Fine di una lunga giornata, ho conosciuto un giovane che si chiama Tonio e che ha riprese l’antico mestiere di fare le cose di argilla.
Mi ha detto una cosa che condivido in tutto. Chissà se riusciremo a riprodurre alcuni antichi strumenti di cottura?
Io mi sono fatto persuaso che se voglio riprodurre una antica ricetta ho bisogno di riappropriarmi non solo degli ingredienti ma anche delle antiche sapienze. Non me ne frega una cippa delle “tendenze dei nuovi SuperMasterChef”, ho voglia di rifare la “menza”, lu “tiestu” e la “quatara”, voglio la mia parte di vino nel capasone e nella ozza. e non per un “ritorno nell’aulico passato” ma proprio per ricominciare a ricostruire quel futuro del quale siamo stati derubati!!!!
Questo post è in un certo senso la continuazione di quello che il volenteroso lettore che ne abbia interesse o semplicemente curiosità potrà ripassarsi o leggere per la prima volta in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/27/antonio-maria-il-pescatore-etimologo-di-punta-palascia/. Mi rendo perfettamente conto del rischio che corro, cioè di essere considerato alla stregua del giornalista da strapazzo che per catturare l’attenzione del lettore ne stimola i più bassi istinti rendendo pruriginosa anche la storia più innocente o come i tanti mitomani che in facebook linkano o confezionano personalmente invenzioni diffamatorie nei confronti di questo o quel politico (a dire il vero in questo caso non ci vuole molta fantasia, anche perché la realtà la supera abbondantemente, ma chiedo che almeno realtà sia ciò che viene pubblicizzato). Lascio al lettore giudicare alla fine della sua fatica e do inizio alla mia con l’avviso che la ragione del titolo sarà chiara solo alla fine (e questo corroborerà il sospetto che io sia delinquente più immatricolato dei signori prima menzionati che già a metà storia tradiscono involontariamente l’inganno).
Avete presente un portolano? Per chi dovesse sentire per la prima volta la parola dico che il portolano era in passato chi nei porti sovrintendeva al traffico delle merci e all’esazione dei dazi, ma con lo stesso nome si indicava una sorta di manuale di navigazione contenente l’elenco dei porti di una regione con la descrizione dettagliata di coste, fondali, venti, correnti e di ogni altro dettaglio la cui conoscenza fosse indispensabile per la navigazione. La parola risale al latino medioevale portulanus in cui, oltre al significato già ricordato, indicava anche il famulus infimi gradus inter ministros coquinae (Du Cange, Glossarium mediae et infimae latinitatis, Favre, Niort, 1883, tomo VI, pag. 427)=servitore di infimo grado tra gli inservienti della cucina. Siccome non vedo alcun rapporto semantico tra le due definizioni ipotizzo che questo secondo portulanus derivi da un *pòrtulus, a sua volta da portare (dunque deverbale) e il primo da un *pòrtulus, diminutivo di portus (dunque denominale) modellato sul precedente. Non a caso gli unici sostantivi italiani in cui è ravvisabile il segmento -olano sono portolano e ortolano (quest’ultimo da hòrtulus, diminutivo di hortus=giardino). Se così è stato si direbbe che l’uso inconscio di parole con etimi diversi abbia realizzato una sorta di rivoluzione democratica accomunando nella loro formazione lo sguattero di cucina con il funzionario portuale.
Il portolano, anzi un portolano, di cui ci occuperemo oggi è il primo, nel significato di manuale di navigazione. Risale al XVII secolo e l’ho trovato sul sito della Bibiblioteca Nazionale di Francia all’indirizzo http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b55002492h.r=portolano.langEN, da cui è integralmente scaricabile in formato pdf.
Riporto qui il frontespizio ed un estratto (fogli 57r-60r) in cui vi è la descrizione delle nostre coste. A fronte la trascrizione, con in parentesi quadre le parti di testo andate perdute che ho ricostruito, laddove ne sono stato capace ( mantenendo le forme originali usate in altri passi, come mezo per mezzo, miglie per miglia, etc.), con qualche nota esplicativa. Nella trascrizione ho sciolto direttamente le, peraltro non numerose, abbreviazioni, mantenendo, però, la punteggiatura originale che oggi richiederebbe qualche adattamento, nonché le iniziali maiuscole molto frequenti nella letteratura di quel periodo anche per i nomi comuni. Ho ritenuto opportuno, infine, intercalare ai singoli fogli delle mappe esplicative (il frazionamento può sembrare eccessivo ma era indispensabile per fornirne una agevole lettura a schermo), le cui immagini di base ho tratto ed adattato da Google Maps.
Comincia ora il nostro viaggio, partendo da Taranto.
Nella nota 17 avevo promesso al lettore che sarei tornato su Da Matino a S. Panaijà 4a di Greco Verso Tramontana miglie Capo d’Otranto è un Capo Basso, sop(ra) del quale vi è una Chiesa detta S. Panaijà in Greco, che vuol dire santa Maria così hoggi volgarmente Chiamata da Tutti il tempio d[i] S. Maria de Finibus Terrae.
Questa testimonianza, di cui non ho potuto fruire pochi mesi fa per la stesura del post segnalato all’inizio, conferma le mie ipotesi etimologiche relative a Palascìa [da πελαγία (leggi pelaghìa) o da πελασγία (leggi pelasghìa)] e nello stesso tempo confuta quella del Rohlfs (che, d’altra parte, l’aveva espressa dubitativamente) secondo cui Palascìa potrebbe essere “deformazione di Παναγία [leggi Panaghìa]=la Madonna”. Ora sappiamo, grazie al nostro portolano, che Παναγία [da πᾶν (leggi pan)=completamente+ἀγία (leggi aghìa)=santa] è il dialettale Panaijà riferito al tempio di S. Maria di Leuca e che Palascìa è un toponimo completamente diverso, anche perché Capo Basso sarebbe un dettaglio morfologico non compatibile.
Termina qui il nostro viaggio ideale con questa piccola pesca resa possibile dalla rete, pur metaforica, più versatile ed efficace di cui possiamo disporre. E mi auguro che il rotta del titolo non si riduca ad evocare solo un aggettivo riferito alla lettrice rimasta delusa ed annoiata nonostante il suo eroico sforzo di arrivare fin qui …
Accogliamo oggi, nella nostra Comunità di Ruffano e Torrepaduli, una nutrita delegazione di cittadini ateniesi, a ravvivare quel “fil rouge” che lega la nostra civiltà occidentale alla “classica grecità” di concittadini europei, in visita nel Salento, il quale si configura nella storia come un’autentica esclave griko-ellenofona, che presenta ancora oggi, al di là dei centri noti della Grecìa “grika”, significativi resti culturali in campo archeologico-artistico, in campo storico-linguistico e nel contesto antropologico delle tradizioni popolari. Nel linguaggio comune dei nostri dialetti persistono ancora parole di chiara derivazione ellenica. Non è infatti, la nostra, quella del Salento, secondo l’espressione del De Martino, la “terra del rimorso”: un autentico grosso chiodo (detto “cintrune”, in ambito popolare, “kentron” in greco, ad indicare un’idea fissa, che ti perseguita), piantato nella coscienza collettiva, sulla quale la musicoterapia della pizzica, genere musicale popolare in contatto proprio a Torrepaduli con il culto di San Rocco, cerca da secoli di addolcire il disagio interiore personale e spesso di una collettività intera? E non mancano altri termini, ancora in uso in ambito popolare, come matthra, cuddhura,limmu,stompu, vespra, pitta, pittule,,mantili e canduscia e, in quello botanico-culinario,come cirasa, milu,tolica, cicora, cutugnu, sita e carrofulu.
L’isola linguistica dell’Hellas otrantina” non si riduce nel Salento soltanto all’area delle nove comunità ellenofone della “Grecìa salentina”, su cui oggi è stato abilmente innestato il marchio commerciale de “La Notte della Taranta”. Essa fu innegabilmente molto più vasta e interessò tutti i centri abitati di quella magica “terra tra i due mari”, lo Jonio e l’Adriatico. La storia delle nostre tradizioni popolari, delle arti figurative e delle scienze umane salda in un unico snodo strategico, su molti territori del Bacino mediterraneo, e del Salento in particolare, le radici greco-romane della nostra civiltà e la stessa tradizione del culto a Santi dell’era cristiana, come quello a San Marco Evangelista, a San Paolo, a San Teodoro d’Amasea, a San Rocco di Montpellier. L’innesto sulla matrice religiosa pagana del culto cristiano ai Santi, trovano espressione la cultura e la fede popolari, espressioni autentiche di identità civile. Non è dunque fuori luogo accostare espressioni tipiche della fede religiosa (celebrazione del momento festivo, danze popolari, ricerca di relazione tra simili e ricerca dell’Assoluto) con lo studio delle civiltà mediterranee, che, come quella della Grecia antica, impose ai forti romani e alla loro tradizione giuridica, il primato del pensiero e della filosofia classica in ogni campo dello scibile umano.
Ecco perché oggi, davanti agli eredi della civiltà ellenica, che ci onorano della loro presenza, per un intero giorno, non possiamo che definirci fortunati fruitori di una relazione speciale. Come speciale dovette essere la coesistenza tra generazioni di nostri antenati in era magno-greca e bizantina, che fecero la civiltà dell’Italia Meridionale, toccando eccellenze in ogni campo. Antenati che seppero comunicare in un contesto bilingue, l’uno di derivazione dialettale, l’altro certamente “griko”, gustando le affinità e le differenze di idiomi divenuti una seconda lingua madre, a cui ci si accostava con ancestrale fiducia e capacità comunicativa. Si viveva, per secoli di contatti con il mondo bizantino-greco, in un contesto linguistico apprezzato e trasmesso di generazione in generazione a perpetuare le caratteristiche della propria civiltà, divenuta una ed amata. Quella lingua “grika”, anche a Ruffano e Torrepaduli, era un comune strumento linguistico almeno sino agli inizi del Settecento, quando poi venne edificata la Chiesa Matrice della “Natività” sul preesistente sito di rito greco. Ciò è confermato da mons. Giuseppe Ruotolo, che scrivendo nel 1969 sul culto greco a Ruffano, riportando il De Rossi (1711), attestava lo stile greco della chiesa parrocchiale, l’osservazione del rito greco e i rettori greci come ricordato da don Gabriele Capasso, sacerdote greco. Estremamente significativa è poi stata la presenza dei numerosi copisti nel Salento di manoscritti greci, come quello di Giorgio da Ruffano, conservato nella Queriniana di Brescia e studiata dallo stesso André Jacob. Proprio allo studioso belga, bizantinista di fama mondiale, avevo scritto, in un suo breve soggiorno romano, per avere notizie circa l’antica grancia su cui insisteva la chiesetta di San Teodoro di Amasea a Torrepaduli. Covavo infatti la segreta speranza che l’insigne storico mi potesse dare traccia, magari nell’Archivio Segreto Vaticano, per uno studio a tal proposito più approfondito e documentato. Non ebbi risposta scritta, ma egli di persona, in un Convegno di studi ad Andrano, qualche tempo dopo, mi suggerì di perseverare nella ricerca archivistica, poiché, in tale campo, parole testuali, “le sorprese sono sempre dietro l’angolo”. V’è da immaginare, dunque, quanto lavoro di ricerca ci resta da fare. E in tal senso, da tempo, mi spinge alla ricerca l’etnomusicologo Pierpaolo De Giorgi. Ma nella stessa direzione, quanto a impegno finanziario-editoriale, dovranno sostenerci la “Fondazione Notte di San Rocco” e il suo Presidente Pasquale Gaetani.
Quanto all’ambito artistico, campo sconfinato di testimonianze storico-documentali presenti sul nostro territorio, l’esempio più grande di testimonianza di arte bizantina nella diocesi di Ugento-S. Maria di Leuca, è proprio l’affresco della cripta di San Marco a Ruffano (sec. XII), nel quale il Diehl aveva stabilito una relazione tra pittura parietale e illustrazione libraria dei codici miniati: qui il modello in ambito monumentale risulta un fenomeno artistico di “trasferimento” diretto dalla decorazione libraria. L’impronta dell’Evangelista Marco, già attestata nel IV secolo dell’arte del periodo romano, è un modello riscontrabile in diversi codici miniati cristiani. L’affresco ruffanese di San Marco, insieme alla raffigurazione di San Pietro, venne realizzato al tempo in cui il Salento, con l’Abbazia di Casole, visse la “rinascenza-resistenza” culturale bizantina, tra l’ultimo venticinquennio del XIII secolo e l’inizio del XIV, periodo che “segna il momento più intenso della produzione di libri greci in Terra d’Otranto”. Il fenomeno dei manoscritti italo-greci, ad opera di copisti salentini, è la testimonianza di una intensa attività intellettuale, che vide il Salento come crocevia culturale tra l’Italia Meridionale e l’Oriente.
E concludiamo, spendendo almeno una parola per questo tempio, Chiesa-Santuario dedicato a San Rocco di Montpellier, retto oggi da don Mario Ciullo. Davanti all’ottocentesca facciata della chiesa del Pellegrino francese, ogni anno a Torrepaduli, nell’ampio sacro contenitore, area dello spazio tempo per il rito del “ballo di San Rocco” e della “notte della pizzica scherma salentina”, si perpetua il rito di una danza infinita, fatta nelle “ronde” di suonatori-guaritori e attori-ballerini alla ricerca di se stessi e di un contatto con la folla.
Assoluta protagonista, la folla di intenditori, sin dal 2008, il 18 agosto di ogni anno, nella celebrazione della “Notte di San Rocco, tamburello, pizzica e scherma in ronde”, ad opera del Concertone della omonima Fondazione. Ma un tempo, sin dal 1531, tra i due centri abitati, noti per il detto popolare “Manci a Turre e bivi a Rufano”, vi era soltanto una chiesetta “extra moenia”, ricovero di pellegrini , di ammalati, di animali, di bambini “esposti” alla carità di una famiglia disposta ad accogliere alla vita un nuovo essere umano. In quella chiesetta, per secoli, hanno trovato asilo e conforto religioso, come negli ostelli della Via Francigena verso Roma e Santiago de Compostela, pellegrini, preti di rito latino, papas di rito greco, viandanti, sulla “via della perdonanza”, forse in cerca di avventure e imbarcarsi per Gerusalemme. In quei luoghi di culto e di passaggio, sulla direttrice Sud, che da Roma portava, via Gargano, a Gerusalemme, anche le chiesette di San Rocco costituivano tappe obbligate per rinfrancarsi e fare il punto per la propria meta.
Qui, almeno sin dall’anno Mille, al tempo delle grandi Crociate, si incanalavano flussi di mercanti-avventurieri, pellegrini-guerrieri, imbattendosi in contrade dove l’idioma “griko” richiamando il fascino di città ricche come Bisanzio, ne aumentava il desiderio di conquista. Oggi quel patrimonio linguistico resiste ancora, pur con i pericoli della globalizzazione, nei paesi della Hellàs otrantina. Ma nei paesi circostanti, come Ruffano, la storia greca forse giace ancora tra le pieghe polverose dei documenti d’archivio, che invece, andrebbero squarciati dalla luce della ricerca. E chi vi parla ricorda ancora, da bambino che frequentava a Corigliano d’Otranto l’ultimo anno di scuola elementare, l’affascinante e oscuro dialogo tra paesani, davanti al quale si dilatava la mia curiosità infantile. Quella curiosità-meraviglia di uno scolaretto, che aveva dovuto, per motivi familiari, abbandonare una classe di compagni, frequentata tra i banchi anche dall’indimenticabile Amedeo De Rosa. Lo avevo ritrovato da adolescente a rincorrere il pallone sul “campu te Santu Roccu” e da adulto, sul palco delle performances dei “Tamburellisti di Torrepaduli”.
L’incipit di quel vecchio campo comunale, da sempre area fieristica per la fiera di San Rocco, è scandito da una stele-ricordo, ad opera dell’Amministrazione comunale, in ricordo del tamburellista De Rosa, che aveva contribuito a rendere onore alla nostra terra, con la musica della pizzica-scherma di Torrepaduli, sino in Cina e in Canada.
Quanto a San Rocco, sotto la cui ala devozionale prendevano forma la creatività artistico-musicale di Amedeo De Rosa e la mia passione di futuro storico, affinata in decenni di insegnamento nei licei statali della Penisola, mi capita, da qualche tempo, di prendere parte a simposi internazionali e meetings scientifici su tematiche rocchine. In quei prestigiosi contesti, in giro per l’Europa, come a Montpellier nell’estate del 2012 e più di recente a Lisbona, nell’ottobre del 2013, ho relazionato, nella capitale lusitana, sulle tracce di cultura correlate al culto di San Rocco nei Paesi del Bacino mediterraneo e sul riverbero di quelle in ambito antropologico e sociale. Ho comunicato così l’entusiasmo delle popolazioni del Meridione d’Italia per il Santo Pellegrino, patrono della peste; ho rimarcato la specificità della tradizione religiosa e culturale del Santo guaritore di Torrepaduli; ho esposto le caratteristiche della magia della “notte di San Rocco” e della sua tipica danza scherma, a fronte del vanto della “danza dei bastoni”degli spagnoli delle Asturie di Llanes e dei festeggiamenti al Santo a Cidad Velha nelle Isole di CapoVerde.
Soprattutto ho avuto modo di prospettare ad un pubblico di studiosi provenienti da tutta Europa e persino dal Brasile, le potenzialità di un turismo religioso e culturale, volto alla fruizione giovanile, secondo le “direttive” del Consiglio d’Europa, a cui meritoriamente si ispirano molte iniziative, come quella dello scambio Italia-Grecia di oggi, della “Fondazione Notte di San Rocco. Tamburello, pizzica scherma in ronde”, sotto la regia del presidente Gaetani. Agli amici Greci, al cui capo di Governo è oggi affidata la guida del primo semestre europeo del 2014, noi sentiamo di dover confermare quei sentimenti di amicizia espressi questo pomeriggio dal sindaco, Carlo Russo, nella nostra Sala Consiliare del comune di Ruffano. A loro, a tutti noi, resta l’impegno, non di poco conto, di tenere alto il valore di una Europa, “casa comune” di tanti popoli, che, con modalità diverse, hanno fatto la storia della nostra civiltà e di riscoprire e rinsaldare i vincoli di pace e solidarietà per affrontare le problematiche impellenti di un pianeta esposto alle sfide della globalizzazione.
* testo della relazione pronunciata in occasione dello Scambio Culturale Italia-Grecia. Ruffano, 07 gennaio 2014. nella Chiesa-Santuario di San Rocco in Torrepaduli.
La mia odierna puntata a Castro – località che gode grande rinomanza, fra l’ altro, per le scogliere ammantate di fascino misterioso e intenso e per i fondali eccelsamene cristallini – ha coinciso con una giornata tersa e serena, caratterizzata da leggero vento di tramontana, calme distese d’onde e, in particolare, da una bella fase di bassa marea che esponeva il susseguirsi del bagnasciuga, lapitu in gergo dialettale, completamente scoperto d’acqua e con lo strato erboso accarezzato dai dolci e tiepidi raggi del sole.
Grazie a un repentino naturale moto interiore, la scena mi ha fatto rievocare immagini e ricordi di stagioni lontane, quando gli occhi del ragazzino in perpetuo moto guizzavano come dardi nella voglia e nell’ansia di osservare tutto.
Nella prima parte dell’anno, si era soliti catalogare un determinato periodo con la denominazione, dalle origini certamente secolari, di “secche di gennaio”, volendo dare sottolineatura, appunto, a un arco temporale che, seppure intriso d’arietta fredda, era nondimeno contraddistinto da belle giornate, mare quieto e lapiti asciutti.
Si parlava allora – così come si faceva relativamente alle olive, all’ uva, ai fichi – di tempo di cozze mateddre. Ciò, con riferimento ai piccoli e comunissimi animali marini della famiglia dei patellidi, commestibili (prerogativa assai importante), attaccati agli scogli per mezzo di piedini a ventosa, a pelo d’acqua, in minuscole conchiglie coniche.
A lapiti scoperti d’acqua e in assenza d’onde, risultava più facile e agevole guadagnare la scogliera, sfiorarla nel suo percorso irregolare, gattonarvi sotto, allo scopo di raccogliere, con l’ausilio di un semplice coltellino, le cozze mateddre. Tale frutto era (ancora oggi lo è) molto ambito e ricercato, sia per essere consumato crudo, sia per costituire, dopo una rapida frittura, un prelibato condimento della pasta asciutta.
Numerosi paesani , approfittando di qualche pausa nei lavori in campagna o del frantoio, convenivano di buon grado sui cuti (scogli), attrezzati di pusceddru (piccolo sacchetto di tela ) e temperino. A piedi nudi e pantaloni arrotolati, passavano in rassegna i lapiti per alcune ore, gli occhi fissi sulla scogliera cercando di staccare le cozze mateddre più grandi e carnose e, una volta che il contenitore era dignitosamente rigonfio, se ne ritornavano alle loro abitazioni, non senza, spesso, dispensare piccoli assaggi del raccolto a parenti ed amici.
I suddetti intrepidi, scalzi in inverno, erano assolutamente immuni da raffreddore o tosse, tanto da dover oggi riconoscere che trattatasi, fuor d’ogni dubbio, d’altri tempi e di altre fibre.
Nella sequenza dei ricordi del ragazzo di ieri che scrive, è apparsa anche la figura di uno specifico e definito compaesano, all’epoca giovane ma disoccupato e squattrinato, il quale si prestava a raccogliere manciate di cozze mateddre per un suo coetaneo meno povero di lui, potremmo in un certo senso dire un signorino, al fine di ottenere in cambio due o tre sigarette.
‘Aspetti significativi della cucina popolare campana, pugliese, lucana, calabrese e siciliana’ è il sottotitolo del dotto ricettario compilato da Giorgio Cretì con riferimento a “quella parte d’Italia costituita dalle regioni che grosso modo corrispondono al territorio degli antichi regni di Napoli e di Sicilia, poi diventati regno delle Due Sicilie sotto Alfonso d’Aragona”. Questa distinzione geografica nasce da una divisione dell’Italia, non politica o amministrativa, ma dal gusto dolce che separa il centro-nord e in genere i paese freddi dal gusto piccante, ‘maru, che caratterizza i paesi del centro sud.
Giorgio Cretì ha una ‘giustificazione’ più nobile, per così dire, dovuta ai numerosi e qualificati apporti delle varie civiltà che si sono succedute nel Sud e che hanno lasciato tracce significative nell’arte, nella letteratura e nel cibo. ‘Su queste regioni – ricorda Giorgio Cretì – sono passati tanti dominatori’, dai Greci ai Romani, i Bizantini, i Longobardi, gli Arabi, gli Angioini, gli Aragonesi, i Borboni e infine… i Savoia. Gli indigeni, i Messapi, hanno accolto con malcelata generosità questi popoli che hanno tolto la libertà e lasciato qualcosa della loro cultura. Dalle olive verdi al miele i greci, dalla purea di fave alle salsicce e ai sanguinacci i romani, al cuscus arabo, alle spezie dall’Oriente bizantino, alle aringhe e al baccalà nordici, ecc. ‘Cosa abbiano portato i Savoia ancora è un mistero…’ – si chiede con leggera vena ironica l’autore. Ma andiamo con lui in cucina.
La sua premessa è una dissertazione sul gusto piccante, che domina molti piatti napoletani, pugliesi, lucani, calabresi e siciliani tanto che assume nelle varie lingue locali modi tipici di dire: uschiante, scant, forte, vruscente, ecc. Dall’amaro egli passa in rassegna il dolce della pastiera napoletana, dei babà, delle cartiddhrate, delle zeppole, dei bocconotti, ecc.
E poi le paste, le sagne, i maccheroni, il riso portato dagli arabi e accolto con diffidenza perché ‘cu lu risu nn’ura te mmanteni tisu’ (con il riso un’ora ti mantieni in piedi), i funghi della Calabria, le zuppe di pesce alla napoletana, alla tarantina, allacaddhripulina, le braciole alla barese, le salsiccie alla napoletana e alla calabrese, ilsanguinaccio alla leccese, le interiora di agnello, le gnemmariedde, le zuppe di verdure, gli ortaggi e le erbe spontanee, ‘nfucate, con crema di fave ecc., i legumi secchi definiti ‘la carne dei poveri’, Sua Maestà il pomodoro per il ruolo che riveste nei condimenti, la pizza e la pitta con passato di patate, la tavola di San Giuseppe, il 19 marzo, minimo nove portate, i formaggi, le mozzarelle, le contaminazioni nordiche con i piatti alla ‘genovese’ e alla ‘parmigiana’.
