Uno studio serio del passato, non esclusa neppure la sua parte mitica, dev’essere basato sulle fonti. Sembra essere un principio scontato, eppure ancora oggi il vizietto di manipolare le fonti, nel tentativo patetico di corroborare una propria tesi o con lo scopo altrettanto stupido di nobilitare un passato al quale si è sentimentalmente legati perché il caso ha voluto che lì nascessimo e crescessimo, continua imperterrito una lunga carriera iniziata probabilmente fin da quando l’uomo ha deciso di affiancare alla tradizione orale quella scritta. Così, mentre quella è esposta congenitamente ai rischi dell’equivoco interessato o meno, questa, quando non segue un metodo corretto e rigoroso, in parole povere scientifico, incorre nello stesso inconveniente. Il vizietto, dunque, non sorprende oggi come ieri, anche se non potrà mai aspirare a giustificazione alcuna. E, se all’Umanesimo e al Rinascimento dobbiamo il rinnovato interesse per il nostro più lontano passato, va ricordato pure che nacquero proprio allora alcune invenzioni che, in virtù del prestigio reale o presunto dell’inventore, passarono quasi passivamente di mano in mano fino a giungere ai nostri giorni; per non parlare, addirittura del secolo XVIII, che pure era ed è detto il secolo dei lumi, nel corso del quale si perpetrò la confezione di documenti falsi di ogni tipo spacciati per autentici.
Pe dare spessore concreto a questa banale considerazione prenderò in esame quattro dettagli di Porta Rudie a Lecce. Come già successo per una fabbrica di Nardò (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/28/due-variazioni-sul-tema-a-nardo-e-a-s-maria-al-bagno/) l’ispirazione a scrivere questo post mi è stata data da una serie di foto, presenti nel suo album facebookiano, di Pietro Barrecchia, che qui ringrazio nel mentre mi scuso (che tipo che sono!) per essermi concesso di usarle senza nemmeno chiedergli il permesso.
Siamo in presenza di una presentazione in prima persona di altrettante figure mitiche, le cui sembianze sono raffigurate nel relativo busto alla base del quale è collocata la relativa epigrafe parlante. Si tratta (procedendo da destra a sinistra per chi guarda) di Lictio Idomeneo, Malennio, Dauno e Euippa/Evippa (chiarirò dopo il perché della doppia scrittura).
Dell’unica donna rappresentata parlerò alla fine, non per seguire l’ordine di presentazione che potrebbe essere, fra l’altro, interpretato come mancanza di cavalleria o, addirittura espressione di maschilismo, ma, al contrario, per darle rispetto ai maschietti quello spazio più grande il cui merito si può già intuire dal titolo.
Cominciamo, perciò, con Lictio Idomeneo.
CONIUGIO EUIPPAE QUAM CONDIDERAT SOCER URBEM OBTINUI ATQUE AUXI LICTIUS IDOMENEUS
Io Lictio Idomeneo grazie alle nozze con Euippa/Evippa ottenni e accrebbi la città che mio suocero aveva fondato
DAUNUS REX EGO FILIUS MALENNI SCEPTRO MILITIAEQUE LAUDE CLARUS
Io sono il re Dauno, figlio di Malennio, famoso per il potere e per la gloria militare
SUM REX ET URBIS CONDITOR MALENNIUS REGUM DASUMNI FILIUS SALIS NEPOS
Sono Malennio re e fondatore della città, figlio del re Dasumno e nipote del re Sale.
DAUNI EVIPPA SOROR FRATRIQUE SUPERSTES SITA FOEMINEA DIDICI STRINGERE SCEPTRA MANU
Io Euippa/Evippa, sorella di Dauno e rimasta superstite al fratello, imparai a stringere lo scettro con la mano di donna
Dopo questa presentazione preliminare segue una serie di schede contenenti ciascuna per ogni personaggio parlante (ma anche per quelli il cui nome compare nelle iscrizioni) le sole fonti autentiche superstiti, almeno fino ad ora e per quanto conosco:
LICTIO IDOMENEO
Virgilio (I secolo a. C.), Aeneis, III, 396-400: “Has autem terras Italique hanc litoris oram,/proxima quae nostri perfunditur aequoris aestu,/effuge; cuncta malis habitantur moenia Grais./Hic et Narycii posuerunt moenia Locri/et Sallentinos obsedit milite campos/Lyctius Idomeneus … (“Ma evita queste terre e questa spiaggia dell’italo litorale che vicina è bagnata dal flutto del nostro mare; tutte le mura sono abitate da Greci ostili. Qui i Locresi di Naricia posero le mura e il lictio [vedi più avanti il secondo brano di Servio] Idomeneo ha occupato con l’esercito i campi salentini …).
Servio (IV-V secolo d. C.), In Vergilii Aeneidos commentarii, III, 121: PULSUM REGNIS CESSISSE PATERNIS non dicit quare, sed talis historia est: Idomeneus de semine Deucalionis natu, Cretensium rex, cum post eversam Troiam reverteretur, in tempestate devovit sacrificaturum se de re, quae ei primum occurrisset. Contigit ut filius eius primum occurreret: quem cum, ut alii dicunt, immolasset, ut alii vero immolare voluisset, et post orta esset pestilentia a civibus pulsus regno Sallentinum Calabriae promunctorium tenuit, iuxta quod condidit civitatem ut “et Sallentinos obsedit milite campos Lyctius Idomemeus” (SCACCIATO SI ERA ALLONTANATO DAI REGNI PATERNI non dice perché, ma questa è la storia: Idomeneo, re dei Cretesi, nato dal sangue di Deucalione, mentre tornava dopo la distruzione di Troia, in mezzo ad una tempesta promise che avrebbe sacrificato quel che per primo gli fosse venuto incontro. Successe che per primo gli venisse incontro suo figlio; avendolo immolato, come dicono alcuni, o avendo manifestato la volontà di immolarlo, come dicono altri ed essendosi diffusa una pestilenza, cacciato dal regno dai cittadini, occupò il promontorio salentino della Calabria, presso il quale fondò una città come [dice Virgilio] “il lictio Idomeneo ha occupato con l’esercito i campi salentini”); III, 401: LYCTIUS IDOMENEUS a Lycto, Cretae civitate, unde propter dictam pulsum est causam (LICTIO IDOMENEO da Licto, città di Creta, da cui fu cacciato per la causa detta).
Guidone (XII secolo), Geographia, 28: Dehinc urbs Lictia Idomenei regis, de qua Vergilius “et Salentinos obsedit campos Lictius Idomeneus” (Poi la città di Lecce del re Idomeneo sulla quale Virgilio “e Lictio Idomeneo ha occupato con l’esercito i campi salentini).
MALENNIO e DASUMNO
Giulio Capitolino, uno dei sei autori della Storia Augusta (IV secolo d. C.), nella Vita di Marco Aurelio Antonino, I, 8: Cuius familia in originem recurrens a Numa probatur sanguinem trahere, ut Marius Maximus docet; item a rege Sallentino Malemnio, Dasumni filio, qui Lopias condidit (È provato che la sua [di Marco Aurelio Antonino] famiglia, risalendo alle origini, discendeva da Numa, come insegna Mario Massimo; parimenti dal re salentino Malennio, figlio di Dasumno, che fondò Lecce).
DAUNO/DAUNIO
Nicandro di Colofone (II secolo a. C.) in un frammento conservatoci da Antonino Liberale (II secolo d. C.), Μεταμορφόσεων συναγογή, XXXI: ΜΕΣΣΑΠΙΟΙ Ἱστορεῖ Νίκανδρος ὲτεροιουμνέων β’· Λικάονος τοῦ ἀυτόχθονος ἐγένοντο παῖδες Ἰάπυξ καὶ Δάυνιος καὶ Πευκέτιος. Οὗτοι λαὸν ἀθροίσαντες ἀφἱκοντο τῆς Ἰαλίας παρὰ τὴν Ἀδρίαν· ἐξελάσαντες δὲ τοὺς ἐνταυθοῖ οἰκοῦντας Αὔσονας αὐτοὶ καθιδρύθησαν. Ἦν δὲ τὸ πλέον αὐτοῖς τῆς στρατιᾶς ἔποικοι, Ἱλλίριοι, Μεσσάπιοι. Ἐπεὶ δὲ τὸν στρατὸν ἅμα καὶ τὴν γῆν ἐμέρισαν τριχῇ καὶ ὠνόμασαν ὡς ἑκάστοις ἡγεμόνος [ὄνομα] εἶχε Δαυνίους καὶ Πευκετίους καὶ Μεσσαπίους (MESSAPI Racconta Nicandro nel secondo libro delle Metamorfosi: I figli dell’autoctono Licaone furono Iapige, Daunio e Peucezio. Questi, raccolto un seguito, raggiunsero l’Italia sull’Adriatico; dopo aver cacciato gli Ausoni che vi abitavano, vi si stabilirono. La maggior parte del loro esercito era costituito da coloni, Illirici, Messapici. Poi divisero l’esercito in tre parti insieme con la terra e li chiamarono, secondo il nome di ciascun capo, Dauni, Peucezi e Messapi).
Antonino Liberale (II secolo d. C.), Μεταμορφόσεων συναγογή, XXXVII: ΔΩΡΙΕΙΣ Διομήδης μετὰ τὴν ἅλωσιν Ἰλίου παραγενόμενος εἰς Ἄργος Αἰγιάλειαν μὲν ἐμέμψατο τὴν γυναῖκα τὴν ἐαυτοῦ χάριν ἔργων Ἀφροδίτης, αὐτὸς δ’εἰς Καλυδῶνα τῆς Αἰτωλίας ἀφίκετο καὶ ἀνελὼν Ἂγριον καὶ τοὺς παῖδας Οἰνεῖ τῷ προπάτορι τὴν βασιλείαν ἀποδίδωσιν. Αὖτις δὲ πλέων εἰς Ἄργος ὑπὸ χειμῶνος εἰς τὸν Ἰόνιον ἐκφέρεται πόντον. Ἐπεὶ δὲ παραγενόμενον αὐτὸν ἔγνω Δαύνιος ὀ βασιλεὺς ὀ τῶν Δαυνίων, ἐδεἡθη τὸν πόλεμον αὐτῷ συμπολεμῆσαι πρὸς Μεσσαπίους ἐπὶ μέρει γῆς καὶ γάμῳ θυγατρὸς τῆς αὐτοῦ. Καὶ Διομήδης ὑποδέχεται τὸν λόγον (DORI Diomede dopo la presa di Ilio tornato ad Argo biasimò sua moglie Egialea per le corna che gli aveva messo, partì per Calidone di Etolia e dopo aver ucciso Agrio e i figli restituisce il regno al nonno Oineo. Di nuovo navigando verso Argo viene sospinto dalla tempesta nel mare Ionio. Quando Daunio re dei Dauni venne a conoscenza del suo arrivo gli chiese di combattere insieme con lui la guerra contro i Messapi in cambio di parte della terra e delle nozze con sua figlia. E Diomede accetta la proposta).
Orazio (I secolo a. C.), Carmina, IV, 14, 25-26: Sic tauriformis volvitur Aufidus, qui regna Dauni praefluit Apuli (Così scorre il tauriforme Aufido che bagna i regni dell’apulo Dauno).
Ovidio (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Metamorphoseon libri, XIV, 510-512: “Vix equidem has sedes st Iapygis arida Dauni/arva gener teneo minima cum parte meorum”. Hactenus Oenides … (“Certamente a stento mantengo queste sedi e gli aridi campi dello Iapige Dauno io, suo suocero, con minima parte dei miei”. Fin qui [parlò] il nipote di Oineo …).
Festo (II secolo d. C.), frammento del De verborum significatu tramandatoci dall’epitome che ne fece Paolo Diacono (VIII secolo d. C.): Daunia Apulia appellatur a Dauno, Illyricae gentis claro viro, qui eam, propter domesticam seditionem excedens patria, occupavit (L’Apulia è chiamata daunia da Dauno, illustre uomo della gente illirica, che la occupò abbandonando la patria a causa di una guerra civile).
Servio (IV-V secolo d. C.), In Vergilii Aeneidos commentarii, VIII, 9: Diomedes postquam reperit ira Veneris a se vulneratae, uxorem apud Argos cum Cillabaro, ut Lucilius, vel Cometa, ut plerique tradunt, turpiter vivere, noluit revertere patriam; vel, ut dicitur, ab adulteris proturbatus. Sed tenuit partes Apuliae et edomita omni montis Gargani multitudine in eodem tractu civitates plurimas condidit. Nam et Beneventum et Aequum Tuticum ipse condidit at Arpos, quae et Argiripa dicitur, ad quam nunc Venulus mittitur: non Arpinum, quam constat esse Campaniae, unde Cicero Arpinas. Sane sciendum Apuliam uno dictam vocabulo, sed huius partem quam Diomedes tenuit, Messapiam et Peucetiam a duobus fratribus dictam, qui illic imperarent; item Dauniam, a Dauno rege Apuliae, a quo hunc Diomedem quidam hospitio receptum dicunt (Diomede dopo che apprese che a causa dell’ira di Venere da lui offesa sua moglie viveva turpemente presso Argo con Cillabaro, come Lucilio o Cometa, come molti tramandano, non volle tornare in patria; o, come si dice, turbato dall’adulterio. Ma occupò parti dell’Apulia e dopo aver domato tutta la popolazione del Gargano, fondò nel medesimo tratto moltissime città. Infatti egli fondò Benevento, Equo Tutico [nei pressi di Arano Irpino] e Arpi che è chiamata anche Argiripa, dove ora viene mandato Venulo [come ambasciatore perché convinca Diomede a schierarsi con Turno contro i troiani di Enea sbarcati nel lazio]: non Arpino che si sa appartenere alla Campania, donde Cicerone l’arpinate. Certamente bisogna sapere che l’Apulia è chiamata con un unico vocabolo ma che la sua parte occupata da Diomede fu chiamata Messapia e Peucezia da due fratelli che vi regnarono; allo stesso modo la Daunia da Dauno, re dell’Apulia, dal quale secondo alcuni questo Diomede fu accolto in ospitalità).
SALO
Questo personaggio non è attestato da nessuna fonte antica.
EUIPPA/EVIPPA
Partenio di Nicea (I secolo d. C.), Περὶ ἐρωτικῶν παϑημάτων, 3: ΠΕΡΙ ΕΥΙΠΠΗΣ Ἰστορεῖ Σοφοκλῆς Εὐρυάλῳ Οὐ μόνον δ’ Ὀδυσσεὺς περὶ Αἴολον ἐξήμαρτεν, ἀλλὰ καὶ μετὰ τὴν ἄλην. ὡς τοὺςμνηστῆρας ἐφόνευσεν, εἰς Ἤπειρον ἐλθὼν χρηστηρίων τινῶν ἔνεκα, τὴν Τυρίμμα θυγατέρα ἔφθειρεν Εὐίππην, ὅς αὐτὸν οἰκείως θ’ὑπεδέξατο καὶ μετὰ πάσης προθυμίας ἐξένισε (Intorno ad Euippa/Evippa racconta Sofocle nell’Eurialo1: Ulisse non solo peccò nei confronti di Eolo ma anche dopo un lungo errare dopo aver ucciso i Proci, essendo giunto in Epiro per consultare alcuni oracoli, sedusse Euippe/Euippe figlia di Tirimma, che l’aveva accolto familiarmente e l’aveva degnato di un’ospitalità squisita).
Senofonte Efesio (II-III secolo d. C.), Τῶν κατὰ Ἀντίαν καὶ Ἀβροκόμην ἐφεσιακῶν βιβλία, I, 2, 5: Ἑκάστη δὲ αὐτῶν οὕτως ὡς πρὸς ἐραστὴν ἐκεκόσμητο. Ἤρχε δὲ τῆς τῶν παρθένων τάξεως Ἀνθία, θυγάτηρ Μεγαμήδους καὶ Εὐίππης, ἐγχωρίων (Ciascuna di loro così si preparava per il pretendente. Dava inizio alla schiera delle fanciulle del luogo Anzìa, figlia di Megamedo e Euippe/Evippe).
