La frequenza delle scuole medie segnò, per me, non soltanto il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza, ma anche l’ottenimento dei primi permessi o concessioni da parte dei miei genitori. Rientrava fra tali conquiste, durante la stagione estiva, sul far del crepuscolo del sabato, la possibilità di radunarmi con un gruppo di sette o otto amici, di recarmi insieme con loro a Porticelli, nei pressi dell’insenatura Acquaviva, dove i miei avevano da poco fatto costruire una casetta di villeggiatura e di restare a dormire lì, al fine di trovarci, l’indomani mattina, tutti insieme, già pronti sul posto per dedicarci alla pesca dagli scogli, con canne e lenze che ciascuno di noi si procurava ed “armava”.
Arrivati alla méta e consumata una frugale cena, scendevamo, attraverso un sentiero, giù nell’Acquaviva e, come prima operazione del programma, raschiavamo gli scogli su bassi fondali mediante l’utilizzo di retini – anche questi fabbricati da noi stessi – per catturare piccole scorte di gamberetti, da utilizzare il giorno dopo come esche, riponendo, intanto, i saltellanti crostacei in vasetti di latta con coperchio.
Terminata questa operazione, ci portavamo nuovamente nella casetta di Porticelli, soffermandoci per qualche ora a parlare ed a scherzare – nel buio assoluto, mancando la corrente elettrica e con il solo riferimento luminoso, quindi, delle stelle e , se c’era, della luna – fino a che non ci veniva sonno.
Sonno, per la verità, non molto lungo, giacché, all’alba, gli occhi si riaprivano automaticamente; seguiva un rapido sciacquo del viso e, subito, tutti di corsa verso la scogliera per iniziare le calate con la lenza.
Si formava, in tal modo, una bella fila di giovanissimi pescatori dilettanti e si dava ben presto vita a una sequenza di grida, commenti, risate, che segnavano in particolare la cattura di ciascun esemplare di pesci.
Ovviamente, s’innestava una vera e propria gara.
Trascorrevamo, così, diverse ore intenti a pescare, sino a quando la calura del sole, che si alzava sempre più su, non diveniva forte e difficile da sopportare.
Quelle mattinate domenicali, comprese le vigilie di preparazione in comitiva, ci riempivano d’autentica gioia, una sensazione che ci portavamo appresso e manifestavamo anche al rientro nelle nostre rispettive case.
Mi preme, però, aggiungere che la scorsa settimana il signor Marcello Olive di San Pietro in Lama mi ha voluto onorare della sua visita portandomi in dono, come mi aveva telefonicamente comunicato che avrebbe fatto dopo la lettura del post al link appena citato, un libro di Nicola Cacudi che per me ha un triplice valore. Anzitutto sentimentale, come facilmente si può immaginare, poi bibliografico trattandosi di un’edizione, la terza, del 1924 (la prima era uscita presso lo stesso editore nel 1922, la seconda a Parigi senza indicazione del nome dell’editore nel 1923) e, classica ciliegina sulla torta, il fatto che esso non compare nel catalogo dell’OPAC, il che lo rende, direi, raro e ancor più prezioso, almeno per chi sa apprezzare questo tipo di unicità …
Lo stesso imprevedibile destino mi ha fatto casualmente scoprire sul web l’immagine di testa che ritrae un lavoro di Maria Antonietta Mea. E, se la comune salentinità mi ha obbligato a divulgare quel che ho scoperto su Nicola Cacudi, una comunanza ancora più stretta (la chiamiamo neretinità?) mi stimola a occuparmi di questo testo.
E lo farò in modo insolito, cioè senza averlo letto, anche perché i panni del critico letterario (almeno quelli consueti) non mi si addicono. A dire il vero qualche cosa ho letto, cioè quelle poche pagine (ed è giusto che sia così finché durano i diritti d’autore) che l’opzione libri di Google consente.
Così, come non si prova quantomeno interesse nel leggere i brani in cui compare, pure accompagnata dal suo bravo articolo, la parola cuenzu?
A pagina 8:
“- Lu cuenzu– c’est le nom salentin d’une ligne de pêche dont elle n’avait jamais réussi à retenir la désignation italienne -s’est encore emmêlé?-”
(- Lu cuenzu- è il nome di una lenza da pesca della quale essa non era mai riuscita a ricordare il nome italiano – si è ancora imbrogliata?-)
“Lu cuenzu consistait en une ligne mère d’environ 150 mètres terminée par una petite voile et un baton au centre duquel se croisaient deux tiges servant de flotteur. De la ligne maîtresse pendaient, à intervalles réguliers sur environ deux mètres, des avançons supportant des hameçons appâtés au moyen d’ablettes que son père achetait fraîches à la marina et que sa mère aurait plus volontiers fait frire à la poêle.”
(Lu cuenzu consisteva in una lenza madre di circa 150 metri terminante con una piccola vela ed un bastone al centro del quale s’incrociavano due gambi che fungevano da galleggianti. Dalla lenza madre pendevano, a intervalli regolari di circa due metri, degli inviti recanti ami che recavano come esca al centro pesciolini bianchi che suo padre comprava alla marina e che sua madre avrebbe più volentieri fritto in padella).
Alle pagine 10-11:
“À chaque fois, après les retours bredouilles ou triomphants, s’ensuivait una opération inevitable: ranger et laver lu cuenzu, et le faire sans plus attendre, avant qu’il fût envahi par les fourmis et que le traits de maman Linda ne s’assombrissent pendant des heures. La meilleure métodhe consistait à disposer, en cercle dans un grand panier, la ligne maitresse et ses avançons, puis à piquer au fur et à mesure les hameçons sur le large bord en paille rembourré de liège. Très souvent il arrivait que les lignes et les hameçons s’entremêlassent, ce qui faisait perdre patience à papa après quelques tentatives. C’est alors qu’il se remettait à sa fille. Agata considérait cette tâche comme un défi. Elle regardait le noeud de fils de nylon et de petits crochets avec attention: sans y toucher, elle s’efforçait de comprendre quel était l’hameçon qui, una fois liberé, lui permettrait de dénouer tous les autres plus facilement. L’un après l’autre, avec des geste précis afin de ne pas se piquer, tirant légèrment un fil pour en découvrir l’origine, elle libérait et piquait chaque petit crochet au bord du panier. Son père suivait l’opération en souriant, satisfait de constater que sa fille se montrait si douée pour démêler les hameçons.”
(Ogni volta, dopo il ritorno borbottante o trionfante, seguiva un’operazione inevitabile: riordinare e lavare il cuenzu1 e farlo senza perdere tempo, prima che fosse invaso dalle formiche e che il volto di mamma Linda non si oscurasse per ore. Il miglior metodo consisteva nel disporre in cerchio in un grande paniere la lenza madre e i suoi inviti, poi appuntare a intervalli regolari gli ami sul largo bordo in paglia rivestito di sughero. Spesso succedeva che le lenze e gli ami si imbrogliassero, cosa che faceva perdere la pazienza a papà dopo qualche tentativo. Era il momento in cui ricorreva all’aiuto di sua figlia. Agata considerava questo lavoro come una sfida. Guardava il nodo di fili di nilon e di piccoli ganci con attenzione: senza mettervi mano si sforzava di capire qual era l’amo che una volta liberato le avrebbe permesso di liberare tutti gli altri più facilmente. L’uno dopo l’altro, con gesti precisi per non pungersi, tirando leggermente un filo per scoprirne l’origine, liberava e fissava ciascun piccolo gancio al bordo del paniere. Suo padre seguiva l’operazione sorridendo, soddisfatto di constatare che sua figlia si mostrava così brava a liberare gli ami)
E l’elemento descrittivo non perde l’occasione di riportare alla memoria (ahimé solo in chi ha i miei anni o più …) locuzioni antiche. È il caso dell’acqua ‘ssale.
A pag. 27:
“Une fois par semaine, dans la maison en ville, on préparait le pain. Lorsque, après trois ou quatre jours, il commençait à durcir, on le traitait de manière à ce que meme les grands-paretnts, qui avaient des dents peu fiables, pussent le consommer. On en trempait de gros morceaux dans du lait ou dans <<l’acqua ‘ssale>> – de l’eau additionnée d’huile, de sel, de tomates, de câpres et d’olives noires – ou on l’humidifiait tout simplement. On disait aux plus jeunes que le pain dur donnait les cheveux bouclés. Si de la moisissure s’y était installée, pas de souci, elle aussi jouait son role: elle faisait venir des dents en or.”
(Una volta alla settimana, nella casa in città, si preparava il pane. Quando, dopo tre o quattro giorni, cominciava ad indurire, lo si trattava in maniera che anche i nonni, che avevano denti poco affidabili, potessero consumarlo. Se ne inzuppavano grossi pezzi nel latte o nell’acqua ‘ssale2, acqua con aggiunta di olio, sale, pomodori, capperi e olive nere, o lo si bagnava semplicemente. Si diceva ai più giovani che il pane duro rendeva i denti saldi. Se vi si era formata della muffa, niente paura, pure essa giocava il suo ruolo: faceva nascere dei denti in oro).
Per restare, ancora, alla gastronomia, non potevano mancare i milaffanti.
A pag. 146:
“Il y avait un menu traditionnel pour Noël et pour Pâques. À ces deux fêtes trônaient deux antiques soupières de porcelain blanche, avec leur covercle pour conserver au chaud la poule au pot. Pas de tortellini, probablement encore inconnus dans le Sud, mais des farfalline aux oeufs à Noël et des milaffanti43 à Pâques.”
(C’era un menu tradizionale per Natale e Pasqua. In occasione di queste due feste troneggiavano antiche zuppiere di porcellana bianca, con il loro coperchio per conservare al caldo la gallina in pentola. Niente tortellini, probabilmente ancora sconosciuti nel Sud, ma farfalline all’uovo a Natale e milaffanti a Pasqua).
E in nota 43 l’annotazione filologica: “Milaffanti: nom d’origine incertaine, peut-être dérivé de <<mille fanti>>, mille fantassins. Préparation de grossières bouchées de farine de semoule mêlée d’oeufs, de fromage, de persil et de sel, à cuire dans la soupe.”
(Milaffanti: nome di origine incerta, forse derivato da mille fanti, mille soldati di fanteria. Preparazione di grossolani bucatini di farina di semola impastati con uova, formaggio, prezzemolo e sale, da cuocere nel brodo)3
Insomma, la salentinità che trova espressione in un testo di una neretina in francese (non so se scritto direttamente in francese o tradotto dall’italiano e da chi), pubblicato in Francia. Auguro, per concludere, ogni successo alla mia concittadina ricordando al femminile il nemo propheta in patria già usato per Nicola Cacudi: nemo fatidica in patria …
3 Ad Otranto millaffanti, a Melendugno mmilleffanti, a Mesagne millinfanti. Ad integrazione di quanto si legge nel post dell’amico Marcello Gaballo (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/31/millefanti-sul-desco-pasquale-2/) riporto in coda il frontespizio del saggio di Paolo Zacchia e il dettaglio della pagina 99 in cui compare (l’ho sottolineato in rosso) millefanti. Aggiungo che la voce potrebbe essere deformazione di millefranti, presente in rete ma non ne ho trovato attestazione letteraria, per cui temo che sia una delle tante italianizzazioni arbitrarie; se così non fosse il riferimento non sarebbe alla somiglianza a mille soldatini (addirittura fante potrebbe qui essere stato usato nel significato di bambino presentegià, per fare solo un esempio, nel Boccaccio, per cui la variante di Mesagne non nascerebbe da dissimilazione del raddoppiamento, espressivo?, ipotizzabile in prima battuta nelle varianti di Nardò, Otranto e Melendugno) ma alla dimensione dei singoli pezzi derivanti dalla frantumazione dell’impasto.
“Fermato lo scandaloso progetto per un nuovo maxi-impattante e ridondante porto a stupro di Otranto, patrimonio UNESCO dell’umanità!” – esultano gli ambientalisti del Coordinamento Civico apartitico per la Tutela del Territorio e della Salute del Cittadino e del Forum Ambiente e Salute del Grande Salento, che aggiungono ad ulteriore tutela la proposta che le aree salvate dal cemento e le acque marine prospicienti siano incluse nel Parco naturale litoraneo Otranto-Santa Maria di Leuca.
A fronte delle prese di posizione offensive piovute da più parti contro i funzionari ‘solerti’ della Soprintendenza intervenuti a fermare ancora una volta l’azione invasiva e deturpante verso uno dei più bei paesaggi del mediterraneo (non a caso Otranto è patrimonio dell’Unesco e più volte negli anni scorsi si è fregiata della Bandiera Blu per la limpidezza delle sue acque), contro le ‘voci’ interessate a realizzare questa come tante altre opere, distruttive della costa e dell’ambiente naturale in nome dell’occupazione, le Associazioni ambientaliste esprimono tutto il loro sostegno e la piena solidarietà ai Funzionari, ‘colpevoli’ di applicare le norme di tutela esistenti, che per la verità molte altre volte sono state disattese. Questo senso del dovere può fare scuola.
E’ quanto si augurano gli ambientalisti, che ora issano sulle coste idruntine la bandiera dell’ambiente a testimoniare una vittoria per sé e per le generazioni future, mentre dall’alto del suo podio sembra che anche Idrusa abbia rasserenato la sua faccia arcigna e sorrida per lo scampato pericolo contro un invasore più terribile dei turchi e dei circassi, ma che questa volta è stato respinto, con buona pace di tutti!
E’ per fortuna successo quello che non è accaduto negli anni scorsi a Otranto con l’edificazione sulla spiaggia a ridosso del porto di una struttura avveniristica, in cui trovano collocazione bar e negozi su una spianata di cemento, e a Castro Marina con la costruzione di enormi sostruzioni su cui si innalzano muri poderosi che sembrano racchiudere basi per accogliere non imbarcazioni ma astronavi: “Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia.” Famosa la citazione dal film Blade Runner. Al momento quindi il pericolo è scongiurato e quello skyline caratterizzato dall’antico “bastione dei Pelasgi”, il castello, le mura, il campanile e il tetto antico a doppio spiovente della imponente Cattedrale, il profilo del borgo, il lungomare liberty ben rivestito di pietra viva, le coste rocciose, le spiaggette e le caratteristiche calcaree falesie continueranno ad esercitare sul viaggiatore il loro discreto e impeccabile fascino.
A nulla giova parlare e far sovente memoria dei milioni di pensionati Inps con assegni mensili inferiori a 500 euro, quando esistono e resistono casi di percettori d’introiti e/o emolumenti a livello di emiri arabi.
Si prenda, ad esempio, il caso del noto economista, docente universitario ed esponente politico Giuliano Amato, il quale, va da un bel pezzo riscuotendo, ogni mese, trentuno mila euro lordi, tra pensione pari a ventiduemila e vitalizio parlamentare di nove mila (l’interessato dichiara di destinare tale vitalizio ad attività di beneficenza).
Sulla posizione smisuratamente privilegiata di Amato si è scatenata, a più riprese, una ridda di critiche, qualcuno ha addirittura parlato di vergogna.
E però, nonostante siffatta tempesta mediatica, lo scorso anno, il personaggio/pensionato in questione è stato anche investito della carica di Giudice costituzionale, che prevede una retribuzione lorda annua di ben quattrocentocinquantamila euro, ossia a dire tredici mensilità da trentaquattromilaseicento euro.
Domanda: non sarebbe stato opportuno che il signor Presidente della Repubblica, requisiti e meriti del candidato a parte, prima della nomina, valutasse la situazione delle finanze di Amato, già da nababbo, evitando di dar luogo a un cumulo di buste paga letteralmente scandaloso rispetto ai trattamenti sotto i 500 euro menzionati all’inizio?
In 24 ore ho visto due film girati in Salento. Il primo aveva Lecce come sfondo e palcoscenico, ma avrebbe potuto tranquillamente essere raccontato ad Aosta o a Cuneo, non cambiava molto, Allacciate le cinture di Ferzan Ozpetek.
L’altro molto salentino nell’ambientazione, nel dialetto (sottotitolato), nelle storie, e nel pathos: In Grazia di Dio di Edoardo Winspeare. Un dialetto che trova la forza di parlare al mondo intero, e che tuttavia non poteva che essere girato e vissuto nella terra d’Otranto.
Un film, il primo, con una storia di fondo: il cancro che colpisce la protagonista e la mutazione dei rapporti familiari, sociali, affettivi. Non mancano i richiami all’omosessualità, anche questi cari al regista. Un film che, nonostante il tema forte trattato, ha un odore, come dice il mio amico Renato, di fotoromanzo, sa di plastica. Lontano dalle opere che mi avevano fatto conoscere ed apprezzare il regista turco, Le fate ignorantieLa finestra di fronte, in cui i temi erano, anche qui come un filo rosso che unisce i lavori del regista, il racconto era l’omosessualità nei risvolti dei rapporti sociali, familiari, della scoperta di un mondo, o nella repressione del ventennio fascista, erano narrati con impegno, forza, determinazione.
Allacciate le cinture sembra invece un raccontino che scade facilmente nel melodramma, pur riconoscendo al regista la tenacia nel voler dire storie pesanti, questa volta, a me come spettatore, non è piaciuto. Neppure Lecce rende più alta l’opera, ne è sottofondo sfocato, capace solo di essere prepotente e potente con le sue luci ed ombre, quella luminosità naturale che avvolge ed ammanta tutto. Sul film la critica e il pubblico si sono spaccati, mi trovo d’accordo con Mario Zonta su Mymovies.it : “E così quel tocco naif, che ha sempre caratterizzato le sue pellicole, rischia di diventare a tratti insopportabile quando si immerge nel melò come avviene senza remore in questo Allacciate le cinture. Ora, si può essere empatici verso una storia d’amore che sfonda nel melodramma, qui tra l’altro ospedaliero, e certo sentirsi trasportati dall’abbraccio fatale di questa “storia e destino”, ma nel modulare la tensione emotiva è necessario mantenersi un minimo al passo con i tempi. Insomma, spesso in questo film si slitta tra lo sguardo naif e la cartolina, tra l’ingenuità e il modello stereotipato. Sappiamo che Ozpetek è sincero (e questo è tanto), ma il mondo fuori, molto più brutto e cattivo dei tempi di Le fate ignoranti, non lo mette al riparo e forse c’è bisogno di uno scatto in più, di uno sguardo più complesso, di un contraddittorio meno edulcorato.
Nota di rilievo è il cameo del Sindaco di Lecce, Paolo Perrone, che fra il ballo e le apparizioni sullo schermo, mostra voglia di esserci.
Molto salentino è In grazia di Dio di Winspeare. Se è vero che è una storia molto italiana, altrettanto vero è che il film non avrebbe potuto essere girato che in Salento, l’impatto forte è il dialetto, i non attori, interpreti presi dalla vita quotidiana. Il cast: Celeste Casciaro, Laura Licchetta, Anna Boccadamo, Barbara De Matties, Gustavo Caputo, Angelico Ferrarese, Amerigo Russo, Antonio Carluccio; nomi non noti, fra loro troviamo persone che nella vita quotidiana fanno l’avvocato, la barista, il pescatore, il contadino. “Attori” presi dalla vita reale, interpreti magistrali nei loro ruoli. E’ una storia credibile in tempi di crisi economica e mostra la capacità, tutta femminile, di rinascere utilizzando le conoscenze, queste si, assolutamente tipiche di questa terra. Il fallimento della fabbrichetta costringe il socio fratello della protagonista ad andare a cercare lavoro in Svizzera, qui rimangono le donne che vanno a vivere in una masseria da riassettare. Così l’universo si rinchiude fra Madre, figlie e nipoti, con l’aiuto/complicità di un solo uomo perchè “un uomo ci vuole per lavorare i campi”, che sarà in realtà un altro tema affrontato con delicatissima capacità dal regista, l’amore nella terza età. Un film dove convivono risate e commozione, consapevolezza del presente e crisi economica, uomini di malaffare, equitalia e finanziarie improbabili nella parte degli squali, amore, rassegnazione. C’è la difesa del territorio da “quelli del nord che comprano ed hanno molti soldi”, dove il denaro può tutto, meglio, tutto dovrebbe potere con la complicità di intermediari senza scrupoli. E c’è un richiamo ad un’economia antica, che purtroppo (o per fortuna) può diventare attualissima nel periodo terrificante che stiamo vivendo: il baratto.
In tutto questo il Salento gioca una parte decisiva e non replicabile in nessun altro luogo. Mentre nel film di Ozpetek Lecce è solo un palcoscenico come tanti, nel film In grazia di Dio nulla potrebbe essere replicato altrove nello stesso modo. Qui tutto è Salento: il paese, il bar, anche il campo nella cava e la masseria. La compenetrazione fra il regista, gli attori, il territorio e le situazioni sono totali. Soprattutto dove la prorompente forza delle donne è protagonista assoluta e incontrastata.
Come dice il regista in un’intervista:
“…In grazia di Dio direi che non è la risposta alla crisi, è piuttosto una risposta alla crisi. È la storia di quattro donne che approfittano della crisi, delle sue durezze, delle sue difficoltà per reinventarsi, per affrontare la vita con un piglio diverso e nuovo. Quello che voglio raccontare attraverso il mio film è l’importanza di reagire ad una condizione e ad una situazione insostenibile. A forza di reagire, alla fine ci si troverà veramente ‘in grazia di Dio’…”.
Un film da non perdere assolutamente insomma. Grazie veramente a Winspeare che mi ha riconciliato con il cinema solo dopo poche ore. Un film che mi ha ricordato in alcuni aspetti Speriamo che sia femmina girato da Monicelli nel 1986. Che tuttavia ha un valore aggiunto incredibile dell’attualità più stringente. Stupenda anche la fotografia che rende ancora più bella la luce naturale di questi luoghi.
Un solo appunto, metterei sottotitoli non bianchi, spesso si perdono sullo sfondo chiaro e diventano poco leggibili.
Prima proiezione ufficiale di “Buongiorno Taranto” al Bif&st – Bari international Film Festival. Il documentario di Paolo Pisanelli sarà proiettato domenica 6 aprile, ore 19, alla presenza dell’autore e in replica lunedì 7 alle 22.30 presso il Multicinema Galleria di Corso Italia a Bari.
Sarà il Bif&st – Bari International Film Festival ad accogliere la prima proiezione ufficiale di Buongiorno Taranto in concorso nella sezione documentari domenica 6 aprile alle ore 19, alla presenza del regista, e in replica il lunedì 7 aprile alle ore 22.30 presso il Multicinema Galleria di Corso Italia a Bari. Il film di Paolo Pisanelli, prodotto dalla cooperativa Big Sur, associazione OfficinaVisioni, con il sostegno di Apulia Film Commission, è stato realizzato anche grazie a una campagna di crowdfunding su Produzioni dal Basso, che è possibile sostenere il progetto sino a lunedì 14 aprile.
Realizzato insieme agli abitanti della città più avvelenata d’Europa e a numerose associazioni culturali e ambientaliste, il film documentario fa parte di un progetto di narrazioni sociali innovativo, forse il primo realizzato in Italia a partire da un videoblog, sostenuto anche dalla partecipazione di Michele Riondino, attore e cantante, figlio di un operaio dell’impianto siderurgico tarantino e tra i promotori del grande concerto del Primo Maggio che anche quest’anno si svolgerà nel Parco Archeologico delle Mura Greche, uno spazio recuperato dall’abbandono grazie all’opera del Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti.
Buongiorno Taranto racconta tensioni e passioni di una città immersa in una nuvola di smog, una città intossicata ad un livello insostenibile. Aria, terra e acqua sono avvelenati dall’inquinamento industriale, all’ombra del più grande stabilimento siderurgico d’Europa, costruito in mezzo alle case e inaugurato quasi cinquant’anni fa. Le rabbie e i sogni degli abitanti sono raccontati dalla cronaca di una radio web nomade e coinvolgente, un cine-occhio digitale che scandisce il ritmo del film e insegue gli eventi che accadono ai confini della realtà, tra rumori alienanti, odori irrespirabili e improvvise rivelazioni delle bellezze del territorio.
