Tra i primi dieci, due territori per Puglia, Toscana e Campania
Anche quest’anno, in vista dell’edizione 2014 della BIT – Borsa Internazionale del Turismo che apre i battenti domani, giovedì 13 febbraio, e chiude sabato 15, “Italia Touristica” ha effettuato un sondaggio popolare per eleggere il “Territorio dell’Anno 2014” e per il secondo anno consecutivo il più amato dagli italiani è risultato il Salento, anche se il distacco dal secondo posto è minore rispetto all’anno scorso. Il Chianti è balzato in avanti superando le Cinque Terre; il Perugino e il Cadore sono le new entry mentre la Costiera Amalfitana ha perso tre posizioni. In breve, questa la classifica finale: 1° Salento; 2° Chianti; 3° Cinque Terre; 4° Perugino; 5° Cadore; 6° Costiera Amalfitana; 7° Gallura; 8° Versilia; 9° Cilento; 10° Gargano. Puglia, Toscana e Campania si aggiudicano due location a testa, Liguria, Umbria, Veneto e Sardegna se ne aggiudicano una.
Per entrare nel dettaglio del sondaggio, nei giorni scorsi sono state inviate circa 248.000 mail ad altrettanti destinatari in tutte le regioni d’Italia (nel 2013 furono 230.000), chiedendo di rispondere alla mail indicando al massimo tre territori diversi meritevoli del titolo di “Territorio dell’Anno” e, possibilmente, motivare la scelta con l’indicazione di alcune significative key words (parole chiave). A rispondere sono stati in 48.236, il 19,45% degli intervistati (l’anno scorso furono 42.306, il 18,39%).
I voti ottenuti dai primi dieci territori classificati sono stati i seguenti: Salento 1° posto con 4.412 voti (9,15%); Chianti 2° posto (4° l’anno scorso) con 4.186 voti (8,68%); Cinque Terre 3° posto (2° nel 2013) con 3.661 voti (7,59%); Perugino 4° posto con 2.879 voti (5,97%); Cadore 5° posto con 2.180 voti (4,52%); Costiera Amalfitana 6° posto (3° l’anno scorso) con 2.001 voti (4,15%); Gallura 7° posto con 1.582 voti (3,28%); Versilia 8° posto con 1.066 voti (2,21%); Cilento 9° posto con 863 voti (1,79%); Gargano 10° posto con 824 voti (1,71%).
Come già accennato, oltre all’espressione del voto, ad ogni partecipante è stato chiesto anche di motivare la propria scelta attraverso l’indicazione di alcune parole chiave. Qui di seguito l’elenco delle key words più ricorrenti per i primi cinque in classifica:
Salento: mare, enogastronomia, ospitalità, capitale cultura, barocco, olio, tradizioni;
Si ricorda che l’indagine popolare è stata espressamente svolta da “Italia Touristica” in occasione della BIT – Borsa Internazionale del Turismo (13-15 febbraio p.v.), per offrire agli operatori nazionali ed esteri uno spaccato delle sensazioni espresse degli Italiani.
È facile sorprendersi, difficile è meravigliarsi.
La meraviglia o lo stupore di cui hanno parlato spesso i filosofi non ha nulla in comune con la sorpresa, anzi, è quanto di più lontano possa darsi da quest’ultima. La sorpresa è legata all’extraordinario che colpisce lo sguardo nella misura in cui rimaniamo affondati nelle cose e nelle situazioni. Stai guidando l’auto nelle trafficate vie di una nostra città, arrivi ad un incrocio, fai la coda, e all’improvviso un branco di giraffe attraversa la strada. Sei sorpreso vero? Dannatamente sorpreso, spiazzato e disorientato dall’incontro inatteso con quanto in quella data situazione sta capitando: quel passaggio all’incrocio di una città è quanto di più possa stridere con le tue attese in quella circostanza precisa, ed è proprio restando nella situazione, attaccato al mondo e agli eventi extraordinari che cadono sotto il tuo sguardo che la sorpresa ti coglie così forte. Scommetto che molti di voi a quell’incrocio avranno persino cercato di prendere in mano l’iphone o qualche diavoleria simile per immortale l’evento, per condividere la sorpresa. Comprensibile. Ma andiamo oltre. La meraviglia non ha nulla a che vedere con ciò, non si possono fotografarne i momenti né si può condividerla con gli amici. La meraviglia sorge nell’ordinario, dal trascendimento delle cose nell’ordinario, non dall’extraordinario, nasce dalla distanza che in un momento si stabilisce tra la situazione ordinaria e te: la meraviglia è straordinaria, non extraordinaria. Nemmeno un passaggio di elefanti rosa all’incrocio potrà condurti in uno stato di meraviglia. No, uno stato di meraviglia non sorge da effetti speciali, emerge invece da uno slancio nella pura e semplice ordinarietà del vivere, è un moto con cui ti trasporti con immediatezza fulminea al di sopra della totalità della consueta situazione in cui fino a un attimo prima eri immerso, così che questo banale quadro quotidiano in cui da sempre esisti diviene d’improvviso inconsueto e oggetto di una contemplazione totale e vertiginosa. Allora, tornando al tuo incrocio, attendi il passaggio di qualche auto. Fai la fila insieme agli altri, non succede nulla di insolito, e nulla deve succedere come detto; poi d’un tratto t’accorgi della indicibile straordinarietà che c’è in ciò che sta ordinariamente accadendo. All’improvviso prendi distanza dall’ordinario, lo osservi come se ci fossi cascato dentro per la prima volta, e ti domandi: che senso ha tutto questo nostro andirivieni senza sosta in delle scatolette mobili? Che ci facciamo qua? È sorta allora la tua meraviglia, lo stato di stupore, una condizione propriamente mistica, laddove mistico non vuol dire lontano e irraggiungibile, ma, al contrario, e sottolineo al contrario, alla portata di tutti, talmente alla portata di tutti e talmente legato all’ordinario da abissarsi quasi sempre, da diventare ineffabile e invisibile perché troppo alla portata, troppo ovvio, perché proprio lì sotto il tuo naso da sempre. Ecco perché chi ha uno sguardo stupito vi darà sempre l’impressione di un bambino incantato dalle più enormi banalità o di uno buono solo a complicare l’ovvio: è naturale, perché è dall’ovvio che lui si lascia impressionare e trasportare nello stato a cui perviene con quella torsione dello sguardo sul vivere. L’ovvio è esattamente l’infinito e ineusaribile, unico e stupefacente mistero da comprendere, è lì sotto gli occhi di tutti, e per questo è più d’ogni altra cosa sfuggente. Il fatto stesso che qualcosa in generale sia, è questa la meraviglia massima per chi si risveglia nello stupore, o la massima ovvietà per gli altri. L’attitudine filosofica autentica non è che la capacità di sprofondare negli abissi senza fine dell’ovvia totalità in cui sempre stiamo.
VENDERE FRUTTA IN STRADA? NON SI PUO’ Fa discutere una recente pronuncia della Corte di Cassazione
di Stefano Manca
Una sentenza che sembrerebbe “storica”. La Cassazione infatti ha stabilito che i commercianti sorpresi a vendere frutta e verdura in spazi aperti andranno incontro a condanne penali (legge 283/1962). Tutto è cominciato a Pomigliano D’Arco, dove un fruttivendolo si è rivolto alla Suprema Corte per co…ntestare un’ammenda subita per aver esposto i suoi prodotti lungo il marciapiede. I giudici hanno però confermato che «la messa in commercio di frutta all’aperto ed esposta agli agenti inquinanti costituisce una violazione dell’obbligo di assicurare l’idonea conservazione delle sostanze alimentari».
Niente più frutta in strada, quindi. Da questo momento anche i marciapiedi di Nardò e dintorni, strapieni di venditori, sono da considerarsi per legge “igienicamente inidonei” alla vendita. Le marmitte dei veicoli di passaggio, infatti, “condiscono” pericolosamente i prodotti esposti. Per quanto riguarda invece la presenza o meno di veleni nei terreni in cui quegli ortaggi e quei frutti sono nati, attendiamo che la magistratura ci dica qualcosa con la medesima puntualità.
Il malefico Zuckerberg pone la domanda in questo luogo non luogo. A cosa stai pensando … il suo successo deriva dal fatto che nessuno è più interessato ai pensieri dell’altro. Chi te lo chiede oggi: “a cosa stai pensando?” Se ti permetti di proferirlo di tua sponte ti trovo qualcuno che cambia posto, discorso o semplicemente gioca con lo smartphone.
E allora i tuoi pensieri li devi affidare al non luogo se vuoi che diventino tangibili anche a te stesso. Ed i miei pensieri s…tanno alle tante persone che mi vivono vicine, in condizioni di grandissima povertà e di enorme dignità. Che al supermercato comprano (si fa per dire) un pacco di spaghetti o (esclusivo) un litro di latte, e hanno gli occhi lucidi e bassi. Poi vai ad acquistare i giornali, noi che siamo nati negli anni ’50 compriamo sempre I giornali. Cinque Euro per nutrire la curiosità. Uno sguardo e ti accorgi che la merda è sempre la stessa, che raccontano di ieri, forse di oggi, mai di domani. I nomi son sempre uguali e non hanno mai gli occhi lucidi e bassi e, forse, non sanno quanto costa mezzo chilo di pasta o un litro di latte.
I poveri hanno un nome comune in questo paese, si chiamano ISTAT, tutti insieme, privati anche della dignità di un nome. Salario di cittadinanza, riduzione del cuneo fiscale, riduzione immediata e grande dei prezzi dei beni di prima necessità. Tassare il pane, la pasta, il latte è una vergogna in queste condizioni. Sono scomparsi dall’agenda politica. I rivoluzionari passano il tempo a combattere i fantasmi, i conservatori passano il tempo a conservare i privilegi, gli innovatori l’hanno presa alla larga. E Giovanni, Salvatore, Luigi e le loro famiglie sperano in un giorno nel quale qualcuno permetta loro di guadagnare venti Euro in nero, magari pulendo un giardino o pitturando per l’ottava volta un portoncino di ferro, che non ne avrebbe bisogno, ma il suo proprietario sa che se offre venti Euro di sostegno Giuseppe non li prende e allora gli fa pitturare il cancelletto.
I nomi sono falsi ma le storie sono vere. E un mercoledi 12 febbraio 2014 principia da un’alba stanca, densa di pioggia. Ma noi non dobbiamo stancarci, pochi, reietti e derisi, appesi alla folle idea di uguaglianza dobbiamo da andare avanti perché un altro mondo è possibile.
Buon giorno mondo, non mi rassegnerò mai alla tristezza.
Di quei tronchi e di quel fogliame il premio agli occhi è la quiete. L’acqua è dell’orizzonte. L’erba secca divelta dall’umidità è vecchiezza di natura. L’aria è del vento che in uno spicchio di luogo non accenna solennità.
Gli alberi di eucalipto come fighetti si specchiano per allungarsi di vanità, nonostante il sole traditore distende le immagini e di esse ne liquefa la forma nell’acqua vestita di luce.
Il luogo è sfuggito al fatale andare del tempo; le canne robuste e alte di muraglia delimitano quanto di più insaziabile agli occhi è concesso. È pazienza di natura nell’offrirsi alla fioritura di un pensiero che non sovverte la fantasia; sospinge lo spirito a rivedersi nello specchio della creazione.
Per tradizione ormai radicata, sono solito assistere alla messa festiva nell’ex cattedrale di Castro, autentico piccolo gioiello artistico incastonato giusto nel cuore del bellissimo borgo della rinomata località salentina.
L’ultima volta, l’atmosfera intrisa di misticismo e di storia caratteristica del luogo sacro in questione si è viepiù arricchita e sublimata, almeno ai miei occhi, in virtù dell’arrivo – e della successiva partecipazione al rito quasi accanto a me – di una ragazza sui diciotto anni, bionda e dagli occhi azzurri: la predetta era in compagnia, mano nella mano, di un giovane, più o meno ventenne, e di una fanciulla, sicuramente di scuola elementare, la quale, in base alla stretta somiglianza, mi è sembrata essere sua sorella.
Un quadretto, di primo acchito, desueto per i nostri giorni e, tuttavia, animato da soggetti moderni, anche per l’abbigliamento e l’espressività dei loro volti puliti, ma, contemporaneamente, rispettosi di certi schemi o modelli che, sebbene in prevalenza ma superficialmente siano definiti obsoleti, in realtà permangono sempre corretti e attuali.
In tale riflessione, intendo inserire anche il particolare che la coppia non è apparsa in giro da sola ma insieme con una creatura più piccola.
I principali protagonisti della scena hanno assistito alla messa con ammirevole compostezza e partecipazione. Alla fine, sono ritornati per strada, seguitando a tenersi per mano e scambiandosi continuamente fugaci sguardi d’affetto e oltre.
A me, è sgorgato da dentro, impetuoso, il desiderio di dir loro “bravi!”; mi sono trattenuto dal proferir parola, solo per il timore di creare imbarazzo, anche se, nella sostanza, credo di essere egualmente riuscito a esprimere ciò che pensavo orientando a più riprese i miei occhi ammirati su quei freschi volti.
Per doverosa integrazione di cronaca: il vescovo era Giuseppe Ricciardi. Non so se il colpevole venne individuato, ma non escluderei che l’autore avesse letto e fosse stato ispirato da quanto un omonimo del vescovo aveva scritto in Opere scelte di Giuseppe Ricciardi, Stamperia del vaglio, Napoli, 1867, v. IV, pagg. 108-109: Ad un giovane, il quale chiedeva consiglio sulla miglior via da tenere nel menar moglie, così rispondeva non so qual filosofo tedesco o francese, ma certo dei più profondi, che di tal nome sieno mai iti superbi: “Immagina un sacco pieno di vipere, fra le quali trovisi un’unica anguilla. Non sarà forse un vero miracolo, se la persona desiderosa di cavare dal sacco quell’unica anguilla, sopr’essa appunto ponga la mano, anziché sopra una vipera?”.
E a questo punto mi viene pure il sospetto, restringendo il campo, che ideatrice dell’attentato sia stata una femminista ante litteram, colta ma con la coda di paglia, che, cioè non si riconosceva in quell’unica anguilla.
Purtroppo è passato troppo tempo per scoprire come andarono veramente i fatti.
La tamerice è un’essenza particolarmente diffusa sul nostro territorio, in particolar modo nelle zone salmastre. La foto di testa, da me scattata, come quella di coda, più di venti anni fa, ne ritrae un esemplare che fortunatamente oggi chiunque può riconoscere sulle sponde della Palude del Capitano.
La scheda che segue ne reca la nomenclatura con gli etimi indicati in nota per evitare eccessive frammentazioni nella continuità del testo:
nome scientifico: Tamarix gallica L.1
famiglia: Tamaricaceae2
nomi italiani: tamerice, tamarisco o tamerisco, cipressina, scopa marina3
nome dialettale salentino: tàmaru, tàmmaru (quest’ultima variante otrantina)4
La tamerice probabilmente per la sua umile selvatica bellezza ha ispirato poeti di ogni tempo.
Ne offro una rapida carrellata in ordine cronologico, chiedendo scusa se l’esordio è decisamente negativo perché la nostra pianta nel primo brano è per Adresto la causa involontaria della caduta da cavallo preludente alla sua uccisione da parte di Menelao; nel secondo funge da appendiabito su cui Ulisse, dopo averle offerte a Minerva, pone le armi e la veste di Dolone appena decapitato da Diomede; nel terzo da appoggio per la lancia di Achille impegnato a fare strage di Troiani dopo essere balzato con la spada in pugno nelle acque dello Xanto; nel quarto come materia da ardere aiuta Achille a ripulire il campo, piromane ante litteram dopo la solita strage di Troiani. Su questa caratteristica infausta della pianta tornerò dopo.
Omero: Poi Menelao bravo a gridare prese vivo Adresto; infatti i cavalli, imbizzarriti nel campo dopo essere inciampati in un ramo di tamerice avendo spezzato il curvo carro nella cima del timone, se ne andarono verso la città dove gli altri fuggivano terrorizzati; ma egli scivolò giù dal cocchio presso la ruota prono con la bocca nella polvere5 …
Così dunque disse e da sé dopo averle levate in alto pose (le spoglie) su una tamerice; e dopo aver strappato canne e rami fioriti di tamerice li pose vicino come visibile segnale perché al loro ritorno non passassero inosservate per la notte scura6 …
Ma il discendente di Giove lasciò la sua lancia sulla sponda appoggiata alle tamerici, simile ad un dio si lanciò tenendo la sola spada e meditava nell’animo tristi azioni; menava colpi da ogni parte, si levava il mortale gemito di quelli colpiti dalla spada, l’acqua diventava rossa per il sangue …7
Così si asciugò tutto il campo ed egli poi bruciò i cadaveri, volse verso il fiume la risplendente fiamma. Bruciavano olmi, salici e tamerici, bruciava il loto e l’alga e il cipero che erano cresciuti presso la bella corrente del fiume8…
Complice involontaria di atrocità nella poesia epica, per fortuna la tamerice si rifà con la poesia bucolica.
Teocrito (III secolo a. C.): Lontano dall’olivo selvatico, caprette! Pascolate qui, presso questo pendio ci sono pure le tamerici9 …
Virgilio (I secolo a. C.): Non a tutti piacciono gli arbusti o le umili tamerici …10
…te, o Varo, cantano le nostre tamerici, te ogni bosco …11
… le tamerici trasudino dalla corteccia pingui ambre …12
…lo piansero anche gli allori, anche le tamerici …13
Il lettore, però, avrà notato che anche in questo secondo gruppo di brani aleggia un velo neppure tanto sottile di tristezza. È come se la tamerice si portasse addosso una sorta di etichetta negativa, il cui commento può essere rappresentato dalle parole di Plinio: Tra gli alberi non producono frutto, cioè neppure seme, la tamerice che nasce solo per farne scope, il pioppo, l’ontano, l’olmo atinia, l’alaterno le cui foglie sono tra la quercia e l’olivo. Sono ritenuti poi infelici e condannati dalla religione quegli alberi che non si piantano mai né producono frutto.14
Più avanti il naturalista latino ribadisce il concetto della pianta infelice, anche se non mancano gli aspetti positivi:
La mirice, che Leneo chiama erice, è simile alle scope d’Ameria. Si dice che essa cotta nel vino e pestata col miele guarisca la cancrena sotto forma di empiastro. Alcuni credono che sia la tamerice; ad ogni modo è ottima per la milza se si beve il suo succo spremuto nel vino. E lo considerano mirabile rimedio per questo organo soltanto a tal punto da affermare che si scopre che sono senza milza i porci se bevono in vasi fatti del suo legno. E perciò danno da mangiare e da bere in vasi ricavati da essa pure all’uomo sofferente di milza. Un autore famoso in medicina afferma che una verga spezzata da essa in modo che non tocchi né terra né ferro mitiga i dolori del ventre per imposizione in modo che sia tenuta premuta al corpo dalla camicia e dalla cintura. Il popolo la chiama albero infelice, come ho detto, perché non produce frutto né seme.15
E torna anche nella poesia latina la funerea immagine omerica del rogo purificatore.
Lucano (I secolo d. C.): Qui stride il sambuco selvatico e sudano gli esotici galbani e la tamerice dalle tristi chiome …16
Nei passi biblici (la traduzione, questa volta, non è mia ma tratta dal testo ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana edizione 2008, consultabile all’indirizzo http://www.bibbia.net) la tamerice, tutto sommato, è ben trattata (Genesi 21, 33: Abramo piantò un tamerisco a Bersabea, e lì invocò il nome del Signore, Dio dell’eternità; I Sam. 22, 6: Saul era seduto a Gàbaa, sotto il tamerisco sull’altura, con la lancia in mano e i ministri intorno; 31, 13: Poi presero le loro ossa, le seppellirono sotto il tamerisco che è a Iabes e fecero digiuno per sette giorni) finché non ci si imbatte nella solita eccezione che le guasta la festa e le rovina la reputazione (Ier. 17, 4-8: Così dice il Signore: «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore. Sarà come un tamerisco nella steppa; non vedrà venire il bene, dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere. Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia. È come un albero piantato lungo un corso d’acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi, nell’anno della siccità non si dà pena, non smette di produrre frutti).
Come le notizie buone non fanno cronaca, così tra i passi riportati, quello di Geremia con la simbolicità negativa della tamerice fu ripreso dagli esegeti cristiani e portato alle estreme conseguenze da Girolamo (IV-V secolo) in un crescendo incalzante (traduco dal testo originale tratto dalla collezione Documenta Catholica Omnia: http://www.documentacatholicaomnia.eu) in cui trova spazio pure la magia nera (a tal proposito mi chiedo cosa succederà se quest’ultima informazione giungerà nelle mani di una persona con la quale ho avuto non molto tempo fa un vivace scambio di idee e dalla quale ancora attendo un abbozzo di difesa dopo l’attacco che le ho portato nel suo territorio …):
Le città di Aroer saranno lasciate alle greggi. Aroer viene interpretato come tamerice, propriamente l’albero che nasce nel deserto e nella terra salata e attraverso questa immagine si indica la soliutudine. Riposeranno qui, è sottinteso le greggi, e non ci sarà chi le atterrisca. Tanta infatti sarà la solitudine da non dover temere neppure un insidiatore.17
Saranno abbandonate anche le città di Aroer, cioè la tamerice, dalle greggi ecclesiastiche affinché noi abitiamo quelle che i Giudei hanno abbandonato: ovvero, distrutta l’idolatria, si costruirà il Vangelo … Aroer, cioè le tamerici, nascono nei luoghi deserti conformemente a ciò che fu scritto in maledizione di quell’uomo che confida nell’uomo ed allontana il suo cuore da Dio. Sarà, dice, quasi tamerice nel deserto e non vedrà il bene quando verrà, ma abiterà nella siccità, nel deserto, in una terra di salsedine e inabitabile (Geremia, XVII, 6). Altri veramente dicono che da questo albero con malefiche arti vengono suscitati incantesimi per produrre ostilità, cioè odi.18
Onde anche in Geremia è scritto: Maledetto l’uomo che ripone speranza nell’uomo, ha rafforzato la carne del suo braccio e il suo cuore si è allontanato dal Signore. E sarà quasi tamerice nel deserto, che non vedrà quando saranno giunti i beni (Geremia, XVII, 5, 6).19
E, dopo le bastonate prese dal mondo pagano e da quello cristiano, pensate che per la povera tamerice possa essere di conforto sapere, come quasi tutti sanno, che Myricae è il titolo che il Pascoli diede alla sua raccolta di poesie uscita la prima volta nel 1891? E può esserle di conforto sapere che in tutta la raccolta essa è nominata una sola volta in Sogno d’un dì d’estate, che mi piace riportare, nonostante siamo in pieno inverno?
Quanto scampanellare
tremulo di cicale!
Stridule pel filare
moveva il maestrale
le foglie accartocciate.
Scendea tra gli olmi il sole
in fascie polverose:
erano in ciel due sole
nuvole, tenui, rose:
due bianche spennellate
in tutto il ciel turchino.
Siepi di melograno,
fratte di tamerice,
il palpito lontano
d’una trebbiatrice,
l’angelus argentino…
dov’ero? Le campane
mi dissero dov’ero,
piangendo, mentre un cane
latrava al forestiero,
che andava a capo chino.
E una sola volta compare pure nei Primi poemetti (La calandra, vv. 4-6): Fuma la terra, fuma il cielo; ancora/fuma il camino e, tra le tamerici,/fuma il letame e grave oggi vapora.
Eppure, per dirla tutta, a lei il poeta del fanciullino dedicò pure un brano di una sua opera in prosa (Lucus Vergili, in Antico sempre nuovo, Zanichelli, Bologna, 1925, pag. 308): … Andiamo dunque ad Andes, come dissero gli antichi, a Pietola, come pronunziò Dante, a Virgilio, come si dice ora, ed erriamo per il bosco sacro. Quante myricae sulle prime ci tardano il passo! Sono basse le più, terra terra, povere pianticelle, che niuno pianta; che nulla danno; che si chiamavano un tempo infelici e ora meschine; che si nominavano per dire ciò ch’era più opposto al melo dai tanti pomi e al balsamo dalle lagrime d’ambra. Ma Virgilio le amava …
E la nostra pianta si lascerà prendere dalla disperazione se qualcuno mollemente adagiato sotto la sua ombra le leggerà i versi di Montale (Fine dell’infanzia, vv. 10-17) che ben si adattano allo scempio del nostro paesaggio già da tempo in atto (la Palude del capitano rischia di essere come la proverbiale rondine che non fa primavera …)?
Nella conca ospitale
della spiaggia
non erano che poche case
di annosi mattoni, scarlatte,
e scarse capellature
di tamerici pallide
più d’ora in ora; stente creature
perdute in un orrore di visioni.
Mi piace concludere con un Capitano diverso da quello della palude citata all’inizio, cioè con la voce di Capitano Black, alias Giuseppe De Dominicis, il più grande poeta dialettale salentino di tutti i tempi (forse in qualche caso non è azzardato ipotecare il futuro …). Antonio Garrisi nel suo Dizionario leccese-italiano, Capone, Cavallino, 1990 al lemma tàmaru (per il cui etimo propone un abborracciato, per quanto dico in nota 4, dal lat. tamnus incr. con arabo tamar) cita, purtroppo senza riferimenti bibliografici, questo verso del Capitano: de luntanu lu tàmaru russìsçia (da lontano la tamerice rosseggia). Una ricerca condotta espressamente per me sull’opera omnia dall’amico Pier Paolo Tarsi, cultore e fine interprete del Capitano20, mi consente ora di trascrivere tutta la poesia con l’aggiunta, che mi sono permesso, della mia traduzione in italiano e di qualche nota21. Ora, grazie a Giuseppe ed a Pier Paolo il nostro tàmaru è, forse, un po’ meno infelice …
_______________
1 Tamarix è, come vedremo più avanti, il nome latino dell’essenza; gallica è in riferimento alla zona in cui chi la classificò (L.=Linneo) ne rilevò una diffusa presenza.
2 Forma aggettivale da tamarix.
3 Tamerice è da un precedente obsoleto tamarice a sua volta dal latino tamarice(m), accusativo del citato tamarix; tamerisco è da tamarisco e questo dal latino tardo tamariscu(m) nato probabilmente da incrocio tra tamarice(m) e lentiscu(m); cipressina nasce dalla somiglianza col cipresso e scopa marina dalla provenienza e dall’utilizzo (vedi il pliniano scopis tantum nascens di nota 14 . Per quanto riguarda l’etimo più profondo di tamarice/tamerice/tamarisco/tamerisco vedi la nota successiva.
4 Proprio il dialettale tàmaru/tàmmaru potrebbe corrispondere alla radice primitiva. Ma procedo con ordine partendo dal Rohlfs che mette in campo un prelatino *tàmaru con lo stesso significato. L’indicazione, piuttosto vaga, mostra il convincimento che la voce sia antichissima senza nulla dirci della sua origine (mediterranea o no?). Io non mi sentirei di escludere il Tamaris (oggi Tambre), fiume che scorre in Galizia in Spagna, citato da Pomponio Mela (I secolo d. C.) in Corographia, III, 11, corrispondente al greco Тάμαρα (leggi Tàmara) citato da Tolomeo (II secolo d. C.), Geographia, II, 6, 2.
