L’arte della cartapesta in Occidente è, senza dubbio, un’eccellenza della cultura italiana, anche se in passato è stata poco studiata e per questo è ancora quasi sconosciuta. La causa principale del disinteresse è dovuta alla sua materia che, originata da umili stracci, è ritenuta una sostanza vile e quindi inadatta alla produzione di opere d’arte.
L’autore del libro esamina tutti i motivi che hanno causato lo scarso interesse da parte degli studiosi per quest’arte e demolisce il preconcetto della poca affidabilità della materia cartacea alla produzione di opere d’arte. Flammia, che è anche lui stesso un maestro della cartapesta, attraverso un esame rigoroso e meticoloso rivaluta l’arte della cartapesta dalle prime sperimentazioni nelle botteghe toscane alla metà del ‘400 sino all’arte moderna. Vengono così esaminate con passione e competenza le opere degli artisti del passato e di quelli moderni, che hanno creato opere d’arte di cartapesta di grande rilievo, come Jacopo della Quercia, Donatello, Antonio Rossellino, Benedetto da Maiano, Desiderio da Settignano, Jacopo Sansovino, Ferdinando Tacca, Beccafumi, Bernini, Algardi, Angelo Gabriello Piò, Sanmartino, sino a Dubuffet e agli ultimissimi sperimentatori. L’autore non tralascia di esaminare anche gli artisti meno noti al pubblico soprattutto quelli che hanno apportato delle novità tecniche, analizzando inoltre le loro opere in ogni forma espressiva.
L’autore analizza ancora l’affermazione di questa attività artistica e le ragioni che hanno determinato la sua espansione nelle regioni italiane, in altri paesi europei e nelle Americhe.
Al confronto con la precedente pubblicazione del 2011 (Storia dell’arte della cartapesta- la tecnica universale), Flammia in questo nuovo studio, più organico e più rigoroso dal punto di vista filologico, affronta anche temi come l’arte della cartapesta e della mistura in Sicilia, ivi compreso l’utilizzo della materia cartacea negli allestimenti festivi importanti. Nello studio meticoloso di Flammia emerge inoltre un patrimonio demo antropologico straordinario, dai giocattoli alle arti applicate, dalle suppellettili agli allestimenti scenici ed effimeri. L’autore evidenzia la duttilità della cartapesta utilizzata persino nell’edilizia e nella produzione di imbarcazioni. La chiesa di Bergen in Norvegia (1793), costruita con materiale cartaceo e la canoa di carta con cui l’esploratore Nathaniel Holmes Bishop intraprende un lungo viaggio dal Quebec al Golfo del Messico (1874), sono tra le molteplici peculiarità del libro che lo rendono unico nell’ambito della editoria d’arte.
Il libro sarà presentato al pubblico della Capitale il 16 febbraio alle ore 17,00 presso la Fondazione Besso di Largo di Torre Argentina, 11. I relatori saranno gli storici e critici d’arte Claudio Strinati e Nicoletta Cardano. Coordinerà i lavori lo scrittore e storico del cinema italiano Ennio Bispuri.
Ezio Flammia artista e scenografo, maestro della cartapesta. Ha realizzato scenografie e costumi per 22 opere teatrali e ha collaborato all’allestimento di varietà in prima serata per Rai Rete 2. Ha restaurato importanti opere di cartapesta per il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma. Sue opere fanno parte delle collezioni dei musei: Museo Histórico Nacional di Santiago del Cile; Museu do Cinema di Lisbona; Museo Naz. delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma; Museo d’arte delle generazioni italiane del ‘900 di Pieve di Cento; Museo d’arte moderna e dell’informazione di Senigallia; Galleria d’arte moderna di Monreale; Fondazione “G. Boldini”di Mogliano Veneto; Museo della Fondazione “Casa di Dante in Abruzzo” di Torre de’ Passeri.
Nel 1996 ha ricevuto presso la Camera dei Deputati il premio internazionale alla carriera per le arti, La Plejade.
È autore di :
Maschere di stoffa, di ferro. Mito materia e ragione, Roma, 1996; Storia dell’arte della cartapesta – La tecnica universale, Roma, 2011; Fare cartapesta e scultura di stoffa, Dino Audino Editore, Roma 2014
Rosario Quaranta, “Insigne e antichissima”. Studi sulla Chiesa Madre Collegiata Maria SS.ma Annunziata di Grottaglie”. Prefazione di Vittorio de Marco. Al Parroco Don Eligio Grimaldi nel XXV dell’ordinazione sacerdotale. Edizioni Grifo, Lecce 2017 (pp. 396, n. 166 illustrazioni in b/n).
L’insigne chiesa Collegiata Maria Santissima Annunziata, principale tempio cittadino di Grottaglie, è testimonianza significativa di una storia lunghissima che comprende non solo la vita religiosa, ma anche molti altri aspetti della vita civile ed economica del paese delle ceramiche.
Dedicati al Rev.mo parroco D. Eligio Grimaldi nella fausta ricorrenza del XXV anniversario dell’ordinazione sacerdotale, nel volume sono raccolti vari studi che l’Autore ha condotto nel corso degli anni sui vari aspetti che hanno contraddistinto l’esistenza e l’attività di una istituzione che ha rappresentato e rappresenta ancora il fulcro della religiosità, della devozione, dell’arte e della cultura di una Comunità che trae dalle antiche radici linfa preziosa per programmare e vivere il proprio futuro.
È la storia di un monumento che accoglie non soltanto elementi storicamente importanti di santità,di arte e di cultura, ma è anche la storia di una “Ecclesia Mater” che svela e guida premurosamente i suoi figli sulla strada dell’amore, della comprensione e dell’aiuto reciproco.
“Il volume – ricorda Vittorio De Marco nella Prefazione – ha nel complesso una struttura molto articolata e agile al tempo stesso perché accompagna il lettore in un arco di tempo di “lunga durata”, aiutandolo ad entrare nel vivo delle problematiche trattate attraverso la ricca silloge di documenti man mano proposti e che offrono ulteriori chiavi di lettura della complessiva storia socio-economica, culturale e religiosa di Grottaglie”.
INDICE GENERALE
Premessa (D. Eligio Grimaldi)
Prefazione (Vittorio De Marco)
Introduzione (Rosario Quaranta)
Parte prima
L’INSIGNE E ANTICHISSIMA CHIESA COLLEGIATA DI GROTTAGLIE
Cenni storici: Grottaglie – Le origini della chiesa madre – Il Cinquecento – Il Seicento – Una descrizione della collegiata – Secoli XVIII- XX – Francesco de Geronimo alla gloria degli altari – L’unità d’Italia: problemi postunitari e mania di distruzione
La Collegiata oggi: Facciata – Interno – Cappelle a sinistra – Presbiterio, abside e coro – Cappelle a destra – Sagrestia – Campanile – Atrio
APPROFONDIMENTI E TESTIMONIANZE
Approvazione dello “Status Insignis Collegiatae Ecclesiae Cryptaliensis” dell’arciprete Francesco Antonio Caraglio
Antica presenza ebraica a Grottaglie (secc. XIV-XVI)
Testamento dell’arciprete Leonardo Cecere a favore dell’ospedale e della cappella di san Marco di Grottaglie (1464)
Una curiosa lite a Grottaglie nel 1538 – 39 al tempo di Bona Sforza regina di Polonia
Cinque lettere della regina Bona Sforza di Polonia al Capitolo e Clero di Grottagliee altri documenti
Il Seicento: tra prepotenze, scomuniche e difesa delle immunità ecclesiastiche
Grottaglie barocca. Una fervida stagione culturale
Il prete brigante don Ciro Annicchiarico
Dichiarazione di preminenza del capitolo e concessione delle insegne solenni
Chiesa e società civile a Grottaglie negli anni del Risorgimento nazionale
PARTE SECONDA
I SANTI PATRONI DI GROTTAGLIE
La Vergine Santissima della Mutata: Grottaglie città mariana – Patrona “ab immemorabili” – Un panegirico provvidenziale – Una statua d’argento per la Patrona
Due santi inseparabili a Grottaglie: Francesco de Geronimo e Ciro d’Alessandria – Introduzione del culto di San Ciro – Ruolo dell’arciprete Tommaso de Geronimo e della confraternita del Rosario – suppliche per la beatificazione del de Geronimo – L’Ufficio di San Ciro
APPROFONDIMENTI E TESTIMONIANZE
Introduzione del nome Ciro o Cira a Grottaglie
Francesco de Geronimo padrino della figlia del duca di Martina
Testamento dell’arciprete Tommaso de Geronimo
L’autore dell’ufficio liturgico di san Ciro: il canonico Giuseppe Roppoli
Proclamazione di San Ciro a Patrono “minus principalis” e approvazione dell’ufficio liturgico
Richiesta e concessione del patronato, dell’ufficio e della messa di S. Francesco de Geronimo
Concessione di indulgenza plenaria per la festa di san Ciro
Riconoscimento di san Ciro come patrono principale di Grottaglie
PARTE TERZA
TESORI DELLA CHIESA MADRE
La croce “de notabile artificio” dell’arciprete Francesco Antonio Sammarco (inizi sec. XVI)
L’organo rinascimentale
La grande tela dell’Annunciazione
Il Cappellone di San Ciro
L’archivio capitolare
Verso il Museo della Collegiata
SERIE DEGLI ARCIPRETI DELLA CHIESA COLLEGIATA
Indice dei nomi e delle cose notevoli
PREFAZIONE
Una parte significativa della ricca produzione scientifica di Rosario Quaranta è stata raccolta in questo volume che vuole essere un omaggio all’attuale parroco della Chiesa Madre di Grottaglie d. Eligio Grimaldi per il suo XXV di sacerdozio. Il comune denominatore che unisce tutti i saggi riproposti, e ulteriormente ampliati, è proprio l’insigne collegiata dedicata all’Annunziata. Sappiamo bene il particolare rapporto che lega il prof. Quaranta alla chiesa madre di Grottaglie in quanto è stato e continua ad essere l’attento custode della memorie conservate nell’archivio della collegiata, un paziente lavoro di anni che lo ha reso benemerito nell’ambito del panorama archivistico regionale.
E il libro riflette su molteplici aspetti della storia del più importante monumento religioso grottagliese, mettendo in evidenza nelle tre parti in cui il lavoro è diviso, diverse vicende materiali e architettoniche, artistiche e cultuali, di storia religiosa come di storia civile, in un arco temporale che va dal tardo medioevo ai più recenti avvenimenti che hanno interessato il monumento o alcuni suoi manufatti da un punto di vista conservativo.
La storia della collegiata è anche la storia della città di Grottaglie; nel suo numeroso clero capitolare sono state man mano rappresentate le più importanti famiglie locali; un clero che ha dettato non solo i tempi religiosi ma spesso anche quelli civili, ponendosi non poche volte in contrasto con le autorità feudali ed in particolare con i principi Cicinelli. Rosario Quaranta sottolinea con ragione quanto «deleteria» per la storia civile e religiosa di Grottaglie sia stata la doppia “servitù” feudale: da una parte l’arcivescovo di Taranto padrone della giurisdizione civile e dall’altra il feudatario laico, padrone di quella criminale e dell’appello delle cause civili, competenze sottratte al feudatario ecclesiastico fin dal 1497. Una vera e propria lacerazione sociale potremmo definirla questa doppia dipendenza della cittadina da due padroni, che ha agitato e condizionato soprattutto i secoli dell’età moderna, fino all’eversione della feudalità nel 1806, una vicenda «lunga e triste»; un peso giuridico e sostanziale che ha gravato per secoli su Grottaglie, che ha depresso la sua economia, che ha mortificato la sua vita quotidiana, che ha contato qualche funesto delitto come quello dell’arciprete Francesco Caraglio il 22 maggio 1662, un episodio, illustrato dall’Autore con particolare competenza, che impressionò fortemente quella che poteva essere allora l’opinione pubblica locale e non solo di Grottaglie, perché il delitto colpì tutto il ceto ecclesiastico e la stessa autorità morale e formale dell’allora arcivescovo di Taranto mons. Tommaso Caracciolo, che lanciò la scomunica contro gli ignoti esecutori. «Erano anni difficilissimi – sottolinea Quaranta – di violenze, intimidazioni, oppressioni fiscali che non risparmiavano neppure gli ecclesiastici arroccati nella difesa dei propri privilegi e immunità».
Si può dire che la città di Grottaglie viveva di pesi e contrappesi che coinvolgevano e condizionavano le istituzioni del luogo: il capitolo collegiale, il feudatario laico, quello ecclesiastico, la universitas civium, gli stessi ordini religiosi intorno ai quali ruotava gran parte della vita cultuale dei grottagliesi, il fisco locale e quello regio. Tante altre realtà nel Mezzogiorno moderno si dibattevano in questa stretta logica di poteri che non sempre o quasi mai collaboravano insieme per il così detto bene comune. E nella complessità di questi rapporti che emergono nei vari saggi soprattutto della prima parte, c’era un altro nodo che gravava non poco sulla vita quotidiana: quello dell’immunità ecclesiastica. Vi erano troppi preti e chierici a Grottaglie che godevano di immunità reali e personali, che non favorivano la stabilità economica della cittadina perché il peso fiscale non era equamente distribuito, così che Grottaglie visse per diversi decenni del Seicento una grave crisi economica che ne provocò quasi lo spopolamento. E comunque risulta significativo il fatto che ad un certo punto, il clero, – siamo nel maggio 1663 – direi con sano realismo, accettò di rinunciare alla metà delle franchigie sulla farina a favore dell’Università; una forma di collaborazione per favorire il risanamento economico di Grottaglie, aprendo consapevolmente una breccia in una roccaforte, come quella dell’immunità fiscale, che aveva resistito a tanti attacchi e pretese del potere laico.
Il peso del clero locale andrà col tempo diminuendo e già con il concordato del 1741 tra la Santa Sede e il Regno di Napoli molte immunità fiscali e non, verranno abolite e quel circolo vizioso di donazioni fraudolente delle famiglie ai propri chierici per allargare l’ombrello dell’immunità fiscale sui beni di famiglia o altri patrimoni personali, troverà nel concordato una scure tagliente a cui andrà ad aggiungersi quella del catasto onciario del 1746.
Il clero grottagliese comunque per tutta l’età moderna rappresenta la salda cerniera tra la società religiosa e quella civile, crescendo quantitativamente e qualitativamente tra XVI e XVIII secolo, manifestando solo nel secolo successivo, come succede in gran parte del clero meridionale, un certo affanno quantitativo, soprattutto dalla metà dell’800 in poi, segno, anche a Grottaglie, della crescente disaffezione verso lo stato ecclesiastico del ceto aristocratico, o di quello che ne è rimasto, e soprattutto della emergente borghesia, mentre gli indicatori sociali delle sacre ordinazioni si spostano verso gli strati più umili della società locale. Anzi il prof. Quaranta parla di “decadenza” del clero grottagliese già agli inizi dell’Ottocento, frutto di tutto il travaglio che si era portata dietro la rivoluzione partenopea del 1799, il governo dei napoleonidi e il clima della restaurazione, che a Grottaglie ha una specifica risultanza nella figura di don Ciro Annicchiarico, che rappresenta, come bene sottolinea l’Autore, lo «specchio della difficile situazione della sua epoca».
Non possiamo stare dietro a tutti i personaggi, ecclesiastici e laici, che emergono dalle pagine di questo libro: è tutta una storia di santi, artisti, monache, canonisti, teologi, medici e letterati; ma si resta sempre “affascinati” proprio dalle vicissitudini del “prete brigante”, al quale Rosario Quaranta ha dedicato due importanti lavori biografici. E anche in questo libro ne tratta naturalmente con ampia cognizione di causa, proiettando il personaggio nel più generale “malessere” del regno di Napoli tra francesi e restaurazione, tra sette segrete e massoneria, tra aspetti peculiari dell’uomo meridionale e il sistema politico che lo condiziona, lo esaspera, lo schiaccia e verso il quale ad un certo punto si ribella e lo fa a modo suo, in maniera cruenta. Il giudizio di Rosario Quaranta su quello che don Ciro Annicchiarico ha rappresentato in quegli anni di transizione è del tutto condivisibile perché coglie in pieno e in una chiara sintesi tutte le sfaccettature del “caso”, contestualizzandolo e inserendolo in una cornice di fatti, di personaggi, di condizionamenti locali e regionali. Il brigantaggio, sottolinea nella sua articolata riflessione finale sulla vicenda di don Ciro, come fenomeno antico e complesso «si presta a letture diverse circa la genesi, il significato, la consistenza e le finalità» e giudica il nostro personaggio «contraddittorio e ambiguo» sia come modello di brigante, sia per la valenza politica da attribuire alla sua vicenda soprattutto dopo la restaurazione borbonica: «vittima e artefice» tra speranze, illusioni e tradimenti.
Ma non meno interessanti sono i profili che ci offre dei Pignatelli – è il caso di parlare al plurale –: il canonista Giacomo (XVII sec.) e i teologi Ciro Pasquale e Carmelo (XIX sec.), i quali, questi ultimi, ci collegano al problema del contegno del clero di fronte all’unità d’Italia: quello di Grottaglie, sembra di capire, fu caratterizzato da un atteggiamento di basso profilo se non di opportunismo e di ondivago comportamento se nel marzo 1860 scriveva una lettera “fedelissima” a Pio IX e qualche mese dopo accettava supinamente,e alcuni con un certo entusiasmo, i “fatti compiuti” dell’unità italiana. E questo ulteriore periodo di svolta viene letto dal prof. Quaranta attraverso la figura del cantore Ciro Pasquale Pignatelli, liberale e filopiemontese vicario capitolare della diocesi di Oria, che fa il paio con quello di Taranto Agostino Baffi, entrambi sconfessati da Roma, ma entrambi appoggiati dal nuovo governo e in buona compagnia di altri vicari capitolari sparsi in altre turbolente diocesi del Mezzogiorno tra il 1860 e il 1862.
Gli studi presentati in questo volume, che pure interessano una particolare realtà territoriale come quella di Grottaglie e le vicende della sua Chiesa madre, non restano nel perimetro della storia locale, ma si muovono nell’ambito dell’ampia cornice degli studi di storia del Mezzogiorno tra età moderna e contemporanea e affrontano complessi nodi storiografici come quello delle immunità ecclesiastiche, del rapporto tra potere laico ed ecclesiastico, della mentalità religiosa, di culti di santi, di nobiltà e borghesia, di feudalità, di crisi economiche, di tempi nuovi e di come la realtà sociale locale li attraversa e li subisce in una visione complessiva dove è aggettante l’esperienza di lungi anni di ricerca archivistica.
Si può dire anzi dire che gli eventi nel lungo periodo della Chiesa madre dell’Annunziata rappresentino quasi un “pretesto” per allargare lo sguardo ad una cultura ecclesiastica e laica considerevole, che ruotò intorno al suo consistente clero collegiale che espresse canonisti, teologi, storici e letterati e non meno uomini di profonda pietà, se pensiamo che già nei primi del ‘600 circolavano tra i canonici di Grottaglie le copie a stampa della visita pastorale fatta nella diocesi di Milano dal cardinale Carlo Borromeo e che l’età barocca rappresentò per Grottaglie una «fervida stagione culturale». La chiesa della SS.ma Annunziata, osserva ancora Rosario Quaranta «è testimonianza significativa di una storia lunghissima che comprende non solo la vita religiosa, ma anche molti altri aspetti della vita civile ed economica del paese delle ceramiche».
La seconda parte del libro è dedicata ai santi patroni di Grottaglie. E anche in queste piste di ricerca l’Autore si muove con sicura padronanza storiografica, metodologica e archivistica per le tante sue ricerche e riflessioni sulla Madonna della Mutata, sulle altre chiese mariane di Grottaglie, su san Francesco de Geronimo e san Ciro «due santi inseparabili» come sottolinea nel saggio a loro specificamente dedicato, costituendo questo rapporto, «una pagina tra le più interessanti della storia e della vita di Grottaglie».
Non entro nel merito della terza parte del libro che pure dimostra quanto sia interessante il patrimonio di arredi sacri della collegiata e con quanto interesse sono stati seguiti i restauri del coro, del grandioso organo, della tela dell’Annunciazione.
Il volume ha nel complesso una struttura molto articolata e agile al tempo stesso perché accompagna il lettore in un arco di tempo di “lunga durata”, aiutandolo ad entrare nel vivo delle problematiche trattate attraverso la ricca silloge di documenti man mano proposti e che offrono ulteriori chiavi di lettura della complessiva storia socio-economica, culturale e religiosa di Grottaglie.
Vittorio De Marco, Ordinario di Storia Contemporanea
In ricordo della felice memoria del Dott.re Fernando Verdesca, che nel suo libro “Origini, usi e costumi della città di Copertino”, si è soffermato tanto su questa tradizione.