Buongiorno Tarantoèun progettoper costruire una narrazione fatta di immagini, suoni e parole della città dei due mari, un viaggio sur-reale ritmato da esplosioni di bellezza sommersa e ipnotici tramonti sul lungomare.
Contatti per la stampa: Ufficio stampa regionale Valeria Raho
ufficiostampa.damagegood@gmail.com
(+39) 340.6212127
Note di regia
Raccontare le storie di questa città bellissima e disperata è una sfida che non riguarda solo il mio percorso cinematografico, ma il tentativo di attivare una comunicazione più profonda attraverso un videoblog e una radioweb che sono luoghi di narrazione e di confronto sociale aperti alla città come spazi da abitare. Qui siamo costretti a metterci in scena perché quella di Taranto è una storia che riguarda tutti: è lo specchio del degrado di un’Italia in crisi esistenziale che dopo aver puntato sul processo di industrializzazione di un Mezzogiorno prevalentemente rurale, ora si trova incagliata nei conflitti aperti tra industria e ambiente, tra identità e alienazione, tra salute e lavoro. Taranto oggi è chiamata a scegliere quale strada seguire, superando quel “Ce m n futt a me!” (che me ne importa a me?) che ha accompagnato il processo di degrado della città e dell’Italia tutta. Per contribuire alla rinascita di questo territorio ai confini della realtà è necessario conoscere la sua storia e considerarsi tutti tarantini.
Buongiorno Taranto è un saluto a una città che si risveglia dal torpore di un’allucinazione collettiva in cui è caduta nella ricerca di un benessere illusorio. È un sole che si fa spazio tra le nuvole di fumo per esorcizzare la paura e sfidare l’immobilismo, l’indifferenza e la rassegnazione.
Paolo Pisanelli, filmaker.
Laureato in Architettura e diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia (Corso di Fotografia diretto da Giuseppe Rotunno). Dopo aver lavorato come fotoreporter e fotografo di scena, dal 1996 si dedica alla regia di film-documentari. Ha ricevuto premi e riconoscimenti in festival nazionali ed internazionali. Nel 1998 è tra i soci fondatori di Big Sur, società di produzioni cinematografiche & laboratorio di comunicazione. Svolge dal 1995 attività didattica e di formazione audiovisiva. Collabora con la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Teramo, con il Centro Sperimentale di Cinematografia (sedi di Palermo e L’Aquila) e con la Scuola d’arte cinematografica Gian Maria Volontè di Roma. E’ ideatore e conduttore di RadioUèb, la radio in pillole, presso il Centro Diurno di via Montesanto a Roma, E’ direttore artistico di Cinema del reale, festa di autori e opere audiovisive che si svolge ogni anno nel Salento (Puglia).
Filmografia principale:
Nella prospettiva della chiusura lampo (1997); Io calcoli infiniti (1998); Il magnifico sette(1998); n (1999); Where we go (2000); Roma A.D 999 (2000); Roma A.D 000 (2001); Don Vitaliano (2002); Tunza Tunza – Italian djs electronic productions (2002); Enrico Berlinguer – conversazioni in Campania (2004);Il sibilo lungo della taranta (2006); Il teatro e il professore (2007); Un inverno di guerra (2009); Ju Tarramutu (2010); Il terremoto delle donne (cine-teatro 2011); Aquilane (cine-teatro 2013); Buongiorno Taranto (2014).
Sabato 5 Aprile alle 21:00 si apre la stagione sinfonica leccese. Per l’occasione l’Orchestra Tito Schipa si esibirà in uno spettacolo senza precedenti: Jazz Bistrot.
Con le musiche originali di Raffaele Casarano e la partecipazione straordinaria di Erik Honoré, la stagione sinfonica riparte dal Jazz… e che Jazz!
L’Orchestra sarà diretta dal maestro Alfonso Girardo, mentre con Casarano ci saranno Mirko Signorile (piano), Marco Bardoscia (contrabbasso), Cristiano Calcagnile (batteria) e Alessandro Monteduro (percussioni).
L’appuntamento prevede un programma di musica originale, ispirata ed intensa, con una forte tendenza alla melodia e alle atmosfere suggestive. Un viaggio musicale che sa di caldo e di freddo, di Mediterraneo e di Europa, che traccia un ponte ideale da Leuca fino a Oslo. Così si spiega il coinvolgimento di un ospite d’eccezione al live sampling come Erik Honoré, musicista e producer di alcuni album di Arve Henriksen, Nils Petter Molvær e di molti altri importanti jazzisti europei, che ha collaborato anche con David Sylvian e Brian Eno: quest’ultimo lo ha affiancato come co-direttore artistico del “Punkt Festival” a Kristiansand.
La serata è promossa in collaborazione con l’associazione Tria Corda, che riunisce, dal febbraio 2012, professionisti e imprenditori del territorio al fine di creare a Lecce un ospedale pediatrico di eccellenza al servizio del Salento. Parte dell’incasso sarà devoluto a questa lodevole causa.
Del concerto è prevista anche un’anteprima riservata alle scuole la mattina di venerdì 4 aprile, alle ore 10.30, al Teatro Il Ducale di Cavallino.
I biglietti sono disponibili dal 2 Aprile presso Castello Carlo V – viale XXV Luglio, Lecce – info 0832.246517 tutti i giorni dalle 9:00 alle 13:00 e dalle 16:30 alle 20:00.
Quaranta anni fa io e mio cognato Giuseppe eravamo i sacerdoti (almeno io, perché lui, che all’epoca aveva non più di dieci anni, poteva essere al massimo chierichetto …) di un rito che si compiva puntualmente, a meno che non fosse in atto un temporale, quasi ogni sera d’estate, una o due ore dopo il tramonto. Muniti di una lanterna ad acetilene (poi sostituita da una più costosa ma pratica torcia a pile ricaricabili) e di una specie di retino (caritaru) da noi stessi confezionato con un angolo di sacco fissato ad tondino di ferro le cui estremità piegate a 90° costituivano l’impugnatura (c’era poi l’altro modello, ancora più ecologico, che prevedeva l’impiego come telaio di un ramo, preferibilmente di olivo, a forcella con le estremità libere unite in cerchio con spago o fil di ferro sottile), scendevamo in una delle numerose spunnulate (nella foto seguente a sinistra la preferita in tutto il suo splendore diurno) che circondano quella più grande della Palude del Capitano per catturare la carita, cioè una sorta di gamberetto, che avremmo utilizzato all’alba per pescare con la canna lungo la scogliera del vicino Frascone1.
Abbagliate dal fascio luminoso (quello della torcia a pile era più efficace perché più concentrato e agevolmente indirizzabile) le carite restavano immobili e in un attimo si trovavano imprigionate nel caritaru manovrato con rapido gesto alle loro spalle. Certe sere bastava una decina di calate per fare la riserva di esca occorrente di lì a poche ore. Allora si approfittava del maggior tempo a disposizione per praticare lo stesso tipo di pesca lungo la scogliera ai danni di qualche polpo o di qualche pesce usando la fiòscina2. Più restii a farsi abbagliare e poi essere infilzati dalla fiòscina erano i grossi cefali che popolavano (credo che abbiano fatto in tempo a non estinguersi e che ora vivano in pace in questo paradiso finalmente protetto) la Palude del Capitano; oltretutto bisognava cogliere l’attimo in cui la loro sagoma appariva a mezza altezza in una delle tante buche che circondano la palude. Quante fioscine (anche del fucile ad aria compressa …) sfracellatesi contro la roccia! Quante parolacce (alcune irriferibili; e infatti non le riporto …) accompagnavano quel fallimento che oggi, a distanza di tanti anni, guardo (non garantisco per Giuseppe …) con occhio decisamente diverso, anzi diametralmente opposto!
Ora in perfetto stile mentalista
al bando metto la malinconia:
scultore non sono o acquarellista
e farollo con un’etimologia.
Lettor gentile, non me ne volere
e a quel paese no, non mi mandare!
È colpa mia se un poco di sapere
a tutti, me compreso, può giovare?
Iacca suppone secondo il Rohlfs un latino *flacca dal classico fàcula, diminutivo di fax (genitivo facis)=torcia. Trafila: fax>fàcula>*facla (sincope di –u-)*flaca (metatesi di –l-)>*flacca (geminazione di –c-)>fiacca (variante in uso in diverse zone del Leccese, con normale passaggio di fl– seguito da vocale in fi-, come in fiume da flumen, fiato da flatus, etc.)>iacca (aferesi di f-).3
Una volta tanto noi salentini non abbiamo esagerato, scomodando una fiaccola e non un piccolo forno. In toscano, infatti, il corrispondente di iacca è frugnòlo o frugnuòlo, anticamente fornuòlo, da un latino *furnèolus diminutivo del classico furnus.
Chiudo con tre belle stampe antiche: le prime due di Jan van der Straet (1523-1605, pittore fiammingo col nome italianizzato di Giovanni Stradano), tratte da Venationes ferarum, avium, piscium, Philippe Galle, Anversa, 15804; la terza, di anonimo, è tratta da E. Raimondi, Delle caccie, Napoli 16265.
Una sorta di pesca fluviale alla lampara su zattera. Didascalia (come quella della stampa successiva è tratta dai Carmina di Cornelio Kiliano Duffleo6): Ludicra piscandi quaedam ars est: vespere mensae/insistit rutila fulgenti lampade cautus/piscator, placidaque in stagni aut fluminis unda/lumen pisciculos adeuntes decipit astu.
Traduzione: Un certo modo di pescare è divertente: a sera il pescatore cauto sta su una tavola mentre fa luce una sfavillante lampada e con astuzia cattura sulla placida superficie dello stagno o del fiume i pesciolini che si avvicinano.
Al centro, in primo piano, dio del fiume con cornucopia seduto su una roccia e la dea Diana con ramoscello di ulivo. Sullo sfondo il fiume serpeggiante tra le colline. In primo piano a sinistra pesca diurna con la canna, a destra notturna con la lampada e il retino. In basso la didascalia: Lumine sic capitur noctu, sed sola nitente/pendet fallaci pisces deductus ab hamo.
Vanno rilevati, anzitutto, gli errori di sola per sole e di pisces per piscis. Sono due esametri, la cui scansione è:
Lūmĭnĕ|sīc căpĭ|tūr || nōc|tū sēd|sōlĕ nĭ|tēntē
pēndēt|fāllā|cī || pī|scīs dē|dūctŭs ăb|hāmō
Traduzione: Il pesce così di notte viene preso con la luce ma quando il sole risplende pende tratto dall’amo ingannevole.
In realtà l’ultima tavola è la rielaborazione del dettaglio invertito ed appena appena elaborato della seconda, come mostra senz’ombra di dubbio la comparazione sottostante.
2 Rispetto all’italiano fiocina presenta maggiore fedeltà fonetica all’originario latino fùscina(m)=forcone, tridente.
3 Nel suo commento a Delle delizie tarantine, opera postuma di Tommaso Niccolò D’Aquino (1665-1721), Cataldanton Atenisio Carducci, Stamperia Raimondiana, Napoli, 1771 a pag. 284 in nota avanza per iacca due proposte etimologiche: “forse dal fenicio Juag che suona sorpresa, ferir d’improviso, se non anzi da jaculo, cioè, dall’atto di lanciar la fiocina”. Sulla voce fenicia bisognerebbe credergli sulla parola (dal momento che di questa lingua abbiamo solo testimonianze epigrafiche e non letterarie) e per jaculo ricordo che ha già dato vita, correttamente dal punto di vista fonetico, a giacchio (rete da pesca rotonda che viene lanciata con gesto rotatorio e fatta scendere sul fondo; trafila: jàculu(m)>jaclum>jacchio>giacchio) e sarebbe strano se fosse pure il padre di un figlio foneticamente difettoso e semanticamente connesso con un dettaglio importante (la fiocina) ma non caratterizzante quanto l’altro (la lampada).
6 Fu anche l’autore di un importante Dictionarium teutonico-latinum che uscì ad Anversa per i tipi di Cristoforo Plantino nel 1574 e che per due secoli vide numerose ristampe.
CORIGLIANO D’OTRANTO (LE) – INAUGURAZIONE “CASA DELL’ACQUA” LUNEDI’ 7 APRILE , GIORNATA MONDIALE DELLA SALUTE
ACQUA A KM ZERO, LA STRADA GIUSTA DA SEGUIRE
Newtech Srl inaugura a Corigliano d’Otranto il primo distributore pubblico di acqua potabile comunale per l’erogazione di acqua naturale, refrigerata e refrigerata-gassata a soli 0,05 € al litro. L’inaugurazione di questo gradito ospite si svolgerà durante la Giornata Mondiale della Salute, un doppio appuntamento quindi per celebrare il diritto a qualità e purezza dell’acqua come requisiti fondamentali per la salute umana e l’arrivo di un nuovo servizio eco-compatibile, prezioso anche per la salute dell’ambiente.
L’avanzata tecnologia del distributore AcquaSelf, combinando l’azione filtrante dei carboni attivi a quella dei raggi UV garantisce un’acqua pura, buona e sicura, oltre ad essere controllata attraverso periodiche analisi di laboratori certificati. Il distributore è attivo 24 ore su 24 e dotato di un semplicissimo sistema di prelievo dell’acqua che funziona con monete, scheda o chiave elettronica prepagata, acquistabili presso gli appositi rivenditori autorizzati. Il servizio è a chilometro zero poiché l’acqua è fornita direttamente dalla rete idrica pubblica, determinando un’intensa riduzione dell’inquinamento derivante dalla produzione di bottiglie di PET e dal loro trasporto, nonché l’abbattimento dei costi di smaltimento delle stesse.
La strepitosa domanda in crescita da Nord a Sud di questo prestigioso servizio pubblico, è il risultato di una società pronta ad un’esperienza di acquisto dell’acqua più dinamica e tipica del fai da te, a metà strada tra la diversificazione dell’offerta che contraddistingue la modernità e le abitudini di consumo del passato. L’Acqua a Km Zero è la strada giusta da seguire verso l’impegno e la partecipazione collettiva per il bene pubblico comune, una meta per troppo tempo ignorata che finalmente cattura l’attenzione e la sensibilità sia di adulti che bambini.
Il Comune di Corigliano d’Otranto accoglie con orgoglio la frizzante iniziativa a supporto del risparmio sul bilancio economico delle famiglie e dello sviluppo sostenibile, attraverso un servizio eco-friendly che ha l’obiettivo di risvegliare la coscienza ecologica di tutti.
La cittadinanza è invitata a partecipare all’inaugurazione che si terrà lunedì 7 Aprile alle ore 11:30 in Piazza Aldo Moro, all’illustre presenza del Sindaco, Dott.ssa Ada Fiore e delle principali Autorità locali. Un evento educativo quanto dissetante in una giornata tutta dedicata alla salute, occasione ideale per brindare con un’acqua pura, buona e sicura, festeggiando il percorso verso un nuovo lifestyle di alta qualità.
Renata Fonte è un’eroina del nostro Meridione ed il suo sacrificio oggi assume un valore nuovo ed importante, vivo, che non stiamo cogliendo come dovremmo! Il Salento muore oggi sotto la stessa avidità speculativa per cui oggi Renata non è più tra noi a difenderci nei consigli comunali dai mafiosi e dalla mafia pugliese fatta anche e soprattutto di quegli uomini politici che, come traditori che dall’interno delle città, vendutisi, aprivano le porte delle loro città assediate ai nemici, stanno svendendo, per un piatto di lenticchie o per laute tangenti, il nostro territorio sul patibolo del business dei mega impianti eolici e fotovoltaici industriali, ubicati nelle nostre zone agricole e naturali; una follia che calpesta ogni principio di pianificazione urbanistica ed energetica ed ogni buon principio di prevenzione e precauzione!
E’ quanto sta avvenendo con la mafia della Green Economy, degli imprenditori e delle multinazionali delle cosiddette energie pulite, mega eolico e mega fotovoltaico! Non credo sia stato un caso che il moto popolare, divampato nel Salento, di opposizione a questo scempio inaudito e di proporzioni bibliche sia partito proprio da Nardò, dalla difesa di quella stessa costa, dell’orizzonte di Porto Selvaggio, dove ogni passo si carica del ringraziamento a Renata e del dispiacere che scaturisce dalla consapevolezza che per godere del bello oggi, un tale sacrificio sia stato pagato da una donna e dalla sua famiglia!
Renata fu assassinata dalla mafia per essersi opposta ad una speculazione edilizia lungo la bellissima costa neretina di Porto Selvaggio, nella prima metà degli anni ’80. Oggi, proprio lungo quella stessa costa, è in progetto un enorme paradossale impianto eolico con decine di torri di 150 m circa d’altezza. Dalle proteste divampate dall’animo dei neretini a difesa di quella stessa costa, tutti abbiamo presto scoperto quanto le dimensioni dello scempio eolico fossero spropositate: migliaia di torri eoliche d’acciaio in ogni dove nella campagna salentina, una selva d’acciaio di pali e pale eternamente rotanti, un carcere pronto a privarci della nostra libertà, una campagna cancellata, con la sua natura e la sua potenzialità economica silvo-agro pastorale; cancellata la memoria e la cultura di un popolo intero che ha nel suo paesaggio il suo libro aperto al cielo, sotto distese desertificate e sconfinate di pannelli fotovoltaici! Rubato il cielo, il diritto all’orizzonte!
L’inganno degli inganni, tutto ciò fatto in nome dell’effetto serra per evitare il surriscaldamento globale, la desertificazione naturale la morte delle specie, si diceva, e nel Salento nella Puglia, la terra viene invece desertificata artificialmente e la biodiversità cancellata, con la morte anche degli uccelli tra le fauci d’acciaio delle torri, proprio in nome di questo impegno “ecologista”; ecologia strumentalizzata al fine di intascare i lauti incentivi statali, nostri, per le fonti rinnovabili!
Menzogna su menzogna, produzioni d’energia in surplus, in una Puglia che già produce ben oltre il suo fabbisogno, tanto da esportare in gran parte energia altrove, disperdendone così gran parte nel trasporto, inevitabilmente! Altro che efficienza energetica! Con la menzogna che le produzioni industriali d’energia rinnovabile abbasseranno la produzione d’energia da fonti fossili, carbone, petrolio, gas: nulla di più falso, sarà invece l’opposto, poiché acquistando dei certificati, cosiddetti strumentalmente ‘verdi’, che lo Stato concede a chi produce energia rinnovabile, lo Stato consente alle ditte di continuare a bruciare indisturbate combustibili fossili, che così possono anche eventualmente incrementare le immissioni di gas serra in atmosfera; ambiente distrutto dai grandi impianti d’energia falsamente pulita, e gas serra immessi indisturbati in atmosfera! Si dovrebbe fermare questo business speculativo a favore solo degli impiantini fotovoltaici di nullo impatto ambientale ubicati sui tanti tetti e tettoie di edifici recenti, ma nulla, il business privato e speculativo è la vera molla di tutto un sistema incostituzionale legislativo regionale messo in piedi ad hoc per questa frode che è semplicemente “la più grande speculazione della storia d’Italia, la più devastante!”. Tutto perché lobby politico-imprenditoriali, ditte straniere, depredino il nostro territorio ed il nostro futuro, e con esso i nostri fondi pubblici, lasciando miseria e nessuna ricaduta occupazionale al Salento, cancellando la sua potenzialità economica turistica fonte di ricchezza diffusa tra le famiglie, a favore invece di accentramenti di denaro nelle mani dei signori delle rinnovabili, e dei politici e funzionari corrotti.
Oggi la conferma da tante procure: si ricicla il denaro sporco in questi impianti, vi son collusioni politico-mafiose, affarismo che sta corrompendo tutti i nostri comuni ed enti territoriali, violato da cotanto stupro del paesaggio l’art. 9 della Costituzione Italiana con cui i padri costituenti si preoccuparono di sancire la priorità inviolabile della tutela del paesaggio della nazione, violato il diritto alla salute a causa dell’uso massiccio di diserbanti sotto i pannelli, che avvelenano terra ed acque potabili sotterranee, e a causa dell’aggravarsi dell’inquinamento acustico e da elettrosmog ovunque, (elettrosmog che scaturisce da qualsiasi produzione e trasporto d’energia elettrica), ed un messaggio allora si impone e ci spinge ad agire nel ricordo mai troppo presente di Renata Fonte: “DOVE SI DEVASTA IL PAESAGGIO Lì C’è MAFIA!”; il paesaggio la scenografia della nostra esistenza, il presupposto della nostra felicità; e solo dove ci impegneremo davvero, senza paura per migliorare il nostro paesaggio, rispettarlo e renderlo più sano e bello, esaltandone l’intrinseca essenziale “naturalità”, lì, al di là delle targhe che il tempo corrompe, lì il nome di Renata Fonte sarà sussurrato come ricompensa alle nostre orecchie dal vento che soffia tra i rami dei pini e delle querce!
Grazie Renata
Oreste
P.S.:
Segnalo questi tre importanti articoli:
“Corriere della Sera” di Carlo Vulpio
Meglio l’eolico del narcotraffico, si guadagna molto di più e si rischia molto meno. Anzi, se si incrociano i politici “giusti” è come vincere al Superenalotto. E in nome della “economia verde”, l’energia costa il triplo. Ma c’è un giudice a Berlino?
Puglia-Salento: PANNELLI SOLARI E PALE TRA GLI ULIVI E LA STORIA MUORE
di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella (autori del famoso libro-inchiesta “La Casta”) due paginoni e riferimento in prima pagina sul “Corriere della Sera”
Da “Nuovo Quotidiano di Puglia”
La richiesta dai mille comitati salentini alla Regione Puglia e a Nichi Vendola della urgente moratoria di tutti gli impianti. Tergiversare oltre sarebbe solo sinonimo di collusione con quanto sta avvenendo:
Insignificante è questo mio doppio tributo se confrontato con le sensazioni, emozioni e suggestioni che questo magico luogo ha regalato a me ed a tutti coloro che hanno avuto il privilegio di esserne ospitati. È il miracolo che solo la bellezza della natura è in grado di operare, almeno su quanti di noi restano ancora in grado di capirne il significato … e di rispettarlo.
Nella canzone (mia e di Francesco Carrino) che commenta il video che segue (cliccare su Portuservaggiu, ma prima attivare gli altoparlanti) si parla di sole ti maggiu, ma è per pura esigenza di rima: Portoselvaggio è per tutto l’anno!
Viviamo in un periodo astruso: la società è cambiata, le distanze si sono accorciate e la famiglia si è disgregata.
La bella famiglia patriarcale non esiste più. Un tempo, quando il nucleo familiare rimaneva circoscritto nel paese d’origine, gestire la vecchiaia dei propri cari diventava semplice. I vecchi genitori potevano, tranquillamente, rimanere nelle loro dimore e nel loro ambito ed erano i figli, a turno, che si alternavano nell’assistenza.
Ricordo mio nonno quando, all’improvviso nonna ebbe bisogno di assistenza, chiamò a raccolta i figli e con semplici e autorevoli parole comunicò loro che dovevano avvicendarsi nella sua casa – per i turni decidete come meglio vi pare – e finì lì. Fu una circostanza normale per figli e nipoti trascorrere dei giorni a casa di nonna. Nessuno si oppose, anzi, diventò una festa ritrovarci nella grande casa di tanto in tanto.