Stefano di Bisanzio (V-VI secolo d. C.), Ἐθνικά, alla voce Εὐίππη: Εὐίππη δῆμος Καρίας. Ὁ οἰκήτωρ Εὐιππεύς (Euippe/Evippe, regione della Caria. L’abitante si chiama Euippeo/Evippeo).
Macedonio di Tessalonica (VI secolo d. C.), Antologia Palatina, V, 229: Τὴν Νιόβην κλαίουσαν ἰδών ποτε βουκόλος ἀνὴρ/θάμβεεν, εἰ λείβειν δάκρυον οἶδε λίθος·/αὐτὰρ ἐμὲ στενάχοντα τόσης κατὰ νυκτὸς ὁμίχλην/ἔμπνοος Εὐίππης οὐκ ἐλέαιρε λίθος./Αἴτιος ἀμφοτέροισιν ἔρως, ὀχετηγὸς ἀνίης/τῇ Νιόβῃ τεκέων, αὐτὰρ ἐμοὶ παθέων (Un bovaro avendo visto per caso Niobe che piangeva si meravigliò che una pietra sapesse stillare una lacrima; ma Euippe, che è viva, come una pietra non aveva compassione di me che gemevo attraverso le tenebre di una notte tanto lunga. Causa per entrambi era l’amore, fonte di dispiacere per Niobe a causa dei figli, ma per me a causa del sentimento non corrisposto).
Giovanni Tzetzes (XII secolo d. C.), Πρόθεσις τοῦ Ομήρου, vv. 586, 589 (in P. Matranga, Anecdota graeca e manuscriptis bbliothecis Vaticana, Angelica, Barberiniana, Vallicelliana, Medicea, Vindobonensi, Bertinelli, Roma, 1801, pag. 20): Τῶν Κρητικῶν δὲ πόλεων τῶν ἑκατὸν ἐκράτουν/Ἰδομενεὺς, συνάμα δὲ τούτῳ καὶ Μηριόνης·/ὁ μὴν τοῦ Δευκαλίωνος ὑιὸς καὶ Κλεοπάτρας,/ὁ Μηριόνης δὲ ὑιὸς Εὐίππης καὶ τοῦ Μόλου (Idomeneo regnava su cento città cretesi, insieme con lui anche Merione; uno figlio di Deucalione e di Cleopatra, Merione figlio di Euippe/Evippe e di Molo)
Escludendo Stefano (in cui Euippe/Evippe è un toponimo) nonché Senofonte Efesio e Macedonio (le loro Euippe/Evippe sono, semplicemente due delle tante protagoniste ricorrenti nel tipico genere del romanzo amoroso) rimane l’Euippe/Evippe di Tzetzes; essa, però, non può essere la nostra (presumibilmente di una generazione più vecchia rispetto ad Idomeneo e, oltretutto, moglie di Molo) ma può aver dato ispirazione a qualcuno …
Da dove, allora, salta fuori la nostra Euippe/Evippe ? E chi sarebbe questo qualcuno? Legittima curiosità che passo a soddisfare.
Antonio Beatillo in Historia della vita, morte, miracoli e Traslatione di S. Irene da Tessalonica Vergine e Martire, Patrona della Città di Lecce in Terra d’Otranto, Longo, Napoli, 1609, (il volume è leggibile e scaricabile integralmente in http://books.google.it/books?id=M2hUD3qKhh0C&pg=PA66&dq=euippa&hl=it&sa=X&ei=-KJjU8GaIczY0QXh84CABQ&ved=0CDIQ6AEwAA#v=onepage&q=euippa&f=false) alle pagg. 62-63: Pose nel suo palazzo Idomeneo un gran marmo con un bell’Epigramma, che dava conto, come in quel luogo particolare havea egli habitato. Ma col tempo, distruggitore di tutte le cose, andò anche a rovina la detta Reggia, e doppo un gran numero d’anni per segno delle cose passate, fu trovato sotterra nel medesimo luogo il marmo, sì fattamente però consumato, che a pena se ne potè cavare il costrutto. Per lo che rescrivendo i Leccesi latinamente in un’[sic] altro gran marmo, quanto ivi stava in altra lingua, diedero conto a i posteri di tutto il successo. Questo marmo secondo fu ancor esso col tempo nelle rovine de gli antichi edificij della Città sepolto, e ritrovato poi ultimamente vicino alla porta di San Giusto, quando si cavarono i fondamenti dell’accennato Monastero. I versi che vi stavano intagliati, sono i seguenti.
Ut marmor docuit hic olim fortè repertum,
victori Idomeneo fuerat iam regia quodam
Hic, ubi fundaras nostram Malennius Urbem.
Victori, haud quod marte suo superasset, et armis
hos Salentinos fortes, Iapigumque sodales;
victus nam illis ad Locros confugit amicos;
sed quod coniugio sibi iuncta Euippa potentis
filia Malenni Dasummique inclita neptis
proneptisque Salis, Dauni soror unica, et haeres
nomine dotis ei dedit haec fortissima regna,
quae nullo ille prius poterat convellere ferro.
(Come insegnò un marmo qui da tempo trovato, il vincitore Idomeneo aveva avuto qui un tempo la reggia, quando Malennio aveva fondato la nostra città. Vincitore non perché con la guerra e le armi aveva vinto questi forti Salentini, alleati degli Iapigi; infatti vinto da loro si rifugiò presso l’amica Locri, ma poiché Euippa/Evippa, figlia del potente Malennio, illustre nipote di Dasummo unita a lui in matrimonio e pronipote di Sale, unica sorella di Dauno ed erede, a titolo di dote gli donò questi fortissimi regni che egli prima non aveva potuto abbattere con nessuna guerra).
Dopo aver parlato di questa epigrafe il Beatillo si avventura in un’arzigogolata ricostruzione genealogica e a pag. 66 si legge: Deucalione secondo generò Heleno, come a pieno lo riferisce Diodoro Siculo al quarto libro, dove anche afferma, che il mentionato Heleno produsse Doro, e quati Tettamo, qual gito a Creta con alcune colonie de Pelasgi, prese per moglie la figliuola di Creto Rè dell’Isola, che Creta si domandava [sic], e da essa generò Asterio, chiamato altramente per i suoi boni costumi Giove, dal qual nacque il Rè Minos Padre, tra gli altri figli, di Licato, e di Sale. Di Licasto l’accenna tra gli altri Diodoro Siculo al quarto; ma di Sale lo giudicamo noi, per esser che fu egli figliuolo di un Rè di Creta, e tante generationi si contano da Licasto ad Idomeneo, qual fu consorte di Euippa Regina de’ Salentini, quante ne furon da Sale alla medesima Euippa.
E a margine, sempre a stampa, Diodoro Siculo li. 4 c. 7 e Natale Comite, Della mitologia, li. 8 c. 17. Va detto subito che nei passi citati di Diodoro Siculo (I secolo a. C.), ma anche nel resto della sua opera, e di Natale Comite (XVI secolo) i nomi Euippa e Sale non compaiono, nemmeno una volta.
Le informazioni del Beatillo (testo di riferimento, secondo me, per le scelte iconografiche e epigrafiche dei dettagli del monumento qui in esame) saranno passivamente riprese (più o meno un plagio) da Enrico Bacco Alemanno, Nuova e perfettissima descrittione del Regno di Napoli, Scoriggio, Napoli, 1629, pag. 158 e da Casimiro di S. Maria Maddalena, Cronica della Provincia de’ Minori Osservanti Scalzi di San Pietro d’Alcantara nel Regno di Napoli, Stefano Abbate, Napoli, 1729, pp. 53-54). Tuttavia va detto che il padre della nostra Euippa/Evippa probabilmente non è il Beatillo.
Nell’Apologia paradossica di Antonio Ferrari (1507-1598) uscita postuma (cito dalla seconda edizione, Mazzei, Lecce, 1728, pag. 81; il volume è interamente consultabile e scaricabile in https://archive.org/details/apologiaparadoss00ferr) si legge: Servio grammatico è d’opinione, che li Salentini sono così dinominati da i patti, che fecero sul lido loro con Idomeneo sopra il salo, cioè sul mare, quando s’accordarono col Re Idomeneo di darli per moglie la loro Reina Euippa/Evippa [lo stesso carattere u è utilizzato anche per v], e di ricever lui per Re, e per amplificatore della loro Città Lecce, e i suoi Lizj per compagni della Città.
Chiunque legga questo passo è indotto a credere che il nome Euippa/Evippa sarebbe attestato dal grammatico Servio (IV secolo d. C.). Intanto va detto che il passo ricordato dal Ferrari si legge non in Servio ma in un commento al verso 31 della sesta ecloga. Tale commento era in passato attribuito a Probo (grammatico del I-II secolo d. C.), oggi non più e viene considerato come risalente ad un autore del V secolo d. C. che nei manoscritti reca il nome di Probo e che oggi è indicato perciò con il nome di Pseudo Probo. Ne riporto il testo dall’edizione a cura di Henric Keil, M. Valerii Probi in Vergilii Bucolica et Georgica commentarius, Sumptibus Eduardi Anton, Halis, 1848, pp. 14-15: Idem Vergilius in tertio Aeneidos ubi primum Italiam, quo auspicati sunt, ac templum in arce Minervae accesserint, quod est oppidum Minervae sacrum, unde nomen castrum Minervae habet, conditum ab Idomemeo et Salentinis. De qua re haec tradit Varro, qui sit Menippeus non a magistro, cuius aetas longe praecesserat, nominatus, sed a societate ingenii, quod in quoque omnigeno carmine satiras suas expoliverat. In tertio Rerum humanarum refert: Gentis Salentinae nomen tribus e locis fertur coaluisse, e Creta, Illyrico, Italia. Idomeneus e Creta oppido Blanda pulsus per seditionem bello Magnensium cum grandi manu ad regem Divitium ad Illyricum venit. Ab eo item accepta manu cum Locrensibus plerisque profugis in mari coniunctus per similem causam amicitiaque sociatis Locros appulit. Vacuata eo metu urbe ibidem possedit, aliquot oppida condidit, in queis Uria et Castrum Minervae nobilissimum. In tres partes divisa copia in populos duodecim. Salentini dicti, quod in salo amicitiam fecerint (La stessa cosa dice Virgilio nel terzo libro dell’Eneide quando per la prima volta, conformemente agli auspici tratti, si sarebbero accostati all’Italia e al tempio sulla rocca di Minerva, che è una città sacra a Minerva, donde ha il nome di Castrum Minervae, fondata da Idomeneo e dai Salentini. Su questo tramanda quanto segue Varrone che sarebbe chiamato Menippeo non dal maestro, i cui tempi l’avevano di gran lunga preceduto, ma dal comune ingegno, poiché in ciascun canto di qualsivoglia genere aveva raffinato le sue satire. Nel terzo (libro) de I fatti umani riferisce: Si dice che Il nome della gente salentina si sia formato dalle combinazione di tre luoghi: da Creta, dall’Illirico, dall’Italia. Idomeneo, cacciato da Creta dalla città di Blanda per una sedizione durante la guerra contro i Magnensi, venne con un grande esercito nell’Illirico presso il re Divizio. Dopo aver ricevuto pure da lui un esercito, unitosi in mare con i Locresi e parecchi profughi accomunati da un progetto simile e dall’amicizia, approdò a Locri. Dopo che la città per la paura era stata evacuata lì se ne impadronì e fondò parecchie città tra cui Uria e la famosissima Castrum Minervae. L’esercito fu diviso in tre parti e in dodici popoli. Furono detti Salentini perché avevano fatto amicizia in mare).
Di Euippa/Evippa neppure l’ombra. Ma c’è di più: il lettore avrà notato che lo Pseudo Probo cita Varrone (II-I secolo a. C.), sicché il Ferrari con la sua confusione tra Servio (IV secolo d. C.) e Probo (sia esso l’autentico o lo Pseudo) si è lasciato sfuggire l’occasione di nobilitare le origini di Lecce con una patina testimoniale di maggiore antichità. Ne approfitto per ricordare, a proposito dell’amicizia in mare, un frammento di Festo (II secolo d. C.) tramandatoci dall’epitome che del De verborum significatione fece Paolo Diacono (VIII secolo d. C.): Salentini a salo sunt appellati (I Salentini sono così chiamati dal mare).
Dopo questa lunga digressione sulle inesattezze del Ferrari va detto che nemmeno lui potrebbe essere il padre di Euippa/Evippa. E chi allora?
Nell’opera postuma di Girolamo Marciano (1571-1628), Descrizione, origine e successi della Provincia d’Otranto, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1855, a pag. 56 (il volume è interamente consultabile e scaricabile in http://books.google.it/books?id=BE1lT3u1Ua4C&printsec=frontcover&dq=girolamo+marciano&hl=it&sa=X&ei=capnU7HYOdLY0QWcoIHQBg&ved=0CDcQ6AEwAQ#v=onepage&q=girolamo%20marciano&f=false) si legge: Narra la venuta di Diomede nell’Apulia Sileno Chio, così dicendo: “Essendo ritornato Diomede figliuolo di Tideo e di Deifile nella patria dopo la guerra troiana, è fama che per vendetta della ferita che aveva fatta agli dei Marte e Venere, la sua moglie Egialea, fosse stata agitata da incredibile desiderio, e quasi da un certo furioso amore verso Cometa figliuolo di Stenelo, o di Cillibari, come altri dicono. Però ritornando a casa ritrovò di tal modo la moglie infiammata nell’amore di quello, che poco mancò che non fosse stato ucciso da essa Egialea, essendosi appena salvato all’altare di Giunone Argiva. Preso allora da disperazione, passò in Italia ai popoli detti Dauni, ai quali a que’ dì signoreggiava il re Dauno. Or avvenne che in quel tempo Dauno stava assediato da’ suoi, ed inteso il valore e la fortezza di Diomede poco prima in Italia arrivato, mandò a pregarlo che in quella necessità gli desse aiuto, promettendogli in rimunerazione di tanto beneficio donargli parte del suo regno. Ed essendo egli andato in aiuto ai Dauni, ed avendo per quelli conseguita la vittoria, edificò la città chiamata Argirippa, che stabilì per sua reggia. Dauno volendosi dopo dimostrare non dimentichevole di tanto beneficio, propose e concesse a Diomede che a suo arbitrio eleggesse s’egli voleva accettare tutta la preda fatta , o tutta la regione tolta al nemico. Non volle Diomede scegliere né l’una né l’altra cosa; e Dauno desiderando soddisfarlo con altro dono sufficiente degno della sua magnificenza, ne fe’ giudice Altero fratello spurio di Diomede. Ma perché Altero erasi invaghito di Evippa sorella di Dauno e volle compiacere ad esso Dauno, aggiudicò il paese a Dauno, e comandò che la preda si desse a Diomede. È fama che di quel giudizio si sdegnasse Diomede…” … Leonzio Tomeo nella sua Varia Storia narra quasi lo stesso, poco variando con queste parole: ”Diomede dopo distrutta Troja ritornando in Argo, avendo appena potuto scampare da’ tradimenti e dalle violenze della moglie Egialea, la quale disonestamente erasi congiunta con Cometa figliuolo di Stenelo, ed essendo anche fuggito nel tempio di Giunone Argiva, posta in ordine una nave, e presi seco molti compagni, dicono aver abbandonato la patria; e passato in Italia; giunse a caso nella regione degli Japigi detti Dauni da Dauno loro re. Il quale Dauno trovavasi allora in gran pericolo, essendo assediato ed oppresso da nemici convicini. È fama essere stato Diomede allettato in guida da Dauno che gli promise parte del suo regno. Ed avendo Diomede superati col suo esercito i nemici di Dauno, chiese dopo la promessa fattagli; ma Dauno non volle dargli parte della regione, come aveva promesso, ma solamente la preda guadagnata su’ nemici nella guerra. Onde messasi la cosa in controversia, volle Dauno che ne fosse arbitro Altero, fratello spurio di Diomede, col consenso però di esso Diomede. Dicesi che Altero profferì la sentenza in favore di Dauno, perciocché sommamente amava Evippa, sorella di esso Dauno. Per la qual cosa adirato Diomede, dicono aver pregato gli dei che le terre …”.