Giorgio ormai è lanciato e non si fermerebbe più se nel frattempo non fosse giunto il tempo di sedersi a tavola per gustare questo ben di Dio, frutto di una terra che resta, nonostante tutto, un giardino nel Mediterraneo, un paradeisos, alla greca. Buon appettito!
‘La Cucina del Sud’ di Giorgio Cretì, Capone Editore, Lecce, 2000, pp. 199, L. 23.000.
L’umanista di Leverano Girolamo Marciano (1571-1628) nell’opera postuma Descrizione, origine e successi della provincia d’Otranto uscita la prima volta per i tipi della Stamperia dell’Iride a Napoli nel 1855 (pag. 436): Più oltre miglia tre è la città di Castellaneta, la quale nei tempi antichi si chiamava Castanea, Castanum, e Castanetum, appresso fu detta Castrum Lilium, Castrum Munitum, e finalmente, corrottosi il nome, Castellanitum, e Castellanetum. (pag. 437): Stefano, autor Greco, la chiama Castanea, così dicendo: Ἔστι καὶ Καστανία, διὰ τοῦ ι, πόλις πλησίον Τάραντος, cioè: Est et Castania per i Urbs prope Tarentum … Discacciati i Goti dalla provincia, fu di nuovo riedificata nella sua piccola forma che oggi si vede da Lilio famoso capitano di Giustiniano Imperadore, e nomata Castrum Lilium, e Castrum Munitum, e col tempo corrottosi il nome, Castellanitum e Castellanetum.
Cercherò ora di mettere un po’ di ordine in questa trattazione a prima vista piuttosto confusa. Secondo il Morciano la forma più antica è Castanea (da leggere Castànea o Castanèa?; lo vedremo dopo) trascrizione latina del Καστανία del grammatico greco Stefano di Bisanzio (fine del V secolo d. C.), autore di Ethnikà, opera dalla quale (edizione August Meinek, Reimer, Berlino, 1849, v. I, pag. 366) riporto, traduco e commento l’intera glossa: Κασταναία, [πόλις Θετταλίας.] Εὔδοξος δὲ διὰ τοῦ Θ φησί. [Λυκόφρον] “καὶ Κασταναίαν ἀκτέριστον ὲν πέτραις”. Τὸ ἐθνικνὸν Κασταναῖος. Ἔστι καὶ Καστανία διὰ τοῦ ι πόλις πλησίον Τάραντος. Τὸ ἐθνικνὸν Καστανιάτης.
Traduzione: Castanàia, [città di Tessaglia.]Eudosso invece dice (che si scrive) col Θ. [Licofrone] “e Castanàia sopraelevatissima tra le rocce”. L’etnico (è) Castanàio. C’è anche Castanìa (scritta) con la ι, città vicino Taranto. L’etnico (è) Castaniàte.
Lasciando da parte la città della Tessaglia, Morciano rende, dunque, con il latino Castanea il greco Καστανία. Ritorno sul problema dell’accento di Castanea che avevo lasciato in sospeso dicendo che, se dovessimo rispettare l’accento greco, dovremmo leggere Castanèa (da un più fedele, rispetto all’originale greco, Castanìa), se quello latino Castànea (da Castània), come succede per l’italiano filosofia che segue l’accento dell’originale greco (φιλοσοφία) e non della sua trascrizione latina (philosòphia).
Qualunque sia l’accento, la parola in questione potrebbe essere connessa con il nome comune κασταναία (leggi castanàia) che significa castagna e ci potrebbe essere l’allusione, tanto per la città greca quanto per la nostra, ad un bosco di castagni. Il Morciano non lo dice espressamente ma non credo sia casuale il fatto che abbia messo insieme Castanea, Castanum e Castanetum1, ben separati dai successivi, anche in senso cronologico, Castrum Lilium, Castrum Munitum, Castellanitum e Castellanetum.
Soffermerò ora la mia attenzione su questo secondo gruppo. Messo da parte il presunto bosco di castagni, qui il protagonista è diventato Lilio il cui ricordo nel toponimo sembra sbiadire col passare del tempo: prima Castrum Lilium (Fortezza Lilio), poi Castrum Munitum (Fortezza ben dotata) e poi, sostituito castrum con il suo diminutivo castellum, Castellanitum e Castellanetum.
Il primo gruppo comporterebbe un’origine greca forse antica del toponimo, il secondo un’origine latina e più recente e, anche se Castrum Lilium venne realmente costruita sulle rovine di Castanea, il Cast– in comune, per quanto ho detto, sarebbe assolutamente casuale.
Ai toponimi tramandatici dal Morciano e quale probabile padre di Castellaneta va aggiunto il Castrum Aneti attestato in Guglielmo Apulo (XI-XII secolo), Gesta Roberti Wiscardi, III, 673-678:
Non sine militibus multis petit ipse Tarentum;/protinus obsessum terraque marique recepit./Hinc positis castris Castellum victor Aneti/obsidet. Inde Petrum comitem miserabilis angit/anxietas, quia visa duci fortuna favere/est inimica sibi, pacem veniamque requirit./Dux per legatos, quos miserat ille, relegat,/ut sibi cum Trano Castellum donet Aneti;/ni dabit ista, frui non pace merebitur eius.
(Non senza molti soldati egli [Roberto il Guiscardo] marcia alla volta di Taranto; subito la riconquista dopo averla assediata per mare e per terra. Qui il vincitore, posto l’accampamento, assedia il Castello di Aneto. Poi una miserevole ansia tormenta il conte Pietro [Pietro II] e poiché sembra che la fortuna, a lui ostile, arrida al duca, chiede la pace e il perdono. Il duca tramite gli ambasciatori che gli aveva mandato gli ordina di donargli con Trani il Castello di Aneto; se non glieli darà non meriterà di godere della sua pace)
Quest’ultima testimonianza complica ulteriormente le cose perché se Aneto è da intendersi come nome comune (è irrilevante il fatto che nel codice compaia con l’iniziale maiuscola e che in latino aneto sia anethum, dal greco ἄνηθον?), vale a dire quello dell’essenza vegetale simile al finocchio, Castellaneta potrebbe essere in connessione con la sua abbondanza in loco, almeno nel passato.
Pacichelli (A, pag. 164)
Pacichelli (C, anno 1686 e 1687)
Ubbidisce Acquaviva al Prencipe Mari Genovese, padrone anche della terra di Gioia, pocomen che infelice, e della città di Castellaneta, feconda di manna, pece, incenso, olivi et altri doni di natura, mal però fabricata.
Di buon’ora, dopo dodeci miglia, mi raffrescai alla Regal Cavallerizza in Avignone e in casa del marchese di Sant’Eramo Caracciolo, regalato di vino e frutta da Don Gioseppe, suo cappellano. Per altre 18 la sera all’occhio di Castellaneta, città del Principe di Acquaviva, con infelici fabriche quasi alle falde di un colle.
1Duomo/Cattedrale o Chiesa di S. Nicola (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Cattedrale-cast.jpg)
2 Palazzo del Vescovo (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Palazzo_Vescovile.jpg)
3 Palazzo del Barone (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Palazzo_Baronale.jpg)
4 S. Chiara/via V. Emanuele 115-117 (mappa/immagine tratta ed adattata da Google Maps)
5 S. Domenico (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Chiesa_S._Domenico.jpg)
9 Cappuccini/S. Francesco (mappa/immagine tratta ed adattata da Google Maps)
10 S. Michele (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Chiesa_S._Michele.jpg)
11 S. Maria del pesco/S. Maria del pesco o Maria Santissima Assunta o Santa Maria della Luce (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Chiesa_dell%27Assunta.jpg)
12 Madonna del soccorso/Madonna dell’aiuto (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Chiesa_Madonna_dell%27Aiuto.jpg)
Nell’ordine: (dalla mappa) gli stemmi delle famiglie De Mari e Doria; Carlo I De Mari (1624-1697) aveva sposato nel 1653 Geronima Doria e nel 1666 aveva acquistato Castellaneta che alla sua morte passerà al figlio Carlo II; (da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Castellaneta-Stemma.png) lo stemma attuale.
1 Il lettore avrà notato che il Morciano non cita le fonti da cui ha probabilmente tratto i toponimi. Scoprirlo è impresa ardua e posso dire solo che Castanetum ricorre nel Chronicon breve Northmannicum de rebus in Iapygia et Apulia gestis in Graecos (1041-1085) di ignoto autore (cito dall’edizione del Muratori tratta da un codice, probabilmente degli inizi del XVI secolo, dell’archivio della curia vescovile di Nardò, nella Patrologia del Migne serie II tomo CXLIX, 1853, colonne 1085 e 1086 ):
Anno 1064. Robertus comes cepit Materam in mense Aprili; et mense Junio Goffridus comes comprehendit Castanetum. Et mense Septembri mortuus est Malgerus comes, et deinde mortuus est in Tarento Guilielmus comes eius. Anno 1067. Mabrica cum exercitu magno Graecorum fugavit Northmannos, et iterum intravit Brundisium, et Tarentum. Postea ascendit super Castanetum, et recepit eam.
(Nell’anno 1064 il conte Roberto prese Matera nel mese di aprile; e nel mese di giugno il conte Goffredo prese Castaneto. E nel mese di settembre morì il conte Malgero e poi morì in Taranto il suo conte Guglielmo. Nell’anno 1067 Mabrica con un grande esercito di greci mise in fuga i Normanni e di nuovo entrò in Brindisi e Taranto. Poi salì su Castaneto e la riconquistò).
Anno 1080. Robertus dux intravit iterum Tarentum, et Castanetum.
(Nell’anno 1080 il duca Roberto entrò di nuovo in Taranto e Castaneto).
La poesia misura e quantifica la felicità. Il poeta entra nei luoghi della felicità: un giardino aperto, non concluso, sempre in fiore. Esce e ne dà in versi la genesi, magari abusando con immagini suggestive, ma con la consapevolezza di cantare i sentimenti più immediati, facilmente riconoscibili, nonché i disagi, le ricorrenze, le gioie, le meditazioni su cose personali, per potere ritornare sorgente, ossia sorgere in una condizione diversa dove il ritorno sistemico della quotidianità è in parte addolcito dal pensiero di poter – appunto – sorgere non con le leggi della fisica ma della metafisica.
Alessandra Peluso nel suo Ritorno Sorgente (LietoColle, 2013) pone in maniera delicata l’intento di dimostrare che la realtà non è conforme a ragione, bensì al sentimento, difatti con È la primavera che s’imbarazza di colori, rivendica la semplicità di una natura umile, non superba e ghirlandata di colori, dove è possibile innalzare lo spirito nel confine dell’inconoscibile. La poesia non è al servizio della verità, che della realtà è la lente d’ingrandimento e la fonte di conoscenza, piuttosto è disincanto del mondo, forza che sconfigge l’irrazionale e ne adombra anticipazioni di senso e di non-senso. Pare questo dunque il messaggio della poetica di Peluso, compiendo un viaggio stupefacente nella natura per sentire, ascoltare, origliare musica e poesia. La poesia nei versi di Ritorno Sorgente è visione innocente di un mondo che si svela con umiltà attraverso la forza dell’immaginazione che ne celebra le bellezze nei ritratti rasserenanti, quasi in comunione con il divino. La poesia di Peluso è costruita con lucidità è sincerità senza ricorrere in alcun modo alla retorica e all’autoinganno, valga per tutti “Ti amo”, potrei dirgli/ ma nonso se è amore, o voglia/ di amare qualcuno o nessuno// oppure è forza vitale che spinge/ fa affiorare passioni da mare/ l’amore d’amare. C’è la voglia di amare e la responsabilità d’amare, distillata dall’umiltà di conseguire la felicità dell’amore, esponendosi al rischio del fallimento, ma consapevole di non dovere rinunciare.
La felicità deriva dal desiderio e dalla fantasia che in maniera temporale si basa sul futuro, giacché quando è raggiunta nel presente tende inesorabilmente a dissolversi nella nostalgia. È essa lo stato d’animo di chi si ritiene soddisfatto nel conseguimento di piacere naturali e necessari secondo il pensiero epicureo. Insomma misurarsi con la felicità significa non eccedere nell’abbondanza, ‘vivere con misura’. Considerato che la felicità è un’emozione soggettiva, il suo raggiungimento è influenzato da molti fattori, che possono – in molte occasioni – drogarla; oppure renderla davvero fruibile a condizione che sia manifestazione dell’esercizio del sentimento, nel senso che nel perseguirla deve prevalere la misura di appagamento e di accettazione di quanto effettivamente desiderato e ottenuto, senza lasciarsi prendere la mano.
In Ritorno Sorgente è percepibile la misura della felicità, intesa come esplosione di gioia e di colore, come vita che cresce, sapendo anche alzare le spalle alle negatività per rinascere, mettendo da parte le illusioni e guardare in faccia la realtà. Queste poesie di Alessandra Peluso fanno bene, distolgono i pensieri dalle cose minime della vita, invitano il lettore a non considerare il nichilismo, ma a dare uno sguardo al vivere con attenzione per dare un tono maggiore di musicalità al proprio io e scongiurare l’inaridimento dell’anima. Sono anche un monito per opporsi alla diseducazione dell’affetto, alla famelica ossessione di procacciarsi piaceri con istinti vampireschi che impallidiscono le affezioni alle cose.
I fatti della poesia sono spesso indicativi delle metamorfosi profonde delle civiltà. E i poeti sanno quella commozione di fronte a qualcosa di vero. La commozione dinanzi a qualcosa di bello, di giusto, rende quella cosa cara (Davide Rondoni, in Il fuoco della poesia, Rizzoli, 2008).
“Uccise i meridionali”. Venezia toglie il nome alla piazza intitolata al Generale Cialdini.
Parte da Venezia, e precisamente dalla municipalità di Mestre, l’opera di revisionismo storico tanto agognata nel Sud Italia. Strano a dirsi, più facile a farsi. Il consiglio comunale del capoluogo veneto ha approvato a fine dicembre una mozione per eliminare il nome del generale Cialdini dallo stradario cittadino.
Per chi non lo sapesse, Enrico Cialdini fu elemento di spicco dell’esercito piemontese ai tempi del re Vittorio Emanuele II di Savoia ed uno dei protagonisti delle stragi nel Mezzogiorno durante l’opera di unificazione del Paese nel 1861. Proprio in quell’anno (precisamente nel mese di agosto) Cialdini venne inviato a Napoli con poteri eccezionali per affrontare l’emergenza del brigantaggio (fu nominato pochi giorni prima Luogotenente del re nell’ex Regno delle Due Sicilie). Il generale comandò una dura repressione con arresti in massa, esecuzioni sommarie, distruzione di casolari e masserie, vaste azioni contro centri abitati come l’eccidio di Casalduni e Pontelandolfo.
Una carneficina passata per tanti, forse troppi anni, come atti eroici per la liberazione della Penisola ed inserita come tale nei libri di storia. Oggi invece, l’incrocio tra via Colombo, viale San Marco e via San Pio X in Mestre cambierà nome perché un omicida non merita una piazza intitolata in suo onore.
La delibera approvata il 17 dicembre 2013 dai rappresentanti cittadini ha ottenuto 25 voti favorevoli ed un solo astenuto che, guarda caso, è esponente della Lega Nord.
“Ne avevamo parlato in giunta alcuni mesi fa su segnalazione dell’assessore Tiziana Agostini – ha spiegato il vicesindaco Sandro Simionato – lei ha sollevato il problema invitando a ragionare su altri nomi da dare al piazzale che sta per ospitare l’interscambio del tram”. Una scelta che farà sicuramente piacere a tanti gruppi e associazioni di stampo meridionalista da anni in lotta per far conoscere la verità su quanto accadde in quel periodo. Un tempo tinto di rosso sangue, quello dei figli del Sud Italia massacrati dalla ferocia di personaggi oscuri come il generale Cialdini.
Quando dalle consultazioni on line per il Presidente della Repubblica venne fuori il nome di Rodotà mi sentii infinitamente ignorante perché non conoscevo a fondo l’uomo e il suo pensiero, pur sapendo bene cosa rappresentasse quella figura nel mondo della sinistra.
Così decisi di comprare il suo ultimo libro, “Il diritto di avere diritti” e iniziai a leggerlo nei ritagli di tempo che di solito dedico alla lettura.
Pagina dopo pagina mi ritrovo a leggere una riflessione sui diritti dell’uomo nel solco di teorie che conosco bene e che credo stiano diventando sempre più centrali per comprendere quello che oggi molti chiamano “cambiamento”, senza avere piena coscienza della portata di questo termine.
I continui riferimenti del giurista alle teorie degli anni sessanta formulate dalla scuola di Toronto che hanno visto come precursori Innis e Mc Luhan sono chiari pagina dopo pagina, così come è palese il richiamo ad andare “oltre il senso del luogo” per comprendere meglio i limiti e le potenzialità di una società in continua e inarrestabile metamorfosi.
La scuola di Toronto, appunto, formulò quasi 50 anni fa la teoria del determinismo tecnologico, secondo la quale tutti i mutamenti nelle società sono stati in gran parte determinati dalla comparsa sulla scena di nuove tecnologie. Così il fuoco (inteso come la possibilità di avere luce anche di notte e dunque estensione degli occhi), la ruota (possibilità di spostarsi più rapidamente e dunque estensione delle gambe), il papiro poi carta e infine libro (estensione della parola “pensata”), per arrivare all’era elettronica (estensione del sistema nervoso centrale) della quale siamo i protagonisti, sono i motori fondamentale dei vari cambiamenti e rivoluzioni che l’uomo ha in parte subito nel corso della storia.
Da un punto di vista generale l’impatto dei media elettronici sulla società ha alterato il contesto situazionale classico creatosi in seguito alla diffusione della stampa che, negli anni, ha contribuito a “dividere” persone diverse in mondi informativi molto diversi basati su formazioni e interesse per generi diversi.
Questa tendenza è stata accentuata dall’ isolamento di individui in “luoghi” (fisici e informativi) diversi, creando così differenti identità sociali basate sulle esperienze specifiche e limitate che si potevano vivere in determinati “posti” o in base al diverso grado di comprensione della scrittura. Esistono libri per bambini, riviste per sole donne o per gli appassionati di caccia, ma in rete può esistere un sito di politica gestito da un comico di professione. La realtà sociale alla quali siamo abituati si “allarga” in questo luogo nuovo in cui i ruoli sociali classici assumono carattere diverso a seconda degli interessi dei singoli al di là delle loro specifiche professionalità. Si può tornare a fare il mestiere per il quale si ha una specifica preparazione, ma questo non impedisce a nessuno “invasioni” del tutto legittime in altri campi, purché accettate come credibili e al netto dalla pregiudiziale derivante dal settore professionale di provenienza.
Non è un caso che la rivoluzione femminista degli anni sessanta e settanta in America coincida con l’arrivo nelle case statunitensi della televisione, medium elettronico che ha permesso alle casalinghe del tempo di “vedere” la vita oltre le mura domestiche e ribellarsi alla struttura patriarcale che le aveva costrette al perenne ruolo di custodi del focolaio domestico.
Se c’è un aspetto sociale che la rete mette sotto i riflettori permettendo una riflessione non scontata è la partecipazione. Partecipare alla vita sociale di una comunità vuol dire trattare insieme ad altri soggetti questioni che riguardano il senso comune delle cose, dai fatti della vita alle regole della comune convivenza di una comunità. Ecco che partecipare vuol dire interessarsi di un argomento ritenendolo utile al progresso della comunità della quale si ritiene di far parte. Ma se nella vita reale interessarsi, quindi partecipare, richiede la presenza in luoghi specifici in momenti particolari della giornata o in giorni determinati della settimana (vedere una partita di calcio o assistere ad un consiglio comunale richiedono la presenza in luoghi determinati nei giorni prefissati) quando si è in rete la concezione stessa dell’interesse che riponiamo in una determinata attività cambia sostanzialmente a seconda dei fini che personalmente rincorriamo.
Una volta che le informazioni sono in rete tutto cambia, abbiamo la possibilità di scegliere di vedere il consiglio comunale piuttosto che la partita quando vogliamo, dando all’informazione una nuova vita che va oltre il luogo fisico o il tempo nel quale è stata generata. Questo nuovo luogo, la rete, non decontestualizza l’informazione come fanno i vecchi media cartacei o i primi media elettronici (televisione) ma la conserva nella sua forma essenziale in quanto riproduce fedelmente la realtà che ha prodotto quella stessa informazione, il contenuto è stato prelevato alla fonte e “congelato” in rete così come è nato. E se modificato, alterato nel senso del significato o ulteriormente mediato viene riconosciuto come falso, manipolato e non accettato come credibile. Ecco che nasce un percorso inverso a quello che ci ha portati all’individualismo cronico di cui le società contemporanee sono la massima e, contemporaneamente, ultima espressione.
Il fatto stesso di sentirci partecipi di più esperienze nello stesso momento e indipendentemente dal luogo fisico in cui ci troviamo rende vulnerabile il nostro individualismo, messo a dura prova dagli effetti collettivistici che contraddistinguono l’ambiente creato dalle nuove tecnologie elettroniche, che oggi hanno la forma materiale di un libro pur non presentando i limiti informativi e di portabilità che contraddistingono il classico volume cartaceo. Il mondo così come lo conosciamo sta per finire, o comunque è in profonda crisi proprio perché affronta questo cambiamento epocale, del quale la storia ricorda pochi ma incisivi precedenti. Ultimo di questi è senza dubbio collocabile intorno al XV secolo quando Gutenberg inventò la stampa a caratteri mobili, la prima stampante in serie della storia. Da quel momento il libro passò da oggetto per pochi a strumento di molti, insieme alle informazioni e alla professionalità che in esso erano racchiuse. Allo stesso modo Jobs, circa 500 anni dopo, ha messo nelle mani di molti una tecnologia altrettanto innovativa e dallo stesso carattere rivoluzionario. Non è difficile immaginare gli sviluppi dei prossimi decenni se si analizza il passato in chiave tecnologica, così come non è impossibile ignorare la portata del cambiamento in atto imposto dalla presenza sulla scena mondiale di strumenti che fanno girare informazioni di ogni tipo e che di fatto mettono l’individuo mettendolo in condizione di “essere dove vuole quando vuole”, in base alle informazioni che ritiene opportuno andarsi a cercare.
In quest’ottica assume un significato nuovo anche il binomio Globale/Locale, che lo stesso Rodotà identifica come “Glocale”, un nuovo modo di intendere il rapporto tra singoli locali e l’insieme che uniti, o meglio connessi, rappresentano; sia per quanto riguarda l’approccio ai diritti fondamentali dell’individuo sia per quanto riguarda la gestione collettiva degli spazi fisici che come piccola comunità, tutti i giorni, siamo chiamati ad occupare.
Parlare oggi del futuro di un luogo inteso come Locale nel quale ci rapportiamo non può prescindere da queste considerazioni, così come non si può parlare di cambiamento se non si prendono in seria considerazione tutte le implicazioni che questo termine deve portare nelle vite dei cittadini della nostra comunità, sia dal punto di vista del singolo individuo sia come comunità. Il rischio di continuare ad essere provinciali, approssimativi e poco incisivi nel sistema è alto, così come è indubbio la nostra scarsa propensione alla “concorrenza leale” nei confronti di un globale del quale facciamo parte e che riguarda tutti quei borghi che fanno della loro unicità il punto di forza per uno sviluppo sostenibile della popolazione e del territorio. Lavorare per un’inversione di rotta non è cosa semplice e non lascia, a mio avviso, spazio a mediazioni o intese tra parti politiche orientate alla pura conservazione di strutture ormai obsolete e non in grado di rappresentare istanze di carattere collettivo.
Pietro Marti ( Ruffano,1863- Lecce,1933) fu saggista, studioso di storia, arte e archeologia, giornalista, docente, ispettore onorario ai Monumenti, e direttore della Biblioteca Provinciale “Bernardini” di Lecce, nella quale si conservano una quarantina di sue apprezzate opere, volte al recupero delle memorie patrie della Terra di Salento.
