di ogni cosa, con la scusa di una folle quarantena, libererebbe suoli per ogni possibili speculazione consuma-suolo, offrirebbe terreni per nuove colture per biocarburanti a semi brevettati, e fornirebbe per anni tonnellate e tonnellate di legna per le centrali a biomasse.
Una quarantena da film di fantascienza, per un olocausto piro-chimico del Salento, per una “shoah degli olivi”, e la realizzazione di un malsano morto deserto artificiale al posto di quello che è oggi il paradiso rurale e naturale del Salento.
Sulla base del terrifico progetto di quarantena, i cittadini hanno cominciato ad indagare per difendersi, scoprire ed evidenziare le mille pesanti contraddizioni nelle azioni e negli argomenti di chi la vorrebbe fare applicare e gestire, senza ancora alcuna base scientifica certa, e con l’evidentissimo scopo di fare scattare la quarantena per il ritrovamento di un microbo assolutamente poco noto in Europa, e che si dice essere al più una concausa, non certo la causa, di una sintomatologia di disseccamento di alcuni rami degli ulivi, che ha avuto il suo acme al termine della passata stagione estiva fortemente siccitosa, nelle aree occidentali del basso Salento dove tale sintomatologia si è osservata. Ed ora corrono contro il tempo, le piogge autunnali, il freddo che uccide i parassiti; devono riuscire a gettare veleni disseccanti subito, con la scusa, o troppo palese potrebbe essere la ripresa degli alberi, a smascheramento del loro brutto ed immorale bluff.
Da qui l’estensione però delle aree in cui si vorrebbe poter intervenire con controlli, eradicazioni selvagge e la nociva chimica dei fitofarmaci, a gran parte del Salento, anche in aree in cui gli ulivi non hanno mostrato alcuna sintomatologia di disseccamento. Un progetto mefistofelico, che non cura e non studia, ma uccide, cancella la vita e la bellezza, la cultura millenaria scritta in un paesaggio unico che vorrebbe stuprare, e chiede per questo milioni e milioni di euro pubblici all’Europa. Un progetto che già ha visto la distruzione con la sua immagine dell’ economia basso Salentina, dal settore olivicolo di qualità, al settore vivaistico con anomalie e conflitti di interessi pesantissimi.
Bugie su bugie, falsità che si palesano tra loro, come quest’ ultima: i cittadini e giornalisti avevano osservato rigermogliare copiosi gli olivi che i tecnici del terrore dicevano “eradicatisi da soli”, morti senza speranza a causa della Xylella(?), e alla comunicazione pubblica della bella notizia, i tecnici come bambini elementari col naso da pinocchio, hanno subito affermato che i nuovi germogli, favoriti dalle piogge autunnali si erano però già disseccati; tutto smentito dai cittadini che hanno rifotografato i medesimi alberi ricchi dei nuovi crescenti germogli con accanto la foto del giornale quotidiano che ne riportava la tecnica bugia degli “esperti”; esperti certo, ma di olocausto da quarantena e iperspeculativo, purtropppo e soprattutto! Esperti di mistificazione, professionisti della menzogna!
Il pensiero unico, che stavano costruendo nel panico artefatto, è stato rotto ormai dalla divulgazione delle mille contraddizioni, i giornalisti ora si interrogano, e anche dal mondo accademico le perplessità sono tante. Il mondo medico è in subbuglio, ora che si è compresa la volontà di avvelenare con fondi pubblici il Salento e dunque le sue falde, suoli, acque potabili e genti.
Lo scandalo è ormai scoppiato, e il territorio intraprende un’ azione volta alla massima difesa, sebbene 5 milioni di euro son stati stanziati dallo Stato nella nuova legge di stabilità per gli “studi” sulla questione, ma anche follemente per la cancellazione chimica degli insetti vettore del piccolo batterio e dei loro ecosistemi, che son gli ecosistemi naturali e rurali di migliaia di specie preziosissime! Si calpesta impunemente la Conferenza internazionale di Rio del 1992 che tutela la biodiversità! L’articolo n. 32 della Costituzione Italiana che tutela la salute pubblica, e l’articolo n. 9 che tutela il paesaggio della Nazione!