Il lettore deve sapere che il volume del Morciano reca in sottotitolo con aggiunte del filosofo e medico Domenico Tommaso Albanese di Oria, per cui non saprei chi sia il giusto destinatario del rimprovero che ho il dovere di esprimere perché di Sileno Chio abbiamo solo la notizia che di lui ci dà Giovanni Tzetzes (XII secolo) in uno scolio al verso 786 di Licofrone: Σειληνὸς δὲ ὁ Χῑος ὲν δευτέρῳ τῶν Μυθικῶν ἱστοριῶν, δύο δὲ γέγραφε βιβλία, φησὶν Ἀντίκλειαν εἶναι τὴν Ὀδυσσέως μητήρα … (Sileno Chio nel secondo libro di Racconti mitici, scrisse due libri, dice che Anticlea era la madre di Ulisse …) e anche se fosse stato confuso con lo storico Sileno di Calatte va detto che di quest’ultimo ci sono rimasti solo pochi e brevi frammenti (nei quali non compare, comunque, nessuno dei nostri personaggi) e sarebbe di per sé strano che il pezzo citato in traduzione fosse così lungo. Le stesse osservazioni valgono pure per Leonzio Tomeo.
Alla fine di questo intricato e sofferto excursus se penso che Εὐίππη (di cui Euippa/Evippa appare trascrizione-adattamento latino) ha il suo corrispondente maschile in Εὔιππος (leggi Èuippos) (Iliade, XVI, 417), che questo è dal maschile dell’aggettivo εὔιππος/εὔιππον (leggi èuippos/èuippon) composto dall’avverbio εὖ (leggi eu)=bene e da ἵππος (leggi ippos)=cavallo, con i significati: dai bei cavalli, rinomato per i cavalli (detto di luoghi), che ha bei cavalli, abile a cavalcare (riferito a persona), come faccio a non sospettare che il nome della nostra regina non sia un’invenzione tardo-rinascimentale, per quanto abile, che sfrutta pure la suggestione del virgiliano At Messapus equum domitor Neptunia proles (Messapo domatore di cavalli discendente di NetTuno) del v. 691 del libro VII dell’Eneide?
Rimane da spiegare Euippa/Evippa. Lo farò con un esempio in cui si verifica lo stesso fenomeno: l’italiano Euergète/Evergète (soprannome di parecchi re del mondo grecofono) deriva direttamente, come mostra il suo accento, dal greco Εὐεργέτης (leggi Euerghètes), mentre in latino è Euèrgetes e la parola è sdrucciola perché la penultima sillaba (ge), essendo la trascrizione del greco γε (in cui ε è una vocale breve per natura), è breve. Εὐεργέτης significa benefattore ed è composto da εὖ, che abbiamo visto pure come primo componente di Εὐίππη, e da ἔργον (leggi ergon)=opera. Il passaggio, poi, u>v è di natura eufonica, per evitare, cioè, l’incontro fra tre vocali, tant’è vero che ciò non avviene quando eu– è seguito da consonante (eufemismo, euforia , etc. etc.). Per concludere questa parte: se volessimo restare fedeli alla forma originale dovremmo dire Euippa.
E a proposito di Euippa e di suo marito faccio notare come i due coniugi regali sono gli unici a presentarsi con due distici elegiaci perfetti:
CONIUGI|O EUIP|PAE||QUAM| CONDIDE|RAT SOCER | URBEM
Per concludere definitivamente, invece, noto come la disposizione dei personaggi mi appare perfetta: il “presente” (i due sovrani) agli estremi opposti (a sinistra Euippa, a destra Lictio Idomeneo) e al centro, sempre partendo da sinistra, il “passato” (Dauno e Malennio). Più complicato sarebbe stato fare lo stesso su una superficie orizzontale, quale può essere un asse viario; infatti, mentre via Malennio, via Dasumno e via Euippa (io, comunque, avrei scambiato di posto Dasumno con Malennio) si fanno reciprocamente compagnia, Lictio Idomeneo (privato pure del Lictio …) con la sua via sta a debita distanza, come se restasse un estraneo alla famiglia; per non parlare, poi, del povero Dauno, al quale non mi risulta sia stato intitolato almeno un tratturo. In compenso Euippa ha avuto un replica di onoranza allusiva all’etimo del suo nome in Vicolo Cavallerizza …
Centro urbano tra i più affascinanti del basso Salento, Nociglia custodisce importanti quanto inaspettate bellezze. Un considerevole patrimonio monumentale, delicato quanto promettente, sottratto all’azione devastatrice del tempo e oggi pronto alla valorizzazione e alla pubblica fruizione.
Proprio questi ultimi sono tra gli obiettivi prioritari dell’Associazione Culturale “De là da mar. Centro Studi sulle Arti Pugliesi” di Lecce, associazione senza scopo di lucro costituita da docenti, ricercatori e professionisti del settore, impegnata da un quinquennio nella promozione del patrimonio storico-artistico pugliese.
Dopo la pregevole pubblicazione dedicata alla Chiesa di Santa Maria de Itri, edita nel 2011, in occasione della Giornata FAI di Primavera, l’Associazione torna a Nociglia con un nuovo progetto.
Sabato 10 e domenica 11 maggio, dalle ore 10 alle ore 13 e dalle ore 16 alle ore 19, sarà possibile partecipare alla visita guidata gratuita del centro storico di Nociglia. Nel percorso, oltre alla già menzionata Chiesa di Santa Maria de Itri, autentico scrigno d’arte connotato da un palinsesto pittorico in cui si riconoscono ben sei fasi decorative, la più antica delle quali risale all’XI secolo, sarà possibile ammirare la Chiesa Matrice dedicata a San Nicola di Mira, architettura in stile neogotico progettata sul finire del XIX secolo da Filippo Bacile di Castiglione, l’elegante chiesa seicentesca della Congrega di Santa Maria Assunta e il Castello Baronale del XVI secolo, un tempo sede della famiglia Gallone e oggi promettente polo culturale.
Al termine del percorso sarà possibile visitare la mostra di arte contemporanea “Silenti Stanze”, curata da Carmelo Cipriani e allestita nelle sale al piano terra del Castello Baronale. Otto gli artisti invitati (Giovanni Carpignano, Pierluca Cetera, Francesco Cuna, Luigi De Rinaldis, Jolanda Spagno, Giuseppe Sylos Labini, Matteo Tenardi, Cosimo Damiano Tondo) a raccontare il loro passato e il loro presente, a lasciare nuovi segni, esaltando la storicità del contesto, la sua intrinseca e sopita vitalità. Ciascuno di loro espone uno o più lavori, testimonianze di ricerche singolari, alcune radicate nella realtà, altri tendenti al sogno e all’ascesi. Un percorso dialogico capace di travalicare il puro risultato estetico in favore di un’accorta ponderazione.
Aspiranti ciceroni saranno gli studenti dell’Istituto Marcelline di Lecce e gli alunni dell’Istituto Comprensivo di Botrugno-Nociglia-San Cassiano-Supersano.
Il progetto è organizzato nell’ambito del “Maggio Salentino 2014”, ampia manifestazione organizzata su scala provinciale dall’Associazione Ce.le.stass di Lecce.
GLI AFFRESCHI SULLA SERRA DELL’ALTOLIDO PRESSO GALLIPOLI
Questo terzo volume della collana De là da mar è dedicato ai preziosi affreschi medievali di San Mauro. La chiesa dell’antica abbazia italo-greca svetta tuttora sulla collina dell’Altolido di Gallipoli, lungo la direttrice per le marine di Nardò.
L’importante monumento, per più di un secolo drammatico manifesto della marginalizzazione e dell’incuria del patrimonio storico-artistico meridionale, dopo coraggiose ed estenuanti battaglie civili, appare il protagonista di una rinascita culturale. Il risultato è da ascrivere soprattutto al Comune di Sannicola, il cui territorio comprende l’Altolido gallipolino, che ha acquisito la proprietà della chiesa di San Mauro e ne ha promosso recupero e valorizzazione, azioni emblematicamente rappresentate anche da questo libro.
Questo volume, pure imperniato sulla qualità degli scritti, è dotato di un pregevole apparato iconografico, che esalta i dettagli, nonché di tavole grafiche di esemplare chiarezza. Il suo progetto editoriale conclude idealmente l’esemplare “restauro preliminare”, compiuto dal Comune di Sannicola e affidato allo Studio Costantini, dove gli affreschi sono stati sottratti a uno stato di “caduta spontanea” nonché riconosciuti nella loro reale ampiezza e scansione, e anticipa gli attesi esiti di un intervento degli Uffici periferici del Ministero BB.CC., dove, ripartendo da uno studio progettuale, si disvelano i brani pittorici inediti, già individuati, sotto agli scialbi, nel “restauro preliminare”. In particolare, il volume, multidisciplinare, raccoglie nove selezionati saggi, utili a rendere visibile un “patrimonio latente” sconosciuto e che, prima d’oggi, era, al più, solo sospettabile. Alla rivelazione di questa ricchezza hanno concorso illustri accademici, valenti ricercatori e professionisti di chiara fama.
Sergio Ortese, direttore della collana e curatore del libro, nel suo contributo chiarisce che sino dal Seicento innumerevoli articoli e saggi hanno preluso alla focalizzazione di un quadro storico-artistico e archeologico oggi scoperto o ancora da scoprire nell’antichissimo sito abbaziale.
Le vicende dell’insediamento abbaziale sono raccontate in un saggio di Mario Cazzato, dove, ripercorrendo i più aggiornati studi sulla civiltà bizantina medievale del Basso Salento, s’individua nell’area di Gallipoli e nel suo entroterra l’origine stessa di un grande fenomeno. Oltre alle vicende storiche sono esaminati alcuni aspetti dell’evoluzione tipologica dell’impianto architettonico.
Marina Falla Castelfranchi, con la sua consueta limpidezza, riesce a circostanziare la fondazione e la decorazione della fabbrica. Inoltre, ribadendo la peculiarità del ciclo gallipolino, di traslare una decorazione nata in chiese a pianta centrale in uno schema longitudinale, punta l’attenzione su alcuni inediti brani del ciclo cristologico. La studiosa attribuisce il ciclo pittorico a «un concepteur di profonda cultura» e, confrontandolo con altri programmi iconografici, giunge a cogliere l’importanza della stagione “bizantina” del Salento nonché a collocare i dipinti alla fine del XIII secolo.
Sempre sul versante iconografico, un saggio di Manuela De Giorgi, interfacciandosi agli esiti del restauro preliminare, riconosce, con dovizia di particolari, il variegato “Santorale” di evangelisti, monaci, vescovi, eremiti e militari, intessuto su absidi, pilastri e sottarchi della chiesa, in un gioco di alternanze e corrispondenze iconologiche. A testimoniare il ruolo di punta degli affreschi di San mauro tra le eccellenze della pittura italogreca interviene un’adamantina lettura stilistica e iconografica di Valentino Pace.
Lo studioso inquadra gli affreschi della chiesa di San Mauro, insieme a quelli della vicina abbazia di San Salvatore, in un «panorama dai vasti orizzonti, partecipi del sistema espressivo dei territori dell’ortodossia, determinato e siglato dall’inerenza ‘greca’ della loro committenza». Quanto alla natura materiale e allo stato conservativo delle superfici, decorate e no, di San Mauro il volume accoglie due contributi del “CNR – Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali” di Lecce: Francesco Gabellone ricostruisce il Monumento con tecniche di laser scanner, fotogrammetria e fotomodellazione 3D, mentre Giovanni Quarta e Davide Melica presentano gli esiti di una notevole indagine diagnostica sugli affreschi.
Centrale l’apporto del saggio (con ricca appendice) di Giuseppe Maria Costantini. Al restauratore e studioso è demandato il compito di illustrare gli esiti dello straordinario intervento di restauro preliminare, dall’indagine critica stratigrafica, un metodo specialistico finalizzato a riconoscere e distinguere tutti gli strati superficiali che costituiscono la storia materiale di ogni singola superficie murale dell’edificio, alla messa in sicurezza degli affreschi, ai saggi di restauro in opera e relative elaborazioni progettuali. In questo volume, le necessarie comparazioni con altri cicli pittorici sono tante, tuttavia è sembrato indispensabile che uno dei monumenti evocati fosse trattato, sia pure sinteticamente, assieme a San Mauro: la vicina San Salvatore, antico complesso abbaziale italo-greco, oggi inglobato in una masseria abbandonata e in fase terminale di degrado; un bene di privati che il mondo della cultura, raccolto attorno al Comune di Sannicola, cerca disperatamente di salvare. Maria Ritana Schirinzi, da sempre interessata a San Salvatore, fino dai suoi studi presso i Laboratori di Restauro in “Architettura Valle Giulia”, fornisce un esame architettonico-urbanistico del monumento nonché un suo accurato rilievo grafico.
Nello stesso capitolo, Giuseppe M. Costantini conduce un sintetico esame tecnologico delle superfici della chiesa, con interessanti esiti diretti o indiretti.
Se ne è discusso a Lecce, sabato 3 maggio, presso l’Open Space in piazza Sant’Oronzo
La Dieta Mediterranea tornerà più a …casa?
La dieta mediterranea è sempre meno seguita in Italia
soprattutto dai giovani e dalle fasce con un basso livello socio-economico
a cura di Pro_Salento • Dieta Med-Italiana
La dieta mediterranea, riconosciuta dalla scienza come una dieta tra le più salubri nel mondo, è diventata un punto di riferimento per la relazione positiva tra abitudini alimentari e capacità di prevenzione delle malattie croniche degenerative. I suoi benefici per la salute, la qualità e la durata della vita sono legati alla composizione dei suoi alimenti caratteristici, che sono prevalentemente di origine vegetale, e al loro consumo diversificato e bilanciato. Purtroppo, però, la dieta mediterranea è sempre meno seguita, soprattutto dai giovani e dalle fasce con un basso livello socio-economico. Numerose indagini hanno infatti mostrato un aumento di sovrappeso e obesità. Secondo dati recenti, il 31% degli adulti risulta in sovrappeso e il 10% risulta obeso, mentre il 22,2% dei bambini di 8-9 anni è in sovrappeso e il 10,6% in condizioni di obesità e il fenomeno è più diffuso al Sud, particolarmente in Abruzzo, Molise, Campania, Puglia e Basilicata.
Una possibile causa del fenomeno è che la percezione esclusivamente “salutistica” della DM ha rimosso tutti i fattori culturali legati all’alimentazione. Se da una parte questa è stata una delle ragioni del suo successo presso le elite di ogni parte del mondo, compresa una fascia molto ristretta della popolazione italiana, dall’altra ha probabilmente contribuito ad allontanarne proprio quegli strati popolari presso i quali si riscontrano oggi i maggiori problemi di salute dovuti a una cattiva alimentazione. Ma tornare indietro non è facile, e intorno alla dieta mediterranea occorre oggi ricostruire, almeno in parte, una cultura adatta ai tempi e adatta a tutti. Una cultura che dovrebbe comprendere anche il tema della sostenibilità.
Ed è questo il tema che, nel contesto dell’evento “Capitale della Cultura del Buon Cibo – Festival della Dieta Med-Italiana”, ha affrontato a Lecce Sandro Dernini e Roberto Capone, in un incontro provocatorio dal titolo “La Dieta Mediterranea tornerà più a …casa?”, che si è tenuto sabato 3 maggio presso la sala Open Space in piazza Sant’Oronzo, in stretta relazione con la serie di attività sulla dieta mediterranea come modello di studio per la valutazione della sostenibilità delle diete e dei consumi alimentari condotte dalla FAO in collaborazione con il Centro Internazionale di Alti Studi Agronomici Mediterranei (IAMB) di Bari.
Poco importa che ognuna delle protagoniste della sezione “Ritratti” del recentissimo libro di Wilma Vedruccio edito da Kurumuny, 2013, proponga un aspetto del Salento: la carnalità di Carmela, “I capelli biondi di Carmela”; il barocco del putto della Pala di Santa Lucia di Lorenzo Lotto, “Il bimbo di Lotto”; la seduzione, la malizia e la vanità della protagonista de “La casa del Sale”; l’archetipicità di Maria (Maria); la punta di follia di Cocettina; la gioiosità e l’ingenuità della ragazza di copertina… Tutte sfaccettature della femminilità e del Salento che restano indelebili nella memoria.