La vivacissima attività giornalistica di Pietro Marti, iniziata poco più che ventenne e alimentata per l’intero arco della sua esistenza, si manifestò con un innato spirito creativo tale da farlo misurare subito alla direzione di qualche foglio, da lui fondato e diretto, senza quasi passare dalla fase di semplice pubblicista, appassionato dello strumento della comunicazione cartacea di riviste e giornali.
La sua attività, nel complesso, si articolò lungo due principali filoni produttivi: la collaborazione a giornali affidati alla direzione di altri colleghi e le prestigiose iniziative, fatte su diverse testate, di fondazione e direzione di giornali e riviste d’ampio respiro, compito assunto in prima persona, con costanza e ardito piglio giornalistico.
Egli era nato a Ruffano il 15 giugno 1863, dal padre Pietro, occupato come cancelliere presso il regio giudicato di quel circondario e dalla madre Elena Manco, contadina quarantanovenne, che dovette presto occuparsi da sola della sua educazione per la prematura scomparsa del padre. Compiuti i suoi primi studi in patria e poi a Lecce, conseguì con profitto la patente di maestro elementare. Ottenne la prima nomina in una pluriclasse del comune di nascita, Ruffano, ma contrasti con quella amministrazione comunale (e la sospensione dello stipendio nel luglio 1883), per i quali produsse ricorsi persino al Consiglio di Stato, lo spinsero a spostarsi presso scuole di Comacchio. Qui, accanto all’attività d’insegnamento e alla proficua produzione delle prime monografie di ambito storico, affiancò presto una febbrile attività giornalistica. Successivamente si spostò a Taranto e Lecce, dove fondò e diresse diverse giornali e riviste.
Nella sua casa leccese costituì grande figura di riferimento per il giovane nipote, l’adolescente Vittorio Bodini. Al piccolo Vittorio, infatti, figlio di Anita Marti, era mancato irrimediabilmente il rapporto con la giovane mamma, approdata a nuovo matrimonio con Luigi Guido, e costretto a rimanere per tutta l’infanzia in casa del nonno materno, e lontano dai quattro fratelli nati dal patrigno.
Così, stando alla traccia biografica dell’esegeta e amico della prima ora, suo conterraneo, Oreste Macrì, Bodini visse con Pietro Marti la prima delle sue “sette vite”, quella dell’infanzia e dell’adolescenza futurista.
A Lecce, accanto al nonno, l’inquieto Bodini apprese a conoscere menabò e ogni fase di allestimento d’un giornale, e da cui fu certamente spinto a compiere i primi approcci con l’attività scrittoria, che tanto lustro diedero alla letteratura di tutto il Salento.
Pietro Marti produsse nella sua vita una quarantina di opere di carattere storico-artistico, tra cui le più famose “Origine e fortuna della coltura salentina”, oltre a tenere decine di conferenze in tutta la Puglia. Per oltre un ventennio raccolse attorno a sé giovani artisti salentini, che si prodigò di far conoscere al grande pubblico. Divenne poi Ispettore onorario dei Monumenti e Scavi per la Provincia di Lecce e direttore della Biblioteca Provinciale “N. Bernardini”, per cui lasciò un prezioso “Catalogo bibliografico delle Opere di scrittori salentini” (1929). Morì a Lecce il 18 aprile 1933, lasciando un grande vuoto negli ambienti storico-artistico e giornalistico dell’intera Puglia.
Interessante è soffermarsi, a questo punto, sull’attività giornalistica affrontata da Marti in qualità di direttore, cui non riusciva difficile fondare di sana pianta nuove testate, quasi in ogni città che l’avevano visto vagare su e giù per la Penisola.
Prestigiosa, agli occhi di molti estimatori, apparve la sua attività giornalistica di direzione-produzione di fogli di grande respiro e di forte impatto culturale nell’intero Salento e nelle maggiori città di Puglia.
Appena ventiseienne Pietro Marti, alla luce anche dell’esperienza del collezionista Nicola Bernardini, che l’anno precedente, nel 1896, aveva suscitato scalpore con la ghiotta pubblicazione sulla storia del giornalismo leccese (Giornali e Giornalisti Leccesi, Lecce, Ed. Lazzaretti, 1896) dal 1808 al 1896, intraprese l’avventura della direzione in città del settimanale “La Democrazia”. Grande era infatti, nel capoluogo leccese l’esigenza d’una grande spinta all’informazione periodica, sebbene le statistiche ufficiali ponessero Lecce tra le città italiane con maggiore presenza di testate.
La rivista fu sospesa per alcuni anni, durante i quali Marti, trasferitosi prima a Comacchio, poi a Taranto, dove aveva fondato altri giornali come “Jonio (1896), “Il Lavoro” (1898), “La Palestra” (1902), aveva continuato la sua vivace attività di giornalista, oltre che quella di docente nelle Scuole pubbliche. Il settimanale leccese, “La Democrazia”, riprese le nuove pubblicazioni con due numeri di saggio, il 6 e il 13 dicembre 1902, ma col sottotitolo di “Pugliese”, poi soppresso, stampato nella Tip. di L. Carrozzini e M. Ghezzi. Con il numero 4 uscì dalla Tipografia Garibaldi, col numero 16 fu aggiunto il sottotitolo di “Corriere Salentino politico amministrativo, commerciale letterario”, presso la Tipografia Giurdignano.
Subì poi interruzioni ed ebbe riprese editoriali; ma la regolarità delle pubblicazioni
non fu sempre rispettata. Nel 1913, anche se per breve tempo, figurò direttore Pietro Massari.
“La Democrazia”, ceduta in proprietà al senatore Tamborrino, uscì, sempre sotto la direzione di Marti, in edizione quotidiana, durante il periodo elettorale dal 21 ottobre 1919 fino al giugno 1920 dalla Tip. Leccese Bortone e Miccoli. Memorabili le polemiche personali asperrime, violentissime che Pietro Marti sostenne contro Nicola Bernardini, che lo ricambiò con eguale moneta sulla sua “Provincia di Lecce”, polemiche ripetutesi ad intervalli durante un trentennio, e che spesso finirono in processi da cui Marti ne uscì sempre assolto.
Intanto, nel 1891, Marti aveva diretto il foglio settimanale leccese L’Indipendente , che trattò ambiti di politica amministrativa, commerciale e naturalmente anche di arte. Vi collaborò Giuseppe Petraglione e i numeri furono stampati presso gli stabilimenti Scipione Ammirato e Garibaldi.
Nel periodo di permanenza a Taranto, Marti volle subito misurarsi in quel contesto con la direzione di alcuni giornali. L’esperienza maturata a Lecce, infatti, costituirono una grande premessa per risvegliare la città jonica dal torpore nel quale sembrava fosse da tempo precipitata.
Cominciò nell’aprile del 1896 con “Il Salotto”, una sorta di biblioteca tascabile, stampata presso l’Editore Salvatore Mazzolino.
Un foglio, dal titolo analogo, diretto da Niccolò Foscarini, aveva avuto breve vita a Lecce, dall’ottobre 1885 al novembre 1886.
Il primo fascicolo jonico, di trenta paginette, uscì il primo aprile 1896. Il numero complessivo delle uscite, stando alla testimonianza di Nicola vacca, ammonta a otto. Nella pubblicazione trovarono spazio anche poesie di Emilio Consiglio, Luigi Marti, Giuseppe Scarano e Giuseppe Gigli; conferenze di Alessandro Criscuolo e Angelo Lo Re, un dramma di un atto di Michele De Noto. Ciò a comprova dell’interesse per la letteratura di Pietro Marti e di tutti i suoi collaboratori. Tra questi, il prof. Giuseppe Gigli, in una sua conferenza del 3 maggio 1890, letta nella sala dell’Associazione Giuseppe Giusti in Lecce e data alle stampe, per i tipi dei Fratelli Spacciante, aveva toccato ampiamente “Lo stato delle lettere in Terra d’Otranto”.
Nel maggio dell’anno successivo, Marti fondò a Taranto e diresse, in qualità anche di proprietario, “L’Avvenire”. Si trattò di un periodico bisettimanale, edito dalla Tipografia del Commercio, che stampò il primo numero il 3-4 maggio 1897.
Nel luglio del 1898 egli fece stampare un altro periodico, “Il Presente”, presso lo Stabilimento Tipografico di F. Leggieri: gli ambiti trattati andarono dal politico-amministrativo al commerciale, senza mai trascurare quello letterario.
Al periodo del suo ritorno a Lecce risale l’altra pubblicazione da lui diretta nel 1900, “L’Imparziale”, un periodico settimanale, che trattò argomenti politico-amministrativi, commercio e arte. I numeri pubblicati, videro la luce presso la Tipografia litografica dei Magazzini Emporio.
Un’altra importante direzione di Marti fu quella della rivista quindicinale d’arte e di cultura, “Fede”, pubblicata per Lecce e Taranto, a partire dal 1 dicembre 1923. Col primo numero dell’anno III (1 gennaio 1925), il formato divenne più ampio. I primi due fascicoli, di 16 pagine in 8°, si stamparono nella Tipografia Sociale di Oronzo Guido, i successivi nella Tip.-Litogr. Giuseppe Guido. L’ultimo fascicolo (16-17 dell’anno III) uscì il 15 novembre 1925.
Si trasformò poi, in giornale settimanale dal titolo “La Voce del Salento”, sempre diretta da Marti, a partire dal 15 gennaio 1926, per i tipi della Tip. Prim. “La Modernissima”, che fece sentire il proprio peso sull’opinione pubblica salentina sino all’anno della morte di Marti, avvenuta nel maggio del 1933. Vi collaborarono tra gli altri, Gregorio Carruggio, Pasquale Camassa, E. Alvino, Elia Franich, Luigi Paladini, P. Maggiulli, N. Vacca, presso cui fu reperibile l’intera collezione della rivista.
Alla scomparsa di Pietro Marti, non fu soltanto Lecce a perdere un’epigone del giornalismo militante, votato alla riscoperta e alla rivalutazione delle peculiarità storico-artistico-culturali di Terra d’Otranto, ma l’intera Puglia e la stessa Italia, nelle quali egli, sin da giovane e per diverse stagioni della sua esistenza, aveva operato battendosi con passione nel campo dell’istruzione, dell’informazione, della storia e dell’arte.
pubblicato nel bimestrale “Terra di Leuca”, Tricase, a. VII (novembre 2010), n. 39, p. 6.
C’erano una volta le scarpe da tennis, tela bianca o azzurra con lacci su suola di gomma.
In effetti, a prescindere dalla specifica definizione/destinazione, da queste parti non erano per niente utilizzate, salvo rarissime eccezioni, per la pratica, giustappunto, del tennis (dove stava di casa allora il raffinato sport, nel Meridione?), ma costituivano semplicemente una dotazione, per le ragazze e i ragazzi fra gli undici e i diciotto anni, per partecipare, una o due volte la settimana, alle lezioni scolastiche d’educazione fisica o ginnastica che dir si voglia.
Dette calzature erano più economiche di quelle normali, con tomaia di pelle e suola di cuoio; sicché, quando, in famiglia, le risorse finanziarie scarseggiavano, dovevano andar bene e bastare non solo per la ginnastica a scuola, ma indistintamente per tutti i santi giorni.
Oggi, delle scarpe da tennis nel senso ricordato, non v’è più traccia, o meglio, in giro si trovano le loro eredi – rielaborate e trasformate profondamente, al punto da far moda e tendenza – ammiccanti dalle vetrine, con sagome multi colorate e civettuole. I prezzi, però, non sono per nulla accessibilissimi, bensì medio alti, su certe marche quotano addirittura sino a 250 – 300 euro, roba da sbiancare.
Tra le marche cult, com’è noto, domina ed è particolarmente ambita, una contrassegnata dall’iniziale H, acca maiuscola.
Qualche tempo addietro, ero fermo, nell’attesa di un amico, nel grande atrio di un importante palazzo delle istituzioni pubbliche cittadine. Le persone vi affluivano e mi transitavano accanto a decine, a centinaia, di tutte le età, maschi e femmine: orbene, sembrerebbe impossibile, l’ottanta-novanta per cento di dette figure calzava pseudo – scarpe da tennis, con la mitica H ben impressa e risaltante.
Quante paia, dunque, da 250 – 300 euro, ad addobbare, a impreziosire gli arti inferiori di quei passanti!
L’amico che aspettavo, accortosi della mia attenzione e concentrazione, mi ha fatto notare testualmente: “Guarda che qui, pur di avere le scarpe targate H, la gente non esita a indebitarsi, a contrarre un prestito”.
Sono stato casualmente testimone di un altro volto della nostra contraddittoria Italia, chissà poi se d’impronta positiva o negativa; una faccia della medaglia che, davvero, nulla ha a che vedere con la genuina semplicità cantata da Enzo Jannacci nel suo mitico brano “El purtava i scarp del tennis”.
Fra confinanti ci si intende, verrebbe da dire. Ho conosciuto Ferdinando Boero qui a Lecce, io piemontese di Alessandria, lui ligure di Genova. La sua città è una signora, austera, fiera, ammaliante, seducente come solo le città di mare (e neppure tutte) sanno essere. E lui ha la simpatia tipica ed immediata di alcuni genovesi. Solo alcuni però molti sono come la città: austeri e seri. Immediatamente abbiamo legato, non certo per solidarietà fra immigrati, noi due siamo graniticamente salentini di adozione e (quasi) di tradizioni, proprio per l’immediatezza di dialogo e frequentazioni comuni, che denotano, ovviamente, interessi simili. Poi si scopre che Boero collabora con La stampa, Il Quotidiano di Lecce, Internazionale, riviste scientifiche, che lo chiamano in giro per il mondo perchè è uno dei massimi esperti a livello internazionale nella sua materia. E leggendolo non posso non condividere la sua battaglia che caldamente suggerisco alla Fondazione Terra d’Otranto di fare propria, per il cambiamento della Costituzione, non certo quello voluto da una parte dei parlamentari, per carità, lui propone che venga aggiunta una parolina che manca: Natura. Difesa della Natura, delle biodiversità, dell’ambiente.
Manca perchè i Padri Costituenti all’epoca non ne sentivano l’urgenza. Perchè non c’era unrgenza in realtà. Bene, Ferdinando Boero, incontrato di prima mattina in Piazza Mazzini, ha accettato di iniziare a collaborare con il sito e, spero, con il Delfino e la Mezzaluna. Ne siamo orgogliosi e lo ringraziamo veramente.
Curriculum vitae:
Nato nel 1951, ha studiato (poco) fino all’Università, quando ha scoperto che studiare è bello. E continua ancora adesso. Studia la vita nel mare, con una particolare attenzione per le meduse. Ma si interessa anche di Aree Marine Protette, di ecologia marina, e di evoluzione. E’ professore di zoologia all’Università del Salento, dal 1987. E associato all’Istituto di Scienze Marine del CNR e fa parte del Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Scienze del Mare.
Per 12 anni è stato presidente di un comitato della Commissione Internazionale per l’Esplorazione Marina del Mediterraneo. Attualmente fa parte dell’European Marine Board, un organo consultivo dell’Unione Europea. Ha pubblicato centinaia di articoli scientifici su riviste specializzate, e diversi libri scientifici. E’ molto sensibile alla divulgazione e, oltre a collaborare con diversi giornali e riviste, ha scritto tre libri “per tutti”: Ecologia della Bellezza; Ecologia ed Evoluzione della Religione; Economia senza Natura. La Grande Truffa.
Il suo lavoro è stato citato da riviste che vanno da Time a Topolino. Ha ricevuto diversi riconoscimenti, il più importante è una canzone dedicatagli da Frank Zappa: Lonesome Cowboy Nando.
Il generale José Borges, don Ciro Annicchiarico di Grottaglie e il lucano Carmine Crocco di Rionero in Vulture, fra gli altri, sono chiamati da Giorgio Cretì a illustrare la loro ‘lunga marcia, per i sentieri impervi della storia, grondanti sangue versato e illegalità, ruberie, espropri, con uno spirito ribelle contro l’ordine costituito dai piemontesi, nella libertà, nell’illusione di ricostituire il regno dei Borboni. Una illusione, per la verità, foraggiata dai nobili spodestati, retrivi, che mal digerivano questa incursione straniera nei loro possedimenti. Giorgio Cretì in questo lungo e appassionato racconto nella ‘Cucina e canti al tempo dei briganti’ segue le loro vicende umane dal punto di vista del cibo e delle melodie tristi e amorose che accompagnavano i bivacchi o le soste negli anfratti del territorio, in cui cercavano di issare i loro vessilli. Giorgio si è chiesto: ‘Che cosa mangiavano questi briganti e in quali dolci canzoni annegavano la tristezza della loro vita, la nostalgia di un amore?’ L’autore, come ha già dato prova nei precedenti numerosi saggi e ricettari e nei romanzi, non indulge a sentimentalismi o a simpatie di sorta. E’ sempre attento alla vicenda umana, alla cultura che traspare, attraverso il cibo, di una società semplice che fa dei prodotti che offre la natura un’arte, che va oltre la mera sussistenza. I cibi conservati innanzitutto, le cunserve, di bottarga, i formaggi (il cacioricotta), i salumi (la nduja), la ricotta ‘scante, le verdure sott’olio e sott’aceto, i fichi essiccati che tante generazioni di contadini e di poveri hanno nutrito, le carrube sottratte ai cavalli da pance fameliche degli umani, le patate lessate, in camicia, allu tianu, le spezie e prima fra queste il peperoncino, ‘il pepe del poveri’ come dice l’autore, la cunserva piccante, che arricchisce il desco popolare del suo sapore e dei suoi uschi, i gemiti per quanto brucia il palato e poi dopo, i legumi (lupini, fave, ceci e piselli, la cicerchia), i maccheroni, i funghi sulle montagne calabresi dell’Aspromonte soprattutto, il rancio somministrato nei luoghi più reconditi, utilizzando gli animali razziati dalle greggi o dalle masserie dei benestanti, facendo attenzione a non farsi scoprire dalla soldataglia che guardava in cielo per scoprire le volute del fumo e seguire l’odore di arrosto, la selvaggina e le erbe agresti, le erbe e malerbe, la papa(ve)rina innanzitutto, stufata con peperoncino piccante e olive nere. Tra un boccale di vino e l’altro, quando ormai la pancia era piena, allora solo allora tornava la nostalgia della casa, della famiglia e di un amore a cui si era scelto di sacrificare tutto, persino la vita. I canti, i cori, le filastrocche cantate, intonate o meno, ripercorrevano le storie fantastiche delle loro vite, chiudendo una giornata che tra mille rischi e pericoli li vedeva per loro fortuna ancora vivi. ‘Cucina e canti al tempo dei briganti’ di Giorgio Cretì, Capone Editore, Lecce, 2011, pp. 134, € 12,00.
A prima vista per la sua terminazione in –ano si direbbe un prediale; Carpinius risulta attestato nel CIL (Corpus inscriptionum Latinarum), 01, 02661; 03, 10721; O4,00017; 16, 00024. Altri mettono in campo la radice messapica karp=roccia.
Pacichelli (A), pagg. 178-179
Pacichelli, mappa
A Chiesa madre/M. SS. Assunta (mappa/https://ssl.panoramio.com/photo/13271858)
E S. Rocco (mappa).
Su preziosa segnalazione dell’amico Sandro Montinaro ho corretto la precedente didascalia in cui avevo erroneamente identificato la chiesa di S. Rocco con la cripta bizantina di Santa Cristina in largo Madonna delle Grazie (ne ho perciò eliminato la foto che prima vi compariva), citandolo alla lettera: La chiesa di San Rocco (E) non ha nulla a che fare con la cripta bizantina di Santa Cristina sita in largo Madonna delle Grazie. La chiesa, oggi non più esistente, sorgeva dove attualmente è il Municipio (XIX sec.). A testimonianza abbiamo: il toponimo (via San Rocco), l’edicola votiva in via San Rocco (proprio nelle mura dell’edificio comunale) e la tela raffigurante il Santo conservata nella Chiesa Parrocchiale di Carpignano. La tela ha, in basso a destra, l’arme civica di Carpignano.
F S. Giovanni Battista/Madonna della Grotta (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Carpignano_Madonna_della_Grotta.jpg)
G Palazzo del duca/Palazzo Ghezzi, via Roma(mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Palazzo_Ghezzi_Carpignano_Salentino.jpg)
Nell’ordine: (dalla mappa) la dedica All’Eccellentis. Sig.r D. Angelo Ghezzi Duca di Carpignano &t c(etera),lo stemma della famiglia (riprodotto nell’immagine di coda tratta da http://www.retaggio.it/onomastica/g/ghezzi-origine-cognome.asp), lo stemma della città e lo stemma attuale (da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Carpignano_Salentino-Stemma.png).
Pensavo al cuore che batte senza stancarsi mai. “Che macchina perfetta” diceva mio padre. Perché il cuore? Boh, mi è venuto in mente così. Il cuore in fondo è anche un simbolo, si dice per dire amore, o per dire infarto, dipende dai punti di vista. Viaggiando si impara, sculture di sabbia sulle spiagge, culi dorati, occhi chiusi al sole. Qualche libro. Poi la sera mangiando pesce fritto seduti su uno scoglio, poi la mareggiata contro le rocce, poi il cemento alzato e ancora rialzato perché il molo tenga. Un molo multistratificato a Castro marina. Dietro al molo, non verso il mare, proprio dietro, al bar, si legge il giornale e si commentano notizie. La politica (nulla a che vedere con la polis, piuttosto con il caos) stanca un po’. Un po’ tanto, un po’ troppo, e noi ne parliamo comunque, convinti che forse cambierà qualcosa… domani.
Intanto le rondini volano basse verso il tramonto, cercano qualcosa da mangiare, cercano di sopravvivere, anche loro hanno un cuore che batte.
“Visto che dice Berlusconi?” mi dice il barista che sa della mia insana passione per le cose della politica. Oggi non commento, lo guardo e gli chiedo “un bianco fresco, la primavera è calda quest’anno” non gli dico del cuore, neppure degli occhi sorridenti del bimbo sul passeggino. Macchè, sto pensando ad altro, a quel dolorino che mi perseguita ed io dal medico prima o dopo ci andrò. Ma sto pensando a quelle alzate alle quattro del mattino perché gli occhi si spalancano da soli e cercano l’orologio che spara sul soffitto i numeri delle ore. Comodo guardare l’ora stando coricati. Poi il primo caffè. Poi il secondo mentre il tempo batte con il cuore e i pesci nel mare che si fanno gli affari loro, e fuori le rondini del mattino iniziano con le prime luci a svolazzare qua e là. Lo so, sto scrivendo parole in libertà, senza coda e senza capo, senza capo e senza coda. Parti dal cuore e finisci nel pesce fritto così, come se fosse normale. Le parole sopra le scrivevo nella primavera 2013. Le ho trovate sperse fra le pagine del computer il giorno della befana del 2014.
Neppure fosse passato un attimo, anche oggi ero a Castro al sole. Quasi un pellegrinaggio a sentire il profumo del mare, a vedere barche stanche e il barista, un altro stavolta, una botta di vita non guasta, a Castro si può. Questo non dice di politica, in realtà dice solo l’essenziale, forse ha esaurito le parole. Forse le emozioni, chissà.
Castro, il mare, un bianco fresco bevuto al sole caldo. E un pensiero banale che mi sfarfalla in testa come una falena da qualche giorno: “due è fatto da uno e un altro uno. Due non esiste nella realtà”. Ecco, l’ho detto. La coppia è fatta di due facce, due corpi, due modi di emozionarsi, di pensare, di vedere il rosso e il giallo, di pensare al sorriso del bimbo sul passeggino. Se così non fosse sarebbe un Giano bifronte.
Ogni/uno ha la sua specificità, a volte la sua incomunicabilità. Ogni uno ha la capacità di vedere l’altro uno, a volte di parlargli. Apparentemente questione di lana caprina, l’ovvio, l’assurdo. Però poi condividi e ci pensi, e va a finire che ti dici che in fondo è la meraviglia dell’essere uno che avvicina, intreccia, sublima, integra. Essere due volte uno, spesso aiuta a stare da soli. Si è due (uno più uno) anche quando ci si tiene per mano ognuno con il suo pensiero.