Lo scandalo ha visto la denuncia pubblica del vicepresidente della Commissione Agricoltura della Camera, il deputato extra-salentino Adriano Zaccagnini, che sarà ospite nel convegno, che ringraziamo pubblicamente e vivamente e che ha ben compreso tutto il mal affaire Xyella, gli interessi speculativi, dagli ogm, alle biomasse, alla liberazione di suolo per varie speculazioni, fino al foraggiamento delle industrie dell’agrochimica, e che ha denunciato quanto fosse “criminale” aver chiesto fondi pubblici, alla sua commissione parlamentare, per gettare veleni sul Salento, ed eradicare i suoi ulivi persino i suoi sacri monumentali e plurisecolari titani in ripresa.
Mentre invece non si è voluta minimamente percorrere la strada della eventuale lotta biologica, come ben suggerito nel suo intervento dall’onorevole Zaccagnini, che ha portato ad esempio l’inefficacia e pericolosità della agro-chimica che si voleva usare contro un parassita del castagno, dove invece ottimi risultati si son avuti con la lotta biologica, fermando anche le mire di quanti volevano sostituirvi ai nostri castagni italici con varietà ibride alloctone e aliene! Le parassitosi ormai da troppo tempo, vere o artefatte che siano, sono cavalli di Troia grimaldello per grandi speculazioni di ogni tipo, ed oggi nel Salento con gli ulivi e la Xylella si sta troppo criminosamente esagerando!
Il virtuoso intervento di Zaccagnini, con i suoi dirompenti comunicati stampa, gli ha tirato addosso le ire di tanti tecnici e politicanti, che nell’ira hanno palesato, con i loro aggressivi comunicati di attacco, tutte le loro insane contraddizioni e i loro progetti altamente lontani dal Bene Comune, permettendo di rendere il quadro sotteso ancora più chiaro.
Anche il mondo accademico italiano ormai si interroga sull’operato dei tecnici che vorrebbero applicare la quarantena, e si sta attivando per fare emergere la Verità scientifica. La riservatezza, quasi segretezza, incomprensibile posta sulle “ricerche”, ad oggi condotte, solleva non pochi interrogativi.
Non è un caso che nel convegno sarà presente proprio il Professor Giuseppe Altieri, noto agroecologo, docente ordinario di fitopatologia, entomologia e agricoltura biologica dell’Istituto Agrario di Todi (Perugia), e famoso per la sua conoscenza del perverso mondo degli ogm e delle sementi brevettate, come del giogo dell’agro-chimica industriale sull’agricoltura da cui oggi più che mai il Salento deve essere liberato.
Nel convegno anche il Medico epidemiologo Prisco Piscitelli dell’ ISBEM Istituto Scientifico Biomedico Euro-Mediterraneo, che denuncerà la follia e i mali per la salute umana legati all’uso dei pesticidi e diserbanti chimici di sintesi. Ecc. Modererà la fitopatologa Margherita d’Amico.
Il doppio appuntamento del 28 novembre segna una svolta e l’inizio della “reconquista” della verità, scientifica, e mira a smascherare del tutto, e sempre più, il vile progetto della “quarantena da armageddon del male”che taluni vorrebbero applicare con pieni poteri nell’ emergenza (?) sul Salento. E’ una chiamata alla difesa del nostro territorio e al blocco dei finanziamenti già stanziati, 2 milioni di euro dalla Regione Puglia, ai consorzi di bonifica per il biocidio dei canali, i fiumi del Salento ricchi di biodiversità e suggestioni paesaggistiche, e per la lotta chimica agli insetti, che finirebbe per cancellare anche api e farfalle dal territorio con gravissime conseguenze inimmaginabili.
Solo smascherando gli interessi sottesi al vile progetto, salveremo tutti i nostri ulivi, la nostra flora e fauna, e riscatteremo l’ immagine offesa e vilipesa del Salento salvando con essa la nostra economia oggi impunemente ed irresponsabilmente così aggredita, il nostro ricco millenario territorio e la nostra salute, il benessere, la cultura e la qualità della nostra vita e quella delle future generazioni.