È un viaggio nella Nardò popolare di mezzo secolo fa, attraverso i ricordi biografici dell’autore, le fonti orali alla ricerca di luoghi di ritrovo, botteghe e immagini cittadine ormai sbiadite, trasformate, se non sparite.
La rievocazione più appassionata è quella dei ritratti caratteriali di personaggi neritini popolari ormai spariti, ma che un profondo segno hanno lasciato nell’immaginario del paese, per la loro estrosità, stravaganza, bizzarria, goliardia, vis comica, quale emersa da spigolature ed aneddoti che li fanno rivivere salvandoli dal rischio di un immeritato oblio.
Il libro ricomprende anche un comparto fotografico che scandisce e rinverdisce i vari percorsi della memoria spesso tinteggiati di nostalgia.
L’idea del libro, la sua stesura, il suo impianto anche iconografico, trovano origine nel sofferto cruccio dell’autore convinto che tanto vissuto meritava di essere preservato da quella patina del tempo, che tende pian piano a scolorirlo, se non inevitabilmente a cancellarlo.
La sistematica seguita ha voluto scandagliare ed archiviare il contesto spaziale della storia popolare del paese, ricostruendone il più possibile l’ubicazione, le trasformazioni temporali, le abitudini e i costumi attraverso una rivisitazione di luoghi, vicende, fatti ed aneddoti mai disgiunti dal reale e dall’autenticità del vissuto.
I luoghi sono stati animati dalle presenze dei personaggi popolari che per meglio inserirli nel loro congeniale ed originario mondo cittadino sono stati ripartiti tra i maggiorenti e i popolani, rappresentati con le loro caratteristiche e i loro vezzi. Sembra averli magicamente riuniti finalmente come in una meravigliosa crociera… quella che Ettorino Cesàri, uno dei personaggi trattati, avrebbe voluto fare!
Su quella nave immaginaria sembra ci siano tutti… c’è un aristocratico sindaco bizzarro e burlone; un avvocato stravagante; un vecchio prete di pirandelliana teatralità. Ci sono gli altri assidui frequentatori della piazza, tra cui Pici la guerra, Ucciu pulizza, e Pascalinu marascià e poi ‘Ntina, presentata da un poeta, come «la donna più generosa del paese».
Tanti «amici», che con le loro stravaganze ci riportano quei sentimenti di goliardica umanità che hanno permeato, per essi stessi, vicende di vita e, per noi, il loro ricordo.
Uno stralcio
La piazza – il centro storico
In ognuno di noi, negli intimi meandri della nostra mente, alberga sempre una galleria di ricordi della nostra vita di paese, una carrellata di memorie che spesso ci riappare con punte di tristezza specie quando siamo stati per lunghi periodi lontani da Nardò.
Al ritorno, inevitabilmente, ci è capitato di voler rinverdire le cose del passato, trovando un valido ausilio nelle passeggiate, spesso solitarie, fatte lungo quegli itinerari di vie e viuzze cittadine che ci riportano indietro anche di diversi decenni, perché le case, i palazzi, le chiese, anche il più banale degli angoli, con la percezione delle loro forme e distanze sembrano non tradirci mai, sono lì ad aspettare una nostra visita, anche notturna, per aiutarci a ricordare.
Un ruolo particolare ha sempre svolto piazza Salandra, la chiazza (la piazza) per antonomasia, e suo circondario. Essa, se nell’inconscio è una madre che ti accoglie sempre e comunque con affetto, sotto il profilo architettonico ed artistico è un luogo di particolare significato oltre che simbolo della storia plurisecolare della città.
Chi è legato a Nardò porta nei suoi ricordi la sua chiazza, cuore della città, salotto del paese arredato dai suoi preziosi monumenti.
L’Autore
Luigi Caputo è nato a Nardò il 1 giugno 1950.
Laureato in Tecniche della Prevenzione negli ambienti e nei luoghi di lavoro presso l’Università degli Studi di Siena, ha svolto servizio presso l’Ispettorato del Lavoro di Lecce, in qualità di Ispettore del Lavoro dal 1975 al 2012, con funzioni di dirigenza intermedia.
È stato insignito del titolo onorifico di Cavaliere dell’Ordine «Al Merito della Repubblica Italiana» con D.P.R. del 2/6/2002 ed è iscritto nell’elenco dei Cavalieri Nazionali (n.130445-Serie IV).
Ha tenuto per numerosi anni seminari e docenze varie in materia di sicurezza e igiene del lavoro, pubblicando in tale branca giuridica con coautore Elio Leaci i seguenti volumi: Sicurezza sul lavoro e responsabilità penali, Milano, Pirola, 1997; La sorveglianza medico sanitaria dei lavoratori, Roma, E.P.C., 1997; La sicurezza sul lavoro in agricoltura, Milano, Il Sole 24 ore, , 1998; Prontuario delle sanzioni in edilizia, Milano, Il Sole 24 ore, 1999; Sicurezza sul lavoro e responsabilità penali, II Ed., Il Sole 24 ore, Milano, 2000. Inoltre ha pubblicato un saggio in AA.VV., Quesiti di prevenzione infortuni, Milano, Nuove Edizioni per la Sicurezza, 2002.
Oltre ai numerosi articoli per il Massimario di Giurisprudenza del Lavoro e per varie riviste tecnico- giuridiche, ha pubblicato anche i seguenti articoli su riviste e giornali salentini: Totò Manca, cinquant’anni con la sua fisarmonica, in “Artetica”, marzo 1999, n. 2; Cittadini e sudditi. La straordinaria esperienza di Alberto Bertuzzi – difensore civico, in “Il Pittacino di Nardò”, dicembre 2004; Lu Munarca ti Nardò (la vera storia), in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/08/27/lu-munarca-ti-nardo-la-vera-storia/#comment-52008.
Prima presentazione per “ITALIENI”, il nuovo libro di Paolo Vincenti, pubblicato da Besa (2017). Si tratta dell’ideale prosecuzione del libro “L’osceno del villaggio”, del 2016. Ancora una raccolta di articoli che fotografano, a volte impietosamente, vizi e debolezze del nostro popolo, gli “Italieni” del titolo, attraverso la lente della satira, del sarcasmo, della provocazione, a cui l’autore ci ha abituato con la sua scrittura. La copertina del libro e le vignette stavolta sono firmate da Paolo Piccione. Il libro si avvale di una Prefazione di Massimo Melillo e di una Postfazione di Maurizio Nocera.
Questa la prefazione di Massimo Melillo
E’ un genere letterario antichissimo quello della satira e non staremo qui a raccontarne la storia perché sarebbe un esercizio troppo lungo, che rischierebbe di annoiare i lettori. Ma alcuni punti fermi, però, vanno stabiliti scrivendo subito che, come il cinico greco Menippo di Gadara, Paolo Vincenti, con questo suo “Italieni”, intinge ben volentieri la propria penna nel veleno. Nella letteratura latina, ad esempio, la satira annoverava esponenti come Lucilio, Persio, Orazio, Petronio, Giovenale, Marziale, ed aveva sempre un’intonazione moraleggiante, nel senso che la sua missione era quella di colpire la corruzione e i potenti, prendere di petto politici, ruffiani, debosciati, ipocriti e profittatori e di correggere costumi e pregiudizi. Passano i secoli ma la lezione della satira rimane la stessa e, sconfinando spesso nella comicità con battute, arguzie, mirate invettive, il suo compito resta quello della riflessione e del divertimento colto.
Certo la satira di Vincenti non proviene in maniera diretta dalla letteratura latina ma dall’evoluzione – in senso caustico, giullaresco, picaresco – che essa ha avuto nei secoli successivi, in particolare a partire dal Cinquecento. Forse l’antecedente letterario va proprio ravvisato nelle “pasquinate”, componimenti satirici che nella Roma papalina venivano affissi sulla statua di Pasquino e con i quali si dileggiavano pontefici, regnanti, nobili e gente in vista. Vincenti, infatti, utilizza un linguaggio colorito, vario per intonazione e stile, non disdegna la parolaccia, che però non è mai gratuita ma sempre adeguata alla struttura della narrazione.
L’autore si pone come un cronista beffardo e mordace dell’esistente, che smascherando vizi e infingardaggini del nostro panorama nazionale, spinge il lettore a riflettere sulla deriva cui sta andando incontro la nostra società, ad acquisire consapevolezza della criticità dell’attuale situazione italiana, a non dare nulla per scontato, a non cullarsi sull’adagio “mal comune mezzo gaudio”, a non lasciarsi andare al menefreghismo o, peggio ancora, all’indifferenza. Un monito, il suo, affinché le coscienze addormentate escano dal torpore per riprendere in mano non solo la propria esistenza ma sollecitando anche quelle altrui per diventare attori e protagonisti consapevoli di un cambiamento possibile e non più procrastinabile. Vincenti, ad esempio, è abbastanza lontano da un certo populismo, che oggi impera sulla scena politica italiana e molto spesso del popolo ha addirittura un concetto tutt’altro che conciliante, disprezzandolo quando diventa furbo e servile, pronto a seguire le mode, ad accodarsi, ad abbassare la testa, ad affidarsi ciecamente all’uomo della provvidenza e ai taumaturghi di turno, che ancora oggi, purtroppo, abbondano.
Prendendo spunto da argomenti seri e a volte tragici, la satira esercita la propria corrosiva provocazione, portando sovente all’indignazione e quasi sempre a far meditare il lettore. Argomenti della politica, del costume e della cronaca, che altrimenti passerebbero inosservati, diventano dunque anche per i più distratti motivo di più approfondita osservazione e spunto di riflessione. Stesso ragionamento vale per le vignette, che nel libro sono firmate dal bravissimo Paolo Piccione, e per la stessa satira televisiva. Indipendentemente dallo strumento utilizzato, la satira, se è graffiante, acuta, intelligente, è una altissima forma di arte capace di curare l’anima con il balsamo dell’umorismo: una formula che ben conosce il mio amico Antonio Mele in arte Melanton (sue le vignette del precedente libro di Paolo Vincenti “L’osceno del villaggio”), che ha spesso sottotitolato le sue mostre con “Sorrido ergo sum”.
Capita che Vincenti, nel presentare il proprio lavoro, premetta, quasi a volersi giustificare, che il libro “è abbastanza cattivo”. Non so se lo faccia per una malcelata modestia o come excusatio non petita, sta di fatto che la sua premessa è del tutto inutile: la satira è ontologicamente cattiva. La satira colpisce tutti, sferza, fustiga i costumi, mette alla berlina malvezzi e cattive abitudini. Può essere fatta bene o male, può andare a segno oppure no, schiaffeggiare o solo accarezzare, ma la sua ragion d’essere è sempre la stessa. Pensiamo alla rivista socialistaL’asino, fondata nel 1892 da Guido Podrecca insieme a quello che si può considerare forse il più grande umorista di tutti i tempi, Gabriele Galantara, al quale oggi è intitolato un Centro studi nel Comune marchigiano di Montelupone, che gli ha dato i natali. L’asino, più volte censurato, fu chiuso dal fascismo dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti e lo stesso Galantara venne perseguitato e incarcerato. Tra i tanti periodici di satira, redatti nel corso del tempo da prestigiosi giornalisti, vanno ricordarti tra gli altri anche Il becco giallo, Marc’Aurelio, Il Travaso delle idee, Il Bertoldo, Don Basilio, Candido, Il selvaggio e, per venire ad anni meno lontani, il Satyricon del quotidiano “la Repubblica”, Tango del giornale comunista “l’Unità” e Il Male. E proprio in queste testate, che vendevano centinaia di migliaia di copie, hanno lavorato grandi firme del giornalismo tra cui Indro Montanelli, Leo Longanesi, Giovanni Mosca, Mino Maccari, Giovannino Guareschi, Arrigo Benedetti, Sergio Saviane e tanti altri ancora, insieme ad autori e vignettisti che hanno fatto la storia del cinema italiano come Federico Fellini, Ettore Scola, Cesare Zavattini, Agenore Incrocci e Furio Scarpelli (Age e Scarpelli), Vittorio Metz, Stefano Vanzina (Steno). Una stagione d’oro anche per disegnatori e caricaturisti che, a partire dalle straordinarie vignette di Giuseppe Scalarini, pubblicate nel primo Novecento dal quotidiano socialista Avanti!, sferzavano il potere e il capitalismo tanto che con l’avvento della dittatura fascista di Mussolini lo stesso Scalarini subì il carcere e fu confinato a Ustica e Lampedusa.
Certo, già prima dell’era di Internet, la satira ha pagato pegno e con la capillare diffusione della rete vi è stata una generale commistione di generi e stili. C’è da dire però che, per quanto invasivo e spesso fuorviante possa essere lo strumento informativo tecnologico, la scrittura di Vincenti si presenta originale, ricca e dinamica, utilizza una vasta gamma di sfumature comunicative, passa con disinvoltura dal basso all’alto con moltissime citazioni, a cominciare dai versi dei cantautori italiani che appaiono in esergo ad ogni intervento. Vincenti è stato definito un moderno giullare di corte dove però la corte è il “ villaggio globale”, che richiama il titolo della sua rubrica “L’osceno del villaggio” nella quale pubblica gli articoli raccolti nell’omonimo volume e in questo “Italieni”, due opere che costituiscono di fatto un continuum.
Al giullare tutto era concesso e godeva di una specie di immunità per cui, assumendo la maschera dello scemo, poteva permettersi di dire qualsiasi cosa rivelando le contraddizioni, i capricci, le magagne, gli intrighi, le oscenità che avvenivano nella corte. Era una figura poliedrica con tratti di poeta, attore, cantastorie, affabulatore, animatore di feste e festini, ironico castigatore di costumi. Caratteristiche che Paolo Vincenti possiede e padroneggia, fra ironia e autoironia, e questo libro ne è un caso esemplare.
Nel dimostrare allergia all’ipocrisia e alla falsità, l’autore fa una mirabile carrellata di tipi umani, quelli che lui detesta maggiormente, in “Ad ogni giorno il suo affanno”, che è forse il pezzo più corrosivo del libro, nel quale esercita al meglio la propria “vis polemica”. Sebbene questi siano ritratti universali, quindi non destinati a qualcuno in particolare, le descrizioni posseggono una straordinaria vivezza, e ognuno di noi può incollare ad ogni maschera umana almeno un nome, perché tutti nella nostra vita quotidiana abbiamo a che fare con personaggi che proprio non sopportiamo.
Una lettura, quindi, che invita tutti noi a fare i conti con le nostre debolezze e a sorriderne perché in fondo siamo davvero tutti “italieni”, chi più chi meno. Paolo Vincenti – lo confessa lui stesso – non ama cantare nel coro e questa sua tendenza a contrastare sempre l’opinione dominante e ad andare controcorrente, qualche volta lo spinge a sostenere tesi paradossali, come in “La sindrome di Totti” o in “E’ sempre festa” o in “Vegan party” e a tessere addirittura un antifrastico “Elogio del matrimonio”, pezzo in cui spinge al massimo il gusto per il paradosso e la provocazione. Potremmo definire molti di questi articoli “politicamente scorretti”, se non tenessimo presenti le premesse che abbiamo evidenziato. Vincenti, uomo lontano da qualsiasi parrocchia o confraternita, è contro tutto e tutti puntando il suo “j’accuse” in ogni direzione. E, tuttavia, lo fa senza eccessiva enfasi, senza retorica e senza acrimonia, bensì con il sorriso sulla labbra, ritenendosi un disimpegnato.
Ciò, però, è vero solo in parte poiché se lo fosse del tutto, il totale disimpegno lo condurrebbe inevitabilmente ad un banale e sciocco cinismo fine a se stesso. Invece, la sua disincantata denuncia dei mali della nostra società (dall’incoerenza al conformismo, dal consumismo alla corruzione dilagante, dalla barbarie di certe trasmissioni televisive al culto dell’apparenza) fanno emergere chiaramente la presenza di un nucleo di valori che l’autore cerca invano di celare nel suo proclamato disimpegno. D’altra parte, la satira non sarebbe tale se non nascesse sempre da una reazione di sdegno e di profonda indignazione. Per questo, c’è bisogno di osservatori lucidi e irriverenti che ce lo ricordino.
La presentazione si terrà a Tuglie presso la sede dell’associazione Unione Servizi Volontari, in Piazza Garibaldi, martedi 12 settembre alle ore 18.30. Introdurrà la serata Paola Sperti (presidente dell’Associazione “Amici della Biblioteca”) e dialogherà con l’autore il promotore culturale Raimondo Rodia.
Elio Ria è poeta e saggista, studioso di letteratura francese e poesia contemporanea. Nella sua attività ha sempre privilegiato il rapporto con il Salento: terra colorata, che raggruma esperienze sensoriali e spirituali vibranti nel fondo dell’anima. Tante le pubblicazioni in cui il Salento è messo a nudo sotto la lente dell’Autore, si ricordano tra le altre: Nostro ulivo quotidiano e Il dire ulteriore. Immagini e parole, entrambe curate e pubblicate da Fondazione di Terra d’Otranto, nelle quali esprime anche la doglianza di un popolo che non sa preservare il proprio ambiente dalle contaminazioni di ogni genere, mettendo a rischio la bellezza di una terra, dove ormai impera il diritto di trasformare ogni cosa in consumo turistico, a scapito delle vere tradizioni e della cultura salentina. In molte circostanze è una voce fuori dal coro, in controtendenza alle forme scritturali e pensanti di chi vuole fare del Salento tutto: mercanzia culturale, trasformazione dei luoghi in isole di divertimento, false rimescolanze di tradizioni per edificare industrie turistiche.
Il suo Salento, o meglio la sua idea di Salento è di ricercare nel passato la propria identità, rafforzarla e adattarla con misura nel segmento della contemporaneità, senza eccessi, con doviziosa moderazione di non alterare ciò che sono stati i costrutti della tradizione. In questo contesto, si può inserire il suo ultimo libro In nome del prete, edito da Terra d’ulivi, in cui oltre a dare una disamina della nostra società, parla di un prete che per cinquant’anni svolge la sua attività sacerdotale prima nella città di Nardò e poi a Tuglie (suo paese natio).
Il libro attraverso varie angolature disegna il ritratto del prete, capace di stabilire – almeno nelle piccole comunità del Salento – un rapporto di fede e di fiducia, non una celebrazione di un prete, soltanto un invito a riconsiderare l’uomo in relazione con gli altri ma soprattutto con Dio.
Cosa c’entra il prete con i tuoi interessi letterari?
Il Salento è a immagine del prete. Ogni paese vive in funzione della propria religiosità che – faticosamente ha saputo costruire nel corso dei secoli – con le sue processioni, liturgie e devozioni. Il prete, la chiesa, il campanile, le piazze, le confraternite esplicano la vitalità di una comunità sempre alla ricerca di un appoggio per superare le crisi, le incertezze della vita. Lo scrittore ha anche il dovere di porre attenzione alla cosiddetta ‘letteratura circostante’ per raccontare dettagli, frammenti, ma anche grandi cose che generalmente la letteratura ‘in senso forte’ tralascia.
Chi è Don Emanuele Pasanisi
Un prete come tanti altri, diverso come molti o pochi, con una spiccata propensione alla perfezione della liturgia che magnifica Dio. Un prete che nel corso della sua attività non ha mai abbandonato il suo desiderio di servire Dio, fedele all’insegnamento di un grande maestro, Mons. Antonio Rosario Mennona, (Vescovo emerito della Diocesi di Nardo-Gallipoli, deceduto nel 2009), mite e premuroso, colto ed interlocutore con la società e la cultura.
La cultura cristiana ha un futuro?
Sì, certamente, a condizione che non sia una cultura egemone, ma in costante dialogo con le culture, portando la sua specificità e al contempo arricchendosi con tutto il buono che offrono le altre culture.
Qual è il segreto per comprendere il mondo?
Ogni tanto, chiudersi in sé stessi e aprire una finestra sul mondo.
L’introversione, considerata appannaggio esclusivo dei timidi, dei poeti, degli insicuri, nasconde invece un affascinante mistero della vita. Chiudersi in sé stessi per poi aprirsi al mondo con occhi rivitalizzati, ben disposti a cogliere le sfumature della vita in contrapposizione all’egocentrismo, che impedisce sistematicamente la possibilità di analizzare cose e pensieri che ci riguardano.
La società per convenienza ha deliberato il suo futuro con il pensiero dominante di omologazione, svendendo la propria interiorità. Il compito dello scrittore non è di fare la morale, né di dare indicazioni strategiche per capire le cose del mondo, può fornire al lettore elementi analitici narrativi per una induzione qualitativa alla riflessione.
Ritornando al tuo libro, il prete oggi come dovrebbe essere?