Salento! Terra di ulivi e terra dove c’è Castro e il mare che ti fa pensare (quando sei in due) che in fondo è bello essere uno. Salento di Dolmen e Menhir. San Giuliano è una frazione di pochi abitanti, la notte è silenziosa con il cane che abbaia quando passi e rompi il silenzio senza parlare, basta muoversi per farsi ascoltare. A San Giuliano c’è un ristorante con il ristoratore che ama l’arte. Se vai in bagno ci sta appeso il puzzle di uno dei quadri più imponenti della storia dell’arte contemporanea, in realtà non è bello, però è di una potenza che ti fa volare, l’Urlo di Munch. Lo guardi e ti chiedi se quel signore che corre urlando (lui è uno) sta fuggendo da una tragedia o sta andando verso il dramma che ha visto. Per meglio vedere, forse per portare aiuto e conforto. Magia del Salento anche questa, magia di un altro Uno (il ristoratore) che ti costringe, anche in bagno, a pensare di non poter essere solo.
In Piemonte, a Natale, ho mangiato agnolotti e porceddhuzzi. Poi ho portato qui un vino che mi hanno regalato, è portoghese. Dalla terra del Negramaro a quella del Barolo e del Barbera ed io arrivo in Salento con vino portoghese. Ah, la globalizzazione
L’affermazione, solo apparentemente scontata, trova sostegno nella acquisita consapevolezza che l’arte del passato continua a comunicare, comunque e, indipendentemente dalla conoscenza che si ha della vita privata e, a volte, intima, degli artisti che l’hanno generata.
Chiariamo il concetto:
L’arte contemporanea, intendendo con questi termini anche e soprattutto, quella di ricerca più avanzata, per essere compresa appieno e quindi goduta, consumata, fruita, non può, assolutamente, prescindere dal vissuto quotidiano dell’autore, dell’uomo-artista.
Soprattutto del quotidiano vissuto in età giovanile, cioè durante la formazione della coscienza civica ma, anche, senza ordine di importanza, della coscienza etica, estetica, sentimentale ed emozionale dell’Uomo.
Per queste ragioni, in questa sede, parleremo dell’uomo prima, per arrivare, poi, a dare spessore alla affermazione iniziale: EZIO SANAPO, artista contemporaneo.
La storia personale di Sanapo è una storia che si dipana con una serie di fatti, di eventi significativi, di quelli che segnano la memoria in modo indelebile. Fatti da lui stesso rievocati durante alcuni colloqui con il sottoscritto. E’ una storia, potremmo dire, fatta, in sostanza, di negazioni e impedimenti.
Sanapo non vanta paternità artistiche, non ha frequentato una scuola di formazione specifica. Nè istituto d’arte, nè Liceo Artistico. Neppure lo studio privato di un qualsiasi maestro locale. Si ritiene, con un velo di orgoglio, autodidatta assoluto.
Dopo la quinta elementare è impedito agli studi dal padre, muratore, il quale vuole che il figlio segua le sue stesse orme.
Da ragazzino, in conflitto con il padre è costretto a inventarsi, per rendersi autonomo, attività riduttive. A diciotto anni appena compiuti, sempre per volere del padre, emigra in Svizzera.
Tutte queste circostanze gli consentiranno la conoscenza e l’importanza dei rapporti umani a contatto con lavoratori di paesi ed etnie diverse.
L’irrigidimento dei sentimenti, dunque, diviene sistema-espediente educante alla durezza della vita che, per la psiche di un bambino, è come fuoco ardente di una forgia, che rende molli i metalli, ai quali, se non si da nuova forma, restano materia grezza.
La pittura è il suo modo di comunicare e riempire il vuoto di sentimenti non corrisposti ma anche e soprattutto, per conoscere la realtà che lo circonda e smascherarla quando assume forme virtuali e fittizie.
Sostiene che “l’arte è militanza civile, serve per stimolare le coscienze”, per lui “l’artista è uno stato d’animo”.
Al suo ritorno in Italia prende coscienza della perdita di identità del ceto popolare al quale sente di appartenere e perciò, negli anni settanta, cerca di recuperarla svolgendo concretamente volontariato in attività politiche e sindacali.
Acquisisce la consapevolezza che il suo essere artista debba considerare non solo gli aspetti estetici ma anche e, soprattutto, la responsabilità etica e politica, di rendere visibili le forme possibili della realtà irreale, priva dei punti di riferimento, tradotte in maniera figurativa.
Orienta la sua ricerca artistica con una certa attenzione al mondo operaio e contadino, trattando argomenti come i diritti negati allo sfruttamento dei lavoratori. Tematiche sociali riguardanti attività lavorative insolite quanto provocatorie.
Estremamente provocatore per quel periodo, come ad esempio nell’opera raffigurante l’uomo dedito al ricamo, un tempo esclusiva attività della identità femminile. Non si comprese, invece che era la rappresentazione di un cambiamento epocale della società. Che il lavoro non sarebbe appartenuto più ai generi maschile o femminile. Non ci sarebbero stati più netturbini o soldati solo maschi, ne ostetriche o ricamatrici solo femmine. Ce l’avrebbe imposto la precarietà e la diminuzione del lavoro, il grande problema che oggi tutta l’Europa conosce bene. Sanapo si rivela dunque più provocatore, vate, trent’anni prima, di una drammatica e irrisolvibile, sembra, situazione lavorativa attuale.
Sin da domenica 5, giorno della vigilia, ho puntualmente avvertito intorno a me l’atmosfera caratteristica e, in certo senso, unica, della ricorrenza: insistiti concerti di discorsi, immagini e manifestazioni su calze e doni, con la classica vecchietta a cavallo della scopa.
In aggiunta, anche questo è ormai un rito, le anticipazioni promozionali sull’evento, in programma nella serata del 6, relativo all’estrazione dei premi della Lotteria Italia, fra cui il primo pari a ben 5 milioni d’euro.
Tuttavia, nonostante siffatto coinvolgimento, all’improvviso, mi sono sentito preso da un pensiero e da una riflessione, se si vuole banali, che, però, non mi hanno lasciato più.
In sostanza, ho osservato, anzi ho maturato la convinzione, che per me, ragazzo di ieri, mentre appaiono lontanissime le calze della Befana gonfie di doni, invero frammisti, sovente, a pietre di nero carbone, adesso il regalo più bello e la Befana maggiormente gradita e preferita m’arrivano direttamente nelle mani ogni giorno, con naturalezza, semplicità e serenità, compiendo un gesto semplice e umile, ossia nell’atto di ritirare dal negozio alimentare sotto casa, al corrispettivo di un euro, gli sparuti etti di pane fresco da consumare a tavola.
E, ancora, mi son domandato: “In fondo, che cosa c’è di più gustoso e appagante di una fetta o di un tozzo di pane fragrante? Quali altri cibi succulenti e/o dolciumi invitanti si pongono alla pari, giustappunto, del pane?”.
Dopodiché, nella mattinata del 6, ho deciso e proposto a mia moglie, anche in questo caso all’improvviso, di andare ad ascoltar Messa non in un tempio comune, bensì in una Chiesa particolare, ossia a dire in quella di S. Niccolò dei Greci, correntemente nota come Chiesa greca, nel centro storico di Lecce, dove ha sede una minuscola parrocchia, dedicata a San Nicola di Mira, in cui si pratica il rito cattolico greco bizantino. Parroco pro tempore è il proto presbitero Nik Pace.
L’istituzione religiosa in parola è gerarchicamente incardinata nella diocesi, o meglio eparchia, di Lungro, in Calabria, avente giurisdizione su una ventina di altre parrocchie stabilite nei paesi della zona, vera e propria piccola enclave di popolazioni di origine albanese: i loro antenati, svariati secoli addietro, fuggirono dalla terra natia per motivi politici e religiosi.
Le più nutrite comunità arbereshe in Italia si trovano, com’è noto, giustappunto, in provincia di Cosenza, in prossimità del Parco e dei rilievi del Pollino e in Sicilia, nei pressi di Palermo, con centro principale a Piana degli Albanesi, pure sede di diocesi cattolica di rito greco bizantino.
Composta e graziosa è la facciata della Chiesa greca di Lecce e ancora più attraente l’interno, con la caratteristica galleria di icone, sulle quali primeggiano le immagini del Creatore, della Madonna e di S. Nicola.
All’inizio della celebrazione, è stato proclamato che, secondo il rito greco bizantino, si festeggiava non soltanto l‘Epifania – Teofania di Nostro Signore, detta anche Festa delle Luci, ma pure Il Battesimo di Gesù nel Giordano, evento che, in base al rito cattolico romano, si svolge, invece, nella prima domenica dopo l’Epifania.
Il rito, nella seconda parte, ha compreso la Grande Benedizione (in greco, Mègas Aghiasmnòs) delle acque, con il gesto dell’immersione della croce nell’acqua benedetta contenuta in un apposito artistico recipiente, sovrastato da un serto di fiori e tre candele; acqua da utilizzarsi per la benedizione delle case delle singole famiglie della parrocchia.
Di particolare intensità, verso la fine, la lettura di alcune profezie; in particolare, nel contesto di un brano riconducibile a Isaia, ho sentito declamare, dal ministrante, questa frase: “ Perché spendete il denaro per ciò che non è pane?”.
Nell’udire ciò, per la mia sensibilità, è successo come se si fosse affacciata un’eccezionale, inspiegabile e misteriosa coincidenza in rapporto al pensiero e alla riflessione venutimi in mente, ben prima e fuori da ogni sospetto, a proposito del significato e valore del pane acquistato per il fabbisogno familiare.
Non ci sarebbe potuto essere un dono più bello, da parte di una Befana, nella mia stagione dei capelli bianchi.
In origine ci fu in greco la parola ἐπιφάνεια (leggi epifàneia), femminile singolare, composta dalla preposizione ἐπί (leggi epì)=sopra e dalla radice del verbo ϕαίνω (leggi fàino)=apparire. I Greci chiamavano ἐπιφάνεια una vasta gamma di fenomeni, come si deduce dai diversi adattamenti o sfumature di significato con cui essa appare usata nei vari autori. Si va, così, da quello di apparenza esterna, gloria, splendore, nome, fama1 a quello di superficie2, di pelle3, di lato di una città o fronte di un esercito4, di apparenza5 in opposizione ad ἀλήθεια (leggi alètheia)=verità, di apparizione del giorno o di nemico6, di presenza divina7, apparizione, venuta di divinità o demoni8, manifestazione di Cristo9.
Ancora: il neutro plurale Ἐπιφάνεια (leggi Epifàneia), è usato nel senso di sacrifici celebranti l’apparizione di defunti10. Ἐπιφάνια (leggi Epifània), sempre neutro plurale, è usato nel significato di manifestazione del battesimo di Cristo11 o di Natale12.
Dal greco ἐπιφάνεια, femminile singolare,derivò in latino epiphanìa. Tale lettura (con l’accento sulla penultima anziché sulla terzultima come nell’originale greco) è dovuta al fatto che la seconda i di epiphanìa è lunga in quanto trascrizione del dittongo originale greco –ει– (leggi –ei-); se fosse stata breve, avremmo dovuto leggere epiphània. Ecco i significati con cui è attestata in latino: Epiphanìa13 (o Epiphanèa)=città della Cilicia; epiphania14=superficie; i plurali, rispettivamente femminile e neutro, Epiphanìae15 e Epiphanìa ad indicare la festa cristiana, l’Epifania.
Ora cercherò di ricostruire il cammino che ha portato da Epifania a Befana. Comincio col dire che secondo il Dizionario italiano De Mauro la nascita (più corretto dire la prima attestazione conosciuta) di Epifania risale alla seconda metà del XIII secolo. Anche ad uno sguardo superficiale si intuisce che Befana è la forma, per dir così, dimagrita, di Epifania. Ecco, tappa per tappa, gli effetti della dieta:
L’ultimo passaggio presuppone che Befania per via della sua terminazione sia stato inteso come forma aggettivale, valore già presente, prima mi son dimenticato di dirlo, in Ἐπιφάνεια che sottintende ἰερά (leggi ierà)=riti, per cui la locuzione Ἐπιφάνεια ἰερά alla lettera significava riti attinenti alla manifestazione; poi, una volta sottinteso ἰερά, l’originario aggettivo neutro plurale, suo attributo, Ἐπιφάνεια assunse valore sostantivato; processo analogo per i latini Epiphanìae (sottinteso un originario feriae=feste) e Epiphanìa (sottinteso un originario sacra=sacrifici, riti).
Avvenne così che considerato Befanìa aggettivo (perciò parola derivata), Befana fu il nome (parola primitiva) destinato a quel fantoccio di cenci che il 6 gennaio si usava anticamente appendere alle finestre (da cui il significato dispregiativo di donna brutta, significato che raggiunge l’acme nell’ancor più inequivocabile vecchia befana; analogo destino per il salentino caremma che è dal provenzale caresma=quaresima)=pupattola vestita di lutto, un tempo esposta al balcone durante la quaresima, poi, per traslato, donna malvestita) e al simpatico personaggio che a cavallo di una scopa, corrispondente alla slitta del concorrente Babbo Natale, dispensa i suoi doni. Befana, perciò, risulta costruito in modo inverso (dal presunto derivato il nuovo primitivo) rispetto a tante altre formazioni del tipo di farmacia, che deriva dal greco φαρμακεία (leggi farmakèia), a sua volta da φάρμακον (leggi fàrmacon)=medicamento. E, parallelamente, la metonimia (dal nome del fantoccio al nome della festa) completava l’opera sostituendo la festa della Befana con la Befana e, a cascata, il regalo di mia moglie in occasione della festa della Befana con la befana di mia moglie (pericoloso, soprattutto nel ricordarne una passata, premetterci quella …).
Tutta questa sofferta storia Befana non l’avrebbe vissuta (e il lettore paziente e speranzoso di altro non si sarebbe dovuto sorbire la brodaglia di oggi) se in greco fosse esistito un ἐπιφάνη (leggi epifàne) dal quale sarebbe derivato direttamente. Ma anche le parole, come gli uomini, non possono scegliersi il genitore ideale … e che la prossima sia una brodaglia un po’ più appetibile.
Nel frattempo, per compensare l’immagine di testa, mi piace chiudere con questa.
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1 Alceo (VII-VI secolo a. C.), 124; Platone (V-IV secolo a. C.), Alcibiade, 1, 124c; Isocrate (V-IV secolo a. C.), 6, 104; Iseo (IV secolo a. C.), 7, 13; Diodoro Siculo (I secolo a. C.), 19, 1.
2 Democrito (V-IV secolo a. C.), B 155; Aristotele (IVsecolo a. C.),Categorie, 5a 2.
3 Pseudo-Luciano (II secolo d. C.), 34, 11 e ancora Diodoro Siculo, 3, 29, 6; Eliodoro (III-III secolo d. C.), 8, 8, 2.
4 Polibio (II secolo a. C.), 4, 70, 9 e 1, 22, 10.
5 Anonimo nella Suida (o Suda), lessico in greco bizantino del X secolo.
6 Ancora Polibio, 3, 94, 3 e 1, 54, 2.
7 Ancora Diodoro Siculo, 1, 25, 3.
8 Vecchio Testamento, Maccabei, 3, 2, 9; ancora Diodoro Siculo, 1, 25, 3; Plutarco (I-II secolo d. C.), Temistocle, 30, 6.
9 Nuovo Testamento, Lettera a Timoteo, 6, 14.
10 Caristio (II secolo a. C.), 10.
11 Didascalia Apostolorum, trattato, probabilmente della prima metà del III secolo, che fa parte degli apocrifi del Nuovo Testamento.
12 Epifanio di Salamina (IV-V secolo d. C.), Panarion o Adversus LXXX haereses, 51, 22, 12.
13 Cicerone (I secolo a. C.), Lettera a Marco Catone; Ammiano Marcellino (IV secolo d. C.), 22, 11, 4.
14 Favonio Eulogio (IV-V secolo d. C.), Disputatio de Somnio Scipionis.
15 Codice teodosiano (prima metà del V secolo a. C.)
16 Ancora Ammiano Marcellino, XXI, 2: feriarum die quem celebrantes mense januario christiani Epiphania dictitant (nel giorno delle feste che i cristiani celebrando nel mese di gennaio chiamano Epifania).
17 Pifania e la sua variante Befania sono incluse nel Vocabolario della Crusca a partire dalla sua terza edizione (1691).
18 Vedo un rapporto strettissimo tra i fantocci appesi, la Befana, la strena da cui il nostro strenna, cioè il dono che in Roma antica il cliente offriva al patrono specialmente il primo giorno di gennaio e la testimonianza di Macrobio (IV-V secolo d. C.) riferita ai Sigillaria (Festa delle immagini e delle statuette) immediatamente successivi ai Saturnalia (feste in onore di Saturno che si svolgevano dal 17 al 23 dicembre), Saturnalia, I, 11 : Sigillaria quae lusum reptanti adhuc infantiae oscillis fictilibus praebent (I Sigillaria che offrono con piccoli oggetti di creta oscillanti il gioco ai bambini che ancora camminano carponi).
[Lecce] è munita ancor con la fossa, e ben regolate mura con varie torri. Meglio però per tal riguardo di fortificazioni è considerabile alcune miglia più oltre, et al lido del mare, Brindisi, col suo doppio e importante castello, cioè tre miglia in circa nell’acque, dove si chiama il Forte, di vasto giro, comod’abitazione, con gli opportuni ripari, meglio disposti in tutto il reame, e ben presidiato; l’altro nel continente, chiamato castel di terra. Stimasi ancora il suo porto per la sicurezza, e la campagna per la buona qualità della frutta, per la lana et il miele. Non ha dubbio però che non sia ancor ella diminuita in sommo dal concetto antico, che godea de’ Romani, i quali l’elessero per un de’ luoghi delle lor delizie, onde da incerto autore fu distesa la nobilissima via Appia, frequentata ne’ viaggi della Grecia e di Oriente, e la Trajana, che conduce a Lecce ed Otranto, sì come vuole Camillo Peregrino nella Campania Felice al disc. 2, 31 e ne scrive molto Giovanni Giovane al capitolo 7 dell‟opera citata. Perciò dentro di lei, vicino particolarmente alla porta di Lecce, si veggono molte vigne, con gli orti de’ verdumi e meloni. Rassembra la sua forma una testa di cervo, e di essa non mancano rapporti de gli storici. È ancor soggetta al Monarca di Spagna, e tassata a 1428 fuochi. Nella metropolitana, che ha il sol suffraganeo di Ostuni, dedicata da Papa Urbano II alla Beata Vergine ed al Santo Martire Teodoro, ambedue protettori, vien custodito il corpo di esso, con quello di San Leucio, suo Vescovo, la lingua del Dottore San Girolamo, e un braccio di San Giorgio, restando fuor di città la Catedrale antica dedicata a San Leucio stesso, dove forsi estendevas‟il corpo dell‟abitato. Si costuma ivi di portar per la festa il Santissimo Sagramento a cavallo, sendo questo coperto, e condotto ne’ tempii pel freno daì principali Ministri regi, fin da che il Re San Luigi ricuperò da Saladino l’Ostia Sagra, lasciatagli per ostaggio. Veggonsi i ruderi della casa di Pompeo. Reliquia più memorabile dell‟antichità, oggi però non si scorge che una delle due colonne, sendo l’altra rovinata, ch’è fama ergesse Brento, figliuolo di Ercole, o la posterità in onor suo, come a proprio ristoratore. Nella porta reale si vede una minima parte del palazzo, che chiaman di Cesare, e che i più avveduti stimano fabricato dal Duca di Atene, figliuolo del Re Carlo d‟Angiò. Mostrano molti tempii vestigi assai vecchi, e particolarmente la Maddalena de’ Domenicani, San Paolo de’ Conventuali, la Madonna del Casale de’ Riformati, e la Commenda di San Giorgio di Malta. Giudico poi favolosa l’opinione del volgo, che una torre s’incurvasse alla Sagrosanta Eucaristia nel passaggio a cavallo dell’Arcivescovo, che la prese dal vascello, ove fu condotta dallo stesso Santo Re di Francia, che nella forma esposta l’avea lasciata a Saladino Re di Egitto, di cui era stato prigioniero nella conquista di Terra Santa. Veggansi però le memorie particolari, vecchie e nuove di Brindisi, descritte in un tomo in 4 dal Padre maestro Andrea della Monaca, dell’ordin Carmelitano nel 1674, sotto il torchio di Lecce diffusamente. Fra le case de‟ nobili, che son sopra a quindeci, i Pacuvii si gloriano della discendenza dal celebre poeta tragico Marco Pacuvio, nipote d’Ennio, che co’ suoi natali e con le opere accrebbe onore alla nazione e alla patria.
Osservai dalle sue [del convento dei Domenicani di Ceglie] stanze (non curando riposarmi per profittar nel discorso) in quattro aspetti vaghissimi, molte città, fino il campanil di Lecce, che costa quindeci mila ducati, e nella lingua del mare il castel di Brindisi, che dicono comprenda 300 piazze, custodito da 250 fra colobrine e cannoni, restando la città sotto, col forte di terra guardato con 30 pezzi, il qual porto sicura trattiene di buona voglia le galee e, tal volta, le galeazze de’ Veneziani. A Brindisi, città oggi spopolata e ristretta, partita in colli e valli, col camino di 24 miglia, si desinò il martedì fra’ Padri Scalzi del Carmine, applicati a spedir un illustre edifizio e di chiesa e di casa. Vi abitavan due di Altamura, i quali per cenno dell’umanissimo Priore, mi assisteron quanto volli, scrivendo io (con occasion del Procaccio) a Napoli, e sciogliendomene poi nel giorno prossimo, dopo aver adorato ne’ Predicatori il miracoloso crocefisso di legno grande, spirante con gli occhi al cielo e piaga nel costato, che recò di Gierusalemme più di quattro secoli addietro il nobile veneziano Giovanni Capello; veduto l’Arcivescovado, che serba la lingua di San Girolamo, e il corpo del Martire San Teodoro, dal quale suol uscire, sovra un cavallo bianco mansueto, il Prelato, vestito di ricco piviale col corpo venerabile del Signore, incensato dagli Accoliti, e sotto il baldacchino sostenuto da sei Canonici nella maggior solennità, a cagione che così venne accolto il Signore da una nave dalla spiaggia, sì come scrive Carlo Verano nelle Historiae di Brindisi; la casa di Pompeo, assai larga e bene scolpita, con fontana; una delle colonne col capitello istoriato, che sostenean già il fanale nel porto; il forte di mare, unito al castello alfonsino, che per fiancheggiar l’Italia nel 1583, in tempo del Re Filippo II, ingrandì, presiedendo alla provincia, il Duca d‟Airola Caracciolo, due miglia discosto; e quel di terra, opera degli Aragonesi e Tedeschi, vasto ed antico, nel quale il Console Veneziano, carcerato per leggiera cagione, ci raffrescò e con sorbetti e con moscadelli di candia, non invidiati però da’ vini naturale del luogo. Si dié d’occhio alle fabriche, non troppo insigni, e alle strade, non ragguardevoli; alla chiesa degli Angeli, con celebri reliquie e supellettili preziose, fatta edificar e dotar per le Suore Capuccine dalla Casa Elettorale di Baviera, e all’altra delle Benedettine, custode pur di molte sagre reliquie, che fé mostrarmi, con due buoni palazzi, il Canonico Commissario della Nunziatura.
4 Castello di Terra/Castello svevo (mappa/http://www.mondimedievali.net/castelli/puglia/brindisi/brindm13.jpg)
5 Fortezza di mare/Castello alfonsino (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Brindisi_molo_vecchio_zoom.jpg)
8 Porta di Messagne/Porta di Mesagne (mappa/http://www.brindisiweb.it/fotogallery/comera_porta_mesagne.asp)
Nella mappa compare Porta Reale che fu demolita in occasione della bonifica del porto operata da Andrea Pigonati dal 1776 al 1780 su incarico diretto del re Ferdinando IV; non compare, invece, Porta Lecce (com’era negli anni ’30 e com’è oggi nelle foto che seguono tratte da http://www.brindisiweb.it/fotogallery/comera_porta_lecce.asp dove il lettore troverà una preziosa documentazione fotografica anche sulle trasformazioni subite dalle due porte superstiti).