Anche per quest’anno è fatta! Sulla parola “fine”, si stampa, al solito, l’auspicio che fanghi e massaggi, uniti al non far niente per tredici giorni, si rivelino forieri di benefici, almeno nel senso di lasciar meglio scivolare, sul fronte dell’agibilità fisica, le ineluttabili insidie dell’inverno.
Nella nuova struttura ricettiva alle terme, m’imbatto ancora e per l’ultima volta in una figura che è stata familiare durante il ciclo delle cure, un’anziana e distinta signora sempre presente, a vigilare e sovrintendere qua e là con gli occhi dell’esperienza, nella sua qualità di consorte, da un po’ rimasta vedova, del fondatore dell’azienda. Mi confida di avere quasi ottantotto anni e, da parte mia, non posso fare a meno di complimentarmi per il suo spirito attivo e, soprattutto, per l’evidente lucidità d’azione e di comportamento.
Non è facile essere imprenditori, adesso, si tratta di un cammino oltremodo complesso, tuttavia, poggiando l’esercizio di tale attività su serie e sane basi fondamentali, si ottiene già un indicativo vantaggio, specie facendo miscela con le tecniche e le conoscenze più moderne e aggiornate.
Sfilando accanto a un altro quasi contermine hotel a quattro stelle, a guisa di fortuito segnale di cambiamento diffuso e inarrestabile, incrocio una giovane donna, verosimilmente la titolare, nell’atto di uscire dal cancello del relativo annesso parco: è al volante di un grosso fuoristrada, anche lei, almeno all’apparenza, con il volto di persona abituata a lavorare e a stare sul campo.
All’inizio del viaggio di ritorno verso il Salento, in attesa nella stazione ferroviaria, scorgo un nutrito gruppo, oltre trenta ragazzi e ragazze, di scouts, i quali, nelle loro classiche divise contraddistinte, fra l’altro, da gonne o pantaloncini al ginocchio e calzettoni, sono diretti a un raduno in una località della zona, dove, apprendo, si prevedono anche lunghe scarpinate, con trattamento modello confort limitato al riscaldamento del fabbricato in cui dormiranno nei rispettivi sacchi a pelo.
Tra un capo reparto, il suo vice, guide, lupetti e coccinelle, non c’è che dire, una serie di leve in via di sviluppo, che, nella continuità di un tradizionale sodalizio associativo, vanno crescendo in direzione dell’età adulta accompagnati dai presupposti per una positiva riuscita.
Nel vagone del treno, quanti immigrati dalle provenienze più svariate, quante altalene di lingue s’incrociano e diffondono senza scontrarsi!
In aeroporto, invece, dinanzi al gate, in fila per l’imbarco, all’improvviso mi sento indicare da una giovane donna, con bimbo piccolissimo nel marsupio, con le parole “ma lei è di Marittima!” (il mio paese natio), la guardo, non riconoscendola le chiedo chi sia, in realtà è la nipote di un mio amico, conosciuta anni addietro ancora universitaria, ora esercita la professione d’avvocato a Reggio Emilia, da due mesi è mamma di quella bimbetta, Matilde, che vola per la prima volta con meta il Basso Salento, per farsi conoscere dai familiari e parenti materni.
Sull’aereo, al posto accanto al mio, siede una bella ragazza originaria della Colombia ma adesso residente a Barcellona, pure lei diretta a Lecce, dove è attesa da qualcuno. Sicuramente, una storia del tutto diversa.
Pochi attimi, il jet riguadagna il rettilineo di cemento dell’Aeroporto del Salento, ed è il rientro a casa dalle cure termali 2013.
“Riccardino III”, da William Shakespeare, prima opera teatrale scritta e diretta da Davide Morgagni, andrà in scena il giovedì 28 Novembre 2013, a Lecce, sul palcoscenico del Teatro Paisiello, inizio ore 21.15.
“Riccardino III” è la tragedia del risentimento. Riccardino III è un corpo minorato, monco, incompiuto, de-forme, in variazione continua, è uno scellerato che produce il suo strumento da guerra, una forza “diversa”, “differente”, in collisione con la visione morale della Forma-Regno, o quel che sarà la Forma-Stato. Una tragedia di teste tagliate, dove il fratello imprigiona il fratello e fa di tutto per creare un deserto attorno a sé, fino a divenire folle, rendersi complice dell’orrido e abbandonare ogni freno. Un potere così grande annienterà Riccardino III, svelandoci un personaggio inedito, immane.
