Non sono uno studioso di storia del costume (inteso, nella fattispecie, come abito) e non so, perciò, se in passato fosse concessa, ed in caso affermativo in che misura, la rivisitazione dei costumi tipici e una certa libertà nel rappresentarli, pur dovendo restare fedeli, m’immagino, ad alcuni dettagli. Sono perfettamente consapevole di apparire, pur nel semplice pormi il problema, come un ingenuo e ribadisco perfettamente consapevole perché, secondo il mio modestissimo e discutibilissimo parere, la società del nostro tempo ha ereditato solo gli aspetti peggiori della contaminazione (intesa come incontro tra culture …) e in una superficiale ricerca del tutto e subito, guidata solo dall’arrembante prospettiva del profitto, ignorando l’importanza della metabolizzazione pure del sapere, ormai non sospetta nemmeno di quale arricchimento (e non solo culturale …) la corretta, ripeto corretta (per esserlo ha bisogno di tempo, ma questo contrasta con il tutto e subito) contaminazione può essere il catalizzatore.
Non mi entusiasmerei, perciò, se qualche stilista s’ispirasse (magari sarà stato fatto più di una volta, ma la moda e soprattutto le mode non hanno mai avuto e non avranno il disonore di annoverarmi tra i loro studiosi o, peggio, tra i loro seguaci) per una sua collezione ai costumi tipici; d’altra parte nessuno si sognerebbe di indossare simili abiti se non in particolari occasioni celebrative in cui, ormai, lo spettacolo ha preso il posto della coscienza storica e del coinvolgimento di quel sentimento che si chiama nostalgia.
Questa premessa per giustificare la nuda riproduzione di cinque stampe del costume tipico di altrettanti centri di Terra d’Otranto che ho tratto da un testo (Raccolta di sessanta più belle vestiture che costumano nelle città, terre e paesi in provincie diverse del Regno di Napoli, parte II, numero XXX, presso Talani e Gervasi negozianti di stampe, Strada del Gigante III Palazzo n. 7, Napoli, 1792) trovato, mentre cercavo altro (è un classico!) in rete all’indirizzo http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b55003813h/f1.item.
Ho pensato che valesse la pena renderne partecipe l’amico lettore. Buona visione!
Al primo tocco della campana di mezzogiorno uomini, donne e bambini erano lesti a confluire al centro della strada, vicolo o corte dove abitavano, ordinatamente sistemandosi a largo cerchio, come a tracciare un perimetro sacrale. L’officiante della cerimonia, scelto nella persona del residente più anziano, era l’ultimo ad arrivare, scenograficamente sbucando dal punto più lontano e avanzando lentamente, quasi volesse, nel suo passo stanco, materializzare il senso della mortificazione. Al suo apparire le donne nascondevano le mani sotto il grembiule in segno di compunzione, mentre gli uomini, scopertosi il capo e deposte a terra le coppole, gli si facevano incontro per scortarlo onorevolmente fino al centro del cerchio, da dove, appena giunto, invitava i presenti a segnarsi di croce e ringraziare il Padreterno pi llu tiémpu utu a ssardàre li cunti e scansare lu fuécu (per il tempo avuto a saldare il debito facendo penitenza ed evitare così l’inferno). A un suo triplice schioccare di dita, poi, i ragazzi prescelti a fare la spinnàta (la spennata), e che fino a quel momento erano rimasti in attesa ognuno sulla soglia della propria casa, partivano a razzo, sveltamente arrampicandosi sobbra lli scale lliatìzze (su delle lunghe scale a pioli) precedentemente disposte in corrispondenza di ogni quarémma. Dopo aver raggiunto il culmine dei comignoli e aver sostato un attimo pi ddare tiémpu a llu celu cu lli éscia (per far sì che il cielo avesse il tempo di notarli), sfilavano una delle penne confitte nell’arancia, contemporaneamente staccandone il filo di lana che lasciavano penzoloni nel vuoto. Dal basso intanto li raggiungeva un coro di voci, capeggiate da quella tremula del vecchio:
Passàu nn’àura simàna e cchiù bbicina ddirlàmpa la croce: Cristu, pirdòna a lli piccati nuésci! Ti lu circàmu cu lla facce an terra: Cristu, pirdòna a lli piccati nuésci!
“E’ passata un’altra settimana e più vicina lampeggia la croce: Cristo, perdona i nostri peccati! Te lo chiediamo con la faccia a terra: Cristo, perdona i nostri peccati!”.
A guardarla dall’alto, quella manciata di penitenti che si battevano il petto con i pugni doveva essere più che pittoresca, ma i ragazzi non avevano tempo alla riflessione: dovevano affrontare la discesa, e madri e nonne erano state chiare nel metterli sull’avviso:
Pinsàti a lla penna… mi raccumànnu… cu nno bbi scappa ti manu… ricurdàtibbe ca sempre s’à ddittu: centu spintùre pi nna penna persa e mmuzzicàte ti la mala sorte pi nna ruculàta ti maràngia!
“Pensate alla penna… mi raccomando… che non vi sfugga di mano… ricordatevi che si è sempre detto: cento (molte) sventure a causa di una penna persa e morsicature della cattiva sorte per la rotolata di una maràngia!”.
Questo associare nei segni nefasti della discesa tanto la perdita della penna quanto la ruzzolata dell’arancia, autorizza a credere che, originariamente, alla mano della quarémma ne venivano appese sette di marànge , ognuna con la sua brava penna infilzata; uso probabilmente soppresso a causa della difficoltà incontrata nel far reggere i sette pesanti frutti, non dimenticando al proposito che i fantocci rimanevano per ben quaranta giorni esposti alle intemperie, per cui bastava un più gagliardo proporsi di vento a mutilarne le orpellature. A ulteriore avallo dell’ipotesi sta il fatto che i ragazzi, appena toccata terra, ricevevano, ognuno dalla propria madre, una maràngia da consegnare insieme alla penna al vecchio, ai cui piedi c’era un paniere nel quale depositare i frutti. Un’operazione alla quale non si dava importanza, concentrando l’attenzione unicamente sulle penne, rette con solennità quasi fossero trofei e che il vecchio, dopo averle accuratamente sistemate a ventaglio, deponeva sobbra’a nnu quatiéddhru o nna liccìsa (su una pietra – tufacea o leccese – squadrata) precedentemente sistemata al centro del cerchio dal più autorevole dei capifamiglia presenti, affinché servisse come improvvisato piano di ara.
Ormai si era nell’ultima fase del rito espiatorio, ma prima di procedere alla bruciatura delle penne, valevole appunto come simbolica cancellazione delle colpe, si chiedeva al cielo un segno di accettazione, implorando coralmente: “Nfàcciate Ddiu, e ll’uégghiu pi bbrusciàre mànnalu cu nna manu ca sta ffiùra” (“Testimonia la tua presenza, o Dio, facendo sì che a portarci l’olio per bruciare sia la mano di una creatura in fioritura”). Detto questo, i presenti rompevano il cerchio, disponendosi in due file compatte, e dal fondo, con l’aria liliale di una comunicanda, si faceva avanti una donna visibilmente gravida: “Simente minàu ratìci, e ssontu terra ca ngrossa la spica” (“Il seme ha messo radici, e sono terra che ingrossa la spiga”), attestava ponendosi alla sinistra dell’officiante, subito aggiungendo con maggiorata enfasi: “Ndegna jò, ma l’ànima nnucénte ca bbi nnucu pote tare uégghiu a lli piéti ti Ddiu” (“Io sono indegna, ma la creatura innocente che vi porto può permettersi di offrire l’olio da bruciare ai piedi di Dio”). Cavata dalla tasca del grembiule una bottiglietta di olio, la svuotava sulle penne, tracciando segni di croce e intonando un “Credo” al quale tutti facevano coro, pronti a ricomporre il cerchio non appena il vecchio, accostando un tizzone acceso,dava fuoco alle penne.
Non rimaneva che sbucciare le marànge: un compito svolto dalle donne, anche se era pur sempre l’officiante a distribuirne gli spicchi, a uno a uno, religiosamente come fossero ostie, e non senza aver prima raccomandato: “Ci bbi rrappa la lengua, pinsàti a llu fele ti Cristu!” (“Se vi si inasprisce la lingua, pensate al fiele che ha dovuto bere Cristo!”).
Allo sgradevole odore dell’olio bruciato, per un attimo si sovrapponeva quello amarognolo emanato dalle bucce delle arance, subito fatte oggetto di spartizione – qualche volta di contesa – da parte delle donne: se le dovevano portare a casa, e come teste dell’avvenuto rituale e come esca profumata da usare nel mezzogiorno del giovedì santo, quando, ormai finita la quarantena, le quarémme venivano rimosse dalle loro postazioni aeree e, in un crescendo di selvaggia euforia, buttare abbasso per essere bruciate in un unico falò, sul quale si lanciavano appunto le bucce di maràngia unitamente a manciate di sale.
Anche se c’era ancora da scontare il “pane e acqua” del venerdì santo e piangere il Cristo morto correndo di chiesa in chiesa dietro la statua dell’Addolorata al lugubre suono ti la fròttula (del crotalo), già si respirava aria pasquale: issati al posto delle quarémme folti rami d’ulivo benedetto tenuti appositamente in serbo fin dalla domenica delle Palme, e nell’euforica attesa di potere ammirare a sera li santi sipùrchi (i sacri sepolcri, cioè le reposizioni del Santissimo Sacramento), i cui caratteristici piatti di ranucìgghiu (germogli di grano) trasformavano gli altari in altrettanto campi primaverili, tutti rientravano nelle loro case, pronti a prendere d’assalto la mminisciàta ti pizzariéddhri ndurcinàti (scodellata di maccheroncini addolciti), tanto più calamitanti in quanto alla loro insolita proposizione infrasettimanale assommavano un’altrettanto insolita manipolazione gastronomica.
* La gallina nera, essendo usata dalle fattucchiere nell’orditura dei loro malefici, veniva guardata dal popolo con sospetto: sentirla cantare da gallo (verso emesso spontaneamente di tanto in tanto) era annuncio di morte. Anche le sue penne rientravano nell’alone della negatività: trovarsele sul proprio cammino o, peggio ancora, sulla soglia di casa, era simbolo dell’avventarsi di una disgrazia, per cui, a neutralizzazione, occorreva raccoglierle e bruciarle in un determinato modo.
Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994 (pagg. 252-258)
Il toponimo: La forma attuale sembra diretta discendente di Odrunto attestato in una Cosmographia in latino di autore anonimo risalente al VI secolo d. C.1
Le forme precedenti più antiche sono, invece, per il greco: Ὑδροῦς (leggi Idrùs; genitivo Ὑδροῦντος, leggi Idruntos) attestato nello Pseudo Scilace (Periplo2, 27) e per il latino Hydrus (genitivo Hydruntis) attestato in Cicerone (I secolo a. C.), Epistulae ad familiares, XVI, 9, 23. La forma Hydruntum è attestata in Imperatoris Antonini Augusti itinerarium provinciarum, 118 (risalente al III secolo d. C. ma con aggiunte successive). La forma Odrontum è attestata nell’Itinerarium Burdigalense, 609 (circa 333 d. C.). Tutte le forme sembrano ricondurre al greco ὕδωρ=acqua e in particolare alla sua radice ὑδρ– utilizzata da voci come ὕδρος =serpente d’acqua, ὑδρία=secchio, ὑδραίνω=bagnare, etc. etc. Il nome alla città, perciò, sarebbe stato dato da quello di un dettaglio del suo paesaggio, cioè il fiume Idrunte (oggi chiamato meno correttamente Idro)4.
Se la Mappa di Soleto fosse autentica, cioè risalente al VI secolo a. C., l’attestazione più antica del toponimo sarebbe proprio quell’HΥΔΡ (abbreviazione di HΥΔΡΟΥΣ) che vi si legge (evidenziato con l’ellisse rossa nell’immagine, mia, in basso).
Pacichelli (A), pagg. 158-159:
Pacichelli (B, anno 1684 e C, anno 1686 e 1687):
Tornando ad entrare in feluca, mi fei portare ad Otranto. Questa è metropoli di una particolar provincia, chiamat’appunto Terra d’Otranto, nella quale risiede l’Arcivescovo successore a’ discepoli di San Pietro Apostolo, che ha cinque suffraganei e ’l regio Governatore. Della fondazione di lei par che si favoleggi in persona di Minos Re di Creta, accompagnato da Dedalo, figliuolo di Pimaleone, ma senza veruna autorità. Prende il nome dal fiume, o dal monte Idra, quel che la bagna, e questi la signoreggia, in clima temperato e territorio fertile, che si discosta cinquanta sole miglia dalla Grecia, onde vien riputata per la scala dell‟oriente a’ Veneziani e Ragusei. Un Console veneto qui trattenuto corrisponde con Barletta e con cinque altre città marittime, raccogliendo le nuove di Levante, che trasmette al Ministro della Repubblica in Napoli, e questi le spedisce in diligenza al suo Principe. Sono ameni i suoi colli ed abondanti le pianure di frutta, di vino e di agrumi, de’ quali proveggonsi lontani paesi. Il suo lago di Limini gira dieci miglia e produce capitoni grossi e altro pesce. La maltrattò nel 1480 Mehemet II, tiranno d‟Oriente, sì come scrive il Galateo di quella guerra, per vendicarsi dell‟ajuto prestato a Rodi dal Re Ferdinando I di Napoli, speditovi con 140 vascelli, 18 mila fanti e 1500 cavalli Agmet Bascià, il quale sagrificò a Dio col suo sdegno la vita dell’Arcivescovo Pendinello e il sangue di 800 generosi campioni, armati da questo col sagrosanto cibo dell’Eucaristia, nel luogo che oggi si chiama la valle de’ Martiri, ove mi dissero che non ha gran tempo si sian vedute scintillare lucidissime stelle. In una cappella del suo gran tempio, per lo pavimento del quale i vaghi mosaici rappresentano un albero bellissimo di vari colori, si custodisce la maggior parte de’ corpi loro con culto, collocativi dalla pietà reale della Casa di Aragona, mentre 240 delle lor teste, ossa e frammenti furono in due casse trasferiti a Napoli dal Re Alfonso il II, nel suo altare di Santa Caterina a Formello de’ Padri Domenicani Lombardi alla porta Capoana. Vi è qualche antica memoria di Proclo, Milone e Formione, l’Academia de’ quali ebbe per uditori gli stessi Romani e altri soggetti illustri, contando venticinque fameglie nobili in 455 fuochi; ed ave tre chiese offiziate da’ greci, i quali a Casola, ne’ Monaci di San Basilio, posseggon la insigne badia, nella quale fioriron uomini di grido nella bontà e dottrina.
Si venerano i Martiri del Signore nella metropoli di Otranto, e molto più la Beatissima Vergine, in quell’estremità un miglio dentro il mare, alla punta della Iapigia, che chiama il volgo De Finibus Terrae, o in fine Mundi, e si suole in folla dalla Terra di Bari e da tutta la propria Provincia visitar nell’agosto. Il suo tempio divoto non è grande né ricco. Lo custodisce un eremita e vi corron tal volta sacerdoti a celebrare più messe il giorno. È antica l’imagine di sopra, dipinta in tavola, e in parte abbrugiata da’ Turchi, prodigiosissima e ricca d‟indulgenze, massimamente in quel tempo, sì come si leggea in caratteri d’oro in un marmo, dicendosi che al Papa celebrando venne questa dovizia dal Cielo, e che si sollevasse poi da sé medesima.
Per lo Specchio, terra che sembra uno scrittoio, in 18 miglia si toccò Otranto, e su ‘l mezo giorno, attendendo col picchio alla porta la discretezza e il levar delle mense de’ Conventuali. È città angusta, alquanto elevata, in aria poco prospera, cinta di vecchie e forti mura, con alcune buone fabriche e colma con industria di pesce, di agrumi e di fichi. Numera 400 fuochi, dando luogo a’ Consoli di Venezia, Francia, Inghilterra e Olanda, in una costa importante di mare, su ‘l fiume Idro, guardata dal castello con 30 pezzi. Non ha vino che forastiero, e famoso, conform’è tutto quello del Capo. Mi fu aperto l’Arcivescovado del Sagrista e dell’Abate del Capitolo, i quali mi mostraron la statua di legno della Beata Vergine, spiccata per sé stessa dalla Turchia e posta nel grande altare; il pavimento di antichi e curiosi mosaici, partito nelle tre navi in alberi, misteri e simboli sagri con leggiadria; sotto l’altare, a sinistra, le teste, anche passate da frecce, e le viscere, chiuse con chiavi forti, de gli ottocento generosi cittadini, che contestar la fede di Cristo col proprio sangue alla tirannia ottomana, molti corpi de’ quali degnamente si serbano là intorno, in vari scrigni di legno dorato con le graticole, e alcuni in una cassa di argento, comoda per le processioni, che si valuta 300 scudi. Fuori, presso al termine ove portan le lunghe grade al tempio de’ Minimi, dedicato a gli stessi Martiri nel 1450 dal Duca di Calabria, nell’altare di una picciola cappella, si scorge la pietra su la quale venner eglino decollati. In un‟altra al piano, sotto il titol’ora di Sant’Eligio, tempio già di Minerva, la statua della qual è trasferita in città, si gusta l’acqua leggiera della sorgente, che prende il nome da quella dea. Vollero ministrarmi a mensa la sera con esquisito pesce, fatto però da me provedere, que’ Padri che, dopo il sorger del sole, m’indirizzaron per 20 brevi miglia e per la vaga terra di Corigliano, alla maggiore, che non invidia qualsiasi città, e si dice San Pietro in Galatina.
Pacichelli, mappa:
Prima di passare al consueto esame dei dettagli faccio notare che sorprendentemente nella didascalia della mappa manca la lettera relativa alla Cattedrale, anche se essa è citata nella parte testuale e rappresentata in mappa nel dettaglio in cui l’ho evidenziata con l’ellisse rossa, mentre l’immagine a destra (tratta ed adattata da Google Maps) aiuta il lettore a cogliere nella mappa la coerenza rappresentativa, per quanto può essere spinta quella di norma rilevabile nella cartografia antica.
Dopo la visione panoramica della città (tratta da http://www.edilrubrichi.com/foto/img_originals/il_salento_2/otranto-vista-del-centro-storico_20090605_1694768823.jpg)
passo all’esame degli altri dettagli:
A Castello (mappa/http://www.otranto.biz/foto-otranto/images/otranto-castello.jpg)
B Il porto (mappa/immagine tratta ed adattata da http://www.otrantovacanze.info/wp-content/uploads/2008/12/otranto-foto-033.jpg)
D Cappuccini (mappa/http://fotoalbum.virgilio.it/alice/gfelih/otrantochiese/otrcappucciniw.html)
G Porta della città/Porta Terra (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Otranto_Porta_Terra.jpg)
I Monte della Minorita PP. Minimi di S. Francesco di Paula/Chiesa di S. Maria dei Martiri (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Chiesa_di_Santa_Maria_dei_Martiri_di_Otranto.jpg)
K Lanterna seu Torre della Serpe (mappa/http://rete.comuni-italiani.it/foto/2009/wp-content/uploads/2009/09/82252-600×800-375×500.jpg)
1 Cito il testo originale da Dioniysii Alexandrini et Pompei Melae situs orbis descriptio. Aethici cosmographia … , Enrico Stefano, s. l., 1577, pag. 116: Oceanus occidentalis habet famosa oppida: Ravennam … Arpos, Corfinios, Lupias, Tarentum, Odrunto, Canusium …
In questa edizione il testo è attribuito ad un certo Etico, ma ciò che sorprende è che Odrunto appare tra tutti i centri che l’accompagnano l’unico a non avere la desinenza del caso accusativo (mi sarei aspettato Odruntum). Eppure non c’è dubbio che si tratti proprio della nostra e ciò che più sorprende è che la sua lettura corretta (Odrùnto) secondo le regole della pronunzia greca (Ὑδροῦς/ Ὑδροῦντος, leggi Idrùs/Idrùntos) e latina (Ydrùntum) coincide, per quanto riguarda l’accento, con i dialettali Otràntu/Utràntu attualmente usati.
2 Opera redatta probabilmente nel IV secolo a. C., ma contenente brani anteriori di uno o due secoli. La Mappa di Soleto, come s’è visto all’inizio, reca la forma abbreviata HYΔΡ.
3 … Inde Austro lenissimo caelo sereno nocte illa et die postero in Italiam ad Hydruntem ludibundi pervenimus … ( … Poi con un vento meridionale leggerissimo e un cielo sereno dopo un giorno e una notte siamo giunti senza problemi in Italia ad Otranto …).
4 In Lucano (I secolo d. C.), Bellum civile, V, 374 si legge: avius Hydrus (Idrunte difficile al transito); nei Commenta Bernensia ad Lucanum (IX-X secolo d. c.) II, 609 l’avius Hydrus di Lucano viene così glossato: Idrus: alii fluvium, alii promuntorium dicunt (Idro: alcuni dicono che è un fiume, altri un promontorio). Al di là della specificità del dettaglio geografico che ha un’importanza relativa molto probabilmente la forma moderna Idro che ho definito meno corretta rispetto ad Idrunte nasce proprio dalla glossa appena citata in cui Idrus è stato considerato come appartenente alla seconda declinazione (Idrus/Idri) e non alla terza (Hydrus/Ydruntis).
Ripercorriamo il periodo quaresimale della civiltà contadina alla fine dell’Ottocento, attraverso il simbolico fantoccio salentino che Giulietta ci ripropone antropologicamente nel libro “Tre Santi e una Campagna”.
Salento fine Ottocento
La Quaremma (prima parte)
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
(…) Anche alle prime luci del mercoledì delle Ceneri c’era da assistere a uno spettacolo: quello delle quaremme, che i capifamiglia avevano nottetempo issato sui comignoli e che ora l’incedere dell’alba via via rivelava nel loro orrido quanto caratteristico aspetto: fantocci a grandezza d’uomo, rozzamente approntati con legno, paglia e stracci, riproducenti vecchie megere tetramente vestite con logori indumenti neri, o comunque molto scuri. Sulla fronte, circoscritta da un fazzolettone annodato alla campagnola, una ciocca di lana bianca a simulare capelli, e all’estremità delle braccia – mantenute in posa orizzontale da un manico di scopa – due pale di ficodindia che, a mo’ di mani, reggevano l’una un fuso con alcuni fili di lana e l’altra una maràngia (arancia amara) con infilzate sette penne, strappate alla coda di una gallina nera. Tra fuso e arancia, sette fili di lana che, a meglio esprimere la filatura del tempo penitenziale, venivano separatamente annodati alle sette penne, rappresentanti appunto le sette settimane quaresimali.
Rizzare la quarémma sul proprio comignolo o – se questo risultava internato e perciò non visibile dalla strada – sul cornicione della terrazza era testimonianza di religiosità, anzi un porsi nel novero dei cristiani più osservanti, di quelli (quasi tutti), per intenderci, la cui compiacente affermazione “Nui sciàmu all’antica” (“Noi andiamo all’antica”) denunciava fedeltà ai rigorismi medievali.