E sempre in Spagna, in Cantabria, regione confinante con la Galizia, ci riporta un passo di Plinio, Naturalis historia, XXXI, 8: Et in Cantabria fontes tamarici in auguriis habentur. Tres sunt octonis pedibus distantes, in unum alveum coeunt vasto amne. Singuli siccantur duodenis diebus, aliquando vicenis, citra suspicionem ullam aquae, cum sit vicinus illis fons sine intermissione largus. Dirum est non profluere eos aspicere volentibus, sicut proxime Larcio Licinio legato pro praetore post septem dies accidit (In Cantabria le fonti tamarici sono tenute in grande considerazione per i presagi. Sono tre distanti otto piedi l’una dall’altra e in un unico alveo convergono in un ampio fiume. Seccano ad una ad una per dodici giorni, talora per venti, senza che si veda una goccia d’acqua, nonostante ci sia vicino ad esse una sorgente abbondante senza interruzioni. Cosa nefasta è per coloro che volendole guardare vedono che non scorrono come accadde recentemente dopo sette giorni a Larzio Licinio delegato per pretore).
In un passo precedente della stessa opera (XIII, 34): Myricen et Italia, quam tamaricen vocat (Pure l’Italiaha la mirice che chiama tamerice). Myricen è accusativo di myrice che, a sua volta, è trascrizione del greco μυρίκη (leggi miurìke). Accanto alla forma alla greca myrice il latino ha anche myrica. Tamaricen è un accusativo alla greca che suppone un nominativo tamarice da ταμαρίκη (leggi tamarike) che, però non è attestato da nessun autore greco. Per come Plinio si esprime sembrerebbe che tamarice sia un adattamento italico di myrice ma la presunta aggiunta in testa di ta- è di problematica spiegazione. Non si crea problemi, invece, Isidoro di Siviglia (VI-VII secolo) che in Etymologiae, XVII, 7, 49 così afferma: Myrice, quam Latini tamaricum vocant, ex amaritudine nominata; gustus enim eius nimis amarus est. Haec arbor in solitudine et saxosa humo nascitur; ex qua etiam arbore maleficis artibus μίσηθρα, id est odia, concitari dicuntur (Mirice, che i latini chiamano tamarico, che trae il nome dall’amarezza; infatti il suo gusto è eccessivamente amaro. Questo albero nasce nel deserto e nella terra sassosa; si dice che anche da quest’albero con malefiche arti si suscitano sortilegi che generano ostilità, cioè odi ).
Faccio notare che la parte finale relativa al maleficio Isidoro la prende tal quale da Girolamo, per cui vedi la nota 18; ma il primo a parlare delle proprietà magiche, anzi farmaceutiche, della tamerice, come componente di un antidoto contro il morso dei serpenti, nonché come elemento sacrale legato ad Apollo, era stato Nicandro di Colofone(II secolo a. C.), Θηριακά, vv. 610-614: Λάζεο δ’ἀνθεμόεσσαν ἄφαρ τανύφυλλον ἐρείκην,/ἥν τε μελισσαῖος περιβόσκεται οὐλαμὸς ἕρπων·/καὶ μυρίκης λάζοιο νέον πανακαρπέα θάμνον,/μάντιν ἐνὶ ζωοῖσι γεράσμιον· ᾗ ἐν Ἀπόλλων/μαντοσύνας Κοροπαῖος ἐθήκατο καὶ θέμιν ἀνδρῶν (Prendi un’erica frondosa appena fiorita che uno sciame di api sugge muovendosi lentamente; e prendi un ramoscello del tutto sterile di tamerice, venerando divinatore tra i viventi; davanti ad essa Apollo di Corope rendeva le divinazioni e le leggi degli uomini).
Come se la situazione non fosse di per sé complicata si aggiunge anche la voce italiana tàmaro o tamàro (in toscano pure tamarro, da non confondere con l’altro tamarro, sinonimo di cafone, voce napoletana, probabilmente dall’arabo tammar=venditore di datteri, a sua volta da tamrah=palma) che gli etimologisti considerano affine al latino tamnus (una specie di vitigno selvatico, in italiano detto anche vite nera) con un’estensione incerta. Tuttavia, siccome le due essenze, come attesta la foto sottostante, non mostrano nulla in comune, direi che casualmente tàmaru appare come forma dialettale di tàmaro.
Ricordo che in spagnolo tàmara è un omofono, per cui abbiamo un tàmara1 con i significati di palma delle Canarie, terreno piantato a palme, grappolo di datteri (dal già citato arabo tamrah) e un tàmara2 con i significati di ramo, fascio di legna di poco spessore, che nel dizionario della Real Accademia Española è fatto derivare da un latino *termen/terminis per il classico termes/termitis. Detto che dall’accusativo di termes (tèrmitem) deriva il salentino tèrmite (specie di olivo selvatico) non si riesce a comprendere come da *termen (essendo neutro l’accusativo coincide con il nominativo) possa essere derivato, con mutazioni fonetiche tanto imponenti quanto quelle genetiche provocate dall’esplosione di una centrale nucleare, tàmara2. E si riaffaccia l’ombra, prima ricordata, del fiume Tambre …
Infine, a proposito del greco μυρίκη (leggi miurike), io non escludere un rapporto con i verbi μυρόω (leggi miuròo)=profumare e μυρίζω (leggi miurizo)=ungere o frizionare con profumo o unguento, che sono da μύρον (leggi miùron)=unguento, olio odoroso, e neppure con μυρω (leggi miùro)=stillare. E la resina della tamerice la conosce bene chi ha lasciato la macchina parcheggiata alla sua ombra …, vera e propria manna, ma per i carrozzieri …
13 X, 13: Illum etiam lauri, etiam flevere myricae …
14 Naturalis historia, XI, 56: Fructum arborum solae nullum ferunt, hoc est ne semen quidem, tamarix, scopis tantum nascens, populus, alnus, ulmus atinia, alaternus, cui folia inter ilicem et olivam. Infelices autem existimantur damnataeque religione, quae neque seruntur umquam neque fructum ferunt.
15 XXIV, 38: Myricen ericam vocat lenaeus, similem scopis amerinis; sanari dicit ea carcinomata in vino decocta tritaque cum melle inlita. Eandem esse arbitrantur quidam tamaricem et ad lienem praecipuam, si sucus eius expressus in vino bibatur, adeoque mirabilem eius antipathian contra solum hoc viscerum faciunt, ut adfirment, si ex ea alveis factis bibant sues, sine liene inveniri. Et ideo homini quoque splenico cibum potumque dant in vasis ex ea factis. gravis autem auctor in medicina virgam ex ea defractam, ut neque terram neque ferrum attingeret, sedare ventris dolores adseveravit inpositam ita, ut tunica cinctuque corpori adprimeretur. Volgus infelicem arborem eam appellat, ut diximus, quoniam nihil ferat nec seratur umquam.
16 Pharsalia, IX, 916-917: Hic ebulum stridet, peregrinaque galbana sudant,/et tamarix non laeta comis …
17 pars I, libro V, cap. XVII, versione 1, pag. 216: Derelictae civitates Aroer gregibus erunt. Aroer, myrice interpretatur, quae proprie arbor, in solitudine et salsa humo nascitur, et per hoc vastitas demonstratur. Requiescent ibi, subauditur greges, et non erit qui exterreat. Tanta enim erit solitudo, ut nec insidiator timendus sit.
18 pars II, libro VII, cap. XVII, versione 1, pag. 80: Derelictae quoque civitates Aroer, id est, myrice, Ecclesiasticis gregibus erunt, ut quas Judaei deseruerunt, nos incolamus: sive destructa idololatria exstruetur Evangelium … Aroer, id est, myrice, nascuntur in desertis locis, juxta illud quod scriptum est in maledictione ejus hominis qui confidit in homine, et a Domino recedit cor ejus. Erit, inquit, quasi myrice in deserto, et non videbit bonum cum venerit; sed habitabit in siccitate, in deserto, in terra salsuginis et inhabitabili (Jerem. XVII, 6). Alii vero dicunt ex hac arbore maleficis artibus μίσηθρα, id est odia concitari.
19 pars III, libro X, cap. XXXI, versione 1, pag. 8: Unde et in Jeremia scriptum est: Maledictus homo qui spem habet in homine, et firmavit carnem brachii sui, et a Domino recessit cor ejus. Et erit quasi myrice in deserto, quae non videbit cum venerint bona (Jerem. XVII, 5, 6).
20 Vedi Il lieto fine invisibile del Capitan Black: una rilettura del pensiero politico ed etico nei Canti de l’autra vita di Giuseppe De Dominicis in Il delfino e la mezzaluna, anno I, N. 1, luglio 2012, pagg. 92-106.
21 È la prima parte di un trittico che reca il titolo Mienzu lla macchia (In mezzo alla macchia) e fa parte della raccolta Figurine e ritratti, in Vita e opere di Giuseppe De Domicis (Capitano Black), ristampa della edizione di Lecce, 1926, Congedo, Galatina, 1976, v. II, pag. 242. Mi spiace relegare in nota (mi auguro che essa non sfugga al lettore attento) quanto sto per dire. Pier Paolo si è sobbarcato all’immane fatica di controllare per me migliaia di versi: mi chiedo se non sia giunto il momento di approntare un’edizione digitale in formato testo di tutta l’opera del De Dominicis corredata di un organico commento, anche estetico (il che non esclude, anzi suppone, quello strettamente filologico) ben più puntuale di quello che l’ha finora accompagnata.
di Paolo Vincenti
Riscoperto da qualche anno, Fernando Rausa (1926-1977) è poeta dialettale che si nutre di quei valori universali che hanno radici forti nella sua terra amara e desolata (come per il titolo di una sua raccolta: “Terra mara e nicchiarica”), amata con l’amore e con la rabbia, con l’entusiasmo e il disinganno, che nel poeta fanno tutt’uno in un canto vibrante appassionato lirico. Quei valori universali danno consistenza alla sua poesia accorata e sincera, spontanea ma non bozzettistica, che noi leggiamo oggi in due raccolte di versi pubblicate per il tramite del Comune di Poggiardo, dal figlio di Fernando, Paolo, insegnante, scrittore nonché raffinatissimo e versatile operatore culturale che vive in provincia di Milano. Come tributo d’affetto e filiale devozione nei confronti di quel padre forse troppo presto perduto, egli ha curato entrambe le antologie di Fernando Rausa. La prima, “Terra mara e nicchiarica”, pubblicata con Manni nel 2006, prende il titolo a prestito dal primo verso della lirica “L’oru de lu sud” e vanta una prestigiosa prefazione di Donato Valli, mentre sulla copertina campeggia un’opera di Franco Gelli, “Materiali salentini”. “Dedico questo libro a tutti coloro che soffrono l’inumano e discriminante concetto sociale dell’uomo ‘caino’” è scritto sulla prima pagina del libro.
Apprendiamo da Paolo Rausa, nella “Nota del curatore”, che Fernando Rausa nasce a Poggiardo il 3 gennaio del 1926 e qui vive, salvo una breve parentesi come emigrante in Argentina dal 1950 al 1951. Di famiglia operaia, ultimo di cinque figli, non riesce a studiare ed è poeta autodidatta.Trova però il modo di forgiare i propri strumenti espressivi in occasioni conviviali quali feste famigliari, matrimoni, battesimi, nei quali improvvisa molti brindisi con profusione di facili rime. Salaci battute e motti di arguzia offrono il destro al poeta in erba per creare i primi componimenti conditi da buona dose di ironia e divertimento. Ma poi si rivolge a temi più seri ed impegnati ed escono le raccolte “Poggiardo mia” e “L’occhi ‘ntra mente” nel 1969, poi “Fiuri… e culuri”nel 1972 e infine “Guerra de pace” nel 1976. Scrive anche un romanzo d’amore, tuttora inedito. Muore, come già scritto, nel 1977. La seconda raccolta pubblicata dal figlio Paolo è “L’Umbra de la sira”,per le Edizioni Atena nel 2009. In copertina, una bellissima opera di Antonio Chiarello, “Lo spazio e il tempo”.
Questo libro, sempre patrocinato dal Comune di Poggiardo, reca una Prefazione di Rita Pizzoleo “L’ombra della sera. Un uomo diventato Poeta” , una Nota del curatore, “Dal microcosmo del paese natale alla comprensione del destino umano” ed inoltre, a margine della silloge, delle utilissime “Annotazioni” di Rita Pizzoleo che, come la traduzione in lingua italiana in calce alle poesie, aiutano la comprensione dei testi ma permettono soprattutto una maggiore fruizione degli stessi ( e in questo, avrà avuto la sua parte il fatto che lo stesso curatore Paolo sia residente da decenni in Lombardia).
Un pessimismo velato, più che altro una vena malinconica, contraddistingue magna pars della sua produzione.
Vi è nei suoi brani un forte realismo, accentuato dall’utilizzo della lingua dialettale, aspra come la macchia salentina e dura come pietra di monte, una attenzione per la sostanza dei contenuti che la sua poesia vuol veicolare con poca attenzione alla forma, sicché la mediazione poetica è a volte assente nelle sue espressioni, a vantaggio di una nuda e cruda esposizione dei propri messaggi.
Una testimonianza di fede, quella di Rausa, per tornare ancora all’interpretazione critica di Valli. Gli altri temi presenti sono: l’amore per la propria donna, la centralità della famiglia, il rispetto per il prossimo, in particolare per i più umili e bisognosi, l’importanza dell’amicizia, l’amore per la libertà, per la verità, per la pulizia e la trasparenza nei rapporti interpersonali, secondo l’insegnamento evangelico di cui egli si fa latore in un afflato ecumenico che si avverte vibrante in alcune poesie.
Poesie che trovano humus nella saggezza popolare dalla quale egli attinge a piene mani, non solo l’idioma, ma direi proprio l’edificazione di quella civiltà contadina nella quale vediamo in tralice i valori fondanti che Rausa aveva fatto propri, e che noi, figli di un altro tempo e di un altro modus vivendi, possiamo penetrare anche grazie ad opere come questa.
L’immagine che segue (tratta da http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k7518560c) è la riproduzione della prima pagina del numero di martedì 30 dicembre 1913 del giornale parigino La Lanterne. La traduzione a fronte del trafiletto in dettaglio è mia.
Al gentile e paziente lettore pongo solo due domande : dal patto Gentiloni in poi l’influenza che la Chiesa ha esercitato sulla politica è stata indenne o no da colpe gravissime, se, per fare un solo fulgido, lui sì, esempio, don Lorenzo Milani fu crocefisso e sostanzialmente bollato come prete comunista o, peggio, sovversivo anche in senso laico? E oggi che i comunisti (?), e non solo loro, non mangiano più bambini ma ostriche, caviale e prosciutti, chi saranno i degni di divina, sia pure per interposta persona, raccomandazione o palese candidatura?
“Per un editore che ha scelto la linea laica per la pubblicazione di prodotti editoriali, non sembri strano di aver scelto un volume di omelie. Intanto la scelta laica (non laicista) è dettata dalla necessità di non privilegiare prodotti letterari in funzione di una propria e limitata visione ideologica del mondo, ma dal bisogno di privilegiare espressioni, sensazioni, percezioni, prose, poesie, capaci di esprimere il meglio dell’esperienza umana.” Con queste parole, nella sua Nota dell’Editore, Aldo D’antico, spiega le ragioni che hanno portato la sua casa editrice, Il Laboratorio Parabita, a pubblicare “Omelie. Presenze e testimonianze a Parabita” di Padre Francesco La Vecchia (2013), nella collana “Contributi”.
L’autore è stato padre superiore dei Domenicani di Parabita fino a qualche tempo fa e questo libro raccoglie le sue predicazioni, ovvero le omelie, rivolte ai fedeli durante la Messa dopo le letture. Le occasioni sono le più disparate del calendario liturgico e si può riscontrare come Padre Francesco sia un religioso di grande preparazione il quale unisce al solido fondamento culturale che è proprio del suo ordine religioso, il pathos, ossia quella compartecipazione umana che è propria invece dell’autore.
E’ sempre l’editore a parlare: “Che senso hanno le omelie di Padre La Vecchia? Egli è stato padre superiore dei Domenicani di Parabita, un paese nel quale l’ordine dei predicatori di San Domenico arrivò nel lontano 1405, marginalizzando il culto greco che ivi si officiava, edificando un Convento e una Chiesa (Santa Maria dell’Umiltà) dichiarato monumento nazionale e successivamente scerpato, tagliato, suddiviso con uno scempio unico nel suo genere. Al loro ritorno hanno custodito la Madonna della Coltura per i Parabitani, la loro storia, memoria, cultura. Padre Francesco, nelle sue prediche richiama il senso della storia e della vita, propone il culto non solo come fatto di fede ma anche come dimensione dello spirito, fatto civile di adesione all’uomo e al suo valore. Leggendo le sue omelie un credente rafforza la propria scelta di fede, un non credente riflette sui destini dell’umanità. Motivi abbastanza validi per proporle come edizione”.
Presentato nella Parrocchia di Sant’Antonio in Parabita, il 14 dicembre 2013 da Don Angelo Corvo, Parroco della Chiesa matrice di Parabita, Remigio Morelli e Luigi Cataldo, il libro contiene un estratto da un’opera di Don Tonino Bello (“Parole d’amore”) e alcune lettere indirizzate da Luigi Cataldo, curatore del libro, all’autore. Da queste si evince il grande legame di affetto e fraterno vincolo di fede che unisce Cataldo a Padre La Vecchia, e il dispiacere di Cataldo, che è poi il rammarico dell’intera comunità parabitana, in occasione della partenza dalla città di Padre Francesco quando egli, a fine 2010, dovette andare perché destinato ad altro incarico.
Si comprende che sia abbastanza forte il segno lasciato dal domenicano nel paese della Madonna della Coltura se è vero che oggi esce questo libriccino che lo vede protagonista indimenticato nel cuore dei fedeli e degli amici parabitani. Contributi, quindi, di importanza storica, affettiva, contestuale, sociale, politica, con questa collana de “Il Laboratorio”, che risponde ad un bisogno di conoscenza e più ampia diffusione della cultura a tutti i suoi livelli.
A scrivere un post come questo si corre il rischio, come capita a certa magistratura che scoperchia pentole sempre più maleodoranti, di essere etichettato come comunista. Per evitare, però, al lettore inutili perdite di tempo e per fugare questo dubbio basta che io mi dichiari, come in effetti sono, felicemente (perché così ho conservato la mia libertà) disorientato politicamente e religiosamente, tant’è che in chiesa ci ho messo piede in passato, ora nemmeno quello, solo come turista e, per quanto riguarda la politica, non voto da più di venticinque anni.
Anch’io, però, ho dei sussulti di sana umanità, anche se per evitare il disgusto del presente mi rifugio nello studio del passato, specialmente quand’esso è altrettanto disgustoso. E, quando gli occhi si sollevano dalle carte, mi rendo conto della validità del proverbio niente di nuovo sotto il sole e di come fenomeni antichi si rinnovino mutati nella forma ma non nella sostanza. Così alla nobiltà terriera di un tempo si contrappone quella politico-finanziaria di oggi, e ai braccianti di allora sono subentrati i sottoccupati e sfruttati odierni.
Ecco cosa ho trovato sul numero del 7 settembre 1902 del giornale francese La liberté des colonies leggibile all’indirizzo http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k6337828r.r=Nardo.langEN (nelle foto sottostanti la prima pagina e la seconda, dalla quale è tratto il dettaglio con la mia traduzione a fronte). Da notare che la corrispondenza da Roma è datata 1° settembre ma credo che il tempo trascorso fino alla sua pubblicazione sul giornale francese sia dovuta alle tecniche di comunicazione dell’epoca. Alla faccia, invece, di quelle della nostra epoca i telegiornali nazionali si affannano a dare giornalmente notizia di dichiarazioni che vorrebbero essere rassicuranti ma che sono solo buffonescamente ridicole; per converso, però, la parte preponderante dei notiziari mi tiene aggiornato sulle ultime tendenze della moda, sul numero preciso di coltellate con cui è stato portato a termine l’omicidio del giorno, sulle nausee da gravidanza della vip di turno, etc. etc.
Per non morire di goduria non mi resta che non accendere il televisore. Sto pure pensando seriamente di farlo fuori con trentacinque martellate e mezza, ma, poi, come farò ad esaltarmi quando la tv nazionale ne darà, sicuramente, dettagliata notizia?
Fu Giovanni Gentile ad inserire lo studio dell’arte e della sua storia nell’ordinemanto scolastico. Da allora è stato sempre un punto cardine dell’Istruzione. D’altra parte siamo in Italia, solo un pazzo può permettersi di dire che questa materia è inutile in quanto costosa. Nel 2009 il rapporto Pricewaterhouse Coopers diceva fra l’altro:
“L’Italia possiede il più ampio patrimonio culturale a livello mondiale con oltre 3.400 musei, circa 2.100 aree e parchi archeologici e 43 siti Unesco. Nonostante questo dato di assoluto primato a livello mondiale, il RAC, un indice che analizza il ritorno economico degli asset culturali sui siti Unesco, mostra come gli Stati Uniti, con la metà dei siti rispetto all’Italia, hanno un ritorno commerciale pari a 16 volte quello italiano. Il ritorno degli asset culturali della Francia e del Regno unito è tra 4 e 7 volte quello italiano”. (affari italiani articolo completo)
Quindi un’opportunità di lavoro altamente elevata. Ma non solo di denaro si tratta, infatti, come diceva Carl William Brown: “E’ un’assurdità sottoporre l’educazione alle leggi dell’economia, quando invece dovrebbe essere l’economia ad essere sottoposta alle leggi dell’educazione”.
Il problema vero è la crescita etica, culturale, civica e morale che la conoscenza dell’arte e del bello offrono. Si eleva la qualità stessa della vita. Poter vedere con gli occhi della conoscenza è diverso dal vedere con quelli dell’ignoranza e della grettezza. Patrimoni immensi come quelli che esistono in Italia sono la carta d’identità della nostra nazione, oltre che essere le città d’arte meta di turismo da ogni parte del mondo. Considerazioni banali, scontate, addirittura inutili a dirsi.
È proprio così? Vediamo cosa succede a Pompei che cade a pezzi, vediamo la Reggia di Caserta e altri monumenti e ci accorgiamo che così non è. La storia è sempre la stessa: “mancano i soldi”. L’Italia è, allo stato attuale, il paese che meno di ogni altro merita il patrimonio che detiene, per favore, qualcuno ci commissari.
Non è un caso che di tanto in tanto a qualche neoliberista d’accatto venga in mente di consegnare tutto ai privati, dalle spiagge ai musei. Il quadro è davvero avvilente, ed ora sta giungendo a compimento la riforma che la più sciagurata ministra dell’Istruzione della storia repubblicana (e anche del ventennio, pensando a Gentile), la signora Gelmini, ha voluto fare scopiazzando qua e là e peggiorando tutto quello che ha copiato. La sua porcata prevedeva infatti che dagli anni 2009 e 2010, oltre all’abolizione degli Istituti d’arte, anche quella delle discipline artistiche nei «nuovi» Licei artistici, la cancellazione di «Storia dell’arte» dai bienni dei Licei classici e linguistici, dagli indirizzi Turismo e Grafica degli Istituti tecnici e dei professionali; zero ore per i geometri; cancellazionedi «Disegno e Storia dell’arte» dai bienni dei Licei scienze umane e linguistici;cancellazione di «Disegno e Storia dell’arte» dal «nuovo» Liceo sportivo; eliminazione del «Disegno» nei trienni di questi ultimi «ambiti formativi». Insomma, un diplomato con indirizzo turistico potrà sapere tutto su ricevute fiscali e fatture, ma non si permetta di parlare di arte, per carità. I turisti sono vacche da mungere, altro che cultura.
L’attuale ministra Carrozza e il Ministro Bray hanno tentato in ogni modo di bloccare questa porcata infamante, però la commissione, proprio in questi giorni, ha detto che l’insegnamento dell’arte non è compatibile con le risorse.
L’ultimo sciagurato ventennio ha condotto le cose con il principio che non si deve insegnare nulla, le persone potrebbero poi imparare. La Mariastella è evidentemente figlia di questa filosofia (figlia o vittima?).
I ragazzi allevati con questa sciagura non sapranno distinguere fra una chiesa gotica ed una barocca, non hanno il diritto di sapere chi furono Giotto e Michelangelo. Saranno informatissimi invece sul bunga bunga e sul grande fratello. I primi sono appena sbarcati in parlamento e giocano a fare gli statisti. E qualcuno va a finire che brucerà libri…
Tuglie è un paese dell’ultima provincia d’Italia, taciturno, sospettoso, con le voci che s’inseguono per perdersi nei vicoli e nelle corti quadrate con angoli retti, con qualche curva di devozione a un santo o alla madonna. Umile e cerimoniale, custode di riti, festivaliero, con finzioni di percorsi, una piazza di arcaica immobilità. Non è nobilesco come altri, piuttosto borghese e malinconico, simula sicurezza in tutto ciò che potrebbe apparire in qualche modo riduttivo.
È un paese che dovrebbe ancora pretendere per non ammalarsi di piacere dell’indifferenza; che ha il dovere di suggerire un atteggiamento di contrarietà ai formalismi. Il cielo di Tuglie è qualcosa che appartiene a questo luogo come le vie, le case e le piazze; è distaccato, dannatamente del Sud che rapisce bellezze e patisce assenze di fervore.
L’attesa del domani è scandita da quotidianità complesse che non lasciano spazio ai sogni, e le rispondenze delle speranze si concludono in tristezza. Senza risposta si adagia, eppure le immagini di vita emergono chiare per sorprendere e creando ritmi di armonia per una orchestra di passaggio.
Potrebbe essere bello, ancora. La rigidità del sole che sconquassa le pietre delle case cubiche, un tempo colorate di bianco, è eterna, tanto da sbalordire gli occasionali ospiti estivi. Anticamera del mare, conserva i ritratti di una campagna quieta, dedita alle osservanze delle leggi della natura, resiste agli attacchi dell’uomo sconsiderato, piace a Dio.
È persuasivo con i forestieri. Distende le membra su una collina posta in alto, che sovrasta un po’ tutto e nulla dice dei ritardi di stagione.
Non almanacca, vive di destino imposto. Si concede diversi inverni nell’indecifrabile scorrere del tempo che si è fatto corriere di illusioni perpetue.
Nell’autunno che si annuncia attraverso chiari segni rimette a posto le faccende dell’estate, aspettando qualche pioggia feconda e il vento amico di scirocco. Poi quando verrà di nuovo la stagione del giallo tutti faranno festa di beffe e di diletto. Gli verrà il sonno della fatica, dormirà. Al risveglio osserverà le terre lontane che gli appariranno all’orizzonte e un dolore al petto prefigurerà un ripensamento per una coscienza di luogo?
Dal sito della Biblioteca Nazionale di Francia, che poco tempo fa mi ha messo in contatto con uno sconosciuto parente passato da tempo a miglior vita (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/29/nicola-e-maria-cacudi-ovvero-una-memoria-sonora-salentina-di-100-anni-fa-fissata-e-custodita-in-francia/), riemerge ora un’altra figura della nostra terra. Poco importa che sia un semplice calzolaio o, più modestamente, un ciabattino piuttosto che, come nel caso precedente, un professore più o meno noto. Il caso vuole che ognuno di noi venga ricordato, quando capita, anche per qualcosa di banale, non particolarmente eclatante, magari curioso, come nel caso di oggi.