10 Cappuccini (mappa/immagine tratta ed adattata da Google Maps); notizie storiche in: http://www.brindisiweb.it/arcidiocesi/chiese/brindisi/smariafontana/cappuccini.pdf
12 S. Maria degli Angioli/Santa Maria degli Angeli (mappa/http://www.comune.brindisi.it/turismo/images/phocagallery/chiese/santa_maria_degli_angeli/thumbs/phoca_thumb_l_chiesa_angeli.jpg)
14 Le colonne romane (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:End_Of_Via_Appia_In_Brindisi.jpg)
Chiudo con lo stemma attuale (nella mappa compaiono due scudi vuoti).
immagine tratta da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/5/55/Brindisi-Stemma.png
1 Andrea della Monaca, Memoria historica dell’antichissima e fidelissima città di Brindisi, Pietro Micheli, Lecce, 1674, pagg. 633-634: [A causa dell’invasione della lega di Francesi, Veneziani e Romani poco dopo il 1500] Rimase la Città nuda affatto d’ogni sostanza, eccetto di quella poco che nelle Rocche s’era salvata, e disfatta in gran parte degl’edifici dall’artegliarie del Castello. Frà l’altre rovine, che fero quelle Bombarde, notabile fù quella della Chiesa e Monasterio de’ Padri Carmelitani, ch’era à canto al mare nella riva interna del destro corno appunto sotto il fianco della trincera nemica in Sant’Eligio, dalla quale fù battuta la Rocca, poichè non vi restò pietra sopra pietra, à fin che il nemico non se ne potesse servire per fortificarvisi, piantandovi nuova batteria. Ma la prima cosa, che fece la pietosa Città, cominciando à respirare fù il provedere quei Padri d’altra habitatione, e d’altra Chiesa, e trovandosi ch’aveva modernamente fabricato il Tempio di San Rocco per voto della liberazione della Peste passata [1526], dispose, che i predetti Padri fondassero ivi il loro Monasterio in luogo dell’antico, dal qual tempo, cioè dagl’anni mille cinquecento, e ventinove cominciò quella Chiesa ad intitolarsi Santa Maria del Carmine. Il vecchio Monasterio, ch’aveva diverse membra, come camere, Dormitorij, & Officine, benche tutte dirute, la Fontana di Sant’Angelo Martire, e due Giardini, non essendo più utile à cosa alcuna, fù dato da’ padri, doppo alcun tempo, à censo perpetuo per annui feudi nove à Pietro, e Paolo Strabone Brundusino, e l’Istrumento fù fatto da Notaro Nicolò Tacconenell’anno mille cinquecento cinquanta sei, che si conferma nell’Atchivio del Monasterio de’ Padri del Carmine, nel quale vi furono edificate molte case, ch’oggidì sono da’ Cittadini habitate, benche col tempo si sia trasferito il dominio di quello à molte persone, ma sempre col medesimo peso. Si trattennero per sé i Padri il Giardino grande, che è contiguo al detto Monasterio, non dandoli l’animo d’alienarsi totalmente dall’antico lor domicilio, per la memoria del glorioso Martire Sant’Angelo, che calcò quella terra, e respirò quell’aria. Ne riportorno i medesimi Padri la sacra, e miracolosa Imagine della Vergine del Carmine alla nuova Chiesa, con tutto che fusse effigiata nel muro, la quale restò illesa senza pur essere colpita da tanti tiri d’Artigliarie, che diroccorno la Chiesa, & il Monasterio, riserbandosi miracolosamente intatta trà tante rovine, vedendosi perder la forza, e cadere à prè dell’Altare della Vergine le palle de’ Cannoni, e Columbrine, ch’erano della Rocca tirate. Oltre di ciò, si compiacque la benignità dell’Imperatore [Carlo V] d’ordinare che siano sodisfatti à i Padri tutti i danni patiti nella rovina del loro Monasterio per agiuto della fabrica del nuovo Convento, secondo la stima de’ periti, eccetto le travi, tavole, porte, fenestre, & altre materie tali, che, potevano servire alla nuova habitatione, in conformità del che ne spefì Ferrante Loffredo Preside della Provincia gl’ordini necessarij alli Regij Officiali, & ad Antonello Coci Sindico, & à gl’Eletti della Città di Brindisi nell’anno mille cinquecento cinquanta trè, quale nel medesimo Archivio si conservano.
Cara Befana, come piccini ansiosi, non dovremmo dimenticare di scriverti la nostra umile letterina, senza dettature, con pura libertà e coscienza civile. Sappiamo che la tua dolcezza accoglie di solito le nostre richieste. È stato un anno passato senza un qualcosa, un periodo di crisi ecologica da dare alle fiamme, un avanzo di carbone che non potremmo più gradire.
Quando da bambino scrivevo la lista dei desideri, ero attento a non farla troppo lunga, imparavo a tratteggiare i paragrafi, gli elenchi puntati e numerati dei doni più ambiti, descrivevo forme, colori e qualche volta perfino i modi di consegna.
Ripassavo a grassetto per assicurarmi che il ricevente fosse davvero esatto perché la letterina, insieme al calzerotto vuoto da riempire fosse ben visibile.
Qualche volta gli illuminavo il camino con una fioca vampa di candela e poi le porgevo le mie scuse per la mia condizione, per avergli mancato di rispetto. La sua notte era insonne, mi turbava il pensiero di quello che avevo combinato durante l’anno trascorso, mi aspettavo sempre un pizzico di polvere di carbone. Era una notte divisa tra sospetto e devozione, passata a spiare e origliare nella sua quiete che perfino lo scricchiolio del legno o lo sgocciolio del rubinetto mi sembrava una presenza.
La vegliarda assonnata giungeva sempre taciturna e puntualmente sbagliava o scambiava il regalo ma quello che importava era di esser venuta perché il giorno dopo dovevo descrivere l’omaggio ai miei amici.
Nell’immaginario odierno aspettiamo la Befana come una vecchietta attardata, lucida e razionale, un po’fata e un po’strega, certamente magica, ripresa da un rito pagano che arretra l’origine tra le sue antiche divinità.
Era un mito furente tra i solstizi del gelo e i mezzi toni lunari con un rituale propiziatorio consacrato a Diana, dea della fertilità, alla guida di un esercito di amazzoni sulle semine autunnali e sul loro raccolto.
Con la Befana, si riprende il rispetto verso i cicli delle stagioni, quel giorno di rinascita in cui si esorcizza con il fuoco la privazione materiale e i possibili insuccessi.
Le missive per Lei saranno lo sguardo di chi si vedrà sottrarre altro paesaggio in favore di decisioni errate dettate dalla biofobia di gente indegna di essere ricambiata.
Il giorno dell’Epifania è tutt’altro che astratto, speriamo che giunga nonostante tutto, tra i consumi esagerati dell’essere urbano e l’ineffabile decadenza sociale. La vegliarda più che assonnata e indifferente, a cavallo del suo potere, potrebbe raffigurare l’espressione di un risveglio morale oltre che una sana riscoperta della natura.
Dopo un primo contributo sul direttore della Biblioteca provinciale “Bernardini”, Pietro Marti (1863-1933), descritto nella sua preziosa attività di direttore di giornali, in questo secondo intervento si lumeggerà la sua attività di giornalista, sua seconda attività, dopo quella di giovane docente a Ruffano e a Comacchio, lungo il suo peregrinare per la Penisola tra fine Ottocento e il primo trentennio del Novecento.
La vivacissima attività giornalistica di Pietro Marti, iniziata poco più che ventenne e alimentata per l’intero arco della sua esistenza, si articolò lungo due principali filoni produttivi: la collaborazione a giornali diretti da altri, di cui qui si riferisce, e le prestigiose iniziative, diverse, già presentate su questo foglio, di fondazione e direzione di giornali e riviste d’ampio respiro.
Quanto alla “collaborazione” giornalistica di Marti, anticipata dalla prestigiosa direzione a “Democrazia”, iniziò con una lettera al Comitato di curatori del numero unico “ 2 Giugno”, composto da studenti e operai democratici leccesi. Il foglio aveva visto la luce a Lecce nel 1889, per i tipi della Tipografia Campanella. Su quelle colonne, accanto a diversi interventi sulla figura di Garibaldi, erano riportate altre due lettere, sempre rivolte al Comitato, ad opera di A. Saffi e di F. Rubichi.
Significativamente dedicato nel sottotitolo (“A Giuseppe Garibaldi”), dell’eroe dei due mondi, su “2 Giugno” era riprodotto il testo di un suo biglietto, indirizzato a Carlo Arrighi, il 7 aprile del 1862.
Dal 1891 Marti collaborò alla stesura del settimanale di Vincenzo Giosa, “Il Messaggero Salentino”, con interventi giornalistici forniti per undici anni, quasi quanto tutta la durata del foglio leccese, pronto a dare manforte all’impostazione già battagliera e scopertamente votata a favore di Pellegrino. Suoi collaboratori nella più che decennale impresa furono Pietro Trinchera, G. Pellegrino, Francesco Rubichi, ecc.
Clemente Antonaci, Giuseppe Petraglione. Il giornale ebbe una ripresa nel 1908 e col numero del 23 giugno uscì sotto la direzione di Francesco Forleo-Casalini e dopo di Duilio Guglielmi. Di fatto era direttore e redattore principale Vincenzo Giosa e, dopo il 1898, fu vivamente antipellegriniano. Col numero 3 dell’anno VII (1897), iniziò la pubblicazione delle Cronache di Lecce dal 1591 al 1775 del Braccio, del Panettera e del Cino, da uno zibaldone del Duca Castromediano. Nella Biblioteca provinciale si conservano i numeri delle prime cinque annate, della VII, X e XII.
Marti fu poi partecipe allo stuolo di collaboratori de “La Cronaca Letteraria”, diretta da Giuseppe Petraglione, pubblicata a Lecce dal 1 gennaio 1893, presso la Tip. Lazzaretti e Figli.
Il giornale sospese le pubblicazioni col numero 8 del 16 aprile 1893. Le riprese il 2 maggio 1894. Dopo sei numeri cessò definitivamente il 5 agosto 1894. La seconda serie uscì per i tipi della Tip. Cooperativa, Editore Vincenzo De Filippi. Vi collaborarono, oltre il Petraglione, Clemente Antonaci, Carmelo Arnisi, di cui abbiamo ampiamente riferito nella monografia Carmelo Arnisi. Un maestro-poeta dell’800 (Congedo Ed., 2003), Francesco Bernardini, Alessandro Criscuolo, Cosimo De Giorgi, Francesco D’Elia, Giuseppe Gigli, Trifone Nutricati, Arturo Tafuri, Vincenzo Ampolo, ecc.
Due mesi dopo, nel marzo del 1891, con Giacomo Gridi, Marti fu assiduo redattore del settimanale satirico leccese “Don Ficchino”, diretto da Giuseppe Carlino. Si trattava di un giornaletto di piccolo formato, ma di grande impatto su ogni fascia di lettore, anche di tipo popolare, molto noto per le sue punzecchiature velenose, mimetizzate sotto il velo d’una leggera ironia, non sempre pietosa, che di rado mancava il bersaglio. Ai deputati al Parlamento Brunetti e Monticelli non furono mai risparmiati gli strali della critica, ma non sfuggirono alla gogna gli avvocati socialisti, gli acquirenti di titoli nobiliari e, come allora si diceva, gli spacciatori di carte false. Sebbene i numeri pubblicati non superarono la decina, i vespai nati si rivelarono tuttavia così virulenti, da suggerire presto ai redattori, rimasti all’inizio pure anonimi, il pensiero del’interruzione della stampa del periodico. Cosa che puntualmente avvenne, a conferma dell’estrema pericolosità della satira politica per i propri ideatori.
Dal 7 giugno 1896, all’epoca del soggiorno nella città jonica, sotto lo pseudonimo di “Ellenio”, Marti produsse diversi interventi, richiesti dal direttore-proprietario Alfredo Guariglia della pubblicazione “Jonio”, organo delle provincie meridionali. Il taglio era di carattere politico, commerciale e letterario. Agli articoli furono spesso accostate delle piccanti vignette, che miravano a colpire soprattutto l’on. Nicola Re.
Del periodo del soggiorno “tarantino”, preceduta già dalla direzione de “Il Salotto” dell’aprile del 1896 e del periodico bisettimanale “L’Avvenire” (1897), di cui figurò anche proprietario, fu sua la collaborazione al foglio indipendente “Il Lavoro”, che usciva con cadenza settimanale, a partire dal 1898, e per cinque anni, diretto da Antonio Misurale.
Sempre a Taranto, dal maggio del 1902, il Nostro collaborò alla stampa del settimanale “La Palestra”, diretta da Achille Trisolari. Purtroppo, ebbe a lamentare Nicola Vacca, anche di quella pubblicazione non si conservano che pochissimi esemplari.
Oltre agli interessi di carattere storico-artistico, non mancò a Marti quello per le manifestazioni d’ordine letterario. Dal 1905, infatti, collaborò alla rivista quindicinale “Calliope”, diretta da Luigi De Simone, su cui furono affrontate questioni relative alla produzione poetica, alla prosa ed al teatro. Suoi compagni di avventura furono V. D. Palumbo e Francesco Capozza.
Marti non mancò di essere nello stuolo dei protagonisti delle vicende editoriali
della “Rivista Storica Salentina”, fondata nel 1903 dal direttore Pietro Palumbo. Il prestigioso mensile fu stampato prima presso la Tipografia Giurdignano, poi presso la “Dante Alighieri”. La rivista fu sospesa coi numeri 1-2 dell’anno X (1915) per la morte del direttore Palumbo. Riprese le pubblicazioni, il 20 luglio 1916, sotto la direzione di Salvatore Panareo e Cosimo De Giorgi, stampata dall’editore Gaetano Martello nella Tipografia Salentina.
Con la morte del De Giorgi, avvenuta nel dicembre 1922, rimase direttore Salvatore Panareo. Con l’ultimo fascicolo del 1920 si pubblicò in Maglie nella Tipografia Messapica di B. Canitano. Le pubblicazioni cessarono definitivamente con l’anno XIII, nel dicembre del 1923.
In Appendice si pubblicarono le Cronache Leccesi del Braccio, del Panettera, del Cino e del Piccinni. Nell’anno X vi è l’indice del decennale, compilato da Panareo e una commossa necrologia di Pietro Palumbo, dettata da Cosimo De Giorgi.
La rivista, creata con i soli mezzi finanziari del Palumbo, verso il quale insensibili furono le pubbliche amministrazioni, avare di aiuti nel difficile periodo dell’anteguerra, costituì un’importantissima rassegna di studi storici regionali per serietà, costanza di propositi e cospicui risultati raggiunti.
Il Palumbo seppe radunare intorno alla sua rivista i migliori studiosi tanto da farne per molti anni il centro propulsore di autorevoli studi storici salentini. Tra i maggiori collaboratori non mancarono, oltre al direttore, Pietro Marti, F. Bacile, Luigi e Pasquale Maggiulli, Amilcare Foscarini, Cosimo De Giorgi, N. Bernardini, Umberto Congedo, il can. Francesco D’Elia, Salvatore Panareo, Baldassarre Terribile, Giovanni e Ferruccio Guerrieri, Giuseppe Blandamura,, Giovanni Antonucci, Nicola Argentina, G. F. Tanzi, Rodolfo Francioso, Giuseppe Petraglione, V. De Fabrizio, M.A. Micalella, P. Coco, C. Massa, F. D’Elia, T. Nutricati, E. Pedìo, A. Perotti, F. Ribezzo, G. Ceci,, F. Barberio,L. Bianchi,. P. Camassa, G. Della Noce. V.D. Palumbo, G. Porzio, A. Anglani, ecc.
Il Vacca notava che questa rivista era la più ricordata e la più ricercata dai collezionisti, lettori e studiosi. La sua collezione completa, che per fortuna è presente nella Biblioteca provinciale, è quotatissima, anche perché ormai introvabile.
Altra interessante collaborazione di Marti fu quella che egli fornì al foglio Arco di Prato, che cominciò le sue pubblicazioni a Lecce nel 1928. Esso vedeva la luce una volta l’anno, la sera del Veglione della Stampa, quando veniva presentato al pubblico leccese. Tra i principali redattori dei primi anni vi furono Ernesto Alvino, Nicola Vacca e Mario Bernardini. Spesso non fece mancare la sua collaborazione anche Pietro Marti, Memorabili, tra le caricature che non mancavano quasi mai, quelle di Ernesto Alvino e Pippi Rossi.
Nel 1932 fu scritto in Almanacco Illustrato (Il Salento, 1932) il contributo non firmato, ma certamente fornito da Pietro Marti, dal titolo “Giornali e giornalisti di altri tempi: nel decennio del trasformismo”. Nella nota giornalistica si faceva un quadro del decennio trasformista nella provincia di Lecce e soprattutto, ed è ciò che depone in favore della sua paternità, l’apologia del giornale “La Democrazia”, che il giornalista ruffanese aveva diretto.
Questa, dunque, la serie completa, forse, dei fogli, delle riviste e dei periodici che videro Pietro Marti, accanto ad altri prestigiosi intellettuali salentini, misurarsi con la nobile arte del giornalismo, fatto di serietà e di passione, con le quali egli illuminò non poco il panorama culturale della sua Lecce e dell’intera Puglia, con tracce significative da lui lasciate anche in altre città della Penisola, come a Comacchio, dove egli aveva soggiornato e scritto, sempre con l’intento di recuperare e riproporre il patrimonio storico-artistico delle nostre genti salentine.
pubblicato nel bimestrale “Terra di Leuca”, Tricase, a. VIII (2011), n. 40, p. 7.
La foto (tratta da http://www.viaggioadriatico.it/ViaggiADR/rete_interadriatica/beni/monastero-di-san-nicola-di-casole) ritrae i resti del monastero di San Nicola di Casole (presso Otranto) secondo alcuni fondato, secondo altri restaurato verso la fine dell’XI secolo. Esso ospitò quella che all’epoca era la biblioteca più ricca d’Europa, probabilmente del mondo, distrutta dai Turchi nel 1480. Qualcosa si salvò grazie all’attività disinteressata di Sergio Stiso, umanista di Zollino (che, secondo le fonti, mise personalmente in salvo parecchi esemplari) e a quella un po’ meno disinteressata, esercitata prima dell’arrivo dei Turchi, del cardinale Giovanni Bessarione che spesso prelevava senza restituirli manoscritti greco-bizantini dai luoghi onorati (così, per dire …) della sua visita. Si sa, non tutto il male vien per nuocere, e questo proverbio trova in lui paradossale conferma. Senza i suoi furti, aggravati, secondo il mio modo di vedere, da un ulteriore reato che in campo laico si chiama peculato (perché, ammesso che li regalasse, non è difficile immaginare la finalità sdebitatrice o, al contrario, condizionante dei suoi regali e in quest’ultimo caso si configura un ulteriore reato, cioè la corruzione), e senza le numerose copie che fece fare dai suoi collaboratori copisti, tra i quali il più noto e attivo fu Michele Apostolio, certamente la consistenza di ciò che di Casole si salvò sarebbe stata ulteriormente ridotta.
Comunque, colpevoli i Turchi e i non turchi, il patrimonio librario superstite finì col tempo per disperdersi in varie biblioteche del mondo1 rendendo praticamente impossibile la sua individuazione e ricostruzione. Ed è di poco conforto sapere che è rimasto in Italia, custodito presso la biblioteca di Torino (C III, 17), il τυπικόν (leggi typicòn), cioè il manuale delle regole, datato 1173.
Il volume che sto per presentare costituisce, dunque, una sola delle tessere superstiti di quell’immenso mosaico che fu il corredo librario di S. Nicola di Casole.
È un esemplare particolarmente prezioso perché contiene testi trascritti da un copista d’eccezione, cioè Nicola di Otranto (Otranto, 1155-1160 circa/Casole, 1235), monaco, filosofo e teologo2, dal 1219 abate dello stesso monastero con il nome di Nettario.
L’esemplare, i cui fogli sono alcuni pergamenacei e palinsesti (cioè recano le tracce di una precedente scrittura che è stata raschiata per lasciare il posto al nuovo testo, il che la dice lunga sulla preziosità, per quei tempi, del supporto scrittorio), altri papiracei, è custodito nella Biblioteca Nazionale di Francia (Suppl. Gr. 1232) e la sua versione digitalizzata (dalla quale ho tratto le immagini successive) è integralmente leggibile e scaricabile dal sito della stessa biblioteca al link http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8528593q/f1.image.r=otrante.langEN
Le immagini mostrano, rispettivamente, le parti esterne, la controcopertina superiore e il retto del primo foglio contenente nelle prime due linee la dedica da parte di Nicola di Otranto al notaio Andrea di Brindisi. Seguono sei versi che fanno parte integrante della dedica stessa. Riporto in dettaglio le prime due linee che trascrivo e traduco perché nella prima è individuabile (l’ho evidenziata con la sottolineatura rossa) quella che potrebbe essere stata, approssimativamente, la firma di Nettario.
Il volume non contiene solo la trascrizione di testi originali greci ma anche, per alcuni, la traduzione in latino a fronte, come mostra l’immagine che segue.
Il volume appare in ottimo stato di conservazione ma l’avvenuta digitalizzazione rappresenta una garanzia in più per la sua sopravvivenza e, quel che più conta, per una fruizione veramente planetaria. Ignoro lo stato di salute di documenti simili conservati nelle biblioteche italiane ma so di certo che da noi il processo di digitalizzazione è lungi dal decollare e dal diventare, da fatto sporadico, progetto di grande respiro. Qualcosa si è mosso, ma molto lentamente: il 10 dicembre 2012 è iniziata la fase operativa del progetto Google-Mibac che è seguita a quella preliminare iniziata quasi due anni prima; quanti anni dovranno trascorrere prima che i volumi digitalizzati siano fruibili in rete? Non è una domanda da ingenuo: so benissimo che in Italia avviene in tempi brevissimi solo la costruzione di uno stadio, mentre per questa, come per tante altre autostrade della cultura, la similitudine più immediata che mi viene in mente è la mitica Salerno-Reggio Calabria …
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1 Un inventario provvisorio (non essendo stati ancora catalogati parecchi fondi di varie biblioteche nazionali ed estere) è dato da Marco Petta, Codici greci del Salento posseduti da biblioteche italiane ed estere, in Brundisii res, 4 (1972), pp. 59-121.
2 Tra le sue opere: L’arte dello scalpello [una copia manoscritta è custodita nella Biblioteca Nazionale di Francia (Gr. 2419, cc. 228r-241v), edito da L. Delatte,Un traité byzantin de géomancie. Codex Parisinus 2419, in Mélanges Franz Cumont, Secretariat de l’Institut, Bruxelles, 1936, pp. 575-658]; venticinque poesie in trimetri giambici bizantini, edite da M. Gigante, Poeti bizantini di terra d’Otranto nel secolo XIII, Macchiaroli, Napoli 1979, pp. 73-84. Così l’umanista galatonese Antonio De Ferrariis alias Il Galateo ricorda il monastero e il suo abate in un passo del De situ Japygiae uscito postumo per i tipi di Perna a Basilea nel 1558: … Nicolaus Hydruntinus, vir eo tempore doctissimus, qui a Philosophia ad Religionem Magni Basilii transmigravit, atque Abbas Cenobii Divi Nicolai apud Hydruntum creatus fuit, et Nicetas appellatus, ubi plura ingenii sui monumenta reliquit in Dialectica, Philosophia, et Theologia; quae omnia in illa non sine lacrymis memoranda Hydruntina clade, Monasterio a Turcis, direpto, ac diruto, conflagrarunt, simul cum Bibliotheca omnis generis librorum, quos ex universa Graecia vir ille magnus congesserat, quique ab Imperatore ad Summum Pontificem, et a Summo Pontifice ad Imperatorem componendarum rerum causa saepe commeabat (… Nicola di Otranto, uomo in quel tempo dottissimo, che dalla filosofia passò alla religione di Basilio Magno e fu fatto abate del cenobio del divino Nicola presso Otranto e chiamato Niceta, dove lasciò molte testimonianze del suo ingegno in dialettica, filosofia e teologia; tutte queste in quella strage di Otranto da ricordare non senza lacrime, preso e abbattuto il monastero dai Turchi, bruciarono insieme con la biblioteca di ogni genere di libri che da tutta la Grecia quel grande uomo aveva raccolto e che spesso si recava dall’imperatore al Sommo Pontefice e dal Sommo Pontefice all’Imperatore per risolvere i problemi …).