Tutte le tragedie di Shakespeare sono immense ammonizioni, mostrano come una qualunque via di fuga, o tratto vitale, nel campo del potere, implicato col potere, si trasformi in una forza distruttiva, dispotica. Infine, arrivano i buoni, e tutto ricomincia, si imita, si ricalca il supplizio subito. “Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo” è l’amara soluzione di un dramma che vede la lotta del fratello contro il fratello, qualche anno prima che i monarchi d’Europa, stanchi di tanto sangue, inventino l’America.
Davide Morgagni, nato a Lecce, in scena maniaco, monco, orrendo, assassino, ha lavorato come attore e assistente alla regia con il Teatro Asfalto, collaborando alla nascita di Teatro di Ateneo di Lecce. Luciana Franco, al suo esordio sul palcoscenico, ha collaborato con Davide Morgagni in Todo el amor, da Pablo Neruda.
Tecnici luci e audio: PM Service
Costumi: Manuela De Lorenzis
Scenografie e oggetti di scena: Self Agni
Illustrazioni e trucchi: Pamela Morgagni, Mariangela Franco
Grafica locandina: Stefano Palma
Foto di scena: Lorenzo Papadia
Info e Prenotazioni
tel. 334-6572108
Biglietto di ingresso 8€ – Studenti e loggione 6€
Prevendita
SHULUQ – VIA PALMIERI 37a – LECCE
da MARTEDÌ a DOMENICA (9.30/13 – 16.30/20.30, lunedì chiuso)
Ricordo che circa vent’anni fa assistetti all’operazione chirurgica detta slupatura1 su uno dei miei alberi di olivo relativamente giovani effettuata dall’anziano mondatore Antonio Manca e resasi necessaria, a suo dire, per la salvezza dell’esemplare. In men che non si dica, deposta momentaneamente la sega utilizzata per la monda in corso, con una piccola accetta asportò dal tronco il marciume finché non giunse al tessuto sano; risultato finale: da parte a parte quasi un buco nel tronco, ma l’albero allora sopravvisse, oggi è un campione di vigoria. Capii, allora, l’origine dell’aspetto tormentato, vissuto e vivente, dei nostri patriarchi, dovuto non solo alla loro origine selvatica (l’irregolarità d’impianto dei vecchi uliveti ne è la prova2) ma proprio agli interventi terapeutici come quello appena descritto.
Il resto è favola ma, poiché le antiche leggende nascondono un pizzico di verità, per quanto difficile da cogliere, e sognare ogni tanto, ma restando sempre con i piedi ben piantati per terra, non può fare che bene, ecco a voi dalla notte dei tempi la leggenda che segue nella versione di un autore greco prima ed in quella di un autore latino poi.
Una piccola premessa di natura filologica: le opere antiche che noi leggiamo le conosciamo o per tradizione diretta (grazie all’opera preziosa di copia degli amanuensi medioevali) o per tradizione indiretta, cioè per citazione fatta da altri autori (e, siccome la citazione non può essere che parziale, si parla di frammenti; quando, invece, la citazione consiste nel riassunto dell’originale essa si chiama epitome).
Sul fascino del frammento non spendo neppure una parola (mi basta fare, pensando al sesso, il parallelismo col vedo/non vedo) sulla sua capacità di evocazione fantastica; quest’ultima, però, risulta amplificata quando il frammento non ci è pervenuto per tradizione diretta (anche un codice può essere mutilo) ma indiretta.