L’immagine appena riprodotta (come le altre da http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k4859934.r=leverano.langEN) si riferisce alla prima pagina del numero 11 dell’anno 128°, di domenica, 23 aprile 1916 del quotidiano parigino Journal des débats politiques et littéraires.
In quella che segue: il secondo foglio e in dettaglio il trafiletto con la mia traduzione a fronte.
Suggestionato, forse, dal mio sfegatato pacifismo (non mi riferisco, comunque, a quello verbale …), non posso esimermi dal fare qualche riflessione che esula dalla veridicità della notizia o dalla fedeltà con cui essa è stata riportata. Il corrispondente da Roma non è stato minimamente sfiorato dal dubbio che quel pieno d’entusiasmo, impaziente di correre contro il nemico fosse un po’ retorico (una delle tante frasi fatte dei guerrafondai e della stampa allineata …) e che la stessa catalessi di Antonio fosse, non dico una finzione, ma una forma di difesa indotta da motivi psicologici perfettamente contrari all’entusiasmo? Ad ogni modo: questo Antonio Russo mi sta proprio simpatico, più simpatico che se avesse lanciato in Francia una linea famosa di calzature …
Sul sito del comune (http://www.comune.laterza.ta.it/index.php?action=index&p=26) leggo: Per quanto concerne il nome di Laterza, vi sono tre ipotesi. Una prima ipotesi asserisce che Laterza derivi da “Letentia”, luogo di caverne e nascondigli. Altra ipotesi è quella secondo la quale tale nome deriverebbe dal latino “Tertiani”, i militi della terza legione romana che ivi fissarono il loro accampamento. La terza, la più suggestiva, farebbe risalire il nome della cittadina da “Laerte”, padre di Ulisse, in onore del quale i cretesi, fuggiti dopo la guerra con i micenei, fondarono in loco una colonia. La seconda è, tra le ipotesi, la più accreditata, avvalorata del fatto che la cittadina di Laterza è situata lungo la via Appia nuova che unisce Taranto a Roma, ricalcando il tracciato dell’Appia antica, in alcuni tratti ancora visibile.
Per quanto riguarda la prima ipotesi (Letentia) l’ignoto autore ha probabilmente pensato al latino latentia=cose che si nascondono, participio neutro plurale di latère=nascondersi; che letentia sia o non sia errore di scrittura (certamente è un’invenzione perché in latino non esiste), appare evidente come in latentia si sia conservata la prima a di Laterza; ma come giustificare, poi, il passaggio –n->-r-?.
Per la seconda va detto che tutt’al più Laterza non deriverebbe da Tertiani, ma direttamente da tertia (legio)=terza (legione). Il Pacichelli con la grafia DELLA TERZA in A sembra seguire quest’ipotesi. Bisogna però supporre che il nome originario latino fosse Tertia (e sarebbe dovuto comparire in qualche documento) e che solo in epoca relativamente recente, volgarizzato il presunto Tertia in Terza, dall’aggiunta dell’articolo e dal suo successivo inglobamento sarebbe nato Laterza.
Per l’ultima (da Laerte) rinvio il lettore a quanto dice il Pacichelli (pure lui senza citare la fonte ridotta ad un generico chi vuol che ne sia stato autore in A).
Prima, però, mi permetto di aggiungerne una mia: da un *latèrcia, per sincope del latino laterìcia (da later=mattone), aggettivo neutro plurale sostantivato=cose relative ai mattoni; è ipotizzabile che prima di produrre le sue raffinate ceramiche la popolazione si sia fatta le ossa con i semplici mattoni di terracotta.
Pacichelli (A), pagg. 189-191
Pacichelli, mappa
A Capuccini/S. Maria degli Angeli (mappa/immagine tratta ed adattata da Google Maps)
B Castello/Palazzo marchesale (mappa/immagine tratta ed adattata da Google Maps)
C Chiesa madre/S. Lorenzo martire (mappa/http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/diocesi/parrocchie/foto/id_47/p2/LaterzaSanLorenzoMartire.jpg)
D Fontana (mappa/http://www.laterza.org/images/arte_cultura/fontana2-b.jpg)
Nell’ordine: (dalla mappa) lo stemma dei Perez-Navarrete (al tempo del Pacichelli era marchese di Laterza Nicolò Perez-Navarrete, lo fu dal 1681 al 1716, discendente per linea materna del primo marchese di Laterza, Pietro D’Azzia) e quello della città (con il motto Fideles Laertini); (da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Laterza_(Italia)-Stemma.png) lo stemma attuale.
Nell’immagine che segue (tratta da http://www.laterza.org/Comune/fotoPop.asp?ID=1019&ID_ARG=51&pagina=1): dal palazzo marchesale l’affresco di S. Anna che inferiormente reca ai lati la riproduzione dei due stemmi (a sinistra quello dei Perez, a destra quello della città).
Linda, sientime a mmie, ssettate a cquai,
ca ogghiu cu tte cunfidu nu penzieri;
prima de tuttu nu ppenzare a uai
e ppenza cu tte bbii st’autru bicchieri.
Cu cquantu desederiu ieu studiai
cu sacciu ccenca bè la verità,
na cosa sula intantu me mparai:
ca lu mundu ete tuttu vanità!
Intru tutti li libri aggiu mparatu,
ca l’omu cchiù ssape, chiù nde sballa.
Comu lu muscaritulu s’ha ccriatu?
comu nasce de lu erme la farfalla?
Tante de stidhe ca nci suntu a ncelu,
quale la mente le sape mmesurare?
perché la verità porta nu velu,
ca l’omu nu lu pote spugghecare?
Dimme quale scenziatu l’ha capita
comu se forma a ncapu lu penzieri?
comu ccumenza a ll’uemmni la vita?…
Ma penza cu tte bii st’àutru bicchieri! [….]
E quandu la mente ole mbrazza lu celu,
de pùrvere a mmanu se troa na francata;
e quantu cchiù bàutu ole spicca lu uelu,
cchiù mutu alla terra se sente nferrata!
E giurnu pe giurnu ni etimu na cosa
cadire sbiadita de cqua intru llu core;
fugghiazza, fugghiazza se spronda la rosa
lassandu lu russu, perdendu la ndore! [….]
Capitan Black (1869-1905), il più grande e dotto poeta (contadino!) salentino (leggeva filosofi e poeti di ogni nazione europea e non solo), morto a solo 36 anni non compiuti, chiaramente ignoto ai più, mai studiato nelle scuole nostrane (si preferiscono poeti dialettali di altre regioni) e mai letto dal 99% dei tanti intellettuali di cui abbonda la provincia.
Misconosciuta, anzi, rimossa: dalla Storia, dalla memoria popolare, dall’immaginario collettivo. Ma siamo figli dei tempi e questo, che sembra un tempo senza speranza per i giovani,può essere quello che annoda i fili della nostra Storia e illumina gli eventi che hanno costruito la nostra identità.
Anche il Salento ha avuto la sua Rivoluzione. Ne scrisse il sommo poeta Vittorio Bodini in un memorabile reportage per la rivista “Omnibus” (1951). L’inviata di “Noi Donne” invece fu scacciata. A quel tempo il giornalismo era serio, autorevole, decisivo (come si dimostrò poi al processo in Corte d’Assise a Lecce, con gli articoli letti dal pm della Procura di Trani Biagio Cotugno che forse puntellarono la sentenza di assoluzione perché non c’era il reato).
Non come oggi: sociologia, acqua fresca per comari da bar sport.
Qualche documentario in anni recenti. Tutto qui. Difetto di comunicazione si dirà. Damnatio memoriae evocata dalla scuola e l’intellighentia, diremo. E non per caso. Più si cancella il passato, più si asserve una comunità e la si può dominare spingendola su disvalori, contagiando i surrogati da cui è aggredita la quotidianità.
Eppure fu una Rivoluzione di popolo, che dovrebbe continuare a intrigare chi volesse scannerizzarla (come ha fatto Salvatore Coppola). Affascinato almeno da un elemento: la sovrapposizione semantica con la più celebrata Rivoluzione d’Ottobre. 1905-1917 quella russa. 1920-1947-1950 in Salento: invasione delle terre abbandonate (tra Fattizze, Case Arse e Carignano); 2.000-4.000 contadini e braccianti piantarono bandiere rosse e tricolori cucite dalle sarte dell’Arneo (Nardò, Veglie, Monteroni, Trepuzzi, Guagnano, Carmiano, Salice, Copertino, Leverano, Campi S.) ecominciarono a dissodare e coltivare le terre: tanto che, primavera 1951, al processo, i contadini offrirono i frutti del lavoro: piselli, fave e altre delizie fresche.
Una scena che a immaginarla fa venire i brividi. Mentre l’agrario Achille Tamborino, senatore, da Maglie, proprietario di quelle terre, va a dire, ammantandosi di ridicolo, che gli servivano per la caccia, e di non sapere esattamente i loro confini, e comunque non aveva avuto danni. 15 contadini furono condannati a un mese, col condono e la non iscrizione (art. 633, “chiunque invada arbitrariamente terre altrui al fine di trarre profitto”).
L’epopea fra il 28 dicembre 1950 e la primavera 1951 (ma le occupazioni erano iniziate nel 1947), è ricostruita con un respiro narrativo essenziale che trasfigura l’epos da Tina Aventaggiato in “Vento freddo sull’Arneo”, editore Loffredo, Napoli 2013, pp. 255. € 13.50 (collana “I Semi di Partenope”), con l’emozionante prefazione di Gianni Giannoccolo, testimone del tempo (“uomini e donne veri… di quell’esperienza poi è stata segnata la loro vita (…) in seguito ai duri anni di guerra si era radicalmente mutata la psicologia dei contadini”).
La password usata oscilla fra la tragedia greca (Odissea su tutte) e la lotta dei comuneros (contadini con terre in comune) peruviani narrata dal grande Manuel Scorza. Pure qui una sovrapposizione metodologica: Scorza vagò per le Ande armato di magnetofono, la scrittrice nata in Grecìa (Castrignano dei Greci, vive a Poggiardo), ha recuperato dalla memoria le storie udite da piccola, dal padre soldato in Etiopia; storie che ha arricchito con le sapide tracce dell’affabulazione popolare d’oggi. Il tutto poi stemperato in un romanzo storico che attinge ai canoni del neorealismo e del verismo, che intreccia elementi oggettivi e documentali al vissuto quotidiano del Salento rurale, librandosi verso la poesia più pura quando contamina il racconto con i sentimenti e le storie d’amore dei personaggi: Pati e Cristina, Arcona e Yusuf prima, l’ebreo Isaiah poi, Vera e Aldo Specchia “lo scemo di guerra”. Incluso il thriller che tanto piace alla narratrice (“Abigail è tornata”, sempre con Loffredo, 2012): una vecchia colt della guerra d’Africa sparisce all’inizio e riappare in un muretto alla fine.
E dunque l’Arneo, cuore vivo del Salento, in lotta per il pane e la dignità. Figli di un dio minore, tornati dal fronte, scoprono che mentre loro combattevano, i padroni e i furbi si arricchivano col mercato nero. Non solo, ma anche che la legge della Repubblica che ovunque in Italia assegna le terre con l’enfiteusi, per loro non vale. La coscienza politica nata sui fronti dove hanno combattuto (guerra coloniale compresa) non li rende però più disposti a tollerare un mondo ingiusto, le disparità sociali, le esclusioni, la fame.
Dove la scrittrice è insuperabile è nel tracciare la composizione di classe rigidissima in un feudalesimo cristallizzato e antistorico, sullo sfondo di un canovaccio pregno di etos, modulato sull’antropologia, la sociologia, il conflitto di classe. Al processo tentarono di incolpare i contadini di aver bruciato le loro stesse biciclette: tutto ciò che avevano per campare.
Un’opera memorabile (“Arneide”), scritta in stato di grazia, che dovrebbe essere adottata nelle scuole per rafforzare identità vacillanti, puntellare memorie fragili, rafforzare radici esili. Il suo oblio è funzionale al dominio delle nostre menti. Se ci occupiamo di subcultura (Grande Fratello, talent, soap e spam vario), di vuoto feticismo, chiusi in casa, quando mai guarderemo alla nobiltà del passato per decodificarlo e cercare così di governare il nostro futuro?
L’inaspettato numero di lettori che hanno mostrato attenzione per l’analogo lavoro dedicato alla provincia di Lecce1mi ha spinto a tener fede alla promessa data, integrando la serie oggi con la provincia di Brindisi e in uno dei prossimi giorni con quella di Taranto. In un tempo successivo probabilmente i tre contributi scompariranno perché costituiranno un unico lavoro il cui titolo si riferirà, questa volta, alla Terra d’Otranto.
Non identificati:
BUSVEGLIA; Busveglia è citata come una delle tappe finali di un itinerario da Napoli a Otranto (totale 248 miglia) nella guida Voyages historiques de l’Europe3, Josse De Grieck, Bruxelles, 1704, pag. 152. cui si riferisce il dettaglio in basso riprodotto; Fagian è Fasano, Altone (probabilmente errore per Astone) è Ostuni. Dalla tabella apprendiamo che Busveglia distava 10 miglia da S. Pierre (San Pietro Vernotico). Le altre distanze in tabella rendono plausibile l’ identificazione, pur dubitativamente formulate, di S. Anna con Torre S. Susanna.
A ricomplicare, però, le cose ci pensano le stesse tabelle comparse in pubblicazioni precedenti.
In Sommaire description de la France, Allemagne, Italie & Espagne di Théodore Turquet de Mayerne, uscito per i tipi di Claude Le Villan a Rouen nel 1604, a pag. 219:
In tutto il libro la v ha la stessa grafia della u; così per il Busueglia della tabella, fermo restando che la prima è sicuramente una u, non si ha la certezza che la lettura corretta sia Busueglia più che Busveglia.
Nella tabella relativa alle poste (cambi di cavallo) da Napoli a Lecce a pag. 515 dell’Itinerario overo nova descriptione de viaggi principali d’Italia di Francesco Scotti (o Scotto, italianizzazione di Franz Schott), uscito a Padova per i tipi di Filippo De Rossi a Roma nel 16504 si legge:
Per la grafia della u vale quanto detto per la tabella precedente. In più, accanto a Busueglia, il lettore noterà l’abbreviazione v. che, sciolta, dovrebbe corrispondere a villaggio, come per altri toponimi c. dovrebbe valere come città.
CAVA: anche se l’abbreviazione fl. che segue il toponimo va sciolta in flumen, questo non aiuta più di tanto nell’identificazione di un dettaglio idrografico che per sua natura è molto mutevole e soggetto in alcuni casi a scomparire. In altre mappe il nome del fiume è Cana.
PORTOLO (PORTOLA in altre carte)
SAUCITI il toponimo (GAUCITI in altre carte, dove però compare accanto il simbolo di centro abitato) qui pare riferirsi a quattro isolette ad est di Brindisi.
2 Leandro Alberti, Descrittione di tutta Italia, Pietro de i Nicolini da Sabbio, Venezia, 1551, pag. 197: … quindi a Convertino [oggi Copertino]misurante sei miglia, & de li a Leurano [oggi Leverano] quattro, & dopo altro tanto vedesi Vellia [oggi Veglie], & dopo sei, Santo Gianazzo [oggi S. Pancrazio Salentino], Castello della Chiesa di Brindesi. Et passate sei, vi è Torre [oggi Torre S. Susanna] appresso ad Oreo [oggi Oria] altro tanto. Tenendo presente che la carta sarebbe uscita quasi quaranta anni dopo, che i toponimi comuni non sono sempre coincidenti (il che denoterebbe la carta indipendente dal libro nonostante la sua notorietà) e l’assoluta compatibilità, per quanto riguarda le distanze, con l’itinerario descritto nel libro, è legittimo ipotizzare che S. Gianazzo fosse il vecchio nome di S. Pancrazio già al tempo dell’Alberti.
3 In copertina il nome dell’autore è un lapidario Mr. De B. F.
4 Ma la prima edizione italiana (traduzione delle prime in latino), identica a quella da cui ho tratto l’immagine, era uscita a Venezia per i tipi di Francesco Bolzetta nel 1610.
Ogni paese ha i suoi “personaggi”. Soggetti con problemi psichici più o meno gravi che vedi passeggiare senza meta, quasi protetti dalla città che li ha eletti a mascotte. Fanno l’autostop oppure chiedono l’orario. A volte provano a salire sul primo autobus che passa loro davanti, fregandosene del biglietto e della destinazione. Con la loro bizzarra anarchia riescono sempre a farti sorridere. Uno di loro vive nella mia città. E’ un ragazzo alto e magro, attorno ai trent’anni. Lo incontro al mare d’estate. Le attività che gli riescono meglio sono: farsi regalare arachidi dall’anziano venditore di noccioline e soprattutto intrufolarsi alle feste private. Gli addetti alla sicurezza provano ogni volta a respingerlo ma alla fine, stremati, lo lasciano entrare. Stamattina lo incrocio casualmente in una tabaccheria. Il ragazzo tira fuori una moneta e indica con il dito alla tabaccaia i “gratta e vinci” accanto alle caramelle. La donna incassa l’euro. Il ragazzo va a sedersi al tavolino all’angolo per “grattare” il tagliando appena acquistato. Nel frattempo entra un altro cliente. Va verso la tabaccaia ma vede il ragazzo e di colpo cambia direzione. Con una pacca gli sorride e si offre volontario per verificare il biglietto. “Vediamo se hai vinto”, dice premuroso. Il “volontario” esamina la giocata e fa cenno al ragazzo che ha perso. Saluta, lasciandolo col biglietto in mano. Secondo cliente, stessa scena. Direzione tabaccaia, poi nota il ragazzo e cambia rotta. “Vediamo, dai, vediamo se hai vinto, amico!”.
Rinunciamo alle nostre commissioni quotidiane per aiutare un diversamente abile a fargli capire se ha vinto al “Gratta e vinci”. Commoventi…
Sabato 25 c’è stata a Casalini, frazione di Cisternino, un’assemblea affollatissima sul progetto “Strada Dei Colli”.
La storia è tipicamente italiana, infinita. La famigerata “Strada dei Colli” è un tracciato di 5 Km. circa che passerebbe, secondo il progetto, in mezzo a macchia mediterranea, uliveti, e trancerebbe un paesaggio ideale per tracking, biciclette e passeggiate. L’alibi per questa colata di asfalto e cemento sarebbe quello di rendere più agevole il percorso Cisternino – Ostuni completando un progetto concepito, quarant’anni addietro, per collegare la Selva di Fasano con Ostuni, rimaneva scoperto il tratto in discussione. In realtà esistono già due strade Cisternino Ostuni, e nemmeno esageratamente brutte. Occorrerebbe solo una manutenzione ordinaria più accurata, passandoci in una sera di pioggia, come mi è successo proprio sabato scorso, il percorso era ad ostacoli, nessuna segnaletica orizzontale, strisce bianche cancellate, guadi di veri e propri laghi in mezzo alla carreggiata, tutta roba che istiga a “maledire il tempo ed il governo” giusto per citare De Andrè., Un tempo si diceva “piove governo ladro” qui è il caso di dire che l’amministrazione provinciale è colpevolmente responsabile di mancata manutenzione, la pioggia è naturale, l’incuria non lo è mai.
La storia della colata d’asfalto iniziò nel 1963, quando l’allora amministrazione comunale fece un primo progetto impugnato da un comitato locale, poi venne fatta una variante, il tutto sospeso ben tre volte dagli organi competenti e definitivamente e bocciato dal TAR di Lecce. Oggi dopo almeno due generazioni di progettisti, esiste una terza via che, a detta degli amministratori, sarebbe rispettosa dell’ambiente e diventerebbe ameno passeggio in auto nelle campagne. Allo stato delle cose, per le sole progettazioni, dice il comitato NOASF, la sola progettazione è costata 110.000 euro, ai quali si debbono aggiungere gli 80.000 della progettazione bis. Il preventivo di spesa complessivo ammonterebbe a 4 milioni di euro finanziati da tempo. L’amministrazione la presenta come “strada museo” o come “collegamento dei Santuari di San Biagio e Sant’Oronzo”, immaginiamo file di rombanti pellegrini fare la corsa fra un santuario e l’altro alla faccia della via francigena che si vuole riscoprire poco sotto. Come museo la strada lambirebbe invece alcune masserie storiche, oltre che uliveti con alberi secolari.
Peccato che per farla occorre abbattere almeno mille fra ulivi e fragni secolari, che verranno espiantati pagandoli circa 800 euro caduno, 20 verranno reimpiantati, assicurano i progettisti, bella soddisfazione veramente. A proposito del Fragno (quercus trojana), leggo che esistono esclusivamente in Puglia e Basilicata, in particolare nelle Murge e nella zona di Matera. Per fare un paragone azzardato sarebbe come se in Egitto si spostassero le piramidi per fare un Mc Donalds. Gli espropri avranno un valore complessivo di 274.000 euro. 6 Km. Di muretti a secco secolari verranno abbattuti e, promettono i progettisti, rifatti. Ovviamente, se non si vogliono stanziare milioni di euro, il rifacimento sarà con strumenti e tecniche moderne, che nulla avranno a che vedere con il fascino e l’importanza storica di quelli antichi. In sostanza, i 63.100 mq. di territorio interessato allo scempio serviranno ad uso esclusivo di una strada che, con le servitù, avrà una larghezza di 15 mt. circa. Per fare il tutto, essendo il terreno con rocce affioranti o poco sotto lo strato di terra occorrerà, recita il progetto, minare o utilizzare adeguati “martelloni”.
Al momento il comitato ha raccolto 2000 firme contro questo lavoro che definire inutile è riduttivo. Alcuni dubbi sorgono spontanei. I terreni lambiti dalla strada dei colli acquisiranno valore, soprattutto se in futuro resi edificabili. A discapito dei coltivatori che si vedranno tagliati in due i loro terreni e di un turismo “lento” che, a detta di molti, è quello che caratterizza questi luoghi. La domanda prima è proprio su quale tipo di turismo si intende attrarre con la cementificazione che, ben sappiamo, è un male atavico del Salento. Negli anni ’60, quando l’opera venne concepita, c’era una diversa attenzione all’ambiente, era boom economico e arrivava in ogni casa la FIAT 600, oggi le cose sono mutate, prova ne siano l’attenzione per l’ambiente e per la natura che spingono un turismo avveduto e rispettoso a visitare i luoghi che hanno quello specifico valore aggiunto. E queste scelte eludono l’altro male colpevolmente voluto in tutto il Salento che è la mancanza di mezzi pubblici, di collegamenti fra entroterra e marine.
Nella richiesta di incontro urgente con l’Assessore regionale Barbanente, Alberto Vannetti del comitato NOASF scrive fra l’altro:
“…Come Ella saprà con raccolta di circa 2000 firme pari al 20% della popolazione del Comune di Cisternino, i cittadini si sono espressi a sostegno delle ragioni del comitato e contro una previsione stradale che prevede l’espianto di circa 1000 ulivi, alcuni secolari, oltre a fragni e lecci, e la distruzione di centinaia di metri di muretti a secco, assolutamente non ripristinabili per fattura e tipologia, nonostante le supposte previsioni di interventi di “compensazione ambientale”.
L’opera concepita nel 1963 appare superata ed inutile se si
considera la presenza di tracciati stradali alternativi per i quali non risulta “strategica”, ed abnorme nella sua concezione alla luce della visione del paesaggio maturata in oltre 50 anni di cultura del territorio, oltre che di uno sviluppo compatibile e sostenibile sul piano del turismo che lasci i luoghi inalterati in quanto risorsa. Senza considerare l’impegno di spesa di circa 4 milioni di euro (denaro pubblico), 370 mila dei quali per oneri di progettazione (la lezione del prof. Settis in merito ai conflitti di competenza potrebbe rivelarsi emblematica in questa vicenda, cfr Paesaggio, Costituzione, Cemento. Einaudi)…”.
Nel corso dell’assemblea di sabato 25, alla quale hanno partecipato gli avvocati Elda Pastore, Andrea Moreno e Luigi D’Ambrosio, sono stati evidenziati tutti i difetti del progetto, e ne sono stati proposti di alternativi, meno invasivi e soprattutto meno costosi, “il denaro risparmiato si potrebbe utilizzare per manutenzione ordinaria e straordinaria della viabilità di Cisternino e delle frazioni” ha detto l’ex consigliere comunale Arcangelo Palmisano.
Nell’attesa dell’inizio dell’assemblea abbiamo raccolto alcuni commenti sulla tenacia dell’Amministrazione Comunale nel voler procedere a testa bassa, PD, SEL, PSI uniti nella lotta. Le risposte sono state univoche: “non si vogliono perdere i quattro milioni già stanziati e questa amministrazione si vuole appuntare la medaglietta di primi della classe, ultimando un’opera che aspetta dagli anni ‘60”.
Poco veramente, soprattutto quando in giro per il Salento si vedono lottizzazioni selvagge, gruppi italiani e stranieri di ogni provenienza arrembare per acquisire terreni, ettari ed ettari, per cementificare. Succede in agro di Nardò, succede in altre parti. La scelta di tirare i remi in barca e concepire un’evoluzione del paesaggio meno invasiva e più etica forse potrebbe essere vincente. Il Salento è terra scelta da molti che da nord si sono trasferiti a vivere qui, non certo per vedere asfalto, piuttosto per sperare che un modo di vita più “lenta” sia possibile, che tornino a funzionare i trasporti pubblici inesistenti, che si faccia manutenzione ordinaria e straordinaria dei tratturi e delle stradine di campagna, che si lascino in pace alberi che da secoli segnano la differenza di queste terre da altri luoghi.
Pane, orzo e zucchero di Ninì Miglietta (Lupo editore)
Pane, orzo e zucchero è un ricordo ripescato dalla memoria, è il sapore di un passato, è l’infanzia in una terra costellata di ricette e canti popolari. È la storia di Ninì Miglietta, una donna che ci racconta il Salento degli anni ‘40, con le sue usanze, con le fatiche e la bellezza della vendemmia o con i preparativi della festa di San Martino. È il racconto della felicità in una famiglia benestante: i valori che si trovano nelle piccole cose di ogni giorno e che diventano grandi cose da tramandare, attraverso l’esercizio della memoria, come preziosi dosi inossidabili di ricchezza e semplicità. Gli eventi rievocati sono tutti accompagnati da arcane intonazioni gustose, elencate e messe insieme in interessanti pagine di ricette, che mettono ancora una volta in risalto uno degli aspetti caratterizzanti la cultura salentina: la grande tradizione gastronomica. In un accordo perfetto di sensi e memorie, l’autrice mescola usanze e sapori rivelandoci i segreti della sua cucina
Un’insigne figura salentina: don Vittorio Boccadamo, prete-scienziato, monsignore, uomo di cultura, probo, saggio e incline all’armonia
di Rocco Boccadamo
Lunedì 27 gennaio, a Marittima, Basso Salento, pareva fosse arrivata la “merla”, che, com’è noto, in questo periodo trovasi tradizionalmente di casa al Nord, raffigurata come portatrice delle temperature più basse dell’anno: cielo soleggiato, ma termometro oscillante, almeno di buon mattino, fra i tre e i quattro gradi.
Si è, però, trattato proprio di una meteora climatica, giacché il giorno successivo era contraddistinto da intensa pioggia e da un’atmosfera ovattata di grigio.