Il tempo dei pubblici peccatori lasciati in quarantena dietro la porta della chiesa era ormai lontano, ma sia pure in spigolature aneddotiche ne sopravanzava memoria, rinverginando scrupoli – individuali e collettivi – allorché, in vista del rinnovamento pasquale, si entrava nell’apposito clima della contrizione. Una sorta di ricapitolazione delle proprie manchevolezze, peraltro incentivata dai sermoni dei quaresimalisti appositamente fatti inìre ti fore paése (fatti venire da fuori), i quali, calcando sulla necessità dell’espiazione, non di rado arrivavano a
Belico e bellico sono attestati in italiano già nel XIV secolo, in prosa e in poesia: Guglielmo Maramauro, Expositione sopra l’”Inferno” di Dante Alligieri: E questo che morse al belico fu miser Guercio …; Niccolò de’ Rossi, Canzoniere, 195, 1: Fesso fos’eo enfin a lo belico; Leonardo Frescobaldi, Viaggio in Terrasanta: … colla scimitarra gli diè un colpo attraverso di sopra al bellìco che tutto il tagliò; Jacopo Alighieri, Chiose all’Inferno: … esser trafitti nel luogo prima disposto al vitale nutrimento, cioè nel bellico …; … cioè dal bellico infino alle gambe …
Il diagramma iniziale vuole solo fornire una schematica sintesi del rapporto strettissimo esistente tra vocaboli antichi e moderni ma un suo approfondimento mi consente riflessioni meritevoli quanto meno di discussione. Tra i significati che il greco ὀμφαλός assume compare anche quello di centro della terra. È questo l’epiteto dato a Delfi1, sede del famoso tempio di Apollo, dove al centro vi era una pietra (nella prima immagine l’esemplare attualmente visibile tra i resti del tempio; nella seconda una copia di epoca romana custodita nel Museo Nazionale di Delfi). Credo che la forma fallica della pietra non sia casuale ma strettamente connessa con il culto di Gaia, cioè la madre Terra, indicata dalla stessa Pizia come la prima profetessa2.
Voglio chiudere con una nota seriosa. Qualche anno fa imperversava tra le adolescenti (e non solo …) la moda (peraltro, come spesso succede in questo campo, non originale perché inventata alcuni decenni prima da Raffaella Carrà) dell’esibizione dell’ombelico, favorita anche da gonne o pantaloni dalla vita così bassa che, almeno al sottoscritto, più che ispirare pensieri lascivi, faceva sorgere dubbi sulla legge di gravità. Adesso il solito malizioso dirà che in realtà speravo che, nei casi in cui ne valeva la pena (pochi, per la verità …), la gonna o il pantalone cadesse giù …
Spero, comunque, che ora nessuno veda nell’ombelico un semplice dettaglio anatomico, cicatrice residuale del taglio del cordone più prezioso, quello che permette da sempre lo sviluppo della vita e, da qualche anno a questa parte, grazie alle cellule staminali, pure di salvarla.
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1 Pindaro Pitiche IV, 73-74: ἦλθε δέ οἱ κρυόεν πυκινῷ μάντευμα θυμῷ/ πὰρ μέσον ὀμφαλὸν εὐδένδροιο ῥηθὲν ματέρο (giunse al suo animo assennato un responso dell’oracolo pronunziato presso l’ombelico, posto al centro, della madre ricca di piante); Sofocle, Edipo re, 899: οὐκέτι τὸν ἄθικτον εἶμι γᾶς ἐπ᾽ ὀμφαλὸν σέβων (né mi reco al sacro ombelico della terra per onorarlo).
2 Eschilo, Eumenidi, 1-8: Πρῶτον μὲν εὐχῇ τῇδε πρεσβεύω θεῶν/τὴν πρωτόμαντιν Γαῖαν· ἐκ δὲ τῆς Θέμιν,/ἣ δὴ τὸ μητρὸς δευτέρα τόδ᾽ ἕζετο/μαντεῖον, ὡς λόγος τις· ἐν δὲ τῷ τρίτῳ/λάχει, θελούσης, οὐδὲ πρὸς βίαν τινός,/Τιτανὶς ἄλλη παῖς Χθονὸς καθέζετο,/Φοίβη· δίδωσι δ᾽ ἣ γενέθλιον δόσιν Φοίβῳ (In primo luogo con questa preghiera venero tra gli dei Gaia, la prima profetessa; dopo di lei Temi che, come si dice, seconda rispetto alla madre, sedeva su questo oracolo; al terzo posto, volendolo lei e senza costrizione di alcuno, una titanide altra figlia della Terra sedette, Febe; essa diede a Febo il dono natale [quello della profezia]).
I piselli (Pisum sativum L.) appartengono alla famiglia delle Fabaceae, appellate anche Papilionacee o ancora più comunemente Leguminose, ossia alla medesima famiglia di fagioli, lenticchie, fave, lupini, ecc., tutte specie accomunate dalla presenza del baccello.
Sono piante erbacee annuali, di colore verde chiaro con steli cilindrici sottili e deboli.
Si suddividono in varietà nane, seminane e rampicanti; infatti, le diverse varietà si distinguono principalmente per il portamento, che può essere cespuglioso o rampicante.
I piselli rampicanti, cioè a sviluppo indeterminato, hanno bisogno di sostegni (canne, reti, etc.) e vengonogeneralmente coltivati solo su piccola scala, in orti familiari o da piccoli produttori, poiché danno luogo ad una fruttificazione scalare piuttosto protratta nel tempo. Le cosiddette varietà nane, hanno portamento semi-eretto e sono a sviluppo determinato, per cui la fioritura e la maturazione dei semi sono concentrate in un tempo piuttosto breve e si prestano quindi ad essere coltivate in modo più estensivo.
L’apparato radicale è costituito da una radice fittonante estesamente ramificata che consente alle piante una buona rigogliosità e di fruttificare copiosamente anche in terreni non particolarmente fertili. Le foglie, sono composte e i fiori bianchi o leggermente violacei. I baccelli, di forma oblunga, possono contenere semi bianchi o verdi, lisci o rugosi, sferici oppure cuboidi in quelle varietà in cui i semi sono molto serrati nel baccello.
La loro dimensione è molto variabile: mille semi possono pesare da un etto a mezzo chilo. Un’importante differenza di forma è quella tra semi lisci e grinzosi; nei semi lisci, a maturazione è presente prevalentemente amido; in quelli grinzosi poco più della metà dei carboidrati di riserva è amido mentre il resto sono zuccheri solubili, la cui presenza fa si che i semi restino dolci e teneri anche con l’avanzare della maturazione; ciò costituisce un grande vantaggio rispetto ai piselli a seme liscio che, se non raccolti al momento giusto, rapidamente si induriscono e perdono la dolcezza.
I piselli a seme grande, verde e grinzoso vanno bene per la surgelazione, mentre per l’inscatolamento si vogliono solo piselli a seme piccolo e liscio.
Dei piselli non si conoscono i progenitori selvatici e sulla loro origine vigono svariate ipotesi; una delle più accreditate li vuole originari del Nord dell’India e comunque del continente asiatico, aree ove vengono tuttora intensivamente coltivati. Altre fonti li danno originari della cosiddetta Mezzaluna Fertile. Comunque recenti ricerche hanno accertato il loro utilizzo sin dal lontano Neolitico (7000 a.C.).
In epoca storica, dalle citazioni del filosofo e botanico greco Teofrasto e da quelle degli scrittori georgici romani Columella e Plinio, si evince un loro cospicuo utilizzo anche da parte di Greci e Romani e come questi ultimi avessero già selezionato alcune varietà che destinavano a utilizzi diversificati.
I piselli, che possono essere acquistati in forme molto diverse: secchi, freschi, surgelati ecc.; rappresentano un alimento dalle qualità nutrizionali eccezionali, indipendentemente dagli innumerevoli modi in cui vengono cucinati.
I valori nutrizionali dei piselli, se consideriamo 100 grammi di prodotto, variamo molto in base allo stato di maturazione e al metodo di conservazione: i piselli surgelati, ad esempio danno un apporto di 48 calorie/100 grammi; quelli in scatola scolati 55 calorie/100 grammi; quelli freschi crudi 70 calorie/100 grammi; infine, quelli secchi apportano 285 calorie/100 grammi.
La presenza di fibre, contenute soprattutto nel tegumento esterno dei piselli, svolge una funzione stimolante dell’intestino. Questo alimento presenta una buona quantità anche di sali minerali e di oligoelementi, con più di 90 mg per 100 grammi e risulta particolarmente ricco di potassio, fosforo, magnesio, calcio e ferro.
Il pisello, è una pianta microterma, ossia, che ha limitate esigenze di temperature per crescere e svilupparsi, ma che al contempo rifugge dai forti calori e dalla siccità. Per questo la sua coltura può essere fatta con successo negli ambienti o nelle stagioni fresche.
In Italia, la semina si esegue in autunno nelle regioni a inverno mite, mentre in quelle con inverno molto rigido tale operazione deve essere rimandata a dopo i rigori dell’inverno.
Per quanto riguarda il Salento, attualmente, alla coltivazione dei piselli vengono complessivamente destinate superfici pressoché irrilevanti, tanto che l’interesse economico di questa coltura, si può considerare meno che residuale. Eppure, nella monografia: “Orticoltura Salentina” del Dott. Albino Mannarini, datata 1914, si scopre, come intorno al primo decennio del secolo scorso, nel solo comprensorio di Galatina, a tale coltivazione fossero dedicati circa cinquemila ettari di superficie con coltura avvicendata, che se raccolti allo stato fresco rendevano produzioni medie di circa dieci tonnellate per ettaro. Lo stesso autore, fa un dettagliato elenco delle varietà locali economicamentee qualitativamente più importanti, delle quali riportiamo un estratto:
“Pessieddu-ungulu, ossia Pisello fava, varietà rampicante dalle ottime caratteristiche; Pesieddu Pacciu, ovvero Pisello Pazzo, nel senso di grosso; di qualità scadente, ma molto produttivo;Pesieddu Campestrignu, alias Pisello Estroso, di scarsa qualità; Pesieddu Rizzu (Pisello Riccio); Pesieddu Nanu (Pisello Nano); Pesieddu a Tumu (Pisello Cespuglioso); Pesieddu Campanaru (Pisello Campanile) e infine il Pisello Capuano che descrive come varietà alloctona introdotta per la sua resistenza all’infestazione di orobanche.
Oggi, salvo qualche ecotipo locale, miracolosamente sopravissuto e, come vedremo, tuttora tradizionalmente coltivato anche se in limitati contesti, la varietà più conosciuta e pressoché universalmente coltivata è il Progresfreschi osurgelati per la cui produzione, i ricercatori delle multinazionali della chimica e delle sementi, hanno messo a punto ideotipi varietali che consentono una completa meccanizzazione della produzione dal campo, alla tavola.
Nel Salento, sopravvivono dei pregiati ecotipi locali, alcuni di questi, quali: il Pisello Riccio di Sannicola, il Pisello Nano di Zollino e il Pisello di Vitigliano, sono stati recentemente inseriti nell’elenco dei cosiddetti PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali), e stanno riscuotendo rinnovato interesse per cui si rileva una lenta, ma progressiva ripresa delle loro produzioni.
Questa essenza (le foto sono tutte mie) tipica della macchia mediterranea è ancora oggi ben presente sul nostro territorio; ho molti dubbi per domani, poiché certi cervelli (?) stentano perfino a riconoscere, magari recitando un ipocrita mea culpa per salvare la faccia e, spero tra poco, non solo quella… , che lo sviluppo non può continuare ad identificarsi nella cementificazione e nell’inquinamento.
Ne fornisco preliminarmente la scheda con le consuete note etimologiche:
nome scientifico: Rhamnus alaternus L.
famiglia: Rhammnaceae
nome italiano : alaterno, ranno lanterno
nome dialettale neretino: litirnara
Rhamnuso rhamnosnei dizionari latini è tradotto con biancospino; la voce è perfetta trascrizione del greco ῥάμνος (leggi ramnos) tradotto nei vocabolari greci con pruno1.
Alaternusè il nome di una pianta la cui attestazione vedremo fra poco. L., come tutti sanno ma nell’economia del post sono costretto a dirlo, è abbreviazione di (Carol Nillson) Linnaeus (1707-1778), il nome del naturalista svedese padre della nomenclatura binomiale.
Rhamnaceaeè forma aggettivale dal già nominato rhamnus.
Alaternoè dal latino alaternu(m). Rannoè da Rhamnus e lanternoè deformazione di alaterno.
Litirnara è una via di mezzo, al femminile (regola rispettata quasi costantemente con i nomi di albero) tra l’italiano alaterno e il toscano linterno (altre forme toscane sono ilatro, iletro, lillatro) con eliminazione, rispetto al toscano, della n interna e aggiunta di un suffisso aggettivale sul modello di farina>farnaru=setaccio (da *farinaru), fumu>fumaru =fumaiolo. Di solito il rapporto di affinità introdotto dal suffisso è, come negli esempi riportati, di natura strumentale, la quale non è di agevole riconoscimento nella nostra voce. Tale suffisso qui potrebbe avere una funzione generalizzante, ad indicare più varietà dello stesso genere, come succede, pur senza suffisso, al toscano ilatro. In latino un processo analogo è riconoscibile in acernus=di acero, da acer. Se fosse così il primitivo di alaternus sarebbe *alater.
Il nome specifico alaternus era in latino il nome di un cespuglio non identificato; fu usato da Linneo per identificare questa specie per l’assonanza con “alternus” ossia alternato, con riferimento alle foglie alterne della specie.
Di questa affermazione condivido il non identificato ma credo che il riferimento a Linneo meriti un approfondimento; ed è fatale che cominci dalle fonti.
Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, XVI, 56: Fructum arborum solae nullum ferunt, hoc est ne semen quidem, tamarix, scopis tantum nascens, populus, alnus, ulmus atinia, alaternus, cui folia inter ilicem et olivam. Infelices autem existimantur damnataeque religione, quae neque seruntur umquam neque fructum ferunt. (Tra gli alberi non producono nessun frutto, cioè neppure seme, solo questi: la tamerice, che nasce soltanto per farne scope, il pioppo, l’ontano, l’olmo di Atina, l’alaterno che ha le foglie tra la quercia e l’olivo. Sono ritenuti poi infelici e condannati dalla religione quegli alberi che non si piantano mai né producono frutto).
Columella (I secolo d. C.), De re rustica, VII, 6: Et quoniam de oviarico satis dictum est, ad caprinum pecus nunc revertar. Id autem genus dumeta potius, quam campestrem situm desiderat: asperisque etiam locis ac silvestribus optime pascitur. Nam nec rubos aversatur, nec vepribus offenditur, et arbusculis frutectisque maxime gaudet. Ea sunt arbutus, atque alaternus cytisusque agrestis … (E poiché degli ovini s’è detto abbastanza tornerò ora ai caprini. Questa specie invece preferisce la macchia piuttosto che territorio campestre: essa pascola ottimamente anche in luoghi accidentati e selvatici. Infatti non disdegna i rovi né è tenuta lontano dai cespugli e gradisce massimamente piccoli alberi e arbusti come il corbezzolo, l’alaterno, il citiso selvatico …).
Delle due testimonianze solo quella di Plinio con il particolare descrittivo delle foglie ci illumina per un attimo ma non ci aiuta nell’identificazione, come correttamente si legge in Acta plantarum.
Passo ora alle dolenti note.
Proprio nell’anno in cui Linneo nasceva veniva pubblicato questo libro:
François Gentil, Louis Liger, Le jardinier solitaire, Benj. Tooke, Londra, 1706; a pag. 460 si legge: This plant is call’d Alaternus, because the Leaves of this Shrub stand alternately upon the Branches (Questa pianta è chiamata alaterno perché le foglie di questo arbusto stanno alternativamente sui rami).
È il classico esempio di affermazioni campate in aria perché si associa arbitrariamente alaternus con alternus e se ne dà una spiegazione dirottando senza ombra di dubbio sulla posizione delle foglie la diversità che Plinio aveva messo in campo per la forma (tra la quercia e l’olivo)2. Sarebbe bastato un forse per rendere il tutto più consono ai miei gusti …
Nelle opere di Linneo non c’è ombra di questa etimologia e, se per assurdo l’avesse adottata, ora sapremmo chi ne sarebbero stati i veri genitori. Ma il Gentil e il Ligier si erano inventato nel modo che ho detto un etimo destinato a fare furore ed il Ligier in combutta con altri (se è difficile trovare il responsabile fra due, figurarsi fra quattro!) pensò bene di ribadirlo poco più di dieci anni dopo:
Louis Liger, George London, Henry Vise, Joseph Carpenter, The retir’d gardener, N. Tonson, Londra, 1717, pag. 402: This Shrub is call’d Alaternus, because its Leaves are rang’d alternatively on the Boughs (Questo arbusto è chiamato alaterno perché le sue foglie sono collocate alternativamente sui rami).
E, quando ormai Linneo aveva da tempo deciso e pubblicato il nome per la nostra pianta, anzi aveva fatto abbondantemente in tempo pure a morire:
Gerge Don, A general history of the dichlamydeous plants, editori vari, Londra, 1832, v. II, pag. 30: Alatèrnus (from alternus, alternate; leaves) (Alaterno da alternus, alternato; foglie).
La serie presentata è la dimostrazione lampante di come una interpretazione più o meno attendibile, ripresa acriticamente, diventi con passaggi successivi una certezza altrettanto passivamente accettata fino a diventare verità molto probabilmente ingannevole.
Qualcuno potrebbe mettere in campo il fatto che in alcuni codici alaternus si alterna ad alternus3. Intanto si tratta di autori di qualche secolo posteriori a Plinio e Columella che, come abbiamo visto, ci hanno lasciato solo alaternus, per cui bisogna supporre che alternus sia corruzione di alaternus e non viceversa. Si può pure ipotizzare, proprio perché si tratta di autori tardi, che questa corruzione sia nativa, cioè non imputabile al copista, per cui diventerebbe, paradossalmente, un arbitrio l’emendamento di alternus in alaternus proposto da tutti i filologi.
Se questo non basta, aggiungo che è degli autori classici (sulla maggior parte di quelli del nostro tempo è meglio stendere un velo pietoso), poeti, storici, naturalisti etc., il rispetto di certi canoni espressivi, di quelli comunemente accettati in primo luogo, senza escludere coerenza e fedeltà ai propri particolari. Il lettore comprende bene che questo rispetto è particolarmente importante nel caso di uno scritto scientifico che non deve lasciare adito, per principio metodologico, ad equivoci di sorta. Sotto questo punto di vista è fondamentale oggi tener conto dell’usus scribendi degli autori del passato. Se tutti coloro che con sicumera hanno parlato di foglie alternate avessero fatto attenzione all’usus scribendi di Plinio, si sarebbero accorti che Plinio di regola, sottolineo di regola, privilegia le differenze di forma sottintendendo il riferimento, per quelle di colore o altro lo dice espressamente. Ecco perché cui folia inter ilicem et olivam (ha foglie tra la quercia e l’olivo) si riferisce unicamente alla forma e, come ho detto fin dall’inizio, non contiene alcun riferimento etimologico al nome della pianta.
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1 Sulla sostanziale genericità di Rhamnus e, dunque, sulla difficoltà di un’identificazione precisa, già il Linneo si era espresso in Philosophia botanica, Trattner, Vienna, 1763, pag. 178, ove include la voce nell’elenco di quelle di origine greca con questa etichetta: Graeca obscura, quamplurima eruuntur difficillime, et eruta dubia tamen persistunt (Le parole greche oscure: moltissime difficilmente vengono chiarite e, chiarite, tuttavia, rimangono dubbie).
2 Il dettaglio pliniano ispirò in epoca moderna anche la creazione di vocaboli greci nuovi, composti dall’unione di due voci del greco classico. Valga per tutte le testimonianza di Pierre Belon che in Les observations de plusieur singularitez et choses memorables , trouvées en Grece, Asie, Iudée. Egypte, Arabie, et autres pays estranges, Cavellat, Parigi, 1588, a pag. 87 così scrive: Il n’y a habitant en tout le mont, qui ne sçache nommer l’arbre que Pline appelle Alaternus, de son vray nom ancien, duquel Theophraste avoit usé, Philica: mais à Corphu et en Crete ils le nomment Elęprinos; car il a sa fueille entre le chesne verd et l’Olive, comme Pline a escrit (Non c’è abitante in tutto il monte [Athos] che non sappia nominare l’albero che Plinio chiama alaterno a differenza del suo vero nome antico che Teofrasto aveva usato, filica ; ma a Corfù e a Creta lo chiamano Elęprinos poiché ha la sua foglia di un colore verde tra quello della quercia e quello dell’olivo).
Dopo aver detto che per la precisione il nome usato da Teofrasto è φιλύκη (leggi filiùke) e che da un umanista mi sarei aspettato, perciò, una più fedele trascrizione latina (filyke) aggiungo che la ę di Elęprinos è una scelta grafica per rendere Ἐλαίπρινος (leggi Elàiprinos) che, ripeto, non esiste nel greco classico ma nasce dalla fusione di due parole classiche: ἐλαία (leggi elàia)=olivo + πρίνος (leggi prinos)=quercia.
Il lettore noterà che il Belon rapporta la caratteristica pliniana al colore della foglia e non, come più avanti nel testo principale dimostrerò, alla sua forma.
A distanza, poi, di quasi 250 anni il pezzo del Belon fu ripreso in greco nel quinto volume di ATAKTA, Everart, Parigi, 1835, pag. 355, al lemma ΦΙΛΥΚΑ (leggi filiùka) che riporto, seguito dalla mia traduzione, nel dettaglio tratto da
(ΦΙΛΥΚΑ. Φιλύκη, greco di Teofrasto (Storia delle piante V, 6, §2, VII, 7, §7), Ramnus alaternus (Alaterne) dei botanici. In Belon (Osservazione I, 16 e 42, colonne 38 e 87) sul monte Athos si chiama Φιλύκα, a Corfù e a Creta Ἐλαίπρινος per il fatto che il colore delle foglie è tra quello dell’olivo e della quercia, inter ilicem et olivam, come dice Plinio (XVI, 26, §45).
3 Per esempio, nella tradizione manoscritta di Macrobio (V secolo), Saturnalia, III, 20, 3.
Probabilmente appariranno strani due dettagli del titolo: an galè e carrefour scritto con l’iniziale minuscola. Comincio proprio da quest’ultimo perché, a differenza del primo, la perplessità coinvolge con la stessa intensità tanto il lettore che conosce il dialetto salentino quanto chi non lo conosce. Carrefour è voce francese e nasce come nome comune, col significato di crocevia, figlio del latino tardo quadrifurcu(m)=quadriforcuto, attestato nel De figuris numerorum di Prisciano (V-VIsecolo) e composto dai classici quadri– (da quater=quattro) e furca=forca. Nel 1959 divenne il nome proprio della grande società francese di distribuzione, subì, cioè, uno slittamento metonimico (dalla caratteristica del luogo al punto vendita), ma può essere considerato pure come un esempio di antonomasia inversa (dal nome comune al nome proprio), insomma il contrario di quello che è successo per Cicerone/cicerone, Mecenate/mecenate, Zampironi/zampirone, Ampex/ampex1. Per questo nella progettazione di un centro commerciale la prima preoccupazione è che esso sia dislocato in una posizione facilmente raggiungibile dai quattro punti cardinali, magari con l’ausilio di una viabilità complanare realizzata ex novo.
Questa considerazione dev’essere stata alla base della creazione del logo, anche se i punti indicati, peraltro di partenza (dopo l’acquisto) e non di arrivo (per acquistare) vista la direzione delle frecce, sono due; è, credo, il tributo che si è dovuto pagare alla necessità di inglobare, sia pure parzialmente confusa nello sfondo bianco, la C. Va da sé che il blu, il bianco e il rosso sono i colori della bandiera francese. Credo, invece, che sia del tutto casuale (e lo faccio notare giusto perché siamo in periodo carnevalesco) il fatto che, imprimendo al logo una rotazione di 90° verso sinistra, vien fuori una sorta di maschera in stile faccina (pardon, emoticon o smile o smiley …).