Il prete è un uomo che ha studiato per fare il prete. Ha bisogno anche lui di una comunità che lo sostenga e lo supporti nella sua attività di pastore, allo stesso modo di Dio che ha bisogno degli uomini. Non è un compito facile il suo in una società in cui i cambiamenti sono repentini e fortemente influenzati dal nichilismo e dalla voglia di arraffare tutto il piacere possibile in breve tempo. Un inferno la nostra società, contraddistinta da una scarsa attenzione all’uomo e a Dio. Il prete deve comprendere ma al contempo agire con fermezza attraverso la parola di Dio a far crescere la fede e il sentimento di amore verso sé stessi e il prossimo. Guida e sostegno a quel cambiamento esistenziale che definisce la nostra persona, sia in termini di unicità che di appartenenza comunitaria.
Come definiresti la società odierna?
Sfiduciata e caratterizzata da uno stato di precarietà esistenziale. Indifferente alla propria tragedia di autodistruzione. Incapace di elaborare un presente che sia equilibrio di sostanza e di spirito per un futuro dignitoso.
Papa Bergoglio è un papa innovatore?
Papa Francesco esercita il potere con sicurezza. Mira essenzialmente a muoversi verso una Chiesa più compassionevole e meno attaccata alle regole. Difensore dell’ambiente e di poveri. Attento osservatore della realta e della vita dell’uomo:
La vita dell’uomo non è solo una cronaca asettica di avvenimenti, ma è storia, una storia che attende di essere raccontata attraverso la scelta di una chiave interpretativa in grado di selezionare e raccogliere i dati più importanti. La realtà, in sé stessa, non ha un significato univoco. Tutto dipende dallo sguardo con cui viene colta, dagli “occhiali” con cui scegliamo di guardarla: cambiando le lenti, anche la realtà appare diversa. Da dove dunque possiamo partire per leggere la realtà con “occhiali” giusti?
MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA 51ma GIORNATA MONDIALE DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI (24 gennaio 2017)
Come giudichi il tuo libro?
Dovrà giudicarlo il lettore. In questo libro ho cercato di radiografare un’idea di parrocchia e di vita della comunità, affinché i cristiani non si accontentino di sfiorare la religione con la presenza saltuaria a qualche rito festivo. Ci vuole più impegno e più passione. Il torpore esistenziale, di cui tutti siamo vittime, ha assunto una rilevanza nell’agire umano molto preoccupante. Vi è la necessità di svegliarsi e di decidere di fare finalmente qualcosa di buono per noi e per tutti coloro che verranno. In fondo non mettiamo mai in discussione noi stessi, non riflettiamo spesso sul fatto che, con i nostri comportamenti, noi stessi tolleriamo e ogni tanto agevoliamo direttamente la corruzione, il malaffare, l’ipocrisia, l’indifferenza verso i valori umani, civili e religiosi, l’invidia, l’arrivismo sociale.
Ecco, ho pensato di potere dire qualcosa che possa dare una svolta al nostro cammino di prepotenza e di superbia.
Quando verrà presentato ufficialmente il libro?
A Tuglie, il 18 settembre 2017, nella chiesa della Madonna del Carmine, con la partecipazione di S.E. il Vescovo Mons. Fernando Filograna, Padre Roberto Francavilla e Giuseppe Mormandi.
Sul secondo pilastro della navata centrale della cattedrale di Nardò è riprodotto uno dei più belli affreschi dell’ edificio: Sant’Agostino vescovo (13) (sec. XV), di m. 2,50×0,88.
Indossa mitra, guanti e un prezioso mantello, finemente decorato con motivi geometrici, fermato da una fibbia rotonda sul petto e sovrapposto alla tunica monastica, della quale si vedono il cappuccio e la parte superiore. Con la mano destra il Santo indica un cartiglio, ormai illegibile[1], retto dall’ altra mano che stringe il pastorale. L’ iscrizione posta ai lati del capo (da un lato S. e dall’ altro AU.S/ TIN) attesta il Santo.
”L’ affresco fu descritto dal De Giorgi il quale non ne diede un giudizio critico. La qualità della pittura è notevole e si nota soprattutto una gran cura nella descrizione delle stoffe preziose e nella scelta dei colori che non hanno note squillanti. La ripresa di uno schema ancora rigidamente frontale e la mancanza dell’ elemento architettonico, tipico degli affreschi tardo-quattrocenteschi, potrebbe far risalire ai primi anni del secolo XV”[2].
[1]Su cui il De Giorgi lesse, a caratteri gotici: Iuste/ et cas/ te viv/ere et/ xarita (te) (Ibidem, p. 266).
Vi è mai successo di entrare in un locale attratti da un richiamo irresistibile?
Nella Puteca di Minervino di Lecce capita.
In attività da dodici anni, “La Puteca de mieru” sostituisce il canto delle sirene con un’abbondante dose di cucina di qualità, una fiammata di buona musica e un posto a tavola sempre riservato all’Arte.
Il ‘Lunedì degli Artisti’, giorno dedicato all’esibizione libera di cantanti, attori e musicisti provenienti dall’Italia e dall’estero, è il banco di prova migliore per la traversata della noia sotto la guida d’una strana banda di avventori, suonatori e Shakespeare in erba.
Fino alle 22.00 tutto appare normale: i clienti occupano i tavoli e il proprietario, Antonio Amato, va e viene dalla cucina per prendere ordinazioni e fare arrivare agli ospiti succulente pietanze della tradizione salentina.
La gente nel frattempo si scalda e tra una chiacchiera e un bicchier di vino l’atmosfera diventa subito euforica e familiare.
All’apparenza, i clienti sembra non sappiano cosa accadrà di lì a poco, ma appena Pasquale Quaranta, in arte P40, o Claudio Giagnotti, alias Cavallo, intonano canti e battono ritmi, inizia la festa.
Ci sono lunedì in cui illumina la sala anche la virtuosa esibizione del chitarrista e cantante Leone Marco Bartolo, la voce piena di Lucia Minutello e quella vibrante di Rossella De Benedetto, i brani pop di Bruno Rizzello, il tam tam etnico e travolgente del tamburellista Giuseppe Delle Donne e lo spettacolo di un altro Giuseppe, Giuseppe Pezzulla, istrionico videomaker.
Raffaele Mallozzi viene dal Lazio e regala spesso ai compagni della Puteca il suono della sua fisarmonica, Mino De Santis, cantautore, le emozioni della sua terra.
Salvatore Brigante, vivaista e cantastorie, qui si è più volte esibito e qui ha conosciuto sostenitori dei suoi fantasiosi progetti, come un tal Paolo Rausa, regista teatrale e attore nato a Poggiardo e preso in prestito da Milano. Storiche le sue declamazioni di versi e di vita.
Giulio Fiorentino se la ride di gusto, lui sì che ha esperienza di Puteca!
E’ stato uno dei primi clienti di questo posto.
Altra presenza nella trattoria salentina è Alberto Leo, fabbro e artigiano del legno e della pietra, e così Pietro Manduca, pensionato agricoltore residente nella stessa Minervino, o Silvana Leone, simpatica frequentatrice della prima ora.
Renato Grilli è un attore teatrale, il pubblico della Puteca lo ammira.
Mimetizzata fra i tavoli, Raffaella Verdesca applaude e non perde mai sul viso quell’espressione di divertimento e di stupore che solo un cilindro magico come “La Puteca de mieru” possono regalare a una scrittrice.
Alberto Caroppo, fotografo di Giuggianello, la pensa allo stesso modo e non meno interessati si dimostrano Anna Maria Rizzo, barista di Caprarica con la passione per lo yoga, e Giovanni Deodato Guida, insegnante di materie economiche.
Si potessero fermare certi momenti, fissarli nel meglio delle loro espressioni!
Qualcuno ha raccolto la sfida.
Carlo Casciaro, pittore ortellese ha di fatto trasformato questo desiderio collettivo in realtà.
Nel riflesso tintinnante di un brindisi, l’artista ha colto l’emozione di un’umanità festante riunita per consacrare il riposo e l’amicizia come un tempo, nella semplicità della musica e nella ricchezza della condivisione.
A saracinesche chiuse o nel pieno della festa, grazie all’originale iniziativa di Casciaro, La Puteca de mieru si è guadagnata l’immortalità, testimoni ne siano i ‘ritratti parlanti’ di alcuni dei suoi ospiti e degli artisti che l’hanno resa partecipe del folclore salentino.
Decisi i tratti dei Volti delineati a matita, carboncino, gessetti e pastelli dal pittore, a sorpresa la nota originale di colori acrilici dati a pennello su un supporto di cartoncini colorati 50x70cm.
Il fortunato visitatore che si trovi ad ammirare la collezione artistica “I Volti della Puteca” di Carlo Casciaro rimarrà inevitabilmente incantato dalle espressioni realistiche dei soggetti, dal magnetismo degli sguardi, dalla cura di dettagli che unici riescono a sovrapporre i personaggi alle personalità rendendo quanto mai vivi i ventitré ritratti di uomini e donne, artisti e gente comune, che della Puteca hanno contribuito a creare la storia.
Intenzione dell’autore è ampliare la collezione delle tavole catturando nel suo vortice creativo altre fette di pubblico e di palco.
Le opere d’arte realizzate finora, già esposte nella ‘Casa Madre’ e attualmente itineranti, hanno il potere della suggestione e, osservandole, si ha l’impressione di sentire l’eco dei suoni e delle voci della Puteca, importante baluardo di una tradizione che trasforma gli uomini in un popolo.
I “Volti della Puteca” scelti dall’artista per rappresentare il clima bohémien di una provincia oggi alla ribalta quasi esclusivamente per il turismo, non sono altro che il simbolo di un Salento ancora pulsante energia buona a fare dell’Arte un modo di vivere e della Vita un’arte.
Venerdì 14 luglio, alle ore 20, nella chiesa del Carmine di Nardò verrà presentato il volume edito da Mario Congedo di Galatina, Decor Carmeli. Il convento, la chiesa e la confraternita del Carmine di Nardò.
Un progetto ambizioso che il sacro tempio meritava, per essere una delle chiese più note e frequentate dalla popolazione ed oggi meta preferita dei tanti turisti che stanno riscoprendo la città di Nardò.
L’edizione, di circa 400 pagine, in formato A/4, con tavole e rilievi del complesso, centinaia di illustrazioni bianco/nero e colore, in buona parte eseguite da Lino Rosponi, è l’ottavo dei Supplementi dei Quaderni degli Archivi della Diocesi di Nardò-Gallipoli, diretti da Giuliano Santantonio. Oltre la Confraternita del Carmine hanno promosso l’edizione la Diocesi di Nardò Gallipoli e la Fondazione Terra d’Otranto.
Curato da Marcello Gaballo, contiene numerosi saggi scritti da studiosi ed esperti, che hanno voluto omaggiare la nota chiesa di Nardò con ricerche e nuove fonti di archivio raccolte negli ultimi anni. Tra questi Marino Caringella, Marco Carratta, Daniela De Lorenzis, Anna Maria Falconieri, Paolo Giuri, Alessandra Greco, Maria Domenica Manieri Elia, Elsa Martinelii, Alessio Palumbo, Armando Polito, Maria Grazia Presicce, Cosimo Rizzo, Giuliano Santantonio, Marcello Semeraro, Maura Sorrone, Fabrizio Suppressa.
Si parte dalle origini della Congregazione dell’Annunziata e insediamento dei Carmelitani Calzati, fino alla loro definitiva soppressione e l’istituzione della parrocchia, soffermandosi sulle vicende del funesto terremoto del 1743, che arrecò danni considerevoli alle strutture, in buona parte ricostruite nel decennio successivo.
Notevoli gli approfondimenti artistici, specie all’interno della chiesa e del convento, senza tralasciare le sorprese dell’insolita facciata cinquecentesca e dei suoi celebri “leoni” posti all’ingresso, che sembrano rimandare al celebre architetto Giovan Maria Tarantino, probabile autore anche dell’altare della Trinità, nella stessa chiesa. Nuove fonti anche per l’altro artista neritino, Donato Antonio d’Orlando, al quale sembra debbano attribuirsi altre opere dipinte, oltre quella firmata del S. Eligio.
Altre sorprese emergono dagli studi sull’altare della Madonna del Carmine, sulla tela dell’Annunciazione, sulla statua lignea dell’Annunziata e su un inedito corpus di manoscritti musicali, conservati nell’archivio della confraternita.
Il ricco corredo fotografico, che rende il volume ancor più interessante, documenta arredi, stemmi, reliquie e suppellettili di cui si è arricchita la chiesa nel corso dei secoli e raramente esposti.
Da ciò l’entusiasmo del priore della Confraternita, Giovanni Maglio, che ha fortemente voluto ed incoraggiato l’iniziativa, con il sostegno dei confratelli e consorelle, inserendola “di diritto nell’attività di valorizzazione del patrimonio culturale civile e religioso, che si sta particolarmente curando in questo ultimo decennio” nella città di Nardò.
Oltre gli Autori, che hanno voluto offrire pagine importanti, mettendo a disposizione di tutti vicende e fonti spesso sconosciute o inesplorate, aiutandoci a leggere nella maniera più corretta ed esaustiva, altrettanto importanti coloro che hanno offerto immagini e foto altrimenti difficili da reperire, tra cui Giovanni Cuppone e don Giuseppe Venneri, Gian Paolo Papi, Clemente Leo e Don Enzo Vergine, il parroco della chiesa matrice di Galatone don Angelo Corvo, Don Domenico Giacovelli e Rosario Quaranta, Emilio Nicolì e Raffaele Puce, Stefano Tanisi, Bruno Capuzzello. Una particolare menzione a Stefania Colafranceschi per aver messo a disposizione parte della sua collezione di santini e immagini antiche, e a Stelvio Falconieri, per due importanti e rarissimi documenti fotografici della chiesa nei primi decenni del ‘900.
All’elenco si aggiungono Pierpaolo Ingusci, Antonio Dell’Anna, Luca Fedele, Emanuele Micheli e Matteo Romano, valido aiuto nell’ordinamento dell’archivio e trascrizione di alcuni documenti. C’è stato anche un silenzioso e paziente lavoro, assolutamente importante, nell’allestimento degli arredi liturgici e nella ripulitura di molte suppellettili in parte desuete ma necessarie per una completa catalogazione. Ed ecco che devono aggiungersi, includendo nel lungo elenco anche Cosima Casciaro, Dorotea Martignano, Teresa Talciano e Anna Violino.
Infine, ma non per minore importanza bensì per sottolinearne il ruolo, la riconoscenza ad Annalisa Presicce, che ha professionalmente rivisto le bozze ed omologato le centinaia di annotazioni per un testo agile, coerente e scientificamente valido, come si spera possa essere.
Il volume sarà presentato dalla Prof.ssa Regina Poso, già docente preso la Facoltà di Beni Culturali dell’Università del Salento.
Torna alla grande Tracce d’arte nella sua settima collettiva. Ad accogliere Tracce d’Arte 7 la Cantina Vecchia Torre di Leverano con il più grande evento dell’estate salentina dedicato a tutti gli appassionati del buon vino.
Dal 20 al 26 di luglio 2017 dalle ore 20.00 all’interno dell’evento wine festival, nella sala degustazione della cantina Vecchia Torre, il meglio di Tracce d’Arte con opere d’eccezione di alcuni tra i migliori artisti contemporanei del nostro territorio.
Tracce d’Arte è un evento pensato e curato dalla Maestra d’Arte Anna D’Amanzo, a sua volta ceramista, pittrice, scultrice, lavorazioni di stampa, designer di moda per la casa californiana Vida, già presente con le sue opere in collezioni museali e private in tutta Italia.
Sorsi di cultura quindi a 360 gradi per la nona edizione del wine festival.
Ad esporre la stessa curatrice Anna D’Amanzo che, oltre alle figure femminili da sempre privilegiate, propone nuove elaborazioni che trasmettono freschezza e serenità attraverso “I liquidi”, opere innovative di grande impatto. Salvatore Silvan Dell’Anna con le sue opere in marmo dove l’artista rielabora figure femminili rigorosamente sintetiche, sviluppando un’impronta personale con risvolti umani e spirituali. Le incantevoli creazioni di Antonio Di Paola che ci sorprende con i suoi eleganti e insoliti elaborati in vetro e pietra leccese. Roberta Fracella con i suoi “total white” affronta la tela per conquistare lo spazio, aggiungendo aspetti tridimensionali tipici della scultura. Luigi Martina artista poliedrico che cattura attimi irripetibili che dal pensiero prendono forma, volumi tradotti nella leggerezza della cartapesta, nella sinuosità della pietra, nell’eleganza della pittura. Maurizio Martina che ritrae l’umanità attraverso stoffe animate e la metamorfosi del caos globale in cui viviamo che diviene bellezza pura di visi di donna. Albino Mello con la sua sapiente lavorazione dei metalli, dai quali trae forme d’arte che diventano elementi d’arredo apprezzati in tutta Europa. Massimo Miglietta da sempre intaglia e scolpisce la pietra come da tradizione grazie all’utilizzo di martello e scalpello; esuberante nello stile barocco, che tuttavia non impedisce all’artista di svincolarsi da esso per realizzare sculture di pregevole interesse dal design moderno.
La parola adesso allo spettatore, a quanti passando per il wine festival a degustare i migliori vini del salento, potranno con un calice in mano soddisfare anche la visione del bello che il mondo dell’arte propone.
Il 28 dicembre 2016 nella Sala Consiliare del Comune di Taurisano è stato presentato il volume “Poesie” di Ugo Orlando (Mastro Scarpa), a cura di Antonio Di Seclì e di Antonio Resta, uscito per i tipi delle Edizioni Grifo di Lecce.
Il volume raccoglie tutti i testi di poesia del nostro editati e ospitati ora in riviste ora in pubblicazioni “senza pretese” a spese dell’autore.
Ugo Orlando è stato anche autore di prose e di alcuni drammi rappresentati in diverse occasioni nel teatro di Taurisano; ma è noto al pubblico soprattutto dei suoi concittadini per le brillanti, ironiche, sorridenti, cronachistiche, talora, intime ed elegiache poesie in dialetto taurisanese.
Aveva cominciato a comporre versi in italiano intorno ai quindicii anni, era nato nel 1910, ma con scarsi risultati. Presto però, nei primissimi Anni Trenta, ripose cuore all’ ascolto delle intriganti ispirazioni della Musa, e questa volta in dialetto taurisanese che non verrà mai più abbandonato se non in tarda età, quando per motivi tutti suoi si mise, quasi con vanità e lieve risultato, a comporre versi in copia per omaggiare donne e uomini del suo piccolo mondo. Allora, però, l’ora ultima stava per scoccare e Mastro Scarpa pensava forse, così operando, di poter creare intorno alle due ultime piccole figlie, nate dal secondo matrimonio dopo la morte di Antonia, un cordone di solidarietà e di affetti.
Ugo Orlando smise di vivere nel novembre del 1996 e, per non dimenticarlo, l’Associazione Culturale “Pietre Vive” di Taurisano ha pensato, con l’aiuto di vari sostenitori, a vent’anni dalla morte, di racchiudere in un unico volume l’opera poetica per consegnarla al pubblico degli studiosi e degli innamorati dei suoi versi.
Il volume è stato presto esaurito e di nuovo ristampato, nel mese di maggio 2017, con alcune correzioni e un indice dei nomi.
Gli interessati possono richiedere copia, scrivendo a: antonio.disecly@gmail.com oppure a vittoriocrudo@virgilio.it –
UNA STORIA A SORPRESA: IL “MCBETTER” DI MATTIA DE PASCALI
di Maria Antonietta Bondanese
“E una mattina, destandomi, scoprii che quel giorno era giunto. E lo accettai senza troppe remore, perché da quando ho memoria ho sempre saputo che sarebbe arrivato.(…) Non c’è nulla da drammatizzare nella fine. E’ il punto d’arrivo, l’assoluta certezza”. Inizia così il racconto di Mattia De Pascali, contenuto nel volume Storie lampanti, che raccoglie le storie più belle proposte nel concorso letterario del 2013 “Raccontare i Paduli”.
Una scrittura incisiva, efficace, per un narrare a metà strada tra fantastico e reale, tra enigma e verità, che coinvolge il lettore e lascia intuire lo stile di De Pascali sceneggiatore e regista.
Il cineasta supersanese, al di là della giovane età, ha già all’attivo un interessante curriculum costruito con competenza, studio e passione. “Sono stato abituato – dice Mattia – a guardare film fin dalla tenera età. Eppure da bambino volevo fare altro, un mestiere che mi permettesse di essere più a contatto con la natura. Almeno fino a tredici anni, quando ho scoperto le opere di Stanley Kubrick e ho compreso il potenziale infinito del mezzo cinematografico”.
Dal regista statunitense, il cui genio ha spaziato dal thriller alla satira politica, dalla storia e fantascienza al dramma psicologico, Mattia ha mutuato la pluralità degli interessi.
“Oggi – aggiunge – non ho un regista, un film o un genere preferito. Tendo a non mitizzare niente e nessuno ma sono aperto a tutto.” La sua stanza di lavoro, adorna di libri, fotografie e manifesti descrive, infatti, un percorso personale ricco di curiosità. Una capacità di guardarsi intorno e rappresentare la quotidianità attraverso il filtro dell’inventiva.