° ° °
Condizioni del tempo a parte, sul fronte del mio sentire (e volere), ha finalmente raggiunto la maturazione, il proposito di porre mano a penna, carta e computer per rievocare la figura di un preclaro personaggio del paese natio, il quale, da un bel pezzo, non c’è più e, tuttavia, la sua presenza si avverte idealmente ancora oggi: ciò, non soltanto grazie alla via pubblica che l’amministrazione comunale ha intitolato al suo nome.
Vittorio Boccadamo, classe 1918, appena un anno in meno rispetto a mia madre, uno dei quattro figli del maresciallo della Regia Marina Costantino – cugino in primo grado del mio nonno paterno, ma si consideri che il cognome è fra i più diffusi a Marittima – e della delicata e dolcissima Domenica (detta Mmimmi) Arseni.
Ovviamente, chi scrive, nato nel 1941, non ha potuto conoscerlo – e, tantomeno, quindi, ha agio di ricordarselo – con riferimento al periodo della sua fanciullezza e adolescenza, mentre, sin dai germogli dell’intendimento e della percezione, ha saputo che il personaggio compaesano aveva scelto di diventar prete, conseguendo in parallelo anche la laurea in Scienze Matematiche, e svolgeva funzioni d’insegnamento e educative nel Seminario Regionale di Molfetta
Le prime occasioni di vederlo di persona risalgono alle stagioni estive degli anni Cinquanta, quando il giovane sacerdote, in ferie ma sempre rigorosamente in abito talare, accompagnato di solito dalla sorella minore Bianca, la quale era ancora nubile e abitava insieme con i genitori a Marittima, scendeva, dal paese, al mare dell’anima dei marittimesi, l’incantevole insenatura Acquaviva, per prendere, così si diceva in quell’epoca, qualche bagno.
Rammenta, l’osservatore di strada in erba, le scherzose osservazioni rivolte da Bianca al fratello, mentre lo esortava a bagnarsi, perlomeno nella “rena dei ciucci”, vale a dire la prima parte d’acqua, bassissima, della rada, al fine di “scrostare, dagli arti inferiori, l’umidità della stagione invernale pregressa”, parole che non mancavano di suscitare ilarità.
° ° °
Don Vittorio denotava una profonda cultura generale e una radicata passione per la ricerca storica, in campo religioso e sociale, ricerca protesa, specialmente, alla riscoperta e alla valorizzazione del passato, con indirizzo sia alla località nativa di Marittima, sia all’archidiocesi di Otranto, al Salento e alla Puglia.
In aggiunta, si distingueva per il carattere eccezionalmente equilibrato, proteso in ogni situazione all’obiettivo dell’armonia, gli occhi e il volto impostati al sorriso, una parola buona e leggera per tutti, mai che mancasse la confidenza della sua ferma convinzione che, in fondo, componendo le cose, qualsiasi difficoltà potesse essere rimediata e superata.
Insomma, spiccata capacità di diffondere il sapere e, insieme, di praticare, per spirito d’altruismo e di servizio, l’arte della mediazione: sempre, con semplicità d’animo e di stile.
Intorno ai cinquant’anni, i genitori diventati anziani e rimasti soli dopo il matrimonio di Bianca, il religioso si convinse e determinò a far ritorno nella casa natia, al paesello. E, però, non se ne stette neppure un attimo in panciolle, non sentendosi, dentro, né in pensione né a riposo.
Agli inizi, si occupò, nel ruolo di rettore, del Santuario della Madonna di Pompei a Castro Marina, ponendosi alla guida spirituale del relativo piccolo nucleo di abitanti; in parallelo, prese a far su e giù dalla Curia di Otranto, intensificando la già ricordata e innata vocazione per le ricerche d’archivio, e, di riflesso, attese alla scrittura.
Numerosi i libri pubblicati, nell’arco temporale dal 1966 al 1995, su tematiche ruotanti, in prevalenza, sulla storia di comunità, paesi, siti e caratteristiche del Salento:
– Castrì sacra;
– Nella Contea di Castro – Diso, ricerche storiche;
– Guida di Castro. La città, il territorio, il mare e le grotte;
– Terra d’Otranto nel Cinquecento. La visita pastorale nell’archidiocesi di Otranto del 1522;
– Marittima. Ambiente e storia;
– Marittima ricorda il primo centenario del suo camposanto (1893-1993).
Dopo l’esperienza pastorale a Castro Marina, ottenne l’incarico di parroco nella natia Marittima, prendendo possesso della chiesa di San Vitale Martire dove era stato battezzato.
Qui, fra l’altro, Don Vittorio, volle introdurre, alla domenica dei mesi estivi, la consuetudine d’integrare le celebrazioni nelle chiese del paese con una Messa vespertina nei paraggi dell’ Acquaviva, precisamente all’interno della sua marina dell’Acquaviva.
Per chiesa, un pianoro di terra rossa, l’altare, allestito e posizionato ai piedi di un secolare albero di carrubo, la mitica “cornula”, giustappunto, della marina di don Vittorio, pianta che svetta anche adesso: viva, vegeta, verdeggiante, rigogliosa, quasi monumentale, come, per la milionesima volta, ho avuto il privilegio di ammirarla lunedì 27 gennaio, nella bellissima giornata fredda ma soleggiata. Per la verità, ho soffermato lo sguardo non solamente sulla “cornula”, ma anche sul mitico seno “Acquaviva”, sottostante a pochi metri di distanza, già antico sito delle abluzioni di don Vittorio.
Nel corrente periodo, la sua naturale solitudine, rende il luogo particolarmente pieno di fascino, toccante e penetrante.
Ritornando a don Vittorio, un sorriso per tutti, in taluni momenti, io ho l’impressione di vederlo ancora girare a bordo della sua Fiat 850 beige.
Oltre alle relazioni intrattenute durante tutto l’arco dell’anno con le più svariate categorie di persone, nei mesi estivi, alla marina, egli riceveva la visita di politici, uomini e donne importanti, scrittori e accademici, imprenditori, richiamati dalle sue doti intellettuali, abbinate alla particolare dolcezza di carattere, alla delicatezza nel tratto, alla grande capacità di equilibrio e saggezza: senza protocollo né cerimonie, il terrazzo della sua villetta diventava agorà per incontri fra amici.
Don Vittorio, proprio per il fatto che dava affidamento a tutti, anche a coloro che non la pensavano come lui, nel 1975, fu scelto per dirimere i differenti punti di vista dei maggiorenti delle comunità di Marittima, Diso e Castro, circa le attribuzioni territoriali all’atto dello scorporo, dal Comune di Diso, della frazione di Castro, che aveva chiesto e ottenuto l’autonomia amministrativa.
In pratica, egli disegnò i confini del feudo che, a suo parere, era equo assegnare alla località che andava ad assumere la veste di comune autonomo, riuscendo alla fine, con pazienza e fatica, a mettere tutti d’accordo. Fra i contrasti e le rivendicazioni nell’ambito di quella pratica, in particolare, i rappresentanti di Castro chiedevano che l’insenatura Acquaviva fosse conferita alla loro nuova realtà autonoma, ma don Vittorio li convinse a rinunciare a tale pretesa e il sito rimase di pertinenza di Marittima: quest’ultima particolare vicenda e l’esito ottenuto da don Vittorio, si potrebbe definire alla stregua di un vero e proprio gesto d’amore dell’uomo per il suo paese natale.
Durante la parentesi di parroco a Marittima, don Vittorio, a un certo punto, pensò di far realizzare una torre campanaria della chiesa matrice meno risicata e precaria di quella preesistente e, dovendosi spendere una somma non indifferente, chiese a ciascuna famiglia di partecipare con un’offerta a piacere.
Poi, per una serie di ragioni, il progetto non si potette condurre in porto, al che, il promotore, in assoluta trasparenza, non esitò a restituire ai fedeli i rispettivi contributi.
° ° °
Gli anni scorrevano anche per don Vittorio, gli anziani genitori Costantino e Mmimmi se n’erano andati e, nel 1964, appena quarantenne, era mancata pure la sorella Bianca, un po’ di acciacchi incominciarono a giungere anche in capo a lui, gli toccò sottoporsi a cure e, talora, a ricoveri in ospedale: ciononostante, il suo spirito e la sua gioviale figura si mantenevano però inalterati.
A migliore tutela della sua salute, don Vittorio, saltuariamente, prese anche a recarsi a Roma, dove si appoggiava presso la sorella Pippi e i diletti nipoti, ivi abitanti.
Proprio nella Capitale, ultima tappa della sua carriera lavorativa, lo scrivente ricevette una telefonata da parte di uno degli anzidetti nipoti: – Sai, Rocco, da un po’ di giorni abbiamo qui lo zio Vittorio, stavolta sembra combinato un po’ male, si trova ricoverato al “Sandro Pertini “ -.
Al che, divenne breve la sosta a tavola per il mio pranzo, sebbene ricorresse una grande festività.
E, giammai dimenticherò il primo pomeriggio di quella domenica soleggiata e tiepida, di corsa in macchina ad attraversare gran parte della Città Eterna per recare un saluto al mio compaesano, insolitamente, lungo il percorso, sembrava non ci fosse anima viva, sicché il viaggio si compì rapidissimo.
Raggiunto il nosocomio e il reparto indicatomi dal nipote, chiesi di essere accompagnato alla stanza del degente, ma, in quel momento, fui raggelato dallo sguardo dell’infermiere, che dapprima esitò a darmi una risposta e, poi, fece piano: “ Guardi che don Vittorio non è qui, è spirato da poche ore, le sue spoglie sono nella camera mortuaria”.
Non mi fu data la possibilità di vederlo, né di assistere, alcuni giorni dopo, alle sue esequie a Marittima.
Il calendario segnava 7 aprile 1996, Pasqua di Resurrezione.
Ciao, don Vittorio, insignito, nel 1988, del titolo onorifico di Prelato Domestico (ora, si dice Prelato d’Onore) di Sua Santità.
Tra i tanti incontri virtuali, da noi non espressamente cercati, che la rete consente di fare c’è anche quello con un parente passato a miglior vita, del quale ignoravamo pure l’esistenza. Questo post vuol essere il resoconto dell’esperienza che ho vissuto pochissimi giorni fa.
Non perdo tempo in ulteriori preamboli e dico subito che le immagini di testa riproducono i due lati di un disco in vinile contenente due registrazioni effettuate a Parigi il 17 marzo 1914 presso la Sorbona, della cui esistenza nulla avrei saputo se non l’avessi casualmente incontrato sul sito della Biblioteca Nazionale di Francia, che lo custodisce, all’indirizzo http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k1281832.r=lecce.langEN, dal quale sono tratte tutte le immagini.
Ecco le schede di catalogazione:
Il contenuto dei due lati può essere comodamente ascoltato, anche se il fruscio di fondo e ancor più i limiti tecnici della registrazione di allora lo rendono non integralmente intelligibile.
Il rigore scientifico del documento, comunque, già attestato dalla dicitura Université de Paris Archives de la parole, trova riscontro nella “indigenità” dei due lettori (Nicola e Maria nel primo brano, solo Maria nel secondo), come mostra il loro cognome (Cacudi). A Nardò il cognome Cacudi è presente e si tratta, fra l’altro, di miei parenti strettissimi e carissimi, cioè la moglie (Alfonsina Pintozzi) e i figli del dottor Alberto, indimenticato ed indimenticabile pediatra e uomo . Ma “zio” Alberto (cugino di mio padre in primo grado), che si era trasferito nei primi anni ’50 a Nardò, dove aveva assunto le funzioni di medico condotto, era nato a Torchiarolo (BR). Una rapida ricerca in rete mi ha mostrato che ancora oggi la diffusione di questo cognome è limitata all’Italia meridionale, con preponderante presenza in provincia di Brindisi. Mi si obietterà giustamente che il dato è poco attendibile perché probabilmente basato solo sulla titolarità delle utenze telefoniche fisse e non tiene conto, per i noti motivi di privacy, di quelle mobili.
Mi pare chiaro, però, che le voci emergenti dal vinile mostrano un accento leccese (come, d’altra parte, attestano i dati anagrafici dei due lettori e quanto dirò a proposito dei testi) e non brindisino, ma vorrei una conferma da chi ha nativamente più dimestichezza di me con questi due dialetti. Comunque, “zia” Alfonsina, alla quale ho chiesto subito informazioni, mi ha confermato l’esistenza a Monteroni di un ramo dei Cacudi, nonché l’appartenenza ad esso di Nicola, grazie alla totale coincidenza con i dettagli più significativi della sua figura che fra poco esporrò.
Il lettore troverà in coda quel che sono riuscito a trascrivere dei due testi [Dialogue sur les superstitiones (Dialogo sulle superstizioni) e Un jeune homme malade d’amour (Un giovanotto malato d’amore)] ma sarebbe bello se qualcuno, dopo l’ascolto, riuscisse ad integrare le lacune superstiti del secondo e se potesse emergere, suffragato con prove concrete, qualcosa in più di Nicola e Maria, di questi due lettori di un nostro dialetto, ai loro tempi molto probabilmente più conosciuti in Francia che in Italia. Ma si sa: nemo propheta in patria …
E, per Nicola, lo conferma, almeno parzialmente, quanto ho trovato in Michele Cifarelli, Libertà vo’ cercando … Diari 1934-1938, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004, pagg. 335-336: NICOLA CACUDI, (Monteroni di Lecce 26/6/1882 – Bari 8/7/1963). Dopo studi medi e superiori irregolari a Torino, a Napoli, a Lecc e e soprattutto a Parigi, si laurea a Besançon. Docente presso un istituto superiore a Rimini; a Bari per 20 anni insegnò lingua francese presso il ginnasio-liceo “Q. Orazio Flacco”, dove, attraverso il suo testo in cinque volumi, “Nuovo metodo della lingua francese” (una precoce applicazione di “metodo globale” per grammatica e sintassi, seguita dall’antologia letteraria “Dalla Gallia alla Francia contemporanea”) iniziava un’intera generazione di studenti ginnasiali alla conoscenza scritta e parlata della lingua francese ed anche della relativa letteratura. Storico e critico letterario con produzione scientifica, fecondo traduttore, fondò un periodico: “La rassegna di studi francesi”. L’Università di Bari lo chiamò presso la facoltà di scienze economiche e commerciali e presso quella di Lettere, la Repubblica francese gli conferì la Commenda della Legion d’onore.
Per chi volesse avere gli estremi bibliografici delle opere di Nicola i cui titoli son riuscito a reperire ho predisposto un’apposita nota.1
E Maria? Nonostante essa sia, in base alla scheda, meno titolata del partner (quasi sicuramente moglie, altrimenti sul disco non avremmo letto la dicitura Mr. &. M.me CACUDI), quest’ultimo nel secondo brano funge quasi da spalla e il suo razionale e sarcastico Ddaveru? sembra perdersi di fronte al Sicuru! della sua interlocutrice, che funge da sigillo a questa piccola perla, dopo che la donna si è pure concesso il lusso di usare nella sua penultima battuta l’interiezione emblema dello scetticismo di Nicola. Maria, poi, è l’unica lettrice del secondo brano ma, non avendo trovato io sulla sua figura nulla di nulla, per non essere accusato di maschilismo da chi non dovesse credere nella mia sincerità, debbo, almeno per ora, adattare al femminile (astoricamente, perché la profezia poteva essere appannaggio di una donna solo nel mondo pagano … ) il detto evangelico prima citato in foeminarum nulla fatidica in patria.
Il titolo originale della poesia (che fa parte della raccolta Puesei a lingua leccese, Stamparia de la Intendenza, Lecce, 1832, volume dal quale ho riprodotto di seguito la pagina che la riporta corredandola a fronte della mia versione in italiano corrente e di alcune note di carattere filologico) è A nu giovane ci aia demmazzutu pe l’Amore (Ad un giovane che era dimagrito per amore).
Rispetto al testo originale la lettrice, che probabilmente si muove a memoria, si consente le variazioni di seguito elencate (in rosso con l’indicazione numerica del verso) che in due casi, però, comportano il venir meno della rima: stria/tie; ngrassi/spassu; questo dettaglio mi fa pensare che Maria non fosse letterariamente attrezzata quanto Nicola e che quest’ultimo abbia riservato scarsa attenzione alla preparazione, esecuzione, registrazione e controllo della lettura di questo brano.
1 ieu/ah, u
2 ahi/a, u
6 strie/stria
7 ca pe certu/ma se pigghi
9 e 12 tu/tie
11 spassi/spassu
13 de/tra; e murendu/e se mueri
14 ci te a minanu/ci te prècanu
20 nce cadutu/ha ccatutu
Se, dunque, per il lato B il testo è di origine letteraria, per quello del lato A sospetto che sia, più che un brano estrapolato da qualche commedia in vernacolo, una creazione di Nicola: non credo, infatti che sia una coincidenza il fatto che i due interlocutori rispondono ai nomi di Maria e Nicolino.
Termina qui questo viaggio nella memoria, del quale vi avrei reso partecipi, perché travalica la sfera personale, anche se Nicola e Maria non fossero stati miei parenti, anche se avessi dovuto scoprire che questi due salentini in Francia anziché farci onore avevano anticipato le gesta di Bonnie e Clyde in America …
___________
1
Alfred de Musset e I suoi canti di dolore. Saggio critico, Tipografia A. Trani, Napoli, 1905
La revolution au pensionnat : piece en un acte pour les enfants, Paravia, Torino, 1906
La quistione del metodo nell’insegnamento delle lingue moderne, Paravia, Torino e A. Trani, Napoli, 1906
La coniugazione dei verbi francesi : Studio analitico per le scuole medie, con l’aggiunta di un dizionarietto dei verbi irregolari, Paravia, Torino e M. Muca, Napoli, 1907
Psychologie de deux ames (W. Goethe et H. Foscolo), Paravia, Torino e E. Pantaleo & C., Torre del Greco, 1910
Le verbe francais dans la proposition et la periode, a l’usage des ecoles superieures d’Italie, Paravia, Torino e E. Pantaleo & C., Torre del Greco, 1910
Impressions de lecture, Tipografia E. Capelli, Rimini, 1913
Alphonse Marie Louis de Lamartine, Graziella (introduzione e note), F. Le Monnier, Firenze, 1924 e 1931
Molière, L’avaro (traduzione integrale, introduzione, note, analisi, biografia), Le Monnier, Firenze, 1926 e 1927
Gabriel Faure, Ore d’Italia (traduzione), SET, Bari, 1928
Il nuovo progetto italo-francese di Codice delle obbligazioni e dei contratti : testo definitivo approvato a Parigi nell’ottobre 1927, anno VI, Società Editrice Tipografica, Bari, 1930
Spunti letterari, Società Editrice Tipografica, Bari, 1931
Alphonse Marie Louis de Lamartine, Graziella (introduzione e note), F. Le Monnier, Firenze, 1924 e 1931
Gabriel Faure, La bella estate (introduzione e traduzione), Società Editrice Tipografica, Bari , 1932
Gabriel Faure, Società Editrice Tipografica, Bari, 1933
Gabriel Faure, Autunno (introduzione e traduzione), Società Editrice Tipografica, Bari, 1935
Sulle orme di Gabriel Faure, Società Editrice Tipografica, Bari, 1935
Nuovo metodo di lingua francese. Testo unico per le scuole medie, Società Editrice Tipografica, Bari, 1935 (questo testo ebbe diverse edizioni, l’ultima nel 1964 a Bari per i tipi di Resta)
Alexandre Dumas, Les idées de M.me Aubray: comédie en quatre actes, en prose (presentazione), Adriatica, Bari, 1949
Gabriel Faure, leggendo e annotando, Tipografia A. Cressati, Bari, 1950
È noto che il fenomeno del Grand tour (viaggio culturale nell’Europa continentale fatto da chi poteva permetterselo), che iniziò dal XVII secolo per raggiungere il suo acme nel successivo e scemare progressivamente nel XIX, aveva come tappa canonica, per lo più conclusiva, l’Italia. Di parecchi di questi viaggi abbiamo il resoconto in forma più o meno diaristica. Qui leggeremo di quello di Henry Swinburne alcuni stralci riguardanti la nostra terra, tratti da Travels in the Two Sicilies by Henry Swinburne in the Years 1777, 1778, and 1779, P. Esmsly, London, 1783, t. 1, passim, con la mia traduzione a fronte1.
Dal giudizio impietoso dell’inglese si salvano Gallipoli e Taranto (parzialmente, come vedremo, Brindisi), ma solo per la loro importanza economica (tanto per cambiare …). In particolare: per Gallipoli (pagg. 368-375) tutta l’attenzione viene dedicata alla produzione ed al commercio dell’olio e alla figura di Giovanni Presta e, delle quattro tavole relative alla Terra d’Otranto, due sono dedicate a Taranto (tra le pagine 226-227 e 334-335) e due a Brindisi (tra le pagine 384-385 e 396-397).
E ora becchiamoci quanto segue!
OTRANTO, pagg. 376-377
BRINDISI, pagg. 383-384
Meno male che il nostro viaggiatore si associa poi (non riporto il brano per brevità) al giudizio unanimemente più che positivo sul porto di questa città.
LECCE, pag. 380
pagg. 381-382
Purtroppo non so leggere la musica e, a beneficio del volenteroso lettore che volesse aiutarci a conoscere sonoramente il motivo (basta che sia in grado di farlo; ce lo dica e io gli fornirò le istruzioni per rendere tutti partecipi del suo prezioso contributo), di seguito riproduco ingrandito lo spartito.
Come se non bastasse, bisogna dire che il giudizio poco lusinghiero di questo viaggiatore sull’architettura leccese, e non solo, non fu isolato. Esso sembra quasi la fotocopia leggermente edulcorata di uno precedente espresso qualche anno prima, questa volta da un tedesco, da Johann Hermann von Riedesel in Reise durch Sicilien und Grossgriechenland, Drell, Gesner, Füesslin und Comp., Zurigo, 1771, pagg. 226-230.
…….
Concludo sconsolatamente chiedendomi cosa scriverebbe oggi (forse l’ha già scritto e io non l’ho letto …) ancor più sfortunatamente per noi e di noi il turista straniero medio, fortunatamente più acculturato di quello appartenente al turismo pur elitario di cui abbiamo visto una testimonianza e giustamente scandalizzato dal livello di degrado, abbandono e ridicolo rispetto in cui versa il nostro patrimonio culturale.
In attesa che qualcosa succeda riconosco, con lo spartito ancora sotto gli occhi, di essere anch’io un po’ (?) ignorante, proprio come il nostro viaggiatore inglese di oggi che avevo accusato della stessa colpa …
_______
1 Il volume originale e quello del tedesco di cui dirò dopo (dai due ho tratto tutte le immagini) sono leggibili e scaricabili, rispettivamente, da
E’ una cittadina di quarantamila abitanti che d’estate tocca i centomila, mica un paese di tremila anime. Trenta chilometri di costa, uno dei territori più vasti d’Italia. Che si spegne piano piano. Come tante altre, per carità, e in tutta Europa. Lo scriveva anche Bruno Manini di Piacenza. Ma qua oltre a quelle dei locali si stanno via via spegnendo le luci delle vetrine dei grandi negozi storici.
Le molte piazze sono buie, semplicemente. Come dappertutto, sale per il gioco d’azzardo e compro-oro malinconici spuntano a dire che la festa è finita -ma ho l’impressione che neppure loro facciano grandi affari. I begli empori di scarpe e vestiti di qualità sono letteralmente deserti, saldi o non saldi. I locali commerciali rimasti vuoti non espongono “si affitta”, bensì “si vende”. E si vendono case, dappertutto: si prova a farlo, almeno. Perfino gli hard discount hanno i parcheggi quasi sempre liberi. Giri per i viali e hai la sensazione di passeggiare per un qualsiasi Lido Sabbiadoro d’inverno.
Che nessuno si sogni di dire che è colpa delle troppe tasse: sarebbe riduttivo, consolatorio.
O magari si starà avverando quel che fricchettoni e pauperisti d’ogni risma fanno finta di auspicare: che la gente si fa il pane in casa e si cuce i vestiti da sé. Potrebbe darsi anche questo.
Chi ha, oltre ad una certa età, pure dimestichezza con la lettura di un libro saprà sicuramente cos’è il segnalibro, accessorio in passato immancabile e inserito nel corpo stesso del volume. La sua presenza col tempo divenne sempre più rara e al lettore non restò che rimediare con una striscia di carta destinata a segnalare, per lo più, la pagina alla quale la lettura si era fermata e dalla quale sarebbe stata ripresa. Non era raro, però, vedere intercalati tra le pagine più segnalibri di tal fatta ad evidenziare i passi che il lettore aveva giudicato più interessanti ed a facilitare il loro eventuale approfondimento. Come non ricordare le sottolineature che per gli studenti di un tempo (parlo di me …) più che dettate dalla voglia di mettere in risalto visivamente i punti cruciali erano inspirate dall’inconscio piacere di passare in rassegna (anzi fare fuori) il testo con delle linee che assumevano la funzione di altrettante coltellate (come se, sottolineando il testo mentre lo si leggeva, potessimo comprenderlo e memorizzarne l’essenza). E poi c’erano le note personali che, faccio un esempio, per il latino e il greco consistevano nella traduzione dislocata in punti strategici (non potendo essere interlineare perché anche ad uno sguardo superficiale l’insegnante se ne sarebbe accorto, era posta in testa o in calce alla pagine; quanti di noi hanno rischiato lo strabismo!). I libri di oggi non recano i segni di un profondo vissuto che non sia, tutt’al più, qualche macchia di caffè e in particolare i testi di latino e greco recano in calce la traduzione integrale, per cui lo studente si limiterà a sottolinearla ed a leggerla …1
Siccome, poi, al peggio non c’è mai limite, ecco l’alibi della tecnologia confusa con la moda e con il profitto (è legittimo che quest’ultimo ci sia, ma non ha il diritto di costruire nuovi bisogni per l’Umanità, che già ne ha tanti e autentici per conto suo): ho dato la mia definizione del libro elettronico, l’e-book introdotto ufficialmente nella scuola italiana dove, quando si tratta di indirizzi non scientifici, i laboratori di informatica sono usati, bene che vada, per partorire le solite stucchevoli presentazioni in PowerPoint, magari come saggio di fine anno, tra gli applausi generali e la convinzione fasulla che l’uso del pc ha raggiunto lì l’acme della sua versatilità.
Perderemo inevitabilmente il fruscio-musica delle pagine sfogliate, il piacere fisico del loro contatto, la stessa voglia di lasciare la traccia del nostro passaggio con una sottolineatura, un’”orecchietta”, una nota?
E, perduta questa possibilità, saremo attrezzati a cogliere il fascino che emana da un libro antico ed a capirne, nei limiti del possibile, il perché? E, nel caso in cui da esso emerga qualcosa di estraneo o di strano, saremo capaci di un’analisi che sia degna di questo nome?
Il lettore da tempo si starà chiedendo: – Ma questo dove vuole andare a parare? -. Chiedo scusa per il preambolo, comunque indispensabile anche in questa seconda parte, ed entro subito in argomento.
Non è raro trovare nei libri (e non solo) antichi, insieme con sottolineature e note, elementi del tutto estranei, per esempio una poesia vergata in una delle pagine bianche finali. Della cosa mi sono occupato già in più occasioni2 . Oggi, però, il fenomeno è particolarmente intrigante, soprattutto per i lati oscuri destinati forse, a meno che qualcuno non mi venga in soccorso, a restare tali.
Si tratta di un sonetto vergato, con mano diversa da quella del resto, nel foglio 41r di un’edizione manoscritta dei Trionfi del Petrarca, che passò per le mani di Angilberto Del Balzo, primo duca di Nardò, come ho anticipato nella prima parte3.