Secondo lo Spitzer (Zeitschrift für romanische Philologie, t. 27, pag. 614) da carrefour sarebbe derivato un’altra parola francese, califourchon, usata nella locuzione à califourchon=a cavalcioni. Secondo Schuchardt (op. cit., t. 42, pp. 9-12), invece, califourchon sarebbe incrocio tra cheval=cavallo e fourche=forca. Entrambe le proposte suscitano perplessità per ragioni di ordine fonetico. Appaiono, perciò, più plausibili le ipotesi (per brevità ometto i nomi degli autori e i riferimenti bibliografici) concordi sul secondo componente (fourche) e discordi sul primo, che potrebbe essere il bretone kall=testicoli, oppure una forma di caler=calare, oppure alterazione di un originario latino cum=insieme.
Passo ora ad an galè che in dialetto salentino corrisponde all’italiano a cavalluccio, a cavalcioni. Per quelli della mia età il nesso sarà familiare ed evocherà ricordi infantili legati ad un tempo in cui tra l’adulto e il bambino il rapporto umano non era scandito da aggeggi tecnologici ma da una collaudata fantasia. Così, uno dei giochi più praticati consisteva nel recitare la parte del nonno o papà-cavallo che su due zampe portava in giro il bambino-cavaliere sulle spalle all’altezza del collo. An deriverebbe (l’uso del condizionale, solo per questo caso, lo si capirà alla fine) da a+in, per cui, più correttamente secondo me ma mi sono adeguato all’uso corrente, avrei dovuto scrivere a ‘n galè (e così a ‘n capu=sulla testa e non an capu). Ma, intanto, da dove deriva galè?
La voce è presente nel vocabolario del Rohlfs ma reca solo un rinvio a calè, senza proposta etimologica di sorta.
La parola tronca evoca istintivamente origini francesi e la prima ipotesi che pongo all’attenzione è che galè si presenti tronca perchè abbreviazione di califourchon, che, come abbiamo visto, poco probabilmente sarà il padre di carrefour (da qui la parte finale del titolo).
La seconda ipotesi prevede lo stesso percorso formativo della prima, partendo, però, da un’altra parola, questa volta spagnola, galera, che ha come significato di base e più comune quello di galea o galera (nave da guerra lunga e dritta), dal latino medioevale galera, a sua volta dal greco bizantino γαλέα (leggi galèa), che forse è dal classico γαλέη (leggi galèe) o γαλή (leggi galè)=donnola; l’elemento che accomuna l’animale alla nave è la snellezza e non a caso derivato di γαλέη è γαλεός (leggi galeòs)=squalo. Ma galera (con la stessa etimologia) è pure il nome di un mezzo di trasporto in uso in Spagna, dettagliatamente descritto da Theophile Gautier in Le voyage in Espagne (o Tra los montes), Meline, Cans et Compagnie, Bruxelles et Leipzig, 1843, tomo I, pag. 101. Ne riporto di seguito il testo corredato della mia traduzione).
Superfluo aggiungere che galère è la francesizzazione dello spagnolo galera, da cui, per apocope, potrebbe essere derivato il nostro galè, con riferimento alla semplicità del mezzo di trasporto e non alla sua somiglianza, secondo la descrizione certamente esagerata del Gautier, a uno strumento di tortura.
Ho detto potrebbe essere derivato e siccome, oltretutto, l’unione fa la forza, saranno ben accette altre proposte etimologiche. Nel frattempo ne sparo una terza (per una quarta, che avrebbe completato il quadrivio, sono troppo stanco e rischierei di dire bestialità più grandi di quelle nelle quali potrei essere già incorso): per apocope dal francese caleche=calesse2, sicché an galè non sarebbe altro che deformazione della locuzione francese en caleche3. Sembra essere la più lineare e per questo, credo, riscuoterà pressoché unanime simpatia. Ma in filologia, come nella vita, non sempre ciò che appare semplice e lineare è veritiero …
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1 Il fumogeno che usiamo per tenere lontane le zanzare trae il nome dal suo inventore, Giovanni Battista Zampironi. Ampex era prima dell’avvento del digitale un marchio depositato di registratori magnetici di fabbricazione americana per uso televisivo; la parola poi diventò nome comune, sinonimo di registrazione, usato in locuzione come programma in ampex (cioè registrato su banda magnetica). Su Cicerone/cicerone e Mecenate/mecenate non era il caso di perdere e far perdere tempo.
2 Come in pòscia=tasca da poche; qui, però, l’apocope non è avvenuta perché, essendo la parola d’origine di due sillabe, non ne sarebbe restato, è il caso di dire, che un bel … po’, anzi pò. Nella nuova immagine, come in quella della spagnola galera, l’adulto che porta il bambino sulle spalle assume non più le sembianze del cavallo ma quelle del calesse.
3 Se è così, cade tutto il tormento iniziale sulla grafia della locuzione dialettale; essendo il francese en dal latino in ed essendo an trascrizione della pronuncia di en, la locuzione richiederebbe la corretta scrittura etimologica an galè. Il discorso, naturalmente, non vale laddove an non deriva dal francese en, come in a ‘n capu.
Adesso, nell’ambito di ogni comunità, dal paesino di poche centinaia di abitanti sino alla grande città, esiste, per fortuna, una vasta e capillare rete di entità o istituzioni che s’interessa e occupa dell’accoglienza, custodia e prima formazione dei bambini in età da uno a cinque anni.
Tali strutture, peraltro, com’è noto, mediamente insufficienti dal punto di vista quantitativo rispetto alla domanda dell’utenza, si caratterizzano sotto le insegne di nidi, asili, scuole materne e/o dell’infanzia e recano, in aggiunta, denominazioni e sigle carine e accattivanti, del genere, ad esempio, di “Ape Maya” o “La bacchetta magica”.
Altro aspetto distintivo, constano di ambienti resi gradevoli e colorati e ciò per attirare e coinvolgere gli sguardi e i moti d’osservazione infantili e pure l’arredamento è consono ai gusti e alle preferenze degli ospiti. Vi lavorano operatori, specialmente operatrici, con un buon bagaglio di preparazione psicologica, pedagogica e di assistenza in generale a utilità e beneficio dei piccoli, un insieme di caratteristiche che mira, chiaramente, a non far pesare, nella suggestione delle giovanissime creature, il distacco, per buona parte della giornata, dalla loro mamma e anche dalle abitudini domestiche.
Cosicché, i bambini, talvolta poco più che neonati, s’inseriscono bene, stanno con piacere nelle loro “nuove case”, sono rari i casi in cui soffrono e si lamentano, nonostante che la mamma resti sempre la mamma, uniche e insostituibili la sua vicinanza, la sua voce, la sua figura, le sue carezze, le sue occhiate sorridenti.
Purtroppo, le genitrici di oggi, e in un comune nucleo familiare, e nel ruolo, ormai non infrequente, di persone singole con prole, hanno l’impellente e irrinunciabile necessità di svolgere un lavoro, dipendente o autonomo, o di dedicarsi a una professione e, quindi, non si vede in che modo potrebbero cavarsela senza lo sbocco di una struttura di accoglienza cui affidare il/i bambino/i. Non sempre ci sono i nonni vicini e disponibili e idonei a fare le veci della mamma, ecco perché, dunque, alla fine le strutture in discorso si rivelano non bastevoli, anche se, da alcuni anni, ci si adopera per istituirne direttamente all’interno di grandi aziende o enti pubblici.
Occorre fare i conti con problemi di mancanza numerica, quindi, per non parlare delle elevate rette da pagarsi, soprattutto presso le realtà private.
Così è oggigiorno, mentre la situazione non era per niente analoga nei tempi andati, cinquanta – sessanta anni fa, almeno nei piccoli centri del Sud caratterizzati da una società tipicamente contadina.
Ciò è in grado di affermare il cronista, non solo per ordinaria conoscenza ma anche per antiche esperienze dirette e personali, con riferimento alla sua località d’origine di Marittima.
V’è, intanto, da dire che, nel corso dei decenni lontani, le donne si maritavano e iniziavano a partorire presto, intorno ai vent’anni, e, di conseguenza, avevano, a loro volta, fratelli e sorelle giovani e pure i genitori ancora tali, con l’effetto di notevole interscambiabilità e mutualità, in autonomia famigliare, di fronte ai bisogni dell’uno o dell’altro membro.
Per le donne, particolarmente, non esistevano attività impiegatizie o di lavoro in fabbrica, maturavano soltanto saltuarie giornate di fatica in campagna, in aiuto ai genitori e ai fratelli; in prevalenza, invece, se ne stavano casa, le giovani attendendo al ricamo o alla preparazione del corredo.
Di riflesso, il paese non necessitava in via continua di un asilo o di una scuola materna, i bambini piccoli crescevano fra le pareti domestiche o fuori degli usci, sotto la cura e la sorveglianza, tra un’incombenza e l’altra, delle mamme o di qualche familiare, in attesa che, a sei anni, iniziassero a frequentare la scuola elementare statale.
Tuttavia, ricorreva un periodo stagionale in cui anche le donne, da diciotto fino a cinquantacinque – sessanta anni, intraprendevano un’attività lavorativa, che si protraeva da due a quattro mesi, nei “magazzini” o manifatture di lavorazione delle foglie di tabacco operanti nel paese: orario dell’impegno, dalle 7,30 alle 16,30, salvo un salto casa, a mezzogiorno, per un pasto velocissimo.
In detta occupazione, capitava che fossero coinvolte sia le giovani ancora non sposate, sia le giovani mamme, sia, infine, le nonne ancora in età lavorativa e, pertanto, in quel periodo, anche a Marittima veniva a porsi il problema dell’affidamento e della cura dei figli in età da uno a cinque anni.
Ad assumere tale compito o funzione, più o meno a cavallo della seconda guerra mondiale, si propose una donna del posto, di origini modeste, famiglia contadina al pari, del resto, della generalità della gente, il suo nome era Emma, trasformatosi per consuetudine più che per diritto, dopo il matrimonio con un uomo di famiglia abbiente, don Rafeli, in donna Emma.
Alcuni particolari sulla persona. Emma, unitamente ai propri famigliari, badava, sin dalla tenera età, alle terre e alla stessa abitazione della famiglia di chi sarebbe diventato suo marito, erano mansioni, le sue, da persona di servizio, così usavano dire allora, oggi più giustamente definite da collaboratrice. In pratica, stava notte e giorno a faticare a contatto dei “padroni”, un rapporto strettissimo, quasi lei fosse una di casa.
I vecchi del paese raccontano che, talora, i “padroni” di Emma si chiedevano ad alta voce se lei, una volta maritata, avrebbe proseguito o no l’attività di donna di servizio. E che la ragazza, nell’ascoltare siffatti discorsi, con acume, abilità o furbizia, rispondeva sempre così: “Cari padroni, a me difficilmente capiterà di sposarmi, giacché le malelingue del paese sussurrano e hanno ormai diffuso la voce che io, oltre a prestare servizio, intrattengo con voi anche relazioni d’altro genere, peccaminose ( ndr, e, a questo punto, chinava il capo) e, quindi, chi volete che mi prenda per moglie?”.
Colpito e, chissà, forse toccato da simili reazioni, il giovane della famiglia benestante, don Rafeli, il quale aveva passato un po’ d’anni in seminario senza però riuscire a prendere Messa, un giorno si sentì vinto da un modo interiore di particolare compenetrazione nell’idea della donna e, con aria solenne e decisa, le dichiarò: “Emma, non devi preoccuparti, se nessuno ti vorrà prendere per moglie, ci penserò io a farlo”.
Scaturì da qui, l’avanzamento della lavoratrice, da persona di servizio a sposa in municipio e in chiesa, non di un suo pari, ma, addirittura, di un signorino, con la parallela assunzione del titolo di donna Emma.
Si era stabilita, la coppia, in un antico e artistico palazzotto a due piani nei pressi della “Campurra” di Marittima; per la precisione, il terraneo era affittato a un artigiano, mesciu Biasi (maestro Biagio), mentre i novelli marito e moglie, che non ebbero figli, occupavano l’ampio primo piano. L’ambiente più grande, nel periodo di operatività del magazzino o manifattura tabacco, si trasformava, giustappunto, in asilo per i piccoli di Marittima, lì accompagnati velocemente la mattina dalle rispettive mamme, in mano una borsetta di cartone contenente una frisella o fetta di pane, cosparse da un sottile strato di zucchero e, poi, ripresi e ricondotti a casa a metà pomeriggio.
Diverse ore d’asilo per i cuccioli, sistemati su file di seggiole o panchette e sgabelli di legno a recitare filastrocche, ascoltare qualche cuntu (racconto), canticchiare inni di chiesa, semplicemente relazionarsi e giocare fra loro, sotto lo sguardo di donna Emma. In tarda mattinata, via alla discesa nel giardino, sottostante, del palazzotto, dove esistevano alcune piante di agrumi e quel posto, dopo l’invito o comando di donna Emma “forza, tutti a fare pipì e pupù” diveniva il bagno o gabinetto per i bisogni corporali dei piccoli.
Tanto passava allora il convento, oggi verrebbe da rabbrividire dinanzi a simili procedimenti, di fatto, però, nemmeno l’ombra di problemi o di effetti collaterali dannosi a carico di un’utenza di venti – trenta bambini e bambine.
Quindi, la frugalissima colazione e, da ultimo, brevi sonnellini dei più piccini, all’interno di un paio di nache (culle) sistemate in un angolo dello stanzone.
A tutto presiedeva la sola donna Emma, mentre il coniuge don Rafeli se ne restava isolato negli altri vani della casa, non si vedeva mai, salvo in occasione delle uscite per recarsi al tabacchino e rifornirsi di cartine e tabacco per fumare.
Da mettere in evidenza che le famiglie che affidavano i figli piccoli a donna Emma, non le versavano alcuna retta, semmai si disobbligavano mediante sporadiche dazioni in natura, tipo un cestino di uova fresche, un pacco di zucchero, un vasetto di mostarda d’uva che tanto piaceva a don Rafeli.
Insomma, in seno alla cittadinanza marittimese, donna Emma svolgeva in fondo una funzione benemerita di pubblica utilità.
Una donna piccola di statura, e però, come accennato all’inizio, assai attiva, intraprendente e furba. Per il suo ruolo, lei era automaticamente invitata a ogni matrimonio o battesimo o cresima o comunione del paese e ai relativi modesti ricevimenti che seguivano.
Purtroppo, in dette occasioni, si distingueva per una sua particolare debolezza, non rinunciava mai ad arraffare, con mani rapide, dalla guantiera dei “complimenti”, non uno, come facevano gli altri invitati, bensì una manciata di dolcetti, infischiandosene dello sguardo bieco e di riprovazione che puntualmente ma invano le rivolgeva il compaesano Nino che, di solito, si offriva di svolgere, a titolo volontario e gratuito, la mansione di cameriere. Un limite, che donna Emma si portò appresso finché restò in vita.
Invece, don Rafeli, da parte sua, verosimilmente sulla scia dei suoi trascorsi da seminarista, si distingueva per la frequentazione assidua della chiesa e delle funzioni religiose (per citare, era sempre lui a reggere l’ombrellino a riparo del SS. Sacramento durante la processione del Corpus Domini) e, in genere, per la collaborazione con il parroco del paese.
In speciale modo, si ricorda ancora oggi che, intorno al 1930 – 1935, egli si fece carico della trascrizione, rigorosamente a mano, con bella ed elegante calligrafia su fogli di carta sottili e i margini di ogni facciata contornati da disegni ornamentali, di antichi manoscritti sacri, contenenti preghiere, inni, salmi, novene, liturgie varie, correlate a Vigilie solenni e a ricorrenze celebrative dei Santi Protettori, alla Quaresima, alla Settimana Santa e via dicendo.
Uno spesso volume che, una sessantina d’anni fa, catturava l’attenzione anche dello scrivente, il quale lo leggeva con passione, ripassando le pagine che sembravano maggiormente interessanti. Da notare, che tale manoscritto trovasi tuttora conservato, nella sacrestia della Chiesa Matrice di San Vitale, a Marittima, a cura scrupolosa dei parroci che si succedono nel tempo.
L’opera si presenta integra, con ogni facciata e pagina nella versione originale, con l’unica eccezione che, a distanza di mezzo secolo dalla trascrizione per mano di don Rafeli, esattamente nel 1983, il volume è stato rilegato e munito di una copertina più moderna e nello stesso tempo protettiva e resistente, custodia preziosa del contenuto, alla stregua di un vero e proprio gioiello.
Recentemente, ho ottenuto, dal prevosto in carica, il permesso di ridare un’occhiata e sfogliare ancora l’antico libro; con l’occasione, ho fugacemente catturato alcune pagine e l’intitolazione “Raccolta di Sacre Novene” in copertina e sul dorso.
Avanti di passare a migliore vita, don Rafeli e donna Emma hanno deciso di donare alla chiesa il palazzotto della Campurra, che adesso, esteriormente integro nella sua antica bellezza, si presenta triste e vuoto.
‘Gli impianti di trattamento rifiuti devono essere realizzati sulle aree di recupero deteriorate e dismesse da altre attività produttive e non sui terreni agricoli vergini!’
Un’altra presa di posizione degli ambientalisti del Coordinamento Civico apartitico per la Tutela del Territorio e della Salute del Cittadino e del Forum Ambiente e Salute del Grande Salento, una vera e propria diffida perentoria, indirizzata alla Regione Puglia, agli Enti Locali della Provincia di Lecce e alle Istituzioni di tutela monumentale e di polizia ambientale.
Nello specifico si tratta di impedire la realizzazione di un mega impianto di compostaggio che coinvolge i territori dei Comuni di Soleto, Galatina e altri vicini, proponendo l’utilizzo e la riconversione di strutture già esistenti e la pratica del compostaggio domestico e agricolo.
La motivazione è legata al rispetto dei principi ambientalisti di risparmio di suolo agricolo e alla gravità della situazione sanitaria e di qualità dell’aria, già fortemente compromesse nelle aree in questione (Galatina, Soleto, Sogliano Cavour, Cutrofiano, Zollino, Corigliano d’Otranto, Maglie, Melpignano, Sternatia, San Donato, Carpignano Salentino, Galatone, Nardò, ecc.), come dimostra l’anomala ed elevata incidenza di malattie tumorali, respiratorie, cardiovascolari, etc., dovute a inquinamento ambientale e registrate in percentuali sempre più crescenti e preoccupanti.
Le Associazioni hanno allegato un manuale delle buone pratiche in materia di rifiuti e di impianti di trattamento. In aggiunta invitano a riflettere sulle conseguenze che ricadrebbero su un’area non prevista per ospitare un tale impianto in termini di infrastrutturazione viaria e di pressione del giornaliero traffico di camion per il trasporto dei rifiuti, provenienti non solo dalle città limitrofe ma da altri comprensori, per raggiungere i volumi richiesti dal funzionamento dell’impianto.
‘E’ facile immaginare l’impatto sulla qualità dell’aria!’ – aggiungono gli ambientalisti. C’è una soluzione alternativa, chiediamo? – Innanzitutto la risposta sta nella riduzione dei rifiuti, poi nella raccolta differenziata e per quello che resta, in particolare la frazione umida, ricorrere a piccoli impianti domestici di bio-compostaggio in modo che il problema sia risolto dalle famiglie o direttamente dagli agricoltori come accadeva una volta, in modo da chiudere il ciclo dei rifiuti. Piccoli impianti, qualora necessari, dovranno essere realizzati in aree dismesse, senza consumo di ulteriore consumo di suolo! Il percorso tracciato dalle Associazioni ambientaliste è un programma virtuoso, di un governo e di una cittadinanza che, come diceva il padre degli ambientalisti Barry Commoner, intende far face con il pianeta!
La postazione della Casa della Rusetta era oltremodo strategica: nascosta con discrezione nella immediata periferia del Centro Antico, offriva la massima riservatezza e poteva essere raggiunta da tutti con estrema facilità, specialmente dai forestieri.
La palazzina sonnecchia, ancora oggi, sorniona, complice e colpevolmente collusa nel vicolo buio e breve, come un sospiro, di Vico Vecchio e domina dall’alto, rilassata in un dolce abbandono, la piccola, discreta e delicata Chiesa delle Anime, situata poco distante a piè del pendio.
In questo squarcio, che si delimita fra Piazza Vecchia, vico Vecchio e il tratto finale di via Vignola, il sacro e il profano, nello spazio di pochi metri, trovavano qui, come non mai, il loro curioso e stridente punto d’incontro.
Chissà quanti clienti diurni, dopo il misfatto consumato nelle alcove della Rusetta, colti da una tumultuosa e angosciante crisi di mistico pentimento, saranno entrati con furtiva circospezione nella Chiesetta, tenendo lo sguardo basso e scurnusu!
Lì, piegati su un rigido inginocchiatoio, avranno biascicato qualche ipocrita ave Maria, senza avere il coraggio di incrociare i volti disperati delle anime imploranti nelle fiamme del peccato, che con pregnante espressione e vivida suggestione Serafino Elmo ha rappresentato nella sua tela, che sovrasta l’Altare Maggiore.
I clienti notturni, che non potevano trovarla aperta, forse saranno stati costretti a ritornarvi la mattina successiva per un segreto lavaggio di coscienza, recitando un veloce, conciso, frettoloso, superficiale mea culpa… di circostanza.
E chissà quanti altri, forse la maggioranza, senza attacchi di crisi spirituali e senza rigurgiti di lancinante misticismo, si saranno allontanati a passo veloce da Vico Vecchio, sgattaiolando lungo il muro di cinta del giardino de lu Spitale vecchiu, mentre sdrucciolavano goffamente fra i bàsoli consunti, disselciati e sconnessi di Vico Lucerna.
Acceleravano certamente il passo, perché preoccupati per gli sguardi irritanti dei curiosi e degli impiccioni, ruddhra (semenzaio), che a Galatina, più che altrove, allora come oggi, cresceva sempre vivida e rigogliosa.
Vico Lucerna, che si snoda attraverso una stradina buia, nervosa, angusta e silenziosa, vive squarciato dal vandalismo, umiliato dall’incuria, offeso dall’abbandono, violentato dalla sporcizia, ma, ancor di più, ferito dalla disincantata disattenzione della Pubblica Amministrazione.
Da poco, qualcuno ha intrapreso, fortunatamente, interventi di restauro su abitazioni private e forse restituirà in parte a quel Vico il suo meritato decoro.
Esso sfiora delicatamente tutt’intorno, con complice discrezione e in leggera pendenza, le spalle della Chiesa, per sfociare infine, smussando via Mezio, su Piazzetta Lillo.
Come via di fuga era l’ideale per i forestieri, che avevano parcheggiato le proprie auto sotto l’antico acero, che cresce da molti anni, altezzosamente maestoso, ad Est della Piazzetta.
Solo da poco, un vento particolarmente furioso e devastante, facendo presa con facilità nella sua chioma folta e imponente, lo ha reciso a metà.
Il tronco superstite, con insospettata, prepotente e rigogliosa vitalità, ha ripreso di nuovo a germogliare, adornandosi con una folta, verde, imponente corona di rami e di foglie, sufficiente a restituirgli tutta la sua maestosità perduta.