Ora tutto è mutato, si ha bisogno di figure straniere che badino, a pagamento, ai nostri vecchi. Finché tutto fila liscio e s’incappia in brave persone, queste figure fanno pure comodo, i problemi sorgono quando sopravvengono inconvenienti di vario genere. Accade spesso che, dopo averle regolarizzate ( si usa dire così) e trattate in modo familiare, questa gente ti si rivolti addosso e pretenda più del dovuto. Ti rendi conto a questo punto, che ciò che hai fatto per loro è na pàssula a mbocca a lu puercu [2]. Grazie alle garanzie che hanno, danno tutto per scontato, vedono solo diritti, doveri ben pochi. Il fatto è che i sindacati italiani, queste “specialissime” associazioni inutili e mangia soldi, favoriscono questo loro speculare, cosicché la spavalderia di molti viene premiata e vengono gratificati anche il sopruso e le frottole.
Viviamo in una società in cui egna bona la mia tela, scatta e crepa ci la tesse![3]Ognuno pensa al proprio tornaconto ed è sempre indaffarato e sollecito a fottere l’altro, anche nelle stupidaggini. La tracotanza, il menefreghismo, la villania, l’aggressività, la coercizione sono i sentimenti che predominano.
Chi la pensa, la vede e vive in maniera diversa, è costretto a rintanarsi nel suo angolino e per ben campare è costretto a tacere ed accettare anche i soprusi di chi li sta intorno sempre pronto ad alzare la voce, e non solo, per far valere le sue ragioni, che sono sempre e comunque le sue e basta!
La semplicità, la schiettezza, la sensibilità, la bonarietà non si sa più dove albergano. Questi sentimenti non esistono quasi più.
Considerando, però, la ritrovo ancora negli indiani che vivono nel mio ambito. Li osservo spesso. Pur vivendo nella nostra realtà, le persone di origine indiana ( non solo a mio dire) continuano ad essere il loro semplice mondo. Non li ho sentiti mai urlare, imprecare. Conducono al pascolo il bestiame e con fare tranquillo le seguono passo dopo passo, con quell’indolenza che le è naturale. Li scorgo al crepuscolo quando rientrano col gregge, loro avanti, dietro i cani. Unica modernità, il cellulare fisso all’orecchio. Continuando a chiacchierare, fanno un cenno di saluto e quando c’incontriamo salutano con un inchino a mani giunte e un sorriso.
La loro seraficità, mi ricorda mio nonno quando placido e pacifico, dopo la pennichella pomeridiana, scendeva giù e soleva sedere sul grande sasso bianco sistemato a mo’ di panchina vicino al portone della masseria. S’accendeva con lentezza la lunga pipa di terracotta con la cannuccia di canna e se ne stava per ore silenzioso a fumare e osservare ciò che intorno accadeva, dando, di tanto in tanto, qualche dritta a qualcuno affaccendato in qualche incombenza.
Osservare…allora si aveva il tempo di osservare in silenzio.
Qualche volta puoi farlo ancora in qualche luogo lontano dal frenetico mondo di adesso. Rifletti e t’accorgi allora quanto è vuota quest’umanità. Vuota di valori primari. Vive per far soldi, sempre più soldi fino a non sapere che farsene. Spesso si vive, senza sapere di vivere, si fa senza sapere di fare. Mi spiego meglio: diceva mia nonna che si viveva per la corte[4] e per la morte. Nel senso che bisognava non fare brutte figure nella vita di ogni giorno, nel rispetto delle ricorrenze e vivere secondo coscienza facendo del bene per meritarsi, un giorno, un posto in paradiso. Oggi si vive solo per la corte.
La corte di un tempo era semplice, essenziale corte di vita . Man mano, col tempo le corti, si sono duplicate, poi triplicate e nell’attuale società si sono centuplicate e lo strano è, che sono i meno abbienti che hanno incrementato la corte, fino a farla divenire corte suprema d’idiozia.
Basta un semplice evento per trasformarlo in corte. In una corte grottesca, dove tutti recitano “ a soggetto”: la parte dello sbruffone di turno!
Osservavo ad un ricevimento delle belle sculture di frutta. Ne ammiravo l’impegno e l’ingegno: certo che “le sculture di frutta sono essenziali per la corte in tempo di crisi!”
Davvero magnifiche opere del nulla! Frutta che non si potrà nemmeno mangiare e andrà dritta in pattumiera dopo la… corte!
Più in là un cesto è colmo di bottiglie di vino. Sull’etichetta primeggiava la foto del festeggiato. Lo “stampato”, sta festeggiando la prima comunione. Se, tanto mi dà tanto, chissà cosà si farà per il giorno del suo matrimonio!
Non posso fare a meno di ricordare la mia prima comunione e quella dei miei coetanei. Rivedo il mio vestito bianco e quello di mia sorella e il da fare della mamma per prepararci quel mattino e non farci arrivare in ritardo alla messa.
Ci si confessava il pomeriggio del giorno prima, già quello era stato un evento.
– Ora e fino a domani, dovrete stare attente a non fare peccati e comportarvi bene! – Aveva ammonito la catechista – e mi raccomando, da stasera a digiuno! –
Dopo la cerimonia in chiesa, si tornava a casa. Si baciava la mano a mamma e papà Si pranzava in famiglia. Il pomeriggio si rimetteva l’abito bianco e ci recavamo a trovare i parenti non molto distanti da casa. Ad ognuno si baciava la mano per chiedere perdono di qualche scorrettezza commessa nei loro confronti. C’era chi regalava qualche soldino, pochi spiccioli per un gelato, delle caramelle. Qualcun altro un libretto di preghiere, una coroncina. La festa era tutta lì. Era per tutti così, non c’erano corti di sorta e ci bastava ed eravamo contenti. Altri tempi però!
La forma più antica è greca: Τάρας (leggi Taras), genitivo Τάραντος (leggi Tàrantos). La sua più antica attestazione (evidenziata con l’ellisse rossa nell’immagine, mia, sottostante) si troverebbe, se questa fosse autentica, cioè veramente risalente al VI secolo a. C., nella Mappa di Soleto.
La più antica attestazione letteraria è in Erodoto, Antioco e Tucidide (V secolo a. C.) . La forma latina più antica attestata, Tarentum, risale ad Ennio (III-II secolo a. C.)1. La notizia più antica sulla fondazione della città si ha in Diodoro Siculo (I Secolo a. C.): Gli epeunatti2 avendo mandato ambasciatori a Delfi chiesero se il dio [Apollo] avrebbe dato loro il territorio di Sicione. La pizia rispose: “Bella è la terra tra Corinto e Sicione ma non l’abiteresti nemmeno se fossi tutto di bronzo. Cerca Saturo e l’acqua lucente del Taras e il porto che sta a sinistra e dove il montone respira con voluttà la salsedine del mare bagnando la punta della (sua) barba grigia. Lì costruisci taranto , salda su Saturo. Avendo sentito non capirono; la Pizia allora disse più chiaramente: “Ti concedo Saturo e di abitare la ricca terra di Taranto e di diventare un flagello per gli Iapigi”.3
Ecco, invece, la versione di Pausania (II secolo d. C.) : I cavalli di bronzo e le donne prigioniere sono [dono] dei Tarantini [provenienti] dalle spoglie dei Messapi, barbari confinanti col territorio dei Taarantini, opera dell’argivo Argelada. Gli Spartani fondarono Taranto e l’ecista fu lo spartiata Falanto. A Falanto che si preparava alla fondazione giunse da Delfi un oracolo: quando avesse visto la pioggia [cadere] dal cielo sereno, allora avrebbe conquistato una regione e una città. Non avendo dato importanza lì per lì all’oracolo non avendolo comunicato a nessuno degli interpreti, approdò con le navi in Italia. Poiché, pur vincendo i barbari, non gli riusciva né di prendere una delle città né a impadronirsi di un territorio, si ricordò dell’oracolo e pensava che il dio gli avesse vaticinato cose impossibili: infatti mai era piovuto sotto un cielo puro e sereno. E sua moglie, lo aveva accompagnato da casa, fra l’altro trattava con gentilezza lui che era avvilito e avendo posto sulle ginocchia sue ginocchia la testa del marito gli cercava i pidocchi; e per amore capitò alla donna di versare lacrime vedendo che la situazione del marito non progrediva per nulla. Versò lacrime senza risparmio (bagnò infatti la testa di Falanto e si ricordò dell’oracolo (Cielo sereno era, infatti, il nome della donna) e così e così [Falanto] la notte successiva strappò ai barbari Taranto, la più grande e prospera delle città sul mare. Dicono che l’eroe Taras fosse figlio di Poseidone e di una ninfa indigena, e che dall’eroe sia stato posto il nome alla città e pure al fiume; infatti in base a questo pure il fiume è chiamato Taras dalla città. Dicono che l’eroe Taras fosse figlio di Poseidone e di una ninfa indigena e che dall’eroe fosse stato messo il nome alla città e pure al fiume; infatti anche il fiume, come la città, si chiama Taras.4
La memoria di Pausania è confermata dalle numerose monete con leggenda TAPAΣ (leggi Taras); in basso due esemplari, il primo del IV, il secondo del III secolo a. C., in cui l’eroe è rappresentato col tridente nella sinistra e seduto sul dorso di un delfino.
Insomma, Taranto trarrebbe il nome dal suo primo fondatore, l’eroe Taras.
Pacichelli (A), pagg. 160-162
Pacichelli (B, anni 1684 e 1687)
Entrando nel Golfo di Taranto, si può considerar la pesca delle ostrighe, le quali si salano e spacciano in parti lontane, di altre specie stimatissime (che fan correre il proverbio doversi qui da ciascuno passar il tempo di quadragesima), particolarmente di quelle che, fra alcuni palo gettato il picciol seme di quella sorte di legno, vi nascon’in copia a guisa delle piante e chiamansi cozza, estraendosi dopo sei mesi nel suo picciol mare al porto, ed è grossa come mandorla coperta. Si affittan però quei pali da‟ cittadini nel mare Picciolo di più di 30 miglia di giro col suo riflusso.
Fu Taranto patria di soggetti accreditati in primo luogo nella filosofia e più alte specolazioni, città molto vasta e forte, in penisola, chiusa in tre lati del mare. Oggi è ristretta, col castello però nel suo continente, di buon’architettura, stimato sicuro, che vi fondò il Re Ferdinando I di Aragona, e la cittadella antica, presidiata da gli spagnuoli nella parte opposta a quello, a fronte della quale, sovra gli archi del ponte lungo più di 80 passi, entra in città l’acqua di Martina, Ducato de’ Caraccioli. Ubbidisce Taranto al Cattolico: era principato de’ primogeniti di questo reame, ed ha luogo nella provincia, che chiaman di Terra d’Otranto, venedo considerata per lo suo Arcivescovado mitra antichissima e culto nella madrice al corpo del Santo Vescovo Cataldo. Ha diversi chiostri, seminario, monte di pietà, comode fabriche, fameglie nobili e cavalieri d’abito di prova più rigorosa. I suoi fuochi vengono ascritti nuovamente a 1807 e nella diocesi, che ha buoni benefici e badie, otto castelli di albanesi riverenti alla Santa Sede, osservano il rito greco e, pochi passi vicino, il picciol tempio sotterraneo tien tradizione che l‟apostolo San Pietro vi facesse il primo suo sbarco, avanti di portarsi a Roma. Del più si legga Giovanni Giovene, De Antiquit. et varia Tarentinor. fortuna. Non è già favoloso l’effetto delle morsicature del picciol’animale in questa città e contorno, chiamato tarantella, simile ad mosca grossa, verde e rossa di sopra, che punge insensibilmente la state, obligando a ballare al sole, in quell’aria, del violino o altro istromento, ad udir le trombe, veder gli specchi, le fettuccie, o altri oggetti allegri, fin che viva lo stesso animaletto, sì come io stesso ne ho veduto più volte i segni in altrui, che si chiamano gli attarantati, benché non se lo persuada Giovanni Teutonico nell‟opera De’ più Rari Costumi de’ Popoli, mentre ne cerca le cagioni, e le difende il padre Atanasio Kircherio nel suo trattato Della Calamità. Investigando in qualche memoria recondita dell’antichità, osservai un bel marmo bianco, scoverto gli anni addietro nelle fondamenta della cappella nuova di San Cataldo, nel tempio arcivescovale, con le seguenti parole:
L. JUNIO. L. F. GAL.
MODERATO
COLUMELLAE
TRIB. MIL. LEG. VI. FERRATAE.
Può esser che questo Lucio Giugno fosse un de’ Pretori, ben voluto in Taranto, al quale si erigesse da’ cittadini sì nobil memoria. E il medesimo stimo di Sesto Licinio, padre di Marco Licinio Console, che ne’ tempi di Augusto si raccordava in Orosio 6, 17, leggendos’in un marmo della chiesa di Muriveteri:
D.M.S.
SEXT. LICIN. P. R.
Cicerone, Pro Archia, scrive che fiorissero allora in Taranto gli studi delle buone Lettere, non mancando premi a’ virtuosi; per lo ché Aulo Licinio, poeta di grido, venne aggregato alla cittadinanza tarentina e onorato con molti donativi. In un marmo di color piombino, a fronte del tempio di Santa Maria di Costantinopoli, fuor delle mura della città, si scorge scolpito:
C. JULIO. D. LUCRETIUS
JUSTUS. FILIUS.
È incerto chi fosse questo Caio Giulio, trovandosi nelle antiche memorie molti di questi nomi, tutti però di uomini chiari, nel Consolato, nella Pretura, Dettatura, o in altre cospicue Dignità. Sotto la confession della Chiesa Madre, in una base di colonna si legge:
D.M.S.
A. TITINI. A.F. CLA.
JUNIORIS
E nel medesimo luogo, in un’altra base:
D.M.S.
A. TITINI. FRUCTI.
Che fossero nobilissimi i Titini in Roma lo afferman gli scrittori delle cose romane, e di questa Tito Livio al X accenna un maestro de’ cavalieri. Veggasi Fulvio Orsino De Famil. Roman., con le note di Carlo Patin., il Gandorpio et altri. Della medesima, della Memmia e della Calpurnia, riferendo pur delle inscrizzioni, fa menzione bastante il Giovane, il Grutero nella sua opera celebre e Aldo Manuzio nell’Orthograph., che porta anche delle monete di argento. È indizio chiaro ch’elle fossero trapiantate da Roma in Taranto. Serbo presso di me varie monete di metallo, che coniava Taranto ne’ tempi ne’ quali possedea Signoria sovrana, scoverte nell’anno corrente, scavandosi alcune pietre fondamentali de’ vecchi edifici; et altre ho udito che se ne scuoprano alla giornata. Qualche altra notizia può vedersi nella Descrittione, origine e successi della Provincia di Otranto, descritta da Geronimo Marciano, raccolta da Alfonso Montefuscoli di Cupertino nel 1656, in due volumi in foglio non ancora publicati.
Su l’aurora, per folta nebbia, in dodeci miglia mi condussi a Taranto, osservando fuori per lungo tratto gli archi dell’aquedotto, il bel teatro che forma quella non vasta città, metropoli già della Calabria, Puglia e Lucania, cui scriss’elogio Floro al capitolo 8 del I, ne ricordan Giustiniano al 3, Strabone al 6 e al 3, così Virgilio Hinc sinus Herculei (si vera est Fama) Tarenti. Due son le isole nel mar grande, abitate da’ conigli, sotto il titolo de’ Santi Apostoli Pietro et Andrea, e l’altare ove celebrò il primo, restando fuori fra’ Carmelitani e dentro ne’ Celestini le vaste colonne del tempio di Diana. Vennero a vedermi tutti i Padri della Compagnia, e non più che due, il Provincial de gli Agostiniani con altri, e mi feron concerto i musici forastieri. Mi tolse benignamente da’ Conventuali Monsignor il Vicario Generale Ferrari, conferendo al solito meco di materie di Lettere nel palazzo, ove anche Monsignore l’Arcivescovo Pignatelli mi trattenne in lungo discorso e fé assegnar quarto, con darmi visita e invito alla prossima festa, che con pompa e comedie facea disporre per San Cataldo, la lingua del quale, incorrotta dopo mille anni, tornai ad adorare.
Pacichelli, mappe. Per Taranto sono due (1 e 2), la prima con didascalia numerica, non trascura dettagli periferici che sono assenti, invece, nella seconda con didascalia alfabetica, più attenta al territorio intra moenia. Le trasformazioni antropiche del territorio succedutesi dai tempi del Pacichelli mi hanno reso più difficoltosa la consueta operazione di identificazione e comparazione col presente; per questo confido nell’aiuto del lettore per le opportune correzioni e/o integrazioni.
1 È contenuto in un frammento degli Hedyphagetica tramandatoci da Apuleio (II secolo d. C.), Apologia, 39: Q. Ennius hedyphagetica versibus scripsit. Innumerabilia genera piscium enumerat quae scilicet curiose cognorat. Paucos versus memini; eos dicam: “Brundisii sargus Bonus est, hunc magnus si erit sume. Apriculum piscem scito primum esse Tarenti” (Quinto Ennio scrisse in versi Ghiottonerie. Enumera innumerevoli specie di pesci che certamente aveva conosciuto da esperto. Ricordo pochi versi, li dirò: “Il sarago di Brindisi è buono, prendilo se è grosso. Sappi che il pesce-cinghiale di Taranto è il primo”).
2 Ex schiavi che, in seguito alle nozze con vedove libere, avevano acquisito il diritto di cittadinanza.
Là ci stanno le cento pietre, è un monumento funerario utilizzato come mausoleo sepolcrale per Geminario, il generale, uomo di pace, trucidato dai saraceni. Costruita con cento blocchi di roccia presi dalla vicina Vereto, città messapica, divenne poi chiesa. È strano, pensavo, come gli uomini di pace possano morire trucidati da quelli di guerra. Pare una storia infinita.
La strada scorreva ma non siamo andati a vedere le cento pietre, già la conoscevamo. In realtà non abbiamo visto nulla quel sabato sera. Arrivati in piazza c’erano ragazzi che giocavano, alcuni stavano seduti a raccontarsela, come succede in primavera nei paesini, d’estate saranno di più, e ci saranno signore sedute qua e là a raccontarsela. Illuminazione gialla, come si conviene ai centri storici. Pavimentazione in basoli. Il silenzio è quello dei paesi tranquilli del basso Salento, pochissime auto, voci dei ragazzi, voci di noi che parlottiamo aspettando di finire la sigaretta prima di entrare dove dovevamo andare.
“Vieni a Patù? Cucina piemontese” mi ha detto l’amico al telefono. Come rinunciare alla cucina piemontese nel basso Salento?
La Rua De Li Travaj si chiama il locale (la strada del lavoro) Immediato il pensiero corre ad un antico detto piemontese “scapa travaj ca riv” (scappa lavoro che arrivo io), ovviamente dedicato agli scansafatiche. Il locale è trattoria, la dicitura è “cucina tipica salentina”. Però c’è la signora Fiorina che arriva dritta da Alba, città del tartufo bianco fra Asti e Cuneo. Terra di Langhe e Roero, un tempo poverissima, ne dice Nuto Revelli nel “Il mondo dei vinti” il libro che nessun piemontese dovrebbe ignorare, soprattutto quelli che lanciano strali contro gli immigrati. Intervistò contadini, Nuto, li fece parlare e loro dicevano parole di emigrazione in Francia e non solo. Della povertà e dei pasti fatti di castagne e castagne, polenta e polenta con castagne. Il mito del tartufo sarebbe arrivato dopo. Allora c’erano le ragazze che vendevano i loro lunghi capelli a chi li trasformava in parrucche per signore nobili, ricche, belle.
Città di origine preromane, divenne Alba romana, poi passò attraverso la storia, il Medio Evo, con le sue mura fortificate dalle “cento torri”, divenne giacobina dopo la rivoluzione francese. Poi accolse Napoleone in trionfo. Lui, anticipando altri governi del secolo XXI°, chiese un contributo per le spese militari pari a 123.000 lire dell’epoca. Assurdo, ingiusto, esoso. Alba inviò due ambasciatori a Parigi per trattare una cifra più equa, uno solo tornò, l’altro venne fucilato e divenne eroe (suo malgrado). Inutile dire che dovettero pagare.
Fino ad arrivare alla Resistenza, l’effimera Repubblica di Alba venne raccontata da Fenoglio (I 23 giorni della città di Alba), poi fu medaglia d’oro per il prezioso contributo alla liberazione dal nazi fascismo. Altre libere Repubbliche in altre terre echeggiano, Nardò insegna!
Oggi è famosissima per il miglior tartufo bianco al mondo e per i vini d’eccellenza, nelle sue terre si bevono vini DOC (Barbera, Dolcetto, Nebbiolo) e DOCG (Barbaresco e Moscato). Tradizioni culinarie eccellenti: bagna caoda, Bolliti e bagnet, Agnolotti, Fritto misto piemontese, Bonet, Insalata russa, Brasato e via dicendo.
Fiorina a Patù si è portata tutto il suo patrimonio e si è lasciata contaminare da quello che ha trovato qui. Ha cucinato per noi ottima bagna caoda, agnolotti, bolliti con bagnetto verde, brasato (al negramaro) e bonet. Un tripudio. Tutto mangiato sotto gli occhi attenti di Felice Cavallotti che ci guardava da una foto, e dalle fotografie in bianco e nero appese ai muri, tempi andati di quando c’erano tabacchine e andare da Patù a Lecce era viaggio vero, ci voleva un sacco di tempo.
Il prezzo è stato in linea con la quantità e qualità del cibo, tenendo conto che non è cucina usuale.
Poi di nuovo in strada, di nuovo verso Lecce, con profumi e sapori da ricordare. Pensando senza troppo livore ai casi della vita, ai non salentini che contaminano Salento con le loro conoscenze, la loro musica, le loro parole scritte, volatili, affabili, dure come sassi, o con il loro cibo. Ed il Salento accoglie e guarda, insegna e impara. Abbiamo cenato ed io pensavo ai casi della vita, l’amico medico in Salento per lavoro, campano di nascita e formazione, piemontese con i tentacoli della sua famiglia, il nonno lo era. Io piemontese, per caso in Salento. Altri amici di Lecce Lecce (come si diceva qui per indicare i cittadini), Lecce austera e fiera che diceva “Poppeti” indicando chi arrivava da fuori città, dal Capo forse. E pensavo a Pavese, Fenoglio, a Davide Lajolo, scrittore e parlamentare del PCI, che nel 1977 pubblicò lo stupendo “Vedere l’erba dalla parte delle radici” in cui raccontava di quella notte in cui venne colto da infarto e gli passò davanti tutta la sua vita. Sopravvisse, ne scrisse.
Tutti langaroli e monferrini, figli di quelle terre fatte di colline dolci, sinuose, ora piene di filari, un tempo anche di ulivi in qualche parte. Terra dalla quale si vede l’arco alpino dove il sole tramonta. Campi e lavoro duro. Storia e storie.
Come in Salento, in fondo. E pensavo a chi veniva fin quaggiù a comprare uva per rendere più corposo l’ottimo vino di Langa e Monferrato, agli scambi culturali. Mani che si stringono a distanza di mille Km, occhi che si guardano e imparano a osservare. Profumi di mosto e di finocchio selvatico. E pensavo che è bello, in fondo, conoscere il sapore delle cime di rapa e della bagna caoda, mischiarli nella memoria con i ricordi. Ed è bello bere negramaro con agnolotti piemontesi che fondono due culture. Anche alla faccia dei puristi che forse sapranno di cucina dotta e colta, ma rischiano di scordare l’emozione del lasciarsi contaminare.
* Il numero uno non lo conosco ma è tale e quale il due.