È il caso di Nicandro di Colofone (II secolo a. C.) del quale ora riporto (come al solito nella mia traduzione, il che vale anche per gli autori che seguiranno) ciò che Antonino Liberale (II sec. d. C.) così ci ha conservato nella sua raccolta Metamorfosi: MESSAPI. [Racconta Nicandro nel secondo libro delle Metamorfosi] Dall’autoctono Licaone nacquero i figli Iapige, Daunio e Peucezio. Questi dopo aver radunato un esercito giunsero presso Adria d’Italia; dopo aver scacciato gli Ausoni che vi abitavano essi vi si stabilirono. La maggior parte dell’esercito per loro era costituito da coloni, gli Illiri di Messapio. Divisero poi insieme l’esercito e il territorio in tre parti e li chiamarono, in base al nome che ciascun di ciascun loro capo aveva, Dauni, Peucezi e Messapi; e il territorio da Taranto fino alla parte estrema d’Italia fu dei Messapi, dove è sita la città di Brindisi, il territorio contiguo a questo al di qua di Taranto fu dei Peucezi, più all’interno di questa i Dauni ebbero la regione costiera, chiamarono Iapigi l’intero popolo. Ciò avvenne molto prima della spedizione di Eracle. Allora la vita da loro era tratta dall’allevamento e dalla pastorizia. Raccontano dunque che nella terra dei Messapi presso le cosiddette Pietre sacre apparvero delle ninfe epimelidi3 danzanti, che i figli dei Messapi, abbandonate le greggi per guardarle, dissero che essi danzavano meglio. Queste parole infastidìrono le ninfe e per un intero giorno si fece una gara di danza. I ragazzi, poiché non pensavano che la gara fosse con divinità, danzarono come se stessero gareggiando con coetanee mortali e il loro modo di danzare era rozzo qual è quello dei pastori, mentre quello delle ninfe raggiungeva il massimo della bellezza. Ed esse trionfarono sui ragazzi e dissero loro questo: “O ragazzi, avete voluto la gara contro le ninfe epimelidi; o stolti, non avendo certamente vinto, pagherete il fio”. E i fanciulli divennero alberi proprio dove stavano, presso il tempio delle ninfe. E ancora oggi di notte si sente dal bosco un suono come di persone che si lamentano; il luogo si chiama delle ninfe e dei pastori.4
Si chiude qui la parentesi iconografica. Ora ecco come il mito di Nicandro viene ripreso da Ovidio (I secolo a. C. -I secolo d. C.) “A stento certamente io, suo genero, con una minima parte dei miei occupo queste sedi e gli aridi campi dello Iapige Dauno”. Fin qui parlò il nipote di Oineo7 e Venulo lasciò i regni di Calidone8 e i golfi peucezi e i campi messapi. In essi vede delle caverne che ora, oscure per la folta selva e grondanti di leggere gocce, abita il semicapro Pan e che un tempo abitarono le ninfe. Un pastore pugliese le atterrì facendole fuggire da quella regione e le turbò in un primo momento con un improvviso terrore; subito, quando rientrarono in loro e non si curarono di chi le inseguiva, con il movimento dei piedi intrecciarono danze seguendo il ritmo; il pastore non approva e imitandole con rozzi saltelli aggiunge ruvidi insulti a parole oscene; né cessò di parlare prima che un albero nascondesse la sua bocca. Infatti è un albero ed è possibile riconoscere la sua indole dal sapore. Di certo l’olivastro nelle sue bacche amare mostra traccia della sua lingua: in esse è finita l’asprezza delle sue parole.9
Il lettore avrà notato che il generico albero di Nicandro è diventato nell’autore latino l’olivastro e che quest’ultima essenza, evocata attraverso il mio ricordo personale della varietà addomesticata nel termite della nota 2, costituisce l’ultima (? …) superfetazione del nucleo originario. Per questo mi sento quasi in colpa, anche se conosco chi anche su questa leggenda riuscirebbe spudoratamente a costruire un castello fatto di tarante, dee delle paludi, papavero, laùri e … chi più ne ha più ne metta10.
Poi, però, la mia coscienza torna ad essere tranquilla al pensiero che son riuscito a tenere distinti dalle mie riflessioni, discutibili o meno che esse siano, i due livelli, anche cronologici, delle fonti originali11.