Poco importa che “Naturalia” ci rinfreschi gli inimitabili panorami – anche dell’anima – del Salento contadino vissuto attraverso ricordi arcaici, ritmi e abitudini di tempi antichi, lunghi e silenziosi (“Orti “, p. 70): “A far bello il Salento, orti e ortolani (…) In primavera la terra, lavorata da mani di antica sapienza, diventa grassa, umida, promettente e le giovani piantine, allineate in filari con grande precisione, incoraggiate da poche gocce d’acqua, crescono in poche settimane, si spandono sul terreno, s’arrampicano a sostegni di fortuna, brillano col loro verde nuovo al sole, promettono frutti e maturano ortaggi e legumi già ai primi giorni dell’estate”.
E’ che in verità in questa ultima raccolta di racconti, il Salento – terra amatissima dalla scrittrice dove è nata, dove vive e dove si “agita”, come lei stessa afferma – è vissuto e amato attraverso un’esplosione dei sensi, di tutti i sensi. Si legga, per esempio, il racconto intitolato “La domenica di un laico solitario” in cui il rapporto con il mondo esterno è ritmato dai sensi: il protagonista va in bicicletta a sentire l’odore della terra dopo la pioggia, a vedere le piantine appesantite dalle gocce d’acqua che dondolano piano di benessere (…) Poi c’è la radio che offre la sua migliore programmazione proprio nel mattino domenicale, bisognerebbe stare col fiato sospeso senza far nulla, per ascoltare (…) Come è buono l’odore della roba lavata, sa di nuovo, sa di leggero come un corpo rinfrancato. Come un’anima nuova” (p. 22). Ancora, in “Delle colombe il non volo”: “La magnificenza di Dio si sarebbe rivelata ai loro occhi, alle loro ali, in tutti gli odori, nella varietà dei sapori, nella varietà delle forme” (p. 41).
Nei racconti si avverte una tensione continua, una volontà, un desiderio, un impegno alla perfezione, alla Bellezza, all’assoluto. E’ così anche per Dio – “Il divino pittore”, p. 44 – nella sua Creazione: “Sulla tavolozza i soliti colori base, erano le sfumature il suo esercizio preferito su cui si ostinava da tempo alla ricerca della pennellata pura per cui poter dire: “Ecco, era proprio questo che cercavo di fare” (p. 44). E’ così per il cane fedele al padrone che non lo vuole più perché è fedele a se stesso (“Randagio”, p. 34). E’ così per la stessa Wilma impegnata, tesa fino alla ultima fibra del suo corpo anche attraverso Facebook a difendere la sua bella terra e a smascherarne abusi e brutture.
Infine, questa raccolta è sotto il segno del sole presente non solo nei titoli (“Prima del sole”) ma che è protagonista di ogni racconto. Sole, manifestazione della divinità che ha benedetto questa terra. Sole, energia illuminante, fonte di luce, di calore, di vita.
Wilma Vedruccio, La casa del sale – Storie di un altro Salento, Edizioni Kurumuny, 2013
Strano paese il nostro, in cui la commistione tra pubblico e privato ha progressivamente assunto caratteri non facilmente decifrabili fino a giungere al massacro dell’articolo 41 della Costituzione.
A proposito di quest’ultima: paradossalmente la sua invocata riforma è stata, secondo me, avviata da tempo con la sua forma più radicale e sostanziale: la non applicazione; così, nel dettaglio, l’articolo 41 si è ridotto a conciliare, soffocato nelle spire mortali delle interpretazioni, nello stesso tempo sottili e rozze, del legislatore di turno, due opposte esigenze: il profitto privato da un lato, che ha fatto del ricatto occupazionale la sua arma preferita, il potere politico (ribadisco, il potere politico, che per come è inteso e gestito non è lo Stato, anzi è lontano anni luce dal suo sano concetto ) dall’altro, che ha issato senza pudore sul campo di battaglia, in cui è facile intuire chi sono le vittime, le bandiere, che imperterrite continuano a sventolare, della corruzione, della connivenza e del conflitto d’interessi.
Non sempre in Italia e, per restare nell’alveo dello spirito di questo sito, nel Salento le cose sono andate così. Ciò che riporterò riguarda le banche, ma, cambiando solo uno dei protagonisti, il privato di turno, il discorso oggi vale pure per le società partecipate, la Sanità, etc., etc.
Il Salento tra crisi e bellezze nel film di Winspeare ‘In grazia di Dio’ (Italia, 2014, 128’)
di Paolo Rausa
Si può vivere ‘In grazia di Dio’ nell’estremo lembo del Salento, fiocamente irradiato dal Faro del Santuario della Madonna de finibus terrae? Ai confini della terra conosciuta, dove l’amore è una lettera trovata nel tronco dell’ulivo – scrive Vittorio Bodini, la vita è una conquista dura e amara, come la pietra di queste rocce a picco sul mare, che lambiscono le campagne salentine, unica e ultima risorsa a cui le donne tenacemente si attaccano. I tentativi di uscire dalla condizione di disoccupazione e di miseria si infrangono contro gli scogli della crisi e dei debiti contratti in una attività manifatturiera tessile. Le banche e le finanziarie non aiutano e non perdonano, per la verità neppure lo Stato che chiede il conto salato con Equitalia. La gente del sud sembra condannata alla condizione di vassallaggio nei confronti della terra, il lavoro è duro, ma ancor più i sentimenti e le aspirazioni trovano difficoltà a dispiegarsi, nonostante la bellezza di questa terra e di queste donne che sono destinate a sorreggere il corso dell’economia e della storia, mentre gli uomini si fanno irretire dal facile guadagno illegale o scappano all’estero.
Il sole sul Salento è sempre offuscato da un cielo plumbeo e riflette le condizioni della durezza di Adele (la bella e brava Celeste Casciaro) che fa fatica a reimpostare la sua attività di onesta contadina, mentre speculatori di ogni risma cercano di sottrarre anche la terra sotto i suoi piedi. Adele rivendica fieramente la sua condizione e respinge le profferte economiche, miraggi che si mangerebbero l’anima. E’ lei che lotta a denti stretti contro le circostanze, negandosi un sentimento facile e soprattutto aprendo gli occhi alla sorella Maria Concetta (Barbara De Matteis) che sogna un ruolo improbabile di attrice e alla figlia Ina (Laura Licchetta), che insegue facili amorini e il disimpegno sociale e scolastico. Solo la madre Salvatrice (Anna Boccadamo), china sui solchi, comprende che l’amore non ha età e si abbandona alle emozioni quando Cosimo (Angelico Ferrarese) la aiuta nei lavori della campagna, sostituendo il marito defunto. Il bagno ristoratore e lustrale nel mare cristallino prepara il terreno al loro matrimonio e alla promessa di felicità, confessata davanti all’immagine della Madonna. Nonostante tutto, la fatica e le conseguenze di un rapporto giovanile di sesso gravido di conseguenze, si afferma la figura della donna del Sud rappresentata da questa tenace Adele che riesce a mantenere unita la famiglia e da lì ripartire per una nuova prospettiva economica e un progetto di società, basato per poter progredire sul patrimonio culturale e ambientale di questo mondo, magico e duro da vivere.
Ci sono molti modi per scoprire le cose, per imparare. Ricordo, ero a Castro Marina, era un lungo inverno. Noi di lassù spesso non conosciamo i venti, anche i punti cardinali sono quasi dei misteri per marinai, aviatori e americani, noi diciamo destra e sinistra, su e giù. Nord, ovest, sud, est poco ci appartengono, un contadino piemontese aveva altri parametri. Qualcuno ha provato a farli entrare nel lessico corrente, però l’uscita autostradale Genova Ovest rimane “quella di Sampierdarena” , ovest è solo un nomignolo affettuoso. L’uscita Asti est invece uno scioglilingua “astest”.
Quando un vento appiccicoso arriva, lassù, lo chiamiamo vento appiccicoso e umido. Là a volte tira libeccio, loro lo conoscono per nome, i genovesi, sono gente di mare. Noi , “con quella faccia un po’ così, quell’espressione un pò così”, quando vediamo Genova, rimaniamo a sentirne i profumi e gli olezzi e non parliamo con i venti chiamandoli per nome, la sabauda austerità non lo prevede.
Così quell’inverno a Castro marina passò lentamente. La domenica era molliccia, un giornale, un libro, la radio, niente TV perchè funzionava male. Anche il computer era senza connessione. Fuori passeggiavano, se non pioveva, turisti della domenica invernale, coppiette mano nella mano, signorine con improbabili tacchi alti come trampoli, i loro accompagnatori, a volte, con tagli di capelli bizzarri, rasati fino a un certo punto, poi di netto partiva una capigliatura monca. Altre coppie con bimbi e carrozzine, altre meno giovani. Tutti a guardare Castro e il mare. Tutti a parlottare di chissà cosa. A volte pioveva, spesso c’era sole. Il caffè al bar di prima mattina, il castriota (forse pescatore), che diceva se il vento era tramontana o scirocco, a volte scirocchetto o tramontanella, ed io mi chiedevo se erano affettuosi vezzeggitivi o ammiccamenti. Però lui sapeva se arrivavano da nord o da sud. E io a guardare il sole, per capire dove diavolo era sorto e scoprire l’est.
Improvvisamente fu illuminazione. Seduto al tavolo, con morbidi cuscini sulle seggiole della sala da pranzo, imbottiti in gommapiuma, ho sentito umido, quasi bagnato. Lo scirocco che non lascia asciugare la roba stesa e inumidisce i cuscini. Ho capito. E’ scirocco quando ti siedi ed hai il culo umido.
Come al solito ho esagerato, perché basterebbero i soli pregiudicati italiani, magari solo quelli bazzicanti in politica, a garantire il successo del movimento …
Dopo il mio suggerimento (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/04/09/se-diventassi-ministro-della-salute/) al ministro della Salute di emanare una circolare interpretativa sul nuovo significato da far assumere al DISPENSATO presente sulle fustelle dei medicinali attualmente a carico parziale o totale del S. S. N. (quelle due esse iniziali sono piuttosto inquietanti …), provvedimento, stranamente, non ancora assunto …, eccomi ora a parlarvi di qualcosa che, invece, è già in atto, sia pure in modo, non poi tanto impercettibilmente, strisciante.
La parola coinvolta, questa volta, è, appunto, PREGIUDICATO. Come avevo fatto con DISPENSATO, cito quanto riportato nella Treccani on line:
PREGIUDICATO: s. m. (f. -a) [part. pass. di pregiudicare]. – Persona che ha riportato una o più condanne penali o è già stata sottoposta a misure di sicurezza personali.
A PREGIUDICARE: v. tr. [dal lat. praeiudicare, comp. di prae- «pre-» e iudicare «giudicare»] (io pregiùdico, tu pregiùdichi, ecc.).
1.
a. Con sign. etimologico, raro, giudicare anticipatamente, esprimere un giudizio prima di avere acquisito piena ed esatta conoscenza dei fatti e degli elementi necessarî.
b. Più com., nel linguaggio giur., riferito a decisione, formula, espressione che, contenendo più o meno implicitamente un giudizio di fatto, può compromettere quello del giudice competente (v. pregiudizio).
c. Con sign. analogo, nel linguaggio com., ostacolare o deviare lo svolgimento regolare di qualche cosa, rendere difficile una sua soluzione nel modo desiderato: con quell’incauta dichiarazione, hai pregiudicato la situazione; è un intervento che potrebbe p. l’esito delle trattative.
d. Per ulteriore estens., compromettere, danneggiare: un grosso scandalo ha pregiudicato la sua reputazione; sono atteggiamenti irresponsabili che possono p. il vostro avvenire; è uno sport troppo faticoso, che finirà col p. la tua salute.
2. Letter. l’uso intr. con un compl. di termine, nel sign. di recare pregiudizio, recare danno: assai è buono cittadino chi è zelante del bene della patria e alieno da tutte le cose che pregiudicano al terzo (Guicciardini); vizio è qualora il bene privato si oppone o pregiudica al pubblico bene (Muratori). ◆ Part. pres. pregiudicante, anche come agg., non com., che reca pregiudizio, che compromette o può compromettere: considerata l’opposizione, si trovasse modo d’usar parole non pregiudicanti (Sarpi). ◆ Part. pass. pregiudicato, anche come agg.: una questione, una situazione irrimediabilmente pregiudicata, compromessa. Per l’uso del part. pass. come sost., v. pregiudicato.
Se DISPENSATO mi ha ispirato un consiglio, PREGIUDICATO mi ispira una constatazione: esso come sostantivo ha perso l’unico significato che aveva (in pratica era sinonimo di condannato in via definitiva) per recuperare quello originario di participio passato di PREGIUDICARE, sicché oggi il pregiudicato, soprattutto quello eccellente, ha ogni diritto di considerarsi una vittima incolpevole del pregiudizio, un ingiustamente perseguitato e danneggiato, un martire e di ritenere, perciò, offensivo perfino il suo affidamento ai (leggi agli in caso di scioglimento dell’acronimo …) S. S.; sempre meglio, comunque, delle SS evocate da me all’inizio e da altri in una delle sue tante brillanti quanto fraintese battute.
In passato non sarebbe stato necessario essere un giurista per chiedersi: – Se poi il pregiudicato dovesse approfittare della fragilità dei soggetti affidati alle sue amorevoli cure (sfortuna su sfortuna …) per farsi propaganda elettorale anche tra loro, non si configurerebbe comunque, nonostante ciò rientri nei confini riconosciutigli (generosità per me totalmente incomprensibile e che, cosa ancora più grave costituisce un pericolosissimo precedente) di agibilità politica, un conflitto di interessi (ancora un altro!), cioè uno scontro, che nemmeno il più bizantino dei ragionamenti potrebbe comporre, tra un interesse nemmeno partitico ma privato, ribadisco privato, e l’interesse pubblico, che nella fattispecie s’identifica col rispetto del più elementare senso della legalità e della giustizia, anzi, tout court, del buon senso? –
Se oggi qualche ingenuo dovesse porsi quella stessa domanda, non dovrebbe sentirsi offeso da una risposta di questo tipo: – Ma non ti sei ancora accorto della nuova accezione assunta da pregiudicato e ormai de factu ratificata? –
O no?
E allora, poiché non amo la bieca critica fine a se stessa ma sono uno spirito (tutti infatti dicono che sono spiritoso) propositivo, anche questa volta, dopo la constatazione, un suggerimento. Visto che si è già messo mano pesantemente sulla Costituzione e si ha la volontà di continuare a farlo, propongo che il nuovo articolo 1 sia così riscritto in un ultimo sussulto di sincerità e rispetto della realtà (questo mi fa capire perché la politica non è per chi ama l’utopia, insomma per la folle categoria dei sognatori tra i quali, pure io in un sussulto, ma di presunzione , mi colloco): L’Italia è una Reprivata oligocratica basata sulla spregiudicatezza.
Per fare le cose per bene, poi, e una volta per tutte eliminare ogni rischio di fraintendimenti interpretativi, basterà sopprimere dal lemma spregiudicatezza (questa volta, per la par condicio, mi rifaccio al dizionario De Mauro) la definizione mancanza di scrupoli; libertà di costumi; licenza verbale e lasciare, magari enfatizzandola, l’altra: indipendenza di giudizio, libertà da condizionamenti e preconcetti manifestata specialmente in discorsi e atteggiamenti anticonformisti.
D’origine très ancienne, la pizzica tarantata est traditionnellement liée aux rites de guérison de la piqûre de la tarentule, véritables expériences de transe provoquée par le rythme incessant et obsessionnel des tambourins, que l’on trouve encore dans le Salento la province plus méridionale de la région des Pouilles, dans l’Italie du sud.
Aujourd’hui ses fêtes se fondent aux nouveaux festivals de musique. La Notte de la Taranta par exemple, réunis chaque année dans le Salento des dizaines de milliers de personnes.
Nidi d’ARAC est un des groupes phares de cette génération qui a su assimilés et retravaillés tradition populaire et musiques modernes, rock et électronique.
Maristella Martella est la danseuse soliste de la Notte de la Taranta et a créer sa propre école Tarante à Bologne. Elle sera accompagné des danseuses de la compagnia Tarantarte.