Quella vecchia, antica dimora della Rusetta conserva tutti i segreti di quel mestiere, sia nello squallore del fitto silenzio polveroso delle sue stanze, sia nella memoria storica di quei pochi clienti ancora in vita che, pur avanti con gli anni, hanno nostalgia, più ché di quei luoghi, …della loro svanita giovinezza.
E attraverso la loro memoria, annebbiata ma non completamente compromessa dagli anni, sembra ancora di intravedere, di fronte alla porta d’ingresso, un bancone in legno di noce con la sua porta laterale battente, lievemente spostato verso destra, sul quale erano impilati i gettoni di rame (le marchette), che i clienti ritiravano previo pagamento del prezzo dovuto.
Il bancone era sormontato con evidente strategica esposizione da una vistosa targa di bronzo.
Si trattava del tariffario, o prezzario (come si usava dire con espressione meno raffinata, ma che evidenziava in modo nudo e crudo tutto il… prezzo dell’affare), sul quale con eloquente e chiara grafia erano impresse tutte le tariffe e le condizioni delle prestazioni offerte.
Il salottino, posizionato quasi a ridosso della scala e accanto al bancone della maitresse, era arredato con un sofà damascato e con alcune poltroncine in finta pelle.
La porta-finestra, che da destra si affacciava su Piazza Vecchia con le persiane rigorosamente socchiuse, come prescritto (donde l’espressione “case chiuse“ ), era protetta con prudenza e discrezione da una tenda a due ante color grigio, che si muoveva rigonfiandosi con ritmi sinuosi ad ogni pur piccolo e impercettibile frusciare di vento.
E sicuramente quelle stanze e i ricordi, che in esse aleggiano come fantasmi, sono la testimonianza più accreditata e attendibile di tante battaglie, combattute con appuntamenti segreti, con tradimenti e infedeltà coniugali.
Sono state certamente battaglie sempre affrontate e vissute nella illusione di un momento d’amore, consumato in pochi attimi, comunque voluto e cercato, anche se svilito e snaturato dal gesto mercenario che lo accompagnava.
Forse in tanti hanno sperato di poter, qui, gustare l’illusione della purezza di un affetto mai corrisposto, o compensare a pagamento la delusione di un sentimento mai sbocciato, di un rapporto mai allacciato, di un incontro mai avuto, di un sogno mai iniziato, perché infranto sul nascere a notte fonda, o di un fallimento annunciato già all’alba della vita.
E proprio per questo la Fabbrica dei Sogni della Rusetta non è mai venuta meno al suo scopo e non ha mai tradito nessuno, specialmente gli illusi e i sognatori.
Ora, quella palazzina è interessata ad un progetto di consolidamento statico e… conservativo non solo della struttura edilizia ormai pericolante, ma anche con documentata certezza di un pezzo (pur se modestissimo ed infinitesimale!) di storia galatinese.
Essa rappresenta, ancora oggi, la tenace testimonianza di un passato sicuramente frivolo, ma dagli indiscutibili contenuti umani e sociali, radicati con forza nel folclore e nel costume del paese.
Quella “casa“ raggiunse il suo massimo fulgore a cavallo della seconda guerra mondiale e morì, “ingloriosamente“ con largo anticipo, ancor prima che la legge Merlin, condita di ipocrisia e falso pudore, eliminasse tutte le “case chiuse”, per trasformarle poi in case… aperte, anche se clandestine e fuorilegge.
Dopo la signorile professionalità, lo stile e la discrezione, quasi surreale, della Rusetta, subentrò a Galatina lo squallore… del fai da te col pericolo del diffondersi delle malattie veneree, che un efficiente ambulatorio medico, istituito allora come servizio pubblico su via XX Settembre, cercava di contrastare, o quanto meno contenere.
Infatti predominava l’improvvisazione, la superficialità con l’esercizio solitario e incontrollato, ma scandalosamente abusivo, di quell’arte in anguste catapecchie o improvvisate alcove, o in fatiscenti ammezzati, come quello che rimase in attività per alcuni anni nel piazzale Grotti, vicino al vecchio (tutt’ora esistente) frantoio Bardoscia, anche se faceva eccezione qualche signorile Palazzo al centro del paese.
Quella Legge infatti fallì clamorosamente il suo scopo, perchè riversò, inevitabilmente e con determinata irresponsabilità, tutto quel misero e patetico lavoro sui marciapiedi e lungo le strade semibuie.
Al di là delle sue implicazioni umane e sociali e dei suoi risvolti infarciti da puerili e falsi moralismi, quella attività aveva almeno la garanzia dell’igiene e della sicurezza per i controlli igienici e sanitari cui veniva sottoposta.
Oggi purtroppo, come nell’arco degli ultimi sessant’anni, quel lavoro, che comunque violenta il corpo e abbrutisce irreversibilmente l’anima delle addette ai lavori e dei loro clienti, si svolge, oltre che in case clandestine, anche all’aperto, alla luce del sole, lungo le strade provinciali o intercomunali, o al complice buio della notte nelle periferie delle città in modo più volgare e più atrocemente disumano.
Ormai, con l’apertura delle frontiere nella Comunità Europea e con l’invasione dei disperati extracomunitari, quella attività si è trasformata in tratta delle schiave e degli schiavi, gestita dalle mafie locali ed internazionali, dove operano feroci aguzzini e spietati profittatori.
E il degrado umano e sociale che ne deriva e che offende la coscienza civile, ha toccato il fondo ed è destinato a diventare inarrestabile, se non si interviene con una legge saggia, intelligente e opportunamente equilibrata.
Problema che non si risolve, è certo, con le grottesche e risibili misure di contrasto, che hanno i loro censurabili risvolti di discutibile legittimità, assunte da certi sprovveduti e goffi Sindaci, non solo leghisti.
Iniziative che sembrano (ma forse lo sono veramente) solo folclore, spettacolo, passerella, demagogia e propaganda elettorale!
“Mentre tutto intorno è pioggia, pioggia, pioggia e Francia” (Paolo Conte)
Francia non è solo pioggia, ovviamente, e Champagne Ardenne è un distretto famoso per la sua bellezza, per il vino con le bollicine, soprattutto è regione con paesini piccoli, di pochissimi abitanti. Che diavolo ci fanno in quella regione francese al confine con il Belgio Stefania De Dominicis di Cavallino e Emilia Taurisano di Lecce?
Trasformano in spettacolo i racconti che hanno imparato dagli abitanti di quella regione, una delle più povere di Francia, mentre bevevano assieme a loro un caffè.
Il loro spettacolo è narrazione, recitazione, scrittura, fotografia, giocoleria, manipolazione. Studiano, ascoltano, parlano, trasformano e poi torneranno in quei paesi e saranno loro a rielaborare le storie nelle case, nelle sale da pranzo, davanti a un pubblico minimo. Un caffè che diventa un gioco del dare/avere, un filo che unisce ospiti e ospitati in uno scambio di ruoli. Loro, le attrici, dovrebbero essere ospitate, invece invitano gli abitanti in un momento di convivialità che permette un contatto non mediato da palcoscenici, platee, galleria, sipari.
Ho incontrato Emilia e Stefania al Fondo Verri, mentre stavano lavorando e rielaborando le loro storie. Abbiamo parlato senza bere neppure un caffè.
“Come è nato il progetto?”
“Abbiamo risposto ad un bando della regione Champagne Ardenne che chiedeva di mettere in atto azioni culturali con lo scopo di coinvolgere a partecipare gli abitanti. Angeline, amica e collega è originaria proprio di quella regione che è una delle più povere di Francia, lo Champagne è arcinoto come eccellenza, meno forse come regione, la parte Ardenne è invece poverissima, ci sono paesini di 80 abitanti”.
“Come mai vi siete trovate in Francia?”
“Io ci vivo, Stefania mi ha raggiunto per questo progetto” dice Emilia.
“Ditemi del bando”
“Avevamo pensato a qualcosa di simile per la periferia di Parigi. Abbiamo lavorato con Bertrand, in una periferia della capitale. Balzava a gli occhi nelle piazze, nelle strade il disagio, bambini che utilizzano internet per vedere film violentissimi, furti, degrado. Abbiamo sentito il bisogno di lavorare con queste persone e per loro. Abbiamo iniziato a sfogliare i bandi per cercarne uno che ci consentisse un lavoro sul territorio. Poi l’incontro con la regione Champagne Ardenne”.
“Quindi voi avevate già una compagnia”
“Si, nuovo circo e fotografia. Lavoriamo per il teatro, il cabaret, i gala. Sono lavori che si prestano anche ad essere rappresentati in strada. A differenze dell’Italia dove il nuovo circo è prevalentemente teatro di strada, in Francia non è così. Là tutti i teatri stabili hanno programmazioni di teatro, danza, musica e nuovo circo. Rientra a pieno titolo nelle rappresentazioni ufficiali, è riconosciuto”.
“Quindi siete arrivate nella zona rurale”
“Angeline, come dicevo, è originaria dell’Ardenne. Grazie a lei, che ha suggerito di andare a lavorare là, ci siamo mossi per scelta precisa proprio nelle zone più disagiate, quelle rurali, lasciando perdere le città ed i grandi agglomerati. Subito ci siamo posti il problema di come presentarci senza imporre la nostra cultura, volevamo cercare sul territorio l’identità di quelle persone, che è forte. Da qui la creazione di un punto di contatto fisico, reale fra noi e loro. In Francia esiste una cultura del caffè molto forte, prima dell’avvento della televisione era costume abituale invitare i vicini a prendere un caffè che è molto lungo e si beve tranquillamente seduti, facendo trascorrere il tempo, in grandi tazze. Ci è sembrato un ottimo punto di contatto. Abbiamo proposto loro un baratto. Noi offrivamo un caffè e loro, in cambio, ci regalavano storie. Noi portavamo la nostra voglia di sapere ed un caffè, loro ci restituivano le loro conoscenze. Per farlo abbiamo imbandito meravigliose tavole nelle piazze e in luoghi dominati dalla natura, lì invitavamo le persone a sedersi con noi e a raccontare storie, aneddoti, fiabe. Alcuni Sindaci ci hanno aiutati, sia pure parzialmente, dopo questa prima fase di raccolta abbiamo iniziato a elaborare.”
“Parliamo della rielaborazione di questo lavoro, cosa proponete?”
“Stefania sta riscrivendo i testi partendo dai racconti e intrecciandoli con le esperienze che abbiamo fatto durante questi incontri, in sostanza, tutto ciò che noi abbiamo imparato. Per il resto facciamo manipolazione di oggetti, antipodismo (giocoleria con i piedi), lavoro teatrale, il canto, marionette, teatro d’ombre. Un insieme di specializzazioni che ognuno di noi possiede. Inoltre stiamo facendo un lavoro sui suoni, il caffè ne ha molti, quando lo si prepara, quando sale, quando lo si versa, ogni momento ha un suo suono, una musica. Anche questo elemento sonoro sarà presente. Soprattutto tenendo conto che non facciamo un solo tipo di caffè, ma diversi: italiano, turco, francese ecc.”
“L’accoglienza è stata buona?”
“Non abbiamo mai avuto folle oceaniche, però ogni giorno abbiamo fatto conoscenze incredibili. In un paesino dove ci dissero “qui non succede nulla” noi abbiamo egualmente imbandito il nostro tavolo proprio lì abbiamo conosciuto persone bellissime. Un uomo pieno di storie si è fatto Km. a piedi per venire da noi a raccontarsi. Un inglese è arrivato con il suo asinello. Prima era un commerciante di diamanti, ad un certo punto ha avuto problemi di salute ed ha dato una svolta alla sua vita, si è messo a girare il mondo con un asinello. Sono storie nelle storie. Poi un’olandese che camminava dall’Olanda al sud della Francia, una blogger. Lei cammina e si cuce sulla giacca una targhetta con il nome di chi ha condiviso con lei un pezzo di cammino, così si porta appresso tutti gli amici”.
“Possiamo parlare di un sud del mondo come zona disagiata? Ed è possibile un parallelo con il Salento?”
“Da questo punto di vista direi di si, è un sud. Per il parallelo con il Salento in realtà la differenza è marcatissima. Però la nostra ricerca è sullessere umano. La signora di 90 anni che non ci aprì la porta per timore, e ci spiava dalla finestra socchiusa potrebbe essere mia nonna salentina. Il signore con l’asinello perchè non potrebbe essere il barone salentino? Similitudini le troviamo invece in abitanti di quei luoghi arrivati da fuori per viverci. Come in Salento, anche là si respira la possibilità di avere una vita meno oppressiva, più vicina alla natura. Una vita meno ossessionata ed opprimente”.
“ Il progetto è riproponibile qui in Salento secondo voi?”
“Quando organizzammo al Fondo Verri una prima rappresentazione venne accolta benissimo, il caffè riguarda anche noi. Certo, è proponibile, ovviamente non lavoreremmo sulle stesse corde. Quando lo porteremo in Ardenne ci faremo invitare nelle sale da pranzo, non nelle piazze o nei teatri, pochi spettatori invitati dagli stessi padroni di casa. Qui lo faremmo magari nelle corti, ci abbiamo pensato. Le corti sono micro comunità. Sicuramente incontreremmo tantissimo materiale su cui lavorare. Con questo spettacolo contiamo di andare in giro per l’Europa. Magari per il Salento non partiremmo dal caffè.”
“Negramaro?”
“Pensiamoci! Ci incuriosirebbe la possibilità di fare spettacoli in case o corti salentine. In Francia è un esperimento diffuso, qui sarebbe nuovo. Su questo progetto uscirà anche un libro fotografico e scritto, sarà in doppia lingua italiana e francese”
“Disponibile quando?”
“Stiamo cercando una casa editrice, pensiamo francese, però ci fosse un editore italiano ci porteremmo pensare”.
“Certo che se trovaste un bando qui o una finanziamento sarebbe ottimo”
“Ovviamente. Il nostro non è un pubblico pagante. Senza finanziamenti non potremmo iniziare”.
Forse è un invito, chissà, forse qualche fondazione o qualche privato o, meglio, qualche ente pubblico potrebbe provare a pensarci.
Riprendiamo dalla locandina in preparazione dell’incotro dell’ottobre 2013 presso il Fondo Verri:
Compagnia TAU
Un progetto finanziato dalla regione Champagne Ardenne
Partner del progetto: Association Fleur Sociale, Compagnie La Baladaï, Côté cour, Festival du Jeune regard de Sy, FJEP de Vouziers, Maison de retraite de Vouziers, Médiathèque de Poix-Terron, Médiathèque Yves Coppens de Signy-l’Abbaye, Office d’animation des Crêtes Préardennaises, Café pour tous de Châtel-Chéhéry, Les communes de: Boult aux Bois, Falaise, Lalobbe, Poix-Terron, Saint Lambert et Mont de Jeux, Signy-l’Abbaye, Sy, Fondo Verri
Di e con: Stefania De Dominicis, Angeline Soum, Emilia Tau
In tempi in cui tanti non riescono ad arrivare alla fine del mese ai salentini in difficoltà non rimane neppure la consolazione di dire ‘stu mese simu sciuti isa isa (questo mese siamo andati pari pari). In attesa che la ormai famigerata luce in fondo al tunnel, che si ostina a vedere proprio chi ha causato e continua1, quasi invasato dalla totale assenza di pudore, ad alimentare il buio pesto nel quale brancolano le persone oneste, faccia la sua pur timida comparsa, non rimane che impegnare il cervello, finché la pancia è sufficientemente piena …, per evitare che si atrofizzi e per esercitare uno spirito critico propositivo che, l’impresa è quasi disperata, non indulga ad atteggiamenti violenti e distruttivi. Quanto sto per dire non è indirizzato ai tanti boiardi parassiti e affamatori (tra questi i burocrati occupano un posto di rilievo) in grado solo di dirigere l’insipienza e la disonestà loro e dei loro leccaculo: non sarebbero in grado di capirlo, non tanto perché neppure immaginano cosa significhi chiudere alla pari o, come più spesso succede, in passivo il bilancio familiare, quanto perché il loro cervello si accende solo davanti all’acquisizione del potere o di benemerenze politiche e agli annessi vantaggi economici, grazie, per giunta, a titoli non sempre legittimamente conseguiti; insomma una nefasta mistura di incompetenza, disonestà e, nel caso dei burocrati, pure di sadismo, che ha portato criminalmente alla rovina il resto della collettività. È più probabile, perciò, che trovi interessanti queste poche righe il giovane o meno giovane incazzato nero piuttosto che l’affamatore (in passato, almeno, aveva un colore che lo distingueva dagli altri … affamatori) di cui sopra.
So benissimo che chi non ha di che mangiare ha tutto il diritto di utilizzare le mie parole come se fossero scritte sulla carta igienica, ma voglio continuare perché per me è più gratificante il contatto con culi veri che con facce da culo …
La locuzione isa isa è registrata nel vocabolario del Rohlfs che, per l’etimologia, mette in campo il greco moderno ἴσα (leggi isa)=in ugual modo. Non riesco a capire come al grande filologo possa essere sfuggito il fatto che già nel greco classico l’aggettivo ἴσος/ἴση/ἴσον (leggi isos/ise/ison), che significa uguale, prevede l’uso del neutro singolare (ἴσον, pure nella variante ἶσον) e di quello plurale (ἴσα, pure nella variante ἶσα) con valore avverbiale. Un solo esempio tra i tanti, tratto dal vocabolario greco-italiano di F. Montanari, per il plurale, che è la forma che a noi interessa: ὥστ’ἀδελφὸν ἴσα φίλῳ λυπούμενον=addolorato per l’amico come un fratello. Qualcuno potrebbe obiettare che il Montanari non era ancora uscito ai tempi del Rohlfs; è vero, come è vero pure che il vocabolario più usato da decenni prima di quello del Montanari era quello del Rocci e, se Rohlfs l’avesse consultato (a parte il fatto che l’accusativo neutro avverbiale in greco e in latino è un fenomeno abbastanza ricorrente), vi avrebbe trovato registrato a pag. 929 l’uso avverbiale di ἴσα.
È irrilevante, poi, che il più delle volte (significa non sempre e non tassativamente …) ἴσα si accompagna ad un dativo (φίλῳ nella frase prima riportata). Tale dativo (aggiungo di relazione), infatti, può essere facilmente sottinteso nel nostro caso, in cui, perciò, l’espressione ‘stu mese simu sciuti isa isa, sciolta, corrisponderebbe a questo mese siamo andati pari pari rispetto alla retribuzione percepita.
Sento già aleggiare l’avvisaglia che fra poco pure per me quest’espressione sarà obsoleta, cioè, quasi paradossalmente, rimpianto di un tempo meno infelice.
__________
1 Perché, per esempio, fatti salvi i diritti acquisiti, non si stabiliscono, a partire da oggi, retribuzioni, per i dipendenti pubblici (dall’addetto alla pulizia dei cessi al più alto dirigente), rapportate all’importanza del compito affidatogli ma prive di quelle oscene voci aggiuntive relative alle indennità accessorie che fanno lievitare in maniera esponenziale i costi della pubblica amministrazione? Perché non si eliminano tanti enti inutili la cui unica funzione è quella di fungere da ricettacolo (con tutta la carica dispregiativa che la voce ha) per politici trombati, per politicanti, traffichini e trafficanti di ogni risma e per i loro clienti? Perché le nomine non si fanno tenendo conto dell’effettiva professionalità attingendo ad apposite graduatorie? Perché non si stabiliscono, almeno sulla carta, pesanti sanzioni per chi non raggiunge gli obiettivi in vista dei quali è stato nominato e la sua destituzione immediata con un calcio in culo, anziché trasferimenti-premio e liquidazioni faraoniche? Perché non si stabilisce, in caso di condanna, la confisca immediata (preceduta al momento dell’incriminazione da un sequestro precauzionale) di tutti, dico tutti, i beni riconducibili al colpevole? Se queste leggi, una volta approvate, venissero applicate, credo che a parecchi passerebbe la fregola di darsi all’attività politica e questa sarebbe esercitata unicamente da persone oneste nonché competenti, animate solo dallo spirito di servizio. Oltretutto leggeremmo finalmente leggi nuove, chiare ed inequivocabili, prive di qualsiasi riferimento ad articoli e commi di leggi di un secolo fa, prive di contraddizioni in buona o in mala fede, gratificanti pure nelle loro forme espressive …
Non c’era panieri senza nuceddhe[1] e solo a pensarci ti par di avvertire il sapore e il profumo delle noccioline tostate di fresco e della cupeta[2] fatta con le noccioline. Passeggiando tra le bancarelle illuminate dal barbaglio delle luminarie tra il vociare allegro di grandi e piccini e la musica della banda, coinvolti in un clima festoso che penetra lo spirito e i sensi, non riesci a sottrarti alla voglia di assaporare le croccanti arachidi che, facilmente, si schiudono sotto le dita.
A proposito di nuceddhe o Pistacchio di terra vi propongo un articolo del dottor Achille Bruni che, nel 1866, scrisse sul quotidiano “ il Cittadino Leccese” per spronare i cittadini alla coltivazione di questa pianta, a quanto pare molto diffusa in un precedente periodo e poi scomparsa completamente dai campi del Salento.
In società tutto è simpatia e antipatia, non solo verso il proprio simile, ma del pari verso gli animali, verso qualunque oggetto e verso le stesse piante. Se percorrete gli antichi giardini, custoditi con gelosia, non esclusi quelli degli stessi conventi, trovate talune piante, introdotte presso noi da lunghissimo tempo, coltivate e custodite con tanto interesse, che vi rappresentano i veri tipi naturali come ci furono presentati dai viaggiatori che dall’America introdussero presso noi siffatti vegetabili. D’altra parte v’ha molte piante le quali abbenchè utili, tuttavia non sono apprezzate in verun modo, cosicchè a stenti le trovate in qualche orto, più per collezione che per interesse.
Tale è stata la sorte del Pistacchio di terra ( Arachis hipogea), il quale quantunque di utilità all’uomo non ha incontrata quella simpatia, da farle coltivare generalmente, tranne in Ispagna, ovè coltivato distesamente. Io non tralascio di ricordare una parola a pro dello stesso, sperando che col tempo se ne faccia maggior conto, comecchè è vegetabile utile per gli orti e luoghi ove l’acqua esiste.
Il Pistacchio di terra si affida al terreno dalli 15 aprile alli 15 maggio. Il suolo dev’essere ben coltivato, smosso, leggiero, soffice, poroso. Si pianta per filari allo stesso modo che si fa per i faggioli e per il granone, ponendo i semi alla profondità di due dita, distanti fra loro un palmo; ed ogni filare alla distanza di due palmi l’uno dall’altro. nate le pianti cine, si avrà cura di sarchiarle e rincalzarle leggermente quando sono giunte all’altezza di mezzo palmo; se la stagione va secca, bisogna annaffiarle generosamente facendo scorrere l’acqua tra un filare ed un altro. L’annaffiamento si ripete altre due o tre volte secondo i bisogni. Dall’agosto in poi si sospende tale operazione, e precisamente quando le piante colla copia del loro fogliame hanno coperto tutto il suolo.