Anche il set del suo recente lungometraggio “McBetter”, allestito nel B&B Luxury a Lecce e quindi ad Arnesano presso Villa Maresca, è lontano dal tipico Salento assolato, intrappolato in una ‘controra’ senza fine. Il contesto salentino è reinventato, invece, come sfondo per un intreccio che potrebbe snodarsi ovunque, perché il “messaggio, le idee politiche o la visione sociale del regista – Mattia ne è convinto – emergeranno comunque attraverso alcuni dettagli per occhi attenti”.
“ Tutti i film – prosegue – raccontano la società in cui nascono ed un ‘messaggio’ arriva meglio se non viene veicolato in modo diretto”. Ma, ad esempio, sotto la specie accattivante del thriller o della commedia “nera” dai toni grotteschi qual è “McBetter”. Una storia in cui il gioco perverso del Potere viene smascherato con scanzonata ironia e i rapporti di forza, motore dell’esistenza, sono tracciati mediante la tensione dell’intrigo. Non a caso, la vicenda di “McBetter” è ispirata al dramma shakespeariano di Macbeth, dove ambizione e avidità sfrenata portano a totale distruzione il protagonista che, ucciso il proprio re, si avvita in una spirale di delitti fino al tragico epilogo.
In “McBetter” il re da usurpare è l’attempato imprenditore Joe McBetter, proprietario di una ricca catena di fast food mentre il nuovo Macbeth è Malcom, suo genero. Entra così in primo piano il mercato del fast food, del cibo veloce, industria tra le più potenti del mondo dove le ragioni del profitto impongono lo sfruttamento dei lavoratori e la seduzione dei consumatori, specie dei bambini, mediante una pubblicità ingannevole. Una realtà che corre lungo il filo della trama con sorprese e colpi di scena, come nel più classico dei polizieschi. Singolari i personaggi di questa storia, per i quali De Pascali ha selezionato gli interpreti secondo il criterio dell’originalità e della bravura. “Durante il ‘casting’ – ci tiene a sottolineare – ho cercato attori che fossero personaggi particolari, non belle presenze. E così è stato, compreso per il più giovane dei protagonisti, Oscar Stajano, cinque anni appena e pronipote di Giò Stajano, famosa nella ‘dolce vita’ di felliniana memoria”.
Il gruppo degli attori – Nik Manzi, Donatella Reverchon, Serena Toma e Andrea Cananiello – è affiancato da tecnici esperti come Giulio Ciancamerla, l’aiuto regista; Lucio Massa, l’organizzatore generale; Islam Mohamed detto ‘Ismo’, il direttore della fotografia; Silvia Cappello, l’assistente di fotografia; Cristina Panarese, per gli effetti speciali; Jonathan Imperiale, il segretario di edizione; Sofia Volpe e Giorgia De Carlo, per trucco & parrucco. Spiccano nella troupe due giovani talenti di Supersano, Arianna Alfarano e Valentino Galati. Arianna , brillante attrice nel teatro amatoriale ed allieva presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce, si è cimentata nell’impresa in qualità di abile scenografa. Valentino, noto dj, ha preso parte come addetto all’audio e compositore della colonna sonora. Dall’estro di Valentino, che opera in campo musicale nel duo “Monotron”, è nata anche la musica originale che esalta le immagini di Candy School, il cortometraggio realizzato nel 2103 da Mattia De Pascali con gli alunni dell’Istituto Comprensivo “E. Frascaro”di Supersano, nel laboratorio di cinema da lui tenuto sul tema del bullismo.
Numerose le opere di Mattia selezionate in vari festival, come il Festival del Cinema Europeo a Lecce, il Castro Film Festival e il Puglia in corto a Brindisi. Intensa anche la sua collaborazione con la rivista online di critica cinematografica Point Blank – La più corta distanza fra il bene e il male e quella con altri registi come Alberto Genovese, per il quale sta ultimando la sceneggiatura del film “Resurrection Corporation”.
Risultati sorretti da una solida formazione e cultura professionale. Alla laurea triennale al DAMS di Bologna, hanno fatto seguito infatti la laurea magistrale in Cinema, Televisione e Produzione Multimediale conseguita a pieni voti al DAMS di Roma Tre e la frequenza di vari corsi per ampliare la sua specializzazione. “Il cinema – dice Mattia – è diventato la mia ragione di vita”.
Più che le parole, il tono della voce e lo sguardo lasciano trapelare quanto entusiasmo, coraggio e determinazione siano necessari ad affrontare gli ostacoli che un’attività così complessa comporta. Dalla fine degli anni Ottanta, il cinema “made” in Puglia ha fatto un salto di qualità, grazie anche al supporto della Regione ma serve “qualcuno che investa cifre vere e non si appoggi solo ai limitati fondi pubblici per promuovere un’industria in grado di crescere su delle basi solide e non essere alla mercè di tagli e crisi economiche”. E’ quanto annotava Mattia De Pascali nel suo libro Multisala Salento, che reca l’eloquente sottotitolo “Come fare film sotto il sole con pochi soldi e a stento”. Era il 2012 quando appunto osservava che mancano programmazione e infrastrutture, mancano teatri di posa e una scuola di cinema. Manca il sostegno economico a chi è agli inizi.
Un regista emergente come Mattia De Pascali deve perciò auto produrre il suo film. Senza cedere a facili vittimismi, Mattia lavora adesso con impegno al montaggio del “McBetter”, finito di girare lo scorso aprile, per poterlo ultimare quest’anno e proporlo nel 2018 entro i circuiti di distribuzione. Anche questo è un grosso problema perché il mercato tende in genere a premiare i nomi già noti più che gli esordienti, la cassetta più che la qualità.
Ma il cinema che da sempre racconta bellissime storie, potrà forse regalarci ancora una volta sorprese ed emozioni con la ‘storia’ di Mattia De Pascali.
Per sapere di più su personaggi e interpreti della black commedy “McBetter”, conoscere particolari gustosi e momenti del set, si può visitare la pagina Facebook: www.facebook.com/McBetterMovie.
Già noto nell’antichità per le sue proprietà nutraceutiche ora si scopre che la urolithine, prodotta dal nostro microbiota intestinale a partire da un composto naturale del melograno, avrebbe la capacità di ripristinare la piena attività dei mitocondri, mantenendo vive più a lungo le cellule…
a cura del Collegio dei Periti Agrari e dei Periti Agrari Laureati della Provincia di Lecce
Il Collegio dei Periti Agrari e dei Periti Agrari Laureati della provincia di Lecce ricorda che entro e non oltre il 30 aprile 2017 bisogna aver effettuato le lavorazioni meccaniche superficiali (aratura, trinciatura, fresatura) di tutti i terreni ed alla pulizia dalle erbe spontanee al suolo (compresi i bordi strada e le aree di competenza di Comuni e Province) per ridurre la popolazione degli adulti di Philaenus spumarius, vettore della Xylella.
Il Collegio dei Periti Agrari rende noto che questi interventi riescono a ridurre la popolazione della sputacchina perché colpiscono l’insetto negli stadi giovanili quando sono ancora poco mobili e non infettivi.
Inoltre siccome questi interventi SONO OBBLIGATORI così come stabilito dalla delibera della giunta regionale 1999 “Misure Fitosanitarie per l’eradicazione e il contenimento della diffusione della Xylella fastidiosa”, pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione Puglia 148/2016 CHI NON AVRA’ EFFETTUATO TALE LOTTA AL VETTORE POTRA’ ESSERE SOTTOPOSTO A SANZIONI comminate dal 1 maggio al 15 giugno 2017, giorni nei quali verranno effettuati i controlli su tutto il territorio.
Si propone un interessante e poco noto stralcio che fu pubblicato da Eugenio Tortora nel suo volume Nuovi documenti per la storia del Banco di Napoli, edito a Napoli da A. Bellisario & C. e stampato presso la tipografia De Angelis a Portamedina alla Pignasecca, 44, nel 1890.
Tra le più importanti istituzioni della città di Napoli vi furono senz’altro la Casa Santa all’Annunziata e l’ospedale degl’Incurabili, uno dei più importanti d’Europa.
Lo aveva fondato Maria Richenza moglie di Giovanni Lonc (Longo), ministro di Ferdinando il Cattolico, Regio Consigliere e poi Reggente del Consiglio Collaterale, miracolata da una paralisi insorta a seguito di somministrazione di veleno datole da una cameriera. Dopo un pellegrinaggio alla Santa Casa di Loreto, nel giorno di Pentecoste dell’anno 1519, fu guarita, e per ringraziamento fece voto che avrebbe servito gli infermi per il resto della sua vita.
Non ritenendo sufficienti le strutture già presenti in Napoli, nel 1521 decise di fondare, a proprie spese, una casa di cura in contrada sopra Santo Aniello.
Pose la prima pietra il Viceré Raimondo de Cardona, che poi fu anche uno dei Governatori. Per la sua specializzazione, l’Ospedale era riservato esclusivamente a pazienti affetti da patologie all’epoca considerate “incurabili”.
Sant’Alfonso de’ Liguori, durante una visita agl’Incurabili, sulle scale principali fu colto da una visione divina che lo spinse a entrare nella Compagnia di Santa Maria Succurre Miseris che svolgeva il suo ministero nell’Ospedale, assistendo spiritualmente i condannati a morte che venivano poi trasportati, dopo l’esecuzione, agl’Incurabili.
Il pontefice Clemente VII, oltre a numerosi privilegi, donò anche un’Abbadia o Commenda in provincia di Lecce, considerata del valore di circa settantamila ducati.
Nel predetto volume del Tortora, alle pagine 66-67, nel rendicontare i beni della Casa degl’Incurabili nell’anno 1801, viene descritta tale commenda (pag. 77 a 79 — Rubrica XII), titolandola “Dell’Abbadia di S. Maria a Cerrate in Lecce, e de’ suoi poderi, effetti, e rendite”.
L’abbazia, oggi denominata di Santa Maria di Cerrate, fondata alla fine del XII secolo da Tancredi d’Altavilla, conte di Lecce, è posta sulla strada provinciale che collega Squinzano a Casalabate, e rappresenta uno dei più significativi esempi di romanico in Puglia.
Di proprietà della Provincia di Lecce, nel 2012 è stata ceduta con una concessione trentennale al FAI (Fondo Ambiente Italiano), che la gestisce.
Si riporta l’atto, dal quale si desumono importanti informazioni sul bene:
“Possiede la nostra S. Casa un podere rustico, denominato l’Abbadia di S. M. a Cervata, seu Cerrate, alias de Cbaritate; sito nelle pertinenze della Città di Lecce; distante da essa Città da circa miglia 9, verso tramontana; distante dalla Terra di Surbo miglia 5., dalla Terra di Trepuzzi anche miglia 5., e dalla Terra di Squinzano altre miglia 5. Li corpi ed effetti della quale anzidetta Abbadia ritrovansi distintamente descritti e confinati in una platea a parte, formata giuridicamente nell’anno 1692, dal fu Dottor D. Fabrizio de Vecchis, uno de’ Governatori allora di questa Real Santa Casa; il quale, avendo avuta non meno un’ amplissima delegazione per poter esercitare atti giudiziari, concedutali dal fu Spettabile Presidente del S. R. C. D. Felice Lanzina y Ulloa, Delegato e Protettore della medesima S. Casa, che altresi la generalissima potestà trasferitali dall’intera Banca, si portò in quel tenimento, accompagnato da un Procuratore, dal Regio Tavolarlo Giuseppe Parascandolo, e dallo Scrivano della Delegazione Pietro Majone; ove, trattenutosi più mesi, procede giudiziariamente cosi alla misura de’ territori demaniali e proprietà di detta Abbadia, come alla verificazione di tutti li stabili posseduti dalle persone soggette alla medesima; e se ne fabricò un voluminoso processo, che unitamente con detta Platea, data poi alle stampe nel 1693, si conservava nel nostro Archivio fra le altre scritture appartenenti all’Abbadia.
La sudetta Abbadia, anticamente, era un monastero di monaci Basiliani. Ma essendo poi seguita la soppressione de’ Monasteri e Chiese Basiliane, furono i loro beni aggregati alla S. Sede, e fra di essi anche dett’Abbadia, la quale poi fu data in Commenda a’ Signori Cardinali, e l’ultimo Abbate Commendatario della medesima si fu l’Eminentissimo Cardinale Nicolò Caddi, del titolo di S. Teodora; il quale, nell’anno 1531, la rinunciò e rassegnò in mano del Sommo Pontefice Clemente VII.
E perché allora il nostro nascente Ospedale degl’Incurabili, che pochi anni prima erasi fondato, ritrovavasi in una somma scarsezza di entrate, che non poteano stare a mantenere il numero de’ poveri infermi, che giornalmente cresceva, stimarono gli Amministratori e Deputati di quel tempo, che lo governavano, di supplicare Sua Santità a non denegarsi di unire ed incorporare perpetuamente, al detto Ospedale, il sudetto vacante Monastero ed Abbadia di S. M. a Cerrate; affinché si potesse con quelle rendite dare una necessaria sovvenzione a’ poveri Infermi; e più facilmente vi si mantenessero, accrescessero, e continuassero altre simili opere, pie e caritative.
A queste suppliche benignamente annui il generoso Pontefice, con aver conceduto in commenda perpetua, ed accordato a titolo di elemosina all’ospedale il suddetto Monastero ed Abbadia, colle sue ragioni, rendite, frutti, e proventi; mediante una special Bolla, spedita in Roma nel di 18 Giugno 1531. La quale fu avvalorata con Regio Exequatur, mediante previsioni spedite a’ 2. Gennaio 1532, dall’Eminentiss. Cardinal Pompeo Colonna, allora Viceré di Napoli, e dal suo Collateral Consiglio, in vigor delle quali Andrea de Cecchis, come special Procuratore di questa S. Casa, in nome della medesima e suoi Signori Governadori, a’ 18. Gennaro dello stesso anno, prese il corporal possesso di dett’Abbadia, e suoi corpi, ed effetti. E ne fu rogato pubblico atto, per mano di pubblico notajo, che reassunto in pergamene, coll’inserta forma cosi di detta Bolla, come delle sudette provisioni e Regio Exequatur, si conservava in nostro archivio, nel fascio settimo delle istruzioni in pergamena al num. 22.
Le rendite, ed effetti di detta Abbadia, per quel che si ricava dal sudetto Processo e Platea data alle stampe, si dividono in tre specie cioè;
La prima specie si chiama demaniale, possedendola l’Abbadia pro ejus mensa et proprietate, con andare a. suo peso il coltivare i territorj demaniali, e raccoglierne i frutti, e la maggior rendita della medesima si ricava dalle olive.
La seconda specie si chiama decimale, la quale non è per ragion di decima dovuta per peso di anime, e somministrazione de’ Sagramenti; a’ quali pesi non è obbligata l’Abbadia, per essere quella una semplice Commenda, e nudo beneficio ecclesiastico, col solo obbligo di celebrare una messa cotidiana; ma si chiama decima h sol riguardo che essendo anticamente stati quelli territori tutti boscosi, paludosi, e molto lontani dall’Abbadia, gli Abbati pro tempore li concedevano a diversi particolari, affine di farli disboscare e ridurre a coltura; colla riserba del jus rìcci mandi di ogni sorte di frutti, che son tenuti li concessionari soddisfare franco di ogni spesa, precedente stima delli frutti pendenti ed agresti, e con portar detta decima sino alla Casa dell’Abbadia.
Vi è anche un’altra decima, che si chiama erbatica, carnatica, e monta. L’erbatica si è che di tanti animali pecorini, vitellini, e caprini, che nascono, se ne paga la decima. La carnatica delli animali porcini: e la monta tutto il frutto di un giorno che nasce da detti animali per ciascun’anno, ad elezione dell’Abbate, benché li padroni per detto jus di erbatica, carnatica, e monta sogliono transigersi con pagarne un tanto l’anno.
Ha però luogo questo peso di erbatica, carnatica, e monta in quelli territorj ove sono case, e masserie, poiché è una specie di annuo canone, per concessione enfiteutica perpetua, ad quoseamque etiam ejtrancos; a tal segno che quando accade alienazione di qualche stabile, di qualsivoglia valore, pretendono quei naturali pagare un dritto, che chiamano decima pretii. che lo tassano a cinque carlini per qualunque alienazione. Ed essendo ciò sembrato un abuso irragionevole, s’imprese, nel 1602, l’esazione del laudemio, contro i terzi possessori, e se ne ordinarono contro di essi diversi sequestri, come apparisce dal sud. processo. Gli effetti demaniali che sono della prima specie consistono in chiusure piantate di alberi di olive, in territorj, ed in due masserie parte seminatone e parte olivetate, che in tutto sono
di capacità di tom. settecento trentanove 1|4……………………………………… tt.
739 1|4
Gli effetti decimali, che sono della seconda specie, consistono in diversi territorj, posseduti da diversi Cittadini di Lecce, Lequile, Surbo, Trepuzzi, e Squinzano, che in tutto sono della capacità di…………………………………………………..tt.3573 1|2
Unita dunque tutta l’estenzione e capacità de’ territorj demaniali e decimali di detta Abbadia, forma in unum…………………………………………………….. tt. 4312 3|4
E la terza specie di effetti di detta Abbadia consiste in molti piccoli annui canoni, seu censi enfiteutici perpetui, che si pagano in danaro da diversi particolari, sopra varie case di diretto dominio della medesima, site nelle Terre di Surbo e Squinzano, e sopra alcuni territorj siti in Lequile, che in unum ascendono ad ann. doc. 8.33.
La mentovata Abbadia, con detti suoi corpi ed effetti demaniali, decimali, censi, e masserie, da tempo in tempo per lo più si è data in affitto, per l’annuo estaglio metà in danaro e metà in olio; come si praticò nell’anno 1753, essendosi affittata a D. Pompeo Marone di Brindesi, per anni 6, per l’annuo estaglio in danaro di ann, doc. 1201, ed in olio mosto di annue stara 1200 misura di Lecce, trasportate a spese del conduttore nelle posture di Gallipoli; ed alle volte, non essendosi ritrovata ad affittare, si è tenuta in demanio per conto di essa S. Casa, la quale è stata solita mantenervi colà un agente, o sia amministratore per esiggere quelle rendite.
Dalli conti, che in ogni anno si rimettono alla nostra S. Casa da quello Amministratore, si rileva che coacervata la rendita per più anni, tanto in denaro che dal prezzo dell’olio, importa an. doc. 2732.12, alli quali si dà prudenzialmente il capitale alla ragione del 4 per 100, importante…. 68303
Sopra la sudetta annua rendita si paga la decima ed altri pesi fiscali, dovuti alla Regia Corte, ne’ rispettivi tenimenti ove sono accatastati i poderi“.
Per le note storiche, altri approfondimenti e la galleria di immagini rimandiamo all’ottimo lavoro di Brundarte, che qui si ringrazia per le foto concesse:
Ispettore onorario “per la tutela e la vigilanza degli organi a canne storici per le province di Lecce, Brindisi e Taranto” (prima, dal 2012, lo era della sola provincia leccese). La nomina è arrivata a dicembre 2016 dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo.
Se la virtù dei grandi è la discrezione, il pudore, rifuggire dai riflettori della ribalta (atteggiamenti decisamente retrò al tempo della selfie-mania e dei social), c’è voluto del tempo a convincerla a dare la notizia.
E dunque, un altro step nella già prestigiosa carriera accademica e divulgativa della prof. Elsa Martinelli, salentina di Gallipoli, docente di “Poesia per Musica e Drammaturgia Musicale” al Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce.
Tradurre le proprie passioni in un lavoro non càpita a tutti nella vita. Elsa ha avuto questa “buena suerte” e la vive come una mission senza lesinare energie, come sanno i suoi allievi e la stessa Terra d’Otranto, che conosce e apprezza i suoi saggi in cui spesso coinvolge l’architetto Beatrice Malorgio (“Fughe”, Edizioni del Grifo, 2012).
L’incarico, onorifico, è di durata triennale e prevede la tutela, la vigilanza, la consulenza storico-musicale, tecnica e archivistica, di restauro (di tipo filologico, conservativo, funzionale ed estetico) in funzione della salvaguardia del ricco patrimonio organario delle chiese.
La prof. fa capo agli organi centrali del Ministero tramite l’ufficio periferico della SABAP (Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio) di Lecce, ora diretto dal nuovo soprintendente, l’architetto Maria Piccarreta.
Una mission, s’è detto, vissuta full time. In ambito didattico e di ricerca con volumi, saggi, articoli su riviste specializzate, atti di convegno nazionali ed extra moenia, pubblicazioni miscellanee sugli organi a canne nel Salento, due corpose monografie e numerosi contributi di studio.