** Sarà presuntuoso, invidioso o, più semplicemente, ha bisogno di un’urgente visita oculistica?
La voce di oggi viene proposta unicamente perché emblematica della pittoresca metaforicità del dialetto. Essa, infatti, dal punto di vista etimologico, non presenta difficoltà alcuna, avendo il suo omologo italiano in scollare e condividendone con questo la formazione: composto da s- privativo (dal latino ex=lontano da) e coddha. Quest’ultimo, corrispondente all’italiano colla, ne condivide la derivazione dal greco κόλλα (leggi colla) attraverso un supposto latino *colla (nel latino classico è usato gluten, in quello medioevale glùtinum)1.
Scuddhare condivide con l’italiano scollare la stessa sfera semantica (la foderina s’è scuddhata=la foderina si è scollata; scoddha lu francubbollu!=scolla il francobollo!) ma in più il suo participio passato (scuddhatu) acquista un significato metaforico piuttosto curioso in espressioni come ggh’è ttale e qquale a sìrisa, scuddhatu (=è tale e quale suo padre, scollato!) oppure ggh’è scuddhatu a sìrisa (è scollato a suo padre) oppure ggh’è sìrisa scuddhatu (è suo padre scollato). Va da sé che lo scollato della traduzione italiana non allude a torture perpetrate da chicchessia a danno del padre ma è sinonimo di simile.
Nella seconda e terza espressione scuddhato, dà quasi l’idea di una riproduzione per calco ma curiosamente ricorda nello stesso tempo il più antico sistema di riproduzione (quello della scissione cellulare dell’ameba) e il più avanzato (la clonazione). La preposizione a nella prima espressione può sembrare strana (ci si sarebbe aspettato è scollato da suo padre corrispondente ad un ggh’è scuddhatu ti sirisa) ma essa non introduce un complemento di termine bensì di relazione (scollato rispetto a suo padre). A meno che, ricostruzione che ritengo più attendibile, da subito scuddhatu non sia stato inteso come sinonimo di in tutto simile o in tutto somigliante, a tal punto da assumerne la preposizione (a) che di regola regge il complemento che li accompagna; mi fa propendere per questa seconda ipotesi il fatto che la preposizione a compare anche in espressioni del tipo ggh’è tale e qquale a ssirisa e, d’altra parte, pure in italiano spesso è ricorrente tale e quale a nonostante quell’a non abbia nessuna ragion d’essere.
E l’idea del calco ritorna nell’italiano è spiccicato suo padre, che segue lo stesso costrutto di ggh’è ssirisa scuddhatu. Vale la pena ricordare come spiccicare è contrario di appiccicare (entrambi probabilmente da una radice fonosimbolica con l’aggiunta in testa di preposizioni diverse) così come scollare è il contrario di incollare.
Questo per far notare, infine, come l’espressione italiana appare, almeno a me, meno pittoresca. La cosa può sembrare paradossale dal momento che spiccicare è vocabolo meno consueto di scollare. La lingua non finisce mai di sorprendere per la sua reale o presunta irrazionalità. Credo che nel nostro caso il fenomeno rilevato sia dovuto, ripeto paradossalmente, proprio all’uso meno frequente di appiccicare rispetto ad incollare e di spiccicare rispetto a scollare per cui l’idea dello scollamento è più immediata con scollare che con spiccicare.
E così l’italiano perde il suo confronto con il dialetto anche quando sembra avere maggiori mezzi a disposizione. D’altra parte non sempre un esercito ben equipaggiato è stato, è e sarà garanzia di vittoria.
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1 A quanto ne so la prima attestazione scritta di un latino colla risale al XVI secolo: Niccolò Massa, Epistolaemedicinales, Bindoni e Pasini, Venezia, 1550, pag. 93: … quod glutinum sive collam ita extensam super pannum ponunt … (poiché pongono glutine o colla spalmata su un panno …). Sempre a quanto ne so la prima attestazione scritta in prosa italiana risale all’inizio del XIV secolo e si trova in Prediche del beato fra’ Giordano da Rivalto dell’ordine de’ Predicatori recitate in Firenze dal 1303 al 1309, Silvestri, Milano, 1839, v. II, pag. 392: … dicesi ancora d’una terra, e d’una colla là oltremare, la quale è sì tenace e sì forte che per nulla maniera di mondo si può partire quando è appiccata, né per ferro, né per fuoco, né per acqua, né per neun altro argomento, tamnto è forte e tenace …; pag. 397: … il secondo nemico si è il mondo. Questo non ne lega così falsamente, perocché non sa così ingannare: ma e’ ti piglia a modo che ti piglia il vesco o colla, per bonum et pulchrum. L’uccello, quando viene preso al vesco e toccalo …
La prima attestazione scritta in poesia risale al XV secolo: Domenico di Giovanni detto il Burchiello, Sonetti, CLXXIX, 1: Beo d’un vino a pasto che par colla …
La presenza di colla nel volgare fin dal XIV secolo esclude una sua origine dotta dal latino rinascimentale e rende plausibile la derivazione da un latino medioevale *colla, la cui presenza, almeno a livello semantico, è già nel medioevale protocollum (da cui l’italiano protocollo) che nel glossario del Du Cange (pag. 542) ha questa definizione: Liber ex glutine compactus in quem acta publica referentur (Libro unito con colla nel quale sono riportati gli atti pubblici). Protocollum, a sua volta, è trascrizione del greco πρωτόκολλον (leggi protòcollon)=prima sezione di un rotolo di papiro, composto da πρῶτος=primo e dalla radice di κολλάω=incollare, quest’ultimo, a sua volta da κόλλα.
un sito che ebbi il grande privilegio di poter scoprire da piccolo, con indescrivibile emozione, durante le mie esplorazioni del territorio! Per decenni era del tutto passato inosservato agli occhi degli studiosi, cultori di “cose patrie” e non solo. Era il 1993, il 16 luglio del 1993, momenti che non si possono dimenticare! Tanto che i due dolmen principali del complesso furono poi battezzati con il mio stesso cognome, sui primi testi che furono pubblicati dopo la grande eco che il ritrovamento ebbe, e non vi è da meravigliarsi data l’ imponenza del più grande dei due dolmen, della sua enorme lastra, o meglio delle sue più lastre litiche orizzontali di copertura disposte adiacenti tra loro, una rarità per tale aspetto, nell’ambito delle manifestazioni del megalitismo salentino, sin ad oggi note.
E queste foto che scattai allora, in analogico, le pubblico per condividerle a tutti, perché son FOTO PREZIOSE, PREZIOSISSIME! Perché? Perché oggi lo spettacolo suggestivo di quel complesso, così come appariva in tutta la sua verginità ai miei occhi, è stato oltraggiato volgarmente! I due Dolmen, almeno quelli, per fortuna son rimasti lì, in piedi, temuti nella loro integrità, e dunque identità, e per questo dai “vandali”, fortunatamente, rispettati, ma tutto il contesto è stato vilipeso, in così pochi anni, certamente a seguito dell’eco della notizia della loro importanza: tutti i massi megalitici intorno ai due dolmen che in queste foto vedete, e che eran sparsi per il sito, taluni anche con interessanti fori, son stati rimossi, asportati, svaniti!
L’enorme banco roccioso affiorante sulla Serra, la collina dorsale tra Maglie e Corigliano, sulla cui cresta sorgeva il complesso (in basso passa l’antica strada rurale Maglie-Corigliano), un banco roccioso a vista, esteso come in pochi altri contesti salentini così, e che accecava per il suo calcareo biancore di pietra leccese, tra le foglie dei fichi, della vite e degli ulivi, piantati in conchette di terra, è stato coperto con terra di apporto, neppure locale, svanite quelle che apparivano come altre ciste dolmeniche, qui documentate nelle foto che aggiungerò; così stesso vile destino per quelle che erano “specchie”, cumuli di pietrame minuto, ma anche talune cumuli ordinati di “chianchette” di pietra naturale lastriforme, giustapposte le une sulle altre orizzontalmente; coperto così con pietre e terra l’evidente ingresso di una grotta, cavità naturale carsica o forse artificiale o semi-naturale, pure qui documentata, che in un simile contesto quanti interrogativi culturali e di ricerca pone per i nostri archeologi!!! Una bacinella rettangolare scavata nella roccia, le tracce di cavatura arcaica lì stesso dei grandi massi e lastroni, coperti! Coperti mi auguro, perché non vorrei che qualche pazzo abbia fatto persino lì muoversi, tra i dolmen, un mezzo meccanico spietratore e spacca sassi!
Un muro di blocchi megalitici informi (tra i fondi “Plao mea” e “Plao mincio”)), sostituito con un muretto cementato di blocchi squadrati; trafugato il coperchio monolitico di pozzo, circolare con foro maniglia passante sul bordo, che era stato impiegato dai contadini per farne uno “ssettaturu”, un sedile e al contempo una cuccia (a copiata tipologia dolmenica) per qualche cane, nei pressi del trullo che ricadeva in quel fondo (nel podere chiamato “Plao mea”); trullo con la croce raggiata incisa all’ interno sulla sua chiave di volta della tholos, ancora almeno quello, come altri prossimi rimasto in loco! Sopravvissute alcune “spase” di pietrame della civiltà contadina per seccare fichi e legumi, la vela di un vecchio pozzo, e i muretti a secco dei poderi e di alcuni caratteristici terrazzamenti! E poi, persino lì, in questa manciata di anni, dopo la pace ed il rispetto di secoli di lavoro dei contadini che han preservato tutta quella magia incantevole di pietre: due abitazioni costruite nei suoi pressi, una accettabile per stile, in pietra, più accostabile ad una “case colonica”, ma l’altra uno squallore di cemento, una bestemmia realizzata scassando il prezioso banco roccioso! Colpe?! Tante! Di tutti! Anche mia che non ho vigilato, che non ho preteso…ma forse perché ero un bambino!
Ma queste foto son, se tutti lo vorremo, e tutti riconosciamo il valore e l’incanto di ciò che mostrano, pietre più dure e più pesanti del blocco monolitico più ciclopico di quel complesso, più dell’intera collina, perché ci dicono ciò che c’era, le suggestioni che abbiamo perso, ma che DOBBIAMO E POSSIAMO RIPRISTINARE, RECUPERARE, RESTAURARE ASSOLUTAMENTE!
NOTA SUL TOPONIMO “PLAO”
Il toponimo “Plao”, richiama il toponimo “Paliceddha”, (italianizzato in Palicella) presente non lontano, in feudo di Maglie, e che di origine griko-salentina, vuol dire piccola “plaka”, piccolo dolmen. La “plaka”, che diventa nel dialetto romanzo salentino, “chianca”, è la lastra di pietra, che puo pertanto, passare ad indicare la tavola di pietra e quindi il dolmen. così a Maglie un grande dolmen è chiamato proprio “Chianca”, come il toponimo della particella in cui insiste, in contrada Poligarita, e un dolmen a Melendugno è chiamato dai locali “Plaka”, in dialetto. La radice “Pla-”, echeggia la radice dei termini greci “Platea”, spazio ampio, di “Platano”, il nostro albero mediterraneo autoctono (il Platanus orientalis) dalle ampie foglie, e in contrada Plao tanto la presenza delle ampie lastre dei dolmen, quanto l’ampia distesa di nuda levigata superficie spianata di roccia calcarea carsica, dove vi erano i megaliti e che ebbi il privilegio di contemplare intatta e scoperta, ben si accordano con il toponimo griko-salentino “Plao”. Il podere Plao, era diviso nel 1993 tra due parenti, di una famiglia di Corigliano, e la porzione più grande nella parte alta della Serra, dove vi erano i due “Dolmen Caroppo”, era chiamato “Plao mea”, in griko “mea”, dal greco “mega”, che vuol dire “grande”; la porzione più piccola posta lungo le pendici terrazzate della Serra, bordata dalla strada antica Maglie-Corigliano, era chiamato “Plao mincio”, dal dialetto locale “mincio”, che vuol dire “piccolo”. L’appezzamento più devastato è stato proprio il “mea”, mentre il “mincio” è tenuto dai suoi proprietari con ben maggiore cura e rispetto per il paesaggio storico-naturale locale! Quando mi avvicinai, nel 1993, con metro, taccuino, penna, bussola e macchina fotografica per rilevare il sito, incontrai l’anziano contadino del fondo “mincio”, che fu ben lieto di condurmi nella proprietà adiacente del parente per farmi vedere i dolmen, quelle “taule de petra”, tavole di pietra, come il trullo presente nel “mea”, ma poi anche il bel trullo presente nel suo fondo, e i terrazzamenti, il lavoro degli avi mi diceva, e poi che forza da giganti, mi diceva, i nostri antenati nel costruire il grande dolmen, e mi mostrava fiero le sue grandi lastre orizzontali molto spesse, “quante persone per sollevarla!? Quanto lavoro e ingegno gli antichi!”, ma l’unico uso che lui aveva visto dai suoi padri per quelle tavole di pietra era fungere da superfici secche su cui seccare al sole d’estate i fichi, per far provviste dolci per l’inverno … quelle pietre enigmatiche avevano trovato un riciclo, un riuso, nella civiltà contadina, ed erano state così rispettate al contempo nel loro enigmatico arcaico mistero, ne avevano aguzzato la fantasia e spinto a simulazioni, laddove possibile, con lastre di pietra però meno mastodontiche di quelle, come nel sedile realizzato vicino al trullo del fondo “mea”!!!
1. La Daunia romana: Ascoli Satriano ed HerdoniaDomenica 12 aprile, ore 10:00 Socio referente: Peter Zeller In collaborazione con ArcheoLogica s.r.l. Info: Peter Zeller 338 3885205 peterzeller@libero.it
Provincia di BAT (Barletta – Andria – Trani)
2.Un progetto di Paesaggio per Castel del MonteCastel del Monte , Comune di Andria (BAT) L’evento ha l’obiettivo di fornire al visitatore gli elementi base per una lettura paesaggistica del contesto, con la finalità di riscoprire un bene unico al mondo, il Castel del Monte, da una diversa prospettiva: quella del paesaggio che lo circonda, il quale gli conferisce l’eccezionalità di cui è noto, e che da quasi 1000 anni lo accoglie nella sua immutata bellezza. Il Paesaggio non è solo la cornice di Castel del Monte, ma è anche esso stesso protagonista di questo quadro di estremo incanto. Con l’aiuto di esperti si andrà alla scoperta della sua diversità ecologica (le praterie di pseudo-steppa, i boschi di conifere e latifoglie, i corridoi ecologici), della sua complessità formale e delle polarità storico culturali (come le masserie, jazzi e poste) che lo caratterizzano. Soci referenti: Rosa Di Gregorio, Rossana Capriulo con Teresa Montagano.(referente GAL Cdm) 13 aprile, solo la mattina dalle 9 alle 13 Per informazioni e prenotazioni telefonare al 329 4458631 (Rosa), 328 1049871(Rossana) scrivere a info.paesaggio@gmail.com
Provincia di Bari
3.Lama Balice – anima verde della citta’ di Bari L’evento intende far conoscere una porzione dell’area protetta Lama Balice secondo la modalità del “work in progress” a partire dalla visita di un ipogeo accatastato e quindi alla ricerca delle suggestioni della lama in dialogo con gli esperti di farfalle, orchidee e avifauna L’esplorazione si concluderà con lo “spuntino del contadino”. Evento in collaborazione con La Rete per la tutela e la valorizzazione del Parco Naturale Regionale “Lama”. Domenica 13 aprile, ore 10:00 Socio referente: Peter Zeller. Info: Peter Zeller 338 3885205 peterzeller@libero.it4. “Valorizzazione del paesaggio, Ecoturismo e Tutela delle Aree protette”Bari Sala Convegni in San Ferdinando, Via Sparano. L’evento si situa nel contesto del sistema “Il Progetto di Paesaggio: motore di sviluppo economico”, e mette in evidenza l’approccio sistemico della “Landscape Economy” in connessione alla “Landscape Ecology” per la valorizzazione integrata del paesaggio delle Aree Protette (Parco della Murgia in Puglia e sistema dei parchi regionali) nell’ambito della Cultura dell’Ecoturismo e della Pianificazione Ecologica del Paesaggio e dell’Architettura del Territorio Rurale. Sabato 12 aprile 2014 dalle ore 16,30 Socio referente: Donato Forenza Info: Donato Forenza 346 6196201 fordes@tiscali.it
Provincia di Taranto
5. Tenute Emèra e Casino Nitti: il sapiente recupero di un antica tenutaComune di Pulsano Una passeggiata alla scoperta delle Tenute Emèra, dove una cantina ipogea dotata delle più moderne attrezzature, costruita all’interno del corpo di una masseria del 500, è immersa nei propri vigneti e porta il nome della divinità dell’antica Grecia che simboleggiava il giorno (un tributo alla cultura della Magna Grecia, culla dell’antica viti/vinicoltura della nostra regione); e Casino Nitti, dove Francesco Saverio Nitti, il Presidente del Consiglio che nel primo dopoguerra guidò le sorti dell’Italia, tornava a riposarsi dalle fatiche di governo. La tenuta, nella omonima via, che già allora comprendeva un’antica masseria e produceva vino di primissima qualità, oggi è interessata da un intervento di ristrutturazione, ampliamento e ammodernamento della storica cantina, dal restauro dell’antica masseria e dall’ impianto di oltre 40 ettari di altri pregiatissimi vigneti che continueranno a generare nuova economia sul territorio legando vini di qualità ad un paesaggio di qualità. Sabato 12 aprile, 10:00-15:30 Soci referenti: Tiziana Lettere e Marilena Manoni con il Dott. Claudio Quarta e Valentina Leuci (Magistravini) Per informazioni e prenotazioni telefonare al 347 0928775 (Tiziana), 347 0523276(Marilena) oppure scrivere a: presidente.puglia@aiapp.net, tesoriere.puglia@aiapp.net
Provincia di Brindisi
6. …Mutatis Mutandis: l’antropizzazione del paesaggio rurale dall’ipogeo alla Masseria didattica passando dall’agriturismo. Comune di Ostuni e Cisternino (Brindisi) L’incontro verte su una passeggiata, che partendo dalle masserie della marina di Ostuni prosegue in quelle nell’agro di Montalbano e poi Speziale, entrambe frazioni di Fasano; attraverso vie comunali e vicinali il percorso conduce, infine, nella valle d’Itria e precisamente in agro di Cisternino. Saranno svelate le curtis delle masserie, i loro ipogei le loro architetture: caditoie, garitte, strutture defensorie; a tratti sobrie e asciutte e a tratti magniloquenti ed eleganti, ma soprattutto come questi presidi del territorio siano stati fucine di mutamento per il paesaggio. Il paesaggio che è mutato nel tempo assecondando i bisogni dell’uomo, che dapprima lo ha trasformato ed oggi lo utilizza quale paradigma olistico per un’interpretazione nostalgica del passato, per un canto e, una visione futuribile per gli aspetti economici e ambientali dall’altro. domenica 13 aprile ore 10,00 Soci referenti: Oronzo Milone, Tommaso Giorgino, Serena Chiarelli conAnna Sacco, Fabio Pacifico, Cosimo Cardone, Ennio Santoro. Per info:Dott.Agr. Oronzo Gaetano Milone Telefono Mobile: +39 338 8905992 Dott.For. Anna Sacco Telefono Mobile: +39 329 5689172 agronomomilone@yahoo.it
Provincia di Lecce
7. Il Paesaggio ritrovatoAzienda Agricola Masseria La Torre Maglie Un terreno, oggi di 25 ettari, che faceva parte di una tenuta che superava i 100 ettari e che per secoli è stato utilizzato per il pascolo e completamente deforestato. A partire dal 1987 si è operato per impedirne il pascolo e successivamente, nel 1997, sono stati piantati 12 ettari di bosco di Leccio e Pino d’Aleppo. Dal 2004 si è completato il recupero dei terreni per poterli coltivare a cereali e legumi. Oggi “il paesaggio ritrovato” ha sviluppato una nuova economia: agricola con produzione di olive, vino, cereali, legumi, miele; agrituristica; didattica con il bosco e la masseria; naturalistica, con evidenti vantaggi per il paesaggio e l’economia. Socio referente: Francesco TarantinoOrari e date: 12 aprile solo il pomeriggio dalle ore 15 alle 18, il 13 aprile dalle ore 9,00 alle 18,00 Per informazioni e prenotazioni telefonare al 320 3524352, scrivere a info@masserialatorre.it. 8. Le Costantine: dalle antiche tradizioni nuove economie per il territorioComune di Uggiano La Chiesa – Casamassella (Lecce). Alla scoperta di un centro di attività agricola, artigianale e pedagogica, sorgente di benessere ed elevazione per gli abitanti del luogo. Un’oasi di pace immersa tra uliveti e macchia mediterranea, a 3 km da Otranto, che riunisce in una sola realtà la tessitura, l’agricoltura biodinamica, l’ospitalità anche per disabili e la formazione e che ha ottenuto importanti premi e riconoscimenti tra i quali: Premio Turismo Cultura UNESCOnella categoria “Ospitalità”; Oscar Greenedizione 2010.
Soci referenti: Tiziana Lettere, Marilena Manoni, Iride Filoni, Anna Camardella con l’Avv. Maria Cristina Rizzo (Presidente Fondazione le Costantine) Domenica 13 aprile ore 10:30- 15:30 Per informazioni e prenotazioni telefonare al 333 2626243, scrivere a iride.filoni@gmail.com telefonare al 3389655393, scrivere a anna.camardella@libero.it 9. Ciclo-cine-passeggiata: Salento, il Paesaggio nei luoghi del cinema Comune di Otranto Una particolare ciclo-cine-passeggiata finalizzata a cogliere, almeno in parte, il legame profondo che negli ultimi tempi lega il Cinema al Paesaggio della nostra regione e, in particolare, del nostro Salento. Un modo accattivante di attraversare e conoscere il nostro territorio rivivendo le “emozioni” di alcune scene di film che hanno reso celebri i nostri luoghi ma anche di comprendere le importanti ricadute che un’arte straordinaria come quella cinematografica può avere sul territorio interessato attraverso la partecipazione degli operatori del settore. Soci referenti: Tiziana Lettere e Marilena Manoni, con Salentobicitour e Luciano Schito (Apulia Film Commission) domenica, 13 aprile ore 9:00-18:00 Per informazioni itinerario e prenotazioni telefonare al 3921144073 (Giulia – Salento Bici Tour) o al 346 0862717 (Carlo – Salento Bici Tour) scrivere a: salentobici@gmail.com 10. Il paesaggio del vino generatore di nuova economiaComune di Galatina (Lecce). Cantine Santi Dimitri Una passeggiata alla scoperta dei vigneti e delle cantine di una delle case vinicole più prestigiose del Salento. L’azienda Santi Dimitri, nasce nel 1996 recuperando l’attività agricola dell’antica azienda di famiglia che risale alla fine del XVII secolo. Con il tempo ha diversificato la produzione, partendo dal recupero dei vecchi vitigni , ora offre non solo uve , ma anche olive autoctone e alloctone, legumi e cereali , prodotti più raffinati della linea gourmet ed ha anche creato una piccola attività ricettiva . In questo modo le “cantine Santi Dimitri” attraverso il recupero del paesaggio agricolo sono una realtà che ha creato economia per il territorio salentino. Socio referente: Iride Filoni Sabato 12 aprile ore 11:00 Per informazioni e prenotazioni telefonare al 333 2626243, scrivere a iride.filoni@gmail.com.
Nel nostro dialetto è sinonimo di giorno lavorativo, feriale, non festivo.
Per il Rohlfs deriva dalla locuzione latina die(m) quotidiana(m). Rispetto a tale etimo, sostanzialmente corretto, ritengo, però di dover fare qualche piccola integrazione/precisazione. Intanto analizzo il primo componente del nesso messo in campo dal filologo tedesco. Quotidiana (di cui quotidianam è l’accusativo femminile singolare) è aggettivo dall’avverbio quotidie=ogni giorno, formato dall’indeclinabile quot=quanti+die=giorno (formazione analoga quotannis=ogni anno). Va pure detto che già nel latino classico è attestata l’alternanza cotidianus/quotidianus/cottidianus per l’aggettivo e quotidie/cotidie/cottidie per l’avverbio.