Trascrizione prosastica:
Al primo motore (cioè Dio) piacque mandar giù sulla terra un astro più splendente di Apollo (antonomasia per sole), vedendo il mondo patire un gran disastro ed esser spento ogni splendore di luce.
Ohimè, ohimè, dolcissimo Signore, perché il sole molto si grava tuttodi nastro (cioè è costretto a bendarsi). Meraviglioso come il primo Maestro pose in una ninfa tanto grande splendore.
Colei è questa e fa ferme le fonti e immobili i venti, spostare i monti scoprendo col parlare quei nivei denti.
Questa col sorriso rompe porte e ponti, seconda Saba ma molto più bella, degna di principi reali e gran conti. Ma è giusto che si adonti, che io debba quell’ingrato e rigido canto nuziale (come) rovo [di cui rogo è variante toscana] ad uno (che è) per la sposa un fauno [oppure (considerando rogo verbo e deo sostantivo, apposizione di fauno): prego quell’ingrato e rigido canto nuziale per uno (che è)per la sposa dio fauno.
Metrica: si tratta di un sonetto caudato o sonettessa: alla terzina finale segue un settenario in rima col suo ultimo verso (conti/adonti) e poi un distico a rima baciata (imineo/deo).
Rientra senza dubbio nei canoni della poesia celebrativa del XV secolo con ricalchi ben dissimulati, come credo di aver documentato nelle note, da Dante, Boccaccio e, soprattutto, Petrarca.
Purtroppo, però, né a noi né a chi verrà dopo di noi saranno note le circostanze della sua scrittura, anche se gli ultimi tre versi, oggetto per me, come appare evidente, di un tormentoso tentativo d’interpretazione, farebbero pensare ad un matrimonio “forzato” o all’invidia di un innamorato respinto; ancora meno sarà noto il nome dell’autore, forse …
___________
1 E l’insegnante? Per come è la situazione attuale forse sarà soddisfatto dalla sola lettura corretta… Io, invece, andrei oltre, chiederei al ragazzo la traduzione alla lettera, visto che quella in nota di regola è libera. Sarebbe troppo lungo spiegarlo, ma voglio far notare come solo la traduzione letterale può far comprendere la struttura di una lingua e in essa la pregnanza di ogni singolo vocabolo; ne consegue che è impossibile cogliere in traduzione la profondità del messaggio se essa prescinde dalla perfetta conoscenza della lingua di partenza e di ogni sua sfumatura espressiva (che si conosca quella di arrivo, nel nostro caso l’italiano, è scontato ma succede sempre più raramente …). Il quadro che ne emerge è desolante ma temo che corrisponda alla realtà.
Di seguito una sintetica descrizione del volume, con l’ausilio di alcune immagini. Comincio con la prima di copertina, col dorso, con la seconda di copertina e col taglio.
Nel retto della pagina di guardia compare la nota di possesso: conte de ducente …
… e dopo due fogli bianchi
prima linea: Italian; seconda linea: Les triomphes de Petrarque poete Tuscan
Di seguito l’incipit (visibile in calce il timbro della Biblioteca regia)
4 Primo motore o motore immobile nella Metafisica di Aristotele è la causa prima di ogni trasformazione. Questa idea verrà adottata poi dal pensiero cristiano e troverà la sua consacrazione poetica ne L’amor che move il sole e l’altre stelle dantesco (Paradiso, XXXIII, 145). Tra gli esempi successivi e coevi almeno al manoscritto, cioè alla seconda metà del secolo XV: Se quel primo Motor che ognuno adora (Luigi Pulci, Morgante, canto XXV, ottava 148, verso 3); Perché il primo Motor tanto l’apprezza (Bernardo di Piero Cambini, Poesie, XV, v. 10);
5 Il simbolo principale di Apollo era il sole.
6 L’anastrofe qui è un vezzo stilistico non dettato da esigenze metriche. Se, infatti, la sequenza fosse stata quella normale (et di lume esser spento ogni splendore) il verso sarebbe stato sempre un endecasillabo. Si potrebbe pure interpretare di lume come seconda parte di enjembement ma in questo caso disastro di lume non sarebbe una grande immagine.
7 Tanto o me che ome equivalgono all’odierno ohimè. Nella letteratura del XV secolo è ampiamente attestato omè: Omè, Lazero mio, tutto ‘l mio core (Anonimo, La rappresentazione quando Gesù resuscitò Lazero); Giovanni Gherardi, Poesie, passim; Benedetto Biffoli, Poesie, passim; etc. etc.
8 Avevo letto inizialmente cur e in questa nota avevo scritto: “Parola di difficile lettura, almeno per me. Il primo e il terzo grafema non trovano riscontro nel resto del testo ma sicuramente, per ragioni metriche, la parola consta di una sola sillaba. Il senso in generale, comunque, credo che sia chiaro: il sole impallidisce in confronto allo splendore della donna. Il sole come metafora femminile (anche esasperata, per cui la luce della donna supera quella dell’astro) è ricorrente nel Petrarca (mi limito ai versi più noti): così costei ch’è tra le donne un sole …; s‘ella riman fra ‘l terzo lume e Marte,/fia la vista del sole scolorita,/poi ch’a mirar sua bellezza infinita l’anime degne intorno a lei fien sparte; uno spirto celeste, un vivo sole/fu quel ch’io vidi …; Una donna piú bella assai che ‘l sole (Canzoniere, IX, 10; XXXI, 5-8; XXXVII, 81-82; XC, 12-13).
Il grava mi ricorda di DanteMa come al sol che nostra vista grava,/ e per soverchio sua figura vela (Purgatorio, XVII, 52-53) e, per il concetto, di Petrarcae ‘l sol vagheggio sí ch’elli à già spento/col suo splendor la mia vertú visiva (Canzoniere, CCXII, 5-6)”.
Ma il troppo benevolo commento dell’amico Sergio Notario mi ha illuminato e una rapida ricerca mi ha fatto scoprire che tuz col significato di tutto/tutti (dunque forma unica corrispondente agli attuali tout e tous) è voce anglo-normanna molto ricorrente; un solo esempio per tutti: il poema, appunto, anglo-normanno del XII secolo Charlemagne pubblicato da Francisque Michel a Londra per i tipi di Pickering nel 1836.
9 Petrarca, Canzoniere, LXX, 42-43: Tutte le cose di che ‘l mondo è adorno uscir buone de man del mastro eterno. La locuzione primo Mastro è in: Jacopo Bonfadio (1508-1550), Lettere famigliari, VIII, 25: Il primo mastro de le cose belle. Torquato Tasso, Le sette giornate del mondo creato. Prima giornata, v. 96: la qual creata fu dal primo Mastro. Per i probabili riferimenti al Bonfadio e al Tasso vale quanto sarà detto per quest’ultimo in nota 12.
10 Pose. Puosse (come prima persona singolare, ma la terza non dovrebbe cambiare) è attestato nel dialetto napoletano ne La ghirlanda di Silvio Fiorillo, atto V, scena settima, v. 56: Me puosse à fa no chianto sconzolato.
11 Spagnolismo che non so spiegarmi.
12 Petrarca (XIV secolo), Canzoniere, CLVI, 5-8: e vidi lagrimar que’ duo bei lumi/ch’ àn fatto mille volte invidia al sole,/e udí’ sospirando dir parole/che farian gire i monti e stare i fiumi; Torquato Tasso (1544-1595), Gerusalemme liberata, canto II, ottava 84, vv. 1-4: Questa fa piani i monti, e i fiumi asciutti,/ l’ardor toglie alla state, al verno il ghiaccio,/placa del mar i tempestosi flutti,/stringe e rallenta questa ai venti il laccio. Per motivi cronologici, comunque, non può il nostro anonimo essersi ispirato al Tasso, a meno che la poesia non sia stata scritta molti decenni dopo la morte di Angilberto, quando il proprietario del libro era cambiato da tempo.
13 Questa immagine di potenza militaresca evoca più un carro armato ante litteram che una donna, sia pure dal carattere forte. E, se sfondare una porta significa stabilire un contatto e potrebbe contenere un’allusione al successivo paragone con la regina di Saba (promotrice di un incontro tra culture diverse), lo stesso non può dirsi della distruzione di un ponte.
14 La mitica regina di Saba viene citata nella Bibbia come una sovrana ricchissima che fece visita a Salomone per saggiarne la saggezza (nonostante l’affinità fonetica, saggiare la saggezza non costituisce figura etimologica perché saggiare deriva dal saggio1 che è dal latino tardo exàgium=peso, a sua volta dal classico exìgere nel significato di misurare; saggezza, invece, deriva da saggio2, che è dal francese sage, da un latino *sàpius e questo dal classico sàpere=sapere).
15 L’imeneo o imene1 è dal latino Hymenaeu(m), che è dal greco ͭΥμέναιος=Imeneo (una divinità), a sua volta da ͭΥμήν=canto nuziale, poi dio delle nozze invocato nei canti nuziali; Υμήν è connesso con ὕμνος=canto. C’è però, in greco l’omografo ὑμήν=membrana che ha dato vita, invece ad imene2. Quindi tra il concetto di canto (connesso con imene1 e quello di verginità connesso con imene2 non ci dovrebbe essere rapporto; ho usato il condizionale perché ὑμήν (membrana) si ricollega al sanscrito syuman=legame, la cui radice è presente nel latino sùere=cucire ma anche il canto concettualmente può essere considerato come una cucitura di pezzi.
La variante imineo appare già più volte nel Filocolo (1336-1339), nel Teseida (1339-1340) del Boccaccio e in altri autori di epoca successiva.
16 In Italia medioevale e umanistica v. VI, Antenore, Padova, pag. 342, nota 3, in cui è riportato parzialmente il testo, senza alcun commento e tanto meno interpretazione, la lettura proposta è fanno, non condivisibile assolutamente perché da un confronto grafico con le altre n emerge chiaramente che la prima presunta n è senz’ombra di dubbio una u. Ricordo che il fauno era un’antica divinità italica raffigurata con corna, piedi di capra e orecchie appuntite. Se la mia lettura è esatta è da cogliervi una contrapposizione tra la sposa (la bella) e lo sposo (la bestia).
“E’ in arrivo un bastimento carico di A” era un giochino che mi facevo mia nonna quando imparavo i nomi delle cose. A seconda delle lettere che metteva al posto della A immaginavo meraviglie: Trenini, Macchinine, Palle, Cioccolato…
L’incanto è finito, ora lo faccio io il giochino, quel carico di A sbarcherà, pare, nel porto di Gallipoli. Amianto siciliano DOC. E dire che sembra che possa essere così sono le diverse versioni che, in un altro giochetto tipicamente italico, si chiama rimpallo di palle. La ditta R.E.I. s.r.l., titolare della discarica in contrada Castellino in agro di Galatone, dovrebbe incassare dalle 25.000 tonnellate, almeno sei milioni e 250 mila euro, fatto 0,65 euro al Kg. Un bel business per una s.r.l. che ha chiesto ed ottenuto il permesso di trattare rifiuti inerti dal 2009 e dell’amianto dal 2011. Fatto salvo però il veleno che arriva da regioni terze.
Forse per questo l’azienda si affretta a dire che non si tratta di 25.000 tonnellate, piuttosto di 5.000 sole di terriccio proveniente da una bonifica ambientale e contente inezie di tracce di amianto, frammenti. Roba da archeologi insomma che fra 50.000 troveranno dei frammenti. Ora, non per fare i pignoli, però se questo “terriccio” non può essere utilizzato per invasare gerani e arriva da una bonifica, non si potrebbe vagamente ipotizzare che proprio sano sano non è?
Dalla Capitaneria di porto di Gallipoli fanno sapere che al momento hanno solo una richiesta non formale di attracco. E’ ipotizzabile che una nave da carico possa chiedere un attracco senza citare il tipo di materiale trasportato? E ancora, da 25.000 a 5.000 tonnellate il salto è un pochettino alto, a pensare male si fa peccato però a volte si azzecca, diceva un noto politico fra un bacio a Riina e una sosta a palazzo Chigi.
E ancora, se la ditta R.E.I. non può smaltire materiale proveniente da altre regioni, perchè lo fa? Misteri da chiarire. L’unica certezza pare che da quando la camorra è sotto osservazione, il Salento sia terra ambita da “turisti” di ogni risma.
Le prime elezioni amministrative dell’Italia repubblicana a Spongano attraverso alcuni componimenti in vernacolo
di Giuseppe Corvaglia
Spongano, come altri paesini, vede periodicamente comparire mediante affissione, volantinaggio, corrispondenza o altre forme di pubblicazione, componimenti anonimi in dialetto o in italiano simili alle “Pasquinate” ma dette qui “Cacagnule”* da una serie di tali componimenti uscita negli anni ’80. Essi erano e sono ispirati a fatti politici o di costume d’interesse prettamente locale, esprimono opinioni personali o denunce e sogliono uscire, per lo più in concomitanza con elezioni amministrative comunali.
Ve ne proponiamo alcuni usciti nel 1946 in occasione delle prime elezioni amministrative della Repubblica scelti sia per la finezza e l’arguzia di qualcuno di essi sia per cercare, attraverso i medesimi, di comprendere il clima di quell’epoca.
Terminata la seconda guerra mondiale si rese necessario un ricambio della classe dirigente.
Si respirava un’aria nuova e con essa s’intravedeva anche la possibilità di operare dei cambiamenti nella società. Strumenti per fare ciò erano il suffragio universale (con il diritto di voto esteso, per la prima volta, anche alle donne, istituito dalla Consulta nel febbraio 1946) e la libertà di votare per più liste fino a quel momento soffocata dal fascismo.
Molti rappresentanti di spicco delle diverse classi sociali ritennero importante scendere in campo sia per contribuire direttamente alle scelte che avrebbero portato al rinnovamento della nazione sia perché, finalmente, si poteva operare nell’ambito della cosa pubblica senza compromettersi con un regime che aveva mostrato a pieno la sua faccia crudele e opprimente.
Bisognava voltare pagina.
Come dice F. Barbagallo nel suo libro “Dal 43 al 48- La formazione dell’Italia democratica” “… C’era da ricostruire uno Stato e una società e prima ancora bisognava ridefinire i fondamenti etici e culturali della convivenza civile, della comunità nazionale. Un tale processo, come tutte le vicende storiche, non si sviluppa in asettici laboratori o in isolati circoli intellettuali; ma si svolge sul terreno aspro del confronto e del contrasto fra i diversi ideali, progetti, interessi, speranze. E’ questo un periodo molto ricco proprio perché fondativo di un nuovo ordinamento politico e sociale preparatorio di rinnovati valori morali, espressioni e comportamenti culturali.”
Anche Spongano divenne laboratorio e molti cittadini si sentirono di dover partecipare a quest’atto costitutivo della società e dello Stato che andavano rinnovandosi.
Le elezioni che si svolsero nella primavera del 1946, nonostante in molte città si sarebbe votato in autunno, furono importanti per verificare l’effettiva rappresentatività dei partiti politici che fino a quel momento erano stati rappresentati pariteticamente nel Comitato di Liberazione Nazionale oppure erano restati fuori dal governo come il Partito Repubblicano e il Partito dell’uomo qualunque.
Nel marzo del 1946 si tennero a Spongano le prime elezioni del dopoguerra.
Così come in tutta Italia, anche a Spongano si presentò la Democrazia Cristiana proponendosi quale alternativa popolare sia alle destre sia alle sinistre, ma non fu considerata con grande benevolenza dalla ricca borghesia e dall’aristocrazia che a Spongano, durante il ventennio fascista, aveva espresso la classe dirigente.
Si può dire, tuttavia, che non faticò a raccogliere consensi grazie all’appoggio della Chiesa che si rese concreto in una propaganda capillare e di sicuro effetto su gran parte della popolazione. Oltre all’opera diretta del Clero fu importantissima l’attività dell’Azione Cattolica.
Non si trattava ancora della campagna anticomunista messa in atto nel 1948 quanto piuttosto di una propaganda volta a conseguire un obiettivo comune con le sinistre che era quello di evitare che i fascisti riprendessero le leve del potere, magari riciclandosi. Già si cominciava a intravedere quello che diventò poi il motivo ricorrente della propaganda democristiana caratterizzata da antifascismo e da anticomunismo e che utilizzerà a scopi elettorali immagini terrificanti e vistosamente esagerate.
Non si presentò a Spongano nella tornata elettorale del 1946 una lista di sinistra così come non furono aperte sezioni del PCI o del PSIUP. C’era qualche elettore o qualche giovane che faceva propaganda ma senza effetti significativi.
A Spongano la DC nello scegliere i candidati evitò accuratamente e, direi scientificamente, rappresentanti dei grandi proprietari terrieri. L’unico di questi a figurare nella lista, Pantaleo Alemanno detto Terno, non era sicuramente tra i più rappresentativi della classe.
Nella stessa lista si candidarono pure l’insegnante Antonio Alemanno, fra l’altro il più votato con 765 voti, Salvatore Monti, che nel 1949 diventerà Sindaco dopo la morte di Pantaleo Alemanno, Donato Montagna, piccolo commerciante che era considerato all’epoca per essere stato, con successo, più volte priore della festa di S.Antonio, o Luigi Spagnolo detto Scicchi, uomo molto stimato fra la gente e gestore di un negozio di generi alimentari che di sera diventava luogo di ritrovo, e poi ancora artigiani, commercianti e contadini. In questo modo la DC si presentò come il partito del popolo, quello che voleva e poteva contrastare il potere della classe padronale.
E’ difficile, per qualcuno, pensare alla DC come partito popolare specie per chi ha conosciuto la stessa come partito di potere e di governo tuttavia in quell’occasione la popolazione sponganese, al di là della pressione clericale che pure era notevole, in mancanza d’altri partiti d’estrazione popolare, ritenne la D.C. uno dei partiti più affidabili per la tutela dei propri interessi.
All’epoca, infatti, i grandi possidenti e in particolare i baroni Bacile di Castiglione decidevano tutto: dal prezzo delle derrate alla paga giornaliera dei braccianti e grande era il desiderio che ci fossero regole giuste applicabili a prescindere dalla volontà dei padroni. Non è che la popolazione fosse propriamente oppressa da tutta la classe padronale anzi bisogna dire che, nel complesso, ad essa derivavano buoni vantaggi dal fatto che, oltre a un grande proprietario terriero, a Spongano ce ne fossero anche altri sebbene non tutti campioni di correttezza. In quegli anni, infatti, la manovalanza per il lavoro nei campi poteva essere reclutata a Spongano anche per lavori nei feudi degli altri paesi e questo faceva sì che la maggior parte degli sponganesi avesse di che lavorare.
Ancora oggi, poi, si tramanda generalmente un buon ricordo della famiglia Bacile in special modo di Domenico, don Mimmi, e della moglie, donna Johanna Grossmayer, donn’Hansa, che in tempi veramente difficili seppero aiutare alla bisogna i più poveri. Per non parlare poi di Filippo uomo poliedrico che, oltre a studiare metodi per il rimodernamento della produzione dell’olio, prestò la sua opera indefessa perché Spongano avesse il privilegio di fruire della ferrovia e, ancora, di altri membri della famiglia da Monsignor Gaetano fino a Fabio ai nostri giorni.
Ma al di là delle simpatie e del dovuto rispetto, c’era una voglia di libertà, di affrancarsi, di camminare da soli soprattutto dopo esperienze tragiche, dolorose e devastanti come la guerra e la dittatura.
Alla D.C. si opposero tre liste: una di ex combattenti e reduci di guerra, spesso nostalgici del vecchio regime, una lista civica guidata da Donato Stasi, di ispirazione conservatrice, rappresentata da un orologio e un’altra lista contrassegnata da una spiga di grano guidata da Giovanni Bacile.
Fu questa lista la vera antagonista della D.C. e raccolse gli esponenti della borghesia e della nobiltà sponganese nonché altre persone di popolo che, contrarie all’avvento della sinistra o di un partito controllato dalla Chiesa, vedevano un rischio e un pericolo di asservimento ancora più grande che quello creato dal manganello e dall’olio di ricino nell’opera di persuasione svolta dal parroco e da persone a lui vicine. E’ illuminante al proposito un frammento raccolto oralmente dall’autore nel quale “Chicco” personaggio protagonista di alcune pasquinate, dice, rivolgendosi alla propria moglie (Carmela detta ‘Mmela): – “Quannu Cristu morse an Croce \ certu, ‘Mmela, no pinzava \ ca nu giurnu qualche boia\ su ‘ddhra Croce speculava“.-
Di questa lista facevano parte oltre a Giovanni Bacile, padre del barone Fabio, Antonio Rizzelli, altro proprietario terriero e dello stabilimento di trasformazione della sansa, Luigi Marsella già segretario comunale nonché persona colta ed esperta di leggi, regolamenti e dei fatti sponganesi e l’ingegnere Giuseppe Alemanno. Simpatizzava per questa lista tra gli altri Gino Stasi gentiluomo colto di cui si tramanda l’arguzia.
Il verdetto delle urne premierà la Democrazia Cristiana e Pantaleo Alemanno sarà eletto Sindaco.
L’andamento delle elezioni sarà condizionato non solo dal grande attivismo dell’Azione Cattolica e della Chiesa ma anche da una certa sicurezza di tenere la situazione sotto controllo che la lista della Spiga aveva ma che poi alla resa dei conti non si rivelò così sicura.
In questo lavoro vi presentiamo due dei tanti componimenti usciti in quell’occasione, che per la maggior parte sono andati perduti e di cui si ricorda qualche frammento tramandato oralmente. E’ probabile che questi due si siano salvati perché, stampati in tipografia, abbiano avuto una diffusione maggiore mentre gli altri , passati “brevi manu” oppure affissi, sono probabilmente andati perduti o, come dicevo, sopravvissuti in frammenti tramandati oralmente.
Non si conoscono gli autori di questi componimenti; sono state fatte ipotesi e girano voci di popolo ma niente di preciso non essendo gli stessi firmati se non con pseudonimi. E’ però evidente la parte politica per cui essi tengono.
Infatti se “Pe le elezioni te lu 46” è evidentemente pro D.C. “La ‘Mmela e lu cumpare Arciprete “ prende invece le parti della lista della Spiga e, per celia ma anche per simpatia, di quella dei reduci.
Proprio quest’ultimo componimento è interessante per la forma che l’autore sceglie, oserei dire “sceneggiata”.
Questi, infatti, non proclama le sue idee e i suoi programmi ma li mette in bocca a un’ingenua popolana che spiega all’autorità religiosa le sue convinzioni, poche in vero, e quelle del marito Chicco. Questi sostiene che la spiga è un tesoro per tutti e le tre spade sono quelle che hanno difeso la patria dai nemici ma l’orologio è tutto scombinato e fa le sei e mezza (prima di vedere i simboli delle liste pensavo che fosse un modo per ironizzare visto il palese doppio senso invece le lancette raffigurano proprio quell’ora .N.d’A.) mentre la Croce sul simbolo della D.C. è stata inventata solo per mettere zizzania.
Quindi dice che in Paradiso certamente non si sarebbero intristiti qualora Pantaleo Alemanno su questa terra non fosse diventato Sindaco di Spongano; d’altra parte il Padreterno non sarebbe stato così ingenuo da scambiare un fattore per angioletto oppure da far entrare in Paradiso un proprietario di mulino. Anzi, se avesse potuto, avrebbe preso tutti a colpi di ramazza e per primo proprio l’Arciprete.
La ‘Mmela continua poi spiegando come la D.C. pensi di mantenere la tassa sulla famiglia o in ogni caso di sobbarcare gli altri di tasse. Alla fine inviterà l’Arciprete a interessarsi delle cose di Chiesa e, provocatoriamente, a votare per la Spiga o per l’Elmetto. Non c’è solo un intento provocatorio in quest’invito ma c’è, come dicevo la sicurezza di poter governare gli eventi, di poter contare sulla gran parte dei cittadini tanto da tollerare anche che alcuni voti, che col senno di poi avrebbero potuto essere importanti, verso un’altra lista.
Il secondo componimento è meno teatrale e si presenta sotto forma di proclama. Colpisce l’uso di un dialetto che sembrerebbe più vicino al dialetto della zona limitrofa a Maglie (…nu spettati n’addhra fiata… -… ma de l’addhri ci fattore…) rispetto all’altro componimento che sfoggia un dialetto sponganese più puro.
Qui il primo lapidario commento è per la lista di Stasi che l’autore dice, ironicamente, di ammirare. Poi l’autore parla della lista dei reduci che però accusa di non essere quegli eroi che dicono di essere. Molti infatti, secondo l’autore erano rimasti imboscati al paese oppure avevano disertato.
Non erano perciò molto simpatici a chi la guerra l’aveva fatta sul serio oppure vi aveva perso una persona cara. L’accusa può sembrare legittima ma va ricordato che proprio nell’ultima parte della seconda guerra mondiale disertare spesso significava salvarsi la vita ed evitare i campi di concentramento.
Quindi si passa alla vera controparte: la lista della Spiga.
L’autore dice che alcuni dei candidati di questa lista non sono affidabili essendo incapaci di sbrigare i propri affari personali o essendo troppo impegnati per interessarsi delle faccende pubbliche. Poi accusa questa lista di voler caricare la povera gente di tasse grazie alla machiavellica abilità di Luigi Marsella e di utilizzare un membro della famiglia Bacile, influente e ben voluta, come espediente per gabbare la povera gente.
Il tema delle tasse è sollevato da tutte le fazioni ed usato come spauracchio per screditare l’avversario in realtà tutti sono coscienti che l’imposizione di pesanti tributi, considerata la disastrata situazione del paese, sarà una dolorosa necessità.
Proprio per questo non si può fare a meno di notare la “faccia tosta” dell’autore che evidenzia le cattive intenzioni della lista antagonista ma subito dopo si affretta a dire che i candidati della D.C. non sono tutti stinchi di santo e che se pure avessero dovuto sbagliare non ci sarebbe stato di che preoccuparsi perché Dio avrebbe visto e provveduto.
Non ci è dato sapere se il Padreterno abbia provveduto alla D.C. sicuramente il responso delle urne, qui come in tutta Italia, aiutò De Gasperi a rafforzare la sua leadership e quella della D.C. per le elezioni politiche che si sarebbero tenute di lì a poco e a Spongano la Democrazia Cristiana governò fino al 1964, grazie sempre alla provvidenza del Padreterno.
* Le Cacagnule propriamente dette escono intorno a Pasqua dell’82 e prendono il via da un concorso per applicato per il Comune. A seguire, però toccheranno diversi argomenti. Esse sono la reazione ad un’amministrazione che aveva lottato alacremente per vincere su una lista civica guidata da Fernando Erriquez in auge per 15 anni criticato per una gestione clientelare e poco ortodossa, e rappresentano una certa insofferenza verso chi si era proposto come giusto e incorruttibile e su un concorso mostrava i vecchi metodi clientelari e spartitori.