Da notare che il Galateo qui confonde Nicola di Otranto alias Nettario con Nicola Niceta che era stato precedentemente, pure lui, abate nello stesso monastero e si era distinto, al pari di Nettario, per alcune missioni diplomatiche e per l’amore verso la letteratura.
Metrica: un endecasillabo in cui la musicalità è affidata alla rima, per quanto imperfetta, che coinvolge la parola iniziale e quella finale. Si tratta di una tecnica collaudata; un altro esempio: Pàssari: azza li manu e llàssali! (Passeri: alza le mani e lasciali!)
3
Tanta nègghia ti scinnaru,
tanta nee ti fibbraru.
Tanta nebbia di gennaio,
tanta neve di febbraio.
Metrica: due ottonari a rima baciata.
4
Ci scinnaru no sscinnarèscia, fibbraru male pensa.
Se gennaio non si comporta da gennaio (in una parola, se esistesse, gennaieggia), febbraio pensa male.
Metrica: è l’unico detto, tra i quattro, in prosa. Non mancano altri esempi ma qui la scelta può essere stata indotta dal neologismo scinnarèscia (con cui si chiudeva il probabile novenario, verso già “irregolare” rispetto al più consueto ottonario) per il quale era difficile trovare alla fine della seconda parte (che così com’è, cioè un settenario, tradisce questa difficoltà irrisolta) una parola in rima.
Da notare come nei due ultimi proverbi gennaio e febbraio sono trattati quasi come colleghi, accomunati non solo da fenomeni atmosferici tipicamente invernali (nebbia/neve) ma dall’attribuzione di sentimenti e comportamenti umani, per cui, se gennaio non fa il suo consueto dovere climatico, febbraio si sente quasi tradito dal collega e magari sospetta una sorta di captatio benevolentiae da lui esercitata sull’uomo.
Termina qui il pretesto e comincia il confrontino che propone come termine di paragone, in rapporto al tema, non una poesia in italiano (c’è, però, come vedremo, un’eccezione) ma cinque stampe d’epoca, addirittura francesi, custodite nella Biblioteca Nazionale di Francia, da cui le ho tratte1. Volta per volta trascriverò le didascalie e aggiungerò in calce o in nota qualche osservazione.
1) Stampa di Jacques Callot (1592-1635)
L’autore della stampa è francese, ma il testo della didascalia è in italiano.
Metrica: tre quartine di di quattro endecasillabi con rime ABBA/CDDC/EFFE Da notare nella prima quartina la parola-rima cielo.
Tra la seconda e la terza quartina si legge Ioseppe del Sarto excudit (Giuseppe del Sarto stampò). Di Osio per ozio ho trovato una sola ricorrenza; piovioso per piovoso, genaro per gennaio e trappassare per trapassare sono, invece, abbastanza frequenti nell’italiano dei secoli passati2.
2) Stampa di Nicolas Guérard (1648-1719?)
Notevole la somiglianza con le pagine di alcuni calendari di oggi. Segue la trascrizione dei testi e la loro traduzione.
3) Stampa di Gregoire Huret (1609-1670)
Sono due quartine di dodecasillabi. Per quanto riguarda la scrittura da notare nella prima quartina ordonnees invece di ordonnées, volupte invece di volupté per esigenze metriche (il dodecasillabo tronco avrebbe dovuto avere undici sillabe), due volte a preposizione per à, nectarees invece di nectarées e nella seconda l’estè invece di l’été; da notare ancora dal punto di vista metrico la rima imperfetta tra volupte e leste (se fosse stata perfetta la sequenza delle rime sarebbe stata ABBA) nella prima quartina e tra triompher e chauser nella seconda (se fosse stata perfetta avremmo avuto CDCD).
La procedura per acquisirle al massimo della definizione (utile per una stampa in A4) è piuttosto complicata ma sono pronto a spiegarla dettagliatamente a chiunque ne fosse interessato, ricordando che l’eventuale utilizzo non dev’essere a scopo di lucro.
2 Simone da Cascina (XIV-XV secolo), Colloquio spirituale: … rimovendo da te la negrigenza, pigrisia e osio … (cito dall’edizione on line Biblioteca italiana, 2006).
Giornale di agricoltura, arti e commercio, tomo I, fascicolo III, Giugno 1821, pag. 101: … quando sia stato raccolto in tempo piovioso …; Gaetano Giordani, Della venuta e dimora in Bologna del Sommo Pontefice Clemente VIII per la coronazione di Carlo V Imperatore celebrata l’anno MDXXX, Fonderia e tipografia governativa, Bologna, 1842, pag. 60: … al ventidoi del detto martedì che fu alquanto piovioso … ; Commentarj di Napoleone, s. n., Bruxelles, 1828, volume VI, pag. 106: Il tempo essendo piovioso …; credo, invece, che sia un errore di stampa il pioviso che si legge in Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti, volume CXI, Tipografia delle belle arti, Roma, 1847, pag. 50: Ciò avvenne in giorno pioviso …Piovioso deriva da piovia (attestato in parecchie cronache medioevali) diretto discendente del latino pluvia(m)=pioggia.
Giovanni Padovani, Della computatione de tempi, Girolamo Discepolo, Verona, 1590, pag. 40: Io voglio aver la Epatta per il mese di Genaro dell’anno 1590.
Relatione delle vittorie ottenute dal Serenissimo Principe di Piemonte, Marc’Antonio Bellone, Carmagnola, 1617, pag. 3: La notte delli 27 di Genaro …
Panfilo di Renardini, Innamoramento di Ruggeretto, Giovanni Antonio dalla Carra, Venezia, 1555, canto XVII, ottava L, verso 1, pag. 88: Oltra trappassa il Cavallier ardito; Leonardo Bruni, La prima guerra di Cartaginesi con Romani di M. Lionardo Aretino, Giolito de Ferrari, Venezia, 1545, pag. 25: … quando le hebbe trappassate …
Nel primo romanzo di Giorgio Cretì, “L’eroe antico”, pubblicato nel mese di giugno 1980, ci sono delineati già tutti gli elementi che confluiranno nella sua successiva produzione letteraria: la fierezza di un mondo contadino umile e semplice, che vive di poco, dai sentimenti elementari; il paesaggio salentino di erbe spontanee che si accompagna alla descrizione del lavoro nei campi frutto di una agricoltura millenaria e rimasta cristallizzata nei gesti e nelle movenze; la fatica del vivere tipica di una cultura povera di tutto ma che trova nella tradizione la forma di sopravvivenza alle condizioni subalterne nei confronti dei proprietari terrieri e delle autorità civili e religiose. Eppure sono proprio le condizioni generali di umanità derelitta a intenerire l’autore che partecipa di quella esistenza, rivendicando i frutti della civiltà legata alla terra, intuendo con anticipo il rischio della scomparsa di quel mondo che si era mantenuto nella sua purezza primigenia nei secoli dei secoli. Concetti che saranno ripresi successivamente nel romanzo ‘Pòppiti’ del 1996, che già nel titolo ricorda la condizione dei contadini, così denominati con un certo disprezzo dai cittadini del capoluogo salentino. L’autore con questa denominazione rivendica un mondo essenziale, di cultura legata alla terra, ne esalta i colori variopinti nella descrizione della natura che provvede con le erbe e malerbe a nutrire spontaneamente e a curare (‘Erbe e malerbe in cucina’ è del 1987). Quella cultura trova conferme nella pubblicazione di saggi e ricettari sulla cucina popolare salentina: un Glossario dei termini gastronomici, compresi i vocaboli dialettali, stranieri e gergali, Il Peperoncino, La Cucina del Sud, Il libro degli ortaggi e delle verdure selvatiche, La Cucina del Salento e infine una incursione nella gastronomia popolare ligure con ‘U prebuggiùn de Tregosa’. Un interesse quello di Giorgio Cretì per il mondo rurale veramente significativo, se già appunto con il primo romanzo il protagonista, Antonio Carotta, meglio conosciuto come Uccio, è l’eroe eponimo di una saga che si svolge tra campagne, uliveti, raccolte del grano e lavorazione nei ‘trappiti’, luoghi infernali ipogei dove si sa quando si entra e non si sa quando e come si esce. La vita si snoda tra levatacce per la raccolta delle olive o tra sieste nei meriggi assolati alle prese con la mietitura sotto l’ombra di un fico o di un olivo o di una quercia, cercando e trovando lo sguardo di una fanciulla innamorata che prelude, ma nulla di più. E poi le migrazioni interne da Capriglia, una masseria sulla costa a sud di Otranto nei pressi di S. Cesarea Terme, sino alle fertili pianure di Sava e di Manduria a nord del Salento per portare cibo, ambasce e resoconti delle famiglie ai lavoranti, ma c’è anche tempo di soste in vecchie osterie dove può accadere di sperare in un caldo abbraccio con l’ostessa, senza possibilità però di costruire un ponte sul futuro. La fatica è inenarrabile. Dentro questa vita, autentica, non vi è neppure la schiarita di un sentimento vissuto nella pienezza, solo la morte e il rimpianto di una esistenza trascorsa nella speranza di un accomodamento affettivo e sociale. La tradizione dei cibi e il rigoglio delle messi e della natura rendono quel mondo magico fuori dalla storia, in cui precipita quando gli avvenimenti esterni incombono e chiedono il loro contributo. ‘Il romanzo ha il sapore, e anche il fascino, delle cose antiche’ dice Donati Valle nella introduzione, a condizione però che si inquadri l’opera di Giorgio Cretì nel progetto di fissare quel mondo in una visione senza tempo, pervasa dalla nostalgia dell’innocenza, ma appesantita dalle condizioni di abbrutimento sociale. “L’eroe antico” di Giorgio Cretì, Edizioni Virgilio, 1980, Milano.
Esordisco con una banalità dicendo che tutto ciò che annualmente si stampa è direttamente connesso con il trascorrere del tempo e col bisogno di fermarne il ricordo (anche di quello che verrà, come succede quando si pubblicizza un evento), dall’aspirante scrittore che arde dal desiderio di vedere il suo nome su una copertina (che importa se lo vedrà solo lui o, tutt’al più, coloro ai quali ha regalato una copia del suo capolavoro?) all’agenda del grande manager e del piccolo studente, ai calendari di ogni dimensione che puntualmente proliferano nel periodo di transizione da un anno all’altro.
Ai miei tempi il diario scolastico era costituito da un quaderno come tutti gli altri, sui fogli del quale si annotavano solo i compiti per il giorno dopo. Poi sappiamo cos’è venuto. Dei calendari della mia giovinezza ricordo solo la disarmante semplicità, poiché erano per lo più costituiti da un’unica immagine, sfondo su cui era incollato, per lo più in basso in posizione centrale, un blocchetto-datario dal quale giorno per giorno si staccava un foglio. Non era certo una delizia per gli occhi; lo era però, ma anche per il naso, il calendario che il barbiere regalava in prossimità del capodanno ai clienti più affezionati e maggiorenni; e io, che all’epoca potevo avere non più di dieci anni, dovevo accontentarmi di qualche sguardo fugace lanciato, grazie alla benevolenza saccentemente maliziosa di qualcuno un po’ più grande che l’aveva sottratto al padre …, alle signorine discinte (?; il punto interrogativo è astorico, nel senso che oggi quelle immagini non scandalizzerebbero neppure un eremita) che ne animavano le pagine, mentre nell’aria si spargeva, emesso sempre da quelle pagine, un ingrediente niente affatto secondario di quel momento peccaminoso e proibito (?; come sopra …): un meraviglioso e persistente profumo (altro che feromoni o ferormoni!). Per i clienti più acculturati, poi, non mancava la versione più dotta, come mostra la seconda immagine.
Non si dice forse che il presente è figlio del passato e questo nonno del futuro? Perciò propongo qui all’amico lettore questa apparentemente strana strenna (come sciolingua non è male …) che ho confezionato utilizzando (e traducendo in italiano le didascalie, non senza qualche difficoltà lì per lì incontrata con qualche termine obsoleto) immagini tutte tratte dalla Biblioteca Nazionale di Francia (sezione Stampe e fotografia), dove sono custodite: una serie di dodici stampe d’epoca (1621-1622) dal titolo Les douze mois de l’année (I dodici mesi dell’anno), facenti parte di una collezione di Michele Hennin (1728-1807), visibili e scaricabili all’indirizzo http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84018805/f1.item.r=les%20mois
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1 Ho voluto mantenere nella traduzione letterale l’inusitata forma di ipallage presente nell’originale; altrimenti avrei dovuto tradurre con si vendemmia in pianura e in montagna.
2 Anche qui ho mantenuto in traduzione al singolare il soggetto che nella proposizione precedente era al plurale.
Sarebbe interessante controllare se e quanto interesse la notizia suscitò a suo tempo sui quotidiani locali e nazionali. Purtroppo emeroteche italiane consultabili on line non ne conosco e, siccome credo che non dipenda dalla mia capacità di trovarle, questo costituisce un ulteriore tassello di quel vergognoso mosaico di pubblica arretratezza tecnologica (mi riferisco allo sfruttamento delle macchine, non al loro acquisto, campo in cui nessuno ci batte …) che impedisce in Italia la libera (intendo anche gratuita …) fruizione del nostro patrimonio culturale. Può sembrare paradossale ma la notizia del titolo l’ho trovata nel sito della Biblioteca Nazionale di Francia e precisamente in un trafiletto de Le Rappel, quotidiano di opposizione fondato nel 1868 nientemeno che da Victor Hugo, al quale lo scrittore collaborò fino alla morte avvenuta nel 1885. Il quotidiano continuò ad uscire e vi presento la prima e la seconda pagina del numero di lunedì, 8 settembre 1913 (per chi avesse interesse a leggerselo tutto: http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k7547874z).
Il dettaglio mostra il trafiletto che ci interessa, inserito tra le Petites Nouvelles (Piccole notizie) incluse nella rubrica DERNIÈRE HEURE (Ultim’ora, il che autorizza a pensare che il furto forse si era verificato il giorno prima). Seguono trascrizione e traduzione.
À Maglie, près de Lecce (Italie), des voleurs ont dérobé sent [errore di stampa per cent] soixante-dix mille francs de bijoux dans le palais de M. Tamburini.
A Maglie, vicino Lecce (Italia), dei ladri hanno rubato centosettantamila franchi di gioielli nel palazzo del signor Tamburini.
Ritornando alla considerazioni iniziali lascio a chi ha tempo e voglia di vedere che risonanza la notizia ebbe in Italia (c’è da attendersela enorme se la sua eco si fece sentire pure in Francia) e mi congedo dal lettore facendo notare che se il mancato approfondimento di una notizia di cronaca nera in fondo non è una grave perdita per la cultura, è gravissimo il perdurare di tutto ciò che ostacola pure l’approfondimento e la ricostruzione di avvenimenti ben più importanti.
Nella ‘Cucina del Salento’ Giorgio Cretì passa in rassegna il repertorio delle ricette salentine, non prima di aver definito il Salento o Terra d’Otranto coincidente grossomodo con la parte della provincia di Lecce posta a sud del capoluogo, la terra dei ‘Pòppiti’, suddivise in cumpanaggi, gli antipasti, le minestre e i sughi, i secondi di terra e di mare, – non dimentichiamo che la penisola italica, come dice Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia, ‘apre il suo grembo da ogni lato al commercio dei popoli e lei stessa che, come per aiutare gli uomini, si slancia ardentemente verso i mari!’ – gli ortaggi, i legumi e le verdure agresti, e infine le coseduci, i dolci.
Ma prima di addentrarsi nelle pietanze, negli ingredienti e nella grammature l’autore sottolinea il fatto che il recupero della cultura contadina, espressa nei muretti a secco, nelle pagghiare, nelle aie, nei manufatti, nelle ceramiche e nell’uso della pietra leccese, passa anche attraverso la tutela del patrimonio popolare rappresentato dalla tradizione culinaria, tipica di chi lavorava in campagna dal mattino al sorgere del sole e che non aveva tempo e sostanze per una cucina che non prevedesse l’utilizzo dei prodotti della terra coltivata.
Anche dopo il lavoro, nei rari momenti di socialità trascorsi alla puteca de mieru, le cose non cambiavano molto, anche se qui si potevano gustare i pezzetti di cavallo, la matriata, i turcinieddi annaffiati da ucale di vino, che andavano e uscivano dalla cucina. Ed è lì che ci riporta questo ricettario di Giorgio Cretì con i termini rigorosamente in dialetto salentino, il cui significato si perderebbe nella notte dei tempi se non fossero indicati meticolosamente i nomi e le quantità delle materie prime, che siano erbe e legumi (ciceri e la pignata, fae e fogghe, sanapi e alici, cecore e fae, rape nfucate, ecc), pasta fatta in casa (maccaruni de uergiu cu la recotta scante, recchie cu le rape, tianu de risu pidate e cozze, ecc), pesce e raramente carne (pezzetti e gnemmarieddi o purpu a la pignata) e dolci (mustazzoli, cupeta, carteddate, ecc.).
Una rassegna succulenta che si sofferma di tanto in tanto a spiegare dal punto di vista antropologico i prestiti e le origini di certe pietanze oppure le usanze ex voto delle tavole di San Giuseppe. Ora non resta che mettersi a prepararle, così da gustare i sapori di un tempo perduto e ritrovato. Giorgio Cretì, Cucina del Salento, Capone Editore, Lecce, 2011, € 7,00.
Pietro Marti ( Ruffano,1863- Lecce,1933) fu saggista, studioso di storia, arte e archeologia, giornalista, docente, ispettore onorario ai Monumenti, e direttore della Biblioteca Provinciale “Bernardini” di Lecce, nella quale si conservano una quarantina di sue apprezzate opere, volte al recupero delle memorie patrie della Terra di Salento.
La vivacissima attività giornalistica di Pietro Marti, iniziata poco più che ventenne e alimentata per l’intero arco della sua esistenza, si manifestò con un innato spirito creativo tale da farlo misurare subito alla direzione di qualche foglio, da lui fondato e diretto, senza quasi passare dalla fase di semplice pubblicista, appassionato dello strumento della comunicazione cartacea di riviste e giornali.
La sua attività, nel complesso, si articolò lungo due principali filoni produttivi: la collaborazione a giornali affidati alla direzione di altri colleghi e le prestigiose iniziative, fatte su diverse testate, di fondazione e direzione di giornali e riviste d’ampio respiro, compito assunto in prima persona, con costanza e ardito piglio giornalistico.
Egli era nato a Ruffano il 15 giugno 1863, dal padre Pietro, occupato come cancelliere presso il regio giudicato di quel circondario e dalla madre Elena Manco, contadina quarantanovenne, che dovette presto occuparsi da sola della sua educazione per la prematura scomparsa del padre. Compiuti i suoi primi studi in patria e poi a Lecce, conseguì con profitto la patente di maestro elementare. Ottenne la prima nomina in una pluriclasse del comune di nascita, Ruffano, ma contrasti con quella amministrazione comunale (e la sospensione dello stipendio nel luglio 1883), per i quali produsse ricorsi persino al Consiglio di Stato, lo spinsero a spostarsi presso scuole di Comacchio. Qui, accanto all’attività d’insegnamento e alla proficua produzione delle prime monografie di ambito storico, affiancò presto una febbrile attività giornalistica. Successivamente si spostò a Taranto e Lecce, dove fondò e diresse diverse giornali e riviste.
Nella sua casa leccese costituì grande figura di riferimento per il giovane nipote, l’adolescente Vittorio Bodini. Al piccolo Vittorio, infatti, figlio di Anita Marti, era mancato irrimediabilmente il rapporto con la giovane mamma, approdata a nuovo matrimonio con Luigi Guido, e costretto a rimanere per tutta l’infanzia in casa del nonno materno, e lontano dai quattro fratelli nati dal patrigno.
Così, stando alla traccia biografica dell’esegeta e amico della prima ora, suo conterraneo, Oreste Macrì, Bodini visse con Pietro Marti la prima delle sue “sette vite”, quella dell’infanzia e dell’adolescenza futurista.
A Lecce, accanto al nonno, l’inquieto Bodini apprese a conoscere menabò e ogni fase di allestimento d’un giornale, e da cui fu certamente spinto a compiere i primi approcci con l’attività scrittoria, che tanto lustro diedero alla letteratura di tutto il Salento.
Pietro Marti produsse nella sua vita una quarantina di opere di carattere storico-artistico, tra cui le più famose “Origine e fortuna della coltura salentina”, oltre a tenere decine di conferenze in tutta la Puglia. Per oltre un ventennio raccolse attorno a sé giovani artisti salentini, che si prodigò di far conoscere al grande pubblico. Divenne poi Ispettore onorario dei Monumenti e Scavi per la Provincia di Lecce e direttore della Biblioteca Provinciale “N. Bernardini”, per cui lasciò un prezioso “Catalogo bibliografico delle Opere di scrittori salentini” (1929). Morì a Lecce il 18 aprile 1933, lasciando un grande vuoto negli ambienti storico-artistici e del giornalismo dell’intera Puglia.
Interessante è soffermarsi, a questo punto, sull’attività giornalistica affrontata da Marti in qualità di direttore, cui non riusciva difficile fondare di sana pianta nuove testate, quasi in ogni città che l’avevano visto vagare su e giù per la Penisola.
Prestigiosa, agli occhi di molti estimatori, apparve la sua attività giornalistica di direzione-produzione di fogli di grande respiro e di forte impatto culturale nell’intero Salento e nelle maggiori città di Puglia.
Appena ventiseienne Pietro Marti, alla luce anche dell’esperienza del collezionista Nicola Bernardini, che l’anno precedente, nel 1896, aveva suscitato scalpore con la ghiotta pubblicazione sulla storia del giornalismo leccese (Giornali e Giornalisti Leccesi, Lecce, Ed. Lazzaretti, 1896) dal 1808 al 1896, intraprese l’avventura della direzione in città del settimanale “La Democrazia”. Grande era infatti, nel capoluogo leccese l’esigenza d’una grande spinta all’informazione periodica, sebbene le statistiche ufficiali ponessero Lecce tra le città italiane con maggiore presenza di testate.
La rivista fu sospesa per alcuni anni, durante i quali Marti, trasferitosi prima a Comacchio, poi a Taranto, dove aveva fondato altri giornali come “Jonio (1896), “Il Lavoro” (1898), “La Palestra” (1902), aveva continuato la sua vivace attività di giornalista, oltre che quella di docente nelle Scuole pubbliche. Il settimanale leccese, “La Democrazia”, riprese le nuove pubblicazioni con due numeri di saggio, il 6 e il 13 dicembre 1902, ma col sottotitolo di “Pugliese”, poi soppresso, stampato nella Tip. di L. Carrozzini e M. Ghezzi. Con il numero 4 uscì dalla Tipografia Garibaldi, col numero 16 fu aggiunto il sottotitolo di “Corriere Salentino politico amministrativo, commerciale letterario”, presso la Tipografia Giurdignano.
Subì poi interruzioni ed ebbe riprese editoriali; ma la regolarità delle pubblicazioni
non fu sempre rispettata. Nel 1913, anche se per breve tempo, figurò direttore Pietro Massari.
“La Democrazia”, ceduta in proprietà al senatore Tamborrino, uscì, sempre sotto la direzione di Marti, in edizione quotidiana, durante il periodo elettorale dal 21 ottobre 1919 fino al giugno 1920 dalla Tip. Leccese Bortone e Miccoli. Memorabili le polemiche personali asperrime, violentissime che Pietro Marti sostenne contro Nicola Bernardini, che lo ricambiò con eguale moneta sulla sua “Provincia di Lecce”, polemiche ripetutesi ad intervalli durante un trentennio, e che spesso finirono in processi da cui Marti ne uscì sempre assolto.
Intanto, nel 1891, Marti aveva diretto il foglio settimanale leccese L’Indipendente , che trattò ambiti di politica amministrativa, commerciale e naturalmente anche di arte. Vi collaborò Giuseppe Petraglione e i numeri furono stampati presso gli stabilimenti Scipione Ammirato e Garibaldi.
Nel periodo di permanenza a Taranto, Marti volle subito misurarsi in quel contesto con la direzione di alcuni giornali. L’esperienza maturata a Lecce, infatti, costituirono una grande premessa per risvegliare la città jonica dal torpore nel quale sembrava fosse da tempo precipitata.
Cominciò nell’aprile del 1896 con “Il Salotto”, una sorta di biblioteca tascabile, stampata presso l’Editore Salvatore Mazzolino.