Non è poco in un’epoca in cui il conflitto d’interessi da reato è diventato un istituto di fatto legalizzato e a tal proposito mi chiedo, in riferimento al folle progetto della realizzazione in zona di un impianto eolico, quanti personaggi siano riusciti a tener distinto l’interesse privato da quello pubblico, visto che qualcuno deve pur aver propiziato questo sublime periodo (l’intero testo è leggibile all’indirizzo http://www.giustizia-amministrativa.it/DocumentiGA/Consiglio%20di%20Stato/Sezione%205/2009/200907244/Provvedimenti/201002756_11.XML) contenuto nella decisione del Consiglio di Stato n. 02756/2010 (depositata il 10/05/2010) sul ricorso n. 0724472009: A prescindere dal fatto che tali miti e leggende non risultano essere stati individuati da un provvedimento legislativo, non si vede come l’impianto degli aerogeneratori possa interferire su tale patrimonio culturale …
Anche ad uno totalmente digiuno di scienza giuridica quale sono io le argomentazioni appaiono perfettamente in regola con quello che dicono le carte, perciò credo che la decisione sia giuridicamente ineccepibile, pur potendo apparire a qualcuno come frutto di burocratica ottusità; debbo, però, aggiungere che purtroppo siamo in un paese in cui ciò che veramente conta (compresa la tutela del paesaggio sancita, addirittura, dalla Costituzione) non compare nelle carte e, nonostante episodi scandalosi come questo, nulla si fa per risolvere a monte l’inconveniente, perché chi è deputato a farlo ha perso, insieme con l’onestà, anche il più elementare buonsenso; non cito nemmeno il rispetto della cultura, mai posseduto, perché per rispettare e proteggere il patrimonio culturale, come qualsiasi bene, anche dalle offese altrui bisogna anzitutto conoscerlo e poi amarlo.
Pagano o cristiano, l’importante è che, vista la pioggia di ricorsi e controricorsi succedutasi fin qui con la vittoria dei paleolofili [vano cercarlo sul vocabolario, l’ho inventato io e significa amanti (in mala fede) delle pale mosse da Eolo], l’intervento sia risolutivo e senza appello, a mo’ di maledizione, pure per i nuovi barbari che dovessero subentrare ai vecchi …
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1 Da slupare, voce composta da s– estrattivo (dal latino ex)+lupa (con allusione alla voracità dell’animale è così chiamata per traslato la carie del tronco dell’olivo). Il corrispondente maschile lupus, con riferimento anche qui agli effetti della malattia, è il nome di dermatosi con ulcerazioni cutanee più o meno estese. Nel dialetto neretino llupatu (alla lettera. colpito dalla lupa o dal lupus) si dice il frutto del pomodoro la cui parte basale si inspessisce ed annerisce per l’azione di un batterio; la voce ha il suo corrispondente formale nell’italiano allupato sul cui significato più usuale non mi dilungo …
2 Non a caso l’oliveto in dialetto salentino è chiamato chisùra (corrispondente all’italiano chiusura): all’origine gli olivastri nati spontaneamente sul confine furono lasciati a delimitare (chiudere) la proprietà, poi anche quelli nati all’interno vennero utilizzati come portainnesto. Una specie di olivo selvatico è il tèrmite, parola che è dal latino tèrmite(m)=ramo staccato, ramoscello; tale parola non evoca solo una probabile parentela con terminus=pietra di confine e con la sua divinizzazione Tèrminus (=Termine, il dio che presiedeva ai confini), ma anche una probabile connessione con la riproduzione per talea.
3 Protettrici delle greggi (la voce è composta da ἐπί=sopra+μῆλον=pecora o capra o montone o, estensivamente, toro.
5 Il primo a collegare questa pietra con Ercole fu François Lenormant nella sua opera La grande Grèce, Lèvy, Parigi, 1881, v. I, pag. 455 (e non in A travers l’Apulie et la Lucanie : notes de voyage, A. Lèvy, Parigi, 1883, come si legge in wikipedia, per giunta in riferimento al fuso della vecchia di cui parlerò nella nota successiva, all’indirizzo http://it.wikipedia.org/wiki/Giuggianello): L’auteur du traité des Récits merveilleux, si faussement mis sous le grand nom d’Aristote, parle d’une empreinte gigantesque du pied d’Hercule, que l’on montrait auprès de “Pandonia de Japygie” et qui était l’objet de la vénération publique. Ce renseignement ne peut avoir trait à la Pandosia lucanienne qui touchait presque à la frontière du territoire de Tarente, c’est-à-dire de la Japygie, dans laquelle on en quelquefois compris Métaponte. Et ceci se confirme par la tradition du passage d’Hèraclés dans ces cantons, qui fut certainement pour quelque chose dans le choix du nom d’Hèraclée, donné par les Tarentins à la colonie qu’ils fondèrent entre le Siris et l’Aciris (L’autore del trattato dei Racconti meravigliosi falsamente attribuito al grande nome di Aristotele, parla di un’impronta gigantesca del piede di Ercole che si mostrava nei pressi di “Pandosia di Iapigia” e che era oggetto di venerazione pubblica. Questa notizia non può riferirsi alla Pandosia lucana ma alla Pandosia lucana che toccava quasi il confine del territorio di Taranto, cioè della Iapigia, nella quale si è compresa talora Metaponto. E questo si conferma con la tradizione del passaggio di Ercole in questi luoghi, che fu certamente per qualche motivo nella scelta del nome di Eraclea dato dai Tarentini alla colonia che fondarono tra il Siri e l’Aciri).