Nel latino degli umanisti, oltre alle tre forme appena indicate, compare pure quottidianus: Guarino Guarini (XV secolo), De linguae Latinae differentiis: Octavianum Augustum quottidiano sermone “simus” pro “sumus” usurpasse legimus (Leggiamo che Ottaviano Augusto aveva usato nella lingua di ogni giornosimus invece di sumus); Lorenzo Valla (XV secolo), Ars grammatica: …separat in binas hominum sollertia voces, exceptis paucis, certa ratione, quod aut sint quottidiana domi aut oculis insignia nostris: quottidiana caper sunt et capra sive capella … (… la solerzia degli uomini separa in due le voci, ad eccezione di poche, per un motivo sicuro, poiché o sono cose quotidiane in casa o nobili ai nostri occhi: sono quotidiane caper e capra o capella …); Francesco Filelfo (XV secolo), Epistola a Lorenzo il Magnifico: … num putemus oratores vel in senatu, vel in foro, vel apud populum alia usos oratione quam latina, hoc est quottidiana vulgarique …? (Forse dovremmo considerare oratori o nel senato o nel foro o presso il popolo quelli che usano una lingua diversa dalla latina, cioè quella di ogni giorno e popolare …?).
Da quottidianus e cottidianus i volgari quottidiano e cottidiano: Giovanni Sabadino degli Arienti (XV secolo), Novelle Porretane, XXIV: Advenne dunque uno giorno che, dolendose del sinistro portava per el tardo advenimento del famiglio cum uno miser Piero Goso scolaro savonese, suo quottidiano compagno, omo callido, astuto e piacevole gabatore oltra modo, li disse il dicto miser Piero che non se pigliasse affanno …
Baldassar Castiglione (XVI secolo), Il libro del cortegiano, II, 17: Ma in somma non bastaranno ancor tutte queste condizioni del nostro cortegiano per acquistar quella universal grazia de’ signori, cavalieri e donne, se non arà insieme una gentil ed amabile manera nel conversare cottidiano.
Con ellissi di febbre come in terzana e quartana: Pietro Crescentio (XVI secolo), Opera di agricoltura: Ancora diamo la sua polvere assolvere et vale alla cottidiana e alla terzana … contro la cottidiana di flegma falsa et contra la rogna si pesti … et cotale oximelo vale contra la quartana et cottidiana se non fosse già di flegma falsa …
Il nostro uttisciana ha seguito la seguente trafila partendo non da (diem) quotidiana(m) (come vuole il Rholfs, la cui proposta non dà conto della caduta di qu– e della geminazione di –t-) ma da (diem) cottidiana(m) per passare a cottidiana(m) (ellissi di diem), poi a ottidiana (affievolimento di c– compensato con v– nella variante vuttisciana in uso nel Leccese a Alessano e Castrignano dei Greci e nel Brindisino a Carovigno e Ostuni), quindi a ottisciana [da notare lo sviluppo –dia->-scia– come in sciàna=disposizione d’animo, umore (da Diana, per cui vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/12/16/lu-spilu-e-la-sciana/]>uttisciana) e, infine, a uttisciana.
Come non ricordare il detto nana, nana, comu la festa l’uttisciana, riferito genericamente al trascorre sempre uguale del tempo e in particolare a persona che nel giorno feriale vestiva allo stesso modo di quello festivo? Si trattava di qualcosa di eccezionale, dati i tempi. Proprio feriale è l’aggettivo che il Boccaccio (XIV secolo) usa a tal proposito nell’Elegia di Madonna Fiammetta, V, 31: Semplicemente, e di feriali vestimenti vestita, vi vado.
E il riferimento, questa volta diretto, alle ristrettezze economiche non manca neppure nella ninna nanna, di cui il detto precedente sembra essere la versione per adulti: E ninina e ninana/comu la festa l’uttisciana./Ci turnisi no ‘ndi tegnu,/comu àggiu ffare tti mantegnu?
Da notare come il Ninina (che già si era espanso per ragioni di rima in ninana), diminutivo di Nina (a sua volta abbreviazione di Antonina, ma come non ricordare lo spagnolo niña=bambina?) eppure foneticamente vicino alle voci infantili ninni (=bambino) e ninna nanna, diventa nel primo detto nana per esigenze di rima ma finisce per evocare non solo il nome comune ma anche Nana, abbreviazione di Antonia. Bella la domanda che conclude la ninna nanna, proprio perché retorica: il genitore avrebbe dato la vita pur di non far mancare al bambino l’indispensabile.
Già, l’indispensabile; ma non solo quello alimentare e di prima necessità, anche quello affettivo, sensoriale ed emozionale. E oggi? Oggi, probabilmente, il genitore (o chi per lui), ammesso che avesse il tempo e la voglia di farlo, canterebbe così: E ninina e ninana/comu la festa l’uttisciana./Pi llu pane non c’è nn’eurinu/ma tieni nu beddhu telefoninu.
Sarebbe già tanto, ma meno male che qualcuno (regressione infantile?) può contare sull’aiuto di un amico veramente … insospettabile.
Seminario all’Hilton Garden Inn, venerdì 28 marzo 2014
A Lecce si discute della nuova PAC 2014/2020
Ruolo, organizzazione e obiettivi dell’olivicoltura pugliese
Tecnici, amministratori ed imprenditori agricoli
intorno ad un tavolo per definire le future scelte strategiche
La globalizzazione porterà davvero ad un mercato mondiale? L’olivicoltura pugliese potrà uscire dalla crisi? E come? Se bisogna fare “sistema”, qual è il sistema? A queste ed altre fondamentali domande cercheranno di dare risposte i tecnici, gli amministratori e gli imprenditori agricoli che parteciperanno al seminario dal titolo “PAC 2014/2020 – Ruolo, organizzazione e obiettivi dell’olivicoltura pugliese” che avrà luogo venerdì 28 marzo, alle ore 9, presso l’Hilton Garden Inn, promosso da APOL Lecce e CIA Lecce. In allegato il programma dettagliato dell’iniziativa.
“In una complessa realtà globale si inquadra lo stato di crisi dell’olivicoltura pugliese – si legge in una nota a firma congiunta di Benedetto Accogli, Presidente APOL Lecce e Giulio Sparascio, Presidente CIA Lecce – che in quest’ultimo periodo deve far fronte, in provincia di Lecce, anche ad una nuova fitopatia, caratterizzata da disseccamenti estesi e rapidi della chioma delle piante, che determinano il deperimento delle stesse. Per garantire il rilancio del settore, assicurando un equo reddito ai nostri produttori, occorre necessariamente definire il ruolo, l’organizzazione e gli obiettivi dell’olivicoltura pugliese.
Alla base di tutto diviene necessario il rinnovamento delle aziende olivicole attraverso il ricambio generazionale, che è il più importante elemento da perseguire nella politica di innovazione del settore. Occorre definire, altresì, un nuovo modello di organizzazione economica capace di mettere insieme i piccoli e medi produttori, rendendoli protagonisti e artefici del loro futuro.
Per tale motivo è necessario sensibilizzare i produttori e le loro Organizzazioni a definire scelte strategiche comuni per l’olivicoltura pugliese che abbiano come obiettivo, da un lato la razionalizzazione della fase produttiva con la diminuzione dei costi di produzione e l’aumento della qualità del prodotto, dall’altro la concentrazione in una sola struttura commerciale, in modo da diffondere un’unica immagine dell’olio extra vergine di oliva pugliese da valorizzare, promuovere e quindi commercializzare con un solo brand.
Tale percorso potrà essere favorito dalla recente approvazione della riforma della PAC per il periodo di programmazione 2014-2020 che prevede, fra le altre misure, maggiori e più importanti compiti a favore degli Organismi associativi.
In vista del processo che porterà le competenti Istituzioni italiane a delineare le scelte applicative nazionali per quanto riguarda la nuova PAC per i prossimi anni, occorre esortare i responsabili della politica agricola a livello nazionale e regionale a compiere delle scelte compatibili con le esigenze di rilancio e di crescita del sistema olivicolo pugliese, considerata l’importanza economica, territoriale, ambientale e sociale che il settore riveste.”
Il seminario chiuderà alle ore 14 con una degustazione di prodotti tipici della dieta mediterranea presso gli stand delle aziende associate alla Confederazione Italiana Agricoltori di Lecce e all’Associazione tra Produttori Olivicoli di Lecce.
L’intera sessione sarà trasmessa in diretta streaming da SudNews.tv. e, contestualmente, sarà lanciato su Twitter l’hashtag #olivicolturapuglieseper condividere i temi discussi e per interagire in modalità on-line, attraverso il moderatore, durante i lavori.
Sul cece (Cicer arietinum L.), importante e apprezzato legume, non vi è ancora una convergenza d’opinioni su quale sia stata la sua terra d’origine; infatti in assenza di un progenitore selvatico che ne attesti con una certa affidabilità l’origine, vi sono studi che lo danno originario dei territori dell’attuale Turchia, ed altri che lo vogliono proveniente dall’India. Di certo, è stato uno dei primi alimenti ad essere coltivato e consumato dall’uomo. Oggi vengono ampiamente coltivati in tutte le aree semiaride e subtropicali del mondo, con India e Pakistan che producono oltre l’80 % del raccolto mondiale.
La pianta del cece ha sviluppo cespuglioso e piuttosto contenuto; assai rustica gli si confanno il clima caldo e i terreni fertili, profondi, ma ben drenati. Teme infatti i terreni umidi e quelli molto compatti ed eccessivamente calcarei in quanto la granella viene di difficile cottura. Grazie alle sue caratteristiche di resistenza alla siccità e al caldo, ben si adatta alla coltivazione nelle regioni dell’Italia meridionale e centrale, ove il cece ha sempre costituito una risorsa preziosa ed ha supportato un’interessante tradizione gastronomica.
I semi dei ceci sono completamente edibili, hanno un elevato contenuto proteico lievemente inferiore solo a quello delle lenticchie e dei fagioli secchi, ma sono leggermente più ricchi in grassi, il che conferisce loro una consistenza particolarmente morbida e vellutata e ne fa uno dei legumi con più elevato valore energetico: 100 grammi di ceci contengono circa 350 Calorie. Molto interessante il contenuto di ferro, in quanto, uno dei principi nutritivi più scarsamente presente negli alimenti, mentre il contenuto in carboidrati è simile a quello degli altri legumi. Presenta inoltre buone quantità di sali minerali, fibre e vitamina A e C, ma soprattutto di saponine, sostanze che aiutano l’organismo a eliminare il colesterolo dall’intestino. Il tipo di fibre di cui sono ricchi hanno inoltre la proprietà di rallentare l’assorbimento degli zuccheri e quindi di mitigare l’eccessiva presenza di insulina nel sangue, tipica di chi è fortemente in sovrappeso. Ed infine, ma non ultimo per importanza hanno un ottimo potere saziante.
Nonostante l’apprezzamento, testimoniato da diverse ricette tradizionali, nel Salento, la sua coltivazione, è stata sempre piuttosto ridotta. Infatti la sua caratteristica di dare rese remunerative solo se coltivato su terreni di buona qualità (più convenientemente utilizzabili per colture strategicamente più importanti e redditizie), ne ha sempre limitato la coltivazione, anche in virtù del fatto che a differenza di tutte le altre leguminose, il cece non può essere pienamente considerato pianta da rinnovo, ovvero la sua coltura non migliora la fertilità del terreno, ma lo lascia notevolmente impoverito di alcuni elementi. Tale circostanza portò l’erudito tarantino Giovan Battista Gagliardo (1758-1823) a sconsigliarne esplicitamente la coltivazione nel suo Catechismo Agrario, l’utile Manuale di Agricoltura scritto a Beneficio dei Fattori e dei Curati di Campagna (cui al tempo era demandato anche l’onere di istruire tecnicamente i contadini) portato alle stampe nel 1793. Nelle aree ove abbondavano i terreni adatti, la produzione raggiungeva comunque livelli significativi, anche perchè i contadini pur sacrificando raramente terreno libero per la loro coltivazione, usavano seminarli alle capezzagne dei vigneti o negli interfilari degli stessi, oppure li consociavano vantaggiosamente ad altre colture.
In tutto il Salento, specialmente in passato, venivano molto apprezzati e ricercati per la loro prelibatezza i ceci di Nardò, la cui bontà è tuttora univocamente riconosciuta. Questi ceci hanno per molto tempo costituito una pregiata di merce di scambio, usata da intraprendenti mercanti per concludere vantaggiosi affari.
La loro non comune bontà deriva dal peculiare concorso di due fattori: l’utilizzo di un antico ecotipo locale di cece e le particolari caratteristiche dei terreni che gli vengono riservati. Il particolare ecotipo di cece coltivato nel territorio di Nardò produce semi minuti, di colore bianco sabbia, piuttosto lisci e con rostro praticamente assente o appena accennato. Nonostante i semi siano piccoli, le piante danno buone rese, e la granella, a dispetto dell’aspetto non particolarmente attraente, risulta all’esame organolettico, d’eccellente qualità.
Vengono seminati nella seconda decade di febbraio (i contadini di Nardò, usano seminarli in prossimità della ricorrenza del patrono della città, San Gregorio Armeno, che cade il 20 febbraio) e vengono raccolti all’inizio dell’estate, estirpando le piante, quando la maggior parte dei legumi è secca, lasciando le stesse essiccare bene in andana e quindi battendole, nel caso di piccole produzioni, oppure trebbiandole meccanicamente.
L’ecotipo in questione, ha il difetto di produrre quasi sempre una piccola percentuale di semi bruni o neri (melanici) che, se non eliminati, inficiano ulteriormente la presentazione merceologica della granella e la deprezzano sensibilmente, anche perché questi semi spuri, denominati localmente “ciutei” (aggettivo un tempo molto utilizzato come dispregiativo), solitamente risultano notevolmente più restii alla cottura. Ecco perché, sovente si rende necessaria una minuziosa e laboriosa selezione manuale.
Oltre alle ottime caratteristiche organolettiche, questi ceci offrono garanzia di perfetta cottura, ovvero risultano spiccatamente “cottoi” o “cucìuli”, termini popolari, che con il loro contrario “cutrei” stanno ad indicare una più o meno spiccata tenerezza post-cottura.
La particolare squisitezza dei ceci di Nardò è comunque in buona misura imputabile alla qualità dei terreni su cui vengono coltivati. Si tratta di fertili terre nere d’origine alluvionale, prodotte dalle piene del locale torrente Asso che, con i suoi apporti detritici, in larga misura organici, ha riempito nei millenni un’antica depressione carsica, probabilmente un’immensa dolina, originariamente presente. Mai, come nel caso in oggetto fu più azzeccata la frase latina: “De gustibus et coloribus non est disputandum”, infatti il cece nero, tanto dispregiato a Nardò, viene magnificato in altri contesti: è il caso dei ceci neri tradizionalmente coltivati a Muro Leccese o sulla Murgia Barese, in particolare a Cassano Murge, che sono localmente, e talvolta non solo localmente, ritenuti ottimi.
Notevolmente differenti da quelli precedentemente illustrati, si presentato neri esternamente e bianchi all’interno, tingono fortemente l’acqua di cottura ed hanno generalmente bisogno di due giorni di ammollo perché venga vinta la loro naturale durezza.
In origine sono stati coltivati perché essendo più duri, ma anche più fragili si prestavano bene ad essere macinati con i sistemi rudimentali in uso nelle campagne, per ricavarne mescolandoli ad altri cereali delle sorta di farine da polenta, ancora in auge la farinella, un particolare sfarinato di ceci e orzo, tradizionale di Putignano. Però, anche sotto forma di granella, questi ceci presentano delle peculiarità organolettiche abbastanza interessanti e non ultimo, a seconda delle preparazioni, creano nel piatto dei piacevoli contrasti cromatici, ragion per cui negli ultimi tempi sono stati molto rivalutati e pare che fortunatamente, sia stato definitivamente scongiurato anche il pericolo di una loro paventata estinzione.
Comunque, appare evidente, che fulvi o neri che si preferiscano, per avere degli ottimi ceci, da destinare magari alla preparazione di una delle tante amate versioni di pasta e ceci, non resta che raccomandarsi a qualche produttore diretto delle zone più vocate, prenotandone già dal periodo della semina, una buona provvista, per il susseguente raccolto.
Leggo in un lungo articolo su Corriere della Sera della richiesta al Governo Italiano di imporre ai produttori di telefoni cellulari la scritta, come per le sigarette, “nuoce gravemente alla salute”, di vietarne la pubblicità e l’utilizzo ai minori.
L’esposto in tal senso è stato inoltrato al TAR del Lazio citando una sentenza della Cassazione, che fece vincere un ricorso contro INAIL in quanto il dirigente d’azienda, Marcolini, si ammalò di cancro, il tribunale confermò che la causa andava cercata nell’utilizzo del telefono cellulare.
In particolare l’articolo citato parla dei dati:
I dati riportati nel ricorso sono inquietanti. Il rischio di incidenza di neurinomi acustici nel lato della testa dove è utilizzato il cellulare è più che raddoppiato negli utilizzatori di cellulari da circa 10 anni, che abbiano un tempo di esposizione giornaliero dai 16 ai 32 minuti al giorno, per un totale di mille o duemila ore complessive. E proprio sul numero di minuti utilizzabili al giorno giocano le campagne pubblicitarie delle principali compagnie telefoniche. Nel ricorso, riguardo questo punto, i legali chiedono «di inibire a gestori e operatori la diffusione di offerte «infinito», di “Minuti illimitati verso tutti”, e così via. Tra le altre richieste, ci sono «il rendere obbligatorio per gestori e operatori l’invio di sms sulle regole di utilizzo al fine di evitare rischi cancerogeni, di introdurre il divieto di pubblicità dei cellulari e dei relativi contratti di utilizzo, e, solo in subordine», di «vietare la pubblicità con persone che non usano auricolari o vivavoce, e ai minorenni». Non solo. Le compagnie dovranno avvisare con un sms gli utenti, quando viene superata la soglia massima di durata oltre la quale il rischio di ammalarsi di cancro è più alto. «È da notare – scrivono i ricorrenti – che oltre all’aumento del rischio di gliomi celebrali e neurinomi acustici, certificato dalla Iarc nel 2011 e suggerito da studi scientifici e governi nazionali, l’uso prolungato e abituale nel tempo dei telefoni mobili è causa dell’ «aumento del rischi di altri tipi di tumore alla testa proprio nelle aree più direttamente interessate alla esposizione di radiazioni emesse durante il funzionamento: meningiomi celebrali, cancri alle ghiandole salivari, melanomi all‘uvea oculare e tumori all’epifisi e alla tiroide».
In realtà la confusione è molta sotto il cielo, come evidenzia un altro articolo su La Repubblica, pochissime le certezze, molti i dubbi. Nel frattempo è bene prendere piccole precauzioni: utilizzare il cellulare solo per comunicazioni brevi, utilizzare maggiormente vivavoce e auricolari per tenere l’apparecchio lontano dalla testa, spegnerlo la notte e comunque non tenerlo accanto al letto.
Il problema dei telefoni cellulari, come di moltissima nuova tecnologia, è stato il loro boom in pochissimo tempo, senza testarli a sufficienza, questi sono i rischi della mondializzazione e della modernizzazione incontrollata, della capacità del nuovo di diventare obsoleto in pochi giorni e di offrire un nuovo “nuovo”. Si costruisce, si butta sul mercato, si rende indispensabile e poi si vedrà. Gli errori del passato (sigarette e alcool in primis) che trasformavano i vizi in mode non sono serviti, non ci si ferma, la produzione deve proseguire, i giornali debbono vantare il primato del consumo di telefoni cellulari in Italia, primo paese al mondo per diffusione. E problemi, secondo alcuni esperti, potrebbero sorgere con il wi fi diffuso ormai in moltissimi luoghi pubblici e case private, anche qui si è andati avanti urlando che chi non ci sta è retro. Vuoi mica star fuori dal futuro? Quasi come se un cavetto fosse il peggio che offre la vita. Noi siamo senza cavi, noi dobbiamo essere in rete 24 ore al giorno.
Pare che siamo arrivati nel mondo dell’evoluzione incontrollata, anzi, dell’economia senza freni, la mancanza di etica si sta diffondendo con tentacoli lunghissimi e avvolgenti in ogni dove, senza alcun freno, dalla politica alla produzione (ammesso che quest’ultima ne abbia mai avuta). “Ai posteri l’ardua sentenza” diceva il poeta, al momento sappiamo che lasceremo loro le cure per le malattie.
Bellezza, un sostantivo che in questi ultimi tempi, spesso a vanvera e senza avere noi gli attributi, abbiamo imparato ad unire, più frequentemente di prima, all’aggettivo grande sulla suggestione di un film da Oscar (non Giannino, o, forse, sì …).
Non si può negare, però, che la bellezza in tutte le sue sfumature (da quella platonica ed angelica a quella diabolica e perversa) rappresenta, nel bene e nel male, un condizionamento per noi umani. Forse nemmeno le cosiddette bestie sfuggono a questa legge naturale, se si dovesse scoprire che nel caso in cui scelgano per accoppiarsi l’esemplare più bello (ma qual è il loro criterio di bello?) lo fanno unicamente perché esso è anche il migliore per garantire la migliore continuità della specie.
Ad ogni modo sarebbe da stupidi o da ipocriti non riconoscere che, almeno al primo impatto, la bellezza fisica sfonda più di una porta, anche se, per vestire degnamente i panni della centravanti di sfondamento e per fare goal, prima o poi sarà necessario che essa sfrutti, se ne ha a disposizione e lo sa fare, il cervello.
È questo che ti fa attribuire alla bellezza la giusta valutazione, che ti fa commuovere davanti ad un quadro, una statua, un tramonto, vomitare di fronte a tutte le storture per cui prevale la funzione di richiamo sessuale e, se si è solo sexy, si può, addirittura, con le conoscenze … bibliche adeguate, sedere anche in Parlamento. Ma, se in passato queste storture coinvolgevano come soggetto passivo solo le donne, siamo veramente sicuri che da un decennio almeno a questa parte ciò non valga pure per gli uomini?
Vale, vale, tant’è che ad uno sgorbio come il sottoscritto non rimane altra consolazione di fronte allo spot di George Clooney e del “suo” caffè che uscirsene con un Sì, ma quelle mossettine le so fare pure io; e poi, a furia di ripeterle, più che Clooney mi pare Clonato; e questo suo caffè più che famoso rischia di diventare famigerato.
Sull’altra sponda c’è chi, a proposito di Manuela Arcuri, sarebbe capace di dire Sì, ma ha una pupilla più grande dell’altra di mezzo micron.
Sull’altra sponda ancora … non voglio soffermarmi.
Voglio spendere, invece, qualche parola sugli epiteti più pittoreschi riservati alla bruttezza femminile. Per la par condicio un apposito post sarà dedicato a quella maschile (il tempo di aggiungerne qualche altro ai cinquemila epiteti che ho già collezionato …). A tal proposito voglio raccontarvi un aneddoto di nuovo tipo, un aneddoto … onirico.
Contrariamente al mio solito decido una sera di recarmi a cenare nel ristorante di mio cognato Giuseppe. Non faccio in tempo a varcare la soglia che una voce femminile dà l’allarme: Armapò [è il mio nome d’arte (?)] è qui!. Fuggi fuggi generale e in meno di dieci secondi il locale è vuoto. Non mi consola il fatto che più della metà degli avventori erano uomini . Il giorno dopo (strano, in Italia i servizi funzionano solo quando ti augureresti il contrario …) mi viene recapitata una raccomandata in cui Giuseppe mi diffida dal presentarmi in futuro nel suo locale e in più richiede un consistente risarcimento danni (e io che avevo pensato ad una cena a sbafo …). Meno male che la sola lettura della cifra ha posto fine a quell’incubo.