Il Pistacchio di terra è pianta leguminosa, e caccia fuori numerosi rami dell’altezza di uno due palmi, il di cui aspetto e portamento, unitamente alle foglie, somiglia a quello delle piante di fava. E mette dalla base in sopra, gradatamente, piccoli fioretti di colore giallo-rossastro. Tali fioretti sono solitarii, alla estremità di un organo sottile e lungo un pollice, il quale è acuto alla sua estremità, e somiglia ad uno spillone, dopodiché il fiorellino si è appassito e distaccato.. Lo spillone per istinto naturale si conficca nel terreno, ed ivi s’ingrossa, e alla sua estremità forma il baccello che suol contenere da due a tre semi. E siccome questi spilloni (simili alle radici novelle di un ramo robusto) si sviluppano da sotto in sopra della pianta ne segue di legittima conseguenza che i primi sono quelli che si conficcano facilmente nel suolo, gli altri restano fuori, senza ingrossare. Laonde a volere copioso prodotto è indispensabile di rincalzare con delicatezza le piante di tanto in tanto, a misura che disseccandosi la corolla dei fiorellini, appariscano fuora gli spilloni, che per natura si veggono tutti inchinati verso il suolo, ove son disposti a penetrare per ingrossare ivi i rispettivi baccelli.
Dunque tutta la cura che esige il Pistacchio di terra consiste nel rincalzare il terreno spesso a misura che si sviluppino gli spilloni: quindi la necessità dello annaffiamento e del terreno soffice, leggiero, mobile, poroso. Sicchè il Pistacchio di terra è pianta adatta per gli orti, pei giardini, e per tutti i luoghi ove il suolo è mobile, specialmente vicino al mare nelle sabbie, ove naturalmente si trova l’acqua.
Verso la fine di ottobre o ai primi di novembre si tagliano le piante e si danno agli animali bovini che le mangiano avidamente. Poi colla zappa o colla vanga si svelle la pianta, e n’esce fuora una bella ciocca di baccelli bianchi che fruttano il 40 all’80 per uno. Si fanno asciugare bene una quindicina di giorni, e poi si fanno infornare, mangiandone i semi come le nostre avellane o nocelle, essendo di migliore qualità.
Dai semi crudi del Pistacchio di terra si può estrarre l’olio per uso di lume e per quello di tavola; e allo stato torrefatto questo legume si può adoperare anche alla confezione del cioccolatte. La pianta ha il vantaggio di maturare i frutti sottoterra, e quindi sottrarsi alla mano del ladro di campagna. Il clima e le terre mobili di vari luoghi della Provincia di Lecce sono favorevolissimi alla coltivazione del Pistacchio di terra.
È stato presentato in febbraio il rapporto “Le dimensioni del gioco d’azzardo legale ed illegale e l’usura collegata”. Una tavola rotonda a Bari a cura dell’Associazione Antiusura San Nicola e Santi Medici, Consulta Antiusura, Insieme contro l’azzardo.
Nel documento presentato si fa riferimento alle cause dell’usura ed al suo aumento nel tempo. Le famiglie italiane sono all’ultimo posto in Europa per capacità di accantonare porzioni di reddito. Fino a pochi anni fa eravamo ai primi posti come risparmio. Siamo ai primi posti, invece, come disoccupazione giovanile e come aumento delle insolvenze. Secondo dati della Banca d’Italia l’indebitamento delle famiglie dal 2003 ad oggi è raddoppiato in modo uniforme in Italia (nord, sud, nord est centro).
Per le aziende la gravissima crisi è in particolare dovuta ad alcuni fattori:
·Diminuzione dei ricavi e dei margini
·Razionamento ed esclusione dell’accesso al credito
·Ripetuti insuccessi nel fronteggiare le crisi aziendali
·Accumulazione di crediti in sofferenza o inesigibili
·Fragilità della struttura di impresa (sottopatrimonializzazione, mancata separazione fra beni familiari e quelli dell’azienda.)
In questo quadro si inseriscono le criminalità:
Comune: danneggia il patrimonio materiale
Organizzata: aggredisce le attività con estorsioni e intimidazioni, usura
Specializzata: truffe e frodi
Economica: manipol il mercato del credito e condiziona la Pubblica Amministrazione.
I dati evidenziano come solo il 20% degli italiani risiede in territori a minimo indebitamento patologico, e sono tutti nel centro settentrione. Quindi sono anche i meno vulnerabili ad usura.
Le sofferenze bancarie hanno avuto, dal 2009 al 2012, un’impennata del 46,45%.
In questo quadro, annotano gli estensori della ricerca, il silenzio istituzionale è inquietante. L’ultima autorità a parlare del rischio usura fu l’allora governatore B.I. Mario Draghi alla Commissione antimafia, era il 21 luglio 2009.
In tutto ciò si inserisce il gioco d’azzardo che assorbe il 10% della spesa complessiva di quanto le famiglie spendano in beni primari e secondari. A questo dato mancano i numeri del gioco illegale (slot truccate, tagliandi contraffatti, azzardo clandestino)
Dal 2001 al 2012 il consumo per gioco è passato da 20 a 85 miliardi di euro, l’incasso per l’erario nello stesso periodo da 5.410 a 8.640 miliardi (dal 27,75% al 10,81% del giocato) mentre per la filiera del gioco (gestori, distributori di slot ecc.) è passato da 3.800 a 10.307 nello stesso periodo (dal 19.49% a 12.9%).
Il consumo di gioco d’azzardo rispetto al PIL provinciale si evince dalla tabella che segue:
Altro dato interessante evidenziatodalla ricerca è il “valore del tempo vita” investito in azzardo. Altro non sarebbe che il calcolo di quante ore si spendono per giocare.
NewSlot: 28 miliardi di ripetizioni di gioco: Ore 46.660.000
VLT: 5 miliardi di ripetizioni di gioco: Ore 8.300.000
Gratta e Vinci: 2 miliardi e 200 milioni ripetizioni di gioco: Ore 36.660.000
Giochi on line: 15 miliardi ripetizioni di gioco: Ore 166.700.000
Totale operazioni di gioco: 49 miliardi di operazioni di gioco Pari a Ore 488.320.000 vale a dire 69.760.000 giornate lavorative.
L’offerta esageratamente capillare del gioco d’azzardo, secondo la Commissione Antimafia, rende impossibile un controllo delle illegalità. In questo stagno si muovono le mafie sia direttamente (accaparramento di concessioni) che indirettamente (estorsioni), oltre che con manipolazioni quali la gestione diretta di sale gioco (bingo ed altre) per riciclare denaro contante in quantità. E si muovono con la manomissione di apparecchiature. Reato per il quale al momento ci sono semplici ammende invece di sanzioni adeguate.
Si assiste ad un perverso meccanismo nel quale l’illegale alimenta il legale motivando la giustificazione per introdurre nuovi giochi, e il Legale alimenta l’illegale ampliando la popolazione di giocatori. Non a caso l’illegalità si sposta da modalità elitarie (bische clandestine) ad attività di massa e formalmente legali. Meglio ricavare poco da molti che tanto da pochi è la filosofia.
Il rapporto ipotizza anche una stima del “non registrato”. Le slot sono molto più diffuse al centro nord che al sud, mentre gli incassi medi sono identici. Tuttavia i conti non tornano, dice il rapporto, anche in considerazione dei reati appurati nell’ultimo anno:
Dove gli apparecchi per abitante sono di meno, dovrebbe risultare un ricavato medio per slot maggiore, considerato la quota di reddito pro capite che definisce la propensione al gioco.
Se a meno slot corrisponde meno giocato – vistosamente meno – per apparecchio, vi è molto probabile una porzione di apparecchi in stato di disconnessione dal sistema che registra i movimenti.
Il valore medio Italia è di 6,6 apparecchi per 1000 abitanti. Il valore massimo è di 13,9, quello minimo è di 3,3.
L’usura è tornata ad essere sofferenza dimenticata. Non si riconosce l’indebitamento delle famiglie, si rinuncia alla regolamentazione dei crediti e dei finanziamenti.
Il rapporto termina con queste considerazioni:
Le frontiere della difesa dall’usura
• Priorità ai comparti dell’economia che crea valore e occupazione
• Orientamenti e discipline al mercato dei crediti e dei finanziamenti, pur dopo le completate privatizzazioni e concentrazioni delle ex banche d’interesse pubblico
• Monitoraggio dell’approfondimento affaristico e delinquenziale dello stato di crisi finanziaria delle imprese
• Prossimità delle istituzioni di sicurezza pubblica alle persone indotte a indebitarsi a usura nel tessuto delle città e dei centri agricoli
• Riconoscimento e vero sostegno alle Fondazioni e alle Associazioni antiusura selezionate e valutate quanto a reale capacità e efficienza “di servizio”.
• Abbandono di pseudo soluzioni simboliche
• Programmazione di un “ritorno” dal consumo industrializzato di massa del gioco d’azzardo
• Incoraggiamento alla ricostruzione del Capitale Sociale Familiare
• Verifica di effettivo indebitamento delle famiglie
• Provvedimenti urgenti per impedire la prosecuzione di procedure di indebitamento, formalmente lecito, ma patologico.
Il Comitato per la tutela dell’area archeologica ex caserma Massa, al quale aderiscono moltissimi enti e associazioni fra cui: ADOC,Fondazione Mario Perrotta, Italia Nostra, Movimento Valori e Rinnovamento, Storia Patria, ARCI, Fondo Verri, Manni Editore, Telerama, si è riunito all’Open Space venerdì 28 febbraio.
Assemblea molto partecipata, posti in piedi. Dopo l’introduzione di Giovanni Seclì, che ha fatto la cronistoria dei progetti che qualcuno ha chiamato “culturicidio”, ponendo una domanda semplice: «Dopo l’abbattimento dell’ex convento poi diventato caserma nel 1971, vogliamo proseguire a distruggere fondamenta e reperti?» Perché proprio di questo si tratta, proseguire a cancellare pezzi di storia in nome e per conto del voler convogliare in centro il traffico nei 500 posti auto che si verranno a creare in un parcheggio sotterraneo sottostante la galleria commerciale. In un periodo in cui abbondano i cartelli “affittasi” sulle vetrine di ex negozi chiusi da una crisi mostruosa, Lecce si premura di far costruire altri negozi, nuovi nuovi, appaltando il tutto ad un’impresa privata, si chiama proget financing (non so quale sia il nome in salentino). A questo forse contribuiscano anche alcune deroghe della Regione Puglia. Il piano paesaggistico in origine prevedeva l’impedimento a modifiche sostanziali su siti archeologici.
E sul comportamento della Regione ci sarebbe da discutere, lo stesso pare stia succedendo a Cisternino, per la famigerata “strada dei colli” che scavalca il piano paesaggistico con un sottinteso (?) placet di Bari.
E, sostiene Seclì, si scavalca anche il PUG (Piano Urbanistico Generale) che prevede la salvaguardia del patrimonio archeologico.
Ci si chiede se il sito sia archeologicamente rilevante o no. In particolare non si sa che fine abbiano fatto le indagini conoscitive promosse dall’amministrazione Salvemini. Sono sparite? Perse? Nascoste? Si sa per certo che la soprintendenza nel l971 diede parere contrario alla demolizione, ininfluente, con tutta evidenza.
A sentire gli interventi la quasi totalità dei partecipanti all’assemblea era contro il progetto, tutti tranne il Prof. D’andria che, in un lungo intervento ha detto due cose fondamentali:
· Abbiamo fatto scavi, trovato reperti, catalogato e fotografato il tutto e ne abbiamo fatto un libro.
· Oggi non c’è più nulla di rilevante.
Secondo questa teoria si può costruire anche un grattacielo e i comitati sono, in pratica, dei rompipalle. E poi, ha detto D’Andria rivolgendosi ad un altro signore che denunciava il progetto come invasivo «Lei dov’era nel ’71 quando abbattevano il Convento?». Quel signore aveva qualche anno in meno di me, nel ’71 avevamo tutti altri interessi. Evidentemente secondo D’Andria, chi in quegli anni non ha protestato, ora non ha alcun diritto a farlo, indipendentemente dall’età anagrafica. Bizzarro veramente.
E quello del Professore è stato un ottimo assist per l’assessore Messuti che ha detto «ci fosse stata presenza di un sito di rilevanza archeologica ci saremmo fermati» ed ha proseguito dicendo che prima quella piazzetta era una schifezza immonda, a lavori ultimati si rivaluterà anche con una piazza, ideale congiungimento fra il centro storico e quello commerciale. Non ci ha detto l’assessore quali amministrazioni hanno governato e consentito una schifezza immonda nel centro di Lecce per lunghissimi anni.
Chi scrive vive a Lecce da soli sei anni, quindi non c’ero nel ’71 (con buona pace del Prof. D’Andria), e se ci fossi stato avrei avuto altra sensibilità, a vent’anni mi occupavo d’altro, forse questioni ormonali, forse ideali, non ricordo. Dopo i primi sei mesi spesi a girare in una città stupenda con lo sguardo in alto a vedere le meraviglie del centro storico, ho dovuto, ahimè, abbassare il naso a guardare cosa succede sotto il barocco. Ho visto Piazza Sant’Oronzo che è in buona parte un parcheggio quasi incontrollato, ho visto edifici storici di proprietà pubblica nel degrado più assoluto, ho visto che non esiste un piano traffico. Ed è proprio quest’ultimo punto il più qualificante per l’intervento in Piazza Schipa, senza un piano traffico che senso ha costruire un parcheggio per 500 auto in pieno centro? Quale altro interesse se non quello di attrarre altro traffico ed altre auto in una città già intasata? I parcheggi di scambio, come richiamato dal Prof. Pankievich, i bus navetta per liberare e pedonalizzare il centro storico, sono nei progetti o meno? In sostanza, le amministrazione negli ultimi vent’anni hanno vagamente ipotizzato qualcosa di diverso dal caos? Qualcuno, nel corso dell’assemblea, ha sibilato anche interessi di altra natura, ma si tratta di illazioni. D’altra parte la filosofia che guida l’amministrazione in queste scelte si è palesata nella ristrutturazione di Piazza Partigiani, è di questi ultimi giorni la notizia che le piste ciclabili verranno sacrificate per aumentare i parcheggi auto. Con buona pace della città sostenibile.
Sembra quasi che il problema di Lecce sia Lecce stessa. Troppo bella e troppo delicata, e con troppi interessi più o meno sottesi.
Ho riflettuto molto ultimamente sulla enorme quantità di soldi che si spendono per la tutela e la salvezza delle anime degli abitanti del mio paese:
Nell’arco degli ultimi sessanta anni nel mio paese hanno accorciato la Chiesa Madre e nello stesso tempo ne hanno edificata una nuova in un’altra piazza negli anni 50. Inspiegabilmente hanno abbattuto e ricostruito, nuova di zecca, un’altra chiesa, che era la più antica del paese negli anni 60. Hanno pavimentato, un’altra volta, e intonacato i muri esterni della Chiesa Madre negli anni 80. Hanno stonacato invece la chiesa della santa protettrice del paese che era stata edificata “per miracolo” negli anni 90. Hanno rifatto il campanile e tutto il look interno, sempre della stessa Chiesa Madre negli anni 2000.
Senza parlare della costruzione di un imponente Oratorio che è l’unico intervento forse, fatto senza fare scempio e recare danni irrimediabili al patrimonio storico del paese.
Tutti questi lavori, opportuni o meno, sono stati realizzati con il contribuito dei cittadini, sia che li avesse messi lo Stato, sia che li abbiano messi di tasca propria. Il tutto con l’approvazione benevola della sovraintendenza alle belle arti.
Se gli abitanti del mio paese avessero speso almeno un terzo di quella cifra per le nostre scuole, oggi avrebbero scuole degne di essere frequentate, perché la scuola insegna Valori e Regole che è molto difficile insegnare in una scuola che strutturalmente non è in regola. Diventa difficile anche per chi nella stessa scuola insegna religione, che serve per la tutela dell’anima, se quella dei bambini ha, oppure no, un valore analogo a quella degli adulti.
In questi ultimi tre mesi, ho potuto visitare varie scuole dei paesi limitrofi e mi dispiace dover ammettere che la scuola del mio paese è la peggiore.
Nel mio paese le Chiese durano secoli (se non le abbattono volontariamente), le scuole invece durano pochi decenni, se tutto va bene, ed è, questa, la prova scontata che ogni cosa è durevole solo se fatta con amore.
Non scrivo tutto ciò per polemizzare con qualche amministrazione in particolare perché a memoria d’uomo, tutte le amministrazioni comunali, che si sono susseguite, (compresi gli abitanti che le hanno votate) nessuna si è veramente preoccupata di investire per il futuro del paese partendo dalle strutture della scuola, che sono fondamentali per la formazione dei bambini, Ma ci preoccupiamo solo della loro anima quando diventerà adulta.
Degli adulti di oggi è ammirevole la disponibilità di tante perpetue e sacrestani che si offrono volontariamente tutti i giorni a portare fiori freschi e a tenere pulite e ordinate le Chiese del mio paese, molto bene!
Sarebbe bello però se almeno un terzo di tanto interessamento lo riservassero anche per le Scuole frequentate dai loro figli che oltre ad avere un’anima, hanno tutto un futuro davanti: se lo avessero fatto già prima, avremmo oggi amministrazioni comunali che si sarebbero comportate di conseguenza per non perdere consensi.
Forse toccherà anche a me un giorno, preoccuparmi della mia anima. Da bambino ho dovuto sempre arrangiarmi da solo, da anziano invece avrò forse tutto il conforto della Chiesa e di tutti i Santi. Cambierò l’acqua dei vasi sugli altari tutti i giorni per meritarmelo e mi sentirò finalmente a casa mia, anche se non è il paese che io sognavo da bambino, anzi, non è proprio un paese per…bambini, ma dei bambini conserverò il ricordo della loro anima “alunna”, dei loro sguardi limpidi e sinceri dove posso ancora scorgere le radici della mia stessa anima incontaminata, con …”l’elmo di carta e la spada di legno” a difendere la sua identità e la sua purezza.
Crisi o non crisi, viviamo canonicamente il tempo di Carnevale, come, maschere e coriandoli a parte, attestano, muti ma accattivanti nelle vetrine dei bar, i vassoi di frappe, chiacchiere e castagnole spruzzate di candido zucchero a velo: nota di colore distintiva del periodo, conforme alla tradizione e, insieme, durevole anche nell’attualità.
E, però, nella mente del comune osservatore di strada che scrive, l’evento del Carnevale trova posto anche e soprattutto alla stregua di scrigno di suggestioni e ricordi passati, che hanno il pregio di mantenere pieno e immutato il sapore di dolcezza, addirittura più gustoso dei richiamati prodotti di pasticceria modaioli.
Sulla via principale del paese natio, Marittima, circa duemila anime, insiste tuttora, sebbene parzialmente rammodernata, una signorile dimora d’epoca, recante, non a caso, sul frontespizio, alla sommità del portone d’accesso nell’aggraziato atrio cortile, uno stemma araldico scolpito su un cubo di pietra leccese.
Nei secoli scorsi, tale edificio – inizialmente, forse, di struttura più ampia e articolata – ha costituito, a lungo, la dimora dei nobili del posto, insigniti del titolo di barone; in particolare, durante il periodo risorgimentale, ha visto nascere e crescere un personaggio, distintosi e assurto a fama non solo per il suo lignaggio, ma anche e soprattutto come patriota irredentista, al seguito di eminenti figure storiche quali Santorre di Santa Rosa, Mazzini, Manin e Cavour.
Procedendo nel tempo e fissando il calendario pressappoco intorno a un’ottantina d’anni addietro, la casa in questione è poi pervenuta, diventandone l’abitazione, a una locale famiglia benestante di proprietari terrieri e gente dabbene, composta anche da una ragazza.
Detta giovane, arrivata la stagione “giusta”, si era fatta “zita” (allora, l’accezione fidanzata non esisteva per niente nel vocabolario del paese), praticamente era stata promessa in sposa a un giovane, pure appartenente a famiglia di possidenti agricoli, residente in un altro piccolo paese, a otto/nove chilometri di distanza.
Non vi erano, ai tempi, automobili, né motocicli, semmai appena qualche bicicletta, sicché – a parte i rispettivi impegni, continui, in casa o nei campi – per la coppia, le occasioni d’incontrarsi erano infrequenti.
Certo, esisteva la possibilità di scambiarsi lettere, c’erano le visite incrociate, con familiari al seguito, per le ricorrenze, come Natale, Pasqua, le feste patronali, i compleanni e gli onomastici e però, dopodiché, basta.
Nella piccola cornice di cui anzi, mi piace ricordare una singolare iniziativa adottata dallo “zito” in discorso, nell’intento di offrire un gesto di devozione, riguardo e gentilezza alla sua “promessa”.
Ogni anno, a Carnevale – in gergo dialettale, Mascarani – il predetto era solito organizzare, preparare e allestire nel suo paese, con l’aiuto di parenti e amici, una carovana, o corteo come si appella oggi, di carri agricoli, calessi e “sciallabbà” trainati da cavalli, nonché di equini sellati e cavalcati liberamente, il tutto agghindato mediante fiori, foglie, rami con appesi i frutti della stagione e altri ornamenti colorati, a fare da pendant agli appositi costumi, acconciati alla buona, dei guidatori e cavalieri, dal volto coperto da rudimentali mascherine realizzate a mano, con carta o cartoncino, e più o meno dipinte.
Ciò fatto, ecco tale carovana muoversi in direzione di Marittima e attraversare lentamente il paese, soprattutto la via principale dove si affacciava la casa della nubenda in pectore, la quale ultima, evidentemente compiaciuta, si poneva al balcone a ricevere l’insolito, se non esclusivo, omaggio da parte del futuro marito.
L’iniziativa arrivava a rivestire, ogni volta, carattere d’eccezionalità collettiva, posto che l’intera popolazione vi assisteva con partecipazione, coinvolgimento e gioia.
Non c’è che dire, piccole manifestazioni semplici e spontanee d’anni lontani, aventi però all’origine, indiscutibilmente, un’innata e genuina nobiltà interiore e, quindi, denotanti un’anima di vitalità tale che, contrariamente a quanto succede per la maggior parte delle cerimonie e dei riti attuali, non si spegne per nulla con lo scorrere del tempo.
All’autore di queste note, all’epoca dei fatti piccolo spettatore con i calzoncini corti, piace, di tanto in tanto, riviverne le immagini.
Del resto, gli sono sempre rimaste presenti le sembianze della coppia e infine, di recente, nello scorgere su un muro del paese le abbreviazioni N.H. davanti al nome e cognome di lui, oltre a sgorgargli dentro un profondo sentimento di buon ricordo, apprezzamento e condivisione, gli si è affacciata l’idea che l’antico giovane, da lassù, nel periodo dei “Mascarani”, non mancherà di seguitare puntualmente a preparare il corteo di carri, cavalli e cavalieri per la sua sposa.
Dalle aule di sociologia ai peggiori bar di borgata si dice che il mondo oggi cambia sempre più rapidamente, che tutto è ormai così veloce che non si riesce a star dietro.
Puttanate, solo immense puttanate.
Il mondo va sempre alla stessa velocità, se non più lento del solito; è solo il rumore o un qualche strato trascurabile della superfice del mondo ad andar veloce, a passare fulmineo, senza lasciare alcuna traccia rilevante di sé.
Questi sei mesi le notizie notevoli di tale… superficie sono che gli hipster hanno rivalutato esteticamente la barba, il selfie (termine che solo sta settimana ho sentito 5 volte, significa farsi delle foto da solo col cellulare) è la tendenza più in crescita tra i giovani – tanto che su Repubblica leggevo che a vincere non so quale importante concorso tecnologico è stato un bastoncino per prendere il cellulare e farsi le foto comodamente a un metro di distanza -. Insomma, puoi startene in coma nove anni di questi tempi, e non sarà cambiato proprio nulla, se non il modello di app e simili.