Ecco il testo dello Pseudo Aristotele, De mirabilibus auscultationibus, 97, cui si rifà il Lenormant: : Περὶ τὴν ἄκραν τὴν Ἰαπυγίαν φασὶν ἔκ τινος τόπου, ἐν ᾧ συνέβη γενέσθαι, ὡς μυθολογοῦσιν, Ἡρακλεῖ πρὸς γὶγαντας μάχην, ῥεῖν ἰχῶρα πολὺν καὶ τοιοῦτον ὥστε διὰ τὸ βάρος τῆς ὀσμῆς ἄπλουν εἶναι τὴν κατὰ τὸν τόπον θάλασσα. Λέγουσι δὲ πολλαχοῦ τῆς Ἰταλἱας, Ἡρακλέους εἶναι πολλὰ μνημόςυνα ἐν ταῖς ὁδοῖς ἅς ἐκεῖνος ἐπορέυτε. Περὶ δὲ Πανδοσίαν τῆς Ἰαπυγίας ἴχνη τοῦ θεοῦ δείκνυται, ἐφ’ἅ οὺδενὶ ἐπιβατέον (Dicono che presso il Capo iapigio, da un luogo nel quale avvenne, come favoleggiano, per Ercole la battaglia contro i Giganti, scorra molto sangue marcio e tale che il mare in quel posto non è navigabile a causa dell’intensità della puzza. Dicono che in molti luoghi d’Italia vi sono molte memorie di Eracle sulle strade che egli percorse. Presso Pandosia di Iapigia si mostrano le orme del dio sulle quali per nessuno è lecito camminare).
6 Furticiddhu è da un latino *vurticillum, variante del classico verticillum attestato in Plinio col significato di fusaiolo (piccolo disco di materiale pesante, in cui si infila l’estremità inferiore del fuso per regolarizzarne la rotazione). Verticillum, a sua volta, è dal verbo verto/vertis/verti/versum/vèrtere; le varianti arcaiche vorto per verto, vorti per verti e vorsum per versum spiegano l’origine antica del vocalismo della voce dialettale.
Anche per questa pietra come per quella della nota precedente si è creduto di trovare un riferimento in un altro passo (98) della stessa opera dello Pseudo Aristotele: Ἒστι καὶ περὶ ἄκραν Ἰαπυγίαν λίθος ἁμιαξῖαιος, ὅν ύπ’ἐκείνου ἀρθέντα μετατεθνῆναι φασιν, ἀφ’ἐνὸς δὲ δακτύλου κινεῖσθαι συμβέβηκεν (C’è anche presso il Capo iapigio una pietra enorme che dicono che, sollevata da quegli [Ercole], fu cambiata di posto; avvenne che fu mossa con un solo dito).
Non posso a questo punto non riportare come emblematico della storpiatura delle fonti quanto leggo in wikipedia (stesso indirizzo indicato in nota 4): Infatti secondo lo studioso francese François Lenormant, è possibile identificare l’enorme masso con il “Masso oscillante d’Ercole” della leggenda di cui parla Aristotele nel “De Mirabilis Auscultationibus” (“Le Audizioni Meravigliose”). Il filosofo, infatti, sostenne che nella parte estrema della Japigia esiste una pietra tanto grande che sarebbe stata impresa impossibile trasportarla persino su un enorme carro. Ma Ercole, sollevatala senza alcuno sforzo, la gettò dietro le sue spalle ed essa si posò nel terreno in maniera tale che anche la semplice pressione del dito di un bambino sarebbe stata in grado di rimuoverla.