È tempo ora di ritornare in argomento e di giustificare la strana voce del titolo. Sculoffia è una delle tante usate per definire una donna grassa e sformata [(alias scarciòppula (=carciofo), giucculatera (=cioccolatiera), culutisporta (=culo di sporta), òccula (di origine onomatopeica=chioccia). Usarla è facile, spiegarne l’origine è tremendamente complicato, anche perché il maestro di questa scienza, il Rohlfs, si limita a rimandare a culòffia dove invita ad un confronto con il calabrese culòfra usato con lo stesso significato.
Credo che la prima cosa che venga in mente, senza essere maniaci sessuali (o, come ultimamente ho sentito dire, sensuali) sia culo e che s– abbia valore intensivo. Insomma, una formazione simile a sculacchiata che a Squinzano è sinonimo di donna volgare (alla lettera: dotata di culàcchiu, cioè di un grosso sedere che non ci pensa su due volte ad esibire), participio passato di sculacchiàre che a Nardò, però, viene usato riflessivamente col significato di abbandonarsi su una poltrona (anche nel senso traslato con riferimento, per esempio, ad un biscotto deformatosi a causa dell’impasto troppo morbido). Sì, ma togliendo s-, togliendo –culo-, mi rimane sullo stomaco un indigeribile, almeno per me, –ffia.
La strada che mi accingo ad intraprendere potrebbe essere definita serpentina … con tutti i rischi del caso.
Nel dialetto siciliano, a seconda delle zone, Culòvria, Culòrvia, Culòfia, Culòriva, Culòrva e Culòvra è il nome della grossa femmina della natrice o biscia dal collare. Tutte le varianti prima citate terminanti in –ia mi sembrano essere deformazione di un latino *colùbria, forma aggettivale (analoga all’attestata colubrìna=di serpente, da cui, attraverso il provenzale colobrina, la voce italiana che, per somiglianza, definisce un pezzo d’artiglieria, il cui calibro, all’inizio ridotto, andò via via aumentando) di còlubra2=serpente femmina. Tra di loro la più vicina foneticamente a sculòffia appare culòfia, cui sarebbe stato aggiunto in testa un s– intensivo (lo stesso di sculacchiare), mentre la geminazione di f potrebbe essere di natura espressiva.
Oltretutto la proposta mi pare in linea non solo sul piano fonetico e semantico ma anche su quello, per così dire ideologico: ancora il nome di una bestia usato da noi umani per stigmatizzare un nostro difetto …
Se tutto ciò che ho fin qui detto a proposito di sculòffia è esatto, chiedo umilmente scusa, anche a nome di qualcuno che sarà inorridito alla vista della prima foto di testa, al simpaticissimo, almeno per me, serpente; a meno che la nostra voce non abbia lo stesso etimo di scartoffia3 oppure sia incrocio tra culo e il toscano loffio=floscio, cascante (di origine onomatopeica, la stessa di loffa=peto non rumoroso ma, presumibilmente …) e che quindi il culo, cacciato dalla porta, non rientri, con tutti gli onori, per quanto silenziosi ma non senza effetti per l’olfatto, dalla finestra.4
2 Da còlubra è derivato per sincope il portoghese cobra, da cui l’analoga voce italiana. È questo un altro esempio del retaggio maschilista della lingua: il nome di un serpente velenosissimo trae la sua origine da quello che indicava in latino l’esemplare di sesso femminile. A questo punto, in pieno tempo di quote rosa e di parità di genere (mi fa imbestialire peggio di un cobra l’idea che in Italia pure l’ovvietà debba essere sancita per legge … perché si continui a non rispettarla), ci sarebbe da chiedersi di che genere era il serpente per colpa del quale (anzi, tanto per cambiare, di Eva) a suo tempo ci giocammo l’Eden …
3 Voce di origine milanese (col significato originario di carta da gioco d’infimo valore), da scartà=mescolare le carte; fare le carte; anche scamòffia (usato pure nel senso di leziosità, ma in questa seconda accezione secondo me è deformazione di smorfia).
4 In Antonio Garrisi, Dizionario leccese-italiano, Capone, Cavallino, 1990, al lemma culòffia/culòffa leggo: “forsedal latino culus offae culo a focaccia”. Per spiegare, però, foneticamente la –i– di culòffia bisognerebbe, tutt’al più, ipotizzare la seguente trafila: culi òffula (=piccola focaccia di culo; òffula è diminutivo di offa)>culòffla>culòffia; tuttavia anche così convince poco, data la situazione anatomica del soggetto in questione, proprio il diminutivo.
Il Consiglio Comunale di Poggiardo (Le) è deciso: ‘Nessun impianto di compostaggio sul nostro territorio!’
di Paolo Rausa
L’ipotesi prevista dal Piano Regionale per la Gestione dei Rifiuti Solidi Urbani di trasformare l’attuale impianto di bio-stabilizzazione in un impianto di compostaggio trova la più decisa e netta opposizione da parte del Consiglio Comunale di Poggiardo, riunito in seduta straordinaria il 21 marzo scorso. Una seduta appassionata che ha valutato tutte le problematiche ambientali e sanitarie che in questi anni si sono riversate sul territorio e sulla popolazione, vittime del traffico dei mezzi pesanti e dei miasmi. La decisione storica per l’intera comunità di Poggiardo e Vaste è stata assunta all’unanimità sia contro qualsiasi ipotesi di trasformazione o conversione dell’attuale impianto di bio-stabilizzazione in impianto di compostaggio sia contro qualsiasi eventuale ipotesi di aumento della capacità ricettiva dell’impianto esistente. Questa contrarierà si dilata sino ad esprimere parere preventivo negativo contro qualsiasi ipotesi di realizzazione o allocazione di nuovi impianti per il trattamento dei rifiuti, sia pubblici che privati, sul proprio territorio. Il passo successivo nella deliberazione del Consiglio comunale è di richiedere al Presidente della Regione la chiusura dell’attuale impianto di bio-stabilizzazione, ritenuto inutile alla luce del nuovo piano di gestione dei RSU basato sull’incremento sostenuto della raccolta differenziata e pericoloso per la salute pubblica, non essendo posizionato a distanza di sicurezza dall’abitato e da strutture ricettive e scolastiche, almeno 2.500 come prevedono le norme d’igiene. La comunità non intende assumersi ulteriori costi per modifiche impiantistiche o la disattivazione dell’impianto, ai quali deve provvedere il bilancio regionale – aggiunge la deliberazione. Ora gli Amministratori, soddisfatti per la presa di posizione assunta, si preparano ad ingaggiare la battaglia decisiva con le autorità superiori, consapevoli – come sostiene e rivendica il Sindaco Giuseppe Colafati – che ‘La nostra comunità ha già dato molto in termini di servizi e come esposizione al rischio ambientale e della salute pubblica. E’ ora di voltare pagina!”
Il Camaleonte mediterraneo (Chamaeleo chamaeleon Linneus, 1758) è l’unica specie di camaleonte presente in Europa. Autoctono, anche se rarissimo, ma presente in natura anche in Salento, sud della Puglia dove vi si riproduce, non a caso, spontaneamente. Ne è stato ritrovato un nucleo selvatico negli anni passati nella contrada Arneo, l’ ultima vasta contrada salentina ad esser stata selvaggiamente disboscata nel Salento, denaturalizzata dall’ uomo, e per questo ancora con alcuni interessanti relitti floro-faunistici da salvaguardare e ridiffondere.
Si tratta di una specie diffusa in maniera ormai frammentaria in diverse località dell’ Europa meridionale: in Grecia, Penisola Iberica (come in Andalusia), ex Jugoslavia, Bosforo, Creta, Puglia, e alcune segnalazioni di questa specie europea anche in Sicilia e a Malta, e nei decenni passati anche in Sardegna, Friuli e Delta del Po!!! Vive poi la medesima specie anche nel Sud-Est Asiatico e nel Nord Africa.
A rischio di estinzione da scongiurare assolutamente attraverso il suo ripopolamento e ricostruzione dei suoi habitat mediterranei, che ben deve essere attuata dagli enti preposti alla tutela della biodiversità originaria euro-mediterranea! Tale diffusione selvatica della specie ancor oggi, a macchia di leopardo purtroppo ormai, è comunque una prova ulteriore, se ve ne fosse bisogno, dell’autoctonato di questa specie selvatica in Europa meridionale nel passato, quando la sua diffusione era certamente ben più omogenea.
Ma oggi, il paradosso: tale rarità, e gli occasionali rinvenimenti, la perdita della memoria storica naturalistica, portano talvolta taluni, come accaduto nel Salento, a gridare all’ alloctonato e alla specie aliena da “sterminare”, al ritrovamento di un così importante assolutamente innocuo ed importante vivo fossile vivente dell’antica fauna euro-mediterranea! Immaginate che assurdità, si rinviene qualcosa dal passato, ancor vivo, e invece di gridare “evviva, ergo massima cura, tutela e impegno ambientalista”, si rischia di scatenare follie sterminatrici eco-suicide! E poi come può meravigliare la presenza di un rettile così discreto di un genere dalla maggiore diffusione nella vicina Africa, che tanti dimenticano è un continente vicinissimo all’ Europa e che bagna tante coste mediterranee!? E lo stesso Salento è geologicamente connesso alla zolla-placca tettonica africana, geologicamente parlando. Come può meravigliare tale fauna odierna, quando i nostri progenitori sapiens incontravano in Europa, e rappresentavano sulle pareti delle nostre grotte in epoca paleolitica, leoni, elefanti e rinoceronti, che molto probabilmente i nostri stessi progenitori contribuirono ad estinguere localmente!!!?
E nel Salento, il Camaleonte è un animale ammantato di tante leggende! Alcuni esemplari recentemente ritrovati, mi hanno raccontato, pare siano stati definiti da cittadini locali, di cultura “grika”, cioè greco-salentina, “dracuddhi”, draghetti, traducendo dal dialetto grecanico salentino. Un termine greco, “drago”, frequente e di lato impiego nel regno dei rettili.
Non solo, secondo una interpretazione etimologica, il termine greco “dragon”, deriverebbe da una radice significante proprio vista, occhio, guardare, e nel camaleonte proprio la vista e le particolarità del suo sguardo sono elementi che affascinano e colpiscono molto l’ osservatore attento. Ma il camaleonte salentino era, con ogni provabilità, anche il mostruoso mitico “fasciuliscu”, della tradizione basso salentina, ed in particolare del magliese.
Si diceva, raccontavano le nonne di Maglie (città nel cuore del basso Salento), fosse un piccolo mostro che, diceva la gente, nasceva dall’uovo deposto eccezionalmente da un gallo, che notoriamente in quanto maschio non depone le uova come la sua femmina, la gallina.
Tale essere mostruoso e dalle piccole dimensioni con il suo sguardo terribile era in grado di uccidere gli animali, solo puntando i suoi occhi negli occhi delle sue vittime, si riteneva, motivo per cui se si osservavamo strane, difficilmente spiegabili altrimenti, morti di animali domestici, anche di grandi dimensioni, si immaginava fosse nato un “fasciuliscu” e si doveva andare alla ricerca del mostruoso piccolo essere per ucciderlo e fermare così la moria. A volte, in alcune varianti, si racconta che ipnotizzasse le vittime, le “fatasse”, con lo sguardo. Si riteneva fosse solito nascondersi sotto “le pile”, le grandi vasche scavate in blocchi unici di pietra diffuse nella civiltà contadina salentina e talvolta sollevate da terra su dei sostegni, poste in cortili e masserie.
A volte viene descritto come avente un solo occhio, e come somigliante grosso modo ad un mostruoso “purginu”, il pulcino appena nato dall’ uovo. E’ infatti “fasciuliscu” una corruzione locale salentina del nome dell’antico temibile “basilisco” dei bestiari antichi, simbolo oggi del paese griko di Sternatia (Lecce) nella sua iconografia fantastica.
Termine di origine greca, “basilisco”, che vuol dire piccolo re; era ritenuto il “re dei serpenti”, da cui il suo nome greco. Del mito del basilisco abbiamo già attestazioni di epoca romana, ed è meraviglioso osservare come, con continuità culturale ininterrotta, il mito popolare sopravvissuto nella città di Maglie del “fasciuliscu” conservi elementi delle leggende sul basilisco riportate per iscritto già in età romana e poi nel medioevo.
L’identificazione con il camaleonte, pur nelle aggiunte mitico-fiabesche, è più che certa! La conformazione della testa dell’animale, il camaleonte è un rettile, a mo’ di corona, o meglio di mitra, da cui l’appellativo di re dei serpenti, dei rettili. La sua cresta da cui l’ associazione con la cresta del gallo. La presenza nel mito del basilisco dell’ elemento dell’ uovo, e il camaleonte depone le uova, come in genere ogni rettile. La commistione con uccelli, il gallo, e anfibi, il rospo in particolare, che talvolta coverebbe secondo i bestiari medioevali l’uovo deposto da un anziano gallo, da cui nascerebbe il basilisco; la raffigurazione mitologica del basilisco che innesta elementi morfologici del gallo per la testa e del camaleonte, (ad esempio la coda e il busto del basilisco son quelli del camaleonte), e che affonda anche le sue ragioni nelle vicinanze ben visibili, e filogenetiche tra anfibi, rettili e uccelli, osservabili nel camaleonte; e poi il discorso nei bestiari dello sguardo e del fiato mortale del basilisco, ben traducono a mio avviso la caratteristica del camaleonte di fulminare le sue prede con lo sparo della lunghissima lingua retrattile ed appiccicosa con cui cattura e porta fulmineamente alla bocca le sue prede, solitamente insetti.
Da non confondere il basilisco della antica tradizione popolare e dei bestiari, con alcuni rettili scoperti e viventi nell’ America tropicale, (come quello qui in foto, un Basilisco verde), che tassonomicamente dagli zoologici sono stati chiamati con l’ uso del medesimo antico e mitologico nome, “basiliscus”, per designarne il loro comune genere.
Siamo nella genesi dei miti anche spesso di fronte a forme di tentativi proto-scientifici di spiegazione dell’ osservazione naturalistica. E poi l’incedere lento del camaleonte senza fuggire via, (sperando di passare inosservato, mimetizzato ad eventuali suoi possibili predatori), come quasi di chi non ha alcun timore, come un re coraggioso; lo sguardo del camaleonte quasi unico tra gli animali superori, e dalle suggestioni misteriose, con i suoi bulbi oculari che possono ruotare indipendentemente l’uno dall’ altro, un aspetto che pare quasi conferire all’animale il magico potere di destabilizzare ed ipnotizzare la sua vittima; elemento della intensità dello sguardo che spiega anche la variante fiabesca magliese del “fasciulisco” con un solo fatale occhio.
AMIAMO IL NOSTRO CAMALEONTE SALENTINO!
SPERO DI POTER VEDERE NASCERE NEL SALENTO INTERE RISERVE OASI NATURALI DI TUTELA E RIPOPOLAMENTO CON OGNI CURA SCIENTIFICA DEL NOSTRO CAMALEONTE, (per poi da lì poter passare ad una sua ridiffusione in tutto il territorio), COME SON PRESENTI AD ESEMPIO IN SICILIA, PENSIAMO AL PARCO NATURALE DEI NEBRODI E A QUELLO DELLED MADONIE DOVE LA MEDESIMA SPECIE ANCORA VIVE!
BASTA SPERPERI IN INUTILITA’ VERGOGNOSE CHE PARLANO DI BIODIVERSITA’ NEL SALENTO MA CHE IN REALTA’ SON SOLO VORAGINI INUTILI DI SPECULAZIONE, GLI ESEMPI, TANTISSIMI… a cui è ora di dire BASTA!
Nota tratta da internet: “Nella terra salentina il camaleonte è stato segnalato nella penisola italiana, per la prima volta, in Puglia, il 5 settembre 1987 da Roberto Basso; sito di ritrovamento furono le campagne di Nardò, in provincia di Lecce. La scoperta suscitò non poche perplessità e diffidenze fra gli erpetologi. Successive ricerche portarono all’individuazione di un’area estesa (un rettangolo di circa 50 x 20 km), sempre sul versante jonico dove la specie è diffusa e nota ai contadini, che anzi lo ricordano “da sempre”; basti dire che – per la sua stranezza e presunta pericolosità e comunque in accordo con l’atavica avversione dell’uomo agricoltore per tutto ciò che è rettile e selvatico – se lo trovano, puntualmente lo uccidono, o lo uccidevano (va registrata oggi un’acquisita sensibilità in seguito agli appelli, alle informazioni corrette e ad un’opera di divulgazione naturalistica).”
Non poesia è un recente libro di Elena Maria Fabrizio, pubblicato per la collana “il Labirinto” dalla casa editrice Il Laboratorio di Parabita. Sulla prima di copertina, un’opera di Chagall, “Schizzo per l’aria dei tempi”, mentre nella quarta di copertina leggiamo che l’autrice, docente di Filosofia e Storia nei Licei, è originaria di Napoli ma vive da molti anni a Lecce. “Attenta e puntuale interprete delle opere del filosofo contemporaneo Habermas, ha pubblicato saggi ed articoli sulle problematiche della Scuola di Francoforte e sul marxismo, interessandosi, inoltre, di Utopia storica”. La sua è una poesia dotta, piena di riferimenti alti, attingendo ella dal proprio campo specialistico sollecitazioni, spunti, ispirazioni che fondano e sorreggono il corpus poetico del libro. Il volume è ripartito in diverse sezioni e i vari nuclei tematici sono costituiti da liriche in versi sciolti che procedono attraverso un tessuto comunicativo che si dipana poematicamente in corso d’opera. Lontana da ogni maniera, l’autrice ricerca una comunicazione con i propri lettori attraverso delle strategie di coinvolgimento che rendono non privi di interesse questi componimenti: ben orchestratI, certo lontanI da una facile cantabilità, nei quali il rispecchiamento poetico avviene principalmente attraverso sophia . Queste liriche, mediante un dire poetico lucido e definitorio, ben sussumono l’habitus da cui nasce la scrittura della Fabrizio.
“Non poesia”: Il titolo vuole essere manifesto programmatico dell’opera che si apre proprio con la sezione omonima che raccoglie le due liriche “Non poesia 1” e “Non poesia 2”. Una dichiarazione di modestia e di difesa preventiva dagli strali della critica titolata o un’apertura al nichilismo più totale da parte dell’autrice di questa raccolta? Né l’una né l’altra, credo, ma la sua poesia del “non” vuole essere una forma di resistenza estrema alla condizione di ingiustizia e confusione in cui versa la nostra società moderna. Una forma di lucida, dotta e razionale difesa dal “dolore del mondo”, tema su cui verte la seconda sezione del libro. Il dolore certo non si può cancellare, come non si possono cancellare la guerra, la fame, la privazione, le sperequazioni sociali, le dittature, la corruzione, non si può negare l’odio, non si possono negare l’ignoranza, il fanatismo, la violenza. Ma se tutto ciò non si può negare, non si può negare nemmeno il suo contrario e questo è il motivo numinoso, l’ancora di salvezza, il tesoro ai piedi dell’arcobaleno, la luna in fondo al pozzo, insomma il messaggio di speranza che il libro reca in sé. Quella redenzione spirituale cioè che l’autrice, nelle pagine di questa raccolta, cerca accoratamente, di umano, umanissimo bisogno.
In quella negazione, nel “non” del titolo, c’è il Dio nascosto dell’Antico Testamento, che è alla base di tutta la teologia negativa secondo la quale si può conoscere Dio solo a partire dal suo contrario: dunque, forzando un po’ nell’interpretazione, direi che l’autrice, attraverso la via negationis giunge, denunciando le storture e i guasti del mondo, a realizzare cosa certamente Dio non è, cosa certamente non vuole. Proprio la conoscenza del dolore del mondo e quindi la presa d’atto dell’errore, dell’inanità e della fallibilità dell’uomo, la fanno avvicinare a Dio, verso il quale dimostra un anelito costante che sorregge buona parte, o quasi tutta, del suo corpus lirico. In quella negazione, forse, c’è il “deus absconditus” di Pascal secondo il quale il nascondimento di Dio è un omaggio alla libertà dell’uomo di cercarlo, al suo libero arbitrio. Dunque, come non si può negare il male e la nequizia dei tempi, scandagliati nella sezione “Il castello”, così non si può negare la speranza. Anche perché, secondo l’insegnamento di Adorno, uno dei massimi esponenti della scuola di Francoforte, di cui la Fabrizio è una studiosa (e il quale scrive “la vita non vive” in epigrafe alla sua opera “Minima moralia”), nonostante quando speriamo nella salvezza una voce ci dice che la speranza è vana, noi dobbiamo coltivare quella speranza perché, pur impotente, e con i disastri perpetrati dall’umanità che sempre più regredisce ad una condizione quasi ferina, essa è linfa vitale, ci permette di continuare. E la speranza brilla, come prisma di rifrazione, nella sezione intitolata “Eccezioni d’amore”, significativamente suggellata dal dipinto di Matisse “la gioia di vivere”.
Nella sezione “Virtus activa”,sulla quale mi piace soffermarmi ( il lettore, si sa, si appropria di un libro ed opera sempre una propria selezione personale), troviamo “Gli esclamatori” (“bisogna sentirlo questo grido, Tu Uomo urla!”), che mi fa pensare per un verso a “The Howl”di Allen Ginsberg e per un altro a certe canzoni di Adriano Celentano (soprattutto a queste ultime) per un’ intonazione moraleggiante tipica di molte opere del cantante. Ma questa sezione del libro è comunque quella che mi ha colpito di più sia per l’impegno civile dei brani sia per la stesura più felice, chiara, distesa, degli stessi. “Tu Cristo, scendi dalla Croce, ricomincia daccapo/ ritorna bambino/ onora ancora una volta la Sinagoga/”, recita l’autrice in una delle poesie e si rivolge al Figlio di Dio dandogli del tu e chiedendogli di ritornare fra gli uomini ottenebrati dalla cieca violenza del potere, del malaffare, della corruzione e cercando di convincerlo “dell’umano universale bisogno di un altro Anno Zero”. Anche questa poesia mi fa pensare ad una canzone, questa volta di Antonello Venditti: un vecchissimo brano del cantautore romano, intitolato “A Cristo” nel quale l’autore rivolge a Gesù, in romanesco, pressappoco le stesse sollecitazioni della Fabrizio. Ecco in “Borghesia barocca”, un atto d’accusa nei confronti di questa classe sociale che dall’essere stata così importante nella storia del nostro paese, oggi si arrocca su posizioni passatiste, conservatrici, insomma anacronistiche che ne segnano il passo e ne caratterizzano il disperato tentativo di restare pur sempre a galla. Ecco un elogio della verità ed ecco, del pari, anche un provocatorio elogio del suicidio e del suicida, di colui cioè che, dandosi la morte, dona sé stesso, nel sacrificio di sé, a chi però, abbagliato da un vitalismo che l’autrice definisce “stupido”, non può apprezzare quel dono estremo. Ecco una macabra “passeggiata al cimitero” ed una elegia della Grecia, di quella nazione cioè che ci fu Magna Mater, la Megalè Ellàs, poiché ci diede, culla del Mediterraneo, il pensiero, la poesia, la filosofia, insomma quella cultura classica alla cui fonte anche l’autrice si è abbeverata. Francescana la vocazione che sottende il brano “La condizione della felicità”, mentre si avverte una ricerca costante in “Onore alla realtà”. Certo la Fabrizio non è una poetessa di lungo corso, non può la sua poesia essere intesa come sacerdotale missione; sono, i suoi versi ,lontani dallo “scandalo della poesia”, di quella poesia cioè che è pietra di paragone (skandalon appunto) in cui inciampano gli altri, i non illuminati, i non veggenti (per dirla con Rimbaud) e si rendono conto dei luoghi comuni. La Fabrizio è una raffinata intellettuale, semmai una filosofa prestata alla poesia.