Al di sotto della superficie, più o meno la stessa roba, almeno da 40 anni. Si può dormire tranquilli, non ci si perde nulla.
In questo breve articolo riprendo alcuni ipotesi già espresse nella pubblicazione Nel segno della stella a sedici punte (Editrice Salentina) per evidenziare maggiormente i contorni di una ricostruzione storico-artistica attorno alla chiesa di santa Caterina d’Alessandria a Galatina, in relazione alle maggiori famiglie committenti presenti all’interno della stessa.
Come proposto nel 2012, avanzavo una diversa lettura in merito alla fondazione del tempio cateriniano, vale a dire l’esistenza di una chiesa intitolata a Santa Caterina de Veterjis a cui legavo il nome di Raimondo del Balzo (prozio del più famoso Raimondello) e della seconda moglie Isabella d’Eppe[1]. Trovo conferma nella lettura del saggio di Michela Becchis[2], che consiglio vivamente per il confronto proposto tra gli affreschi quattrocenteschi galatinesi e pittori dell’area siculo-catalana. Resta a monte che nelle trame artistiche e religiose della chiesa galatinese del 1385, vi sia un rimando anche esplicito a Raimondo del Balzo, sebbene in un’ottica di lettura differente proposta nel mio piccolo saggio.
Sempre Nel segno della stella a sedicipunte, evidenziavo il legame esistente tra la chiesa di Casaluce ad Aversa, fondata da Raimondo del Balzo, intorno alla fine degli anni Sessanta del XIV secolo, e l’ordine dei Celestini, ordine che prese possesso del convento e della chiesa sotto il regno di Giovanna I. L’evento venne celebrato dalla campagna decorativa in cui è presente Celestino V assiso in trono attribuita al maestro toscanoNiccolò di Tommasoche operò nel napoletano in quegli anni[3].
Celestino V, attribuito a Niccolò di Tommaso, anni Settanta del XIV secolo, Casaluce
Allo stesso ordine Maria d’Enghien-Brienne era particolarmente legata. Il Cutolo nella sua biografia, infatti, ci informa del fatto che il confessore della contessa fosse un celestino[4]. D’altronde la notizia è in linea con le dinamiche sociali ed artistiche dell’epoca nella città di Lecce, poiché Santa Croce, la chiesa fondata a metà del XIV secolo da Gualtieri di Brienne, conte di Lecce e zio di Maria (lo stemma è ancora visibile a destra del portale maggiore, nell’edificio ricostruito nel XVI secolo su progetto di Gabriele Riccardi) era anch’essa guidata dai Celestini. Necessariamente questo forte legame con i Celestini conduce le nostre ricerche ed analisi in Abruzzo e in particolare a l’Aquila, dove si conserva il corpo di Celestino V, all’interno dell’abbazia di Collemaggio.
Nel 1392[5], un anno dopo l’arrivo dei francescani della Vicarìa di Bosnia, a Galatina a Santa Caterina, si stipula un gemellaggio tra il tempio cateriniano e l’abbazia di Collemaggio. Per cui trovo molto curioso ed interessantissima quanto leggo e ‘riscopro’ in un testo che a mio avviso dovrebbe essere studiato nelle scuole superiori italiane. E mi riferisco al bellissimo Storia della letteratura meridionale del professore Aldo Vallone.[6] Per quel che concerne la poesia epico-religiosa tra XIV secolo e XV secolo, uno dei maggiori centri di produzione di versi in volgare era Aquila negli Abruzzi ed il poeta per eccellenza era Buccio di Ranallo (Poppoleto, oggi Coppito, fine XIII sec.-1363) la cui produzione era una “fluente maestosità di celestinismo e francescanesimo, certo il più suggestivo e completo dell’area abruzzese”.
Lo stesso Buccio componeva nel 1330 la Leggenda di Santa Caterina d’Alessandria, versi in volgare che illustravano la storia della santa martire di Alessandria d’Egitto, con una spiccata descrizione della santa, donna colta, a discapito dell’imperatore Massenzio, in cui il poeta “imposta il colloquio e lo atteggia secondo temi e moduli francescani”.
Vollio che ad celo guardi,
c’- olle soe paramenta;
lu sole co’-ll luna
che tanto lume duna;
et anche delle stelle
che [so’]lucide e belle
che mai fieta non fanno.
Potremmo immaginare che l’opera di Buccio di Ranallo non fosse estranea alla corte di Napoli, allo spirito culturale ed artistico inaugurato nella capitale partenopea da Roberto d’Angiò insieme alla moglie Sancia de Mallorca che in quegli anni (1328-1333) erano alle prese con la decorazione della francescana chiesa di Santa Chiara ad opera di Giotto. Corte frequentata da Raimondo del Balzo, gran Camerlengo del regno di Napoli e signore delle terre di Soleto.
Altri elementi quindi possono essere utili a rileggere la grande fabbrica galatinese in cui gli affreschi ‘parlano’ con grande eloquenza di un sostrato impercettibile di scelte figurative che rimandano alla metà del XIV secolo e alla corte di Napoli. Ritengo che Raimondo del Balzo e la moglie Isabella d’Eppe siano stati attori non protagonisti nelle scelte architettoniche di Galatina e Soleto, a cui si aggiunsero Niccolò Orsini, Raimondello Orsini del Balzo e Maria d’Enghien-Brienne.
Riporto in questo articolo un bel confronto di immagini che mi è stato segnalato da Valentina Primiceri, dopo aver letto Nel segno della stella a sedici punte. Le due Vergini annunciate, a Galatina e nell’abbazia di Collemaggio, a rimarcare lquesto rapporto, questo dialogo, non solo religioso, ma anche artistico tra la contea di Soleto, in particolare Galatina, e la città dell’Aquila.
A sinistra: Vergine annunciata, abbazia di Collemaggio, XV secolo- Aquila
A destra: Vergine annunciata, chiesa Santa Caterina d’Alessandria, XV secolo–Galatina
Bibliografia
A. Beccarisi, Nel segno della stella a sedici punte, Galatina, 2012 anche per la relativa bibliografia e ultimi contributi.
M. Becchis, Santa Caterina a Galatina:i suoi committenti e alcune strade per i suoi pittori, in (a cura di) P.F. Pistilli, F. Manzanari, G. Curzi, Universitates e baronie, arte e architettura in Abruzzo e nel regno al tempo dei Durazzo, 2008.
F. Bologna, I pittori alla corte angioina di Napoli: 1266-1414 e un riesame dell’arte fridericiana, Roma, 1969.
A. Cutolo, Maria d’Enghien, Galatina, 1977
G. Vallone, 1992. Ancora riproposto in (a cura di), A. Cassiano. B. Vetere, Dal giglio all’orso, i principi d’Angiò e Orsini del Balzo nel salento, Galatina, 2006.
A. Vallone, Storia della letteratura meridionale, Napoli, 1996, pp. 41-54.
Le “Grotte di Poggiardo”, un interessante sistema carsico formato da dodici gallerie tra cui la “Grotta delle Meraviglie”, a rischio per l’attività estrattiva!
di Paolo Rausa
Il naturalista Plinio il Vecchio e il filosofo Seneca si sono dati convegno nel Salento, in una zona particolare denominata “marirussi” o “arciddhrari” nei pressi della conosciutissima e ridente città messapica di Basta per ispezionare il territorio in rapporto con l’abitato. All’inizio sono state intessute le lodi di questo angolo della Messapia, ma quando si sono addentrati e hanno visto machinae che sventravano le viscere della terra, allora se ne sono ritratti sgomenti e inorriditi. “I metalli – ha cominciato Plinio – sono in se stessi una ricchezza e insieme il prezzo delle cose. Una solerzia sollecita scruta le profondità della terra per molteplici motivi: in un posto, infatti, si scava per le ricchezze, e gli uomini cercano oro, argento, elettro, rame; in un altro, per il lusso, cercano pietre preziose e coloranti per dipingere pareti e superfici lignee; in un altro ancora, per soddisfare una cieca stoltezza, si procurano il ferro, che è anche più apprezzato dell’oro in tempi di guerre e di stragi. Tentiamo di raggiungere tutte le fibre intime della terra e viviamo sopra le cavità che vi abbiamo prodotto, meravigliandoci che talvolta essa si spalanchi o si metta a tremare, come se, in verità, non potesse esprimersi così l’indignazione della nostra sacra genitrice. Penetriamo nelle sue viscere e cerchiamo ricchezze nella sede dei Mani, quasi che fosse poco generosa e feconda là dove la calchiamo sotto i piedi. E fra tutti gli oggetti della nostra ricerca pochissimi sono destinati a produrre rimedi medicinali: quanti sono infatti quelli che scavano avendo come scopo la medicina?
Anche questa tuttavia la terra ci fornisce alla sua superficie, come ci fornisce i cereali, essa che è generosa e benevola in tutto ciò che ci è di giovamento. Le cose che ci rovinano e ci conducono agli inferi sono quelle che essa ha nascosto nel suo seno, cose che non si generano in un momento: per cui la nostra mente, proiettandosi nel vuoto, considera quando mai si finirà, nel corso dei secoli tutti, di esaurirla, fin dove potrà penetrare la nostra avidità. Quanto innocente, quanto felice, anzi persino raffinata sarebbe la nostra vita, se non altrove volgesse le sue brame, ma solo a ciò che si trova sulla superficie terrestre, solo – in breve – a ciò che le sta accanto!” Seneca ha avuto buon gioco nel ribattere: “Questi corpi, destinati a muoversi sopra di noi, la natura dispose in bell’ordine, mentre nasconde l’oro e l’argento e il ferro, che per loro causa non è mai in pace, come se non fosse opportuno che tali metalli ci fossero affidati. Siamo stati noi a portare alla luce ciò che doveva indurci a combattere gli uni contro gli altri; siamo stati noi a portare in superficie, dopo aver lacerato massicci strati di terra, le cause e gli strumenti delle nostre durissime prove; siamo stati noi ad affidare al capriccio della Fortuna quegli elementi che sono sostanza delle nostre sventure e non ci vergogniamo che presso di noi siano considerate di altissimo rango quelle cose che giacevano nella parte più profonda del suolo.” A noi non resta che chiederci da una parte se le Autorità (Pubblica Amministrazione e Magistratura) non dovrebbero impedire lo scempio che è sotto i nostri occhi e dall’altra se l’attività privata estrattiva non debba fermarsi, motu propriu, di fronte al pericolo che un bene ambientale e archeologico sia messo in stato di pericolo nel giro di pochi anni per la nostra sfrenata sete di guadagni dopo aver impiegato millenni per realizzarsi. Intanto l’attività estrattiva prosegue imperterrita come se la nostra indignazione non la riguardasse. E le Autorità che dicono di fronte a questa situazione?
Rassegnarsi alla sconfitta senza lottare non è una buona scelta e questo vale per tutte le circostanze della vita, dalla più seria alla più banale, quale può essere, ad esempio, l’individuazione, almeno attendibile, di un etimo. La parola di oggi mi tormenta da decenni e ho avuto già occasione di parlarne. Chi avesse interesse a sapere cosa nella circostanza ebbi a dire può soddisfarlo al link https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/12/16/lu-spilu-e-la-sciana/; colgo l’occasione per sottolineare come i frequenti rinvii a miei precedenti interventi non sono ispirati da quella che io definisco la sindrome politica per eccellenza, cioè l’autoreferenzialità, ma l’unico espediente a mia disposizione per evitare di ripetere, sia pure in forma più sintetica, quanto già detto.
La nuova proposta etimologica mette in campo per spilu motivazioni che coinvolgono credenze popolari molto antiche alle quali la scienza ha guardato e guarda con sufficienza salvo, poi, non darne un’eziologia certa e riconoscere come psico-somatiche tante malattie, non escluso l’eczema cutaneo.
La voglia, come si sa, è un difetto della pelle visibile solo poco dopo la nascita ma, evidentemente, in preparazione, per così dire, da prima. Il nome stesso trae la sua origine dalla credenza che il difetto del bambino sia causato da un desiderio non soddisfatto dalla madre durante la gravidanza.
Il fatto che il difetto compaia subito dopo la nascita e non più in là nel tempo è sufficiente a non farlo rientrare tra le malattie psico-somatiche, tenendo conto del rapporto strettissimo, credo non solo fisico, che si instaura tra la donna e il feto?
Tutta questa premessa per arrivare a supporre che spilu derivi dal greco σπίλος (leggi spilos). Di σπίλος, però, ce ne sono due: il primo significa roccia, scoglio, scogliera e trovare un aggancio semantico col nostro è impresa disperata; il secondo, invece, significa macchia, chiazza, impurità, vizio e il presunto figlio spilu si presta molto bene ad uno slittamento metonimico retrogrado (quasi si portasse appresso il più o meno inconscio senso di colpa della madre) dall’effetto (macchia, voglia come difetto fisico) alla causa (voglia come desiderio non soddisfatto).
Chissà come stanno veramente le cose. Intanto per oggi m’àggiu lliatu lu spilu (mi son levato la voglia) nel senso che ho voluto fare un altro tentativo e ho soddisfatto, per quanto maldestramente, la mia volontà; non certo nell’altro, negativo, con cui la locuzione è usata nel dialetto neretino (equivalente a ho eliminato in me ogni voglia) anche nell’interiezione certi spili! per stigmatizzare la stranezza o l’irrealizzabilità di certi desideri.
Nel 1932 appariva sul periodico francese Mouseion (anno VI, v. XX, n. 4) a firma di Gino Chierici1 l’articolo Particularités dans la restauration de quelques monuments napolitains. Da esso (integralmente leggibile in http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k61590011/f112.image.r=manduria.langEN) è tratto il brano (pagg. 88-89) che ho riprodotto di seguito corredandolo della mia traduzione.
Il restauro era stato operato nel 1928. L’intervento, a quanto pare, fu risolutivo e sarebbe interessante controllare il suo stato a poco meno di un secolo di distanza. Non mi meraviglierei di un verdetto felice, come non mi meraviglio di certi interventi di oggi, magari costosissimi ed ipertecnologici, i cui effetti benefici, esaltati dai media, durano solo qualche lustro, per colpe che si chiamano incompetenza e/o disonestà ma per i cui responsabili rimane, per lo più, l’anonimato …
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1 (1877-1961). Archeologo, Sovrintendente ai Monumenti della Campania, direttore di parecchi pregevolissimi restauri in cui il metodo filologico non fu mai fine a se stesso ma al servizio dell’interpretazione estetica, anticipando i principi del restauro critico. Innumerevoli le sue pubblicazioni. Per citarne, diluite nel tempo, solo tre: Le chiese angioine di Napoli, Tipografia Ospedale Psichiatrico L. Bianchi, Napoli, 1933; Leonardo architetto, Colombo, Roma, 1939; Il palazzo italiano dal secolo XI al secolo XIX, Vallardi, Milano, 1954.
In 35 anni ho imparato poche cose su quel film 3d che chiamiamo vita, su tutte dubito, tranne su una, ed è questa:
per vivere bisogna conquistarsi la libertà, nei posti di lavoro, nei rapporti interpersonali, nei discorsi che facciamo, insomma in tutto il dominio che abbiamo interiorizzato nella forma della sudditanza verso qualcuno.
Dobbiamo vivere, non sopravvivere.
La schiavitù non può essere abolita con una legge, la schiavitù è una pratica che perpetuiamo con la nostra esistenza, e che spetta ad ogni singolo abbattere.
Ogni passo verso la libertà renderà non più ricchi, non più agiati, non più tranquilli, nemmeno più sereni, renderà semplicemente più liberi, e con ciò intendo dire più uomini.
Iniziativa promossa dal Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Puglia, con il patrocinio del Consiglio nazionale dell’Ordine medesimo, in collaborazione con Regione Puglia, Provincia di Bari, Comune di Bari, Università degli Studi “Aldo Moro” di Bari, Arcidiocesi di Bari – Bitonto e d’intesa con la famiglia Campione.
Il premio, istituito per ricordare, attraverso la promozione del lavoro dei colleghi più sensibili e capaci, la figura del giornalista barese scomparso nel 2003, è suddiviso in tre sezioni: carta stampata – internet, radiotelevisione – agenzie e fotografia.
Questi i premiati nel corso della cerimonia tenutasi nella mattinata di domenica 23 febbraio 2014, nella Sala Murat del capoluogo pugliese:
– Antonio Fatiguso – Agenzia Ansa – Premio alla carriera;
– Sezione carta stampata – internet:
– Samantha Dell’Edera – Corriere del Mezzogiorno, ex equo con
– Maristella Massari – Gazzetta del Mezzogiorno;
– Anna Puricella – Repubblica;
– Luca Tarasco – mensile Alchimie, ex equo con
– Nicola Lavacca – Gazzetta del Mezzogiorno.
– Sezione radiotelevisione – agenzie:
– Danilo Lupo – Telerama;
– Maria Liuzzi – Telenorba;
– Francesco Cristino – TG1.
– Sezione fotografia:
– Pasquale D’Attoma;
– Marcello Carrozzo;
– Donato Fasano.
In aggiunta, sono stati attribuiti riconoscimenti sotto forma di segnalazione a: Armando Fizzarotti – Gazzetta del Mezzogiorno, Francesco Mazzotta – Corriere del Mezzogiorno e Marianna La Forgia – Gazzetta del Mezzogiorno.
Fra le autorità presenti alla cerimonia, il Prefetto di Bari Antonio Nunziante, il Sindaco di Bari Michele Emiliano e il Presidente del Consiglio Regionale Onofrio Introna.
I cosiddetti Mari Rossi della Serra di Poggiardo (Le), meglio conosciuti col termine locale di ‘arciddhrari’, terreni ricchi di argilla noti e utilizzati fin dal tempo dei Messapi, durante gli acquazzoni si riempiono di acqua e assumono l’aspetto di laghi o mari, distese a perdita d’occhio rosse per l’argilla e per la presenza abbondante di bauxite.
Essi riservano al naturalista anche dei gioielli nascosti sottoterra: le “Grotte di Poggiardo” che costituiscono un interessante sistema carsico formato da dodici gallerie tra cui la ” Grotta delle Meraviglie” dove la bizzarria della natura ha scolpito, ricamato e colorato ogni centimetro quadrato di superficie.
Da tempo i terreni sono interessati dall’attività estrattiva che a quanto sembra non dispone delle previste autorizzazioni e per questo, su segnalazione dell’Amministrazione Comunale, è stata messa sotto sequestro dalla Magistratura.
A completare il già ricco quadro, in molte cave di calcare, oggi abbandonate, si possono ammirare i fossili delle “Rudiste” simili a campane e a cornucopie che vivevano nei mari salentini del cretacico.
Sulla vicenda è intervenuta l’Amministrazione comunale che ha disposto la messa in sicurezza di tutti i cigli di cava presenti nel sito, sianell’area in cui è stato legittimamente realizzato l’ampliamento che in quella in cui è avvenuto illegittimamente.
L’area riveste un notevole interesse naturalistico e speleologico tanto che si svolgono da tempo sul sitoesperienze e studi dell’Università e di esperti speleologi, che stanno elaborando un progetto organico di valorizzazione e di fruizione.
E’ atteso a breve un intervento della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia, allarmata per i rischi che corre il nostro patrimonio storico e naturalistico e per verificare se nel garantire la sua tutela sia ancora compatibile l’attività estrattiva, minacciosa della stabilità del terreno, come ammoniva Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia, perché: “Tentiamo di raggiungere tutte le fibre intime della terra e viviamo sopra le cavità che vi abbiamo prodotto, meravigliandoci che talvolta essa si spalanchi o si metta a tremare, come se, in verità, non potesse esprimersi così l’indignazione della nostra sacra genitrice”.
Nel sud della penisola bagnata da due mari, dove, secondo la tradizione, hanno inizio le terre del Capo di Leuca, esisteva, nell’antichità, un villaggio avente la denominazione di casale di Cellino, in dialetto Ciddrino o Ciddrini, uno fra i tanti in cui si concentravano e riunivano piccole comunità di nativi.
In occasione dei frequenti sbarchi, sul corrispondente tratto costiero, di navigli e orde di pirati, detti insediamenti furono ripetutamente attaccati e assediati, così che, con riferimento particolare, il casale di Cellino, nel quinto secolo dopo Cristo, finì completamente annientato.
Si sostiene che, giustappunto dalle ceneri del minuscolo agglomerato urbano, sorse l’attuale località di Andrano, posta, da subito, sotto le ali protettrici dell’apostolo Andrea, successivamente arricchita, nei secoli successivi, con un possente e tuttora ben conservato castello e, dal punto di vista paesaggistico, impreziosita da un’incantevole marina.
Nel confronto con la storia e i correlati eventi, accade talora che segni ideali e spirituali sembrino sopravvivere alle distruzioni materiali e definitive dei luoghi e dei siti.
Difatti, durante il percorso e/o facendo sosta nella mappa del feudo andranese riconducibile esattamente al casale di Cellino, si avverte la sensazione di respirare intorno un’atmosfera circondata da un alone lontano e in certo qual modo misterioso, eppure viva e palpitante anche ai nostri giorni.
Quasi che, per singolare privilegio, una sorta di grazia leggera si librasse lungo il cammino e permeasse fin dentro il viandante o visitatore.
Può, ancora, capitare di fare impatto e confrontarsi con elementi architettonici solidi che, pur non riconducibili puntualmente e precisamente alle stagioni del distrutto villaggio di Cellino, sono, davvero, autentiche piccole meraviglie, al punto da lasciarti senza fiato.
Vedi, ad esempio, la grande casa agricola, fatta di pietre affiancate e sovrapposte, una a una sopra e accanto alle altre, rigorosamente e religiosamente a secco, per opera di mani maestre. Simbolo di queste plaghe e comunemente detta pajara, questa, fantastica caseddra , l’ho abbracciata e immortalata in un pomeriggio di febbraio.
Dopo giornate di pioggia, una parentesi soleggiata, sotto un cielo d’intenso azzurro, con clima mite e piacevole: sullo sfondo della caseddra, adagiate, le vicine località di Marittima e di Castro, altre piccole perle del Salento.
per il centenario della nascita di Vittorio Bodini
di Paolo Rausa
Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Vittorio Bodini, nato il 6 gennaio 1914 a Bari da famiglia leccese e ritornato nel capoluogo salentino all’età di tre anni, alla morte del padre.
Il Centro Studi Vittorio Bodini, presieduto dalla figlia Valentina e sotto la supervisione letteraria di Antonio L. Giannone della Università del Salento, ha messo in programma una serie di iniziative culturali, artistiche ed editoriali al fine di promuovere la conoscenza dell’opera letteraria del grande poeta, traduttore e cantore del Sud. Una vita che si dilata dal Salento a Bari, Roma e Firenze, dove studia all’Università e si laurea, e soprattutto a Madrid, per la scoperta delle affinità fra la cultura spagnola e quella del Sud. Tutte tappe importanti che lasciano il segno tangibile sulla sua copiosa e multiforme produzione letteraria. La Spagna diventa la sua seconda patria, ne sono documento i reportage raccolti nel volume Corriere Spagnolo (1947-54). Di ritorno a Lecce, nel 1949, riscopre la propria terra nella storia, nell’arte, nel costume e nelle tradizioni. A questo periodo risalgono numerosi racconti, prose e le sue prime raccolte di poesie, La luna dei Borboni (1952), finalista al Premio Viareggio e Dopo la luna (1956), con cui vince il Premio Carducci. Pubblica con Einaudi la traduzione del Teatro di Federico Garcìa Lorca, e nel 1957 la traduzione del “Don Chisciotte” di Cervantes. Nel 1963 è la volta, sempre con Einaudi, dei poeti surrealisti spagnoli. L’ultimo suo libro di versi è Metamor, nel 1967.