Ciò che sto per documentare è un esempio ante litteram di lotta biologica e risale al XVI secolo. Antonio de Ferrariis alias Galateo (1444-1517) nel De situ Japygiae scritto tra il 1506 e il 1511 ma pubblicato postumo a Basilea per i tipi di Pietro Perna nel 1558 così ricorda una delle calamità che affliggevano la Terra d’Otranto ai suoi tempi: Gignit etiam regio bruchos; ii parum peninsulae fines trasgrediuntur. Peculiare huic regioni malum, animalia sunt, quae omnia solo tactu foedant, omnia devorant, omnia more hostium vastant: nihil qua transeunt virens, nihil intactum relinquunt. Videre saepe rustici suas messes, suos annuos labores pene maturos, ac falcibus vicinos, una qua ibi bruchi nocte castrametati sunt, atra ingluvie, et acutis dentibus corrosisse, et quandoque ab arboribus non abstinent. Vacavit Provincia hac peste multis annis, ope marinarum avium, quas Gainas appellant, quarum ova, aut pullos ne quis violaret, lege cautum est. Hae bruchorum foetus tamquam a Deo missae, rostris e terra excavant; deinde post aequinoctium vernum, quum e terra prodire incipiunt, devorant implumes, ut sic dicam, seu non dum alatos, deinde volantes depascuntur. Hoc contigisse Plinius ait incolis Casii montis, quibus praesidio erant Seleucides aves, locustis eorum fruges vastantibus. Nunc autem avium, quas diximus defectu (eorum enim foetus post bruchorum interitum vastare coeperunt) aut deorum ira aut aliqua ignota nobis iniuria bruchi rediere, et iterum felices Salentinos campus populari coeperunt.
Traduzione: La regione pure genera cavallette; esse quasi oltrepassano I confini della penisola. Flagello peculiare per questa regione, sono animali che recano rovinano tutto col solo contatto, divorano ogni cosa, ogni cosa distruggono secondo il costume dei nemici: per dove passano nulla nessun vegetale lasciano intatto. Spesso i contadini hanno constatato che i bruchi, laddove una sola notte avevano messo gli accampamenti, avevano divorato con l’atra bocca e con gli acuti denti le loro messi, le fatiche di un anno quasi mature e vicine alla falciatura; e talora non si tengono lontani neppure dagli alberi. Fu al riparo la provincia da questa peste per molti anni grazie agli uccelli marini che chiamano gabbiani, le cui uova o i piccoli perché nessuno toccasse ci si cautelò con una legge. Questi, quasi mandati da Dio, col becco estraggono dalla terra i feti delle cavallette; poi, dopo l’equinozio di primavera, quando cominciano ad uscire dalla terra, li divorano implumi, per così dire, o non ancora alati, poi li divorano pure quando sono in grado di volare. Plinio dice che ciò capitò agli abitanti del monte Casio ai quali erano di aiuto gli uccelli seleucidi [Seleucia era il nome di varie città dell’Asia] quando le locuste devastavano le loro messi. Ora invece per difetto degli uccelli di cui abbiamo parlato (infatti cominciarono a sterminare i loro piccoli dopo la morte delle cavallette) o per ira degli dei o per qualche offesa a noi sconosciuta le cavallette son tornate e hanno cominciato di nuovo a devastare i felici campi salentini.
Ho tradotto con cavalletta il bruchus dell’originale. Tale voce evoca subito l’italiano bruco, al quale ha dato origine. Ora qualcuno dirà che tra il bruco e una cavalletta c’è una bella differenza. Certo, ma il problema è che bruchus nel latino classico indica costantemente la cavalletta, in quello medioevale (anche nella variante brucus) sia il bruco che la cavalletta. Io ho privilegiato in traduzione la cavalletta sulla scorta di una delle testimonianze che seguono e, quando arriveremo, riprenderò il discorso.
E poco dopo, siamo sempre al Galateo, con riferimento particolare a Gallipoli: Longe ab urbe mille passibus insula est pari ambitu. Hic Gainarum avium, quas diximus, magnus proventus, et toti provinciae salutaris.
Traduzione: Lontano dalla città un miglio c’è un’isola di pari circonferenza. Qui grande è l’abbondanza di uccelli gabbiani, dei quali ho detto, e salutere per tutta la provincia.
Che il flagello fosse antico lo confermano alcune memorie anteriori rispetto al Galateo. La prima fa parte del Chronicon neritinum di un certo abate Stefano e risalente al XIV secolo, testo che, però, la critica quasi concordemente considera un falso settecentesco, uno dei numerosi attribuiti al Tafuri:
1220 Fora li grillli per omne loco di terra d’Otranto e fecero de lo grande danno, che se mangiariono li seminati.
1230 Foro tanti grilli, che se mangiaro omne cosa, che foe na compassione, et dicti grilli foro per tutto lo Reame, che lo imperadore mandao ordine, che omneuno dovisse andare pe ammazzareli. Ma non si fece nulla; et lo abbati de placare la ira de Dio ordenao se dovessi fare processioni di penitenzia, e s’incomenzao de la prima giovedì de pascha, et duraro fin’a la festa de la Pentecoste: et così se fece pure in omne anno pe liberare la cettate da sì brutti animali, che fanno mulcto danno e rovina.
E, dopo questa testimonianza quanto meno dubbia, passo ad altre più sicure. Nelle cronache di Antonello Coniger (seconda metà del XV secolo):
1468 Lo Imperatore Federico III venne da la Manghain Roma ad accomandato da Papa Paulu II. Foro in questo Rengho, et sinnanter in Terra d’Otranto tanti li Bruculi, che tutti li Grani, Legumi mangiavanu, et durò pe paricchi anni, et po pe voluntà de Dio sparera suli.
1478 … Foro tante de Campie grandi ad modo di Lucerte, che se mangiavano tutte le Vigne, che fo de besogno mittere gran quantità d’huomini cum forfici a farele talliare, altramente ghastavano tutto.
1506 … in questo anno vennero li Bruchi in Terra d’Otranto, et in Lecce li fero una scomunica, che poco danno fera.
Nei Diarii di Lucio Cardami (XV secolo):
1458 Indictione sexta. A dì 20 Aprile vennero in omne terra d’Otranto tanti de brucoli, che fo no stopore, et se mangiaro omne seminato, vigneto, albori, et omne cosa, et pe tutto l’anno ci fo na penuria grande.
Nelle cronache appena citate i nefasti protagonisti hanno il nome di grilli, brùculi, campie, bruchi, brùcoli. Soffermo la mia attenzione su brùculi (di cui brùcoli è variante) e càmpie, tenendo conto, per comodità, del singolare. Brùculo suppone un *brùchulu(m) diminutivo di bruchus. Càmpia, che nel dialetto salentino indica sempre quello che in italiano intendiamo come bruco, coincide col neogreco κάμπια (leggi càmpia) che è dal greco classico κάμπη (leggi campe), entrambi col significato di bruco. Nel dialetto salentino la cavalletta è chiamata crucùddhu che è da un precedente *brucullu(m) anch’esso diminutivo. come *brùchulu(m), di bruchus, attraverso il passaggio b->c– per influsso della seconda sillaba di *brucullu(m). Tenendo proprio conto della distinzione semantica tra càmpia e crucuddhu io propenderei ad attribuire, perciò a tutti i bruchus/bruco incontrati, compreso quello del Galateo che avevo lasciato sospeso, il significato di cavalletta, anche perché l’attributo di volante più volte ricorrente mal si adatterebbe al bruco propriamente detto.
Bruchi o cavallette che siano, che il problema fosse particolarmente grave anche in tempi successivi a quello del Galateo lo dimostra la Prammatica prima De Bruchis emanata l’8 ottobre 1562 dal Vicerè Duca d’Alcalà D. Perafante de Ribera, il cui testo riporto di seguito (in parentesi quadre le mie note esplicative) da Blasio Altimaro, Pragmaticae, edicta, decreta, regiaeque sanctiones Regni Neapolitani, Raillard, Napoli, 1682, v. I, pagg. 217-218: DE BRUCHIS Titulus XXIII Pragmatica prima. Havendo Noi havuta relatione, che i Bruchi, che l’anno passato furono in Puglia, e nell’altre Provincie fecero gran danno a’ seminati, e che se non vi si rimedia per tempo ad estirparli, nell’anno prossimo da venire, saranno per multiplicare in un numero infinito, e fare un danno eccessivo, e tale, che non sia inteso mai il simile, e sarà per consumare, e rovinare tutti i seminati, che si faranno, e causare una gran penuria, e fame; al che volendo Noi per tutti i modi, e vie possibili rimediare, per loro estirpatione, per evitare sì intollerabile danno, ci è parso con deliberatione, voto e parere del Regio Collateral Conseglio, appresso di noi assistente, far l’infrascritte provisioni, et ordini videlicet.
1 In primis, atteso, che sogliono questi animali a tempo, ch’hanno da morire, che comunemente è nella stagione di Giugno, cercano un luogo duro e arido, dove ponendosi, et essendo loro nato un vermicciuolo nelle parti posteriori, cavano con quello, e tanto battono, che bucano quel terreno, e dentro quelli buchi fanno le lor’ova, e dalla natura si formano certe vainelle [diminutivo di guaina, che èdal fr. ant. guaine, a sua volta dal latino vagina] o cannoli, grossi poco più d’un deto picciolo, e longhi più d’un mezzo palmo, dentro le quali vainelle si conservano quell’ova poste dalla natura strettissimamente, et in tanta quantità, che con gran difficoltà si potrebbero numerare. Per questo noi ordiniamo, e così espressamente comandiamo, che l’Università delle Città, Terre, e luoghi mandino esploratori et huomini pratici per gli loro Territorii, i quali truoveranno i luoghi, dove sono andati a fare le ova, il che è facile a truovare, essendo solito di Massari conservare diligentemente i luoghi, dove sogliono sementare; e trovati detti luoghi, ordinare, che al tempo, che sarà nei mesi di Settembre, et Ottobre, poi d’haver piovuto alquanto s’arino con diligenza quei luoghi, dove stanno; poiche con l’aratro si facciano quelle vainelle, donde stanno, et escono sopra la terra, e che dopo l’acqua le venga ad infracidare, di tal maniera, che non habbiano più effetto, né possano nascere.
2 Praeterea, vogliamo, e così ordiniamo, che l’Università delle Città.Terre e luoghi debbano far raccorre nel loro territorio, dove si truoveranno questi animali, videlicet: Per ciascuno fuoco un quarto di tumolo, e quelli ciascuna sera presentare a Capitani, et Eletti delle Terre, i quali debbano farli mettere dentro de i fossi, et ivi consumargli, e triturarli, con bruciargli, e dove vi fosse acqua corrente, o mare, buttarli nell’acqua, dove putrefatti non daranno più noia; e questo debba durare per alcuni dì, e tanti, quanti parerà a detti Ufficiali, accioche totalmente s’estirpino
3 Di più vogliamo, e così espressamente comandiamo, che al tempo, che cominciano a nascere, e saltare questi velenosi animali, i padroni de’ seminati da quella parte delle terre salde, dove si sogliono porre al mangiare herba, facciano un fosso, convenientemente grande; et essendo la natura loro di andare sempre al fresco, come sentiranno un poco di caldo, s’andranno a porre dentro di quel fosso, dove essendovi entrati, si debbano ricoprire della terra cavata dal fosso, la qual terra, , quando si caverà, s’ha da porre su la sponda, et orlo de’ seminati, e lasciare piana e libera la parte dove quelli stanno, e da dove hanno da entrare nel fosso, perche truovandosi alcuno impedimento di terra, o d’altra cosa, non correrieno al fosso: atteso, che non possono volare tanto in quel tempo; per questo s’ha d’avvertire, che la parte, d’onde hanno da entrare nel fosso, resti piana, e libera. Et ancora vogliamo, e così espressamente ordiniamo, e comandiamo, che al tempo, che saranno nati questi animali, che è verso l’Aprile, poco più, o meno, tutti coloro, che tengono porci, debbano fargli andare a mangiare i Bruchi, atteso, che detti porci gli appetiscono, e tanto, che li cercano, e cavano fin da sotto terra; e li truovano dovunque stanno. Et oltre ciò ordiniamo, e così expresse comandiamo, che tutti i Massari a’ tempi congrui, e debbiti, debbano spandere un lenzuolo, o ragana (che dicono) in terra, e là gittar’alcuno di questi Bruchi, dove vedendoli gli altri, si vengono a porre dentro al lenzuolo, o ragana, e così li debbano pigliare, poi piegare detto lenzuolo, et adunarvi dentro tutti quelli, che vi sono, e di tal sorte, stirpargli. Et acciòche le sopradette provisioni s’habbiano da osservare, et eseguire, per convenire, così al servitio di S. M., e beneficio universale de’ suoi sudditi, ci è parso darne carico a Voi, per esser dell’importanza, che sono; e perciò vi diciamo, et ordiniamo, che dobbiate al presente farla pubblicare per tutte le Città, Terre, e luoghi di coteste a voi decrete Provincie, con dar ordine a’ Sindaci, Eletti, Università, Huomini, e Massari di quelle, che debbano con ogni esattissima diligenza, e sollecitudine attendere ad eseguire quanto di sopra si contiene, con imponer pena di ducati mille, et altra maggiore, a nostro arbitrio riservata, a quelli, che contravverranno, e voi tenerete particolar pensiero, che ne i tempi congrui, e debbiti s’osservino, et eseguiscano i detti nostri Ordini, e Provisioni, e contro de’ trasgressori eseguirete, e farete eseguire per le sudette pene irremissibilmente; tenendoci avvisati di passo in passo di quanto occorrerà, non fando il contrario per quanto s’ha cara la gratia, e servitio della Prefata Maestà. Datum Neap. Die 8 Octob. 1562. D. Perafan. Vidit Albertinus Reg. Vidit Villanus Reg. Vidit Reverterius Reg. Vidit Patign. Reg. Soto Secret. Dirigitur Gubernatori Principatus Citra.
Il fenomeno, comunque, era così eclatante e l’opera dei gabbiani così preziosi da restare immortalati nella mappa Apulia, quae olim Iapygia, nova corographia di Giacomo Gastaldi uscita nel 1595, che in basso riproduco dal sito della Biblioteca Nazionale di Francia.
Per la ricostruzione dell’evoluzione di qualsiasi toponimo lo studioso ha a disposizione oltre alla sua intelligenza e ad un pizzico di fortuna, non sempre casuale, strumenti altrettanto essenziali: epigrafi, diplomi, atti notarili, mappe. Chiedo scusa per aver dimenticato la cosa più importante: la sua disponibilità al sacrificio anche economico e qui è necessario che io mi spieghi meglio. Chiunque in Italia voglia consultare documenti antichi (dunque, non soggetti al diritto d’autore) come alcuni di quelli che ho nominato all’inizio (si badi bene: custoditi in biblioteche o archivi pubblici, non privati) deve rassegnarsi non solo ad una pur giustificata trafila burocratica ma anche ad aprire il portafogli qualora volesse una copia fotostatica (certo non a prezzo di mercato …) di tutto o parte del documento consultato, per consentire ad altri studiosi o semplicemente appassionati di operare un controllo, sempre necessario anche nei casi in cui l’autorevolezza e il prestigio di chi ha tratto delle conclusioni potrebbero indurre ad un’accettazione passiva delle stesse.
Così, a superare gli inconvenienti appena descritti, deve essere preparato chi, per esempio, avesse bisogno della mappa che mi ha consentito di scrivere queste righe. Ma, dirà qualcuno, non c’è la rete? Certo che c’è, ma non per l’Italia e spiego subito perché. La mappa in questione, per esempio, è reperibile sul sito, faccio un nome per tutte, della Biblioteca Marciana di Venezia (con un motore di ricerca la cui complicatezza serve solo a scoraggiare chiunque, anche perché parecchi links non portano da nessuna parte … mi chiedo quanto sia costato al contribuente questo capolavoro informatico …) ma l’immagine disponibile in rete è così poco definita che non si legge neppure il titolo. Se ti serve una copia in alta definizione non c’è problema, basta ordinarla e, naturalmente, pagare …
Tutto legittimo, nel senso che è ligio alle leggi (potrebbe essere uno scioglilingua …) vigenti. Spetta, però, al potere politico riformare la normativa quando questa si mostra inadeguata ai tempi e trasforma la cultura in uno scoraggiante percorso ad ostacoli.
Pompei cade a pezzi ed è giustissimo spendere il possibile per ricomporre i cocci, ma sarebbe altrettanto giusto e doveroso digitalizzare tutto il nostro patrimonio cartaceo e renderne possibile la fruizione gratuita in rete, tanto più che l’operazione sarebbe a costo zero (se qualcuno fosse interessato a sapere come procedere me lo faccia sapere e, magari, in un altro post gli spiegherò dettagliatamente l’operazione e, soprattutto, come impedire che essa diventi un affare non per tutti ma per pochi …).
Mentre in Italia si vive questa vergognosa situazione, dico, per restare nel caso particolare, che la stessa mappa è disponibile, invece, in altissima definizione, come mostrano i dettagli che da essa ho tratto, sul sito della Biblioteca Nazionale di Francia all’indirizzo: http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8439634j.r=terre+d%27otrante.langEN
Si tratta di un foglio dell’Atlas sive cosmographicae meditationes de fabrica mundi et fabricati di figura del cartografo fiammingo Gerhard Kremer(italianizzato in Gerardo Mercatore) uscito ad Amsterdam nel 1589, dal titolo Puglia piana, Terra di Barri, Terra di Otranto, Calabria et Basilicata.
Nel dettaglio che segue la linea gialla che ho aggiunto vuole essere una rozza demarcazione del territorio della provincia di Lecce.
Un’osservazione preliminare: il capo di Leuca appare con la denominazione di C. de S. Maria, il capo di Otranto con quella di C. di Louca overo C. de Otranto.
Quel che segue è un semplice elenco alfabetico dei toponimi nella forma attuale e in quella in cui compaiono sulla carta; niente di più che una base di dati utili per un eventuale confronto con mappe coeve e successive. Il lettore noterà agevolmente la presenza di errori dovuti probabilmente ad errata trascrizione da mappe precedenti, ad inaffidabilità degli informatori, ad italianizzazioni del nome dialettale con effetti talora ridicoli, il che rende indispensabile, a chi voglia fare uno studio serio e approfondito del tema, ulteriori confronti con diplomi ed atti notarili che, sotto questo punto di vista, pur non essendo nemmeno loro totalmente esenti dai difetti appena ricordati, in virtù del loro maggiore localismo, dovrebbero essere più affidabili.
Immutati: CALIMERA,CASTRO,MARTANO, MARTIGNANO,MERINE, PASULO(in territorio di Borgagne),PISIGNANO,PORTO CESAREO,ROCA,S. CATALDO, S. MARCO (nei pressi di Roca) e SOLETO.
Se chi mi segue mostrerà di gradire quanto qui esposto potrei estendere l’indagine, sulla stessa mappa, alle altre provincie di Terra d’Otranto. In tal caso il titolo del prossimo lavoro potrebbe essere, ricalcando il miglior linguaggio televisivo, Reduce dalla trionfale tournée, pardon, dal trionfale contributo sui toponimi …
Comunque, finché mi rendo conto del ridicolo di cui queste mie uscite, volontarie e consapevoli, mi coprono, cioè finché riesco a prendermi in giro da solo, va tutto bene …
Memorabili tra le sue polemiche quella con Pasquale Guarini sul Problema Morale nel secolo XIX, con Guido Porzio su Lucio Sergio Catilina e su Giulio Cesare Vanini, con Matteo Incagliati e Raffaele De Cesare su Don Liborio Romano e la Caduta dei Borboni. Lo scritto, ripubblicato nel 1909, secondo la Bibliografia di Nicola Vacca del 1949, con una silloge di lettere del Romano a Ercole Stasi, era di tono sicuramente apologetico.
Alla polemica con il senatore Raffaele De Cesare, ragione prima del libro Don Liborio Romano, fecero riscontro attestazioni di apprezzamento, come riferito dal nipote Vittorio Bodini nel 1933: “Nella stratosfera silente degli studiosi di trent’anni fa, si levò gran rumore, uomini che non lo conoscevano trovarono garenzia d’amicizia nel libro…”, che riportò il testo integrale dei messaggi, provenienti dalla Camera dei deputati e dal Senato del Regno, in cui gli onorevoli Enrico Ferri (da Spoleto, 23 luglio 1909) e Guido Mazzoni (da Roma, 25 giugno 1910) rimarcavano l’errata modalità di annessione delle Provincie meridionali al Regno d’Italia secondo criteri che ne avevano aggravato le specifiche problematiche, a suo tempo denunciate da Liborio Romano. Il volume oltre che su Marti, richiamò l’attenzione sulla spinosa questione dell’annessione “forzata”. Napoleone Colajanni pubblicò un lungo articolo su “Rivista Popolare”, Valentino Simiani su “Natura ed Arte”. Persino chi non condivideva la sua tesi sul Romano non poté astenersi dal lodare il volume. Pietro Palumbo, discorde da lui e dal De Cesare, in un accurato studio della polemica, scrisse su “Rivista Storica Salentina”:“Per fortuna del buon nome pugliese Pietro Marti gli [al De Cesare] gli ha contrapposto un suo lavoro, piccolo di mole, ma denso di documenti e di affetto. E’ la glorificazione, direi, è la riabilitazione di don Liborio Ministro di Francesco II. Se questo lavoro non avesse altro pregio, e ne ha parecchi, gli rimarrebbe sempre quello di aver rialzato il buon nome di Terra d’Otranto”.E lo stesso Matteo Incagliati, discorde anch’egli, concluse su “Il Giornale d’Italia”: “Pietro Marti ha reso un alto servizio alla causa della storia nazionale”.
Quando poi l’Incagliati riaprì il dibattito a proposito della polemica sul Romano, Marti scrisse un volumetto, I Naufraghi, supplemento degno del libro e lo ripubblicò poi in Pagine di propaganda civile, affiancando con conferenze e discorsi la passione del suo assunto.
Nel 1912 Marti affrontò nuovamente l’argomento con I Naufraghi (Per don Liborio Romano) Pagine di polemica, con cui si scontrò con M. Incagliati.
L’anno precedente aveva pubblicato, con I Precursori, facendone una strenna sul foglio “La Democrazia”, un nutrito lavoro su alcuni patrioti carbonari, su una Relazione dell’Intendente Cito (1828) e sull’arcidiacono neretino Giuseppe Maria Zuccaro. Infine con Alessandro Cutolo su Maria D’Enghien.
La poliedricità della sua mente, aperta a vari problemi di cultura e d’arte, lo mise in luce negli ambienti culturali della Lecce dei primi del Novecento. Il suo trittico sulla Origine e Fortuna della Cultura Salentina, rappresenta il compendio della sua attività di studioso, sebbene punteggiata a volte da critiche amare, come quella di dilettantismo in materia di storiografia, rivoltagli dal prof. Alessandro Cutolo, a proposito di Maria d’Enghien.
Sulla conferenza che il Cutolo aveva tenuto a Lecce nella Sala “Dante Alighieri” il 28 marzo 1928, sul tema La gran passione di Maria d’Enghien, Marti aveva mosso alcuni rilievi sul suo giornale “La Voce del Salento”, sottolineando l’eccessiva erudizione dell’oratore e una non puntuale documentazione.
Ne nacque una polemica, com’era da prevedersi, le cui pagine furono raccolte da Marti in un volume pubblicato a Lecce, poco prima della sua morte, per i tipi dell’Editrice Italia Meridionale, nel 1931, dal titolo Nella Terra di A. Galateo.
All’accusa di dilettantismo Marti rispose con un lungo articolo nel quale lamentava, in sostanza, che nella conferenza, fosse stata eccessivamente mortificata la personalità storica della sfortunata Contessa. Dopo due giorni il Cutolo replicò, mettendo ancora in dubbio le doti di storico di Pietro Marti, accusandolo di attenersi più alle cronache che ai documenti, sulle quali egli aveva invece condotto il suo lavoro, consultando gli atti della Cancelleria di Re Ladislao e della regina Giovanna.
La polemica, mentre contribuì a riscoprire aspetti meno noti della personalità di Maria d’Enghien, finì con l’esasperare i due, come accade spesso in queste occasioni, inasprendole a tal punto da far dichiarare al Cutolo, in una sua lettera del 20 aprile, di non voler più rispondere a Marti su quell’argomento.
Tra i due, invero, fu il Nostro a mantenere il garbo e la calma, mentre il Cutolo manifestò la propria impazienza con antipatici riferimenti di sufficienza cattedratica, sebbene mista ad attestazioni di simpatia e stima. Il Nostro non se ne dolse, rispondendo ancora al Cutolo, che aveva inteso chiudere bruscamente ogni tipo di contatto, e rimandando ogni definitiva puntualizzazione alla pubblicazione su Maria d’Enghien che ne sarebbe seguita.
La polemica, in fondo non giovò neppure a Marti, che se non registrò l’aumento della sua fama, tuttavia presso gli sprovveduti la vide incrinata, dove invece non c’era d’attendersi necessariamente, in simili diatribe, un vincitore e un vinto, ma rispettabili valutazioni storiche pur su posizioni diverse.
Egli era abituato, però, a mantenere alta la guardia contro denigratori o avversari di turno. Scorrendo le pagine del suo giornale “La Voce del Salento”, è facile rilevare che anche come giornalista di razza fosse sottoposto a continue provocazioni.
Marti dovette rintuzzare i periodici assalti, come quello del cav. Giuseppe Zaccaria, che, dalle colonne del “Corriere del Salento”, avanzava dubbi sulla sua “sincerità politica” nei confronti del fascismo e addirittura sulla sua “educazione giornalistica”. E ciò avveniva nell’ottobre del 1932, ad appena sei mesi prima della sua morte, quando dal suo giornale dovette rispondere per le rime con due articoli di fondo, il primo Un chiarimento e il secondo Nel campo della sincerità. Premessa.
Ma ancor maggiore eco ebbe a Lecce e nell’intero Meridione, in campo storico-culturale, la polemica sostenuta da Marti, dalle colonne del suo giornale “La Voce del Salento”, contro la prestigiosa opera enciclopedica della “Treccani”, sulla quale, con ferree argomentazioni si denunciavano gravi omissioni di contenuti (quando non errori e abbagli madornali) in relazione a personaggi della storia del Salento e della Puglia intera, a firma di studiosi pur riconosciuti in campo nazionale. Il giornale leccese divenne la roccaforte delle puntuali contestazioni rivolte a spada tratta, e senza alcuna concessione di sorta, al prestigioso Comitato redazionale, nonché alla Direzione, dal giugno all’agosto del 1932, con la puntigliosa riproposizione di una rubrica, a firma di Ellenio, Rilievi e Polemiche. Lagune, granchi e… papere nella Enciclopedia Treccani. La polemica assunse i toni di una virulenza tale che per stemperare i caustici “rilievi” di Ellenio, graditi all’intero panorama culturale salentino e meridionale, pensò bene di scomodarsi lo stesso filosofo Giovanni Gentile. Questi indirizzò ad Ellenio (pseudonimo, per il filosofo, un po’ troppo comodo) una puntuale lettera di precisazione circa i contenuti e le modalità editoriali dell’intera opera enciclopedica, pubblicata sul periodico leccese il 31 luglio 1932. Nelle ficcanti osservazioni di Marti, pesanti e puntuali come macigni, che rischiavano di mettere alla berlina studiosi di fama conclamata alla stregua di distratti scolaretti, si additavano omissioni, nelle voci “campanile” e “chiesa”, quali la mancata citazione della Guglia di Soleto del 1397 e il Tempio dei SS. Niccolò e Cataldo di Lecce.