Sud Italia e Magia Julien Colardelle (Suffel Collectif) Flaminia Vulcano (Localmentevents), Direction artistique Baptiste Joxe, régie générale Victore Burel, Régie lumière
Con la pittura digitale, che sgorga dalla fusione della computer grafica, matite colorate, fogli ed acquerelli, Piero Schirinzi realizza un percorso da consumarsi in un tempo passato: quello dell’infanzia. Vissuto con gli occhi di un’anima non contaminata, il cui contesto è puro, la cui aria è satura di colori; è il tempo dell’entusiasmo, della scoperta del mondo, tangibile e spirituale.
Immagini fantastiche, a volte oniriche, dove nulla è turbamento per lo spirito; dove, anzi, questo si quieta nella mitezza dei contrasti cromatici, nell’armonia tra paesaggi e figure.
La tecnica di un creativo e la mente di un’artista: da questo fondersi nascono le sue opere.
La maturità e l’infanzia. Due estremi che raccontano le stesse eterne emozioni.
Questo topos che Piero concretizza in queste opere è frutto d i un percorso esistenziale che vede l’arte quale perno centrale.
La partecipazione a mostre, i riconoscimenti e premi che egli ha ricevuto praticando la pittura ne sono testimonianza, unitamente alla carriera professionale intrapresa con ottimi risultati: quella di grafico, creativo al servizio della comunicazione.
Piero Schirinzi è nato a Vervier (Belgio) il 10 settembre 1960, vive e lavora in un paese della provincia di Lecce.
Dopo aver frequentato, gli studi d’arte ed aver maturato una lunga esperienza nelle arti figurative, ha “ripiegato” la sua formazione artistica nel campo della comunicazione visiva.
Da oltre 20 anni lavora come libero professionista nel settore pubblicitario e parallelamente come grafico illustratore.
Negli ultimi anni, ha stretto collaborazioni con FilmMakers professionisti, per la realizzazione di videoclip animati e cortometraggi, sperimentando anche scenografie multimediali per il teatro.
Sulla quieta distesa d’intenso azzurro del mare di Castro.
Dietro i soffi, fumosi, dello scirocco attaccaticcio.
Lungo i sussulti, impetuosi, delle onde color verde e cenere e frammiste a irrequiete macchie di schiuma candida.
Sulla silhouette di un insolito affascinante aquilone che volteggia silente, in alto, rimirando, con distacco, selve di festaioli incolonnati in rumorose scatole di latta a motore.
Nella cornice di un edicola votiva a Maria delle Grazie, impressa a disegno sul muro di un borgo paesano, con l’incerta e approssimata dedica “Per divozione (devozione) di Oronzo Fachiechi (Fachechi).
Nella coppia di un lui e una lei, nubendi nell’aprile 1964, quarantacinque anni d’età insieme, come pure nell’attuale famiglia allargata di tredici componenti, che ne è conseguita.
Davvero, a prescindere dal nome del Dio, non è difficile, né tantomeno impossibile, crederci, anche se, farlo, può talora tornare scomodo.
Quando si costruiscono eroismi di carta, sabotando e falsificando la realtà si costruiscono dei totem d’argilla fragili ma pronti ad essere adorati dalla massa.
Chi cerca di ricostruire i fatti alla luce della verità della storia, nella migliore delle ipotesi è tacciato di revisionismo.
Il 3 aprile 2014 ANPI Lecce ha inaugurato la sede cittadina. La lotta di liberazione è sempre stata vissuta come qualcosa di lontano, che riguardava il nord. In realtà la Resistenza combattuta era lassù, il meridione era terra già liberata dallo sbarco in Sicilia in avanti. Qui si viveva l’altra Italia, a Brindisi arrivò anche il fuggiasco eccellente con tanto di corte e cortigiani. Tuttavia, faceva notare Maurizio Nocera, segretario provinciale ANPI Lecce, l’apporto dei meridionali è stato incredibilmente elevato. Dall’otto settembre molti sbandati a nord si unirono ai partigiani e prima ancora furono molti i salentini e i pugliesi che andarono ad affiancare gli jugoslavi nella lotta partigiana. Inoltre, sempre dopo l’otto settembre, numeri molto consistenti di soldati rimasti fedeli al re vennero deportati nei lager nazisti. Patrioti anche loro, non seguirono la famigerata repubblica di Salò e non si piegarono ai nazisti, rimasero fedeli al giuramento anche nonostante l’infame fuga della corte a Brindisi. Abbiamo parlato con Maurizio Nocera che, oltre alla carica ricoperta nell’ANPI, è poeta, storico, scrittore.
Come nasce l’ANPI di Lecce?
Praticamente l’Anpi di Lecce nacque all’indomani della fine della seconda guerra mondiale e alla fine della Resistenza partigiana. Uno dei promotori, che poi diverrà presidente del Comitato provinciale fino al 1993, fu Enzo Sozzo, che come partigiano operò nella zona di Imperia. All’inizio la sezione Anpi si occupò prevalentemente dell’assistenza ai partigiani e ai patrioti della guerra di Liberazione che rimpatriavano chi dai fronti di lotta, chi dai campi di lavoro e di sterminio nazisti. Successivamente, l’Anpi si occupò di tenere viva la memoria di quei salentini leccesi coinvolti nei vari fronti resistenziali. Numerosi furono gli interventi per dedicare strade e piazze ai Caduti leccesi della Resistenza.
La Resistenza come patrimonio del Nord, si è creduto per troppo tempo, ora però le ricerche ci dicono altro, qual è stato l’apporto del Salento leccese alla lotta di liberazione?
È vero, quando io sono entrato nell’Anpi negli anni ’70, era opinione comune, all’interno della stessa Anpi nazionale, che la Resistenza fosse stata solo un evento accaduto nel Nord Italia. E questo è vero perché al Nord si sono effettivamente sviluppati gli scontri e i conflitti contro i nazifascisti. Ma in quel momento nessuno aveva considerato il fatto che all’interno delle brigate partigiane vi fossero oltre a uomini e donne del Nord, anche uomini e donne del Sud. Fu Aldo Moro, membro d’onore dell’Anpi nazionale, che nel 1975, in un memorabile discorso tenuto al Petruzzelli di Bari, che fece capire a tutti che la Resistenza era stata un evento che aveva coinvolto l’intero paese, in quanto alla lotta antinazifascista avevano partecipato molti uomini e donne del Sud. Si trattava spesso di militari che, dopo l’8 settembre 1943 (armistizio tra gli alleati e la monarchia sabauda) rimasti senza comandi superiori e quindi allo sbando, avevano dismesso la diviso e si erano aggregati alla bande partigiane per combattere e ridare all’Italia quell’onore che Mussolini e la monarchia avevano gettato nel fango.
Di tutto questo non si è parlato per moltissimi anni, solo ora vengono fuori storie, numeri e nomi. Come mai questa reticenza?
Sì, è vero, in parte si è trattato di una ritardata presa di coscienza da parte della stessa Anpi, ma sostanzialmente il non riconoscimento del contributo dato dal Sud alla lotta di Liberazione fu dovuto al subdolo comportamento del partito egemone in Italia dopo la seconda guerra mondiale, cioè la Dc, il cui governo si protrasse per circa 50 anni, che, succube degli interessi imperialisti degli Stati Uniti e della Nato, e per una supposta paura di una ipoteca invasione sovietica del Paese, impedì quella presa di coscienza di cui sopra. In sostanza quel partito volle tenere ancora il Sud schiacciato alla sua condizione di subalternità al Nord, cosa che si era determinata sin dall’Unità d’Italia, che costò al Mezzogiorno un costo elevatissimo di sofferenze e sacrifici umani ed economici.
L’Anpi nazionale sta dedicando studi e ricerche ai patrioti del Meridione. Un primo convegno c’è stato a Torino. Non era meglio dare un segnale forte e farlo a sud?
Anche questo è vero. Finalmente l’Anpi nazionale, con i suoi migliori studiosi e storici, sta finalmente colmando il vuoto che si era creato e molti stanno dedicando ricerche e studi specifici per quantificare il contributo dato dagli uomini e dalle donne del Sud alla Liberazione del Paese dal nazifascismo. È stato fatto un primo convegno a Torino, ma altri sono in programma non solo al Nord, ma anche qui da noi. A Lecce, per esempio, il prof. Pati Luceri, con il sostegno dell’Anpi di Lecce, ha iniziato una laboriosa ricerca per compilare gli elenchi dei Caduti, dei partigiani, delle staffette, dei patrioti, degli antifascisti, dei collaboratori, degli internati nei campi di lavoro e di sterminio nazisti. Questa sua ricerca ha visto già la pubblicazione di ben tre edizioni in volume, e tuttavia non è ancora ultima, perché ancora non sono consultabili alcuni archivi. Al momento, dalla ricerca di Luceri e della stessa Anpi di Lecce si evince che oltre 8500 sono stati gli uomini e le donne di questa provincia che hanno dato il loro contributo alla Resistenza. Come vede, si tratta di una cifra incredibile perfino a noi stessi che operiamo all’interno dell’associazione.
Fra pochi giorni è il 25 aprile, stiamo vivendo un periodo molto strano, il Presidente nazionale dell’ANPI ha stigmatizzato allarmato l’incontro del Presidente Napolitano con Silvio Berlusconi, condannato in via definitiva. Il governo Renzi vuole cambiare la Carta Costituzionale con i voti di parlamentari nominati e nonostante il fatto che la Corte Costituzionale abbia stabilito che il sistema elettorale con il quale sono stati eletti è anticostituzionale. Era questa l’Italia che volevano i patrioti e i padri costituenti?
Quello che tu dici è l’incredibile paradosso del momento che viviamo. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, uomo i cui ideali sono di indubbia fedeltà ai valori della Resistenza e della Carta costituzionale, costretto a incontrare un personaggio squallido qual è il signor Silvio Berlusconi, uomo indegno che ha disonorato l’Italia negli ultimi 20 anni, e che ha rappresentato la continuità con l’odioso regime fascista mussoliniano. Dietro questo personaggio, arricchitosi con varie ruberie ai danni del popolo, c’è sempre stata la mano del peggiore sistema capitalista nostrano e mondiale, i cui interessi, soprattutto economico-militari, sono riconducibili alla Nato e all’imperialismo Usa. A questa parte del potere mondiale non è mai piaciuta la democrazia italiana sancita dalla Costituzione, scritta, non bisogna mai dimenticarlo, da circa tre quarti (partigiani) dei membri del comitato dei 72. Non voglio disprezzare nessuno e lungi da me dal credere che un evento di qui possa essere migliore di un evento accaduto in altre parti del pianeta, rifletto solo su una lettura fatta delle differenti Carte costituzionali dei diversi Paesi e Nazioni del mondo. Ebbene, la Carta costituzionale dell’Italia repubblicana è uno di quei fondamenti sociali più avanzati al mondo, perfino più avanzata di quella tanto decantata Carta costituzionale statunitense, ancorata ancora a ideali prerivoluzionari 1789 in Francia. È doloroso sapere oggi che anche i governi, che si sono succeduti all’odioso regime neofascista berlusconista, continuino sulla stessa strada tracciata dal sig. Berlusconi, cioè quella di voler stravolgere gli articoli fondamentale della Carta. Credo comunque che si tratti di tentativi, perché il disegno piduista, di cui il Berlusconi stesso era albero e radice, non è ancora del tutto andato in porto. Contro questo ennesimo tentativo, per di più proposto anche dall’ultimo arrivato sulla poltrona di Palazzo Chigi (Renzi), si è levata alta la voce del presidente nazionale dell’Anpi, Carlo Smuraglia, il quale ha affermato che cambiare la Costituzione oggi in senso autoritario significa tradire quei valori per i quali hanno combattuto contro il nazifascismo e sono morti i partigiani.
In questo quadro, qual è, secondo te, il ruolo di un’associazione come l’ANPI?
R. Primo: non far dimenticare quello straordinario patrimonio di lotta e di cultura libertaria e democratica sviluppatosi con la Resistenza. I partigiani e le staffette, i patrioti della guerra di Liberazione, e i tanti, moltissimi, che hanno sofferto la dittatura nazifascista con privazioni, sofferenze, carcere e campi di lavoro e di sterminio, non possono essere dimenticati sull’abisso dell’ignoranza di chi in questo momento domina il mondo.
Secondo: l’Anpi non è un’associaizone di privati cittadini/e dediti all’hobby del contare le stelle (contro cui personalmente non ho nulla da obiettare), ma un’associazione viva nel corpo sociale e politico del Paese. Pur essendosi dichiarata sempre apartitica, l’Anpi che, non bisogna dimenticare è stata la prima associazione della Repubblica ad essere riconosciuta Ente morale dello Stato (1946), è però un’associazione politica antifascista che interviene su ogni evento che accade a proposito degli assetti statutari dell’Italia come, ad esempio, sta facendo in questo momento, difendendo l’integrità della Carta costituzionale.
Sarà presentato Sabato 26 aprile il sesto supplemento della Collana che arricchisce la collana dei “Quaderni degli Archivi diocesani di Nardò-Gallipoli”, La chiesa e la confraternita di San Giuseppe a Nardò, edizioni Mario Congedo, aggiungendo un altro importante tassello all’opera di ricostruzione storica del tessuto religioso, sociale e urbanistico di Nardò.
Curato da Marcello Gaballo e Fabrizio Suppressa, il volume di 154 pagine, di grande formato, vede la collaborazione di Stefania Colafranceschi, Giovanna Falco, Paolo Giuri, Salvatore Fischetti, Riccardo Lorenzini, Armando Polito, Giuliano Santantonio, Stefano Tanisi, che hanno offerto saggi di notevole spessore sul culto, iconografia, studi storici e aspetti artistici concernenti il santo e la chiesa neritina a lui dedicata, nella quale ha sede la confraternita.
Vengono ricostruite minuziosamente le vicende dell’edificio, realizzato prima della metà del ‘600 su una preesistente chiesetta di Sant’Aniceto, nel pittagio Sant’Angelo, per espresso desiderio del sodalizio, già costituitosi nel 1621.
Tantissimi i documenti citati nel volume, in buona parte inediti e riportati da rogiti notarili e visite pastorali, grazie ai quali si riesce, finalmente, a ricostruire le vicende della bellissima chiesa, a torto ritenuta tra le “minori” della città.
Notevole il corredo pittorico in essa presente, che per la prima volta viene assegnato a valide maestranze salentine del 6 e 700, tra i quali Ortensio Bruno, Nicola Maria De Tuglie, Donato Antonio Carella e Saverio Lillo.
Centinaia di foto documentano le varie espressioni artistiche che si sono sommate nel corso dei secoli, e nel XVIII secolo in particolare, quando la chiesa fu ricostruita a seguito degli ingenti danni riportati nel terremoto del 1743. I rilievi architettonici dell’edificio e dell’annesso oratorio, la ricchissima raccolta di santini provenienti da collezioni private, le bellissime foto e gli inevitabili richiami al culto del santo nella Puglia, accrescono il valore dell’edizione, lodevolmente sostenuta ed incoraggiata dalla confraternita di San Giuseppe.
Scrive nella presentazione il direttore dell’Ufficio dei Beni Culturali della Diocesi, don Giuliano Santantonio “…Il pregio del lavoro che si pubblica è quello di offrire, in modo documentato e circostanziato, uno sguardo puntuale e dettagliato sulla Chiesa e sulla Confraternita, dalle origini al presente, capace di far apprezzare le significative peculiarità di realtà, come l’edificio sacro e la comunità che è in esso si riconosce, che nel tempo hanno finito per riorganizzare e caratterizzare anche urbanisticamente l’assetto di un intero quartiere, senza il quale la Città sarebbe altra cosa rispetto a come oggi si presenta.
Di particolare interesse è anche il suggestivo sforzo di inquadrare l’origine e lo sviluppo a Nardò del culto verso San Giuseppe nel contesto di un movimento devozionale più ampio, del quale la Città non ha mancato di cogliere i passaggi più decisivi con una tempistica che manifesta, come il tessuto sociale neritino dell’epoca non mancasse di attenzione verso ciò che andava manifestandosi fuori dalla cerchia delle proprie mura. E’ una bella lezione, che a noi, cittadini di un mondo globalizzato, pone l’interrogativo se la nostra capacità di intercettare il futuro che incombe sia ugualmente desta oppure non si sia alquanto assopita”.