Un foglio, dal titolo analogo, diretto da Niccolò Foscarini, aveva avuto breve vita a Lecce, dall’ottobre 1885 al novembre 1886.
Il primo fascicolo jonico, di trenta paginette, uscì il primo aprile 1896. Il numero complessivo delle uscite, stando alla testimonianza di Nicola vacca, ammonta a otto. Nella pubblicazione trovarono spazio anche poesie di Emilio Consiglio, Luigi Marti, Giuseppe Scarano e Giuseppe Gigli; conferenze di Alessandro Criscuolo e Angelo Lo Re, un dramma di un atto di Michele De Noto. Ciò a comprova dell’interesse per la letteratura di Pietro Marti e di tutti i suoi collaboratori. Tra questi, il prof. Giuseppe Gigli, in una sua conferenza del 3 maggio 1890, letta nella sala dell’Associazione Giuseppe Giusti in Lecce e data alle stampe, per i tipi dei Fratelli Spacciante, aveva toccato ampiamente “Lo stato delle lettere in Terra d’Otranto”.
Nel maggio dell’anno successivo, Marti fondò a Taranto e diresse, in qualità anche di proprietario, “L’Avvenire”. Si trattò di un periodico bisettimanale, edito dalla Tipografia del Commercio, che stampò il primo numero il 3-4 maggio 1897.
Nel luglio del 1898 egli fece stampare un altro periodico, “Il Presente”, presso lo Stabilimento Tipografico di F. Leggieri: gli ambiti trattati andarono dal politico-amministrativo al commerciale, senza mai trascurare quello letterario.
Al periodo del suo ritorno a Lecce risale l’altra pubblicazione da lui diretta nel 1900, “L’Imparziale”, un periodico settimanale, che trattò argomenti politico-amministrativi, commercio e arte. I numeri pubblicati, videro la luce presso la Tipografia litografica dei Magazzini Emporio.
Un’altra importante direzione di Marti fu quella della rivista quindicinale d’arte e di cultura, “Fede”, pubblicata per Lecce e Taranto, a partire dal 1 dicembre 1923. Col primo numero dell’anno III (1 gennaio 1925), il formato divenne più ampio. I primi due fascicoli, di 16 pagine in 8°, si stamparono nella Tipografia Sociale di Oronzo Guido, i successivi nella Tip.-Litogr. Giuseppe Guido. L’ultimo fascicolo (16-17 dell’anno III) uscì il 15 novembre 1925.
Si trasformò poi, in giornale settimanale dal titolo “La Voce del Salento”, sempre diretta da Marti, a partire dal 15 gennaio 1926, per i tipi della Tip. Prim. “La Modernissima”, che fece sentire il proprio peso sull’opinione pubblica salentina sino all’anno della morte di Marti, avvenuta nel maggio del 1933. Vi collaborarono tra gli altri, Gregorio Carruggio, Pasquale Camassa, E. Alvino, Elia Franich, Luigi Paladini, P. Maggiulli, N. Vacca, presso cui fu reperibile l’intera collezione della rivista.
Alla scomparsa di Pietro Marti, non fu soltanto Lecce a perdere un epigone del giornalismo militante, votato alla riscoperta e alla rivalutazione delle peculiarità storico-artistico-culturali di Terra d’Otranto, ma l’intera Puglia e la stessa Italia, nelle quali egli, sin da giovane e per diverse stagioni della sua esistenza, aveva operato battendosi con passione nel campo dell’istruzione, dell’informazione, della storia e dell’arte.
La vivacissima attività giornalistica di Pietro Marti, iniziata poco più che ventenne e alimentata per l’intero arco della sua esistenza, si articolò, come detto, lungo due principali filoni produttivi: la collaborazione a giornali diretti da altri, di cui qui si riferisce, e le prestigiose iniziative, diverse, di fondazione e direzione di giornali e riviste d’ampio respiro.
Quanto alla “collaborazione” giornalistica di Marti, anticipata dalla prestigiosa direzione a “Democrazia”, iniziò con una lettera al Comitato di curatori del numero unico “ 2 Giugno”, composto da studenti e operai democratici leccesi. Il foglio aveva visto la luce a Lecce nel 1889, per i tipi della Tipografia Campanella. Su quelle colonne, accanto a diversi interventi sulla figura di Garibaldi, erano riportate altre due lettere, sempre rivolte al Comitato, ad opera di A. Saffi e di F. Rubichi.
Significativamente dedicato nel sottotitolo (“A Giuseppe Garibaldi”), dell’eroe dei due mondi, su “2 Giugno” era riprodotto il testo di un suo biglietto, indirizzato a Carlo Arrighi, il 7 aprile del 1862.
Dal 1891 Marti collaborò alla stesura del settimanale di Vincenzo Giosa, “Il Messaggero Salentino”, con interventi giornalistici forniti per undici anni, quasi quanto tutta la durata del foglio leccese, pronto a dare manforte all’impostazione già battagliera e scopertamente votata a favore di Pellegrino. Suoi collaboratori nella più che decennale impresa furono Pietro Trinchera, G. Pellegrino, Francesco Rubichi, ecc.
Clemente Antonaci, Giuseppe Petraglione. Il giornale ebbe una ripresa nel 1908 e col numero del 23 giugno uscì sotto la direzione di Francesco Forleo-Casalini e dopo di Duilio Guglielmi. Di fatto era direttore e redattore principale Vincenzo Giosa e, dopo il 1898, fu vivamente antipellegriniano. Col numero 3 dell’anno VII (1897), iniziò la pubblicazione delle Cronache di Lecce dal 1591 al 1775 del Braccio, del Panettera e del Cino, da uno zibaldone del Duca Castromediano. Nella Biblioteca provinciale si conservano i numeri delle prime cinque annate, della VII, X e XII.
Marti fu poi partecipe allo stuolo di collaboratori de “La Cronaca Letteraria”, diretta da Giuseppe Petraglione, pubblicata a Lecce dal 1 gennaio 1893, presso la Tip. Lazzaretti e Figli.
Il giornale sospese le pubblicazioni col numero 8 del 16 aprile 1893. Le riprese il 2 maggio 1894. Dopo sei numeri cessò definitivamente il 5 agosto 1894. La seconda serie uscì per i tipi della Tip. Cooperativa, Editore Vincenzo De Filippi. Vi collaborarono, oltre il Petraglione, Clemente Antonaci, Carmelo Arnisi, di cui abbiamo ampiamente riferito nella monografia Carmelo Arnisi. Un maestro-poeta dell’800 (Congedo Ed., 2003), Francesco Bernardini, Alessandro Criscuolo, Cosimo De Giorgi, Francesco D’Elia, Giuseppe Gigli, Trifone Nutricati, Arturo Tafuri, Vincenzo Ampolo, ecc.
Due mesi dopo, nel marzo del 1891, con Giacomo Gridi, Marti fu assiduo redattore del settimanale satirico leccese “Don Ficchino”, diretto da Giuseppe Carlino. Si trattava di un giornaletto di piccolo formato, ma di grande impatto su ogni fascia di lettore, anche di tipo popolare, molto noto per le sue punzecchiature velenose, mimetizzate sotto il velo d’una leggera ironia, non sempre pietosa, che di rado mancava il bersaglio. Ai deputati al Parlamento Brunetti e Monticelli non furono mai risparmiati gli strali della critica, ma non sfuggirono alla gogna gli avvocati socialisti, gli acquirenti di titoli nobiliari e, come allora si diceva, gli spacciatori di carte false. Sebbene i numeri pubblicati non superarono la decina, i vespai nati si rivelarono tuttavia così virulenti, da suggerire presto ai redattori, rimasti all’inizio pure anonimi, il pensiero del’interruzione della stampa del periodico. Cosa che puntualmente avvenne, a conferma dell’estrema pericolosità della satira politica per i propri ideatori.
Dal 7 giugno 1896, all’epoca del soggiorno nella città jonica, sotto lo pseudonimo di “Ellenio”, Marti produsse diversi interventi, richiesti dal direttore-proprietario Alfredo Guariglia della pubblicazione “Jonio”, organo delle provincie meridionali. Il taglio era di carattere politico, commerciale e letterario. Agli articoli furono spesso accostate delle piccanti vignette, che miravano a colpire soprattutto l’on. Nicola Re.
Del periodo del soggiorno “tarantino”, preceduta già dalla direzione de “Il Salotto” dell’aprile del 1896 e del periodico bisettimanale “L’Avvenire” (1897), di cui figurò anche proprietario, fu sua la collaborazione al foglio indipendente “Il Lavoro”, che usciva con cadenza settimanale, a partire dal 1898, e per cinque anni, diretto da Antonio Misurale.
Sempre a Taranto, dal maggio del 1902, il Nostro collaborò alla stampa del settimanale “La Palestra”, diretta da Achille Trisolari. Purtroppo, ebbe a lamentare Nicola Vacca, anche di quella pubblicazione non si conservano che pochissimi esemplari.
Oltre agli interessi di carattere storico-artistico, non mancò a Marti quello per le manifestazioni d’ordine letterario. Dal 1905, infatti, collaborò alla rivista quindicinale “Calliope”, diretta da Luigi De Simone, su cui furono affrontate questioni relative alla produzione poetica, alla prosa ed al teatro. Suoi compagni di avventura furono V. D. Palumbo e Francesco Capozza.
Marti non mancò di essere nello stuolo dei protagonisti delle vicende editoriali
della “Rivista Storica Salentina”, fondata nel 1903 dal direttore Pietro Palumbo. Il prestigioso mensile fu stampato prima presso la Tipografia Giurdignano, poi presso la “Dante Alighieri”. La rivista fu sospesa coi numeri 1-2 dell’anno X (1915) per la morte del direttore Palumbo. Riprese le pubblicazioni, il 20 luglio 1916, sotto la direzione di Salvatore Panareo e Cosimo De Giorgi, stampata dall’editore Gaetano Martello nella Tipografia Salentina.
Con la morte del De Giorgi, avvenuta nel dicembre 1922, rimase direttore Salvatore Panareo. Con l’ultimo fascicolo del 1920 si pubblicò in Maglie nella Tipografia Messapica di B. Canitano. Le pubblicazioni cessarono definitivamente con l’anno XIII, nel dicembre del 1923.
In Appendice si pubblicarono le Cronache Leccesi del Braccio, del Panettera, del Cino e del Piccinni. Nell’anno X vi è l’indice del decennale, compilato da Panareo e una commossa necrologia di Pietro Palumbo, dettata da Cosimo De Giorgi.
La rivista, creata con i soli mezzi finanziari del Palumbo, verso il quale insensibili furono le pubbliche amministrazioni, avare di aiuti nel difficile periodo dell’anteguerra, costituì un’importantissima rassegna di studi storici regionali per serietà, costanza di propositi e cospicui risultati raggiunti.
Il Palumbo seppe radunare intorno alla sua rivista i migliori studiosi tanto da farne per molti anni il centro propulsore di autorevoli studi storici salentini. Tra i maggiori collaboratori non mancarono, oltre al direttore, Pietro Marti, F. Bacile, Luigi e Pasquale Maggiulli, Amilcare Foscarini, Cosimo De Giorgi, N. Bernardini, Umberto Congedo, il can. Francesco D’Elia, Salvatore Panareo, Baldassarre Terribile, Giovanni e Ferruccio Guerrieri, Giuseppe Blandamura,, Giovanni Antonucci, Nicola Argentina, G. F. Tanzi, Rodolfo Francioso, Giuseppe Petraglione, V. De Fabrizio, M.A. Micalella, P. Coco, C. Massa, F. D’Elia, T. Nutricati, E. Pedìo, A. Perotti, F. Ribezzo, G. Ceci,, F. Barberio,L. Bianchi,. P. Camassa, G. Della Noce. V.D. Palumbo, G. Porzio, A. Anglani, ecc.
Il Vacca notava che questa rivista era la più ricordata e la più ricercata dai collezionisti, lettori e studiosi. La sua collezione completa, che per fortuna è presente nella Biblioteca provinciale, è quotatissima, anche perché ormai introvabile.
Altra interessante collaborazione di Marti fu quella che egli fornì al foglio Arco di Prato, che cominciò le sue pubblicazioni a Lecce nel 1928. Esso vedeva la luce una volta l’anno, la sera del Veglione della Stampa, quando veniva presentato al pubblico leccese. Tra i principali redattori dei primi anni vi furono Ernesto Alvino, Nicola Vacca e Mario Bernardini. Spesso non fece mancare la sua collaborazione anche Pietro Marti, Memorabili, tra le caricature che non mancavano quasi mai, quelle di Ernesto Alvino e Pippi Rossi.
Nel 1932 fu scritto in Almanacco Illustrato (Il Salento, 1932) il contributo non firmato, ma certamente fornito da Pietro Marti, dal titolo “Giornali e giornalisti di altri tempi: nel decennio del trasformismo”. Nella nota giornalistica si faceva un quadro del decennio trasformista nella provincia di Lecce e soprattutto, ed è ciò che depone in favore della sua paternità, l’apologia del giornale “La Democrazia”, che il giornalista salentino aveva diretto.
Questa, dunque, la serie completa, forse, dei fogli, delle riviste e dei periodici che videro Pietro Marti, accanto ad altri prestigiosi intellettuali salentini, misurarsi con la nobile arte del giornalismo, fatto di serietà e di passione, con le quali egli illuminò non poco il panorama culturale della sua Lecce e dell’intera Puglia, con tracce significative da lui lasciate anche in altre città della Penisola, come a Comacchio, dove egli aveva soggiornato e scritto, sempre con l’intento di recuperare e riproporre il patrimonio storico-artistico delle nostre genti.
Testo pubblicato in: “Note di storia e Cultura Salentina”, Lecce, Grifo Ed., a. XX (2012-2011), pp. 227-234.
Domenica 29 dicembre ad Alliste (Le), dalle 10.30 alle 13
Può un dolce essere salutare? L’esperto dice sì
Scoperta e degustazione di dolci realizzati con Olio EVO
Nella prossima “Buona (e sana) Domenica” sono di scena
il PanSorriso, il PanGioia ed il PanBellezza con ingredienti sani a km 0
Incontri con esperti di nutrizione e di estetica, degustazioni,
minispettacolo con P40, mostra pittorica e omaggi a chi giunge in bici
La prossima “Buona (e sana) Domenica”, oltre ad essere buona e sana, sarà anche molto …dolce! Sì, perché domenica 29 dicembre, presso il Cafè dei Napoli in pieno centro ad Alliste (Le),i riflettori saranno puntati su dei prodotti di alta pasticceria che hanno la straordinaria caratteristica di essere realizzati con Olio Extravergine d’Oliva (al posto del burro), miele (al posto dello zucchero), lievito madre e tanti altri ingredienti assolutamente naturali e a km 0, parliamo del PanSorriso, delPanGioia e del PanBellezza, i tre dolci della salute concepiti e realizzati dal pasticciere salentino Giovanni Venneri. Il segreto del PanSorriso sono i fichi secchi salentini macerati nell’Elisir S. Marzano, il PanGioia ha un’anima di “cuettu” ed il PanBellezza nasconde nella sua dolcezza chicchi di melograno e aloe vera.
L’appuntamento quindi di quest’altra “Buona (e sana) Domenica della Dieta Med-Italiana” è fissato per il 29 dicembre. Il programma, sebbene si svolga nella sola mattinata, è ricco e pieno di sorprese. Si comincia alle 10.30 con due incontri con esperti, il nutrizionista Cristian Manni illustrerà tutte le proprietà salutistiche, terapeutiche e nutrizionali degli ingredienti che compongono i tre dolci mentre l’esperta di estetica Anna Barbieri concentrerà l’attenzione sul PanBellezza. Per l’intera mattinata, dalle 10.30 alle 13, sarà possibile conoscere, apprezzare edegustare gratuitamente tutti e tre i prodotti dolciari, oltre all’olio extravergine “Adamo” (con cui i dolci sono realizzati) ed il “cuettu” e Vincotto Primitivo dell’azienda di Melissano “Terra Apuliae”. A completare il cartellone degli eventi un mini spettacolo del cantattore salentino P40 e la presentazione della personale di pittura “Amore e …non Amore” di Mario Venneri.
Anche in questa terza occasione saranno premiati tutti coloro chegiungeranno in bicicletta, in quanto Giovanni Venneri ed il Cafè dei Napoli regalerà loro un “PanGioia” da 250 gr., questo perché la Dieta Med-Italiana è anche movimento, attività fisica e eco-sostenibilità.
Ricordiamo che le “Buone (e sane) Domeniche – il buon gusto della salute” sono una serie di incontri che avranno luogo durante alcune delle domeniche di questo prossimo inverno/primavera e che, volta per volta, punteranno i riflettori su un ben specifico prodotto caratterizzato dall’essere sia buono al gusto che sano e salutare. Un vero e proprio nuovo format di eventiideato dagli studenti di “Pro_Salento” e mirante a formare e ad informare la cittadinanza, i turisti e i visitatori sulla grande qualità dei prodotti realizzati sul territorio e sui loro benefici in termini di benessere e salute.
a cura dell’Associazione Culturale Festa de lu focu
Puntuale come le feste dicembrine torna sabato 28 dicembre la Festa de lu focu di Zollino, appuntamento che spegne 34 candeline con l’importante novità di aderire al marchio “Ecofesta Puglia“. Largo Lumardo, altare laico di una festa pagana che tenacemente continua a rinnovarsi di anno in anno,accogliela singolare focara, un paziente intreccio di fascine di legno d’ulivo che attende di ardere e riscaldare lentamente per tutta la notte tutta la comunità.
Si comincia alle 20, con l’accensione del falò, il fuoco catartico e ben augurale che porta via la malasorte passata, momento che si carica di suggestioni con gli spettacoli degli artisti di strada, le divertenti evoluzioni dei giocolieri e le coraggiose performance dei mangiafuoco. A scandire i ritmi della festa, prima e dopo la musica sul palco, sono le ronde di tamburelli che, fino all’alba, abbracciano la focara in un grande cerchio. Dalle 21.30 la scena è tutta per Antonio Castrignanò, la “canottiera” della musica popolare salentina ormai conosciuta in tutto il mondo, che sprizza energia con canti storici del suo repertorio e alcune anticipazioni in attesa del prossimo e attesissimo disco. Il nuovo progetto si annuncia come un’ulteriore svolta nel suo eclettico percorso artistico che si arricchisce ora delle incursioni elettroniche maturate con il dj e polistrumentista turco Mercan Dede.
A seguire lo spettacolo dal vivo continua con il duo dj/producer Insintesi accompagnato dalla voce di Alessia Tondo, per un live set dalle sonorità dub urbane che coniuga l’elettronica con le sperimentazioni sulla vocalità popolare femminile.
Come tradizione vuole, Largo Lumardo, “vestito a festa” con le opere in metallo traforato dell’artista Giuseppe Castellano, si inebria dei profumi dei piatti tipici come le gustose sceblasti (il pane farcito tipico di Zollino farcito con olive nere, zucchine, cipolle, pomodori, capperi, peperoncino), le dorate pittule, i gustosi pezzetti di cavallo e la fumante carne alla brace. Non mancano all’appello i genuini legumi, preparati “alla pignata” come un tempo, tra cui il tipico “pisello nano” di Zollino e le fave “cu le cicoreddhe”. Immancabile è il vino rosso che scalda e inebria, e ovviamente l’acqua che, a Zollino più che mai, è pubblica e non si paga. Inizio ore 20. Ingresso libero. Info: 380/4252696.
La Festa, nata nel 1978 con l’intento di recuperare le tradizionali “Focare di Sant’Antonio” anticipandole dal 17 gennaio al 28 dicembre, cioè quando gli emigranti erano a casa per Natale, si è arricchita nel corso degli anni di elementi nuovi conservando il filo conduttore che lega tradizione e cultura. La manifestazione, per caratteristiche storiche e sociali, si inserisce nel tradizionale filone delle feste popolari, seconda in ordine di tempo soltanto alla “Festa de lu mieru” di Carpignano Salentino.
Per capire cos’è oggi la Festa de lu focu e cosa rappresenta non solo per Zollino ma per tutto il territorio circostante bisogna partire dalle origini, dalla fine degli anni ’70, quando si assisteva all’abbandono di molte cose, prima di tutto la terra, poi le arti (come quelle della pietra, della creta, del legno), poi l’uso delle mani e del corpo, delle biciclette, poi ancora del dialetto, dei canti, dei cunti, del griko.
In questo contesto si inserisce la prima edizione della Festa de lu focu, nata da un’idea di Giovanni Pellegrino, la festa, quindi, non era uno sfizio estemporaneo di qualche fantasioso, ma parte di un progetto culturale complesso e innovativo: conservare il bello, i significati, l’identità salentina, in un mondo che cadeva a pezzi in favore di una modernità da prendere saggiamente con beneficio d’inventario.
La Festa de lu focu dà spazio a espressioni d’arte e lavoro, tra fantasia e realtà, come stimolo a confrontarsi su antichi e nuovi contenuti culturali, per questo accoglie le estrose istallazioni sul tema del fuoco a cura dell’eclettico artista Giuseppe Castellano. Per dare forza e sostanza a questo messaggio durante la festa verrà somministrata gratuitamente solo acqua pubblica!
Promossa dapprima dall’associazione culturale “Bottega del Teatro” e successivamente dall’associazione culturale “Festa de lu focu”, col passare degli anni si è sempre arricchita di elementi nuovi, in una sorta di evoluzione sincretica, conservando comunque un unico filo conduttore: giochi, tradizioni e riti liberatori attorno al fuoco. Quest’anno la festa si arricchisce di un ulteriore valore, l’adesione al marchio “Ecofesta Puglia”.
L’evento Festa de lu focu ha fatto richiesta della certificazione volontaria “Ecofesta Puglia”, premiata dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e cuore pulsante del progetto “La Tradizione fa Eco- modello di sostenibilità per innovare la tradizione e rivoluzionare gli eventi pugliesi” vincitore del bando Social Innovation.
Si tiene venerdì 27 dicembre a Brindisi al Nuovo Teatro Verdi (inizio ore 21.30) l’unica data pugliese del “Solo Piano” tour di Stefano Bollani. Il concerto,organizzato da TT Events epatrocinato dai Comuni di Brindisi e Lecce,è il primo evento promosso da entrambe le Città per concorrere alla candidatura di Lecce al titolo di “Capitale europea della cultura 2019”.
Fresco di successo con “Sostiene Bollani”, in onda su Rai3, spazio in cui ha raccontato la musica seguendo un insolito e personalissimo punto di vista, Stefano Bollani porta ora sul grande palco brindisino un recital dal piglio enciclopedico che percorre la storia del jazz e va molto oltre, rivelando una personalità unica attraverso un fulmineo quanto impressionante snocciolarsi di idee.
Il pubblico è protagonista di un viaggio imprevedibile, in cui il compositore sembra prendere per mano ogni spettatore per accompagnarlo nel suo universo musicale, traboccante di sentimento e di divertimento, creato destrutturando e ricostruendo in modo sempre diverso i brani che spesso si ritrovano nei suoi dischi.
È dello scorso ottobre l’uscita della “Platinum collection”, il ritratto di uno straordinario artista del nostro tempo che torna con la versione integrale del best-seller “Carioca” (oltre 50.000 copie vendute), lo scintillante album “Big Band”, inciso con lo NDR Big Band Ensemble. A completare la “collezione” è una ricca scelta di incisioni dal ragtime (Scott Joplin), alla classica del Novecento (George Gershwin, Kurt Weill), al jazz per piano solo, in gruppo con Roberto Gatto e Paolo Fresu, e in duo con Francesco Grillo. Tutto questo con una novità: per la prima volta su cd, la fantastica versione di Maple Leaf Rag, composizione di Scott Joplin edita nel 1899, che Bollani ha registrato dal vivo in occasione del trionfale concerto tenuto al Teatro alla Scala il 21 aprile 2012.
Classe 1972, Bollani è uno straordinario talento, dotato di una tecnica prodigiosa, e lo dimostra il suo contributo alle produzioni ECM di Enrico Rava “Easy Living” e “Tati”, un puzzle di musica e di estemporaneità che si fondono in continuazione per plasmare i suoni in un instancabile dialogo fra improvvisazione e canzone, pubblico e pianista. La sua poliedrica sensibilità gli permette di suonare con la stessa passione un rag, un tango e gli standard più o meno conosciuti, spingendosi verso la più ardita improvvisazione, in un turbinoso viaggio tra i generi che assecondano una personale logica e necessità espressiva.