Si giunge così alla sezione intitolata “Inconscio”. “Siamo sempre in quel luogo dal quale siamo appena andati via e vorremmo sempre essere dove ora non siamo”, scrive Elena Fabrizio in una delle poesie più belle, “Siamo quest’inquietudine che a dire è inequivocabile / a sentire è inafferrabile / impossibile a condividere / oscura ci trattiene dal contagiare la terra bruciata”. La poesia, dunque, come canto di prefica, come epicedio per la morte di una civiltà, come macabra danza sul cadavere della distrutta umanità? Ma, in filigrana, fra le righe si avverte sempre quell’anelito di speranza, quella promesse de bonheure del messaggio escatologico cristiano. Dall’’homo homini lupus di Hobbes (richiamato anche dall’autore della prefazione al libro, Manrico Murzi) della società moderna, la Fabrizio sa che si potrebbe giungere all’homo homini deus est, si suum officium sciat di Cecilio Stazio (da lei richiamato della lirica “Spinoza-passim”): cioè che l’uomo davvero potrebbe invertire la rotta se recuperasse brandelli di solidarietà e umana compartecipazione. Dallo spettro del nichilismo iniziale allora siamo giunti ad un’apertura finale. E cos’è che può salvare il mondo dal rischio di nientificazione cui i mali del secolo lo stanno portando, se non la bellezza? Quella bellezza che, come afferma Stefano Zecchi, fondatore del movimento mitomodernista, è la forma antinichilista per eccellenza, il luogo dove la verità si disvela. E questa bellezza consiste nel recuperare l’humanitas greca e latina, quel concetto classico di umanesimo che può portare armonia e salvezza del mondo. Nella bellezza si possono addirittura ricongiungere mithos e logos, pensiero mitico e illuminismo, fede e ragione. E al “Generare nella bellezza” è dedicata l’ultima sezione del libro. Così con un omaggio a Giordano Bruno ( “Il nolano”) si conclude questo volumetto, e poesia e filosofia si riuniscono insieme grazie alla penna di Elena Fabrizio.
Perché nei paesi del Salento l’abbattimento di un’alberatura non passa inosservata? Ci sarà un elenco per ogni realtà amministrativa che restituisca dati esatti circa la quantità del verde urbano per abitante?
La legge n 10 del 14 gennaio del 2013, già in vigore, obbliga i comuni con più di 15.000 abitanti a piantare un albero per ogni nascita o per ogni adozione registrata all’anagrafe. Quali responsabili del verde urbano hanno letto questo recente regolamento e quante amministrazioni hanno analizzato gli studi ISTAT su tale argomento?
Dal duemilaundici, il verde urbano rappresenta il 2,7% del territorio dei comuni capoluoghi di provincia, anche se quasi il 15% della loro superficie è incluso nelle cosiddette aree naturali protette. La superficie agricola utilizzata corrisponde nella media del 45,5%. Mediamente, un abitante italiano ha 30,3 mq di verde urbano e dall’osservazione delle tavole si evince la classifica.
In quanto a disponibilità di verde per abitante, la nostra bellissima e dotta Lecce, purtroppo, è una delle ultime, con i suoi miseri 5,6 mq rispetto a Matera, la prima in Italia, con 978,2 mq. Per rendere meglio l’idea, in proporzione, quest’ultima città ha verde urbano pari a circa due campi regolari da tennis, mentre il capoluogo salentino dovrebbe appagarsi con circa la metà di corridoio di mezzo campo (1,4 m x 5,5 m), appena la superficie per piantare un filare di basilico. Se si considera che un passo d’uomo nell’unità di misura romana corrisponda a 75 centimetri, circa due piedi, è il caso di dire davvero che si esce per fare “quattro passi” nel verde.
Esaminando la citata legge, si potrebbe avere l’opportunità di rivalutare concretamente il patrimonio di piante nell’ambiente urbano quando negli articoli si descrive quell’obbligatorietà di pubblicare i bilanci arborei che alla fine di ogni mandato l’amministratore deve dettagliare e firmare.
La demolizione di un’alberatura a volte programmata per una giustificata causa o perché irrazionale e inaspettata, rende sempre un briciolo di amarezza e rabbia nell’animo dei residenti non solo per un motivo ambientale ma anche per difendere una radice storica o etica per cui ogni rovina arrecata deve essere qualificata e quantificata anche con queste valutazioni.
Il cosidetto Sprawl urbano o dispersione urbana, indica quell’avanzare rapido e disordinato di una città che si manifesta tra le case di periferia oppure fra quei luoghi rurali prossimi ai paesi e destinati a una decadenza certificata.
Nel tipico segno dello Sprawl urbano si evidenzia sempre una puntuale e sistematica riduzione della densità abitativa e degli spazi verdi, un tempestivo consumo del suolo, un’assenza e una distanza dei servizi pubblici più scontati e quindi di conseguenza un’insufficienza di mobilità alternative, come le piste ciclabili.
In molti casi, questo fenomeno potrebbe essere connesso a quell’arte del governo di non essere in grado o di non gradire lo sviluppo civile di un quartiere anche con il fermo diniego di progettare parchi e giardini.
Si evidenzia, con maggiore frequenza, la raffinata pratica di capitozzare o diminuire in qualche modo quella libera facoltà della pianta di svolgere la fotosintesi, creandogli ambienti sfavorevoli per destinarla a disseccamento certo, ridurne la sua longevità o trasfigurandola in elementi spogli, brutti e inutili.
Le città, in questo modo, ci appaiono sottratte di altri spazi verdi, con un modello che coincide a qualcosa di non ben definito, illogico e indescrivibile, forse frutto di una dilagante biofobia o di chissà che altro.
Nel lento fenomeno della dispersione urbana, si sbiadisce il confine tra città e campagna, lo spazio è comunemente destinato a nuovi parcheggi, a un uso funzionale delle autovetture che ci consentono di raggiungere con semplicità i centri di lavoro, quelli commerciali e ludici.
Il risultato è che l’urbanizzazione si accresce in misura molto superiore rispetto al concreto aumento della cittadinanza; è una scansione accelerata che tende a far insediare spesso serie di quartieri privi di piante, colori e di altri elementi che animano una città vivibile.
Occorre perciò un nuovo approccio, un’ecologia urbana che non sia solo lo sporadico ideale del solito ambientalista ma un’esigenza dovuta, un vivace monito di quelle comunità coraggiose che comprendono la quotidiana importanza degli alberi o che sono in grado di segnalare con nerbo gli abusi fatti sugli alberi.
Mettete in ammollo i legumi in acqua fredda almeno 12 ore prima della cottura unite un cucchiaino di bicarbonato e un cucchiaino di sale. Scolateli, risciacquateli sotto l’acqua corrente e poneteli in una pignatta di terracotta coperti integralmente da acqua fredda. Unite una cipolla tagliata in quattro, 3-4 pomodorini da serbo spellati e un mazzetto guarnito realizzato legando insieme un ciuffo di prezzemolo, una costa di sedano e a discrezione qualche rametto di finocchietto selvatico. Portate il liquido ad ebollizione, coprite la pignatta, abbassate la fiamma e fate cuocere i piselli per un paio d’ore. Verificate la cottura e se necessario prolungatela aggiungendo dell’acqua bollente. Quando i piselli saranno cotti, teneteli da parte e lessate delle cime di rapa o delle verdurine selvatiche. Prendete delle fette di pane casereccio, tagliatele a tocchetti e friggeteli in olio di frantoio, sino a fargli ottenere una colorazione bruno-dorata. Ponete i piselli in una ciotola, adagiatevi sopra la verdura precedentemente lessata, condite generosamente con olio di frantoio e coprite il tutto con i “muèrsi”, ossia con i tocchetti di pane fritto, mescolate diligentemente e servite ben caldo.
Crema di piselli con le cozze
Ingr. : 500 g di piselli secchi , una grossa patata pasta gialla, una cipolla media, 1 kg di cozze, olio di frantoio, fette di pane di farina di grano duro raffermo, origano, pepe, sale.
Mettete i piselli spezzati ammollati per almeno 12 ore, in una pentola insieme alla patata sbucciata, lavata e tagliata a fette, la cipolla tritata e un pizzico di sale, coprite il tutto d’acqua fredda. Portare a ebollizione, abbassare la fiamma al minimo, coprire e lasciate cuocere lentamente sino a completa cottura, quindi passate il tutto in modo da ottenere una densa crema, infine aggiungete un filo d’olio di frantoio e aggiustate di sale. Nel frattempo lavare molto bene le cozze, metterle in un’altra casseruola insieme all’origano, poco pepe e in filo d’olio. Copritele e cuocetele per 7-8 minuti a calore vivace onde schiudano bene le valve, lasciatele intiepidire ed eliminate le valve. Tagliate il pane raffermo in piccoli quadratini e friggetelo in olio di frantoio. Versare la crema di piselli pronta sui piccoli crostini di pane, aggiungere le cozze senza mescolare e servire immediatamente.
Piselli verdi con i carciofi
Ingr. : 700 g di piselli verdi sgranati, 7-8 carciofi, una cipolla, un rametto di menta (facoltativo), olio di frantoio, sale.
Fate rosolare leggermente in un filo d’olio una cipolla finemente tritata, unite i piselli, fateli cuocere per qualche minuto e aggiungete i carciofi nettati e affettati e il rametto di menta, regolate di sale e portate a cottura a fiamma bassa e a casseruola coperta, aggiungendo acqua ove ve ne fosse bisogno.
Palombo con i piselli
Ingr.: 800 g di palombo a fettine, 700 g di piselli verdi sgranati, una cipolla, prezzemolo, passata di pomodoro, olio di frantoio, sale, pepe
Scaldate in una padella due cucchiai d’olio, rosolatevi leggermente mezza cipolla tritata e unite i piselli e un paio di mestoli di passata di pomodoro. Versate poi tanta acqua quanta ne sarà necessaria per coprire a filo i piselli e lasciateli cuocere per circa mezz’ora. A cottura avvenuta unite le fette di palombo, salate e pepate, cuocete a fuoco basso per una decina di minuti e servite. In alternativa al palombo si può utilizzare lo smeriglio che è un altro ottimo squallide, abbastanza presente nelle acque nostrane.
Galletto con i piselli
Dopo aver fatto un soffritto con olio di frantoio e cipolla tritata, mettetevi a rosolare un pollo ruspante di circa un chilo e mezzo, salate quanto basta, bagnate con brodo bollente, aggiungete 2-3 dl di passata di pomodoro e portate a cottura. Ritirate il pollo, mantenendolo caldo in disparte, ponete nell’intingolo di cottura un chilo di piselli verdi e cuoceteli allungando con qualche mestolo di brodo. Quando i piselli saranno cotti, rimettete nella stessa casseruola il pollo già cotto, tenete il tutto sul fuoco per alcuni minuti e servite.
Il Pisello Secco di Vitigliano, detto anche “piseddhru quarantinu” o “piseddhru cucìulu” identifica un altro particolare ecotipo locale di pisello coltivato nel territorio di Vitigliano (frazione di Santa Cesarea Terme) da tempo immemorabile, seguendo tecniche colturali tramandate da generazioni. Il seme si presenta di piccole-medie dimensioni, liscio, di color senape, con sfumature verdi e di forma tondeggiante, la pianta fiorisce scalarmente, quindi, sulla stessa pianta si possono riscontrare contemporaneamente semi allo stato ceroso, baccelli in maturazione e fiori. Il termine “quarantinu”, evidenzia la brevità del ciclo vegetativo di questo pisello, che offre risultati migliori quando viene seminato tardivamente, nel mese di gennaio. La trebbiatura si esegue manualmente sulle caratteristiche aie con l’ausilio del cosiddetto “farnaru occhi tunnu” ossia di un particolare setaccio dal fondo in lamiera con fori circolari. Infine, onde garantire la conservazione dei piselli nel tempo e scongiurare l’infestazione di tonchio si procede a scaldare i piselli in forno e una volti raffreddati vengono stipati nei freschi tradizionali contenitori in argilla smaltata. Il termine “cucìulu” che vuol significare di facile cottura cottura” mette in evidenza la particolare tenerezza degli stessi che possono essere sottoposti a cottura senza il preventivo ammollo. Inoltre, in fase di cottura non si verifica la spiacevole separazione del tegumento e gli stessi si mantengono integri. Il sapore è molto grato e caratteristicamente dolciastro. Fra quelle elencate, l’ecotipo attualmente più coltivato è il Pisello Nano di Zollino, questo legume, nel corso del tempo ha raggiunto un armonico equilibrio con le particolari condizioni climatiche e pedologiche di questo comune salentino anche grazie alla sapiente opera di selezione massale accuratamente compiuta dagli agricoltori locali. Proprio la virtuosa interazione fra fattori naturali ed umani ha consentito la messa a punto e la stabilizzazione dei pregiati caratteri di questo pisello. Le piante, caratterizzate da un ridotto sviluppo del fusto, portano a maturazione numerosi baccelli, di medie dimensioni, contenenti al massimo cinque semi, utilizzati esclusivamente allo stato secco. La coltivazione che viene effettuata esclusivamente con tecniche di coltivazione tradizionali e rigorosamente in aridocoltura, prevede una diligente scelta dei terreni di coltivazione, che devono assicurare una buona riserva idrica e una buona esposizione. Vengono inoltre evitate attentamente eventuali forme di “inquinamento genetico” ponendo attenzione che siano collocati a distanza sufficiente ad evitare ibridazioni, ed eliminando dai campi le piante che presentano caratteristiche morfologiche diverse da quelle tipiche del “Pisello Nano di Zollino”. Coltivato prevalentemente come pisello da granella secca, viene seminato tardivamente onde limitare i danni da infestazione di orobanche. Viene raccolto a pianta intera, e onde garantire l’integrità del seme, viene trebbiato rigorosamente a mano, segue una certosina opera di cernita a tavolino. Presenta ricercate caratteristiche organolettiche e la particolarità di cuocere perfettamente pur senza sfaldarsi.
La comune origine onomatopeica, a parte lo slittamento dal rumore alla forma nel tympànium pliniano, spiega anche tamburo, dall’arabo ṭunbūr (strumento musicale a corde) incrociato con ṭabūl=tamburo. La generica sfera semantica di battere finalizzata all’idea di chiudere spiega tappo1 (dal franco tappo), tampone2 (dal francese tampon) e il nome commerciale tampax3.
La stessa radice della voce greca potrebbe aver dato origine, da un originario *στύπτω4, al latino stupère(da cui l’italiano stupire, conslittamento astratto dell’idea di battere, colpire); e alla sua radice potrebbe collegarsi anche, nonostante il diverso vocalismo, stampa(da stampare, a sua volta dal francone *stampon=pestare; a tal proposito faccio notare la comunanza, solo semantica, con l’inglese press, che è dal latino pressare, intensivo di prèmere; e non mi pare casuale nemmeno il fatto che nel gergo tipografico timpano è nella stampa a torchio il telaio di ferro coperto da una tela sulla quale viene posto il foglio da imprimere); stesso discorso per il salentino stumpareche il Rohlfs collega con il greco moderno στουμπόνω=pestare5.
E tumb tumb (quasi una voce da fumetto), prima che potesse essere adottato da qualche retrogrado non ancora diventato sordo … per stigmatizzare la sua avversione alla disco music, era stato già inventato dal futurista Marinetti per celebrare, almeno in questo il passato è peggiore del presente …, la guerra, il terreno purtroppo non unico ma privilegiato per il trionfo della cosiddetta umanità sulla nostra, sempre da noi così detta in riferimento a tutti gli altri animali, bestialità …
Continuo con una nota autoironica. Se anziché l’autore fossi stato il lettore di queste note il commento sarebbe stato: attentu cu nno ttuppi! (attento a non inciampare!). Ma, ironia, questa volta, del destino, ttuppare sembra avere il suo esatto corrispondente italiano, formale e semantico, in intoppare, considerato composto da in+toppo. Toppo (=ceppo) vien fatto derivare, sia pur dubitativamente, dal latino medioevale toppus=cumulo, a sua volta dal franco top. Mi pare più congruente da un punto di vista semantico ipotizzare, invece, che ttuppare (con sostituzione di ad– iniziale rispetto all’in- della parola italiana, a meno che la geminazione di t iniziale non sia dovuta a motivi espressivi) e, dunque, intoppare siano derivati proprio dalla radice del verbo greco con cui è iniziato questo post.
Come dimenticare, poi, volando per un attimo verso lidi non molto lontani e facendo contemporaneamente un tuffo nel passato, Tuppe, tuppe, Mariscià?6 (È permesso, maresciallo?), la canzone-guida dell’omonimo film del 1958? Tuppe tuppe, se non fosse chiaro, è la riproduzione del rumore che si fa battendo la porta con le nocche per chiedere il permesso di entrare.
E, tornando a casa, ricorderò un itinerario che è anche quasi uno scioglilingua: Ti Parabita a Mmatinu, tiritùppiti a Ccasaranu (Da Parabita a Matino, tiri dritto e subito t’imbatti in Casarano).
Chiudo con un’ulteriore voce dialettale: stampagnare (formato da s- privativa+tampagnu) usato assolutamente nel senso di togliere il coperchio ad un recipiente e in forma riflessiva come sinonimo di andare a sbattere con un veicolo contro un ostacolo (s’è stampagnatu cu lla màchina a ’n facce ‘nn’arulu=è andato a sbattere con la macchina contro un albero). L’immagine evoca un po’ i film comici dell’era del muto in cui in seguito all’urto il primo a subire danni era il cofano che, non a caso, può essere definito come il coperchio del cuore della macchina, cioè del motore; nella nostra espressione dialettale, però, è come se la forma riflessiva trasferisse il danno dalla macchina al protagonista umano dello spiacevole episodio e tradisse il suo probabile incrocio con stampare.
E, metafora per metafora, speru ca armenu osce nno mm’aggiu stampagnatu a ‘n facce quarche palora … (spero che almeno oggi non sia andato a sbattere contro [l’etimologia di] qualche parola …)
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1 In senso traslato, com’è noto, anche persona di bassa statura. Da tappo, poi, tappare.
2 Da cui tamponare nel suo duplice significato.
3 Questa x finale probabilmente nell’immaginario collettivo evoca l’inglese e sarà sfuggito, anche a chi pur giustamente stigmatizza l’imperante anglofilia, che in realtà questo dettaglio costituisce un fenomeno tutto nostro, cioè prima greco e poi latino. Per farmi capire meglio faccio l’esempio di AIAX. Poteva immaginare Omero che il suo eroe Αἴας (leggi Àias) sarebbe diventato Aiax in latino e che avrebbe continuato la sua carriera dando prima il suo nome alla nota società calcistica olandese e poi ad un altrettanto noto detersivo contro lo sporco più sporco o, se non si fosse capito, per il quale non esiste sporco impossibile ? Poi, si sa, la x finale fa tanto esotico che, usandola analogicamente in altre formazioni (come in tampax), il profitto dovrebbe essere assicurato. In campo farmaceutico, poi, non mi meraviglierei se studi (?) approfonditi (?) rivelassero che la x finale sembrerebbe incrementare l’efficacia terapeutica. Bisognerebbe, però, ricordare a siffatti ricercatori che l’effetto placebo esiste da millenni …
4 La caduta del sigma (σ) iniziale in greco col suo recupero in latino non è una mia invenzione; un esempio per tutti: greco ἅλς (leggi als)=sale, mare, arguzia>latino sal=sale, arguzia.
Dopo gli 8 consigli per non rovinare l’estate dei vostri contatti fb (che riporto nel commento per chi volesse rinfrescare la memoria), ecco a voi i nuovi 8 consigli per la primavera.
1) Il 21 marzo potresti tranquillamente ignorare Vivaldi come fai durante tutti gli altri giorni dell’anno, non sei obbligato a linkare “La primavera”. Pensaci.
2) I tuoi contatti si accorgeranno che i campi e gli alberi fioriranno anche senza il contributo dei tuoi 22 album fotografici sul te…ma. Fidati.
3) Non cedere all’impulso improvviso di scrivere stati poetico-amorosi proprio in quei giorni di rigoglio vitale: il subbuglio ormonale si placherà in un paio di settimane al più, quel che avrai scritto segnerà invece le nostre menti e la tua reputazione per sempre.
4) Metterci a conoscenza delle varie forme di allergie ai pollini di cui potresti soffrire e dei più svariati sintomi non ti renderà una persona più felice.
5) Molto probabilmente inizierai a fare passeggiate e corsette in bici o a piedi: non occorre per questo tediare i tuoi contatti, soprattutto i più pigri, con la riscoperta della mens sana in corpore sano. Del resto lo sai bene che non durerà molto, come sai anche che noialtri del club “amici del colesterolo alto e dei trigliceridi alle stelle” ti terremo riservato il posto, certi del tuo repentino ritorno.
6) Proverai quasi sicuramente una certa attrazione per i prati verdi su cui distenderti e farai dei pic-nic all’aria aperta: non sentirti in dovere di convincere i tuoi contatti con post o foto che la cosa ti farà divertire come un bambino. Ricorda inoltre: sedersi a mangiare là dove un’ora prima è passato un gregge di pecore ghiotte di bifidus actiregularis quanto la Marcuzzi non ha mai reso un uomo migliore o più in armonia con la natura.
7) Verso Pasqua è altamente probabile che uova di cioccolato o dolciumi vari appestino ogni bacheca, non c’è bisogno di contribuire a questo flagello. Prima di postare il tuo album pasquale ricordati che non vi sei costretto.
8- Quando il primo maggio andrai a Kurumuny nessuno ti costringerà a farti fotografare con il jambè in mano circondato da tipi rasta. Se proprio ci cascherai anche quest’anno, non postare almeno le foto, disponiamo già di quelle perfettamente identiche degli ultimi 5 anni. Infine, tornato a casa, non postare stati sul fatto che Kurumuny non è più quello di una volta. Pare non sia mai stato quello di una volta.
Il colore certo domina incontrastato le opere di Andrea Lo Bue, giovane pittore galatinese che si approccia all’arte con piglio e fierezza. I suoi grovigli di colore rimandano subito, come importante referente, a Jackson Pollock, il grande pittore americano principale esponente dell’Action painting.
L’utilizzo dei materiali più disparati, l’astrattismo e una componente di forte sperimentazione sono le caratteristiche principali di questo tipo di pittura del cui insegnamento sembra che Lo Bue sia permeato.
Figlio di Giorgio Lo Bue, uno studioso di storia locale molto conosciuto a Galatina, Andrea diplomato perito industriale, è un pittore autodidatta. E’ lui stesso a dirci di essersi avvicinato all’arte dopo aver constatato di provare grandi emozioni ed è così nata una grande passione. “Ha prodotto moltissimi quadri, prima su ciò che capitava: compensati, muri e cartoni, successivamente su tela. Ha esperimentato diverse modalità di dipingere: pennelli, spatole, mani, con spruzzi e ha voluto sempre ricercare qualcosa che lo emozionasse.
Le misure delle tele dipinte vanno da 40×40 cm. a 2,50×2,50 m. – Oggi preferisce pitturare tele delle dimensioni 100×70 cm., ma si avventura in pitture composte da più tele o tele che oltre ai colori sono invase da trucioli metallici ricavati al tornio.” Vediamo in queste opere versamento di colore, tensione verso l’Informale, la pittura per la pittura. Sicuramente un promettente esordio che lascia intravedere ampi margini di crescita umana e artistica. Seguiremo con interesse il percorso appena tracciato di Andrea Lo Bue.