Grande successo venerdì pomeriggio della mobilitazione ambientalista in difesa degli ulivi e del territorio salentino alla Prefettura di Lecce, serrata. Appuntamento domenica sera in piazza Sant’Oronzo, sotto l’ulivo
di Paolo Rausa
‘Vogliamo sapere la verità sugli ulivi e, a prescindere, i nostri ulivi non si toccano!’ Con questa richiesta e affermazione di volontà si può riassumere il senso di una manifestazione che ha visto la partecipazione di una buona rappresentanza, diverse decine, di ambientalisti giunti da ogni dove, ognuno con le proprie rivendicazioni, ognuno con le proprie storie di lotta per preservare un ambiente che viene attaccato da più parti. Ma è l’ulivo, pianta attecchita da millenni in Salento, che ha modellato l’anima di un territorio e dei suoi abitanti che si sono succeduti nel corso dei secoli, l’emblema di questa lotta a oltranza. Si lamentano i primi provvedimenti di estirpamento di un centinaio di alberi secolari e si temono ulteriori provvedimenti che farebbero tabula rasa di un lembo di territorio nei comuni di Copertino, Galatina, Trepuzzi, Lecce, Sternatia, ecc. Un documento riservato della Commissione Europea, finito in mano agli ambientalisti, disegna una specie di road map, che prevede la distruzione (abbattimento e incenerimento) degli alberi infetti riscontrati nei focolai di questi paesi, non solo. Un paragrafo a parte è previsto per l’area di Gallipoli, con le decisioni rimandate dopo il piano di monitoraggio e i relativi risultati, senza escludere anzi caldeggiando misure appropriate di eradicazione, contenimento e l’istituzione di una zona tampone. Si richiede alle Autorità competenti Italiane la redazione di un piano d’azione che sarà la base per le decisioni della Commissione Europea da votare al Comitato fitosanitario permanente di fine aprile. Dulcis in fundo le modalità per i finanziamenti necessari alla distruzione degli alberi infetti e per un piano di monitoraggio. Gli ambientalisti respingono al mittente queste proposte, considerate particolarmente odiose e lesive dell’esistenza delle piante e distruttive del territorio. Un momento particolarmente difficile per il Salento questo, interessato da autostrade che si allungano verso il mare (la Maglie-Otranto e la Maglie-S. Maria di Leuca), bretelle stradali che solcano il territorio agricolo fertile, impianti di trattamento rifiuti, condutture che dal mare si interrano ferendo la terra e mega porti, accompagnati da resort pronti da approvare e da realizzare. Ce n’è donde per essere preoccupati. Ecco perché gli ambientalisti sono decisi ad allargare la protesta, coinvolgendo i cittadini, con un presidio immediato la sera di Pasqua nel cuore di Lecce, quella piazza Sant’Oronzo che ospita un florido ulivo, una raccolta popolare di firme da indirizzare al Presidente della Repubblica, ai Commissari Europei, al Presidente della Regione Puglia e financo al Papa, una forma organizzativa stabile ed efficace. E’ giunto il momento – ritengono – di rispondere colpo su colpo agli attacchi contro il territorio, consapevoli che la partita che si sta giocando cambierà il volto del Salento, se non si opporrà una nuova forma di Resistenza! Info: Associazione Spazi Popolari, http://spazipopolari.blogspot.it/, spazipopolari@gmail.com, https://www.facebook.com/groups/421893727923961/?fref=ts; Coordinamento Civico per la Tutela del Territorio e della Salute del Cittadino, coordinamento.civico@libero.it, coordinamentocivico@yahoo.it, Forum Ambiente e Salute del Grande Salento, forum.salento@yahoo.it, forumambientesalute@gmail.com, http://forumambiente.altervista.org/
“ORTELLE. PAESAGGI/PERSONAGGI…con gli occhi (e il cuore ) di Carlo Casciaro e Antonio Chiarello“ è il titolo di una mostra pittorica a quattro mani che si svolgerà a Ortelledal 23 al 27 aprile .
Allestita negli affascinanti sale di Palazzo “Rizzelli”, in Piazza S.Giorgio, aprirà di fatto le celebrazioni per il progetto “Ortelle e gli ortellesi attraverso gli occhi di Giorgio Cretì e dei contemporanei” attuato dal Comune di Ortelle insieme al Cuis, all’Università del Salento(Dipartimento Beni Culturali) e alla Fondazione Terra d’Otranto.
Tale evento si terrà il 31 maggio e il 1 giugno p.v. con un nutrito e articolato programma in fase di ultimazione.
La mostra pittorica è quindi l’anteprima di questo omaggio a Giorgio Cretì,”antico(pòppitu)eroe” ortellese scomparso l’anno scorso.
L’esposizione sarà inaugurata significativamente ,il 23 aprile in concomitanza con la festa patronale di S.Giorgio con la seguente scaletta: ore 19- Saluti del Sindaco Francesco Rausa e dell’assessore alla cultura Antonella Maggio.
A seguire Con/tibuto poetico di Marina Pizzarelli (Critica d’arte) e lettura della poesia “Ortelle” dalla voce del suo autore Agostino Casciaro.
Le opere in mostra anche se diverse per stile e tecniche sono un atto d’amore per il borgo natio da parte dei due artisti e un tributo sia ai loro “illustri compaesani” Giorgio Cretì e Giuseppe Casciaro, che agli umili “pòppiti” che hanno popolato Ortelle e le amene campagne.
L’esposizione sarà visitabile dal 23 al 27 aprile e poi nei due giorni 31 maggio e 1 giugno con i seguenti orari: 17-21 feriali e 10-13, 17- 21 festivi.
Non sono mancate le occasioni in cui ho stigmatizzato il fenomeno della nostra esterofilia, specialmente in campo linguistico; essa è per me intollerabile quando esiste la parola italiana (non la circollocuzione) perfettamente corrispondente, perché mi sembra un tributo non dovuto, dettato, più che dal mercato, dalla moda, sicché, solo per fare un esempio, mi sembra ridicolo parlare di spending rewiew e non di revisione della spesa.
La Pasqua, però, è una ricorrenza speciale che giustifica pure trasgressioni esterofile. Non è tutta colpa mia, poi, se mi è parso particolarmente accattivante un opuscoletto francese in 8 pagine dal titolo La poule aux oeufs tricolores (La gallina dalle uova tricolori) illustrato da Colette May e pubblicato a Parigi da Yves M. Bozellec. L’ho trovato sul sito della Biblioteca Nazionale di Francia1, da cui ho tratto tutte le immagini che seguono.
Anche se, contrariamente a quanto succede per la stragrande maggioranza dei testi digitalizzati, non risulta indicata la data di uscita, la fortuna ha voluto che potessi ricostruirla in quanto il titolo è citato a pag. XLVII di Les livres de l’anné (rivista bibliografica francese), anno 19222.
Dopo la vista d’insieme
ecco il frontespizio e le altre pagine con la mia traduzione in calce.
La gallina Cocotte lascia un istante le sue uova e non s’accorge che Giacomo, il figlio del fattore, gliene sottrae uno.
Giacomo sa che fra poco sarà Pasqua. In onore di questa festa colora l’uovo di Cocotte in blu, bianco e rosso. -Ci andrà bene- dice – se il pulcino nasce tricolore-.
Al ritorno Cocotte si accorge del fenomeno che Giacomo a rimesso al suo posto. Essa è stupita all’idea di aver deposto un uovo di parecchi colori.
Ben presto due, poi tre, poi cinque, poi sei galline circondano Cocotte che comincia a sentirsi molto orgogliosa.
La notizia ha subito fatto il giro della fattoria. Tutti gli animali vengono per rendersi conto e domandano come se fosse un favore di osservare un’estremità dell’uovo.
Infine il gran giorno arriva. L’emozione è intensa mentre il pulcino fora l’uovo, Cocotte si crede divenuta imperatrice.
L’uovo viene bucato, il pulcino è come gli altri. -L’avevo detto- esclama un’oca e tutti gli animali se ne vanno lasciando Cocotte che quasi si vergogna del suo pulcino.
Quanta tenerezza mi fa questa gallina dalle uova tricolori (per giunta tali non per sua colpa o volontà) se confrontata con le tante nostre galline dalle uova d’oro (tv di stato, aziende pubbliche, enti inutili, etc. etc.)!
Si dirà: – Tutto il mondo è paese-.
Sì, ma intanto i colori dell’uovo della nostra gallina erano quelli della bandiera di Francia, non della nostra.
Si dirà: – Era il 1922 e le cose sono cambiate -.
Sì, in peggio, e soprattutto per noi …
Come rinunciare, allora, agli auguri, religiosi o laici che siano, sia pur formulati con l’amaro in bocca? Sarebbe come dichiarare morta la speranza. Buona Pasqua!
La Resurrezione, da un messale appartenente a Henry di Chichester, cantore di Crediton.
Il manoscritto è attribuito al Maestro Sarum che lo avrebbe realizzato intorno al 1250. Oggi è nella John Rylands Library di Manchester.
Strettamente collegate alla Pasqua sono le uova di cioccolato che nei bar ed in casa fanno bella mostra di se durante il periodo festivo. Fin dagli albori della storia umana, l’uovo è considerato la rappresentazione della vita e della rigenerazione.
I primi ad usare l’uovo come oggetto beneaugurante sono stati i Persiani che festeggiavano l’arrivo della primavera con lo scambio di uova di gallina. I Romani erano soliti sotterrare un uovo dipinto di rosso nei campi come simbolo di fecondità e quindi propizio per il raccolto.
La tradizione di colorare le uova è tutta romana. Da Plinio il Vecchio sappiamo che si prediligeva il rosso perché questo colore doveva distruggere ogni influsso malefico. Da Elio Lampridio, la credenza che il giorno della nascita dell’Imperatore Alessandro Severo, una gallina di famiglia avesse deposto un uovo rosso, segno di buon auspicio.
L’uso di regalare uova è collegato al fatto che la Pasqua è anch’essa la festa della fecondità e del rifiorire della natura, in primavera, dopo la morte invernale. L’uovo dunque è il simbolo della natura e della vita che si rinnova ed auspicio di fecondità. I primi cristiani, infatti, fecero propria questa simbologia del tutto pagana, con riferimento alla Resurrezione, e nel giorno di Pasqua usavano sistemare sopra l’altare un cestino pieno di uova perché
Lo so. Getteranno fiori sul quel sepolcro dal cuore di pietra e non vedranno il sangue delle rose appassite. Reciteranno preghiere neglette. Quel sepolcro e quel cuore è tutto ciò che resta del mistero; non comprenderanno nulla della tomba di pietra e del geloso segreto. Neanche un singhiozzo parlerà di un ricordo di morte. Tutto come prima.
Queste note, anche se, come spesso succede, abbracciano uno spaccato di gente, vita, vicende, relazioni e ricordi della fanciullezza e giovinezza al paesello, sono dedicate, in modo particolare, a Totò, un amico e coetaneo, o meglio dire alla sua memoria, atteso che egli, da lungo tempo, non sfoglia più, materialmente, i giornali, ma legge e segue gli scritti del comune osservatore di strada, standosene seduto a una scrivania, lassù.
Totò nasce in seno a una famiglia benestante di Marittima, ha un fratello e una sorella un po’ più grandi. Il padre, proprietario terriero, e però egli stesso dedito personalmente all’agricoltura, porta un nome di battesimo importante, anche se, ordinariamente, è conosciuto e chiamato con il diminutivo di ‘Ntinu, più completamente patrunu ‘Ntinu; la madre, Donata, è una dolce signora originaria della vicina Andrano.
Il nucleo abita in una spaziosa abitazione a piano terraneo, ricavata in parte dalla massiccia mole di un’antica torre nobiliare (tuttora esistente al centro del paese e detta “Torre di Alfonso”) e, per il resto, costruita su un giardino, conosciuto come “giardino dei baroni”, con riferimento a persone benestanti, capostipiti della medesima famiglia di cui qui si racconta.
——-
L’andamento tranquillo nella casa in questione s’interruppe improvvisamente e tragicamente intorno al 1950, quando, in una notte, venne a mancare prematuramente la sposa e mamma; una tragedia, accresciuta dal particolare che il vedovo ‘Ntinu non era assolutamente in grado di badare alla gestione domestica e, soprattutto, alla cura e alla crescita dei figli. Difatti, i tre ragazzini furono temporaneamente affidati alle sorelle della defunta, dimoranti in Andrano.
Per questo, io ripresi a vedere Totò, ogni pomeriggio, a Marittima, solamente in quinta elementare, quando fu mandato a prepararsi agli esami di ammissione alle medie presso il mio maestro Alfredo.
In un’occasione, notai che egli aveva in mano una bellissima penna stilografica d’argento, mentre noi coetanei usavamo ancora aste con pennino e inchiostro, alcuni, eccezionalmente, le prime penne a biro. Di fronte al nostro stupore, Totò confidò di aver ricevuto il prezioso oggetto in regalo da uno zio materno, prelato o monsignore in servizio diplomatico nel Perù, nella capitale Lima, e fu la prima volta che, personalmente, sentii nominare quel paese e quella città.
Passati gli esami d’ammissione, Totò fu inviato dal padre a Galatina, in un convitto con annesse scuole medie e superiori, dove già si trovavano il fratello e la sorella.
——-
Tuttavia, durante la frequenza del ginnasio, essendo in certo senso mutata la situazione nella casa paterna grazie a un secondo matrimonio contratto da patrunu ‘Ntinu, Totò fece ritorno a Marittima e andò a seguire i corsi al “Capece” di Maglie: ci trovammo, così, insieme, nel viaggio comune con la corriera delle Sud Est, oltre che, ovviamente, amici e compagni negli svaghi, principalmente nelle partite di pallone, sul fronte delle prime sigarette fumate alla chetichella dai genitori e, intorno ai sedici – diciassette anni, in occasione delle partite a carte, soprattutto a tressette, nel bar della piazza, la sera, una volta terminati i compiti. Quotidiane sfide contro coppie di compaesani, noi due, ovviamente, sempre compagni.
A un certo momento, sprazzo d’ingegno, escogitammo uno stratagemma, ovviamente tenuto segretissimo, che, a onor del vero, si rivelava efficace. Concordammo comunemente quattro nomi di amiche, reali o inventate, di viaggio o della scuola – Maria Annunziata, Silvia, Donatella e Carla – le cui iniziali corrispondevano ai quattro semi delle carte da tressette; in pratica, a ogni nostro turno di giocare, chiamavamo il “palo“ della carta da calare sul tavolo, pronunciando disinvoltamente una breve frase banale, contenente il nome della ragazza che meglio faceva al caso. In tal modo, il gioco era fatto, di solito con successo.
Memorabile, un particolare che ricorreva ogni volta che la collaboratrice domestica di patrunu ‘Ntinu, soprannominata Mariamarì, grande lavoratrice e moglie di un pastore di ovini, era mandata a chiamare il figlio Totò, occupato con gli amici a giocare al pallone o al bar, oppure a riferirgli qualcosa. Immancabilmente, la donna si rivolgeva ad alta voce al ragazzo, già da lontano, con l’appellativo “cumpare signurinu”, aggiungendo, quindi, quanto doveva dirgli.
E tutti noi della compagnia, ci abbandonavamo a fragorose risate e a sfottere il buon Totò. Sta comunque che il titolo di “cumpare signurinu” rimase a lungo una costante nel riferimento, a qualunque scopo, al nostro amico.
——-
Arrivati, rispettivamente, al diploma e alla maturità classica, entrambi – sia io, che fui assunto pressoché subito in banca, sia Totò, che partì per Roma dove risiedeva e lavorava il fratello maggiore – lasciammo quasi insieme Marittima, mantenendo tuttavia contatti epistolari e rivedendoci di tanto in tanto nella comune località natia o per le vacanze estive o per le principali festività.