La prof. Martinelli ha studiato i vari aspetti della storia del melodramma (dai costumi teatrali ai libretti d’opera), opere e protagonisti della grande opera lirica: da Vivaldi a Niccolò Piccinni, incluso il contemporaneo Nino Rota.
I profili storici e l’attività artistica di musicisti come Eriberto Scarlino, Luigi Romano, Vincenzo Pecoraro e di cantanti lirici come il tenore di grazia Tito Schipa (leccese doc, “Canto per te. Omaggio a Schipa, 2016) e il soprano Ines Martucci, inclusi corsi di iconografia musicale, la storia di bande musicali e interconnessioni fra architettura e musica.
Non male per una giovane prof. appassionata del suo lavoro. Della serie “Eccellenze a Sud”, o “Ce ne fossero!”. Chapeau!
Dalla prosa alla poesia, dal romanzo alle liriche. Lilli Pati ha esordito due anni fa con una dichiarazione d’amore. Tale è la storia narrata in ‘Il richiamo dello scrigno’, inteso come luogo in cui si conservano le perle del cuore, i tesori invisibili, quelli che troviamo in fondo all’anima e che l’autrice ci invita con discrezione ad ammirare. E ad amare. Quell’’Omnia vincit amor’ virgiliano permea la vita, i desideri, i sogni della protagonista che ora, vestale dell’orchidea bianca, inonda le pagine di sensazioni, stati d’animo, sogni, desideri, abbandoni, piaceri, voluttà, rimpianti, sempre messi in relazione con gli elementi naturali, paesaggistici, il sole, il mare, il vento ora zefiro, ora tempesta, che addolcisce o minaccia la nostra esistenza… Sensazioni di abbandono fra le braccia dell’amato a lungo sognato e che ora stringe a sé per non lasciarlo mai più, per non essere mai più lasciata. Ma quanta strada prima di arrivare a cogliere il fiore dell’innocenza perduta! Anzi non a cogliere, a bearsi del suo profumo, della sua immagine che cresce a vista d’occhio, bagnato dalla salsedine di un mare che sferza i nostri sentimenti e nel quale dobbiamo condurre la nostra navicella fluttuante. Una sessantina di liriche compongono questa nuova pubblicazione di Lilli che si pone ella stessa ‘Come un’orchidea BIANCA’, novella Proserpina – viene detto nell’introduzione – che vive nottetempo la follia delle passioni amorose. Come la dea accetta il suo sposo ma vuole vivere altre sensazioni ultraterrene, fuori terra, verso il cielo delle beatitudini dove tutto si stempera e l’amore diventa un sentimento universale che tutto abbraccia, insieme, uomini e cose. Più Venere, mi sembra, nell’Ode al mare’ laddove rinasce bella fasciata nell’abito bianco che incede sostenendo con la sua bellezza gli sguardi altrui colmi di desiderio. Diviso in due parti, il libro tratta dei ‘Frammenti di cuore e di vita’, due metà che si susseguono a ritmo incalzante senza cesura e in continuità. Talora la passione e il desiderio lasciano il tempo e lo spazio ai ricordi, alla nostalgia velata di tristezza, di rimpianto. Come il viandante che giunto nel ‘Deserto’ sembra aver smarrito la strada ed essere in preda all’arsura, così lei, anziché abbattersi, raccoglie gli sforzi e li proietta sul domani, quando raggiungerà la pace e la serenità, senza per questo rinunciare alle emozioni della vita. Fino a immaginarsi ‘Nocchiero di me stesso’ che pur nelle difficoltà della navigazione si conquista la libertà della manovra e oltrepassa la tempesta. Per quanto ‘Ala di gabbiano’ come quella di Icaro paventi l’umidità delle acque marine che l’appesantirebbero, così lei sa andare ‘Oltre’ verso il cielo, dove tutto ciò che si è perso si ri/conquista, soprattutto la condizione sovrumana di benessere oltre il piacere come unione fisica di due anime, l’atarassìa delle passioni. La poesia d’amore celebra qui i suoi fasti, ma non ignara del sentimento dolce-amaro come ha cantato Saffo, da bere sino in fondo, ebbra, sino alla stordimento, grazie ad una sana ‘Follia’ del vivere e dell’amare.
Non per mero vezzo, ma del tutto spontaneamente, così mi viene di appellare, beninteso con ovvio riferimento soggettivo, il compimento dell’almanacco 2016.
Tuttavia, con pari schiettezza intellettuale, devo subito annotare che la cospicua cifra, integrante in senso anagrafico l’intestazione di queste note, non è da me avvertita alla stregua di un fardello che genera o deve necessariamente dar luogo ad ansimi e sospiri e/o come un campanello d’allarme di fronte a perigli e acciacchi ineludibili e inevitabili e/o come un avvicinamento al “fu” (passato a migliore vita).
Infatti, riguardo al progressivo assommarsi di primavera dal lato anagrafico, è da un pezzo che, dentro, vado dicendomi che io, ragazzo di ieri, sono, in fondo, senza età.
I giorni e le stagioni mi scorrono accanto leggeri, a ogni dischiudersi degli occhi, come pure durante l’ammirazione stupita, verso ovest, dei rossi tramonti salentini, mi sembra di registrare una conquista, di essere beneficiario di un prodigio.
In tal guisa, adesso, si succedono, dunque, i miei scalini esistenziali.
Di siffatta visione e del mio personale convincimento, ho di recente reso confidenza alla cara amica Giuliana, invero un po’ meno “ragazza di ieri” rispetto a me, e mi è sembrato che lei, sorridendo con la sua consueta dolcezza, annuisse e concordasse.
In tema di anni, capita sovente che mi si accostino pensieri e piccole riflessioni sulla circostanza che mio padre se n’è andato a pochi passi (mesi) dagli ottanta; mentre, il suo genitore, ossia mio nonno Cosimo, classe mille ottocento settantanove, arrivo fino al mille novecento ottantadue, dunque, con un bagaglio di oltre centodue primavere.
Ad ogni modo, non mi pongo neppure minimamente l’idea di elaborare termini di paragone o di congetturare scadenze alla luce dei suddetti riferimenti al livello di predecessori famigliari.
Del resto, come prima ricordato, sono uno senza età.
Ritornando brevemente alla figura dell’avo paterno ultra centenario, la mia amica Alba, nata da una Boccadamo, ha appena voluto gentilmente inviarmi l’albero genealogico, da lei realizzato con paziente lavoro di ricerca, concernente un determinato ramo della gente marittimese portante tale cognome.
In conclusione, per quel che la riguarda e, allo stesso modo, mi concerne, così come mio nonno Cosimo e il suo, Costantino, erano primi cugini, i rispettivi bisnonni, Generoso Silvestro e Antonio Maria, vantavano il legame di fratelli.
Grazie di cuore, Alba, per l’originale è prezioso documento, amabilmente passatomi.
Ecco, in estrema sintesi e secondo gli aspetti e le vicende essenziali, come si è rivelato e dipanato il 2016, sia nel mio sentire, sia sotto l’aspetto di concreto coinvolgimento.
Riprendendo il titolo, nella sfera del mio mondo più prossimo, famigliari e altre persone vicine, paragono il 2016 a una sorta di gerla (è la seconda volta che mi scorga quest’accezione), invero assai affollata di avvenimenti, per di più dai colori diversi e anche opposti e contrastanti.
In primo piano, purtroppo, non sono mancati problemi di salute: ove, fortunatamente, risolti e superati, ove, tuttora presenti sulla scena, con sfide che continuano. Di riflesso, confidenze e consuetudini con figure specialistiche e strutture addette ai lavori.
Una serie di prove, insomma, e non liete, rispetto alle quali, tuttavia, c’è una costante diffusa: la ragionata consapevolezza dei protagonisti chiamati a farsene carico, che il primo rimedio o presidio curativo si trova in loro stessi, nella loro volontà e determinazione di non rinunciare e, anzi, di tentare sempre.
Carichi di preoccupazioni su più versanti, insomma, e, però, con relativi pesi alleviati dalla gioia e dal piacere di vedere crescere, sane e belle, le giovanissime leve famigliari, idealmente frutti dei campi esistenziali che noi adulti abbiamo cercato di creare e coltivare al meglio.
Come dire, tirando le somme, preoccupazioni ma anche consolazioni autentiche.
Frattanto, prosegue la rotta del ragazzo di ieri, a 360 gradi, con o senza la barchetta a vela dondolante nel porticciolo e/o filante sulle distese che fronteggiano le amate scogliere.
L’altro ieri, nel primo pomeriggio, sotto una temperatura rigida per queste plaghe e nella vivacità dei soffi di tramontana, ho compiuto una puntatina a Castro, mio conclamato luogo dell’anima, al pari dell’insenatura “Acquaviva” e della natia Marittima.
Bevuto un caffè ritemprante allo “Speran” sulla piazzetta, dietro il bancone tre carinissime ragazze di cui una moldava, ho imboccato lo scalo delle barche per l’immancabile occhiata di fine anno al vecchio e al nuovo porticciolo.
In una delle grotte che si trovano da secoli scavate nei lastroni di roccia sulla sinistra della discesa, ho trovato il giovane amico Luigi S., pescatore e artigiano tuttofare e, d’estate, “barquero” (socio della cooperativa che gestisce lo stazionamento delle imbarcazioni da diporto), in compagnia di Nzino, quest’ultimo quasi mio coetaneo, il quale stava sistemando il suo conzo in un grande cesto di vimini. Alla mia domanda se si accingesse a calarlo, Nzino ha risposto di no, “l’ultima volta l’ho fatto prima di Natale”. Poi, l’uomo è di getto passato a ringraziarmi sentitamente e calorosamente per il dono, ricevuto a casa, del mio libro “A Castro con il cuore” ed è stato per me assai gratificante sentirmi da lui definire “u meiu casciaru” (il migliore degli abitanti di Castro).
Quando, io, ho visto i natali non a Castro, bensì nella contermine località di Marittima.
A un certo punto, è arrivato anche Nino, il mio mitico pescatore di saraghi, nella circostanza, però, vestito non da lavoro ma con abiti di festa; con il suo abituale sorriso, “ad aprile saranno novantatré” mi ha confidato, non senza aggiungere, a seguire, “anche a me è arrivato il tuo libro, grazie”.
Proseguendo, sulla banchina interna lato mare del porto nuovo, ho scorto tre persone, Antonio, comandante della “chianci” (barca consortile), Luigi S. e un’altra di cui non conosco o ricordo il nome, impegnate in una conversazione ad altissimo volume, vertente sul numero di reti o altri strumenti calati in mare e anche sui rispettivi più recenti risultati in fatto di pescato.
Oltre la diga foranea, mentre sulla distesa liquida si palesavano nitidamente i segni della tramontana, in barba ad essi, Antonio S., pure lui, d’estate, “barquero”, sul suo battello calava a più riprese e, con l’ausilio del “salpa rete”, tirava su il lungo attrezzo di pesca a maglie.
Dopo, ho scelto di restarmene per un po’ seduto al sole e riparato dagli spifferi della tramontana a ridosso dell’alto muraglione verso nord.
Lì, via ancora a snocciolare pensieri, ricordi, esperienze, incontri, storie, immagini, un rosario di tasselli di umanità e dintorni dei più svariati.
Il congedo da quel luogo tanto caro è stato sereno e all’insegna del sorriso e accompagnato, altresì, dallo scontato proposito di presto ritornarvi.
Finendo, statti bene e lungo sonno, 2016, nonostante tutto, senza rancore; quanto a te, anno nuovo, ti aspetto e, mi raccomando, sii buono e bravo!
E’ appena uscito, per i tipi di Spagine Fondo Verri Edizioni, il nuovo libro del giornalista e scrittore salentino Rocco Boccadamo “LUCA e il BANCARIO”, tredicesima raccolta di narrazioni avente, al pari delle precedenti, il sottotitolo di “Lettere ai giornali e appunti di viaggi”. Prefazione di Ermanno Inguscio e postfazione di Giuliana Coppola.
Una sintesi profonda, puntuale e indicativa sull’ultimo lavoro di Boccadamo è offerta, in particolare, dalla postfazione di Giuliana Coppola, il cui testo si riporta di seguito:
“Sono arrivato al mondo una grossa gerla di calendari fa…”, pagina di diario 20 gennaio 2016.
Una “gerla” la vita; trovo inaspettato questo segno linguistico e mi fa tenerezza; la “gerla” appartiene a infanzie lontane, al passaggio di generazioni, al passo lieve di una Befana che scendeva da camini; si usa così poco oggi e invece è vocabolo denso di significato, così misterioso, stracolmo di speranze, di doni, di sorprese, di scoperte. Questo succede quando ci si accosta alla gerla di Rocco. Si può attingere a piene mani e scoprire e ritrovare quello che ciascuno in cuor suo desidera.
Ed ecco la sorpresa… scopro che il narrastorie di mia conoscenza è stato anche e soprattutto bancario, il bancario Rocco Boccadamo; lo scopro nella pagina di diario 13 novembre 2015; ma prima scopro l’esito di un diploma con “tutti numeri tondi” e immagino occhi di padre a scrutare quadri e batticuore di diciannovenne che scruta volto di padre e quadri con impresso l’esito degli esami. Penso – e mi ritorna batticuore – che allora si studiava molto anche per non deludere padri e si sceglieva, sempre per non deludere alcuno, anche il lavoro che si afferrava subito in quei magici anni sessanta; onorava soprattutto il merito, eppure sembrava a portata di mano. E’ a volo d’uccello il racconto di Rocco sul periodo che intercorre da luglio a settembre del 1960; rapido il ricordo di quei mesi, un salto dalle aule scolastiche alla scrivania della banca per iniziare “l’avventura di bancario che mi avrebbe coinvolto e avvinto per l’intera vita lavorativa”. Una nota di nostalgia ad inizio del viaggio per un collegio, il Berenini di Parma, che da matricola si abbandona perché il lavoro già attende, il primo giorno con le stesse attese e le stesse ansie del primo giorno di scuola, i primi alloggi e il primo stipendio…. l’inizio è così ma poi si va, gerla sulle spalle; segue Rocco da città a città mentre sale il suo personale cursus honorum, mentre, passo dopo passo, conquista forza e fiducia; assapora il senso della realtà quotidiana non sempre facile da reggere, perché così densa di impegni e responsabilità; i colleghi, gli amici, i funzionari, i direttori, i superiori, i piccoli grandi gesti di amicizia condivisa, le contromarche di don Titino e l’orologio di Gino, le fisse di clienti da non deludere mai, la puntualità da rispettare, le attese di chi ripone in te fiducia…la gerla va su e giù per l’Italia, testimone e complice d’una vita da bancario, diventata oggi pagina di diario che racconta e descrive, coglie particolari di “sfumatura cromatica”, di un “fumo” traditore, di un ritardo, di un orologio che funziona a modo suo, di una libreria a Taranto lì dove c’era la prima sede di lavoro, un cerchio che si chiude. “Per coincidenza o ideale destino parallelo: una “vecchia” banca, ora sommersa dal mondo dei libri, come pure, un ragazzo di ieri, già giovanissimo bancario, anch’egli, ora, vicino e collegato al mondo dei libri”.
Certo, al mondo dei libri… perché un libro, a suo modo, è una gerla; oggi ha il passo di Luca, mentre s’apre il grande abbraccio, profumato di verde, di mare e di campagna, di volti e di storie che si ritorna a carezzare; ogni pagina una carezza su ricordi; quelli che non si assopiscono mai, che vanno e vengono come le onde luminose d’Acquaviva, che riemergono sempre; pagine di diario che sono pagine di biografia; Itaca attende, di Itaca si ritorna a raccontare; il passo cadenzato di Luca, così diverso, così fuori dalla norma, ha il ritmo della voce narrante delle comari, di quelle che, all’angolo delle strade o sugli scalini delle case, o all’uscita della messa, o lavorando a maglia, raccontavano…. Che c’era una volta un asino e c’erano una volta donna Elvira e comare Meris, sì c’era anche comare Meris e c’erano e ci sono proprio tutti i protagonisti di quest’angolo di Salento-Itaca che ormai, grazie alla scrittura di Rocco, ci appartiene; e c’è il miele dolcissimo delle api operaie di Vitale, li, a Torre Lupo, dove se soffia maestrale, fuggono via anche le ombre.
Ecco, delicatezza e dolcezza di storie che ritornano e oggi, ad ascoltarle, si è posata, tranquilla una rondine; un volo mentre in chiesa si celebra il saluto a chi non c’è più su questa terra, una sosta per non disturbare e poi via di nuovo.
Le metamorfosi esistono o no? Io credo che esistano; in questo momento, grazie a una rondine che si posa, ne sono ancora più convinta; le rondini ritornano, per raccontare ancora, d’una gerla che va sulle spalle di chi ha ancora tanta voglia di osservare, fissare immagini, specchiarsi nella umanità vera e nella natura che ci appartiene e poi raccontare, scriverne e comunicare.
E’ tornata anche una lucciola; è la speranza, sottolinea Rocco; certo che è la speranza; “lumicino tra l’azzurro e il verde… sommessamente luminoso nello scuro notturno, ha il significato di un ideale faro di speranza” per Rocco che lo regala a tutti.
Esistono le metafore? Ma certo che esistono. Basta crederci soltanto un po’ e affidarsi al miracolo della scrittura e della lettura.
E’ stato subito allarme generale tra la popolazione più sensibile nel rilevare la rampa per i diversamente abili realizzata in questi giorni a ridosso del prospetto laterale della chiesa di San Francesco da Paola, nota come “Paolotti”, su Via Roma, nelle vicinanze del Castello e Municipio.
Il progetto, in cantiere da diversi anni, ha trovato i nulla osta necessari da poco tempo, tanto da consentire l’avvio dei lavori per la realizzazione della rampa, al fine di eliminare le cosiddette barriere architettoniche, e il rifacimento del piazzale antistante.
Nessun commento o parere per la sistemazione di quest’ultimo, che non mi compete e che saranno i cittadini a giudicare se in sintonia con il luogo e la storia del posto. Su questo comunque si affacciano il convento secentesco dei frati Paolotti, una attività commerciale (su preesistenze dell’antico convento) e la facciata della chiesa con la sua scala (degli inizi del secolo scorso).
Fatto salvo ogni rispetto e sempre auspicata la giusta attenzione per chi trova difficoltà motorie per accedere al luogo di culto, tuttavia è inevitabile porsi il dubbio se in questi casi occorre venire incontro alle necessità del diversamente abile o privilegiare la tutela e la conservazione dell’immobile, in tal caso deturpato nel suo aspetto esteriore a causa della costruzione che si sta effettuando a ridosso della chiesa. In parole povere, si deve tutelare il monumento o la persona?
Si è ben consapevoli che gli edifici di culto (chiese, moschee, sinagoghe o qualsiasi altro ambiente destinato al culto) devono essere visitabili o perlomeno prevedere una zona riservata facilmente accessibile per assistere alle funzioni religiose, come previsto dall’art. 3 del D.M. LL.PP. 236/1989). La normativa vigente prescrive, infatti, per i luoghi di culto il requisito della visitabilità. Ma è anche vero che l’art.19, comma 3, del D.P.R.503/96 recita: “la deroga è consentita nel caso in cui le opere di adeguamento costituiscono pregiudizio per valori storici ed estetici del bene tutelato; in tal caso il soddisfacimento del requisito di accessibilità è realizzato attraverso opere provvisionali ovvero, in subordine, con attrezzature d’ausilio e apparecchiature mobili non stabilmente ancorate alle strutture edilizie. La mancata applicazione delle presenti norme deve essere motivata con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio”.
Non voglio addentrarmi nello specifico, perché vi sono gli specialisti della materia che sanno bene cosa può essere fatto e cosa va evitato, vista anche l’abbondante letteratura in merito.
Nel caso specifico, fermo restando che non so quanti diversamente abili abbiano effettiva necessità di accedere proprio in quella chiesa, avrei immaginato una soluzione diversa. Mi viene in mente un’apparecchiatura mobile di limitate misure sul lato opposto della facciata o, più semplicemente, un accesso riservato ai soli impossibilitati dal retro della chiesa, in corrispondenza della sagrestia, da dove accede il parroco o altri parrocchiani.
La doppia rampa, posta sul già ridotto marciapiede (le foto sono eloquenti) mi pare di ostacolo ai pedoni. E dunque potrebbe nascerne un altro problema, che saranno i tecnici ad affrontare.
Lungi dalla polemica, anche perché conosco bene l’amico direttore dei lavori e il parroco, questa mia è solo per augurare una revisione immediata del progetto (mi riferisco alla sola rampa), studiando soluzioni alternative che comunque impediscano quelle non stabili, addirittura ancorate all’edificio settecentesco.