Conoscere in anticipo quali note vibreranno nel prezioso pianoforte a coda è impossibile, perché la scaletta prende forma solo nel momento in cui il compositore poggia le dita sui tasti e inizia a ripercorrere il suo io musicale. “Piano solo” è un viaggio nelle sue emozioni, passando dal Brasile, alla canzone degli anni ’40, fino ad arrivare ai bis a richiesta in cui mescola dieci brani come se fosse un dj.
Manfred Eicher, produttore discografico e fondatore di ECM, ha detto di lui: “raramente ho incontrato un musicista, un improvvisatore, che avesse un così sviluppato senso della struttura e della forma”.
Note biografiche
Bollani inizia a suonare all’età di 6 anni e si diploma al conservatorio Cherubini di Firenze, iniziando la sua attività professionale a 15 anni, suonando sia con formazioni pop-rock che con gruppi jazz. Nel 1996 l’incontro con Enrico Rava, suo mentore, è decisivo e da quel momento inizia una collaborazione mai interrotta. Con Rava suona suoi palchi di tutto il mondo e incide tredici dischi pluripremiati.
Il percorso musicale è spesso legato alla letteratura: nel 1998 mette in musica con Massimo Altomare “La Gnosi delle Fanfole” di Fosco Maraini; nel 2002 il primo album per l’etichetta francese Label Blue, “Les fleures bleues”, un omaggio allo scrittore Raymond Queneau; nel 2003 riceve il Premio Carosone, artista al quale ha dedicato un piccolo libro-saggio, “L’America di Renato Carosone”; nel 2006 esce il suo primo romanzo, “La sindrome di Brontolo”; nel gennaio 2013 esce per Mondadori il suo nuovo libro “Parliamo di musica”.
Pubblica per la Decca il dvd “Live a La Scala” con la Filarmonica della Scala diretta da Riccardo Chailly, con il quale ha già registrato “Sounds of the 30’s” e “Rhapsody in blue” con la Gewandhousorchester di Lipsia; Ambasciatore di Topolino, nell’ambito del fumetto ha collaborato anche con Leo Ortolani il disegnatore di Rat-man; su Radio3 il programma di grande successo “il Dottor Djembè” lo ha visto come conduttore insieme a David Riondino e Mirko Guerrini per sei stagioni. Varie anche le collaborazioni nel teatro e nel cinema.
Inpassato, disponendo mediamente di poco, ci sentivamo appagati e sorretti da due grandi ricchezze e forze: la semplicità e la robustezza della spina dorsale.
Con naturale consapevolezza e senza grilli per la testa, rispettavamo i momenti difficili, facendo la cernita dei pur legittimi desideri e aspirazioni, rinviandone l’appagamento e l’attuazione a tempi più propizi.
Per fare un esempio, alla crisi petrolifera del 1973, rispondemmo con la scelta di muoverci, il sabato e la domenica, rigorosamente a piedi, e ciò non per scopi ecologici, ma per risparmiare sulla spesa per carburante.
E’, però, successo che il cosiddetto miracolo economico, nel nostro Paese, ha recato con sé una sorta di tarlo che, pian piano, ha fiaccato o sgretolato completamente molti degli antichi principi di rigore, prudenza e parsimonia. Al punto che, oggi, non è il caso di parlare genericamente d’impatto con il cambiamento fisiologico dei tempi, bensì di stravolgimento e capovolgimento di costumi, usi e abitudini: il senso del sacrificio e della rinuncia si è ridotto al lumicino.
Siamo ormai soliti concederci tutto, senza prendere le misure con le nostre disponibilità; siamo divenuti esperti del credito personale o, per essere chiari, dell’indebitamento.
Si sono così riformate numerose e diffuse sacche d’accentuata povertà, simili alla miseria debellata nell’anzi richiamato periodo del boom.
Nulla sembra riuscire a frenarci nello “spendi e spandi”.
Questo post vuole essere solo una segnalazione di una serie di immagini sull’argomento, che ho tratto tutte dal sito della Biblioteca Nazionale di Francia. Cliccando sul link sottostante a ciascuna (qui riprodotta in formato ridotto) si accede alla sua visione con il cursore che assume le sembianze di una lente d’ingrandimento; basterà cliccare col tasto sinistro per fruire della stessa immagine in alta definizione.
Bassorilievo di Mino da Fiesole, Roma, Basilica di Santa Maria Maggiore
L’immagine di testa sarà pure scontata ma preferisco di gran lunga Giotto al G8. E, dopo questo battuta da premio Ignobel, passo subito ai proverbi.
Divenuto obsoleto nell’epoca del cosiddetto benessere e dei correlati consumismo, sperpero, apparire, il detto è tornato ad essere prepotentemente attuale ai giorni nostri. Il nihil sub sole novum (niente di nuovo sotto il sole) e i famosi corsi e ricorsi storici del Vico che qualche cinico, spacciandosi per realista, ha già messo in campo con la rassicurazione di un futuro migliore che sarebbe dietro l’angolo di casa e non, come quello cristiano, del cielo, non servono certo a consolare le vittime della situazione, meno ancora a risolverla. Quel cinico (con valore collettivo …) al quale chi ci ha creduto ha conferito (ammesso che il conferimento ci sia stato e sia stato legittimo …) l’onere di rappresentarlo dovrebbe almeno, in un sussulto di rispetto per gli altri e per se stesso, rinunziare a lanciare i soliti melensi messaggi di ogni fine d’anno. Alle banalità snocciolate una dietro l’altra le persone, quelle serie (e tra queste sicuramente e soprattutto coloro che nemmeno a Natale mangeranno carne), gradirebbero il silenzio.
Il senso letterale dell’ultimo proverbio mi è chiaro, quello profondo meno. L’unica spiegazione di cui sono capace è di natura etimologica (e ti pareva! …). Sabbat in ebraico significa cessazione dal lavoro e i contadini di un tempo onoravano rigorosamente solo la domenica ma lavoravano dall’alba al tramonto (e qualcuno, come vedremo, anche oltre) nei restanti giorni della settimana. Nel leopardiano Il sabato del villaggio questa realtà è impersonata dalla donzelletta che vien dalla campagna in sul calar del sole (e in campagna non si era certo recata mezzora prima a catturare farfalle col retino …), dal riede alla sua parca mensa, fischiando, il zappatore e da odi il martel picchiare, odi la sega del legnaiuol, che veglia nella chiusa bottega alla lucerna, e s’affretta, e s’adopra di fornir l’opra anzi al chiarir dell’alba. Insomma, quando il pane bisognava guadagnarselo quotidianamente, se il Natale cadeva di sabato si era obbligati a non lavorare per due giorni consecutivi; perciò, per poter mangiare, era necessario vendersi il cappotto.
Anche questo detto, purtroppo, è ritornato attuale e, pensando a chi non riesce più a procurarsi giornalmente un tozzo di pane, sono costretto a ribadire le riflessioni ispiratemi dal primo. Sarebbe bello che in tempi brevi entrambi ridiventassero, almeno parzialmente, obsoleti; l’ironia del destino ha voluto, però, che fosse il secondo a diventarlo, forse per sempre, con i nefasti cambiamenti climatici in atto.
2 Per l’etimo di muttulosa e per il commento all’intero detto vedi la nota 4 dello stesso post al link prima indicato.
3 Credo che qui cappa (indumento dei nobili e degli ecclesiastici) stia nel senso toscano di cappotto. La scelta può essere stata indotta, forse inconsapevolmente dal fatto che cappotto (in dialetto cappottu) è accrescitivo di cappa e che in un comune giudizio di valore è più facile che prevalga la quantità sulla qualità e non viceversa. Non escluderei anche un’insospettabile ma istintiva raffinatezza metrica per fare in modo che anche il secondo verso fosse, come il primo, un endecasillabo (con dialefe, cioè considerando, così come si vedono, due sillabe distinte la –a di cappa e la successiva e). C’è da dire che il verso sarebbe lo stesso stato un endecasillabo con cappottu al posto di cappa, ma in questo caso si sarebbe dovuto fare i conti con la sinalefe, cioè considerare un’unica sillaba la -u di cappottu e la successiva e, operazione meno semplice e intuitiva della prima.
Il 12 dicembre si è svolta a Roma la conferenza nazionale “La Natura dell’Italia, Biodiversità e Aree Protette: la Green Economy per il rilancio del Paese”. Il Ministero dell’Ambiente ha dato l’opportunità alla comunità scientifica che studia la biodiversità di dire al Governo, e al Capo dello Stato, che un’economia che ignora l’ambiente, considerando sua la protezione come un ostacolo al progresso, è cattiva economia.
La crescita del capitale economico e ha avuto come conseguenza lo sperpero del capitale naturale. Il prezzo del disaccoppiamento economia-natura, conteggiato come costi di ricostruzione e restauro dei territori, disinquinamento, cura delle malattie derivanti dal degrado ambientale, per non parlare delle morti, è superiore ai guadagni ottenuti. L’economia ha esaltato i ricavi economici e ha nascosto i costi per l’ambiente e la salute umana: una truffa che stiamo pagando a carissimo prezzo. Tutti i decisori presenti al convegno sono d’accordo che una nuova economia sia necessaria, un’economia che abbia la Natura al proprio centro, resta da vedere come questi principi saranno attuati. Il Ministro dell’Economia Saccomanni, ha esordito dicendo di non essere un esperto di Green Economy, ed ha reso immediatamente chiaro l’errore nel titolo della conferenza. La Green Economy non è un comparto dell’economia. Non è la Green Economy che dobbiamo promuovere, tra le altre forme di economia, ma una Nuova Economia che consideri un principio basilare: la nostra specie è parte dei sistemi naturali e senza di essi non può sopravvivere. La nostra economia deve rispettare le leggi della Natura. Non può esistere un’economia che le rispetta (la Green Economy) e un’economia che le ignora.
A parte il Ministro dell’Economia, comunque, pare che tutti gli altri siano convinti che la transizione alla Nuova Economia è necessaria, non solo perché è giusto, ma perché non abbiamo alternative. Ora dobbiamo trovare il modo per mettere in atto questi principi, sviluppando nuove tecnologie e promuovendo la ricerca su biodiversità e ambiente che, nel nostro paese, è finanziata in modo ridicolo. Non è possibile gestire il capitale naturale se non abbiamo l’inventario delle specie e degli habitat che esse popolano. E poi dobbiamo capire come le specie interagiscono tra loro e col mondo fisico nel far funzionare gli ecosistemi. E’ necessario uno sforzo scientifico per comprendere meglio il capitale naturale e le leggi che lo governano, in modo da adattare ad esso il nostro progresso economico, inventando la nuova economia invocata dal Ministro Orlando.
Se l’Italia dovesse davvero intraprendere questa strada sarebbe leader mondiale di questa nuova prospettiva. Il Ministro Orlando ha fortemente voluto questa conferenza nazionale, come seme per una visione che vuole perseguire a livello governativo, e il resto del Governo si è impegnato in tal senso. Se dalle parole si passerà ai fatti, una strada per uscire dalla crisi inventando una nuova economia è tracciata. Bisogna solo seguirla.
La presenza di tutte le alte cariche dello Stato è una buona vetrina per la protesta. Trecento studenti hanno manifestato il loro disagio, è stata lanciata qualche bomba carta, c’è stata qualche carica della polizia. Una studentessa è entrata nell’aula e ha fatto il suo discorso: voi siete qui a fare la passerella, noi fuori soffriamo. Giustissimo, ma questo non toglie che, in quell’aula, stesse avvenendo un cambiamento epocale (se alle parole seguiranno i fatti). Il giorno dopo, su tutti i giornali, la notizia è stata che ci sono state cariche della polizia a Sapienza. Del contenuto di questa conferenza nazionale, che potrebbe rappresentare una svolta nell’impostazione della nostra società, non c’era parola. I giornali più illuminati hanno parlato dell’importanza dei parchi per difendere la biodiversità. E la Natura è stata relegata ad aneddoto. Gli altri hanno riportato che a Sapienza era in corso un convegno sulla green economy. Erano presenti decine di giornalisti, ma forse non sono stati in grado di capire la potenzialità di questo evento, è stato molto più facile limitarsi a un pezzo sulla polizia che carica i manifestanti.
Caro Gesù Bambino,
in questi tempi di computer, posta elettronica, messaggini, video conversazioni, iPad, iPhone e chi più ne ha più ne metta, uno scolaretto che ha superato la boa dei settanta avverte il bisogno di mandarti, alla vecchia maniera, due righe di sfogo e di petizione.
Mi rendo conto che, alla presenza di un destinatario speciale che già sa tutto, cioè a dire conosce perfettamente i pensieri, le riflessioni più profonde, le ansie e le angosce piccole e grandi d’ogni essere, la mia iniziativa rischia di apparire ovvia e superata già nella sua maturazione, pur tuttavia, amato Bambinello, permettimi egualmente di snocciolarla e, pur nella sua pochezza, di manifestarla sino in fondo, per me stesso e, idealmente, anche per gli altri umani.
Nella classe di cui faccio parte siamo, purtroppo, più alunni discoli che bravi ragazzi, il tuo registro è intensamente costellato di voti negativi e di note di biasimo. Nondimeno, è strano che sia un allievo a voler sollecitare il maestro a intervenire, ma, purtroppo, non se ne può più.
Per la verità, mi sembra quasi di svolgere a ruota libera un tema senza traccia, in cui devono trovare posto, sottoforma di confessioni, una gamma di consapevolezze dai contorni negativi e pesanti, anzi molto pesanti e, perciò, non oltre sostenibili.
La preghiera che ti rivolgo, Gesù, è di ascoltare queste litanie di “mea culpa” e istanze di intervento e di avvalorarle, interponendo quindi i tuoi migliori uffici, affinché, da parte della Superiorità che può senza alcun limite, se ne tenga conto e si dia seguito nel migliore dei modi.
Come ti è stato dato di registrare, nella piccola e povera Italia vanno da lungo tempo inanellandosi tante discussioni e polemiche, spesso divampanti, in tema di “fine vita”.
Coinvolgendoti in questa specifica faccenda, mi sento oltremodo minuscolo e pure un po’ allibito: difatti, già due millenni addietro, proprio il caso del tuo trapasso sul Golgota è emerso come emblema e sintesi della problematica in questione, allora senza squilli di tromboni né scontri dialettici, ma semplicemente con il sommesso lamento delle pie donne e il riconoscimento finale degli stessi pretoriani di guardia ai piedi della Croce.
Fai, dunque, che – su questo punto – le menti ed i cuori di oggi, astraendo dalle razze e dalle bandiere politiche e ideologiche, arrivino a porsi sui giusti indirizzi e nella luce più chiara.
Ti sarà giunto, forse anche infastidendoti un tantino, l’eco delle sequenze a proposito del planetario crack o bolla finanziaria, consumatosi nell’ambito d’insospettabili istituzioni del settore, per mano di potenti faccendieri senza scrupoli e poi disseminato da intermediari certamente non disinteressati, alla fine riverberatosi con lo svuotamento delle casse degli Stati e delle stesse tasche di un esercito di utenti fiduciosi quanto, talvolta, sprovveduti, con vanificazione dei risparmi raggranellati con sacrificio, magari nel corso di un’intera vita.
Or bene, dinnanzi a tali fatti, caro Bambino, senza voler male ad alcuno, ma semplicemente per monito e richiamo, non credi che sia necessario qualche segnale? Perché non trasformare gli arroganti protagonisti di queste operazioni, dall’attuale condizione di grandi signori che non si fanno mancare nulla, e ai quali tutto è consentito, in innocui capri (sì, proprio i maschi delle capre) costretti a mantenersi nutrendosi esclusivamente dell’erba di teneri pascoli?
Che ne pensi poi dei numerosi dittatori, malvagi e profittatori, non solo quelli in testa alla classifica di tristissima fama, ma anche tutti gli altri, senza nome ma parimenti deleteri, che imperversano sulla faccia della terra? Pur nella mia miseria di scolaro discolo e quindi con meriti e credenziali carenti, vorrei auspicare che il Padre Eterno compisse il prodigio di convertire questi individui verso i lidi del buon vivere e delrispetto del prossimo, oppure, se la sua volontà non dovesse volgersi in quel modo, che i medesimi, così come si verificò secondo la parabola evangelica del ricco possidente accumulatore di beni e dovizie, venissero richiamati lassù.
Infine, diletto Pargolo, trascurando tanti altri affreschi stridenti e/o scrostati dello scenario contemporaneo, lascia che io deponga sotto la tua culla il più vasto e grave problema di oggi, per la gente su scala planetaria: la fame e la povertà. Qui davvero non si può andare avanti, con gli attuali sistemi e le isolate seppur lodevoli iniziative di carità ed assistenziali non ce ne usciamo. Ogni giorno si consumano milioni di autentici drammi: il Signore, infatti, dà generosamente il dono della vita a stuoli di creature, nei cui confronti, però, a motivo degli stenti e della miseria o addirittura per assoluta mancanza di cibo e di acqua, l’avventura esistenziale viene a chiudersi troppo presto e tristemente.
Mi pare che, allo stato delle cose, a meno che dall’alto non si voglia disporre miracolosamente e in modo incontrovertibile l’equa distribuzione,sul globo, delle risorse necessarie, permettendo che ciascun individuo possa accedervi e disporne liberamente, solamente un’iniziativa serva a modificare l’attuale standing di discriminazione e di ingiustizia sociale.
Il Padre – come era solito fare in talune occasioni agli albori della creazione – si manifesti con il suo volto corrucciato, ma nello stesso tempo premuroso, alla vista di tutti gli esseri viventi, affacciandosi, ad esempio, dal cerchio di una luna piena sullo sfondo dell’azzurro del cielo, e ammonisca tutti coloro i quali posseggono mezzi oltre il necessario, nessuno escluso, a condividere categoricamente le sostanze con i fratelli che ne sono privi, ponendo così fine alla fame, alla sete e alla miseria.
Io credo che un invito del genere troverebbe molto ascolto e avrebbe un seguito ed effetti positivi più concreti rispetto a qualunque serie, di umana ispirazione, anche se ripetuta e consistente, di iniziative e promozioni caritatevoli a favore del prossimo.
Scusami, Gesù, se oso raggiungerti con un fardello di istanze abbastanza pesante. Ma so di mettermi in buone mani.
Ti auguro di non patire troppo il freddo nella capanna dove, fra giorni, attendo ancora una volta il tuo arrivo.
Secondo le ultime statistiche ufficiali, il debito pubblico italiano, a fine ottobre 2013, ha raggiunto la cifra di 2085 miliardi d’euro.
Pensare, che il sottoscritto serba ancora vivo il ricordo del momento in cui, intorno al 1980, la medesima risultanza arrivò a toccare la soglia di 516 miliardi (per l’esattezza, all’epoca si trattava di un milione di miliardi delle cessate lire), suscitando molti clamori e fiumi di commenti, ma, a seguire, nella sostanza, ahinoi niente altro.
L’attuale esposizione, come è noto, corrisponde ad oltre il 130% del prodotto interno lordo e, ragguagliandola alla popolazione del nostro paese, sarebbe come dire che, sul capo di ogni cittadino, gravi pressappoco un fardello di 34.750 euro.
Da notare che su questo autentico «baratro» corrono anche gli interessi e, di conseguenza, viene quotidianamente a determinarsi una sensibile lievitazione.
Eppure, di siffatto dato che caratterizza i conti dello Stato si sente parlare meno che di altre faccende (si crede forse che qualche grazia divina metterà le cose a posto?), laddove, abnorme spesa pubblica a parte, la più pesante palla al piede dell’Italia è rappresentata proprio dal debito. Il guaio è che, oggi come oggi, non si discerne minimamente attraverso quali strumenti porvi rimedio, nemmeno proiettando e diluendo la soluzione del problema nell’arco dei decenni a venire.
Per la verità, un percorso esisterebbe: visto che si va da sempre affermando che nel nostro Paese alligna un’enorme evasione fiscale (redditi non dichiarati per diverse centinaia di miliardi e, in correlazione, minori imposte riscosse dallo Stato stimate da autorevoli fonti nell’ordine di centotrenta miliardi all’anno), perché, una volta per tutte, non si focalizza l’attenzione su questo punto?
In proposito, una mia piccola personale idea: dal momento che intratteniamo, ormai in via consolidata, cordiali e amichevoli rapporti con gli U.S.A. ed essendo notorio che in tale Paese le tasse vengono pagate da tutti e su qualsiasi reddito, perché non ricorriamo alla collaborazione delle Autorità americane, facendoci aiutare ad organizzare e a mettere a regime un’efficiente macchina fiscale?
Credo che basti volerlo, però volerlo veramente.
Questo libro di Paolo Vincenti, La bottega del rigattiere, è uno spazio aperto, percorribile su diverse direttrici, dall’inizio alla fine, dalla fine all’inizio, dove ogni capitolo (per altro autonomo) è un rimando all’altro, perché il cammino intrapreso ritorna circolarmente su se stesso e il senso di una parte si arricchisce della visione del tutto. Il libro è costruito come una sorta di diario canzoniere personal-universale, dove vengono chiamati a raccolta molti dei topoi tipici della letteratura occidentale, il doppio, il diverso, l’apollineo e il dionisiaco, l’essere e il tempo ed esplicitamente si dichiara, quasi in ogni capitoletto, l’omaggio a un poeta o a un cantautore. Immediatamente il lettore viene precipitato in un mondo senza confini o coordinate spazio-temporali, sovrappopolato di fantasmi reali e immaginati, di presenze archetipiche, di riti collettivi, di luoghi simbolo. E così tra le pagine scorre il tempo della poesia occidentale, dalla grecità ad oggi, insieme al tempo sconnesso della vita reale, dove ogni tentativo di ordine e la ricerca di un senso sembra franare nel caos primigenio e tuttora contemporaneo della nostra società. Il testo, nell’insieme, assume le sembianze di un corpo pensante dadaista, surrealista, rapper, che si muove tra le pagine e documenta, nell’oggi, la banalità del caos, la perdita d’orientamento, la fuoriuscita strabordante e artificiale di informazioni ed eventi, denunciando come impraticabile la capacità o la possibilità di argomentare e di elaborare un pensiero coerente e coeso. Siamo ancora quelli “della pietra e della fionda” (Vincenti cita Quasimodo), e qui mi sembra molto ben rappresentata l’immagine dell’Italia e dell’italianità, l’humus di questa terra che ab origine sprofonda e risorge tra alti ideali e basse urgenze, dondolandosi tra slogan pubblicitari e canzoni nazional-popolari, tra Dante e Leopardi e gli spaghetti western. Ma in questa cornucopia di opposte pulsioni e di contrasti quasi drammatici l’autore avverte anche l’urgenza di far ridere, ridere di pancia, a crepapelle, come ad esempio in “Troy”, in “Psico-labile forever”, in “La mia libertà”, monologhi esilaranti, divertentissimi nei continui giochi di parole, nelle assonanze, tra bisticci ed allitterazioni. Tutto il libro esprime il gioco della lingua, le risorse espressive ed allusive di una sorta di scrittura automatica, di delirio organizzato. E’ un libro ben meditato nella sua composizione, dove si alternano diversi toni ed andamenti, con continui passaggi di registro. Andrebbe letto od ascoltato ad alta voce, per assaporarne al meglio la lingua, le sonorità, il ritmo, la pasta e l’impasto delle parole, le sue continue glissades tra alto e basso, aurorale e notturno, antico e avanguardista. La lettura ad alta voce permette infatti di cogliere non soltanto l’aspetto semantico della parola, ma quello ostensivo, “gestuale”, direbbe Merleau Ponty: il gesto vocale fa improvvisamente apparire dal nulla qualcosa di inaudito e quel qualcosa è immediatamente “per tutti”, da tutti percepibile. Le parole, come sapientemente esprime questo libro, non sono soltanto manifestazione di un significato, veicolo di un pensiero, ma sono contemporaneamente emozione musicale, colore, odore, tatto… La bottega del rigattiere è uno scrigno ricco di sorprese, è un atto d’amore per la poesia, dove ognuno può forse riconoscere un angolo della propria storia (e delle proprie letture) ed aprirsi ad accogliere l’invenzione di un orizzonte.
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