In altro articolo si contestavano le sole cinque righe assegnate a Cosimo De Giorgi dall’estensore, prof. Stefano Sorrentino, che pure aveva pubblicato nel 1876 le Note Geologiche della Provincia di Lecce. In altro intervento, alle voci “Arditi” e “Briganti”, Marti considerava assolutamente inaccettabile la mancata citazione dell’Arditi e del gallipolino Tommaso Briganti (1691-1772). Come non mancava di sottolineare, il 24 luglio 1932, il pressapochismo della linea editoriale Treccani, per cui non si diceva assolutamente nulla di personaggi come Oronzo Massa, di Filippo Lopez y Royo, arcivescovo di Palermo, e di Francesco Antonio Astore, una delle vittime più illustri della repressione borbonica del 1799.
Nella lettera di Giovanni Gentile, dal filosofo si contestarono le “omissioni” denunciate dal giornale leccese che altro non erano che il frutto di scelte editoriali obbligate in forza del carattere universale della Enciclopedia, nella quale non potevano confluire tutte le voci di “abbazie, campanili, chiese e personaggi storici”: altro, dunque che “lagune, granchi e papere”. A tali “omissioni”, tuttavia, Gentile annunciava ad Ellenio (ma chi si celava sotto quello “pseudonimo”?) la promessa della compilazione e stampa di un apposito “Dizionario biografico degli Italiani”. Al direttore del foglio leccese “La Voce” se piacque l’annuncio del promesso Dizionario Biografico, non mancò l’ardire di respingere però al mittente l’ammiccante accusa di giornalista “mimetizzato” sotto le ali di uno pseudonimo. E in una conclusiva replica sulla faccenda della Treccani, a comprova della sua coraggiosa militanza giornalistica di un intero cinquantennio di battaglie contro la sordità di Sovrintendenze e Istituzioni, attacchi di giornali e scontri in campo amministrativo, rimarcava che le lacune, una volta accertate, rimangono tali e i granchi e le papere non si possono improvvisamente dissolvere in altro. Il pezzo si concludeva con la firma Pietro Marti e, tra parentesi, lo pseudonimo Ellenio. La prima e unica volta in cui il direttore del giornale leccese decise di apporre, su “La Voce”, ambedue le indicazioni.
Ma ai colpi mancini della fortuna Marti era abituato, sin dalla fanciullezza, quando, rimasto a sei anni orfano di padre, impiegato presso la Pretura di Ruffano, con l’aiuto dei fratelli maggiori, era riuscito, con grande sacrificio a conquistare il patentino di maestro rurale. Qui cominciò col misurarsi con le scolaresche del natìo paesello, dove pure entrò in conflitto con la locale amministrazione, il cui sindaco Santaloja gli interruppe lo stipendio, per essersi assentato dal servizio, per motivi di studio. Ne nacque un contrasto infinito, con ricorsi legali sino alla Corte dei Conti e che lo fece decidere vieppiù ad allontanarsi dall’amata terra di origine, trasferendosi presso gli istituti scolastici di Comacchio. Con la sua multiforme attività giornalistica si fece apprezzare nell’intera Penisola, più tardi anche come Direttore della Biblioteca provinciale “Bernardini” e come Ispettore onorario ai Monumenti per la Provincia di Lecce.
Tornò a Ruffano un’ultima volta, il 24 aprile 1927, per tenervi il discorso inaugurale per il Monumento ai Caduti, La Vittoria alata, opera offerta alla cittadinanza dal suo grande concittadino, l’artista Antonio Bortone.
Questi soltanto alcuni degli aspetti di Marti giornalista, conferenziere e polemista. Ciò era doveroso rimarcarlo, ma è soltanto parte di quanto si può riferire del suo battagliero e creativo giornalismo, della sua profonda cultura in ordine ai temi di rilevanza civile, trattati nelle conferenze in giro per la Puglia e l’intera Penisola, e della stessa virulenza delle polemiche innescate in nome del suo amore per il Salento, la Puglia, l’Italia. Altri interessanti aspetti verranno degnamente sottolineati nel preannunciato Convegno nazionale da celebrarsi ad inizio estate 2013, tra Lecce e Ruffano, da valenti studiosi come Alessandro Laporta e il prof. Antonio Lucio Giannone. Il primo, infatti, in qualità di direttore della Biblioteca provinciale “Bernardini” di Lecce approfondirà tematiche bibliografiche anche in ordine al “Catalogo” del suo predecessore Marti; il secondo compulserà aspetti più tipicamente letterari, che appunteranno la riflessione sulla poesia del grande salentino Vittorio Bodini.
(Pubblicato su Presenza Taurisanese, a. XXXI, aprile 203, pp. 8-9)
Angilberto del Balzo già conte di Tricase, Castro e Ugento dal 1463, conte di Copertino, Signore di Carpignano per concessione del fratello Pirro, signore di Galatola (oggi Galatone), Parabita, Locorotondo, Noja e Triggiano dal 1471, conte di Noja dal 1480, regio consigliere dal 1464 al 1484, ereditò divenendone il primo duca nel 1483, Nardò. Subì subito la confisca ma ricomprò il ducato dalla Regia Camera l’anno successivo. Fu uno dei principali artefici della Congiura dei Baroni (1485-1487) contro Ferdinando I d’Aragona re di Napoli. Arrestato nel luglio del 1487 morì, forse strangolato nel Castel dell’Ovo a Napoli su ordine del re, probabilmente nel 1491.
L’inventario dei beni mobili ed immobili fatto alla sua morte, conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi nella sezione manoscritti latini con la segnatura 8751 D (sul sito della biblioteca è presente ma il relativo link alla visione risulta corrotto), è stato recentemente pubblicato da Luciana Petracca (Gli inventari di Angilberto Del Balzo, conte di Ugento e duca di Nardò, Istituto storico italiano per il Medio Evo, Centro di studi orsiniani, Roma, 2013). Tra i beni mobili inventariati non potevano certo mancare i volumi della biblioteca a disposizione sua e di sua moglie (nell’inventario: tam domini quam domine=tanto del signore quanto della signora).
Un elenco dei manoscritti in volgare custoditi nella stessa Biblioteca Nazionale era stato pubblicato da Giuseppe Mazzatinti in Indici e cataloghi, V, Manoscritti italiani, Biblioteche di Francia, v. I, s. n., Roma, 1886, pagg. L-LI. Vi sono citati i codici 3, 4, 87, 581. In una nota il Mazzatinti ci informa che ad Angilberto appartennero anche i codici latini 2338, 3362, 3432, 3453, 4625, 6069C, 6161, 6618, 7676, 8015 e 8264.
Il primo contiene il testo di un commento anonimo al Teseida del Boccaccio, il secondo il testo dei Trionfi del Petrarca. Le immagini che seguono si riferiscono al dorso, alla copertina e al taglio anteriori (la rilegatura in marocchino rosso, recante le armi e la cifra reali, è della fine del XVII secolo-inizi del successivo) e all’incipit del Teseida.
2338 Frammenti del Liber derivationum di Uguccione da Pisa (XII-XIII secolo), il Prognosticon di San Giuliano di Toledo (VII secolo), il Summa de exemplis naturalibus contra curiosos (incompleto) di Servasanto da Faenza (XIII secolo).
3362 Epistola de adventu Messiae di Samuele Marocchino (XI secolo).
3432 Quaestiones de iure canonico di Ugo di Argentina detto Ripellino (XIV secolo).
4625 Constitutiones Regni Siciliae.
7676 Etymologiae di Isidoro di Siviglia (VI-VII secolo).
Che questi libri siano appartenuti al nostro duca lo mostrano anche le note di possesso (tutte sul retto della prima pagina di guardia o di una delle successive) che di seguito riproduco in dettaglio per motivi di spazio, fatta eccezione per il 4625, sul quale non ne ho trovato traccia in nessun foglio.
581 lo conte de ducente
1016 conte de ducente
2338 conte de ducente
3362 lo conte de docente
3432 lo conte de ducente
7676 conte de ducente
Già questi pochi volumi delineano, sia pure parzialmente, una certa sfera di interessi culturali, anche se per avere il quadro completo bisognerebbe passare in rassegna l’intero inventario, cosa che avrei fatto se il link fosse stato funzionante. Anche così, però, resterebbe il malizioso dubbio che pochi o molti di quei volumi siano rimasti intonsi e anche il loro esame diretto non sarebbe totalmente probante perché il logorio eventuale di alcuni, annotazioni o segni di qualsiasi tipo potrebbero essere dovuti all’uso fattone successivamente dagli altri detentori.
È tempo di passare alla misteriosa poesia? Sì, ma lo farò dopo … questa premessa (stavo per scrivere dopo la pubblicità), nella prossima puntata.
Una scena mi ha profondamente colpito e rattristato, stamani, nel tabacchino situato a breve distanza da casa: un’anziana signora, dal tono dimesso – la quale, m’è subito parso di capire, doveva essere una habitué di quel sito, almeno stando al tono confidenziale con cui si relazionava con gli impiegati addetti – intenta a ordinare “gratta e vinci” e altri tagliandi similari per complessivi trentacinque euro.
Non ho potuto non pensare all’effetto moltiplicativo e quindi al prodotto di un acquisto di quella fatta, se rapportato a più, se non a molti o moltissimi, analoghi contatti della donna, giustappunto, col tabacchino, nell’intero arco del mese.
E, insieme, non passare mentalmente in rassegna la circostanza o realtà che esistono trattamenti pensionistici di basso ammontare, quando, addirittura, non ridotti al minimo.
Al contrario, leggendo i giornali, ho colto una notizia confortante, ossia a dire la vicenda del titolare di un esercizio commerciale che ha inusitatamente pensato di zittire o per lo meno contrastare l’attività frenetica delle Slot Machine installate nel suo locale, proponendo agli avventori l’alternativa del ritorno a innocenti partite di calcio balilla.
Forse sotto la suggestione dei suddetti eventi, durante il riposino pomeridiano, ho fatto un sogno, brevissimo e però intenso, travolgente e confortante.
Per un prodigio eccezionale, erano completamente scomparsi, nel nostro paese, dal Monte Bianco sino a Lampedusa, tutti gli aggeggi, apparecchiature, macchinari, attrezzi, riguardanti le giocate, puntate e scommesse, di qualsiasi genere, clandestine e/o legali, come pure erano finite distrutte, in un gigantesco rogo, montagne e distese di cartelle, foglietti e tagliandi vari, schedine, contenenti prospettive di vincite mirabolanti regalate dal cielo e/o dalla fortuna.
Cosicché, le tasche e le borse di ciascun italiano, in una volta sola e nel giro di un attimo, erano state rese rigonfie da un centinaio di miliardi, un autentico ben di Dio, risorse, è facile comprendere, pienamente sufficienti per soddisfare la gamma dei bisogni singoli e collettivi delle famiglie di paesi e città; finalmente, a nessuno mancava più il pane e i mezzi di sussistenza, le mense d’assistenza pubbliche e delle associazioni caritative erano rimaste vuote.
Riaprendo gli occhi con una coda di sorriso dentro, non c’è voluto molto, ovviamente, per tornare a impattare con la triste, dolorosa realtà degli ingenti capitali buttati via, su scala diffusissima e quasi generalizzata, sprecati nella famelica voragine connessa alla dipendenza ludica, vera e propria tragedia o sciagura di costume, deleteria di là da una guerra mondiale.
Si osserva, che, sulle attività in parola, l’Erario ci guadagna, giacché, com’è noto, il relativo fatturato è soggetto a un indicativo prelievo fiscale.
A onor del vero, facendo bene i conti, non è così. Difatti, il mancato introito d’imposte connesso alla sparizione dei giochi, sarebbe largamente compensato dal concomitante venir meno, sul fronte delle uscite a carico delle casse pubbliche, di milioni di rivoli d’interventi che, oggi, lo Stato è invece costretto a spargere in una miriade di campi, indirizzi e destinatari, per ovviare a limiti di sopravvivenza e colmare miserie e indigenze annidate un po’ in ogni dove.
Inoltre, nessuno sembra riflettere e soffermarsi sul particolare che al più grande e cronico problema italiano all’ordine del giorno in materia finanziaria e di bilancio, la gigantesca evasione fiscale stimata dagli esperti in oltre cento miliardi annui, si è ormai aggiunto e sommato, con un peso sostanzialmente analogo, proprio il fenomeno della dissipazione di risorse in giochi e scommesse.
Col risultato, non di una bensì di due pesantissime tragedie sociali, che, in breve volgere di tempo, non lasceranno spazio, minando alla base la stessa normale sopravvivenza, se non si passa a modificare presto e radicalmente l’andazzo e la situazione.
Così stando le cose, come procedere? Da dove cominciare?
Ecco, personalmente, avrei piacere e vorrei suggerire che il Presidente Napolitano, al quale, con sincera e disinteressata stima, mi sento di riconoscere l’utilità e la puntualità di tanti interventi, ne aggiungesse, ora, un ennesimo di carattere straordinario.
Facesse, in sostanza, sentire ogni giorno la sua autorevole voce, alla stregua del suono delle campane, dicendo a chiare lettere e senza stancarsi di affermarlo.
”Cari italiani e italiane, onestà e senso civico impongono che si paghino fedelmente le tasse, da parte di tutti, non è più tempo di furbizie e di inadempienze; si rende, inoltre, necessario e urgente ravvedersi, cacciare dalla mente e abbandonare il tarlo della frequentazione di giochi e scommesse, scegliendo invece di utilizzare quel centinaio di miliardi per far fronte a bisogni effettivi e spese utili”.
° ° °
Intanto, per finire, tra di noi, riprenda a tornare in auge l’antico gioco del calcio balilla.
In attesa che le risultanze archeologiche emerse dagli scavi del 2007-2008 (vedi Castrum Minervae, a cura di Francesco D’Andria, Congedo, Galatina, 2009) confermino definitivamente, magari grazie ad ulteriori fortunati nuovi ritrovamenti (una bella statua di Minerva, per esempio, o anche una sua parte, purché l’una e l’altra siano in grandezza naturale o, meglio ancora, ultranaturale, sarebbe la prova quasi finale …1) che Castro sia da identificarsi proprio come il luogo del primo sbarco di Enea immortalato da Virgilio, riporto di seguito, in ordine cronologico, le testimonianze letterarie a me note e che mettono in campo per il nostro territorio un tempio di Minerva. Come si noterà solo quelle del poeta mantovano e di Dionigi d’Alicarnasso contengono qualche dettaglio descrittivo:
a) Lo Pseudo Probo (III secolo d. C.) nel suo commento In Vergilii Bucolica, VI, 31 ci ha tramandato un frammento dalle Antiquitates rerum humanarum diVarrone (II secolo a. C.-I secolo a. C.): Idem Vergilius in tertio Aeneidos ubi primum Italiam, quo auspicati sunt, ac templum in arce Minervae accesserint, quod est oppidum Minervae sacrum, unde nomen castrum Minervae habet conditum ab Idomemeo et Salentinis. De qua re haec tradit Varro. In tertio Rerum Humanarum refert: Gentis Salentinae nomen tribus e locis fertur coaluisse, e Creta, Illyrico, Italia. Idomeneus e Creta oppido Blanda pulsus per seditionem bello Magnensium cum grandi manu ad regem Divitium ad Illyricum venit. Ab eo item accepta manu cum Locrensibus plerisque profugis in mari coniunctus per similem causam amicitiaque sociatis Locros appulit. Vacuata eo metu urbe ibidem possedit aliquot oppida condidit, in queis Uria et Castrum Minervae nobilissimum. In tres partes divisa copia in populos duodecim. Salentini dicti, quod in salo amicitiam fecerint [La stessa cosa (dice) Virgilio nel terzo (libro) dell’Eneide quando per la prima volta, conformemente agli auspici tratti, si sarebbero accostati all’Italia e al tempio sulla rocca di Minerva, che è una città sacra a Minerva, donde ha il nome di Castrum Minervae, fondata da Idomeneo e dai Salentini. Su questo Varrone tramanda queste cose. Nel terzo (libro) de I fatti umani riferisce: Si dice che Il nome della gente salentina si sia formato dalle combinazione di tre luoghi, da Creta, dall’Illirico, dall’Italia. Idomeneo cacciato da Creta dalla città di Blanda per una sedizione durante la guerra contro i Magnensi venne con un grande esercito nell’Illirico presso il re Divizio. Dopo aver ricevuto pure da lui un esercito, unitosi in mare con i Locresi e parecchi profughi accomunati da un progetto simile e dall’amicizia, approdò a Locri. Dopo che la città per la paura era stata evacuata lì se ne impadronì e fondò parecchie città tra cui Uria e la famosissima Castrum Minervae. L’esercito fu diviso in tre parti e in dodici popoli. Furono detti Salentini perché avevano fatto amicizia in mare).
b)Virgilio (I secolo a. C.): Aeneis, III, 530-536: Crebrescunt optatae aurae portusque patescit/iam propior, templumque apparet in arce Minervae;/vela legunt socii et proras ad litora torquent./Portus ab euroo fluctu curvatus in arcum,/obiectae salsa spumant aspergine cautes,/ipse latet: gemino demittunt bracchia muro/turriti scopuli refugitque ab litore templum (Cresce il vento favorevole a lungo desiderato e un porto ormai alquanto vicino si apre e sulla rocca di Minerva appare un tempio; i compagni ammainano le vele e volgono le prue a riva. Il porto è curvato ad arco dal mare di levante, gli scogli spumeggiano battuti da spruzzi salati e lo stesso (porto) è nascosto: scogli alti come torri stendono le (loro) braccia in un doppio muro e il tempio si allontana dalla riva).
c)Dionigi di Alicarnasso (I secolo a. C.), Antichità Romane, I, 51, 3: Οἱ δὲ σὺν Αἰνείᾳ ποιησάμενοι τὴν ἀπόβασιν οὐ καθ᾽ ἓν χωρίον τῆς Ἰταλίας, ἀλλὰ ταῖς μὲν πλείσταις ναυσὶ πρὸς ἄκραν Ἰαπυγίας ὁρμισάμενοι, ἣ τότε Σαλεντῖνος ἐλέγετο, ταῖς δὲ λοιπαῖς κατὰ τὸ καλούμενον Ἀθήναιον, ἔνθα καὶ αὐτὸς Αἰνείας ἐτύγχανεν ἐπιβὰς Ἰταλίας. Τοῦτο δὲ τὸ χωρίον ἐστὶν ἀκρωτήριον καὶ ἐπ᾽ αὐτῷ θερινὸς ὅρμος, ὃς ἐξ ἐκείνου λιμὴν Ἀφροδίτης καλεῖται …(Quelli che con Enea intrapresero il viaggio non approdarono a un unico luogo d’Italia ma con la maggior parte delle navi al capo di Iapigia che allora era chiamato Salentino, con le restanti di fronte a quello chiamato Athenaion [=tempio di Atena], dove pure lo stesso Enea capitò dopo aver messo piede in Italia. Questo luogo è un promontorio e nei suoi pressi vi è un ormeggio estivo che da quegli [Enea] è chiamato Porto di Afrodite …).
Interrompo momentaneamente la carrellata degli autori perché credo che particolare attenzione vada riservata alle preposizioni che nei testi originali fin qui riportati corrispondono a tanti cartelli segnaletici o, meglio, costituiscono nel loro insieme i dati di una scatola nera in cui sono registrati i momenti salienti del viaggio:
1) ποιησάμενοι τὴν ἀπόβασι (alla lettera, che avevano fatto l’uscita):qui la preposizione che ci interessa (ἀπό)è incorporata nel sostantivo ἀπόβασιν, che deriva dal verbo ἀποβαίνω (=allontanarsi), a sua volta composto dalla preposizione ἀπό=via da+ βαίνω=andare. Ἀπόβασις (del quale ἀπόβασιν è l’accusativo) nei vocabolari è registrato con i significati di uscita, discesa, sbarco. Tali significati sottintendono come complemento di moto da luogo nave; nel passo di Dionigi, invece, il complemento di moto da luogo sottinteso è Troia e non a caso alla locuzione qui in esame si accompagna Οἱ δὲ σὺν Αἰνείᾳ (alla lettera: Quelli con Enea). Non tutti, come dirà subito dopo, sbarcarono nello stesso posto, dunque è evidente che ἀπόβασιν registra la partenza (che tutti fecero insieme) da Troia, non lo sbarco in Italia.
2) οὐ καθ᾽ ἓν χωρίον τῆς Ἰταλίας, ἀλλὰ ταῖς μὲν πλείσταις ναυσὶ πρὸς ἄκραν Ἰαπυγίας ὁρμισάμενοι (alla lettera: non in un solo posto dell’Italia ma con la maggior parte delle navi al capo di Iapigia approdarono).
Ho sottolineato le preposizioni su ciascuna delle quali farò ora le osservazioni. Κατἀ indica movimento dall’alto in basso e i significati che può assumere sono: giù, sotto, verso, di fronte, contro, durante. Nella traduzione l’ho reso con un diplomatico a che sembra togliere da ogni impiccio ma che non opera nessuna scelta tra diverse posizioni concettuali legate alla vasta gamma di significati offerti, come abbiamo visto, da κατἀ e che qui, tenendo conto del significato del verbo (approdare) potremmo restringere a sotto e a di fronte).
Πρὸς può significare verso o presso; nel primo caso, tenendo conto che il verbo è sempre approdare è privilegiato il movimento, nel secondo l’immediato risultato della sua cessazione).
3) ταῖς δὲ λοιπαῖς κατὰ τὸ καλούμενον Ἀθήναιον (alla lettera: con le altre a quello chiamato Athenaion). Anche qui ho reso κατἀ con un generico a. Ho già detto che la preposizione greca può significare sotto ma anche di fronte. Sostituendo nella traduzione a con sotto metto in risalto l’altezza della scogliera, sostituendolo con di fronte metto in risalto il tempio che, tenendo conto dell’idea originaria di movimento dall’alto verso il basso che κατἀ contiene, evoca una situazione nella quale è come se i marinai per un attimo si sentissero “guardati dall’alto in basso” dal tempio proprio mentre loro lo guardano dal basso in alto, finché, procedendo, esso non è più visibile. Ma tutto questo, forse, non è parallelo al refugitque ab litore templum (il tempio si allontana dalla riva) virgiliano?
Riprende ora la carrellata sugli autori poco fa interrotta.
d) Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.): Geographia, VI, 3, 5: Τοὺς δὲ Σαλεντίνους Κρητῶν ἀποίκους φασίν. Ἐνταῦθα δ᾽ ἐστὶ καὶ τὸ τῆς Ἀθηνᾶς ἱερὸν πλούσιόν ποτε ὑπάρξαν, καὶ ὁ σκόπελος, ὃν καλοῦσιν ἄκραν Ἰαπυγίαν, πολὺς ἐκκείμενος εἰς τὸ πέλαγος καὶ τὰς χειμερινὰς ἀνατολάς, ἐπιστρέφων δέ πως ἐπὶ τὸ Λακίνιον ἀνταῖρον ἀπὸ τῆς ἑσπέρας αὐτῷ καὶ κλεῖον τὸ στόμα τοῦ Ταραντίνου κόλπου πρὸς αὐτόν (Dicono che i Salentini sono coloni di Creta. Qui c’è anche il tempio di Atena un tempo prestigiosissimo e il promontorio che chiamano capo Iapigio, che si distende per largo tratto verso il mare e verso l’oriente invernale volgendosi all’incirca verso il Lacinio che gli si oppone da occidente e che chiude la bocca del golfo tarantino di fronte ad esso).
Il riferimento generico ai Salentini non obbliga, secondo me, ad intendere che Strabone abbia dato un’unica collocazione geografica ristretta al Capo Iapigio (Leuca) e al tempio di Minerva e che, perciò, quest’ultimo potrebbe benissimo non essere quello su cui poi venne eretto il tempio cristiano.
e)Livio (I secolo a. C.-I secolo d. C.): Ab Urbe condita, XXXII, 7, 3: Ii magna inter se concordia et senatum sine ullius nota legerunt et portoria venalicium Capuae Puteolisque, item Castrum portorium, quo in loco nunc oppidum est, fruendum locarunt colonosque eo trecentos , is enim numerus finitus ab senatu erat, adscripserunt et sub Tifatis Capuae agrum vendiderunt (Essi [i censori P. C. Scipione Africano e P. E. Peto] con grande concordia tra loro e senza osservazione di alcuno scelsero il senato e appaltarono la riscossione delle tasse portuali a Capua e a Pozzuoli, parimenti appaltarono come dogana portuale Castro, nel qual luogo ora c’è una città e reclutarono per quel posto trecento coloni, questo infatti era il numero stabilito dal senato, e vendettero il territorio di Capua sotto il [monte] Tifata).
L’identificazione qualche tempo fa proposta (M. Pagano, Sull’identificazione di due centri fortificati del Salento: Rocavecchia e Castro, in Römische Mitteilungen 93, 1986, pagg. 345-356) del Castrum citato nel testo con la nostra Castro mi lascia piuttosto perplesso per l’ambito campano dei restanti dettagli toponomastici: Capua, Pozzuoli, il monte Tifata.
f) Servio (IV secolo), In Vergilii Aeneidos libros, VIII, 9: APPARET IN ARCE MINERVAE hic dubium est utrum “Minervae templum” an “in arce Minervae” debeamus accipere. Sane Calabria ante Messapia vocata est. Hoc autem templum Idomeneus condidisse dicitur, quod etiam Castrum vocatur (APPARET IN ARCE MINERVAE qui è dubbio se dobbiamo intendere “il tempio di Minerva” o“sulla rocca di Minerva”. Veramente la Calabria prima fu chiamata Messapia. Si dice poi che Idomeneo fondò questo tempio che si chiama anche Castrum).
Il problema interpretativo sollevato da Servio è strettamente connesso con il carattere più ambiguo della poesia rispetto alla prosa. Se, infatti, in prosa il genitivo per lo più precede il nome da cui dipende, lo stesso non avviene in poesia dove, anche per esigenze metriche, la disposizione delle singole parole è più libera. Perciò, se si fosse trattato di un testo in prosa saremmo stati quasi obbligati ad intendere Appare sulla rocca il tempio di Minerva. Tuttavia direi che la questione posta da Servio mi appare come un discutere di lana caprina perché è irrilevante, soprattutto ai nostri fini, se di Minerva è la rocca su cui appare il tempio (arx, nominativo di arce che è ablativo retto da in) oppure se di Minerva è il tempio che appare sulla rocca. In entrambi i casi arx può essere considerato per sineddoche (parte per il tutto) come sinonimo di castrum e sarebbe strano, oltretutto, che sulla rocca di Minerva ci fosse il tempio di un’altra divinità o che un tempio di Minerva proprio sulla rocca non fosse prova che la città era consacrata a tale dea. In fondo sembra ammetterlo lo stesso Servio nel periodo finale e, se dobbiamo stabilire delle priorità, direi che il problema poteva già considerarsi risolto con Varrone e il suo Castrum Minervae, locuzione della quale il Castrum serviano appare abbreviazione.
g) Tabula Peutingeriana (IV secolo), VI, 5: …. Ydrunte VIII Castra Minervae
h) Guidone (XII secolo), Geographia, 29: Hydrontus, Minervum, in qua templum Minervae, ubi Anchises pater Aeneae primo omen equos pascentes Italiam advectus prospexit, ut infit Virgilius (Otranto, Minervo, nella quale c’è il tempio di Minerva dove Anchise padre di Enea accostatosi all’Italia vide per la prima volta come presagio cavalli pascolanti, come comincia a raccontare Virgilio); 69-71: Si subtilius scire voluerit totas civitates circumquaque parte per litora maris positas ordinatim unam post alteram … designabo, incipiens ab urbe Ravenna … Barium quae et Monopolis, Augnatium, Spelunca, Saunium, Valetum vel Valentium quae et Carpinium, Brundisium, Liccia, Ruge, Ydrontus, Minervum, Beretos quae nunc Leuca, Yentos quae nunc Augentum (Se uno vorrà sapere più dettagliatamente tutte le città tutto all’intorno poste sulle coste del mare una dopo l’altra … indicherò cominciando dalla città di Ravenna … Bari che è detta anche Monopoli, Egnazia, Spelonca, Saunio, Valeto o Valenzio che è detta anche Carpinio, Brindisi, Lecce, Rudie, Otranto, Minervo, Vereto che ora è chiamata Leuca, Iento che ora è chiamata Ugento).