L’appello perciò al parroco e al consiglio pastorale, che immagino hanno voluto e predisposto questa soluzione, affinchè pensino a situazioni reversibili o ad una piattaforma elevatrice o ad altre soluzioni che i tecnici ben conoscono e che non dovrò certamente qui indicare. Purchè non siano contraria alla conservazione, al decoro e alla visibilità della Chiesa, quindi con pari dignità di rispetto per l’immobile e per tutti i possibili fruitori della chiesa.
“Dell’origine, sito ed antichità della Città di Nardò”, del 1735
Ristampa anastatica arricchita da preziosi contributi
Le origini di Nardò secondo Tafuri
In Cattedrale il 10 dicembre la presentazione del volume
con interventi di Alessandro Laporta e Sandro Barbagallo
Si terrà nella Cattedrale di Nardò, in Piazza Pio XI, sabato 10 dicembre 2016, alle ore 19,30, la presentazione della ristampa anastatica del libro “Dell’origine, sito ed antichità della Città di Nardò”, di Giovan Bernardino Tafuri, a cura di Massimo Perrone.
All’incontro porteranno il loro saluto il Vescovo della Diocesi di Nardò-Gallipoli Mons. Fernando Filograna e il Sindaco di Nardò Giuseppe Mellone. Oltre a Perrone, saranno presenti Alessandro Laporta, direttore emerito della Biblioteca Provinciale “N. Bernardini” di Lecce, Sandro Barbagallo, curatore delle collezioni storiche dei Musei Vaticani e direttore del Museo del Tesoro della Basilica di San Giovanni in Laterano e Mons. Giuliano Santantonio, parroco della Cattedrale di Nardò e direttore dell’Ufficio diocesano per i Beni culturali e l’Arte sacra.
RISTAMPA ANASTATICA DEL VOLUMETTO DEL 1735
La ristampa è una fedele riproduzione dell’opera del Tafuri apparsa nel raro libretto “Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici”, tomo XI, pubblicato a Venezia nel 1735, fonte preziosa e insostituibile per una ricostruzione della società e dell’urbanistica neretina prima del terribile terremoto del 20 febbraio 1743. Giovan Bernardino Tafuri, dunque, nonostante sul valore delle sue opere la discussione sia vivace tra gli studiosi, ha dato un contributo unico con i suoi numerosi scritti che meritano di essere divulgati anche a distanza di secoli.
UN’EDIZIONE ARRICCHITA DA CONTRIBUTI PREZIOSI
Massimo Perrone, dottore commercialista, appassionato di cultura locale e della storia della Chiesa e delle sue istituzioni, ha attinto alla collezione personale per contribuire all’appassionante indagine storica e letteraria sulle origini di Nardò, arricchendo la ristampa dell’antico volume con i contributi di Laporta e Barbagallo, due autorevoli studiosi, le cui analisi aiutano a comprendere il lavoro del Tafuri, fornendo interessanti spunti per approfondimenti e nuove indagini.
La pubblicazione propone inoltre in copertina un acquerello inedito, riproduzione a colori di un’antica veduta di Nardò, realizzato dal fiorentino Giovanni Ospitali, recentemente scomparso. è, questa, una delle tre tavole fuori testo allegate all’opera originale, insieme alla moneta che raffigura San Michele Arcangelo e alla pianta della città. Il volume, fuori commercio, è stato stampato dalla Tipografia Biesse di Nardò.
SANDRO BARBAGALLO, curatore delle collezioni storiche dei Musei Vaticani e direttore del Museo del Tesoro della Basilica di San Giovanni in Laterano. Storico dell’arte, ha collaborato ad alcune grandi mostre organizzate dal Complesso del Vittoriano di Roma (Manet, Bonnard, Matisse) e curato monografie di artisti contemporanei (Baj, Tilson, Weller). Dal 2008 scrive di critica d’arte su “L’Osservatore Romano” e, come corrispondente dal Vaticano, su “Il Giornale dell’Arte”. Dal 2012 lavora per la Direzione dei Musei Vaticani dove ha riqualificato il Padiglione delle Carrozze, ha curato l’allestimento della Galleria dei Ritratti dei Pontefici e dell’appartamento privato del Santo Padre nel Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, che ha visto, tra l’altro, lo storico incontro di Papa Francesco con il Papa Emerito Benedetto XVI, recentemente aperto al pubblico. È autore di diversi libri editi da Libreria Editrice Vaticana, Utet, Ed. Musei Vaticani, Ed. Focus storia.
ALESSANDRO LAPORTA, direttore emerito della Biblioteca Provinciale “N. Bernardini” di Lecce. Già docente di “Storia della stampa e dell’editoria” presso la facoltà di Beni Culturali dell’Università del Salento, vice presidente della Società Storica di Terra d’Otranto, socio della Società di Storia Patria per la Puglia e del Centro Studi Salentini. Ha redatto le prefazioni a oltre 50 libri di autori salentini e attualmente sta curando la ristampa dei “Successi dell’armata turchesca nella città d’Otranto nel 1480”, che non è solo il primo libro in assoluto pubblicato nella provincia di Lecce, a Copertino nel 1583, ma è stato uno dei testi base che ha portato alla santificazione dei Martiri d’Otranto.
MASSIMO PERRONE, dottore commercialista, ha conseguito il diploma di Archivistica nella Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica presso l’Archivio Segreto Vaticano e ha pubblicato diversi contributi in miscellanee e riviste specializzate. È Grand’Ufficiale dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme e ricopre dal 2012 la carica di Preside della Sezione Salento Lecce – Brindisi.
6 dicembre 2016 – Inizio ore 17.30. Accoglienza ore 17.15.
Chiesa della Santissima Trinità o Santa Lucia (Via Santa Lucia, Brindisi)
XX Colloquio Laurenziano
San Lorenzo da Brindisi e la battaglia di Albareale
Presentazione del volume di A. Di Napoli,La storia si fa preghiera. Litania pro serenissimo rege Maximiliano 2. contra Turcas (1566), Bari:Aurora Serafica, 2016
È impossibile alla parola umana ridire cose che il cuore può appena intuire.
Santa Teresa di Lisieux
L’iconografia laurenziana, come ebbe a rilevare Alberto Del Sordo in un suo scritto del 1959, rappresenta molto spesso Lorenzo da Brindisi sul campo di battaglia mentre incoraggia i Cristiani a resistere e a combattere contro l’esercito ottomano, che aveva invaso le terre d’Ungheria. Gli agiografi furono particolarmente colpiti da quel singolare episodio, collocato quasi al centro della vita di Lorenzo e conseguentemente l’eroico cappuccino è rappresento quasi come un generale alla testa del suo esercito che, « Christiani nominis hostes, erecta Cruce, deterret ». La vittoria, della quale Lorenzo da Brindisi era stato protagonista arrise alle forze cristiane e ad Albareale, l’odierna Székesfehérvár, città fortificata nella bassa Ungheria ove s’erano incoronati i sovrani magiari, nell’ottobre del 1601, si ripeteva, dopo 30 anni, il miracolo del 1571 a Lepanto. Quella figura di frate combattente rappresenta, però, soltanto un aspetto della personalità di Lorenzo da Brindisi, che insigni studiosi hanno cercato di mettere in luce.
Benedetto Croce ne tracciò un vivido profilo in Vitedi servi di Dio di beati e di santi napoletani. “Il venerabile, e poi beato e poi santo, Lorenzo da Brindisi (1559-1619), che fu generale dei cappuccini, [… ] assai avrebbe da raccontare delle faccende politiche che maneggiò in varie parti d’Europa [… ]. Papa Clemente VIII lo mandò, tra l’altro, nel 1596, a richiesta dell’imperatore Rodolfo II, con tredici cappuccini a impiantare il loro ordine in Boemia, in Moravia, in Austria, in Ungheria, e a combattere gli eretici e convertirli. Le minacce, i maltrattamenti, le aggressioni, le insidie, che patirono dalla parte avversa, non li trattennero dall’aprire case cappuccine, nonostante che si riuscisse a far sì che venisse meno o vacillasse la protezione a loro promessa dall’imperatore, il quale era infermo di nervi, e perciò impressionabile e mutevole: sicché fu più di una volta sul punto di farli scacciare dai suoi stati. Un astrologo, che era alla corte dell’imperatore, che di astrologia si dilettava, vibrò, al dir del biografo, un grosso colpo, perché, dopo averlo persuaso del pericolo rappresentato da quei frati, scelti dal papa tra i più scaltri per usarli da spioni, dopo avergli rammentato che un frate, Jacques Clément, aveva pur testé assassinato Enrico III di Francia, gli promise di dargli presto una prova della minaccia che gli stava sopra. Fece in effetto dipingere un quadretto con l’ immagine dell’imperatore in mezzo a due frati armati di pugnali, e, andato a visitarlo e invitatolo a guardar fiso in uno specchio senza distornar la testa, levò a poco a poco il quadretto dietro le spalle di lui e fece riflettere la scena nello specchio, e l’imperatore vide e sbigottì e mandò subito all’arcivescovo di Praga l’ordine dello scacciamento dei cappuccini, che l’arcivescovo non eseguì preferendo di andar esso via da Praga. Intanto, – narra sempre il biografo, – l’astrologo o astronomo, lieto dell’effetto ottenuto, tornò alla sua casa, che era poco lungi dal convento dei cappuccini, e mangiò di buon appetito; senonchè, subito dopo il pasto, al pari di Giuda, crepuit medius et diffusa sunt omnia viscera eius: terribile castigo del cielo, che salvò i frati e produsse la conversione di un nipote dell’astrologo maledetto. Il quale, nativo, com’e detto, di Danimarca, chiamato presso Rodolfo II e in fama di peritissimo, s’identifica facilmente e sicuramente col gran Tycho Brahe, che del resto altre biografie nominano per espresso. Ma c’è un intoppo alla fanciullesca storiella architettata e propalata: che il fatto sarebbe accaduto ne1 1596 e Tycho Brahe si recò a Praga nel 1599 e colà mori nel 1601, alcuni anni dopo che fra Lorenzo era partito per altri lidi. Poi il nostro frate ricevé invito dall’imperatore a seguire l’esercito, comandato dall’arciduca Mattia, che andava in Ungheria alla guerra contro Maometto III, e ad assistere i soldati cattolici, al che il papa dié il consenso. Erano (racconta il biografo) non più di ventimila gl’imperiali e ottantamila i Turchi; ma, attaccata una grande battaglia, ecco fra Lorenzo che monta a cavallo disarmato, e, precedendo a tutti, vibrava colla sua croce il segno di essa contro le palle delle artiglierie e dei moschetti spiccate dai Turchi a danno dei cristiani, e fu prodigio evidente che que’ globi di fuoco o tornarono indietro o morti a mezz’aria non ne penetrò un solo a offender gl’imperiali, li quali nel medesimo tempo facevano con l’armi proprie grande strage dei lor nemici, a segno che di questi ne caddero uccisi sul campo in diverse scaramucce e battaglie da trentamila e dei Cesarei solamente trenta soldati ordinarii, e forse tutti eretici, li quali ricusarono d’invocare il santissimo nome di Gesia conforme al consiglio suggerito ad ognuno dall’uomo di Dio. Questa prodigiosa vittoria, dovuta a fra Lorenzo, sarebbe accaduta ad Albareale, che i Turchi sgombrarono abbandonando tutto il loro bagaglio. Fra Lorenzo non fu mai lasciato da gran principi quietare lungo . tempo nella solitudine dei suoi monasteri; ma, inviato più di una volta da Roma nella Germania, di qua in Ispagna, dalla Spagna fu fatto ripassare in Germania, nella Baviera e in più luoghi d’Italia per collegare o tenere uniti quei potentati a protezione e riparo del mondo cattolico dalla pestilenza dell’eresia, con quanti sudori, strapazzi, affanni della sua vita, Iddio lo sa, ed ognun lo può dedurre dall’aver egli contratto quella gravezza di gotta che lo teneva spesso immobile ,per lungo tempo a letto. Ma molti affari anche trattò, oltre quelli in cui interessi politici e interessi religiosi si mescolavano, e, per esempio, fu l’intermediario della pace tra il duca di Savoia e il governatore di Milano don Pietro di Toledo e persuase il duca di Mantova a restituire un feudo, che ingiustamente deteneva e che spettava a un gentiluomo dell’imperatore Rodolfo. E un negozio politico della città di Napoli fu l’ultimo che trattò e nel corso di esso morì, perché, essendo venuto a Napoli nel 1618 per recarsi a Brindisi, fu fermato dal contrasto che si era acceso tra i nobili, il popolo e il viceré duca di Ossuna e dai nobili inviato a rappresentare la città presso il re Filippo III, con molto dispetto del viceré che avrebbe posto impedimento a quell’ambasceria se il frate non fosse stato da alcuni nobili secretamente trafugato da Napoli e condotto a Genova, dove s’imbarcò per la Spagna. Ma, in Spagna non trovò il re, che si era recato nel Portogallo, ed egli gli tenne dietro a Lisbona, e da lui fu ascoltato in cinque udienze, finché, aggravatasi la sua infermità, mori in quella città nel 1619, a sessant’anni.
Indirizzi di saluto
Alfredo Marchello
Ministro Provinciale Frati Minori Cappuccini di Puglia
Interventi
Antonio Mario Caputo
Centro Studi per la storia dell’Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni
Ruggiero Doronzo ofm cap
Direttore della Biblioteca dell’Istituto Teologico Santa Fara, Bari
Vito Petracca
Latinista. San Cassiano di Lecce
Conclusioni
S.E. Mons.Domenico Caliandro,
Arcivescovo di Brindisi – Ostuni
Coordina e introduce i lavori
Giacomo Carito
Responsabile Cattedra Laurenziana, Brindisi
Sarà presente l’autore del volume, edito in occasione del 90. anniversario della titolazione della Provincia dei cappuccini di Puglia a s. Lorenzo da Brindisi (1926-2016), Alfredo Di Napoliofm cap. In apertura dei lavori Giancarlo Cafiero (Società di Storia Patria per la Puglia) darà lettura dei versi composti da Pasquale Camassa in onore di san Lorenzo da Brindisi.
Organizzazione:
Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni.Cattedra Laurenziana
Società di Storia Patria per la Puglia. Sezione di Brindisi
Aderisce all’iniziativa l’associazione “San Lorenzo da Brindisi”.
Con i primi due incontri di “Per adesso resto nel Salento” presso il Castello di Corigliano D’Otranto e Sante Le Muse – agriturismo a Morciano, La Scatola di Latta continua a crescere e a navigare tra storie di imprese, associazioni resilienti, ascoltando con piacere le numerose storie di ritorni ed esperienze dirette, conoscendo le realtà che animano il nostro territorio. E’ sempre più convinta che questa sia la strada giusta e vi invita ad un nuovo incontro che si terrà domenica 11 dicembre all’interno di Ipogeo Bacile – Teatro Sotterraneo a Spongano.
Già dichiarato luogo di interesse storico-artistico dalla Sovrintendenza ai Beni Artistici e Culturali di Puglia, l’Ipogeo di Palazzo Bacile ospita eventi culturali di diverse forme ed espressioni di creatività che in questo luogo ricco di storia trovano relazione e creano dialogo: esposizioni d’arte, rappresentazioni musicali e teatrali, rassegne letterarie. Il frantoio come custode dell’anima del nostro Paese, torchio di molitura, luogo di sperimentazione e di raccolta delle idee racchiuse nella nostra terra.
Camminando nel frantoio ricco di storia, tra le ombre e le volte dolcemente illuminate, ci è sembrato di attraversare la pancia di una nave. E’ forse da qui che deriva la parola Nachìro, dal greco “padrone, conduttore della nave” nonché colui che dirigeva tutti i lavori del frantoio. E da qui “Nachìria – idee ipogee”, una nave di idee, perché tutti noi siamo nachìri: chi ha deciso di restare, di prendere in mano il proprio timone, cambiare rotta e tornare in Salento dedicando tutto il proprio tempo. Proprio come Bacile, che con “intraprendenza, impegno e intuizione” trasformò per primo il suo frantoio, lo rese funzionale e ne ricavò un olio buono, un’innovazione all’epoca. Sulle sue orme oggi Fabio Bacile immagina lo stesso frantoio come “contenitore culturale” e gli da forma passo dopo passo, una sfida per nuovi nachìri. Domenica 11 dicembre, dalle ore 16.30 fino alle 21 l’Ipogeo si trasformerà in un “mercatino delle idee“ che accoglierà agricoltori, artigiani, artisti, associazioni e imprese. Ogni partecipante al mercatino avrà modo di esporre e presentare le proprie opere materiali ed immateriali in modo creativo.
Ingresso libero per chi porterà con sé entusiasmo, libri, strumenti musicali e idee da condividere.
Sarà presentata la mostra fotografica sulle “Grotte del Salento” a cura di Giorgio Nuzzo. L’evento rientra nella programmazione @Fortezza in Opera a cura di Salvatore Della Villa.
Per info contattateci via facebook o via mail a: scatoladilatta2014@gmail.com
A tutti gli agricoltori, artigiani, artisti, associazioni e imprese:
PER ESPORRE E PRESENTARE LE PROPRIE OPERE O PROGETTI scriveteci o contattateci entro sabato 3 dicembre a scatoladilatta2014@gmail.com .
I paesaggi dell’olivo pugliese e le minacce dei tempi moderni
Mostra – fotografica
Campi Salentina 25-28 novembre 2016 Istituto Calasanzio
La diffusione dell’infezione di Xylella fastidiosa in Salento sta portando nel volgere di pochi anni, alla trasformazione del paesaggio, attraverso la perdita di una coltura caratterizzante per la storia del Salento, della Puglia e dell’intero Mediterraneo. Le minacce del paesaggio dell’olivo non provengono solo dalla diffusione del batterio Xylella fastidiosa, ma vi sono altre minacce non di minore importanza: la costruzione d’infrastrutture spesso troppo invasive, il consumo indiscriminato di suolo agricolo per nuove costruzioni, una tecnica agricola non sempre rispettosa del paesaggio e dell’ambiente.
Collettiva fotografica di: Fernando Bevilacqua, Carlo Bevilacqua, Pino Cavalera, Mauro Minutello, Giovanni Resta, Rosanna Merola, Antonio Ottavio Lezzi, Francesco Tarantino.
Incontro di presentazione della mostra fotografica
Sabato 26 novembre 2016, ore 11.30-13,30
Sala Consiliare Comune di Campi Salentina
Saluti Egidio Zacheo Sindaco di Campi Salentina
Cosimo Durante Presidente Fondazione città del Libro
Interventi
La tutela e valorizzazione dei paesaggi dell’olivo Pugliese
Anna Maria Curcuruto -Regione Puglia Assessore alla Pianificazione territoriale-
– Urbanistica, Assetto del Territorio, Paesaggio, Politiche abitative
Gianni Ippoliti in video messaggio
Paesaggio dell’olivo ed agricoltura
Vittorio Marzi –Accademia dei Gerorgofili Firenze –Presidente Sezione Sud- Est
Giovanni MercarneOlivicoltore Agronomo
Tutela del paesaggio ed infrastrutture
Lorenzo Ciccarese, in video messaggio, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra).
Il vignettista Paolo Piccione, per la 8^ volta ospite al Salon International du Dessin de Presse
La Francia continua ad essere patria d’adozione artistica del vignettista salentino Paolo Piccione, il quale per la 8^ volta è stato tra i protagonisti del 35° Salon International de la Caricature du Dessin de Presse et d’Humour di Saint Just Le Martel. L’evento, consolidato rendez-vous planetario delle più appuntite matite satiriche provenienti da ogni parte del mondo, si è tenuto durante il mese di ottobre. La kermesse – impreziosita dalla presenza di circa 150 disegnatori, da convegni ed eventi tematici – quest’anno ha registrato un numero di visitatori molto superiore alle precedenti edizioni, confermando la sensibilità e l’affetto dei francesi verso questa forma d’arte e di comunicazione. Anche quest’anno, dopo la strage di Charlie Hebdo, trattandosi di un evento a rischio terroristico, si è notata la presenza di un nutrito contingente di Gendarmerie.
Quest’anno, Piccione, ha esposto quattro tavole: tre satiriche ed una illustrazione. Le prime tre hanno toccato i seguenti punti: le Paralimpiadi di Rio 2016, i 130 anni della Statua della Libertà e la Brexit. L’illustrazione, invece (ritraente il Palazzo dei Commendatori di Maruggio con i cavalieri di Malta e i Templari), è una tavola estratta da L’Acino e l’Oliva, favola illustrata delle Terre del Primitivo , progetto a cura di Paolo Piccione e Sisto Sammarco, finanziato dal GAL Terre del Primitivo.
Tra gli altri artisti italiani presenti alla manifestazione vi erano Claudio Puglia (il quale, realizzando caricature tramite l’uso delle lettere del nome e cognome, rappresenta la massima espressione nazionale di “callicaturista”), Marilena Nardi (vignettista de Il Fatto Quotidiano) e Marzio Mariani (freelance). Un altro ospite italiano è stato il dott. Paolo Moretti, collezionista e presidente dell’Associazione Culturale Fondo Paolo Moretti per la Satira Politica.