Donne sedute, in grazia, si aggiungono al mare senza toglierlo di mezzo. Perfezione di una riflessione per storie ridestate dalla memoria. Donne che non si scompongono nella loro impronta di origine della narrazione. Donne che contemplano il mare dello Ionio, tranquillo, seducente e in legame di eterno amore con la sua gente. Donne che nel silenzio si raccontano e i loro visi allegramente rivegliano conforto somigliante all’ascoso fuoco della gioventù.
Con Dio nel petto e il rosario nell’anima, vestite di nero, con i capelli tirati e raccolti per non profanare segni di devozione, si ascoltano in silenzio, e senza alcunché oltraggio all’anima nel mirare il dio piacente dilettano l’intelletto.
Non può esserci scrittura giusta a definire vista così mirabile.
E’ uscito in questi giorni il sesto supplemento della Collana che arricchisce la collana dei “Quaderni degli Archivi diocesani di Nardò-Gallipoli”, La chiesa e la confraternita di San Giuseppe a Nardò, edizioni Mario Congedo, aggiungendo un altro importante tassello all’opera di ricostruzione storica del tessuto religioso, sociale e urbanistico di Nardò.
Curato da Marcello Gaballo e Fabrizio Suppressa, il volume di 154 pagine, di grande formato, vede la collaborazione di Stefania Colafranceschi, Giovanna Falco, Paolo Giuri, Salvatore Fischetti, Riccardo Lorenzini, Armando Polito, Giuliano Santantonio, Stefano Tanisi, che hanno offerto saggi di notevole spessore sul culto, iconografia, studi storici e aspetti artistici concernenti il santo e la chiesa neritina a lui dedicata, nella quale ha sede la confraternita.
Vengono ricostruite minuziosamente le vicende dell’edificio, realizzato prima della metà del ‘600 su una preesistente chiesetta di Sant’Aniceto, nel pittagio Sant’Angelo, per espresso desiderio del sodalizio, già costituitosi nel 1621.
Tantissimi i documenti citati nel volume, in buona parte inediti e riportati da rogiti notarili e visite pastorali, grazie ai quali si riesce, finalmente, a ricostruire le vicende della bellissima chiesa, a torto ritenuta tra le “minori” della città.
Notevole il corredo pittorico in essa presente, che per la prima volta viene assegnato a valide maestranze salentine del 6 e 700, tra i quali Ortensio Bruno, Nicola Maria De Tuglie, Donato Antonio Carella e Saverio Lillo.
Centinaia di foto documentano le varie espressioni artistiche che si sono sommate nel corso dei secoli, e nel XVIII secolo in particolare, quando la chiesa fu ricostruita a seguito degli ingenti danni riportati nel terremoto del 1743. I rilievi architettonici dell’edificio e dell’annesso oratorio, la ricchissima raccolta di santini provenienti da collezioni private, le bellissime foto e gli inevitabili richiami al culto del santo nella Puglia, accrescono il valore dell’edizione, lodevolmente sostenuta ed incoraggiata dalla confraternita di San Giuseppe.
Scrive nella presentazione il direttore dell’Ufficio dei Beni Culturali della Diocesi, don Giuliano Santantonio “…Il pregio del lavoro che si pubblica è quello di offrire, in modo documentato e circostanziato, uno sguardo puntuale e dettagliato sulla Chiesa e sulla Confraternita, dalle origini al presente, capace di far apprezzare le significative peculiarità di realtà, come l’edificio sacro e la comunità che è in esso si riconosce, che nel tempo hanno finito per riorganizzare e caratterizzare anche urbanisticamente l’assetto di un intero quartiere, senza il quale la Città sarebbe altra cosa rispetto a come oggi si presenta.
Di particolare interesse è anche il suggestivo sforzo di inquadrare l’origine e lo sviluppo a Nardò del culto verso San Giuseppe nel contesto di un movimento devozionale più ampio, del quale la Città non ha mancato di cogliere i passaggi più decisivi con una tempistica che manifesta, come il tessuto sociale neritino dell’epoca non mancasse di attenzione verso ciò che andava manifestandosi fuori dalla cerchia delle proprie mura. E’ una bella lezione, che a noi, cittadini di un mondo globalizzato, pone l’interrogativo se la nostra capacità di intercettare il futuro che incombe sia ugualmente desta oppure non si sia alquanto assopita”.
La festa di S. Giuseppe, che a volte precede di poco la Pasqua, è la prima festa di primavera, legata a ricordi di vecchie tradizioni, in parte scomparse, come la taulàte de S. Giseppe* (le tavole col ricco pranzo per nove poveri servito da una padrona devota) e le pagnuttelle benedettecon la rituale massaccìciri bbullente/ca fuma de li piatti sbitterrati, consumata la vigilia e chiamata a Leccecìceri e ttria: taglierini fatti in casa mescolati con ceci e con qualche taglierino fritto spezzettato sopra.
Sgombriamo il campo, senza perdere tempo, da ogni possibile equivoco; i cumitàti, cioè gli oggetti di creta (dai vasi ai fischietti alle statuine del presepe), protagonisti, insieme con il santo, di una fiera un tempo attesissima da ogni famiglia per rinnovare soprattutto il corredo di stoviglie, non hanno niente a che fare con comitati, voce alla quale il pensiero subito vola in un paese (e ci riferiamo all’Italia) che prolifera di delegazioni, commissioni e chi più ne ha più ne metta, le quali, dopo aver proliferato, prolificano poco, anzi, il più delle volte abortiscono (e forse è un bene, visti, quando ci sono, i risultati…).
Cumitàtiè una di quelle parole che nel corso del tempo hanno subito un vero e proprio terremoto; e questo fenomeno, si sa, colpisce più violentemente le zone vicine all’epicentro, nel nostro caso Nardò.
Se paragoniamo la nostra voce ad un edificio lo troveremo perciò meno malridotto man mano che ce ne allontaniamo. Fuor di metafora, lo studio
In occasione della ricorrenza di San Giuseppe presenterò per gli amici e lettori alcune opere artistiche sul Santo presenti nel territorio tarantino. Nell’iconografia barocca (quella da me presa in esame) lo sposo di Maria Vergine, nonché padre putativo di Gesù, è raffigurato come uomo anziano con barba bianca nell’atto di sorreggere in braccio Gesù Bambino.
I suoi attributi principali sono gli attrezzi da falegname e la verga fiorita. Anteriormente al periodo barocco il Santo appariva in episodi legati all’infanzia di Cristo o in scene dedicate alla vita della Vergine e solo dopo la Controriforma, quando il suo culto fu promosso da Santa Teresa di Avila, il falegname potè godere di una raffigurazione autonoma.
A Taranto nella chiesa dedicata a Giuseppe (già Santa Maria della Piccola) è collocato nel controsoffitto un dipinto mistilineo di notevoli dimensioni raffigurante il Dubbio di San Giuseppe. L’autore dell’opera è il celebre pittore napoletano Paolo De Matteis, artista molto richiesto dalla committenza nobiliare ed ecclesiale tarantina. Formatosi presso la scuola Luca Giordano, passò in seguito a Roma per comprendere la lezione del classicismo marattesco.
Le opere tarde come quella in questione, databile al secondo decennio del settecento, registrano uno stanco irrigidimento nelle posizioni classiciste, oltre un appiattimento qualitativo forse dovuto a commissioni meno prestigiose e in territori provinciali.
Il soggetto della tela tarantina fa riferimento all’episodio narrato dal Libro di Giacomo, ovvero la rassicurazione portata dall’arcangelo Gabriele a Giuseppe sul concepimento divino di Maria.
Isolata dalla Sacra Famiglia, è la figura in abiti nobiliari settecenteschi che prega guardando lo spettatore. Ritenuta erroneamente autoritratto del pittore, è più probabilmente il committente dell’opera (il priore della confraternita ? un nobile devoto al Santo ?).
Purtroppo alcune infiltrazioni di umidità dal soffitto (denunciate da anni senza risultati) hanno causato la caduta del colore, impedendo la piena leggibilità del dipinto.
Altra opera degna di menzione è il Transito di San Giuseppe, facente parte della collezione di quadri che il Vescovo di Nardò e Taranto Ricciardi donò al museo archeologico nazionale nel 1907, tramite legato testamentario.
L’opera dopo notevoli vicissitudini e spostamenti, è finalmente fruibile al pubblico dopo il nuovo allestimento e la riapertura del M.AR.TA nel 2007.
Il soggetto del dipinto tratto dalla biografia apocrifa, raffigura la morte di Giuseppe all’età di 111 anni, assistito dalla Vergine, dagli angeli e dal figlio al capezzale del letto. Alle spalle del Santo morente l’Arcangelo Gabriele, abbigliato con armatura seicentesca, veglia sulla scena. La tela attribuita (generosamente, secondo il parere dello scrivente) dalla soprintendenza a Luca Giordano è probabilmente opera di Andrea Vaccaro (autore del bellissimo Salvator Mundi conservato nella stessa collezione museale).
Non bisogna farsi trarre in inganno dalla gamma cromatica dorata, dalla luminosità dei veneti cara a Rubens e ai cortoneschi, ripresa dal Giordano in dipinti di composizione simile, come la celeberrima Deposizione di Pio Monte della Misericordia o il Lot e le figlie di Dresda. La figura patetica di San Giuseppe ci conduce ad Andrea Vaccaro, pittore che lavorò a stretto contatto con Giordano negli affreschi di Santa Maria del Pianto a Poggioreale. Il dipinto quindi, testimonierebbe la congiuntura del Vaccaro con alcune prove giovanili del più celeberrimo e quotato pittore napoletano quali appunto la Deposizione del Pio Monte e quella di soggetto analogo della Gemaldegalerie di Oldenburg (come giustamente rileva il Prof. Galante)
Il terzo dipinto è un gioiellino di Corrado Giaquinto raffigurante il Sogno di San Giuseppe conservato nel palazzo arcivescovile di Taranto[1] e proveniente dalla chiesa di San Domenico della città ionica.
L’angelo che irrompe sulla scena scuote il clima di intimità domestica, ordinando a Giuseppe di fuggire in Egitto con Maria e il Bambino a causa della persecuzione di Erode. Il pittore molfettese di educazione napoletana e romana, era presente a Taranto con un’altra tela di ragguardevoli dimensioni raffigurante la Natività di San Giovanni Battista. Quest’ultima opera conservata nella pinacoteca provinciale di Bari (a titolo di deposito…perenne, aggiungo io, se le istituzioni preposte non si attivano per chiederne la restituzione) fu commissionata da una nobildonna tarantina, per l’altare maggiore di San Giovanni Battista, chiesa poi abbattuta dal discutibile piccone risanatore negli anni ’30 del Novecento.
L’opera custodita nell’episcopio testimonia la maestria del pittore molfettese nei dipinti di piccolo formato, caratterizzati da delicate e cangianti sfumature pastello, dall’azzurrino, al rosa-lilla, al turchese, che apportano alla scena quella trasognante atmosfera onirica.
Il dipinto costituisce il modello per il bozzetto conservato nella pinacoteca di Montefortino (vero must per gli amanti del maestro) e nella collezione della Baronessa de Maldà a Barcellona, testimonianza del soggiorno spagnolo di Corrado.
Un altro protagonista del ‘700 napoletano presente a Taranto è lo scultore napoletano Giuseppe Sanmartino, il maggiore esponente della plastica a Napoli in età borbonica tra tardo barocco, rococò e protoneoclassicismo[2].
La statua di San Giuseppe presa in esame chiude in ordine cronologico, insieme al San Giuseppe Gualberto, l’importante ciclo di sculture che l’artista realizzò per il cappellone di San Cataldo, nella Cattedrale ionica. L’opera di marmo, collocata nel vestibolo della cappella, fu commissionata nel 1790 dall’arcivescovo Capecelatro, il cui stemma è effigiato sul basamento. L’artista per l’approvazione della statua aveva inviato al presule un modellino di creta che, ratificato, perfezionò il contratto con la cifra pattuita di 700 ducati. Una probabile riproduzione in ceramica del bozzetto preparatorio è conservata al Getty Center di New York ed è stata attribuita a Gennaro Laudato[3].
San Giuseppe appoggiato ad un blocco roccioso regge Gesù Bambino con fare protettivo, afferrandogli delicatamente il piedino sinistro; il fanciullo sembra indicarlo o piuttosto fargli il solletico, senza però scomporre il padre putativo. Nonostante l’impronta personale del maestro, si nota l’apertura verso le già diffuse istanze neoclassiche, la scultura sembra affine alla pittura accademica dell’ultimo De Mura.
Passando in provincia, va segnalata a Manduria la statua lignea di San Giuseppe col Bambino Gesù conservata nella chiesa eponima. La statua portata alla ribalta nella mostra leccese sulla scultura barocca del 2008, è opera dello sculture Vincenzo Ardia che si firma sul retro della pedagna.
Dello scultore vissuto a cavallo fra il 1600 e il 1700 è conosciuta in Italia soltanto un’altra statua, il San Francesco Saverio di Ghemme presso Novara (che ironia della sorte si lega alla cittadina messapica anche per l’ottima produzione di vini), esposta anch’essa alla mostra per fini comparativi.
San Giuseppe regge amorevolmente Gesù con la mano sinistra, mentre il fanciullo protende le braccine verso il padre quasi a chiedere protezione; il tutto è rafforzato da un complice gioco di sguardi[4]. Con il braccio destro il falegname regge il bastone da cui, secondo la tradizione agiografica, sbocciano fiori di mandorlo simboleggianti la scelta divina. Secondo altre interpretazioni il mandorlo in ebraico “shaked” presenta una forte assonanza con la parola “shakad”, che significa “vegliare”, come Giuseppe fece con Maria e Gesù; il frutto poi, duro esternamente e tenero e dolce internamente richiama il carattere protettivo del falegname.
L’accento plastico della statua è caratterizzato dall’incedere del Santo e dallo strabordante panneggio, che a fatica si raccoglie intorno alla vita. Il recente restauro curato dal laboratorio del museo provinciale di Lecce, ha messo in luce la ricca decorazione floreale che riveste il manto e la tunica; un vero e proprio campionario floreale che va dai tulipani, agli anemoni ai nontiscordardime, raro a vedersi nella scultura napoletana del periodo .
[1] In occasione delle giornate FAI di primavera, 26-27 marzo 2011, il palazzo arcivescovile di Taranto sarà aperto al pubblico. All’interno dell’edificio, oltre la tela del Giaquinto, sono conservati dipinti di Nicola Malinconico e altre tele di scuola napoletana e locale.
[2] Tengo a sottolineare come lo studioso Catello, nella sua godibile descrizione monografica sul Sanmartino, dedica la copertina al San Francesco del cappellone di Taranto. Scelta coraggiosa ma apprezzabile, rispetto al bellissimo e celebre Cristo velato della cappella Sansevero a Napoli, a testimonianza del valore e della bellezza del ciclo scultoreo tarantino.
[3] Scultore coroplastico, molto rinomato nella Napoli borbonica.
[4] In origine il Bambino Gesù reggeva il globo terrestre.
Le fascine di San Marzano di San Giuseppe: il fascino di una festa antica, ma sempre viva nel suggestivo mondo di una comunità albanofona
di Giuseppe Massari
A San Marzano di San Giuseppe, piccolo centro cittadino della provincia di Taranto, la festa patronale, in onore del santo falegname di Nazareth, è vissuta ancora oggi come un appuntamento corale importantissimo che si esprime essenzialmente con i riti devozionali della processione delle legna, dell’esposizione delle tavolate e delle “ mattre” e della benedizione del pane, chiamato di S. Giuseppe.
Questi antichi riti risalgono, almeno nelle forme vigenti, da una data importante e storica che è entrata nella vita di questa comunità. Era il 7 settembre del 1866 quando il sindaco di San Marzano, Francesco Cavallo, deliberò che al nome del paese fosse aggiunto il suffisso “San Giuseppe “ esprimendo con questo atto la volontà unanime dei concittadini che tributavano al Santo solenni festeggiamenti con una devozione antichissima.
Infatti il culto a San Giuseppe risale, nella comunità albanofona di San Marzano, già al XVII secolo, portato dalla madrepatria dai profughi albanesi, di rito greco-ortodosso, che qui si stabilirono nella prima metà del 1500. Ed è appunto da quella data che S. Giuseppe, già protettore della famiglia, dei
La zèppola, è in Puglia e soprattutto nel Salento, il dolce tradizionale della festa di San Giuseppe; invero non si tratta propriamente di un dolce salentino, o perlomeno, non esclusivamente. Questo dolce, è infatti, ormai obiettivamente ascrivibile alla tradizione italiana. Si ritiene, comunque, che sia d’ origine napoletana.
Bartolomeo Scappi, (celebre autore della monumentale: Opera dell’arte del cucinare, Venezia 1570 ) che è primo a menzionarlo, lo descrive come una frittella di farina di ceci, zucchero e uva passa, molto simile alle zeppole chenello stesso secolo vengono attestate in uso a Napoli come dolce del carnevale. La voce zeppole, in seguito, ricorrerà in molti antichi testi partenopei e persino in un “Privilegio” del Viceré Conte di Ripacorsa.
Varie fonti scritte e persino delle inequivocabili stampe popolari, segnalano come,nellafestosa e pittoresca Napoli del Settecento, tale usanza fosse già di dominio pubblico, tanto, che nel giorno di San Giuseppe, i friggitori, per onorare il proprio Santo patrono, si cimentavano all’aperto, su improvvisati banchetti, ma con plateale maestria, alla preparazione delle zeppole. Altre fonti, inquadrano verso la fine del Settecento, attribuendola al famoso pasticcere napoletano Pintauro, l’idea di preparare questi dolci (ricordanti nell’aspetta vagamente i trucioli) nel giorno di San Giuseppe, quale simbolo del Santo falegname. Questi pare che avesse a sua volta attinto la ricetta dal“Cuoco galante” dell’oritano Vincenzo Corrado (1738-1836), nella cui versione però si presentavano senza crema e con della confettura di amarena al centro, avendoli appellati, tortanetti di pasta bugnè.
Probabilmente entrambe le ricostruzioni storiche sono attendibili e le zeppole erano già in auge a Napoli, ma nella versione più popolare; semplici ciambelle, fritte e dolcificate, ad uso, come si diceva al tempo,del popolo minuto.
Pintauro, quindi, si limitò semplicemente amigliorarle elevandole così di rango e facendole rivenire un prodotto di pasticceria degno anche dei palati più raffinati.
L’odierna zeppola, salentina, ha peculiarità sue che mantiene inalterate da diverse generazioni, da alcuni anni però il suo consumo non è più limitato esclusivamente alla ricorrenza di San Giuseppe, ma comune in ogni periodo dell’anno, e piegandosi alle ragioni della dieta, si va sempre più affermando l’uso di cuocere le zeppole anche in forno, orrore!!! Mi verrebbe da gridare, permettetemi di esprimere il mio disappunto, e perdonatemi la parafrasi con un noto slogan di caffè : la zeppola, è zeppola! E, se non è fritta, che zeppola è?
Si ritorni pure a mangiarla solo una volta all’anno, ma che non si continui a profanare questo semplice, gustosissimo storico capolavoro dell’ingegno italico.
La ricetta
Ingr. Farina 500 g , acqua ½ litro, uova 10, strutto 100 g ,zucchero semolato q.b. , sale un pizzico, olio per frittura, strutto, crema pasticcera q.b.
Mettete sul fuoco, in una casseruola, l’acqua, il sale, e lo strutto. Quando inizia a bollire, toglietela dalla fiammaora. Con un sacco a poche, con bocchetta a stella del diametro di circa tre centimetri, realizzate su dei fogli di carta oleata unti di strutto delle ciambelle toroidali di una decina dicentimetri di diametro. Per la frittura occorrono due padelle colme di olio o strutto a differenti temperature; passate le zeppole, prima nella padella con olio a temperatura tiepida, onde si gonfino e si rassodino, quindi passatele nella seconda padella, contenente olio a temperatura maggiore o preferibilmente strutto perché finiscano di cuocere e acquisiscano un’invitante colorazione bruno dorata.
Sgocciolatele, e quando si raffreddano cospargetele di zucchero semolato, e guarnitele, a mezzo della sacca, di crema pasticcera e spolverizzatele di cannella in polvere.
Lo strutto, consigliato nella ricetta, al contrario di quanto si possa pensare, è uno dei grassi più raccomandabili dal punto di vista nutrizionale, in quanto possedendo un punto di fumo notevolmente elevato, alle normali temperature di utilizzo non si altera, quindi non si ha la formazione della pericolosissima acroleina, una sostanza notoriamente epatotossica, nefrotossica, gastrolesiva e altamente cancerogena.
Le Tavole di San Giuseppe: una tradizione ancora viva a Minervino di Lecce
di Mino Presicce e Loredana Cocola De Matteis
Nella tradizione religiosa San Giuseppe sposo di Maria, è il santo tutelare della casa e della famiglia.
Un’antica tradizione salentina vuole che il 19 marzo le famiglie benestanti facessero il “banchetto di San Giuseppe” (la taula ti San Giseppu) al quale venivano invitate le famiglie bisognose.
Con questa usanza il popolo suscitava e manteneva nel cuore degli uomini il dovere della carità e del rispetto per gli umili.
Nel corso degli anni in alcuni paesi, forse perché è cambiato il legame sociale e il rapporto con gli altri, questa tradizione è andata un po’ scomparendo; in altri piccoli centri, invece, questa usanza è ancora viva e le famiglie devote a san Giuseppe la preparano tutti gli anni in segno di ringraziamento delle
Squisiti, adorabili, straordinari, benefici, gustosi, ottimi, particolari, ricercati, eleganti, versatili… Accanto a termini come questi, proferiti dai tanti estimatori si affiancano anche tutta una serie di termini meno lusingheri, rispettabile giudizio di una pur presente minoranza di detrattori. Per i lampascioni, infatti non si conoscono le mezze misure, o li si ama o li si odia.
È doveroso comunque premettere che il lampascione resta un bulbo misterioso per la stragrande maggioranza degli italiani, ma è molto probabile che, viste le sue prerogative, se fosse conosciuto meglio, sarebbe certamente amato un po’ di più.
In passato era conosciuto come Muscari comosum Mill.; dopo alcuni approfonditi studi botanici dal 1968, viene più correttamente appellato Leopoldia comosa (L.) Parl. Si contano, inoltre, varie specie simili al lampascione che vengono spesso utilizzate alla stessa stregua del lampascione per così dire verace: si tratta di una decina di specie appartenenti a tre diversi generi Bellevalia, Muscari, Leopoldia che hanno però un po’ tutte caratteristiche organolettiche più scadenti rispetto allo stesso. A tale proposito è utile ricordare quanto riportato dal Mannarini:“Assieme al pampasciulo trovasi spontaneo da noi un altro muscari, il Muscari Holzmannii Bois. o Leopoldia Holzmani Held., che ha proprietà eccitanti ed anche afrodisiache. Questo è volgarmente conosciuto col nome di pampasciulu pe li vecchi. Per questo, esso in Grecia si adibisce ad uso alimentare, da noi non è adoperato, anzi viene scartato nella raccolta del M. comosum”.
Decisamente meno tranquillizzanti le indicazioni di Dioscoride (II.358.) a proposito di una di queste specie identificata da alcuni traduttori naturalisti nel Muscari atlanticus e o M. botryoides:”il porro capitato fa ventosità, genera cattivi umori, fa sognare cose terribili e spaventose. Cuocersi la capillatura sua nell’aceto, ed in acqua marina. Con tali premesse non perderemo nulla se dal punto di vista gastronomico considereremo solo il lampascione rosso verace ovvero la Leopoldia comosa (L.) Parl.
La parte edule è costituita dal bulbo che può raggiungere eccezionalmente i 4 centimetri di diametro ed il peso di 35-40 grammi, anche se generalmente il
La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione
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