In aggiunta, Totò, una volta propose agli amici più stretti di andare a trovarlo a Roma, al che, prendendo subito la palla al balzo, in un sabato di settembre, di buon mattino, salimmo in quattro sulla “Topolino” di Romano e, nel tardo pomeriggio, fummo già nella capitale; facile l’appuntamento e l’incontro con l’invitante, il quale poco tempo prima aveva anche lui assunto un impiego presso la società dei telefoni e, quindi, doveva offrirci un “complimento” per festeggiare l’importante traguardo.
Eccoci, quindi, in gruppo, in via Veneto, la famosa strada dei vip, degli attori e dei paparazzi, dove restammo a bighellonare per alcune ore, con intermezzi di un paio di consumazioni nei bar, locali di lusso mai visti in precedenza. Intorno, tanta gente in quella serata, per i turisti originari di un paesello del Basso Salento, era la realizzazione di un sogno.
Verso mezzanotte, congedatici da Totò, risalimmo sulla “ Topolino” e all’ora di pranzo della domenica rimettemmo piede a Marittima.
Di lì a qualche anno, pure Totò si formò una famiglia, con una ragazza conosciuta a Roma ma originaria della Calabria e nacquero due figli, un maschio e una femmina.
In casuale analogia e coincidenza rispetto alla mia vita di impiegato residente in quel periodo in Sicilia, compiendo in “500” il viaggio da Messina a Taranto e Lecce – a quell’epoca non c’era ancora l’autostrada – più o meno a metà percorso, transitavo da Cutro, nei pressi di Crotone, località che, guarda caso, era il paese natio della moglie di Totò.
——-
Scorrendo le stagioni successive, la nota saliente e più triste é che, Totò, non fu fortunato, improvvisamente gli precipitò addosso una tegola irrimediabile e, da poco compiuti i quaranta, se ne andò.
A distanza di circa sei lustri dalla sua scomparsa, io avverto ancora il bisogno di rivedere le sembianze del caro amico, e perciò, oltre ad andare a trovare i miei genitori, scendo, saltuariamente, anche le poche scale che conducono al luogo del suo riposo, per un saluto a quel volto ancora giovane.
Nella realtà residua della vita che prosegue, invece, d’estate, m’incontro, talvolta, con i figli dell’amico: la ragazza, che continua ad appoggiarsi nell’abitazione, già del nonno ‘Ntinu, nell’antica Torre di Alfonso, il ragazzo, che, invece, ha voluto costruirsi una nuova villetta, occupata insieme con la moglie, nativa di un paese vicino, dentro il “giardino dei baroni”, sulla via vecchia per Andrano, dirimpetto al fondo de l’Arciana con il suo fantastico Palummaru (in italiano, torre colombaia).
La proposta PD: “La Facoltà di Agraria? Realizziamola a Nardò”.
Un sostegno concreto al talento delle giovani generazioni, ed allo sviluppo del territorio attraverso la valorizzazione della formazione ed il collegamento con l’Ateneo salentino. Risponde a queste finalità la richiesta da parte del Partito Democratico, nella persona del segretario Rino Giuri, di destinare l’ex Istituto Agrario di Nardò (oppure gli ambienti al primo piano del Chiostro dei Carmelitani non occupat…i dal Centro di Servizi Culturali) a sede della nuova Facoltà di Agraria dell’Università del Salento. Una delle due strutture potrebbe essere concessa all’Ateneo, in comodato gratuito, a patto di realizzare specificatamente tale finalità. “L’Università – afferma il segretario del PD neritino – rappresenta il fiore all’occhiello del nostro territorio e la nostra Città sarebbe lieta di poter supportare la crescita di un’istituzione così prestigiosa e culturalmente vivace. L’Ateneo salentino potrebbe utilizzare l’immobile per lo svolgimento delle proprie attività didattiche. E ciò genererà indubbi benefici anche per le attività economiche della zona grazie all’affluenza dei tanti studenti che frequentano l’Università del Salento e garantirà maggiore integrazione con il territorio, rispondendo alla richiesta di formare professionalità qualificate aperte alle mutate esigenze della contemporaneità”. Un segnale rilevante per la nostra Città che darebbe fiato anche alla sua naturale vocazione: agricoltura e turismo. Non significherebbe “solo” dare sostegno al settore primario. Ma favorire, attivare, e saldare i legami tra il mondo della ricerca accademica e le attività agroalimentari insistenti sul territorio. L’avvicinamento dei giovani all’agricoltura è testimoniato anche dal “boom” di iscritti che stanno registrando le facoltà di Agraria in tutta Italia. E la qualifica universitaria resta anche in Agricoltura un requisito fondamentale. Nel territorio di Nardò la Ricerca scientifica, e la Formazione accademica potranno essere integrate al meglio con le esperienze lavorative nelle diverse realtà della nostra Città. Che potranno trarre vantaggio da tale provvido scambio di conoscenze. “Pensiamo che questa iniziativa possa concretamente tradursi in un occasione di sviluppo per la nostra Nardò e per il Bene Comune. L’accordo – che ci auguriamo possa andare in porto – potrebbe inoltre prevedere per i cittadini che vogliano iscriversi anche delle sensibili agevolazioni sui costi”.
Sono visti con gli occhi e con il cuore – ci tengono ad aggiungere i due artisti ortellesi – i Paesaggi rurali e gli angoli più pittoreschi di Ortelle e i Personaggi che li hanno attraversati come meteore, lasciando la scia del loro passaggio, perciò li hanno ritratti in una mostra pittorica, gioco forza a quattro mani, gli artisti Carlo Casciaro e Antonio Chiarello e li hanno esposti in più giorni, ma non tanti, dal 23 al 27 aprile.
Dove? In una magione dall’architettura imponente che sovrasta piazza San Giorgio a Ortelle, nientemeno che il Palazzo Rizzelli. Ampi saloni, volte geometriche, pareti dipinte, una vista dai suoi balconi che spazia sulle marine di Castro e di Santa Cesarea Terme.
Mostra ancor più significativa perché anticipa e prepara il progetto di omaggio ad un figlio illustre di Ortelle, quel Giorgio Cretì che ha onorato il suo paese con l’amore e la penna scrivendo racconti, romanzi (Pòppiti sarà ripubblicato e presentato la sera del 31 maggio in piazza mentre il giorno dopo sarà rappresentato lo spettacolo teatrale tratto dal romanzo), libri di ricette salentine, del sud, e di alcune regioni del nord, dove ha vissuto, compilati non solo come espressione del gusto ma come strumento di conoscenza di un territorio e della agri-cultura praticata come strumento di armonia con la natura e non di sfruttamento e stravolgimento.
Questo il senso di una vita, questo il senso del progetto complessivo che i due artisti ortellesi introducono con questa mostra pittorica: “Ortelle e gli Ortellesi, attraverso gli occhi di Giorgio Cretì e dei contemporanei”, promosso dal Comune di Ortelle, dall’Università del Salento (Dipartimento dei Beni Culturali), dalla Fondazione Terra d’Otranto e cofinanziato dal CUIS e dal Comune di Ortelle.
E’ stata scelta per l’inaugurazione dell’esposizione la data del 23 aprile, in coincidenza con la festa patronale di S. Giorgio.
La cerimonia di apertura prevede alle 19,00 i saluti del Sindaco Francesco Rausa e dell’Assessore alla cultura Antonella Maggio, a seguire il contributo poetico della critica d’arte Marina Pizzarelli e di Agostino Casciaro, con la lettura della sua poesia dedicata a Ortelle.
Le opere in mostra, diverse per stile e tecnica per la poliedricità degli artisti, rappresentano un atto d’amore per il borgo natìo e un omaggio, modesto ma significativo, ai loro illustri compaesani Giorgio Cretì e Giuseppe Casciaro, e ai tanti pòppiti, inteso proprio come villani, contadini, che hanno costituito il nerbo sociale che ha consentito di preservare il paesaggio rurale ortellese e salentino.
Apertura dal 23 al 27 aprile, il 31 maggio e 1 giugno con i seguenti orari: 17,00/21,00 nei giorni feriali, 10.00/13.00 e 17.00/21.00 nei giorni festivi.
Spesso, più di quanto si possa immaginare, abbiamo necessità di fare cose complicate solo perché non abbiamo lasciato fare semplicemente all’ordine delle cose. Dobbiamo fare in modo di liberarci delle zanzare, ma soltanto perché non abbiamo lasciato fare alle ragnatele che ci obblighiamo a eliminare dagli angoli delle case; dobbiamo fare in modo che le montagne non franino, ma soltanto perché non abbiamo lasciato fare alle radici degli alberi; dobbiamo fare in modo che i fiumi non straripino dai loro argini, ma solo perché non abbiamo lasciato fare al loro naturale percorso da noi alterato…basterebbe laissez faire tante volte, e non sto parlando di economia politica, ma di un’economia mentale, il cui principio è questo: lasciar semplicemente essere le cose nel loro ordine.
Una volta – o, per meglio dire, sino a qualche lustro fa – eravamo abituati a vivere gli eventi eccezionali, ossia quelli che lasciano il segno, con cadenze non proprio ravvicinate, scansioni non a ritmi costanti e neppure frequenti.
Ciò, vuoi che ci trovassimo a essere diretti partecipanti, vuoi semplicemente rivestendo il ruolo di testimoni vicini o lontani.
Nella mente e nell’animo, ne registravamo e ne metabolizzavamo la risonanza e gli effetti, attraverso processi fisiologici particolari, le tracce di tali fatti restavano impresse realmente nel nostro interiore, tanto che, a lungo, ci capitava di farne rievocazione, a guisa davvero di passaggi cruciali e indelebili dei nostri ricordi e della nostra stessa esistenza.
Adesso, ahinoi, di sconvolgimenti, calamità, sfracelli o catastrofi sensazionali, ve n’è, invece, una sequenza a ripetizione, un giorno sì e l’altro pure, in ogni angolo del pianeta. Bella globalizzazione è questa!
Se, ormai, la strada tracciata davanti all’umanità reca più che altro muretti di lutti, ombre di distruzioni, segnali di disdegno della vita come valore massimo e sacro e, quindi, della stessa incolumità del prossimo, bella conquista ha compiuto la società del terzo millennio!
Non importa se i “pupari” che preordinano ciò che accade – da soli o in scellerate congreghe – siano dittatori oppure politici avidi, oppure tiranni assetati di potere, oppure fanatici religiosi o fondamentalisti: in ogni caso, v’è da dire che la nostra coscienza non può che rimpiangere certi modelli di ieri.
Forse, però, sbaglio a parlare di coscienza, mi sa proprio che, in seno alla realtà che andiamo attraversando, l’elemento “coscienza”, già costituente – consciamente o inconsciamente – la base fondante delle manifestazioni e dei comportamenti di ogni essere pulsante e pensante, sia andata a farsi benedire, non esista più. Che peccato!
Conclusione: nel presente, dunque, c’è il rischio di soccombere a ogni piè sospinto e in mille modi diversi e inimmaginabili, ma, soprattutto, la vampa del terrore che attanaglia non promana tanto dai drammi, uno per uno, che si susseguono, quanto dal sospetto e dal patema d’animo della loro progressiva escalation, sia come numero, sia come intensità di reiterazione, sia come dimensione.
Come ci si poteva aspettare, i vincoli apposti dalla Soprintendenza e dall’Arpa Puglia contro la realizzazione del nuovo megaporto turistico a Otranto che non tiene conto della fragilità e della bellezza paesaggistica e delle strutture portuali preesistenti, messapiche, ellenistiche, romane e normanne, hanno sollevato una reazione da parte dei benpensanti e amministratori locali, preoccupati per l’occasione di sviluppo che si presenta. ‘Non si può infatti non cogliere al volo questa opportunità che consente opere per 50 milioni di euro per fare posto a 500 posti barca e maxy yacht, una struttura in grado di intercettare il turismo crocieristico e rilanciare la povera economia idruntina.’ – questo sostengono, con buona pace delle migliaia di turisti che frequentano i nostri luoghi per i loro aspetti paesaggistici. Gli ambientalisti avevano salutato il fermo imposto dalla Soprintendenza con entusiasmo, soddisfatti per il fatto che una volta tanto le Istituzioni preposte alla tutela delle nostre coste e del nostro ambiente naturale e marino siano state in grado di bloccare uno scempio ambientale annunciato. ‘In nome di quale sviluppo, poi? Lo conosciamo lo sviluppo invocato dagli operatori locali e dal sindaco Cariddi che pronuncia una pietosa bugia quando dichiara che il porto lo vogliono tutti, imprenditori, privati cittadini e associazioni. Non si sarebbe sollevata, a suo parere, nessuna voce contraria. Alle orecchie del sindaco non è arrivata nessuna, ma proprio nessuna voce contraria? Peccato che le bugie hanno le gambe corte, caro sindaco!’ Evidentemente il sindaco non ha mai letto i comunicati del Coordinamento Civico apartitico per la Tutela del Territorio e della Salute del Cittadino e del Forum Ambiente e Salute del Grande Salento. ‘Questo non è sviluppo, ma distruzione sistematica del territorio! – urlano a gran voce gli ambientalisti e si apprestano a sostenere le determinazioni della Soprintendenza con azioni di sensibilità nei confronti della cittadinanza e delle Autorità superiori. Una grande raccolta di firme – promettono – per un progetto di tutela, che aggiunga alle aree salvate dal cemento le acque marine prospicienti, cosicché siano incluse nel Parco naturale litoraneo Otranto-Santa Maria di Leuca. Non lasceremo che ancora una volta si verifichi l’azione invasiva e deturpante verso uno dei più bei paesaggi del mediterraneo (non a caso Otranto è patrimonio dell’Unesco e più volte negli anni scorsi si è fregiata della Bandiera Blu per la limpidezza delle sue acque).’ Contro gli interessi ‘diffusi’ e le ‘voci’ interessate a realizzare questa come tante altre opere, distruttive della costa e dell’ambiente naturale in nome dell’occupazione e dello sviluppo, le Associazioni ambientaliste esprimono tutto il loro sostegno e la piena solidarietà ai funzionari della Soprintendenza e dell’Arpa, ‘colpevoli’ di applicare le norme di tutela esistenti, che per la verità molte altre volte sono state disattese. Si augurano che i nuovi turchi e circassi non riescano nell’impresa di compiere un nuovo sacco della città, altrettanto distruttivo di quello ricordato da Maria Corti. Difatti incombe, come nel 1480, ‘L’ora di tutti’.
Pasqua, tempo di preghiera e purificazione. I festeggiamenti, in Salento, iniziano con la Domenica delle Palme, quando vengono benedetti i ramoscelli d’ulivo, dopo la celebrazione della Santa Messa. A Castrì di Lecce, per esempio, vengono benedette le palme sul sagrato della chiesa di San Vito e, in seguito, una piccola processione si snoda per le strade del paese fino a raggiungere la chiesa della Visitazione. A Castrì, si tiene la Fiera della Domenica delle Palme, una tradizione antichissima di cui tutta la comunità è orgogliosa. La Settimana Santa comincia il Mercoledì, con una Via Crucis che si tiene in serata. Il Giovedì Santo, vi è la celebrazione dell’Ultima Cena. Il Venerdi Santo, la Processione del Cristo Morto parte dalla chiesa della Visitazione, in piazza Aldo Moro, e si incontra con quella dell’Addolorata sul sagrato della chiesa di San Vito, in piazza Caduti. La bara del Cristo Morto viene portata in spalla da dieci uomini con a fianco dieci donne vestite di nero, con una fiaccola in mano, mentre la statua della Madonna viene portata da dieci donne con a fianco altre dieci accompagnatrici, sempre vestite di nero. La Croce della Passione viene portata in spalla da una donna, accompagnata da altre due, con una fiaccola in mano, seguite da dodici ragazzi vestiti da apostoli.
A Maglie, il venerdi precedente la Domenica delle Palme, si svolge la più antica delle fiere magliesi e una delle più caratteristiche del Salento: la Fiera dei campanelli. In occasione della ricorrenza dell’Addolorata, sulla strada
L’appetito (per ora, sia chiaro, mi sto riferendo solo al vegetale) vien mangiando, dice un vecchio proverbio. Fuor di metafora (ma ancora con riferimento preciso al legume) la conoscenza è frutto di una reazione a catena di solito indotta da fattori esterni. Insomma, se non avessi letto l’agile e gradevole recente post dell’amico Massimo (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/04/14/storia-e-credenze-sulle-fave-legume-eccellente-per-i-salentini/), peraltro molto competente nel suo campo, forse non avrei dato vita alle righe che sottopongo all’attenzione dei gentili lettori.