Pochi anni dopo, il 19 dicembre 1970, muore a Roma a cinquantasei anni.
Le Edizioni Besa creano una collana, la Bodiniana, curata da Antonio Lucio Giannone, in cui fanno confluire tutte le pubblicazioni degli scritti inediti, dei libri di poesia e dei carteggi. Il 6 gennaio scorso hanno puntualmente preso il via le iniziative culturali e le celebrazioni per il centenario della sua nascita da Castelnuovo di Porto (Roma), con il ricordo di amici e artisti. Con la conferenza del 10 febbraio scorso presso la Presidenza Regionale di Bari ha preso avvio ufficialmente il progetto del centenario. Il programma è molto nutrito e prevede programmi radiofonici a Radio Queen di Lecce, la mostra multimediale sull’uomo e sul letterato “Vittorio Bodini. Un uomo condannato al coraggio” il 22 febbraio al Museo Must di Lecce, la mostra fotografica dal 22 febbraio al 31 marzo alla Libreria Liberrima di Lecce dal titolo “Bodini per immagini”. Le altre iniziative comprendono la pubblicazione del romanzo giovanile “Il fiore dell’amicizia”, per Besa Editrice, il film in b/n “Viviamo in un incantesimo.
Visioni poetiche su Vittorio Bodini” a fine aprile al Festival del Cinema Europeo di Lecce, il teatro a giugno con “L’intervista impossibile”, sulla sua dimensione creativa alla ricerca di una via intermedia fra ermetismo e neorealismo, un progetto di Antonio Minelli. Ad agosto-settembre si svolgerà a Lecce il Premio internazionale Vittorio Bodini, che prevede il riconoscimento a una personalità importante del panorama letterario italiano; a novembre-dicembre, fra Lecce e Bari, il Convegno internazionale di Studi, a cui parteciperanno università italiane e straniere (Madrid, Salamanca, Barcellona) sui vari aspetti della sua opera (poesia, prosa, saggistica, critica, traduzione e carteggi).
A settembre-ottobre si svolgerà a Urbino un incontro su Bodini traduttore (Don Chisciotte, il Teatro di Garcìa Lorca e i poeti surrealisti) e a dicembre, alla Città del libro di Campi Salentina, dialogo con i giovani lettori. Infine l’ultimo appuntamento, il 4-8 dicembre alla Fiera del libro di Roma, sugli ultimi anni di vita nella capitale.
Nel Chronicon rerum in regno Neapolitano gestarum1diLupo Protospata (XI secolo) ricorre la forma Mutula: 1023 Venit Rayca cum Iaffari criti in civitate Bari in mense Iunii, et obsedit eam uno die; et amoti exinde comprehenderunt Palagianum oppidum, et fabricatum est castellum Mutulae (1023 Venne Raica con il giudice Jaffari nella città di Bari nel mese di giugno e l’assediò un solo giorno; e allontanatisi da lì presero la città di Palagiano e fu fabbricato il castello di Mottola); 1040 Praedictus Dulchianus excussit conteratos de Apulia, et praedicti conterati occiderunt Chrisifactira critiri imperator subtus Mutulam … (Il predetto Dulchiano cacciò gli abitanti dalla Puglia e i predetti abitanti uccisero Crisifactira … 2 sotto Mottola …)
Nel Chronicon breve Northmannicum de rebus in Iapygia et Apulia gestis in Graecos (1041-1085), documento di dubbia attendibilità, per il quale vedi la nota 3 della parte 6/14 dedicata a Castro, la forma è Motula: 1063 Mense aprili mortuus est Gauffredus comes, et Goffridus filius eius cepit Tarentum, deinde ivit super castrum Motulae, et comprehendit eam, et castellum eius (1063 Nel mese di aprile morì il conte Goffredo e Goffrido suo figlio prese Taranto, poi salì verso la città fortificata di Mottola e prese essa e il suo castello).
Non ha maggiore attendibilità, anche a causa della fama, consolidata nel tempo, di grande falsificatore di documenti di cui il Tafuri (1695-1760) gode ancora oggi, il Mutila che compare nel De Mutilensis urbis expugnatione, una cronaca di anonimo, che lo storico di Nardò pubblicò, annotata, nella sua Istoria degli Scrittori nati nel Regno di Napoli, Severini, Napoli, 1754, v. III, parte III. Non è da escludere che il Tafuri sia rimasto suggestionato da quanto potrebbe aver letto nel v. IX colonna 159 dell’Italia sacra di Ferdinando Ughelli (1594-1670), dove, nella seconda edizione accresciuta ed aggiornata da Nicola Coleti (il volume in questione fu pubblicato da Sebastiano Coleti a Venezia nel 1722) si legge nella sezione dedicata ai vescovi di Mottola questa curiosa etimologia del toponimo: Mutilam vocarunt quia mutilata seu deiecta ab antiquo decore (La chiamarono Mutila poiché mutilata o abbattuta dall’antico decoro).
Per completare il ventaglio delle ipotesi il toponimo potrebbe essere diminutivo del latino medioevale mota o motta attestato fin dagli inizi del XII secolo, per il quale nel glossario del Du Cange (tomo V, pag. 531) si legge la seguente definizione: collis seu tumulus, cui inaedificatum castellum (colle o altura su cui è stato edificato un castello).
Pacichelli (A), pag. 174
Pacichelli (C, anno 1686)
Per l’incomodità de’ boschi, ove i rami impedivano il passo, in otto miglia andai a pernottar fuori di Gioia ne gli Osservanti Riformati di San Francesco, i quali, oltre due camerine, mi accarezzarono con buon pane e frittate. Sedici miglia intraprese nell’aurora, parte di bosco, parte di rupi scoscesi, ma guernite di rosmarini, lasciando in colle dopo le dodici Motula, città disfatta, che suppongono abitasse già Muzio Scevola, mi condussero a Massafra …
Da notare come nella mappa compaiono anche (in alto, da sinistra a destra) le attuali Palagiano e Palagianello, nonché Castellaneta, alla quale, come abbiamo visto in una precedente puntata, il Pacichelli aveva dedicato una parte del suo lavoro.
1 Duomo/Chiesa di Santa Maria Assunta (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Chiesa_Madre_2.jpg)
1 Cito dall’edizione Lupi Protospatarii Chronicon a cura di Georg Heinrich Pertz, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, V, Hannover 1844, pp. 57 e 58.
2 Critiri imperator: qui sicuramente il testo è corrotto. Proporrei di sanarlo con critim imperatoris (giudice dell’imperatore).
3 Con riferimento probabile alla sua distruzione ad opera del cancelliere tarantino Muarcaldo nel 1102.
Nonostante AAMS (Azienda Autonoma Monopoli di Stato) rifiuti categoricamente di fornire i dati sul gioco d’azzardo a livello provinciale e regionale offrendo le spiegazioni più bizzarre del tipo “vogliamo evitare facili strumentalizzazioni” (Funzionario AAMS Lombardia), siamo riusciti ad ottenerle.
La risposta citata è inquietante, ci chiediamo se al professor Veronesi che chiede quante sigarette si vendano in Italia diano la stessa risposta per evitare che i medici facciano “facili strumentalizzazioni” parlando del cancro.
Dal rapporto “le dimensioni del gioco legale ed illegale nelle province italiane e l’usura collegata” a cura della Consulta Nazionale Antiusura e della Fondazione “San Nicola e Santi Medici” di Bari apprendiamo che dal 1994 al 2013 il gioco d’azzardo è passato da 7 miliardi di incassi a oltre 90 miliardi. In particolare apprendisamo che, per quanto riguarda la Puglia la classifica è la seguente:
Brindisi: Ogni cittadino gioca 1.089 euro annui
Taranto: 1.066
Bari: 1.022
Lecce: 848
Foggia: 748
Il gioco preferito dai pugliesi sono le diffusissime slot machine.
In riferimento al recentissimo post di Nicola Morrone Porta S. Angelo a Manduria: il mistero di un’iscrizione (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/19/porta-santangelo-a-manduria-il-mistero-di-uniscrizione/), non avendo potendo condensare le mie note nello spazio riservato ai commenti (che, fra l’altro, per motivi tecnici, non possono essere corredati di immagini) col rischio che esse sfuggissero magari proprio al diretto interessato, osservo qui quanto segue.
A meno che i restauri passati e recenti non siano stati barbaramente sovvertitori, è evidente che posto per un’altra I non poteva esserci, tenendo conto anche della spaziatura notevole che, nonostante la loro fisiologica “magrezza”, accompagna le altre due lettere simili. La conferma potrebbe venire da una foto anteriore al restauro. Tuttavia credo che risolutivo sia quanto si legge in Il Mercurio Olivetano, overo la Guida per le strade dell’Italia, per le quali sogliono passare i Monaci Olivetani. Dando contezza delle distanze d’un luogo dall’altro, et accennando alcune cose più notabili delle Città, Castella, Ville, de’ Fiumi, e d’altri luoghi che si trovano. Inviato da D. Secondo Lancellotti da Perugia Abbate Olivetano, Accademico Insensato et Affidato, Angelo Bartoli Stampatore Episcopale, Perugia, 16281.
pag. 58 (dettaglio)
In base a questa testimonianza il 1628 costituisce il terminus ante quem, cioè la costruzione della porta e l’ iscrizione sono entrambe certamente anteriori al 1628, il che spiegherebbe, fra l’altro, gli agganci permanenti con lo stile rinascimentale, ridimensionando, se non annullando, il giudizio di mancato aggiornamento stilistico ai canoni barocchi, anche se l’indeterminatezza di non hà gran tempo (=non molto tempo fa) non consente di fare con sufficiente certezza (uno, due, cinque anni, un decennio?) ulteriori operazioni sottrattive rispetto al 1628. Cade pure l’allusione all’evento del 1789 e RESTITUTA potrebbe significare, molto più semplicemente, ricostruita (insomma, un riferimento alla Manduria moderna), come se l’arco fosse il tappo e l’epigrafe l’etichetta di un ideale contenitore parzialmente riconoscibile in quel che restava delle antiche mura (Porta grande … fatta per ornamento) . Il fatto, poi, che l’arco avesse una funzione celebrativa degli antichi fasti (col ricordo del primitivo nome, mentre quello in uso all’epoca era Casalnuovo) lo si deduce inequivocabilmente dall’iniziale Da qui a Casal nuovo Terra. La presenza delle statue, poi, coeve o meno all’arco, avrebbe contemperato l’istanza civile e quella religiosa, anche se nel tempo l’aspetto devozionale potrebbe aver preso il sopravvento mettendo in campo la storia del fulmini.
Non è finita: sulla parte media della faccia interna dei piedritti ci sono, perfettamente contrapposte, due altre epigrafi. Potendo disporre solo delle immagini sottostanti che ho tratto da Google Maps e che non offrono, specialmente per la prima che già di suo manifesta tutti gli acciacchi dell’età, un’adeguata definizione, posso solo far notare come la seconda potrebbe aver propiziato una ricostruzione non fedele del significato di quel RESTITUTA e fatto datare l’iscrizione come posteriore (e non di poco …) all’arco.
Rimarrebbe da fare un ulteriore controllo sul titolo del testo del Tarentini perché nelle schede dell’OPAC si legge: Leonardo Tarentini, Cenni storici di Manduria Antica Casalnuovo Manduria restituita, Tanfani-Latronico, Taranto, 1901 (ristampe: Tipografia La veloce, Cosenza, 1931; Marzo, Manduria, 1984 e, col titolo Cenni storici di Manduria, Alesa, Bologna, s. d.); quando, però, questo testo viene citato da altri studiosi nel titolo compare ora restituita, ora restituta. Credo che la prima forma sia quella adottata, perché sarebbe strano che nel titolo restituta fosse l’unica parola latina; ma, per quanto ho detto, la sua traduzione con restituita (e non ricostruita, secondo il significato esclusivo che, oltretutto, il verbo latino restituere assume nelle iscrizioni) è stata probabilmente indotta dall’epigrafe del 1895 con il suo ricordo dell’evento del 1789.
Ecco l’elenco delle biblioteche più vicine nelle quali il testo è reperibile, nella speranza che quella stessa rete che ha reso possibile il mio quasi istantaneo contatto con la testimonianza secentesca riportata, favorisca anche l’incontro, complice sempre la rete, tra uomo e uomo, grazie alla buona volontà di qualche gentile lettore che si renda disponibile a tale controllo:
(1901)
Biblioteca arcivescovile Giuseppe Capecelatro – Taranto – TA
(1931)
Biblioteca comunale Isidoro Chirulli – Martina Franca – TA
Biblioteca S. Francesco – Sava – TA
Biblioteca arcivescovile Giuseppe Capecelatro – Taranto – TA
(1984)
Biblioteca comunale Marco Gatti – Manduria – TA
Il testo del Palumbo citato dall’autore del post cui si riferisce questo mio è disponibile presso la Biblioteca Carlo Gatti di Manduria. M‘intrigherebbe l’idea di una foto della citata pag. 71 …
Se, poi, si potesse avere pure una foto in alta definizione dell’iscrizione che ho definito malridotta (son riuscito a leggere solo MANDURIA alla fine della prima linea e TARANTO alla fine della quarta) la mia gratitudine sarebbe completa; e ancora più completa se potessi decifrarla integralmente, perché sono convinto che potrebbe contenere qualche elemento utile a dissipare definitivamente quelle tenebre addensatesi nel tempo e che il nostro monaco2, probabilmente più per metodo di lavoro che per un caso fortuito, ha, secondo me, abbondantemente diradato non dimenticandosi, quel giorno, di volgersi adietro e di leggere l’epigrafe esattamente come la leggiamo noi oggi.
La guida è stata ripubblicata in Viaggi di Monaci e pellegrini, a cura di Pietro De Leo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002.
2 E Secondo Lancellotti (Perugia, 1583-Parigi, 1643) non fu un monaco qualsiasi. Lo attesta il numero sterminato di pubblicazioni e di scritti rimasti inediti, questi ultimi conservati nell’Archivio di Monte Oliveto Maggiore, nella Biblioteca comunale Augusta di Perugia e nella Biblioteca Nazionale di Roma.
Oggi, 20 febbraio, alle ore 19.00, ad Alessano (Lecce), presso la “Scuola di Pace” della Fondazione Don Tonino Bello (piazza Don Tonino Bello), so sarebbe dovuto presentare il libro “Quattro corsie e un funerale” (275 “No” al Salento sfregiato), curato da Francesco Greco e pubblicato dalle Edizioni Miele (in foto la copertina di Roberto Russo).
Erano previsti innterventi di: Vito Lisi, presidente del Comitato 275, Luigi Russo, presidente CSVS, Francesco Greco, giornalista e curatore del volume.
Avrebbe dovuto condurre Ada Martella, giornalista.
Il libro (progetto grafico di Antonio Pizzolante, foto di Dario Carbone e Vincenzo Santoro), propone le riflessioni sul tema di tecnici, imprenditori, intellettuali, artisti, giornalisti, contadini di varie nazionalità: Vito Lisi, Luigi Paccione (avvocato), Marco Cavalera (archeologo), Marcello Gasco (imprenditore), brani estrapolati da “La Colala”, a cura di Ferruccio Sansa, con Andrea Garibaldi, Antonio Massari, Marco Preve e Giuseppe Salvaggiulo (Chiarelettere, Milano 2010), dal romanzo “La leggenda di domani”, di Maria Corti (scrittrice e filologa), Manni Editore, Lecce 2007, una piccola rassegna-stampa dal quotidiano “Puglia”, Antonio Biasco (psicologo), Sergio L. Duma, scrittore e docente di Letteratura Angloamericana all’Università del Salento, Padre David Maria Turoldo, Franco Arminio (scittore, paesologo), Riccardo Scamarcio (attore), Regina Poso (Facoltà dei Beni Culturali Università del Salento), Alfredo De Giuseppe (imprenditore, scrittore, regista), Antonio Sodo (scultore), Fontas Ladis (poeta greco), Associazione Culturale “Salento: che fare?”, Luca Mercalli (climatologo), Bruno Vaglio (agronomo), Lorenzo Martina (poeta), Francesco Nuzzo (giornalista dell’ATS, Agenzia Telegrafica Svizzera), Fabio Calenda (giornalista, scrittore), Luigi Nicolardi (architetto, già sindaco di Alessano dal 2001 al 2011), Paolo Rausa (giornalista, scrittore, docente, socio dell’Arp, Associazione Regionale Pugliesi a Milano), Francesco De Benedetto (contadino), Vassilis Nicolakopoulos (interprete), Michalis Katsaros (poeta greco), Sandra Sammali (esperta in management del turismo), Cristina Rugge (Presidente Fitetrec-ante Puglia), Beppe Sebaste (giornalista), Massimo Fersini (regista), Rosario Scrimieri (archistar), Romina Power (cantante, attrice, pittrice), Antonio Prete (poeta, scrittore), Rosy Trane (tecnico dell’ambiente), Donato Margarito (docente, critico letterario), Rossella Pulimeno (poetessa, editrice) e Toby Follett (documentarista).
Nel corso della serata si sarebbe dovuto proiettare il documentario “275 strada a senso unico”, girato da Caterina Vitiello e Davide Penzo, con la regia di Maurizio Pepe e prodotto da Movideo Productions Tv.
L’evento era stato organizzato dalla Libreria Idrusa (Alessano) in collaborazione con il “Comitato No 275” e l’Associazione culturale “Archès”.
Online il Vocabolario storico dei dialetti salentini, un progetto per riscoprire lessico e cultura materiale del Salento dei secoli passati.
Conservare la memoria sui dialetti storici del Salento e ricostruire la vita quotidiana della popolazione salentina nei secoli passati.
Con questo obiettivo un gruppo di ricerca dell’Università del Salento ha dato vita al Vocabolario storico dei dialetti salentini (VSDS) un’opera consultabile online, aperta a tutti e in continua evoluzione. Il progetto, che intende essere nel futuro il corrispondente diacronico del Vocabolario dei dialetti salentini di Gerhard Rohlfs, nasce da un lavoro sviluppato dal prof. Marcello Aprile, docente di Linguistica italiana all’Università del Salento, direttore scientifico del progetto, dalla dott.ssa Valentina Sambati, coordinatrice generale della redazione, e dal dott. Enrico Martina, curatore e coordinatore del progetto sul web. A vario titolo hanno collaborato inoltre Marco Mazzeo, Daniela Ciriolo, Giovanna Imperiale, Daniele Palma e Rosita Serra. Il vocabolario si fonda su documenti d’epoca e sulla raccolta di prima mano delle parole che caratterizzavano la vita quotidiana delle popolazioni di Terra d’Otranto nei secoli passati, dal vestiario alla concezione dello spazio, dal lavoro al tempo, recuperate attraverso un intenso studio condotto presso l’Archivio di Stato di Lecce. Le parole raccolte descrivono inventari, arredamenti, vestiti, stanze e molte di esse sono ormai estinte poiché, nei secoli, è cambiato il nostro modo di vivere. Un progetto, dunque, utile anche per riscoprire aspetti poco conosciuti della cultura salentina, oltre che per rafforzare l’identità e il senso di appartenenza al territorio. Il VSDS è stato finanziato dal CUIS (Consorzio Universitario Interprovinciale Salentino) nel quadro di una ricerca incentrata inizialmente sulla cultura materiale dei comuni della Grecìa Salentina dei secoli passati. Lo spoglio si è poi allargato a fonti di varia natura di altri centri della Terra d’Otranto. In futuro il vocabolario si arricchirà di un apparato iconografico che offrirà ai lettori una descrizione visiva delle parole contenute, dato che alcune di esse illustrano oggetti antichi, alcuni dispersi e altri ancora conservati all’interno di locali quali frantoi o cantine, per ricostruire storicamente la vita dei nostri antenati non solo attraverso il punto di vista linguistico.
VERSO LEVANTE Un secolo di poesia pugliese (1913-2013)
a cura di Francesco Saverio Lattarulo (Stilo editrice)
Questa antologia della poesia pugliese in lingua attraversa nell’arco di cento anni tre assi macro-generazionali (1890-1922; 1923-1956; 1957-1989), rubricati per comodità definitoria con un lessico parentale (padri, figli, nipoti), quasi che la conterraneità anagrafica sia l’altra faccia di una consanguineità ideale. Rappresentative della canonica partizione della regione adriatica in tre aree geostoriche (Capitanata, Terra di Bari, Salento), le trenta voci qui selezionate, dai progenitori novecenteschi agli eredi più recenti, esprimono un canto che, a partire da una latitudine comune ma da orizzonti di ricerca distinti, modula, sulle corde ora della tradizione ora del neo-sperimentalismo, bisogni, irrequietezze, utopie. Nella consapevolezza, a partire dall’ultimo trentennio del secolo scorso, di poter dialogare – forti di una parola propria e originale – con il centro dalla periferia, al netto di un atavico complesso di inferiorità, di una cronica sindrome di sudditanza psicologica. Un levarsi della poesia del Sud verso il Sud.
Salvatore Francesco Lattarulo insegna italiano e latino nei licei. Dottore di ricerca in Filologia classica, è cultore della materia presso la cattedra di Sociologia della letteratura all’Università di Bari. È giornalista professionista. Direttore responsabile delle riviste «Marsia» e «incroci», collabora con vari periodici letterari («l’immaginazione», «Pagine», «Capoverso», «Atelier») e con il «Corriere del Mezzogiorno», edizione regionale del «Corriere della Sera». Gli è stato attribuito nel 2012 il premio di giornalismo ‘Franco Sorrentino’. Dirige con Lino Angiuli e Carlo Alberto Augieri la neonata collana di testi ‘nidiandoli’ per l’editrice Milella. Ha curato La voce del gabbiano. Omaggio a Cristanziano Serricchio, numero speciale di «Marsia» (Progedit 2012); ha pubblicato Dialoghi Murattiani (Adda 2013) ed è curatore di Cristanziano Serricchio, la regina Giovanna. Dramma incompiuto in tre atti (Schena 2013) e di Le pietre sopra le ali. Vent’anni senza Antonio Verri, nuovo fascicolo monografico di «Marsia».
Collana di antologie poetiche Ciliegie ISBN 978-88-6479-103-6 Illustrazione di copertina di Giuseppe Magnifico Gennaio 2014 • pp. 232 • € 14,00
La voce è da acchiare=trovare, secondo una collaudata tecnica di formazione, come, in italiano, montatura da montare. L’acchiatura, come il lettore anche non salentino può immaginare, è l’ingrediente privilegiato di racconti popolari i cui protagonisti sono spiriti avventurosi e spiriti tout court, intendo dire fantasmi, streghe, gnomi e simili che in alcuni casi favoriscono, per lo più impediscono il ritrovamento di un tesoro. Acchiatura è pure il nome di un fondo insistente nel territorio di Rudie e mai toponimo, forse, fu più allusivo pensando al fatto che da quel fondo e dalle zone confinanti sono emerse in passato le testimonianze archeologiche dell’antica città e se ieri esso era legato alla speranza del cercatore in proprio dilettante o su commissione di trovare il pezzo della vita, oggi il tesoro che esso evoca può rappresentare, qui come altrove, il volano di una nuova economia, a sconfessare chi afferma (e dubito che lo faccia in buona fede, oltretutto perché la durata nel tempo del potere è direttamente proporzionale a quella dell’ignoranza dei sudditi …) che con la cultura non si mangia.