Piccione, insieme agli altri vignettisti, si è esibito al cospetto del pubblico, realizzando vignette e caricature in estemporanea.
Il “Salon du Patrimoine Culturel” di Parigi, importante evento in Europa, è senza dubbio, l’appuntamento annuale al quale non possono mancare i maggiori partner del settore quali professionisti coinvolti nel ripristino e conservazione del patrimonio tangibile e intangibile.
Ebanisti, orefici, restauratori di beni mobili, in vetro e dipinti, esperti artigiani del metallo e della pietra, gestori del patrimonio architettonico, associazioni dedite alla conservazione, autorità locali … circa 340 espositori tra francesi e stranieri si incontreranno nell’atmosfera accogliente del Carrousel du Louvre, in rue de Rivoli, prestigioso centro di relazioni nel cuore di Parigi.
Ogni anno il Salone pone l’attenzione su un tema specifico e l’edizione del 2016 sarà incentrata su “Progetti significativi dedicati al patrimonio culturale”.
Rappresenterà un’ottima occasione per svelare i luoghi d’arte e i lavori portati a termine dagli espositori presenti. La loro esperienza contribuisce alla salvaguardia del patrimonio culturale attraverso la rinascita di luoghi straordinari ed allo stesso tempo dei beni mobili ivi contenuti.
Quest’anno Studio AERREKAPPA S.R.L., Società di Ingegneria di Lecce, presenterà i propri lavori all’interno della collettiva di Assorestauro: oltre ai progetti realizzati e in corso di realizzazione in Italia e all’estero (Turchia e Cuba), avrà un ampio spazio il progetto dell’impianto di illuminazione a gestione domotica della Cattedrale Maria SS.ma Assunta di Nardò (Lecce), un lavoro delicato e complesso che ha richiesto un grande impegno ideativo e una grande attenzione nella fase esecutiva. L’obiettivo raggiunto di trasformare la Cattedrale in uno smart building è stato reso possibile dalla volontà congiunta dei progettisti, l’Arch. Cristina Caiulo e l’Ing. Stefano Pallara, e della Committenza, nella persona del Parroco Mons. Giuliano Santantonio, di sfruttare al meglio quanto di più innovativo ci offre oggi la tecnologia, nel pieno rispetto della sacralità e dell’incommensurabile valore artistico e architettonico dell’edificio.
Per scoprirne di più e iscriversi alla Newsletter del Salone, collegarsi al sito: www.patrimoineculturel.com, per scaricare il press kit.
Maggiori informazioni:
Carrousel du Louvre
99 rue de Rivoli
Paris – 1er arrondissement
www.patrimoineculturel.com
3 – 6 novembre 2016
10.00 – 19.00 (Domenica 10.00 – 18.00)
Biglietto di ingresso: 11 €
gratuito per bambini sotto i 12 anni
ridotto: 5 € (studenti, gruppi con minimo 10 persone).
General introduction
The International Heritage Show, a Europe leading event, is no doubt, the annual appointment not to be missed by the major players of the sector, such as professionals involved in restoring and preserving built or not built, tangible or intangible heritage.
Cabinetmakers, goldsmiths, furniture, stained-glass or painting restorers, skilled metalworkers, stonemasons, built heritage suppliers, heritage preservation associations, local authorities … about 340 French and foreign exhibitors will meet in the cozy atmosphere of the Carrousel du Louvre, a prestigious venue located in the heart of Paris.
During 4 days, this event will be the major and unique place for exchange and business appointments of the sector. There will be many opportunities to make new contacts with a large number of trendsetters, seeking to establish new business relationships. Among them, there will be sector professionals, property owners but also connoisseurs and enthusiast visitors.
Every year, the show focuses on a specific topic and the 2016 edition will be focusing on the remarkable cultural heritage projects.
This will represent a great opportunity to unveil the sites and works carried out by the exhibitors. Their expertise contributes to the safeguarding of cultural heritage, through the restoration of exceptional sites, as well as of movable heritage.
Dell’acqua che scava, dell’acqua che spezza, dell’acqua che sazia…della lotta e del simbolo nella poesia di Daniela Liviello
di Stefano Donno
Ho avuto modo di conoscere e apprezzare la poesia di Daniela Liviello già in un volume edito da Manni e dal titolo “Il rovescio delle foglie”. Classe 1955, nasce a Taviano ma vive per molti anni in Lombardia, sentendo costantemente nel trascorrere del Tempo il richiamo della sua terra, il Salento, terra madre ancestrale, magica, archetipica, oscena ed obliqua, che con le sue seduzioni lascia nella poetessa un non so che di amaro, relegando la sua nostalgia in una dimensione narcotica di desiderio e abbandono, per un ritorno forse impossibile, ma decisamente sentito per ogni suo centimetro di pelle. La poesia della Liviello ti rimane impressa e non puoi dimenticarla, non ne puoi fare a meno, se sai di cosa stai parlando, se conosci tutto quel retroterra simbolico, poetico, di cui si è nutrita e che fa parte di una memoria collettiva lirica che appartiene non a un sud del sud del mondo generico, no…tutt’altro! Esso è l’esplodere ritmico del veleno della ragna tarantolante e del mare di Idrusa, è l’avvelenata di Antonio Verri che s’aggrappa tenace al sogno del “fate fogli di poesia poeti…”, della rabbia demonicamente barocca di una Claudia Ruggeri, di un odio benevolo di un immenso Salvatore Toma verso la creaturalità bestiale e blasfema che si annida nelle notti di luna piena sulle scogliere di Badisco, sulle menzogne dei vicoli e delle chiese di Lecce. Questa poetessa i suoi versi li scrive col sangue, questa poetessa sa gestire con garbo le bizze della nostalgia vigliacca che colpisce alla schiena, gioca con furia dolente al mortale piacere della Poesia, di quella che si fa a muso duro, cha sa quanto sia splendido un poeta che non balbetti e che sicuro s’aggiusta le vesti sul palco della vita, e comincia a dirla tutta, scegliendo le parole, misurando le pause, perché nulla sfugga di ciò che bisogna dire, di quanto occorra fornire sul piatto della bilancia, prima che il Destino chieda il conto, senza porsi il problema se salato o meno. Dunque Daniela Liviello a oggi sembrava aver scelto quella purezza della scrittura incarnantesi nello spazio invisibile dell’oblio e dell’inconscio, quasi che fosse ancora aperta la “battuta di caccia” verso un percorso identitario, non perché lacunosamente mancante, ma perché per stessa consistenza dell’oblio impossibile a definirsi. Potrebbe forse trattarsi di una strizzata d’occhi a Freud, ma gli psicologismi della metrica, è bene lasciarli ai salotti. Questo offriva un tempo la poetessa. Ora in un distillato per versi Daniela Liviello presenta al lettore una preziosa raccolta dal titolo “Litanie dell’acqua”. E non perde tempo a gridare con fierezza le sue radici, non perché si senta così lontana dalla sua terra
da sembrare addirittura straniera in patria, anzi è una questione di sangue che ribolle e schiuma: “Sono nata qui//sulla pietra in fondo alla via//sul ramo più alto di gelso//maturo//o sulla foglia d’ulivo in mezzo ad un campo//e nel vicolo stretto//che porta alla croce//all’incrocio fuori dal centro//in mezzo alla piazza più grande//nel cortile tra gerani//canzoni//sui gradini della chiesa più vecchia//sul campanile di quella abbattuta//sul fiore di cappero//appeso al muretto//sul filo pesante di panni che asciugano//”. Detta così sembrerebbe un affresco degno di una cartolina, di una foto ricordo. Non è un caso che precedentemente si sia parlato di una poesia che guarda alla tradizione antropica del Salento in maniera precisa, che respira e rende la costellazione di senso dei contesti a queste latitudini in maniera magistrale, perché lo fa con la stessa dignità di un canto di lotta, di emancipazione, di oltrepassamento dal metallo vile all’oro. Insomma un salto di paradigma. Già perché sui gradini della chiesa più vecchia nel cortile tra i gerani, c’é il lavoro etno-antropologico di Ernesto de Martino, e il verso oblungo di Vittorio Bodini. Il Bodini che canta il suo sud, quello della Liviello, il nostro, estremo lembo di terra dove la luce o acceca o succhia vitalità. Ma questa poetessa si lascia alle spalle Bodini, e tutti gli altri, si lascia alle spalle persino Rina Durante e Flora Russo, quasi a voler sottolineare che siano gli altri a dire se ne vale la pena o no resistere alla calura di queste latitudini. Perché nel torpore dell’immemorialità, nel caldo della dimenticanza, forse una via di fuga, una scappatoia, per quanto angusta e difficile possa essere, sta nel fatto che prima o poi il mare lo si incontra, o meglio lo si affronta. L’esito dipende da quanta voglia di vivere scorra in corpo, perché la posta in gioco è alta, ma il premio enorme: “La fortuna di essere nati vicino al mare//è pietra che affiora//nel terreno spietrato//. Ostinazione://sentirmi congiunta al tutto.// Come la macchia qui intorno//inerpicata nella lieve salita//mediterranea//poi discesa a toccare l’acqua//nel motore spento della mia generazione//”. E ancora:”Qui ci sono voci d’acqua//e scivolano piano://sarà il fiato della sera//o la nera linfa del giorno//che si spegne//nell’ora che tentenna dubbia//e incerta.// Se la notte intanto incardina//origlio ombre del dormiveglia//accudita da nebbiose forme//dell’andare incontro a qualcuno//che mi chiama.// Voci d’acqua scivolano piano//a tratti// un canto scorre.// […]”. La poesia di Daniela Liviello non si nutre di finezze o sfarzi nella scelta del ritmo, si basa più che altro su un’attenta calibratura del respiro, che pare tanto naturale da accordarsi repentino al battere d’un cuore indomito, mai pago di desiderio e passione. Non ci troviamo dinanzi all’elencazione pedissequa di stati d’animo che s’ingrigiscono col passare dei giorni, dei mesi, degli anni, e che ammazzano, soffocano, uccidono la gioia, uccidono la voglia di creare e ri-crearsi. La poesia di Daniela Liviello non si nutre di bagliori, lei trasforma i bagliori in temporali, la
poesia di Daniela Liviello è luminosità incandescente, fatale, sacra difficile da dimenticare, difficile da perdonare!
Daniela Liviello è nata a Taviano, nel Salento leccese. Suoi interventi e testi di narrativa sono apparsi su riviste e lavori collettanei; sue poesie sono state pubblicate nell’antologia alchimie poetiche tra memoria e sogno ( Pagine )
e dalla rivista internazionale <poeti e poesia>
Per Piero Manni edizioni ha pubblicato le raccolte E madonne sorridenti e
Il rovescio delle foglie. E’ presente nelle antologie poetiche Parole Sante 2015-2016 per Kurumuny edizioni e nell’antologia A sud del sud dei santi per LietoColle edizioni, che raccoglie la poesia pugliese più rappresentativa degli ultimi cento anni. Le sue prime raccolte sono state recensite su Poesia, rivista di Nicola Crocetti, dal critico Fabio Simonelli e da L’immaginazione, rivista di letteratura diretta da Anna Grazia Doria.
Il suo ultimo lavoro è Litanie dell’acqua per LietoColle edizioni.
Il fuoco è spento, il vento si è quietato, l’alba si stiracchia, si stropiccia gli occhi.
Saliamo sulla pietra più alta per guardare il nostro campo, cosa resta dopo l’ennesimo incendio doloso.
E’ tanto amato questo campo, questa terra che rinasce scostando le tende grigie di fumo. Riprende a scorrere la linfa, riprende l’affanno delle formiche, le mani tornano a ricomporre un’armonia di pietra.
Anche quest’anno 2016 i versi si raccolgono in antologia. “Versi per una metamorfosi”. Kurumuny edizioni.
Il ricavato della distribuzione dell’ antologia 2015 è diventato ulivo: nell’orto sono state messe a dimora ottanta piante della specie ogliarola.
Ventidue poeti di ogni regione hanno composto ispirandosi ad un verso tratto dal “Canzoniere della morte” di Salvatore Toma, il poeta di Maglie: A me Dio piace indovinarlo//in una pietra qualunque.
E a noi piace pensare che Salvatore Toma abbia sorriso da lassù ascoltando le voci dei poeti che a lui si sono richiamati.
È di nuovo tutto pronto, dopo il rinvio a causa del maltempo, per una serata indimenticabile, con ospiti d’eccezione e con Renzi che, informato dell’evento, ha annunciato al Politeama di Lecce lo slogan del Premio: “Non Lecce Firenze del Sud, ma Firenze Lecce del Nord”. Ciò a voler significare forse che ci potrebbe essere un accordo tra la città di Dante Alighieri e la capitale di Terra d’Otranto su quel volgare salentino che, insieme col siciliano e col calabrese, diede origine alla lingua italiana presso la corte di Federico II, prima che il Divin Poeta venisse al mondo.
Il “Premio Scòla Federiciana” 2016, che verrà consegnato dal Presidente del Consiglio della Città di Lecce dr. Alfredo Pagliaro al dr. prof. Salvatore Cosentino, Sostituto Procuratore della Repubblica di Locri, “per aver promosso, nelle sue eccellenti conferenze-spettacolo, la Lingua degli Italiani”, tratterà anche un argomento attualissimo: la modifica dell’art. 6 della Costituzione, che non sembra tutelare a sufficienza l’idioma nazionale. Se ne occuperà il dr. Luigi Mazzei, membro del Comitato Scientifico.
Si inizierà con l’originale performance teatrale “L’Inferno di Dante ed il Mosaico di Otranto tra Federico II e Bianca Lancia”, ideata ed interpretata da Pascal Pezzuto e Lara Carrozzo per la regia di Marianna Murolo. Già presentata con successo di critica e di pubblico il 17 agosto scorso nel borgo medievale di Roca Nuova (Melendugno-Le), spettacolarizza i contenuti del Premio alla sua quarta edizione. La manifestazione, gestita da Khàrisma Cineproduzioni, patrocinata e sostenuta dalla Regione Puglia e dal Comune di Lecce, si concluderà con l’intervento del Sottosegretario di Stato Sen. Massimo Cassano, che consegnerà a Cosentino anche l’ “Alto Riconoscimento della Scòla Federiciana”.
Presso il Teatro Romano di Lecce, in Via della Cartapesta, venerdì 16 settembre 2016 alle ore 21,00, con ingresso libero.
Non è ancora a me chiaro se l’antichissima tradizione ferragostana del popolo di Nardò sia esclusiva di questa città o anche di altre nel Salento.
E’ una prece, nota come li Centu Cruci, tramandata oralmente tra le generazioni ed oramai sconosciuta alla maggior parte, il cui pensiero è occupato da ben altro per l’inevitabile modernità dei tempi e per l’evoluzione dei costumi.
Mi è stata inviata proprio ieri dai miei congiunti ed è bene trasmetterla per non smarrirla (un ringraziamento dunque a Roberta Giuranna e Fernanda Fiore per averla recuperata).
Le donne neritine erano solite recitarla il 15 di agosto, giorno dedicato alla memoria della Vergine Assunta che si celebra in Cattedrale, alle 15 di pomeriggio, dopo essersi radunate con i propri cari e con i vicini, sciorinandola tra una “posta” e l’altra del Rosario:
Pensa anima mia ca ha murire,
la valle ti Josefat imu scire truare
e lu nimicu nanzi ndi ‘ole issire.
Fermu nimicu,
no mi tentare no mi ‘ffindire
ca centu cruci mi fici an vita mia
lu giurnu ti la Vergine Maria.
Mi li fici e mi li scrissi,
parte ti l’anima mia tu no nd’abbisti.
Naturale porsi la domanda perché questa preghiera osservasse questa rigorosa data e dunque potesse recitarsi solo il 15 agosto e non altri giorni dell’anno, visto che non sembrano esserci rimandi all’Assunta.
L’unico motivo che ci pare plausibile era collegato al particolare giorno, l’unico in cui tutti i sacerdoti, monaci, chierici, diaconi e suddiaconi, dovevano convenire nella città di Nardò, sede della diocesi, per prestare l’antichissimo e solenne rito dell’obbedienza.
Il rito dapprima si doveva prestare all’abate benedettino, che reggeva il monastero neritino, poi (dal 1413) al vescovo della diocesi di Nardò in occasione della festività dell’Assunzione della Beata Vergine, titolare della Cattedrale neritina (15 agosto)[1], secondo i decreti della Sacra Congregazione dei Riti.
[1] Nello stesso giorno l’abate, e poi il vescovo di Nardò, dava mandato ad un ecclesiastico per ricoprire la prestigiosa carica del Maestro del mercato (Magister Nundinarum), ossia il responsabile della antichissima fiera cittadina, che durava ben otto giorni. Questi aveva potestà di giurisdizione civile su cittadini e forestieri, stabiliva i prezzi delle merci esposte, risolveva liti e percependo l’emolumento stabilito dalla Curia vescovile. La nomina, coincidente con l’inizio del mandato, dapprima si conferiva durante i Vespri della vigilia della festa dell’Assunta (14 agosto), poi ai Vespri del primo sabato di agosto, quando la città di Nardò celebrava la festività della B. Vergine Incoronata, e la fiera si svolgeva nei pressi della bellissima chiesa omonima, sita alquanto fuori dall’abitato. Tale privilegio si ebbe sino all’abolizione del feudalesimo.
La saggezza della cuoca nella preparazione del pan di spagna: mescolare con le uova e lo zucchero il burro e il cioccolato fusi e poi aggiungere farina e lievito, rispettando quest’ordine. Guai ad aggiungere alla fine i liquidi perché le uova si smontano e tutti gli altri ingredienti reagiscono scompostamente. La vita fra le altre metafore è una modalità di preparare il cibo, le torte, di comporre e ricomporre le nostre qualità e le nostre esperienze con le persone che incontriamo. Se non rispettiamo le caratteristiche o se queste non si amalgamano allora sono guai, meglio procedere oltre. Con Viola era stato subito amore, si capisce subito ‘quando siamo fatti l’uno per l’altra, dagli sguardi, dal primo bacio, da come ci cercavamo’ – Lorenzo ripercorre così il suo passato. Una camera da ospedale, pochi giorni di ricovero. Da qui nascono l’idea e il bisogno di dedicare la permanenza nel luogo di cura a scandagliare la propria vita, di giovane trentenne, che è passato già da tutti gli stadi dell’esistenza, dalla felicità della famiglia, dall’orgoglio del padre medico alla sua inspiegabile sparizione, alla desolazione di una madre che si era tutta dedicata a lui e che ora scopre il tradimento e l’esistenza di un’altra famiglia. Lorenzo vive intensamente la sua fanciullezza, allietata dal rapporto con le zie e la nonna, ma trova proprio nella festa dell’ultimo dell’anno la caduta nell’abisso insondabile del dolore. Una bicicletta rossa fiammante, un regalo della madre sempre desiderato, non lenisce la sua condizione. Comincia la sua odissea nel senso inspiegabile degli avvenimenti che si susseguono. Come farà ora che non ha al suo fianco una guida? Rimprovera la madre che lo ha costretto ad andare via. Si rifugia nell’amicizia di un suo compagno di scuola e di giochi, ma l’amarezza lo pervade quando scopre un’amara verità. Odia la vita, odia Francesco, non capisce come sia possibile che egli lo abbia privato dell’amore paterno. Pian piano risalirà la china attraverso l’impegno professionale e l’incontro con Viola. Capisce subito che è il suo doppio, che la sua anima è trasposta in questa fanciulla a cui dona un bacio e un’alba d’amore al faro della Palascìa a Otranto. Qui osservano la luce del nuovo giorno, la luce della sua nuova vita accanto a lei. Ma non è finita. I rapporti con Francesco lo chiamano ad una scelta, a trasformare l’odio in amore, a cedere parte di sé nell’estremo tentativo di salvare una vita e con essa se stesso. Appaiono dopo la morte del padre le lettere che gli aveva scritto da cui traspare la grande umanità di un uomo che è conscio, consapevole di essersi giocato il destino ma solo per senso di responsabilità e di amore per gli altri, per la donna che ha amato in un momento di sconforto e di abbandono. Gli ha generato un figlio, verso il quale ha rivolto la necessaria protezione. La malattia di Francesco richiede il coraggio della scelta. Ecco allora l’occasione per Lorenzo di comprendere i passaggi ineludibili della vita, che richiedono coraggio perché sia invertita nel giusto senso l’esistenza, attraverso l’amore e la dedizione verso gli altri, nostri fratelli di s/ventura.
Giulia Campa, Una parte di me, Lupo Editore 2016, pp. 219, € 16,00.