Non solo viene messo confusamente in campo il Lenormant(vedi nota precedente)ma rispetto al testo originale dello Pseudo Aristotele si costruisce una favoletta aggiungendo arbitrariamente e criminalmente dettagli fuorvianti della cui gravità pure un bambino si renderebbe conto confrontando i due testi. E la cosa è tanto più grave perché la storiella del Masso oscillante d’Ercole risulta abbondantemente clonata in rete anche se, guardando la pietra in questione, al di là di qualsiasi avventura identificativa, pare evidentissimo che la lastra superiore non si sposterebbe di un millimetro neppure se un adulto si sedesse su qualsiasi punto del suo orlo. E poi, vogliamo veramente credere che una pietra siffatta potesse restare in bilico, con buona pace di Ercole e dei suoi miracoli, per molto tempo? Non vorrei che tutto fosse nato per semplice suggestione del nome della Pietra pendula di Torno (CO) … (nell’immagine che segue tratta da wikipedia).
7 Diomede, che aveva raccontato a Venulo come si era stabilito presso Dauno, la cui figlia aveva sposato.
8 Calidone era la capitale dell’Etolia, di cui Diomede era stato re prima che scoppiasse la guerra di Troia.
9 Metamorfosi, XIV, 510-526: Vix equidem has sedes et Iapygis arida Dauni/arva gener teneo minima cum parte meorum”./Hactenus Oenides, Venulus Calydonia regna/Peucetiosque sinus Messapiaque arva relinquit./In quibus antra videt, quae, multa nubila sulva/et levibus guttis manantia semicaper Pan/nunc tenet, at quondam tenuerunt tempore nymphae./Apulus has illa pastor regione fugatas/terruit et primo subita formidine movit,/mox ubi mens rediit et contempsere sequentem,/ad numerum motis pedibus duxere choreas;/improbat has pastor saltuque imitatus agresti/addidit obscenis convicia rustica dictis,/nec prius obticuit, quam guttura condidit arbor;/arbor enim est, sucoque licet cognoscere mores./Quippe notam linguae bacis oleaster amaris/exhibet: asperitas verborum cessit in illas.
11 A tal proposito va detto che è scontato che colui che scrive un saggio utilizzi correttamente le fonti (il che significa riportarle fedelmente) e colui che ad esso fa riferimento per una riflessione o citazione se lo sia letto attentamente. Non so dire chi abbia derogato a quest’obbligo quando leggo, per esempio, il post dell’indirizzo http://www.brindisireport.it/cultura/2013/08/04/sulle-magiche-tracce-della-tarantola/ dove Barbara Moramarco, nel fare riferimento al saggio Viaggio nel Salento magico di Federico Capone, Capone editore, Cavallino, 2013, fa capire, se l’italiano ha un senso, che i giovani pastori salentini risulterebbero tramutati in ulivi dalla forma contorta già in Nicandro. Nel nostro caso o la Moramarco ha capito male quello che avrebbe dovuto leggere attentamente o Federico Capone, preso dall’empito di nobilitare a tutti i costi con l’aiuto del mito la nostra essenza tipica, ha pensato bene di attribuire pure a Nicandro quel dettaglio dell’olivastro che sarebbe comparso quasi quattro secoli dopo in Ovidio. Io non ho avuto né voglia né tempo di controllare sul testo del Capone: dico solo che, se dovesse valere la seconda ipotesi, saremmo in presenza di un’operazione che, purtroppo, non è rara (vedi le altre superfetazioni che ho messo in luce nelle note) né tipica dei nostri tempi (il conterraneo neretino Giovan Bernardino Tafuri nel XVIII secolo fu addirittura un campione con la creazione di false fonti); tale operazione, anzi mistificazione, se è in buona fede è frutto di ignoranza, se è in mala fede rappresenta un’offesa per la conoscenza e per la stessa terra che si voleva truffaldinamente esaltare.
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