Ma qual è l’etimo di acchiare? Prendo prima in esame singolarmente le proposte altrui a me note:
a) Vocabolario delle parole del dialetto napoletano che più si scostano dal dialetto toscano, con alcune ricerche etimologiche sulle medesime degli Accademici Filopatridi, Porcelli, Napoli, 1789: “ACCHIARE, voce già antiquata, ed in di cui luogo oggi asciare per trovare, discoprire. È corrotto dallo spagnolo Kallar, che dinota lo stesso”.
Al di là del sovvertimento fonetico che qualsiasi corruzione può comportare, debbo dire che nello spagnolo (ho consultato i dizionari storici a partire dal 1729) non c’è traccia di kallar, ma esiste callar col significato di smettere di parlare, che nemmeno facendo salti mortali si potrebbe collegare semanticamente con trovare. Callar, per farla completa, è dal latino chalare=sospendere, a sua volta dal greco χαλάω (leggi chalào)=allentare, abbassare. È intuitivo, a questo punto, che la voce spagnola ha aggiunto il dettaglio integrativo della voce al significato di base ed è intuitivo pure di chi è figlio l’italiano calare. Credo, comunque, che kallar vada letto hallar, che in spagnolo esiste, significa soffiare ed è dal latino afflare, che sarà messo in campo nell’ipotesi etimologica che segue.
b) Vocabolario del dialetto salentino di Gerard Rohlfs, Congedo, Galatina, 1976: “Latino *applare<afflare=soffiare, spirare”.
L’etimo proposto non mi convince anzitutto per motivi fonetici: l’esito cchi nel dialetto salentino è frutto di una ben precisa evoluzione che coinvolge pure l’italiano. Da un lato ècchiu (vecchio) che è dal latino tardo e popolare veclu(m), forma sincopata di un precedente *vèculu(m), a sua volta variante del classico vètulu(m), diminutivo di vetus; dall’altro rècchia (orecchia) da aurìcula(m) attraverso la forma sincopata *aurìcla(m). Insomma il gruppo cchi è frutto di tul o di cul; c’è, poi, un altro caso: quello di scucchiare=dividere, che è figlio di un latino *excoplare, forma sincopata da *excopulare, composto dai classici ex (con valore privativo)ecopulare (= accoppiare, unire): in questo caso, dunque, cchi nasce da pul. In tutti e tre i casi ricordati ricorre costantemente la sincope. Lo stesso non succede in *applare, variante (per giunta ricostruita) del classico afflare che non è certo risultato, per sincope, da un precedente *affulare. Insomma, ho l’impressione che il Rohlfs si sia lasciato condizionare troppo dall’etimo, per giunta malamente trascritto, dei Filopatridi.
Esso suscita poi (e il discorso vale, per quanto detto, per i Filopatridi e, a cascata, per il Rohlfs) maggiori perplessità sotto il profilo semantico, perché per poter immaginare un collegamento debbo pensare a questo processo: prima di trovare una cosa ci si deve avvicinare ad essa e il ritrovamento coincide con il primo alito (si spera non puzzolente …) che si posa sulla cosa dopo che era restata in pace per un tempo più o meno lungo.
Passo ora, per quel che può valere, alla mia proposta ed esordisco con la voce italiana che secondo me è l’esatto corrispondente formale e sostanziale di acchiare. La parola magica sarebbe occhiare, variante di basso uso per adocchiare. Comincio dall’etimo di quest’ultima: da un latino *adoculare, composto da ad=verso+(latino tardo) oculare=aprire gli occhi, vedere. Togliendo la preposizione ad mi rimane oculare che ha dato vita ad occhiare.
Sì, ma come spiegare la a- di acchiare contro la o- di occhiare? A Nardò (LE) occhiale è ‘cchiali (plurale), a Ostuni (BR) è acchialu (singolare), in dialetto napoletano il cannocchiale era, a pochi decenni dalla sua invenzione, acchiaro a cannuolo, come è attestato nel poema di Giulio Cesare Cortese (1570-1640) Lo Cerriglio ncantato, VI, 6, vv. 1-2: Ma da coppa a la Torre de Cerriglio/uno teneva l’acchiaro a ccannuolo.
Ad ogni buon conto sono consapevole che, forse, tutto questo non basta per farmi affermare ca aggiu ‘cchiatu l’acchiatura (che ho trovato il tesoretto che cercavo) …
Artista discreto e raffinato, Cesare Piscopo di Parabita unisce alla pittura e alla scultura la passione per la poesia . Figlio di Giuseppe,anch’egli artista molto noto ed amato da pubblico e critica, Cesare Piscopo, nato nel 1947, laureato presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce, già insegnante di Arte e Immagine nella Scuola Media Statale, ha compiuto viaggi di studio in molte città italiane ed europee. Cesare, da giovanissimo, ha contribuito agli scavi effettuati nella Grotta delle Veneri, a Parabita, sotto la guida del padre Giuseppe, scopritore delle due famosissime statuette in osso risalenti al Paleolitico Superiore (Sulla presenza dell’uomo di Neanderthal nel territorio di Parabita, fin dal Paleolitico Medio,80.000-35.000 a.C., segnalo il recente opuscolo “Parabita antiche presenze” di Irene D’Antico, edito da Il Laboratorio 2013).
Come si può leggere nel suo accuratissimo blog on line ”Comunicare attraverso l’arte”, la prima mostra personale di pittura (“Paesaggi del Salento”) di Cesare Piscopo risale al 1971 (Centro Studi e Scambi d’Arte Contemporanea l’Elicona, Lecce). La sua attività espositiva si è fatta più intensa a partire dal 1995, con mostre organizzate in varie città: Lecce, Locorotondo, Ostuni, Bari, Foggia, Firenze, Bologna, Milano, Borgo Maggiore (Repubblica di San Marino); numerosissime quelle in Salento, come: Omaggio a Oskar Kokoschka, Galleria Comunale di Casarano, 1998 – I miei mostri, Palazzo D’Elia,Casarano,1999 – C’era una volta il mare, Museo Pietro Cavoti – Galatina, 2009, ecc. In ambito scolastico, ha collaborato con la Scuola alla pubblicazione di alcuni libri aventi come scopo la valorizzazione dei beni artistici e culturali del territorio. Nel 2008 ha ricevuto il Riconoscimento d’Onore “Il Sallentino” (Settimana della Cultura Salentina ed Euromediterranea-Lecce). Le sue opere sono esposte in varie collezioni pubbliche e private.
Nel suo piccolo laboratorio nel centro storico di Parabita, con la silenziosa ma preziosa guida dello stesso autore, ammiro le opere di Piscopo, ed è come un tuffo in un mare di colore: il colore soprattutto, fra disegni a tempera e inchiostro, collages, olii, acrilici, ma anche il mare, principale fonte di ispirazione e oggetto della sua ricerca pittorica; mi immergo in un universo multiforme che ha nel cromatismo dei suoi voluttuosi gialli, rossi, blu e arancio il punto forte. Chiaro che il genere pittorico nel quale Piscopo viene convenzionalmente inserito sia l’Espressionismo. Ma la calda cromia delle sue tele conferisce all’autore una cifra stilistica personale e rende il segno di Piscopo del tutto riconoscibile. ll suo antifigurativismo porta direttamente all’essenza delle cose come l’osservatore le percepisce, ed è tutta qui, infatti, la carica emozionale dei suoi dipinti, nella percezione di chi li guarda. I sui colori sembrano parlare all’inconscio. E d’altra parte, non è poi l’inconscio il campo d’indagine privilegiato di quel movimento artistico, appunto l’Espressionismo, nato ai primi del Novecento in Francia con il fauvismo e in Germania con il gruppo Die Brücke? Le sue tele, con il loro valore polisemantico, accendono l’immaginazione di chi le ammira, dandogli l’abbrivio per fantastici viaggi emozionali, solo a volersi fare trasportare dalla sua arte astratta e del pari cogliere le numerose suggestioni e le associazioni di idee, insomma le corrispondenze, che essa offre. Oltre che con l’olio e la tempera e le altre tecniche succitate, Piscopo realizza con la tecnica mista. Il mare, dicevo, e i paesaggi salentini occupano gran parte della produzione degli ultimi anni. Ci fa sapere Cesare Piscopo: “Scrivere una poesia o dipingere un paesaggio traendo ispirazione dal mare (e in genere dalla Natura), rappresenta per me una triplice esperienza: visiva emotiva intuitiva. Io tento di dare forma a questa mia esperienza, trasfigurando la realtà e rendendo il paesaggio un soggetto in grado di comunicare una particolare visione del mondo. Baudelaire ha scritto:’ Uomo libero, amerai sempre il mare! Il mare è il tuo specchio, tu contempli la tua anima nell’infinito svolgersi dell’onda’. Il mare è anche la mia storia, la mia esperienza, un brano di me stesso: lo specchio della mia anima!”
Ma da artista alquanto versatile, Piscopo ha realizzato di tutto nel corso della sua fortunata carriera. Un altro ciclo pittorico degno di nota è quello delle figure umane. Si tratta di “un viaggio all’interno dell’uomo, alla ricerca di quel ‘lato nascosto’ della natura umana, a volte sconcertante ed imprevedibile, in cui si addensano le disarmonie, le contraddizioni e la frammentarietà che caratterizzano il mondo in cui viviamo.” Inoltre i collages, che sono costituiti da frammenti di disegni ed acrilico, a volte strappati, a volte sovrapposti,per rendere l’idea di un caos che regni informe e che è metafora della vita sbandata di questi anni frastagliati.
Da qualche tempo poi egli realizza delle piccole sculture antropomorfe in terracotta policroma. Alcune figure ricordano i graffiti rupestri dei primi insediamenti umani preistorici. A volte, a muovere la creatività di Piscopo non è il pennello ma la penna. E nascono così le sue raccolte poetiche. Egli ha pubblicato: Fili d’erba” (1996), “Dal profondo Sud” (1998),con Prefazione di Mario De Marco, “Il mare dell’amore” (2006), “Messaggi dal mare” (2007) e l’antologia “Sotto le silenziose nuvole un mare di pensieri” (2009),che è una summa della sua produzione precedente. Molte poesie inedite compaiono in questi ultimi anni sul suo blog e sul suo profilo facebook.
In occasione della mostra personale di pittura tenuta al Palazzo “Comi” di Lucugnano, dal 7 al 21 agosto 2005, venne pubblicato il libro “Cesare Piscopo. Il paesaggio – la luce della poesia”, a cura di Angela Serafino, edito da Il Raggio Verde con il contributo della Provincia di Lecce. L’amore per la propria donna è la tematica che cementa quasi tutta la sua produzione poetica, che consta di componimenti brevi, di pochi versi, che con il loro detto occupano preferibilmente la parte centrale della pagina, lasciando al vuoto del resto della pagina il compito di comunicare il non detto attraverso il bianco immacolato che vi si dipana. Sono poesie brevi nell’estensione (oligóstichos, secondo l’insegnamento di Callimaco e della poesia alessandrina) ma estremamente rifinite, di un lirismo delicato, soffuso eppure intenso.
L’altra tematica che lega insieme pittura e poesia in Piscopo è l’amore per il Salento, un amore forte, intenso, vibrante e incontrastato. Un amore che dà poesia alle sue pennellate , che dà colore alle sue poesie. L’amore per il Salento, per il mare ed il cielo, spesso saldati insieme in un tutt’uno (la loro compenetrazione è talmente forte che curiosamente lo stesso Piscopo, nel sistemare una tela sul cavalletto ne sbaglia il verso e poi la rigira), per l’architettura delle sue tipiche abitazioni rurali, per i suoi angoli nascosti, i suoi ulivi e le sue pietre. Ma, i suoi, sono paesaggi dell’anima, ancora riconoscibili nelle tipiche volute dell’ambiente salentino, ma al tempo stesso appena accennati, frutto di una sua intima visione, trasfigurati dalla sensibilità dell’artista che è astrattista un attimo dopo che paesaggista. I paesaggi che sono nelle sue opere, quindi, è come se offrissero soltanto lo spunto all’osservatore per andare oltre, per poi approfondire la visione. L’artista mira ad offrire suggestioni attraverso la disarticolazione dei campi visivi, il gioco dei pieni e dei vuoti, dei chiaroscuri, ed i contrasti fra opposti, e come lo stesso artista spiega: “Il mio punto di riferimento è la natura come vista attraverso una lente che dissolve le forme, svuotando le masse e, a volte, abbattendo ogni residuo mimetico.. affido al colore la liricità dei miei sentimenti…
La natura è colore; il colore crea: la forma e l’informe, la luce e l’oscurità, la profondità e la superficie, il pieno e il vuoto, l’essenza e la provvisorietà, armonie e disarmonie”. Nell’informale egli realizza la propria idea del mondo, fra sogno e realtà, alfa e omega, edenica terra di sogno in certe sue visioni estatiche, e infernale guazzabuglio in altre di angoscia ed inquietudine. Un gioco di contrasti, insomma, in cui la creatività dell’artista deflagra in una esplosione quasi mistica di rosa, neri, bianchi, marroni, in una commistione di reale ed irreale, finito ed infinito, che porta ad un dinamismo ardimentoso per gli occhi eppure estatico per lo spirito, inquieto eppure ossimoricamente disarmante, comunque coinvolgente.
Ma lasciamo che a parlare sia lo stesso artista: “Nella mia produzione pittorica sono interessato soprattutto a dare ‘forma’ ad un contenuto essenziale della Natura (il fondo primitivo da cui hanno origine esseri e cose), in una sorta di panica immedesimazione. In sostanza io miro ad esprimere, in strutture vaghe ed allusive, le emozioni suscitate dagli aspetti naturali, sostituendo alla rappresentazione diretta e ben leggibile del motivo una sua emblematica, liberissima rievocazione. Nelle mie composizioni il colore ha valore di spirito e materia al tempo stesso. Esso, oltre a trasmettere emozioni e sensazioni, ha una molteplice funzione: sono soprattutto le variazioni cromatiche a suggerire le forme (indeterminate), lo spazio (in espansione), il movimento (vitalità) e l’intensità della luce (che raggiunge nel bianco valori assoluti).”
Sulla produzione pittorica e poetica di Cesare Piscopo, hanno scritto, fra gli altri: Giorgio Barba, Toti Carpentieri, Giancarlo Colella, Rocco Coronese, Vittoria Corti, Nicola G. De Donno, Mario De Marco, Antonietta Fulvio, Luigi Fontana, Massimo Guastella, Alessandro Laporta,Cesare Padovani,Giusy Petracca, Marina Pizzarelli, Raffaele Polo, Maria Pia Romano, Aldo Vallone, Giancarlo Vallone, Pompea Vergaro. Così l’incontro con Cesare Piscopo, compiuta la mia personale iniziazione al suo m(ag)istero artistico, e con gli occhi abbarbagliati da quelle esplosioni luminescenti, termina in spontaneità e semplicità, proprio come era iniziato.
È doveroso aggiungere (altrimenti il passato scivola via inutilmente) che il vescovo era Giuseppe Ricciardi lo stesso protagonista dell’avventura (si fa per dire …) ricordato qualche post fa in https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/11/nardo-31-agosto-1899-singolare-attentato-al-vescovo/). Nato a Taranto il 9 luglio 1839, ordinato sacerdote il 21 marzo 1864, resse Nardò dal 1 giugno 1888 fino alla morte avvenuta il 18 giugno 1908. Il suo vescovato fu contrassegnato da un atteggiamento intransigente nei confronti dei cattolici laici, le cui rivendicazioni, reali o presunte, di indipendenza dall’autorità episcopale suscitavano sospetti e reazioni. Di questo clima piuttosto infuocato la notizia riportata costituisce, dunque, insieme con l’episodio precedente, una riprova. Ma va pure riconosciuto che oggi vedremmo (forse senza ammirarla …) una Cattedrale diversa, se il nostro vescovo, dopo aver abbandonato l’idea di una ricostruzione ex novo, non avesse poi optato per un restauro conservativo dell’originale con eliminazione delle superfetazioni.
Emozione pura stamane: ho visitato i sotterranei del Castello Carlo V a Lecce!
Sono rimasta davvero senza parole e, mentre scrivo, ho ancora negli occhi l’ incanto dei luoghi e nel cuore un fervore che ancora perdura.
Mi è parso d’iniziare un viaggio in un sogno dove non conosci sequenza, né il dipanar della trama.
Conoscevo il Castello, le meraviglie dei luoghi racchiusi, lo splendore delle sue sale ma…non conoscevo il suo “grembo”.
Già l’ingresso dal lungo “budello” scosceso mi catturava e riempiva di stupore i miei occhi. Procedevo pian piano e lasciavo che il mio sguardo accarezzasse la pietra ruvida delle pareti e quella volta plasmata di tufi che invitava all’ obliquo cammino.
Giunta alla fine della discesa, vieni accolta ed avvolta da un’ intima nicchia oviforme (Silos) nella roccia scavata. La voglia di entrare e accovacciarmi nel mezzo, m’ha fatto tornare piccina piccina, era come, rientrare bambina nel grembo materno. Sensazione sublime. Più lo guardavo quell’incavo, più m’attraeva e m’invitava a sostare.
Il Silos alla fine della discesa
Quanta magia m’attorniava in quello spazio ristretto e ritornavo al passato di quell’alveo ricolmo di semi, forziere di cibo per gli umani, o le bestie?
Mi riscuoto e m’avanzo e dal budello poi sbuco nel ventre segreto di questo Castello che sovrasta su Lecce. Lo sguardo s’espande, si smarrisce su una volta che è cielo soltanto di candida pietra. Sorpresa mi blocco, un pugno nello stomaco avverto, rimango sconcertata, poi estasiata, non m’aspettavo uno spettacolo tale!
Sulle alte pareti, la pietra ruvida e bianca si staglia a blocchi, roccia viva incisa da mani esperte, maestre di arte e di vita. Levato lo sguardo, lo scenario si dilata su una volta uniforme a botte, cesellata da ritagli di pietra. Un mosaico armonico di canditi toni, intersecati da strisce d’avorio. Che capolavoro hanno saputo creare le mani industriose di tanta umile gente!
particolare arcate, Sotterranei Castello Carlo V di Lecce
Là un arco, di qua una campata, una feritoia nel muro s’insinua, un camino, una scala a gradoni intagliata nella roccia scoscesa, un pilastro poggiato su uno spuntone roccioso, una vasca, una cisterna e chissà quanto ancora è celato nella terra non ancora rimossa tra queste mura possenti. Sono frutto di idee, di maestria, di rigore, di lavoro solerte di mani e di menti queste opere d’arte racchiuse e segrete per tanto, nel florido ventre di questo Castello.
Tacita, ho continuato ad andare seguendo il percorso; il silenzio invade e consola, mi pareva di vedere intorno la vita di un tempo: lì un cavallo s’abbevera vicino alla vasca, più in là un altro rumina, c’è quello di finimenti bardato che mangia la biada nel sacco al collo legato, un altro lento sgranocchia la biada nella sua mangiatoia. C’è gente che va, gente che viene tra la puzza di sterco, il tanfo di chiuso, di fumo, l’odore di biada. Di certo quaggiù, a quei tempi, la vita doveva essere più facile per le bestie , ché per gli umani costretti a restare almeno per accudire e pulire; sicuramente, per tanti, queste mura imponenti, però, saranno state anche giaciglio su cui riposare le membra dopo duro lavoro. Il resto, in questo Castello, è ancora mistero che solo il tempo aiuterà a svelare!
Riceviamo l’appello per evitare la distruzione degli scavi di Piazza Schipa. L’idea dei promotori è di evitare una grande speculazione edilizia su uno dei luoghi storici della vittà. Va bene la ricollocazione della bella tettoia liberty e la restituzione alla stessa di un ruolo economico e sociale, ma ciò che non va è la costruzione lì del centro commerciale e soprattutto il parcheggio multipiano interrato che distruggerebbe totalmente il sito.
Lecce “capitale europea della cultura” non immoli al traffico e al cemento le testimonianze archeologiche della sua storia
Ministro Beni culturali
Sindaco di Lecce
Direttore regionale Beni Culturali
Sovrintendente Beni architettonici – Lecce
Sovrintendente Beni archeologici- Taranto
Pc. Prefetto Lecce
Presidente Provincia Lecce
Gli scavi archeologici in piazza Tito Schipa a Lecce sono uno spaccato unico della storia medievale e rinascimentale della città. Essi potrebbero evidenziare ulteriori testimonianze ancora più antiche.
Il progetto, insostenibile e obsoleto, di un centro commerciale con megaparcheggio interrato nella stessa area, minaccia la loro conservazione e ne impedirà la fruibilità pubblica; oltre a incrementare il traffico e l’inquinamento nel centro della città e a danneggiare le piccole attività commerciali del quartiere.
Un Parco archeologico e verde cittadino :
è l’intervento necessario per salvaguardare e valorizzare tale area, adiacente alla cripta di S. Lucia (unica a Lecce), al Castello Carlo V, ai teatri Apollo e Politeama; in essa ricollocare la tettoia Liberty, quale punto di riferimento sociale e commerciale. Nell’ insieme possono costituire un unitario e articolato percorso storico e architettonico, a tutela anche di quello circostante.
A tal fine chiediamo al Comune di:
reperire un area alternativa per il centro commerciale del tutto inopportuno a ridosso del centro storico, rivedendo radicalmente la datata e incerta convenzione con la ditta: alla luce di quanto emerso dagli scavi, della necessità di sottoporre il progetto alla VIA nonchè di ottenere improbabili nulla osta dalle Sovrintendenze, responsabilmente impegnate a tutela dell’area;
promuovere ulteriori scavi archeologici che probabilmente retrodateranno l’importanza storica dell’area:
garantire comunque la tutela e la fruibilità completa del sito (come prescrive la Direzione ai Beni culturali).
Il Comune di Lecce lo deve alla cultura e alla storia della città:
a risarcimento della barbara distruzione del convento rinascimentale, subita 40 anni fa per la folle scelta dell’amministrazione.
Lecce deve meritare concretamente il titolo di “capitale europea della cultura”: tutelando e valorizzando le sue testimonianze!
ADOC, Ass.M. Perrotta, Forum ambiente e salute, Italia nostra, Mov. Valori e rinnovamento, Società di storia patria – LECCE – promotori del COMITATO TUTELA AREA ARCHEOLOGICA EX MASSA
Prime adesioni: Dott. Mario Fiorella; proff. Liliana Giardino, Cosimo Pagliara, archeologi; Dott. Salvatore Bianco archeologo, Prof. Antonio Costantini, storico del paesaggio; prof. Arrigo Colombo, filosofo; Gianni Cremonesini ass. Ndronico; Giovanna Falco ,storica; Prof. Antonio Greco, gia sindaco Veglie; Oronzo Invitto, studioso del territorio; prof. Salvatore Colazzo, preside Scienze formazione, proff. Luigi De Bellis, Salvatore De Masi, Eugenio Imbriani, Fernando Fiorentino,Guglielmo F. Davanzati, Giovanni Invitto, Bruno Pellegrino, Mario Signore, Woitek. Pankievicz, , Mario Spedicato, univ. Salento; Astragali teatro.
per adesioni tel 0832 493673, 347 5599703, 392 8172087
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