Se Guidone è attendibile, Minervum appare, toponomasticamente parlando, come la tappa intermedia tra Castra Minervae della Tabula Peutingeriana e l’attuale Castro.
i) Anonimo, Chronicon breve Northmannicum de rebus in Iapygia et Apulia gestis in Graecos (1041-1085), pubblicato per la prima volta nel 1794 da Ludovico Antonio Muratori nel tomo V dei Rerum Italicarum scriptores: Humphredus fecit praelium cum Graecis circa Oriam et vicit eos. Gaufredus comes comprehendit Neritonum et Ditium. Robertus comes ivit super Callipolim et fugatus est iterum exercitus Graecorum in terra Tarentina et captum est Hydrontum et castrum Minervae (Umfredo fece un combattimento con i Greci intorno ad Oria e li vinse. Il conte Goffredo prese Nardò e Diso. Il conte Roberto andò su Gallipoli e in terra tarantina l’esercito dei Greci fu messo in fuga per la seconda volta e furono prese Otranto e Castrum Minervae).
Mi pare doveroso informare il lettore che l’opinione prevalente tra gli studiosi è che questa cronaca sia una delle falsificazioni settecentesche di G. B. Tafuri entrate nella raccolta muratoriana3.
Pacichelli (A), pag. 165
Pacichelli (C, anno 1686)
Fuori della città di Alessano, la terra di San Pietro in Galatina grande e vaga del Duca Spinola, e Castro (in collina questa) nel Capo, che a pena si sa dove sia, passando in proverbio per tutto.4
Pacichelli (A)
B Castello (mappa/http://www.bbmarina.it/wp-content/uploads/2011/02/DSC_3277-e1320955696768.jpg)
D Vescovato/Chiesa dell’Annunziata (mappa/http://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/1/1c/Vescovado_Castro.jpg)
G Porto (mappa/immagine tratta ed adattata da Google Maps)
Stemma di Castro (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Castro_(Puglia)-Stemma.png)
1 Quella, per così dire, iniziale è costituita da una statuetta bronzea di Atena iliaca (in basso nelle immagini tratte da http://relicsquest.blogspot.it/2010/04/lathenaion-di-castro-fu-il-salento.html) che, insieme con altri reperti di uso cultuale autorizza a supporre che l’area corrisponda all’Athenaion citato, come vedremo, da Dionigi di Alicarnasso, che, così, non sarebbe altro che il templum Minervae citato, come anche in questo caso si vedrà, da Virgilio.
2 Il suffisso –ιον (leggi –ion) aggiunto al nome di una divinità ne indica per lo più il tempio [Ἡραῖον (leggi Eràion)=tempio di Era], raramente il simulacro [Παλλάδιον (leggi Pallàdion)=statua di Pallade]. Qui è evidente che l’Athenaion è il tempio e non certo il simulacro.
3 Nel presentarlo il Muratori così si esprime: Quare ante Annum 1127 Historiola haec scripta videtur, adeoque non contemnenda. Debeo illam Nobili, simulque Literarum amantissimo Viro, Ignatio Mariae Como Neapolitano, qui exemplar obtinuit a praeclarissimo, & doctissimo Viro Petro Polidoro. Monente autem Polidoro ipso, descriptus fuit hic Libellus ex Codice Msto Archivi Episcopalis Ecclesiae Neritinae, et collatum cum altero Clarissimi Viri Jacobi De Franchis, et unius ex Marchionibus Taviani. Neritinus Codex circiter Annum 1530 scriptus videbatur; alter vero ex scripturae forma, aliisque coniecturis credebatur exaratus sub finem Seculi XII, aut initium sequentis XIII (Perciò [in base ad elementi cronologici interni] questa breve storia sembra scritta prima del 1127 e perciò non è da disprezzare. La debbo al nobile e nello stesso tempo amantissimo delle lettere Ignazio Maria Como di Napoli che ottenne una copia dal famosissimo e dottissimo Pietro Polidoro Su consiglio poi dello stesso Polidoro questo libretto fu trascritto da un codice manoscritto dell’archivio vescovile della chiesa neretina e confrontato con un altro dell’illustrissimo Iacopo De Franchis e di uno dei marchesi di Taviano. Il codice neretino sembrava scritto intorno al 1530; l’altro invero per la forma della scrittura e per altre congetture si credeva scritto verso la fine del secolo XII o all’inizio del XIII).
4 Ignoro quale sia questo proverbio (a meno che non sia riferito a Capo) ma sento l’eco delle parole del Pacichelli in Cesare Brandi (1906-1988), Pellegrino di Puglia, Laterza, Roma, 1977, s. p.: Ora io dirò di Castro, come se Castro fosse un luogo famoso; e invece nessuno lo conosce. A parte gli abitanti, siamo davvero pochi ad essere arrivati su quel punto quasi estremo della costa, a cavaliere fra Santa Maria di Leuca e Santa Cesarea.
E’ improvvisamente mancato, a Marittima (Lecce), il nobiluomo, ex politico di spicco, tesoriere del partito conservatore, stretto collaboratore di Margaret Thatcher, mecenate, scrittore e imprenditore inglese Alistair Mc Alpine, dell’omonima dinastia di costruttori, il quale, circa quindici anni addietro, aveva scelto di domiciliare la sua attività operativa nella minuscola località del Basso Salento, luogo di nascita dello scrivente.
Di qui, l’iniziativa di acquistare un vecchio edificio, già adibito a convento di monaci (fino al 1818) e in seguito utilizzato per scopi vari, non sempre con criteri ortodossi, sino ad uscirne, alla fine, semi abbandonato e con seri danneggiamenti strutturali.
Fortunatamente, il nuovo proprietario ha fatto ristrutturare il complesso con interventi d’alta qualità, al fine di ricavarne una struttura ricettiva, nella formula del bed & breakfast, di classe e charme, conferendo all’esercizio, in omaggio alla storia, la denominazione di “Convento di Maria Santissima di Costantinopoli”.
Un insediamento eccezionale per un piccolo centro salentino, tanto più in quanto apprezzato, grazie alle sue qualità di spicco, non solo a livello regionale e nazionale, ma anche in ambito europeo e su scala internazionale più vasta.
Da subito, sono così divenuti continui e consistenti gli arrivi di ospiti al “Convento”, da ogni dove, specie da Inghilterra, USA e Paesi scandinavi.
Di riflesso, una non trascurabile manciata di posti di lavoro a carattere continuativo, piccola manna per l’economia marittimese.
Lord Mc Alpine, nella fase iniziale, non sempre ha trovato terreno facile, ha dovuto superare le consuete e pesanti pastoie burocratiche e, talora, affrontare e vincere isolati e/o organizzati risentimenti localistici.
Tuttavia, in breve volgere di tempo, dimostrando di lavorare bene, con competenza e serietà, è arrivato ad affermarsi alla grande, nonostante le alte tariffe praticate per i soggiorni nella sua struttura.
Ricordo che, nell’ormai lontano 2003, da “compaesano”, volli presentarmi e conoscere Lord Mc Alpine, porgendogli il benvenuto nel Salento e complimentandomi per l’ottimo lavoro svolto nell’ex convento.
Insieme con lui, ebbi il piacere di conoscere anche la giovane moglie Athina, vera anima dell’attività alberghiera, con il vantaggio, per il coniuge, di dedicarsi, soprattutto, al giardino, alle piante e agli alberi.
Compiti a parte, la presenza del Lord a Marittima, pressoché fissa, quasi per trecentosessantacinque giorni, era segnata dalla caratteristica autovettura inglese d’epoca stazionante all’ingresso dell’ex convento, forse unica del genere in tutta Italia. Quando, poi, egli si muoveva per puntate in pescheria e/o al bar al fine d’acquistare gustosi dessert a beneficio degli ospiti, si parava davanti agli occhi la sua inconfondibile figura con la classica coppola a quadrettoni in testa, anche d’estate.
A distanza di tre lustri dall’arrivo e grazie anche alla sua disponibilità a prestare l’atrio della struttura ricettiva per eventi pubblici, come presentazioni di libri, serate culturali, spettacoli, Mc Alpine si è guadagnata la simpatia dei residenti e, pur col suo tratto riservato, di poche parole e discreto, tipico degli inglesi, è in sostanza divenuto quasi un marittimese.
Tuttavia, il Lord, forse, non avrebbe mai immaginato che il destino lo avrebbe portato a chiudere gli occhi per l’ultima volta in una località, prima sconosciuta del tutto, dell’Italia meridionale, nel Basso Salento.
Sia come sia, la notizia della dipartita repentina del personaggio mi è giunta, mentre mi trovavo casualmente a Marittima in una giornata grigia, poco dopo mezzogiorno.
In un baleno, la corsa in direzione della casa del Lord e l’impatto frontale con un manifesto che raccontava tutto.
Attraversato d’istinto l’aggraziato atrio dell’ex convento, mi sono portato in un saloncino al piano terraneo, impreziosito, al pari dell’intera struttura, da arredi di rara bellezza e lì mi si sono parate innanzi le spoglie del nobiluomo: la figura dava l’impressione di dormire, il volto disteso, un vestito elegante a minuscoli quadrettini bianchi, una cravatta a fiorellini aggraziati, la medesima fisionomia, in fondo, tante volte scorta nell’autovettura o negli occasionali incontri.
Nell’altro lato dell’ambiente, un bellissimo camino acceso, con un grande fuoco scoppiettante, nei riflessi delle fiamme vivaci pareva di scorgere il calore di questa gente, idealmente proteso ad accompagnare l’ospite arrivato da lontano nel suo definitivo viaggio.
Sono rimasto confortato nell’apprendere che Lord Mc Alpine, contrariamente a quanto sovente capita, non ha trascorso le ultime ore con una coda di sofferenza: per lui si è invece trattato solamente di un rapido guizzo delle ali terrene in direzione dell’alto, quasi volesse raggiungere e toccare, di un fiato, l’azzurro intenso del nostro cielo, in cui, innumerevoli volte, aveva immerso il suo sguardo estasiato.
Non ho potuto salutare la moglie di Mc Alpine, ma ho pregato un collaboratore di presentarle i sentimenti della mia vicinanza.
Uscito dalla dimora del Lord che non c’è più, ho infine voluto verificare che la civica amministrazione locale si accingesse a manifestare un segno d’omaggio e di riconoscenza in memoria dell’illustre e benemerito scomparso, ottenendone conferma dall’attuale sindaco, una giovane, competente e attiva donna.
Doppio anniversario nel 2013 per Pietro Marti (Ruffano, 1863 – Lecce, 1933), uno relativo alla nascita (150 anni), l’altro alla morte (80 anni). Marti, il cui nome completo era Pietro Luigi, dominò la scena culturale salentina a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Fu insegnante, giornalista, cultore d’arte e di storia, ispettore ai Monumenti di Terra d’Otranto e infine direttore della Biblioteca Provinciale “Bernardini” di Lecce. Ma fu soprattutto fondatore e direttore di giornali, da Taranto a Comacchio e alla stessa Lecce, dove visse la sua vita di lavoro e di affetti per quasi un intero cinquantennio. Da direttore della Biblioteca Provinciale produsse un importante “Catalogo”, in cui sono comprese anche le sue opere, una quarantina, che rappresentano la testimonianza di un’appassionata difesa e valorizzazione delle patrie memorie del Salento e dei Salentini.
A giugno ci sarà un Convegno Nazionale di Studi, patrocinato dalla Provincia, dalla Biblioteca Provinciale di Lecce e dal Comune di Ruffano, organizzato dall’Università del Salento e dalla Società di Storia Patria per la Puglia. In quella sede i relatori metteranno in risalto i suoi tanti aspetti di studioso e di propagatore di cultura.
***
Tra gli aspetti minori della personalità di Pietro Marti va considerata la frenetica, ed apprezzata, attività di conferenziere, che egli ebbe ad esprimere un po’ in tutto il suo peregrinare per la Penisola, già da giovane insegnante nelle terre delle inclementi nebbie di Comacchio, e in varie città italiane, dalla capitale Roma e per l’intero Meridione.
Per il suo costante impegno culturale, che lo portava presso circoli d’impegno sociale (sezioni di Società di Mutuo Soccorso, circoli cittadini, Società “Dante Alighieri”, ecc.), e per la notorietà di giornalista e direttore di testate da lui fondate un po’ dappertutto, egli fu apprezzato quale conferenziere d’un certo successo.
Nel 1896, dopo la breve parentesi di permanenza in Alta Italia, fiaccato dalle nebbie di Comacchio, e dopo aver pubblicato nella sua nuova residenza a Taranto l’interessante opuscolo La modellatura in carta, lesse la conferenza Il sorriso nell’arte, in cui sorprese gli uditori per l’acutezza d’interpretazione e per la facilità di spostarsi dall’enciclopedismo alla piacevolezza dello svolgimento. Ma la sua attività letteraria non gli impedì un’intensa vita politica, giornalistica ed umana. Fondò così nella città ionica “Il Salotto” Biblioteca tascabile, foglio dettato dal bisogno di dare linfa al languore letterario locale. Furono suoi collaboratori Luigi Marti, Scarano, Gigli e molti altri, i quali favorirono una produzione editoriale volta ad ostacolare la congerie della cattiva produzione in poesia e in prosa che veniva d’Oltralpe.
La sua produzione attinse alla fonte dell’abbondanza interiore. Nel 1903, dopo la pubblicazione di un altro libro Giuseppe Battista e i poeti Salentini del secolo XVII, in cui disegnò con acutezza critica il Seicento e l’Arcadia del Salento, tornò a Lecce, a commemorare, invitato dal Circolo Artistico, il grande Dante. La conferenza, interamente pubblicata dalla rivista “Rinascenza”, porse occasione a lusinghieri commenti come quello del “Corriere Meridionale”: “Poche volte si può provare un senso di maggiore godimento intellettuale, come scorrendo quelle pagine, entro cui si fonde la geniale severità dell’osservazione con la luminosa e affascinante immagine poetica”. Ma già Matilde Serao aveva scritto di Marti: ”Tra questi studiosi serii, notevoli per profondità di pensiero, dalla parola ampia, vibrante ed eletta è da annoverarsi l’egregio autore di questa “Visione”.
A Lecce, nel 1910, nel pieno dell’infuriare della polemica scatenata (con l’Incagliati) dal volume su “Don Liborio Romano”, Marti tenne una conferenza, presso la “Sala Dante”, dal titolo Popolo e Principato nell’Epopea Nazionale, la cui eco comparve nella stampa dell’intero Salento.
Delle relazioni preparate (e spesso lette) abbiamo, invece, un ampio elenco a stampa, pubblicato nella raccolta Storia ed Arte (Conferenze e discorsi), dalla tipografia La Modernissima nel centrale Palazzo leccese Andretta.
Se non mancò l’opportunità di misurarsi nella capitale, Roma, nell’aprile del 1924, con la relazione Nella terra di Melo su invito dell’Associazione Pugliese, addirittura massiccia fu la sua presenza nelle principali città meridionali e della Puglia in particolare. Nel maggio del 1917 tenne una prima volta a Bari la conferenza dal titolo La terra di Melo, su invito dell’Università popolare. In altra conferenza nella stessa città, trattò il tema Le sorgenti della coscienza civile in Terra di Bari.
A San Severo, nel marzo del 1921, dove si era spostato in qualità di Direttore delle Scuole Tecniche “Zanotti”, su invito dell’Università popolare parlò de Il dovere civile e Giuseppe Mazzini. E nella stessa città, che lo aveva visto alcuni anni anche docente nelle Scuole superiori, nell’aprile dello stesso anno, in occasione del VI Centenario della morte di Dante Alighieri, fu invitato a conferire con la relazione dal titolo La missione del vate. Nel 1922 parlò de La guerra otrantina e A. Galateo.Nel 1923, anno in cui notissimo era Marti per la fondazione del foglio “Fede”, tenne una conferenza a Lecce, Nella Terra di Tancredi, a beneficio del Padiglione cittadino “E. Mussolini”; nel settembre di quello stesso anno, a Taranto, città dove aveva soggiornato, condiviso l’amicizia dei Viola, fondato e diretto alcuni giornali di prestigio, inaugurò un Corso di conferenze cittadine presso il Circolo “Giacosa” con la citata relazione Nella terra di Tancredi.
In quello stesso anno, nel dicembre del 1923, con Sorrisi dell’Arte e del pensiero, nella città ionica di Gallipoli inaugurò un Corso di conferenze all’Associazione “Amatori d’Arte”. Con la stessa relazione tenuta nella città-perla dello Jonio, nel giugno del 1924, si spese con grande successo in una serata a favore del Liceo scientifico del capoluogo salentino. Con Sibilla di Lecce, nel febbraio del 1925, riscosse grande successo presso la casa Apostolico, alla Brigata degli Amici dei Monumenti. Il 15 aprile di quell’anno, sempre a Lecce, tenne il discorso inaugurale, in Piazza Duomo, per la posa della Fontana Monumentale. Nell’estate di quell’anno, il 15 luglio 1925, a Gallipoli, in occasione della III Mostra d’Arte Moderna, tenne il discorso inaugurale dell’importante evento.
Nella stessa raccolta citata, Storia ed Arte, egli pubblicò tre saggi, autentici reportages di viaggio, dal titolo Escursioni, il primo Alla Limini (1908), il secondo A Carpignano (1909),il terzo A Maruggio (1922), in cui esprime interessanti osservazioni su tematiche di carattere naturalistico e paesaggistico. Ma le conferenze del Nostro non furono soltanto queste citate, perché espressamente pubblicate a stampa in un volume. Di altre, e diverse, abbiamo un’eco in alcune delle più note testate giornalistiche di Taranto, Lecce e Bari degli anni Venti.
***
Al giornalista, saggista, cultore d’arte e di storia patria non mancò la connotazione di polemista efficace e battagliero, caratteristica riconosciuta da tutti a Marti sin dal suo primo apparire sul panorama salentino della cultura storico-letteraria.
A tale aspetto della sua forte personalità fece riferimento Pasquale Sorrenti nel suo Repertorio bibliografico (ed. 1976),quando citò, nel lungo elenco delle sue opere, due scritti di Marti, Verso il nuovo secolo (Pagine di polemica) del 1905 e I naufraghi (per don Liborio Romano). Pagine di polemica del 1915, entrambe stampate a Lecce presso la Tipografia Sociale.
Marti fu sempre un grande lottatore in ogni ambito della sua esistenza. Da insegnante, conquistando giorno per giorno i titoli sufficienti al riconoscimento ufficiale, passando da maestro rurale al ruolo di professore pareggiato ed ordinario nelle Scuole Tecniche, negli Istituti magistrali, nei Licei scientifici e Classici, anche per cattedre speciali come quella della storia dell’Arte. Da conferenziere originale e geniale trattò i temi più vari a Lecce, Brindisi Taranto, Bari e Roma. Da storico e letterato, dal pensiero profondo, dalla cultura enciclopedica, dalla forma agile e chiara, che gli fece produrre oltre quaranta tra libri, monografie e saggi.
Da giornalista egli fu irresistibile ricercatore della verità, fiero nell’arengo politico e letterario, dando vita ad un vero popolo di periodici e di riviste, che spesso determinarono indirizzi nuovi nei vari ambienti. Notevoli tra tutti La Democrazia, Il Popolo e Storia ed Arte a Lecce, Il Lavoro a Ferrara, L’Avvenire, L’Indipendente, La Palestra e il Salotto(biblioteca tascabile) a Taranto.
E proprio in campo giornalistico Marti si trovò a scontrarsi con Nicola Bernardini, altro giornalista di razza, all’epoca in cui, ceduta la proprietà di Democrazia al senatore Tamborrino, dal 21 ottobre 1919 al giugno del 1920, scrivendo da direttore contro il suo rivale. Ne nacquero polemiche personali asperrime, violentissime, che Pietro Marti sostenne contro Bernardini, dal quale venne ricambiato con egual moneta dalle colonne della sua “Provincia di Lecce”. Polemiche ripetutesi ad intervalli per un trentennio e che spesso finirono in processi da cui Marti uscì sempre assolto.
(Pubblicato su Presenza Taurisanese, a. XXXI, marzo 2013, p. 11)
Avevo detto del gioco d’azzardo, dell’utilizzo che i governi di ogni colore ne fanno per fare cassa a scapito e danno delle persone che ne rimangono invischiate. Avevo detto della mancanza di etica delle istituzioni che non normano, non controllano, non fanno rispettare il divieto di gioco ai minori, limitandosi a mettere elucubranti avvisi scritti fitti fitti nelle vetrine in cui si dice, utilizzando parafrasi, iperboli e giochini di parole, che il gioco fa male e che i minori di 18 anni non possono giocare. Un pò come nei bugiardini dei farmaci, quelli che nessuno legge semplicemente perchè sono scritti piccolissimi e utilizzando termini scientifici che capiscono solo gli addetti ai lavori, tranne che là dove dicono “in casi estremi l’assunzione può portare alla morte”.
Mai però avrei pensato, neppure lontanamente, di dover dire anche di quello che è accaduto a Mestre il giorno 16 gennaio 2014 (segnare la data per favore, è importante).
In realtà fatico a trovare le parole per dirlo, anche se sono in ottima compagnia, lo stesso Gramellini (leggi articolo) non riesce a darsi pace per questa italica follia.
Il verbale della Guardia Di Finanza recita papale papale:
«il titolare di un esercizio di somministrazione di alimenti e bevande deteneva e consentiva l’uso del gioco calciobalilla senza essere in possesso della prescritta autorizzazione»
I fatti: il titolare di un bar di Mestre rifiuta di installare nel suo esercizio le slot machine per questioni etiche. Al loro posto mette un calciobalilla assolutamente gratuito per gli avventori. Sottolineo: GRATUITO!
Tuttavia la legge italica non ammette ignoranza: “Dura lex sed lex” e chi installa un calciobalilla gratuito deve essere munito di regolare autorizzazione. Caspita, quel fuorilegge di barista! Si è cuccato un verbale di ben 1400 euro.
Ora, chi ha seguito anche sommariamente le vicende del gioco d’azzardo legalizzato, chi ha letto delle multe alle dieci sorelle delle slot che da due milardi e cinquecento milioni di euro (lo scrivo in lettere perchè si legga bene, tutto quanto, senza omettere zeri) sono state condonate dell’80% e mai pagate, non può che alzare le braccia a fronte di queste notizie ed arrendersi.
Io mi arrendo. Mi dichiaro incapace di intendere, non capisco veramente. Tutta la umana solidarietà al barista di Mestre, tutto il disgusto per l’imbecillità di altri.
P.s. Ovviamente il barista di Mestre finirà nelle percentuali ISTAT delle evasioni e delle inottemperanze dei commercianti italici, esattamente come gli evasori di miliardi di euro.
Cantastorie del Salento, eclettico giornalista – Rocco Boccadamo – raccoglie in questa nuova pubblicazione “Una matinée al Santalucia” lettere ai giornali e appunti di viaggio nelle diverse località salentine. Abile nel catturare profumi, odori, sapori della Puglia avvertendo la necessità di recuperare tradizioni, usi, costumi dimenticati.
Tra nostalgia del passato e voglia di vita Rocco Boccadamo riporta i suoi appunti di viaggio cercando di lasciare nella memoria dei lettori ricordi di un tempo vissuto, di un presente legato all’amore, alla famiglia, alla terra salentina.
“Una matinée al Santalucia” racconta l’amore clandestino di due giovani passionali e innamorati che cercano di vedersi quando possibile come nelle matinée al cinematografo “Santalucia”. Si susseguono le storie e gli avvenimenti che Boccadamo traccia come articoli di memoria o semplici riflessioni da condividere con coloro che sono intrisi dall’amore per la magica terra salentina come nel caso di Giuseppe Bertolucci, sceneggiatore e regista, che ha scelto Diso, piccolo comune del basso Salento per trascorrere l’estate sino al giorno della sua morte, il 16 giugno del 2012.
Si rievoca la meravigliosa Castro, Marittima, Otranto che esprimono volti, suoni legati all’autore e sprigionati come polline di fiore delicatamente sulle menti e i cuori dei lettori.
Leggendo “Una matinée al Santalucia” si ha l’impressione di percorrere gli stessi luoghi e vivere momenti di leggiadria – seguendo il maestrale – si percorre un anno di eventi, cullati da momenti indelebili, luoghi indimenticabili, bellezze che lo stesso autore vorrebbe incontaminate ed eterne.
Narra di Lucugnano nel quale paesino era stato organizzato un incontro in onore del poeta e letterato del novecento Girolamo Comi, uomo aristocratico ma generoso e disponibile con chiunque. Si giunge al mese di settembre quando le temperature sono calde in Salento e a Castro è ancora “tempo di vele”. “Si attende la pioggia e qualche goccia finalmente arriva su questo lenzuolo di terra e mare, in corrispondenza dall’amplesso tra verde Adriatico e azzurro Ionio”. (p. 157).
Sono tanti i racconti che Rocco Boccadamo ha voluto imprimere su fogli di carta per suggellare ricordi di un tempo vissuto.
Ogni momento corrisponde ad una data – dettaglio che denota la qualità di giornalista attento e puntiglioso – si susseguono fino ad una fine provvisoria da un inverno ad un’estate per chiudere un ciclo, le quattro stagioni. Altalenanti e fuorvianti si alternano istanti, dall’incantevole Castro, ad Andrano, Marittima tra Ionio e Adriatico, tutto scorre ma senza indifferenza perché Boccadamo sa abilmente catturare e possedere i ricordi e condividerli come patrimonio identitario di molti salentini e non solo.
Si respirano gli odori dell’estate, i sapori autunnali, i miti inverni e si leggono negli appunti di viaggio – cinquanta – momenti di una vita vissuta.
Ermanno Inguscio, storico salentino, cura la prefazione di “Una matinée al Santalucia” tracciando abilmente e in modo dettagliato il “trait d’union” del corpus ossia l’amore per la propria terra, i familiari, il lavoro, i rapporti umani. Tutto è perfettamente collegato e descritto con cura e amabilmente verso chi per la prima volta si accosta al libro con la curiosità di un mondo da scoprire, immaginare, amare che sa di Salento, di terra, di sole e di mare.
Da operoso navigatore di bordo Rocco Boccadamo non può che augurarvi un buon viaggio!
La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione
al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.
C.F. 91024610759 Conto corrente postale 1003008339 IBAN: IT30G0760116000001003008339
www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.
Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi: Gestione contatti e invio di messaggi MailChimp Dati Personali: cognome, email e nome Interazione con social network e piattaforme esterne Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo Servizi di piattaforma e hosting WordPress.com Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio Statistica Wordpress Stat Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo Informazioni di contatto Titolare del Trattamento dei Dati Marcello Gaballo Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com