RAFFAELE PUCE / MILLE PIANI. Mostra fotografica alla Cupertinum, domenica 29 maggio, nell’ambito di Cantine Aperte
Le concrezioni reali e visionarie delle foto di “Mille piani” – un’ecologia dell’immaginazione – riattivano la sensibilità dello sguardo assaltato dal frastuono e dal sovraccarico delle immagini televisive, delle foto modificate con photoshop, degli scatti dei telefonini che si perdono nelle memorie digitali, degli assurdi selfie con smorfie impossibili… L’attenzione di chi guarda collega scenari diversi. La velocità della luce è forse il pensiero. La velocità del suono è forse la memoria, il tempo. Tempo e luce lavorano l’esistente, lo trasformano. Respiro, rigore, visione, mutazione, rarefazione, rallentamento, silenzio, tranquillità, tempo che interagisce con l’opera. Il lavoro del tempo. Cartografare contrade a venire.
Credo davvero che ci siano cose che nessuno riesce a vedere prima che vengano fotografate. Diane Arbus
Come i bambini che non sanno ancora parlare, e quando cercano o vogliono una cosa si esprimono avvicinandosi ad essa, toccandola, o fiutandola, o indicandola e con mille atteggiamenti diversi, cosí il fotografo quando lavora, gira intorno all’oggetto del suo discorso, lo esamina, lo considera, lo tocca, lo sposta, ne muta la collocazione e la luce; e quando infine decide di impossessarsene fotografandolo, non avrà espresso che una parte del suo pensiero… Ciò che veramente importa non è tanto l’attimo privilegiato, quanto individuare una propria realtà, dopo di che tutti gli attimi piú o meno si equivalgono. Circoscritto il proprio territorio, ancora una volta potremo assistere al miracolo delle “immagini che creano se stesse”, perché in quel punto il fotografo deve trasformarsi in operatore, cioè ridurre il suo intervento alle operazioni strumentali. Al fotografo il compito di individuare una sua realtà, alla macchina quella di registrarla nella sua totalità. Ugo Mulas
“Il vino è il canto della terra”, scriveva Mario Soldati, e Giuliano Sangiorgi aggiunge: “Credo che il vino sia il canto delle persone che stanno sulla terra. L’uva è il canto della terra. Il vino è il canto degli uomini, che stanno sulla terra magnifica che produce l’uva”.
Appuntamento con grandi Vini, Arte e Jazz, domenica 29 maggio, alla Cupertinum, Antica Cantina del Salento, in Via Martiri del Risorgimento 6, a Copertino, nell’ambito di Cantine Aperte, evento organizzato dal Movimento Turismo del Vino Puglia.
Dalle ore 10.00 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 21.00 la Cupertinum accoglie appassionati, turisti e curiosi, per scoprire la Cantina, assaggiare e acquistare i vini. Inoltre, degustazioni: gli oli d’oliva della “Carta degli oli dell’Aprol”; le “buonezze” del Forno Fratelli Sabato e il miele di BeeHouse.
Durante l’apertura si potrà ammirare la mostra fotografica “Mille piani”, di Raffaele Puce.
Alle ore 19.00, concerto del Jazz Trio di Luigi Botrugno (pianoforte), Emanuele Raganato (sax) e Frank Bramato (voce).
CUPERTINUM, Antica Cantina del Salento 1935, Copertino
Enoteca del Copertino, Via Martiri del Risorgimento 6, Copertino (Le) tel.0832.947031 – www.cupertinum.it
Raffaele Puce – Fotografo e artista visivo, collabora con enti pubblici e aziende per la realizzazione di immagini per mostre e cataloghi. Svolge ricerca fotografica con particolare attenzione al rapporto tra beni culturali e territorio. Per le Edizioni Aramirè ha pubblicato Parazioni. Laureato all’Accademia di Belle Arti, nel 1999 ha vinto il Premio Nazionale Giovani Artisti Portfolio. Tra le sue mostre ricordiamo: Sequenze, Museo Ken Damy / Brescia; Outono Fotografico / Spagna; Diario quotidiano, collettiva di fotografia stenopeica, Musinf / Senigallia; Bande, fuochi e luci, Talos festival; Portokalli site, Borgoinfesta. Con la Cupertinum collabora in qualità di fotografo, in particolare per il progetto del giornale Cupertinum doc. Il Cuore del Negroamaro.
Jazz Trio: Frank Bramato – è un giovane cantautore che ha attraversato, nella sua intensissima parabola artistica, una varietà enorme di generi, situazioni e progetti artistici. Come cantante e sperimentatore vocale, esordisce nel 2000 con la band Blekaut. Dopo gli studi di sceneggiatura a Roma si afferma nell’ambiente del teatro/performance vincendo prestigiosi festival internazionali. Luigi Botrugno – è una delle voci pianistiche salentine più versatili e conosciute. Si esibisce regolarmente in varie formazioni e in una moltitudine di contesti, da Sanremo al solismo jazz. Attualmente insegna pianoforte jazz al Liceo Musicale di Lecce. Emanuele Rag – musicista eclettico e raffinato si è esibito in centinaia di concerti, in Italia e all’estero, presentando un vasto repertorio che va dal jazz al lirico-sinfonico. Attualmente è docente presso il Conservatorio di Ferrara.
Ti vedo è un romanzo ipertestuale, un intreccio di esistenze che sembrano essersi arrestate sulla sponda di un fiume di dubbi inquieto e incessante. Riccardo, un salentino trasferitosi a Nord per lavoro, tornando nella sua terra, riassapora la gradevolezza e l’amaro, i sapori forti e quelli più delicati di un passato fatto di perdite, di amicizie lacerate e di donne che lo hanno segnato, a volte imbruttito e svilito. Poi Marco, un venditore di elettrodomestici cinico e completamente svuotato da ambizioni, che in un ormai irrintracciabile attimo di lucidità, decide di tornare a Firenze, ritrovare i vecchi amici e ricominciare a fare musica. Ma anche per Marco Firenze sarà solo il campo di battaglia con il tempo, con i cambiamenti inattesi e le delusioni. Infine Arturo, in coma da tempo, abitante della città di “Nebulandia”, che slaccia la fantasia e si abbandona a racconti irreali e conversazioni con figure paradossali e strampalate.
Ma la penna che traccia questa mappa di storie, che vuole disorientare il lettore e poi ricondurlo a sé, è quella di Dario, detenuto, colpevole di un omicidio, con in corpo ancora le schegge di una relazione sofferta e l’impulso di provare a riappropriarsi, tramite la scrittura, di mondi, scenari e stralci di vita che continuano a sanguinare.
Ti vedo ha il suono di singole storie, di errori personali, di scivolate inevitabili, a volte feroce, a volte lento. Un faro nel buio pesto delle incertezze, che sono di uno e di tanti, che diventano voce di una generazione, costretta a far tacere o disintegrare i bisogni di cambiare forma per vedersi migliore.
Ti vedo, di Mauro Bortone, Lupo Editore, 13,5×21, pagine 264, Eu. 16,00.
E’ stato pubblicato pochi giorni fa il volume di Elio Ria, Nostro ulivo quotidiano, a cura di Marcello Gaballo, per le edizioni della Fondazione Terra d’Otranto, inserito nella collana Scatti d’Autore, n°2. in quarto| 112 pagine| colore, cartonato. Impaginazione di Mino Presicce, fotocomposizione Biesse – Nardò, stampa Pressup. Foto di Fabrizio Arati, Mauro Bellucci, Maurizio Biasco, Lucio Causo, Coordinamento Forum Salute, Stefano Crety, Marcello Gaballo, Roberto Gennaio, Linda Iazzi, Walter Macorano, Lucio Meleleo, Tommy Mezzina, Francesco Politano, Mino Presicce, Pier Paolo Tarsi. Foto di copertina di Maurizio Biasco.
ISBN: 97888 906976 8 5
Edizione non commerciale, riservata alle biblioteche e ai soci della Fondazione.
Prefazione di Marcello Gaballo – Fondazione Terra d’Otranto
Scatti d’Autore è la nuova collana edita da Fondazione di Terra d’Otranto, che persegue l’obiettivo – attraverso le parole e le immagini – di valorizzare e promuovere la cultura salentina con i suoi autori più rappresentativi in ambito letterario, filosofico e artistico.
La grandezza della parola dipende dallo splendore delle immagini e dalla capacità cognitiva di raccogliere argomenti misuratori del Salento, che è luogo blindato di generosità e splendidezza, ma è anche sostanza d’ispirazione per poeti e artisti. Il mare, i porti, le chiese, i campanili, le piazze, i vicoli, i paesi, sono le cartoline di un mondo fiabesco che incarnano la pazienza del tempo e non hanno necessità di urgenza di fare a pezzi le tradizioni e i costumi di una comunità sempre devota a Dio.
Il secondo volume “Nostro ulivo quotidiano” dedicato all’albero di ulivo è scritto da Elio Ria. Le immagini sono di vari fotografi salentini che hanno voluto donare i loro scatti a corredo del presente lavoro.
Ria si distingue per la sua prosa erudita, pregna di allusioni e ironica nelle allegorie, corredata da una poesia metafisica che sembri lo affascini e lo nutri di piacere del sapere. Attento osservatore della propria terra sa incastonare le quotidianità della vita con le tradizioni che tuttora resistono e s’impongono nel Salento. Riservato e incline al silenzio, rifugge da ogni moda stravagante di letteratura, indagatore e archeologo delle parole crede nella modernità con moderazione, ha un naso eccezionale per le cose interessanti, ha la capacità di condensare minuziosamente i concetti e di sintetizzare le complessità esistenziali libero da ogni condizionamento politico e/o religioso. Ama narrare ciò che è invisibile per attualizzarlo e declamarlo in forma poetica. Offre ai suoi lettori un intrattenimento di lettura piacevole poiché ogni sua cosa è realizzata da un intimo godimento, il giubilo di chi fa ciò che gli piace fare.
Nelle sue omissioni volute si può cogliere la riflessione come fonte di emozione poetica e l’erudizione come retorica cortese – ma mai come pedanteria. Guarda sempre con passione tutto ciò che è minore in confronto a ciò che è maggiore, giacché dalle cose minime risultanti insignificanti sa estrapolare significativi e sostanziali frammenti di allegorie e di memorie.
Il libro è un mondo racchiuso in sé stesso, con le immagini dell’albero di ulivo e di una campagna in sofferenza; dove però prevale innanzitutto il senso civico di responsabilità del poeta per la sua terra, il quale avverte l’impegno di un agire per il meglio, nonché il monito ad una scelta di vita più consona alle regole della natura. Xilella fastidiosa è il killer che decreta la morte degli alberi, mettendo in serio pericolo l’ecosistema. Nelle parole del libro si addensano le atmosfere recondite e quelle sonore dell’uomo che riflette sulla realtà e tenta di interpretarle, poiché incombe un futuro senza futuro e il Salento rischierebbe una menomazione ambientale incommensurabile.
L’ulivo è l’albero simbolo del Salento, il gigante, che nei secoli ha germogliato ricchezza, orgoglio di natura, bellezze figurative, idea di poesia. L’omaggio editoriale è tutto per esso, significando in tal modo l’attenzione e l’interesse di questa Fondazione ai beni naturali della propria terra.
1 maggio 2016 – Domenica
Non è una bella giornata, il cielo è bigio stamane e l’aria profuma di vento da ovest. Forse pioverà. Primo maggio bagnato, festa del lavoro che non c’è o che uccide. Delle fondamenta della Repubblica ormai crepate, scosse, instabili. Quella che fu la “settimana rossa”, dal 25 aprile al primo maggio è ormai un pallido ricordo nelle coscienze. Una mano di vernice incolore ha ricoperto tutto cancellando la storia e riscrivendola “ad usum delphini”. Molt…i dei “rivoluzionari di professione”, spremute per bene le “masse popolari”, sono diventati i più acerrimi nemici di quello che furono. Continuano a spiegare che il mondo è cambiato e bisogna cambiare, e trovano caterve di allocchi che gli credono. Il cambiare tutto perché, per loro, nulla cambi lo ha spiegato per tempo Tomasi di Lampedusa, ma in un paese di ignoranti chi cazzo se lo fila Tomasi di Lampedusa?
Il mondo cambia e tutto cambia e nessuno che si domandi come mai a comandare sono sempre gli stessi e a star sotto anche. Testoni il mondo cambia veramente quando chi era seduto in cima al cocuzzolo scende a valle e viceversa, non quando cambiano i calci e il culo rimane sempre uguale. Ma tanto a voi che ve ne frega? Avete cinque trofei in cinque anni o cinque trofei in un anno, o vivete nella regione più povera d’Italia sotto il tallone delle ‘ndrine ma il Crotone va in serie A, potete anche vedere Ballando sotto le stelle e mettere mi piace alle battute di Crozza. Che cosa volete di più? Il lavoro? Ma andatevelo a cercare … ne troverete mille di microlavori e passerete da uno all’altro, come le formichine, con la partita Iva che vi ha fatto credere di essere imprenditori e invece siete solo dei poveracci con la BMW comprata a cambiali e due Euro per la benzina.
Primo maggio, m’aggio proprio stufato dei concerti e delle canzoni rivoluzionarie. Sono felice di ciò che sono stato e felice di quello che sono. Mi manca solo un bambino da portare a spasso.
Ma son certo che arriverà prima o poi, per il momento mi canto la canzone.
‘Il vento devoto, Ventagli d’autore per Santi patroni’
mostra di Antonio Chiarello
Chiostro del Convento di Diso (Le), 27 Aprile-3 Maggio
di Paolo Rausa
E’ da anni che Antonio Chiarello raccoglie questi cimeli della devozione popolare, bandiere al vento cartonate multicolori, attaccate ad un’asta di legno, contornate di bordi cartacei a mo’ di cornici coloratissime, incollate. Insieme ai nastri colorati che sarebbero volati in aria come gli aquiloni, se noi ragazzini non li avessimo tenuti stretti nei pugni delle piccole mani o legati con il filo al manubrio delle bici. Uno spettacolo a vedersi. Sull’una e sull’altra faccia figure di santi, strappate dagli altari nel corso delle feste dei paesi vicini della ‘Contea di Castro’ – aggiunge Antonio. E con l’immaginazione corriamo ai tempi antichi, medievali, normanni forse e poi svevi, angioini, quando Castro contendeva il primato alla Terra d’Otranto, grosso modo la vecchia Messapia. Si invidiava chi per primo poteva esibire il ventaglio del Santo Patrono, ogni paese il suo, San Donato, San Rocco, la Madonna dell’Uragano, Alfio Filadelfio e Cirino, Filippo e Giacomo, i Santi Martiri, ecc.
Era già festa l’annuncio di recarsi alla Madonna di Sanarica. Qui giunti con il carro si faceva dapprima la visita in Chiesa e solo dopo si potevano comprare noccioline, un gelato, un giocattolo, la palla con l’elastico, o qualcosa del genere, molto semplice. Ma prima la liturgia sacra, durante la quale i fedeli si abbandonavano a gesti di invasati così da toccare con il corpo e con le mani, baciandolo, il santo, trascinandosi sul pavimento e sperando di trarre per sé la sua benevolenza che poteva soccorrere nelle mille difficoltà della vita.
Antonella Carrozzo, sindaca di Diso, ospita la mostra nel chiostro dell’ex convento, ora sede comunale. Don Adelino Martella, il parroco, ricorda gli aspetti devozionali parossistici nel suo libro sui ‘santi nosci’ e invita a considerare il valore di quei gesti, che ora non si comprendono più.
Di tutti questi comportamenti e speranze si caricavano anche i ventagli che riproducevano i santi da una parte e dall’altra del cartoncino cosicché si potesse disporre, nelle invocazioni, di un duplice soccorso. Salvatore Colazzo ed Eugenio Imbriani, pedagogista l’uno e demoantropologo l’altro nella Università del Salento, ripercorrono le attese dei fedeli nell’incontro con i santi, augurandosi sollievi alle loro condizioni nella risoluzione delle malattie, nella continuità del lavoro, nel favore di un’annata piovosa, nella aspettativa di un raccolto abbondante, ecc.
Un’arte che rischia di scomparire, legata com’è all’ultimo artigiano superstite, Antonio Latino di Galatina. E che Antonio Chiarello con le sue sette tavole cerca di riprodurre in limitati esemplari.
Un Salento che cerca di autodefinirsi nei suoi aspetti ancestrali, anche a fini di attrazione turistica, ma forse per ritrovare il filo della sua storia che rischia di essere irrimediabilmente smarrita e perduta.
Il vento devoto, Ventagli d’autore per Santi patroni, Storia Immagini Collezioni di un oggetto devozionale, Amaltea Edizioni, Lecce, 2016 pp. 48, € 10,00.
GIOVANE ORCHESTRA DEL SALENTO Al via le nuove audizioni per giovani musicisti e musiciste
di età compresa tra i 15 e i 25 anni
Sabato 30 aprile alle ore 16.00 le sale del Centro Polifunzionale di San Cesario di Lecce ospiteranno le nuove audizioni per entrare a far parte della Giovane Orchestra del Salento. Il progetto, ideato e coordinato da Claudio Prima, è riservato a giovani musicisti e musiciste di età compresa tra i 15 e i 25 anni. Gli strumenti accolti per l’audizione sono:
Partecipando alle audizioni si potrà entrare a far parte integrante del gruppo della Giovane Orchestra, o si potranno seguire le classi di musica d’insieme propedeutiche all’ingresso in orchestra.
La Giovane Orchestra del Salento
Il progetto nasce nel 2011 dalla collaborazione tra i Comuni di Lizzanello, San Cesario e Lequile e grazie al bando “Giovani Energie in Comune” del Ministero della Gioventù Italiana e dell’ANCI. In meno di un anno si svolgono circa 500 ore di formazione gratuita in 16 classi stabili e cinque stage di perfezionamento. Il progetto ha condotto attraverso un percorso di formazione e selezione alla costituzione di un’orchestra stabile, luogo ideale di espressione e di sintesi creativa dei generi diffusi sul territorio salentino. La musica della Giovane Orchestra è energica e originale, mescola in maniera ardita generi musicali diversi (reggae, rock, classica, popolare) e rappresenta il talento generato in questi anni dal fermento musicale che il Salento ha vissuto. Più di 120 ragazzi coinvolti negli ultimi anni, la realizzazione di un documentario, numerosi concerti in Salento, in festival nazionali (Milano, Civitanova Marche), la partecipazione al TedxLecce e la produzione di un cd dimostrano il valore della musica scritta e pensata insieme ai ragazzi. Il prossimo concerto sarà a Giugno a Lecce in occasione della presentazione dei risultati del progetto l’Arca dei Giovani parte dal Mediterraneo. Il concerto della Giovane Orchestra del Salento muove, coinvolge, emoziona ed è un’iniezione di energia pura, divertente e fresca come la forza dei giovani che ne sono protagonisti.
Il cd: Essere terra
Essera terra è il primo lavoro discografico uscito alcuni mesi fa. Il cd contiene 14 brani inediti nei testi e nelle musiche, realizzati negli ultimi quattro anni da questo originale gruppo di circa 50 giovani musicisti e musiciste salentini guidati da Claudio Prima ed Emanuele Coluccia. Brani come Essere terra che dà il titolo al disco o come A testa in giù, Semplice, In cammino raccontano nei testi e nelle musiche un nuovo modo di fare musica insieme, libero da ogni schema preesistente. La musica suonata dai ragazzi e dalle ragazze è il frutto di un processo orientato e inclusivo, dedito all’integrazione e all’arte dell’incontro. Il cd è impreziosito dalla presenza di Serena Abrami (X Factor, Sanremo), cantautrice marchigiana, già interprete di Niccolò Fabi e Ivano Fossati, che presta la sua voce per un brano originale dai titolo Chiedimi ancora
Divine Decadence, an exhibition in collaboration with Mechelen-based theatre group Abattoir Fermé, will be bringing to life the Decadent cult book A Rebours by Joris-Karl Huysmans in Gaasbeek Castle. It will start on 27 March.
At the end of the nineteenth century, in the age of industrialisation, the Decadents escaped what they considered banal reality through beauty and art. Today, artists still rebel against a good many social norms and taboos. Various works of art immerse you in the luxurious and sometimes dark world of decadence. With works by amongst others Berlinde De Bruyckere, Jan Fabre, Erwin Olaf, Gérard Rancinan, Félicien Rops, Kees Van Dongen en Jan Van Oost.
On 9 April, a major ‘Art Room’ will open with the works of the Italian painter Roberto Ferri. He reaches back, both in style and technique, to the major Baroque masters and uses classical themes and Christian stories that seem to place him outside our own time. But his glorious and graceful bodies betray a fascinating darker side. Claws, horns and fins make them mutate into something monstrous.
In the book Divine Decadence, we go in search of the essence of decadence, with texts by Luc Vanackere, Stef Lernous, Pol Dehert, Karel Vanhaesebrouck and Donald Kuspit. When you buy this book, produced in collaboration with Lannoo, you also receive a free admission.
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