Può sembrare deformazione professionale ma credo che Massimo gradirà la citazione che mi accingo a fare dei principali autori latini e greci che hanno dedicato la loro attenzione al vegetale (pazienza, ancora lui … ma solo per poco) in oggetto. Per motivi pratici di ogni citazione riporterò la mia traduzione e in nota il testo originale.
Comincio da Plinio (I secolo d. C.), al quale risale la più antica testimonianza sulla avversione di Pitagora e dei suoi seguaci non solo per la carne (come vedremo anche quella umana …) ma anche per le fave: Segue la natura dei legumi, tra i quali la fava ha il massimo onore perché con esse si è tentato di fare pure il pane. Lomento si chiama la loro farina e il peso aumenta con essa e con quella tratta da ogni legume ed è buona anche per alimento nella preparazione del pane in vendita. Molteplice è l’uso della fava per ogni specie di quadrupede, ma soprattutto per l’uomo. Presso parecchi popoli viene pure mescolata col frumento e soprattutto col miglio, integra o leggermente pestata. Anzi secondo il rito antico la farinata di fave è nel sacrificio in onore degli dei della propria religione. Si crede che valga soprattutto come companatico ma che obnubili i sensi e procuri pure incubi; per questo fu condannata per decisione di Pitagora, come alcuni hanno tramandato, poiché in essa ci sarebbero le anime dei morti, motivo per cui viene usata nei sacrifici funebri. Varrone tramanda che il flamine non se ne ciba per questi motivi e per il fatto che nel suo fiore si troverebbero lettere funeree.
Essa è oggetto di un particolare rito: infatti è costume ancora oggi per buon auspicio portarla a casa non appena ha dato il frutto1e perciò è chiamata referiva. E credono che sia vantaggioso usarla nelle vendite all’asta . Di certo è la sola tra i frutti a riempirsi con la luna crescente anche se è stata rosa. Non si cuoce in acqua marina o altro liquido salato. È tra i legumi il primo ad essere piantato prima del tramonto delle Pleiadi affinché preceda l’inverno. Virgilio raccomanda di seminarla in primavera secondo l’uso dell’Italia circumpadana, ma i più preferiscono fave maturate dopo essere state piantate al momento giusto che un frutto di tre mesi. I baccelli e i gambi sono cibo prelibato per il bestiame. La fava ama moltissimo l’acqua quando è in fiore, ne vuole poca quando la fioritura è cessata. Fertilizza come se fosse letame il suolo in cui è stata seminata. Perciò nei territori intorno alla Macedonia e alla Tessaglia arano i campi quando comincia a fiorire. Nasce pure spontaneamente in moltissimi luoghi, come nelle isole del mare settentrionale che per questo chiamiamo Fabarie2; allo stesso modo selvatica in Mauritania ma molto dura e tale da non poter essere cotta. Nasce pure in Egitto col gambo spinoso per cui i coccodrilli, temendo per i loro occhi, la evitano. La lunghezza del gambo, notevolissima, è di quattro cubiti, la grossezza di un dito. Se non mancassero i nodi, sarebbe simile ad una molle canna; la testa è di papavero, dal colore roseo, e in esso le fave non superano il numero di trenta; le foglie sono ampie, il frutto aspro anche nell’odore, ma la radice graditissima come cibo agli abitanti, cruda e cotta in ogni modo, simile alla radice delle canne. Nasce anche in Siria, in Cilicia e lungo il lago della calcidica Torone.3
Alle notizie di Plinio su Pitagora ne aggiungerà altre piuttosto curiose (non è detto che lo strano sia meno attendibile …) il greco Diogene Laerzio (II-III secolo d. C.): E sui piaceri sessuali dice così: “L’amore va fatto d’inverno, non d’estate; in autunno e in primavera è più leggero ma in ogni stagione molesto e non buono per la salute”. Anzi, interrogato una volta, disse che bisogna avere rapporti quando ci si vuole indebolire.4
E sulla carne non umana …
Si dice che egli per primo abbia allenato gli atleti nutrendoli con carni e che il primo sarebbe stato Eurimene, secondo quanto dice Favorino nel terzo libro delle Memorie, mentre precedentemente li si nutriva con fichi secchi e formaggi umidi, ma anche con granaglie, secondo quanto dice lo stesso Favorino nell’ottavo libro della Storia varia. Alcuni credono che li abbia nutriti in questo modo un certo Pitagora allenatore, non il nostro5. Si dice, infatti, che egli vietava di uccidere gli animali e di gustarne poiché hanno in comune con noi il diritto dell’anima. E questo però era un pretesto: in verità proibiva di toccare essere dotati di anima per educare ed abituare gli uomini ad una vita frugale, così che ci fossero per loro cibi facili da procurare, indirizzati verso alimenti non cotti e bevendo semplice acqua e che da questo derivasse anche la salute del corpo e l’acutezza della mente.6
Più di ogni cosa vietava di mangiare il fragolino7e il melanuro8e di astenersi dal cuore e dalle fave; Aristotele dice talvolta pure dalla matrice9e dalla triglia.
Alcuni dicono che egli si nutriva di solo miele o del suo decotto o di pane, che non beveva vino durante il giorno10; come companatico per lo più si nutriva di verdure bollite e crude, raramente di cibi marini. Il suo vestito era bianco, pulito e bianche erano le coperte di lana: i tessuti di lino, infatti, non erano giunti ancora in quei luoghi. Non si seppe mai né se defecava, né se faceva sesso, né se si ubriacava. Si asteneva e dal ridere e da ogni compiacenza, come da battute e racconti molesti. Adirato, non punì nessuno, schiavo o libero che fosse. Diceva che ammonire era come cambiare in meglio. Si serviva della divinazione fatta con invocazioni e presagi, per niente di quella fatta con sostanze bruciate, eccetto quella fatta per mezzo dell’incenso. Usava offerte inanimate, altri dicono solo di galli e capretti lattanti e di quelle carni dette tenere, per niente di agnelli. Aristosseno invece dice che egli ammetteva di mangiare tutti gli altri animali e che si asteneva dal bue da lavoro e dal montone.11
E ancora sulle fave:
(Raccomandava) di astenersi dalle fave per il fatto che, essendo generatrici di flatulenza, avevano moltissimo in comune con la forza vitale e d’altra parte i ventri che non le consumavano funzionavano più regolarmente. E per questo diceva che nei sogni si formavano visioni leggere e tranquillizzanti.12
A questo punto debbo osservare che, se la testimonianza di Diogene Laerzio corrisponde a verità, vuol dire che Pitagora in vita sua non assaggiò mai lampascione … ma sarebbe bastata la sua avversione alle fave per farlo morire … e non di flatulenza, secondo una delle tante leggende che circolano sull’evento, riportata insieme con altre dal nostro autore.
Pitagora morì in questo modo: mentre teneva una riunione con i soliti amici in casa di Milono avvenne che la casa fu fatta crollare per invidia da uno di coloro che non erano stati giudicati degni di essere ammessi; alcuni invece ritengono che abbiano fatto questo proprio quelli di Crotone che temevano un pericolo di tirannide, che Pitagora fu catturato mentre fuggiva e che trovatosi presso un campo pieno di fave lì si fermò dicendo: – Piuttosto morire che andare avanti [essere ucciso è meglio che essere oggetto di chiacchere]; e così fu sgozzato da quelli che lo inseguivano.13
Non sapremo mai, infine, se erano frutto di invidia o stigmatizzavano alcuni suoi atteggiamenti quelle che potremmo considerare come canzoncine di scherno che circolavano sul suo conto:
Non solo tu, Pitagora, tieni lontane le mani dalle cose animate, ma anche noi: chi mai infatti ha gustato cose animate? Ma, quando una cosa sia stata bollita, arrostita e salata, allora pure noi la mangiamo mentre non ha anima.
Fu dunque Pitagora sapiente a tal punto da non gustare le carni e da dire che era peccato, ma da farne mangiare gli altri. Ammiro il sapiente: egli diceva di non peccare ma faceva peccare gli altri.14
Ahi, ahi, perché Pitagora venerò tanto le fave? E morì insieme con i suoi allievi. C’era un campo di fave: per non calpestarle in un trivio fu ucciso dagli Agrigentini.15
Sulle fave di Pitagora basta e avanza e mi sarei fermato qui se non avesse attratto la mia attenzione l’affermazione secondo cui Aristofane (V-IV secolo a. V.) nella sua commedia “Le rane” avrebbe nutrito fra gli intervalli delle sue leggendarie fatiche, il mitico Ercole, con una superenergetica, quanto ghiotta, purea di fave.
Ignoravo questo dettaglio ed umilmente mi son riletto la commedia a caccia delle fave. Di loro non ho trovato ombra, anche se potrebbe essere interpretato restrittivamente il generico κατερεικτῶν χύτρας ἔτνους (alla lettera: pignatte di passato di cose spezzate, in cui cose può passare a legumi e questo a fave) dei versi 505-506. Perché si comprenda meglio quanto osserverò è necessario, però, che io riporti più ampiamente il testo e, precisamente, i vv. 503-507 (è una serva che parla):
O Ercole amatissimo, sei arrivato? Entra qui! La dea, appena ha saputo che venivi, subito ha cotto il pane, ha messo sul fuoco due o tre pignatte di passato di cose spezzate, ha cotto un bue intero, ha infornato focacce appiattite. Ma entra!16
Se l’identificazione del contenuto delle pignatte con la purea di fave ci può stare17 (e l’amico Massimo molto correttamente ha scritto avrebbe nutrito), debbo però, far notare che il personaggio al quale la serva si rivolge non è Ercole ma Dioniso travestito da Ercole. Sarebbe un dettaglio di poco conto (tanto più che tutto quel ben di Dio senza, però, essere accompagnato nemmeno da un fiasco di vino sarebbe più confacente ad Ercole e non a Dioniso …), se l’equivoco non avesse favorito il proliferare di affermazioni “allargate” che io trovo semplicemente criminali.
Da Tipico italiano di Annalisa Barbagli e Stefania Barzini, Giunti, Firenze, 2010, ho tratto il sottostante dettaglio della pag. 130.
Qui la purea di fave ha assunto proprietà addirittura afrodisiache. È sembrato doveroso, però, alle autrici far diventare diecimila le cinquanta vergini figlie di Tespio (o Testio, a seconda dei mitografi) con cui Ercole si sarebbe accoppiato in una sola notte.
Così confezionata la notizia della fava (nel duplice significato …) di Ercole era troppo ghiotta perché non passasse dalla carta stampata alla rete. Solo due, tra quelli che recano la firma dell’autore e la data più antica , dei tanti esempi, per evitare al lettore (le lettrici sono esenti da questo pericolo …) ulteriori rotture della fava:
In http://www.cucinerotica.com/ricette/le-fave-di-ercole/ leggo: Aristofane nella sua commedia Le Rane ci racconta di Ercole, il figlio di Giove, che dopo aver fatto un adeguato pasto col suo piatto preferito, i pugliesi sostengono addirittura che si trattava ‘Ncapriata (nome pugliese di fave e foglie poi italianizzato in Capriata), fece cambiare di stato più di diecimila vergini. (a firma di Angie Cafiero; pubblicato il 5/1/2011).
Dopo aver ribadito, come in altre occasioni, che il campanilismo, anche quello culinario, non può nutrirsi del cibo indigesto, anzi, velenoso, della mistificazione (riguardi essa il mito o la storia), chiudo con tre altri tuffi nel passato.
Dioscoride (I secolo d. C.), nel De materia medica dedica alla fava due capitoli del libro II.
Nel 105: La fava greca genera flatulenza, gonfiore, è difficile da digerire, fa fare brutti sogni, utile però contro la tosse e atta a generare la carne18; cotta in acqua e vino e mangiata con la buccia blocca i flussi della dissenteria e i disturbi intestinali e mangiata in abbondanza è utile contro il vomito; produce meno flatulenza se prima si butta via l’acqua durante la cottura. Quando è verde invece procura maggior fastidio allo stomaco e maggior flatulenza. La farina di fave applicata come cataplasmo da sola o con farina di orzo calma le infiammazioni dovute a trauma, rende uniforme il colore delle cicatrici , giova alle mammelle gonfie per i grumi di latte e infiammate e blocca la produzione del latte. Con il miele e la farina di fieno greco elimina foruncoli, parotite e i lividi agli occhi, con la rosa, incenso e bianco d’uovo le borse sotto gli occhi e lo stafiloma. Impastata col vino lenisce la sinchisi e i traumi degli occhi e la fava dopo essere stata masticata senza buccia a mo’di cataplasmo viene applicata sul volto e bollita nel vino cura le infiammazioni dei testicoli. E applicata, sempre come cataplasmo, sul pube dei fanciulli, li mantiene a lungo impuberi e cancella pure la vitiligine. Le bucce applicate come cataplasmo rende atrofici e sottili i peli che rinascono dopo essere stati strappati; con farina di orzo, scisto e olio vecchio applicate come cataplasmo curano la scrofolosi e il loro decotto tinge le lane. La fava scorticata viene applicata anche contro le emorragie procurate dalle sanguisughe dopo essere stata divisa in due sulle parti dove le sanguisughe erano fissate e ferma l’emorragia premuta a metà.
Nel 106: La fava egizia, che alcuni chiamano pontica, nasce abbondante in Egitto e si trova nei laghi in Asia e in Cilicia. Ha una foglia grande, come un cappello, il gambo lungo un cubito, grosso un dito, il fiore roseo, il doppio di quello del papavero, che dopo la fioritura forma una capsula simile ad un vespaio, nel quale c’è la fava che nella parte superiore ha un piccolo opercolo come una bolla. Si chiama anche ciborio o cibotio19 per il fatto che il seme viene posto nella zolla umida e così abbandonato nell’acqua. La fava viene mangiata anche verde, essiccata è nera e più grande di quella greca ed ha proprietà astringenti e salutari per lo stomaco. La sua farina, impastata con acqua in sostituzione di quella di orzo, giova agli affetti da malattie intestinali e ai celiaci e viene somministrata ridotta in poltiglia. Le bucce sono più efficaci bollite in vino e miele e bevute nella misura di tre tazze; e il loro seme verde a metà è efficace contro il mal di orecchi, amaro al gusto, gradevole se mescolato a qualche goccia di estratto di rosa.20
Nel primo brano la fava greca spicca per le sue molteplici proprietà terapeutiche e tra quelle della sfera genitale la sua efficacia contro l’orchite. A tal proposito non saprei dire se è l’applicazione del proverbio chiodo scaccia chiodo oppure del similia similibus curantur che è alla base dell’omeopatia …
Isidoro di Siviglia (V-VI secolo d. C.): Gli antichi quando dovevano cantare si astenevano prima dai cibi; tuttavia i salmisti si cibavano costantemente di legumi per la voce. Perciò anche i cantori presso i pagani furono chiamati mangiatori di fave.21
Meno male che il foscoliano di evirati cantori allettatrice era di là da venire, altrimenti sarei stato costretto a fare una considerazione in linea con quella dedicata al passo precedente …
Siccome, però, voglio chiudere in bellezza, lo farò con l’ultimo brano che è poi quello col quale pure l’amico Massimo conclude il suo post.
Da questa edizione propongo il brano sull’argomento tratto dal capitolo LXXVIII con la mia traduzione e qualche osservazione.
Il componimento è formato da tre esametri e da un elegiaco. Traduzione: I bagni, il vino, il sesso, il pepe, il fumo, i porri con le cipolle, la lenticchia, il pianto, la fava, la senape, il sole, il coito, il fuoco, la fatica, il trauma, le punture, la polvere: tutto ciò nuoce agli occhi. Ma restare svegli (nuoce) di più.
Credo che la sequenza balnea vina venus non sia casuale ma citazione di quella che compare su un’iscrizione (CIL, VI, 15258) rinvenuta a Roma nelle Terme di Caracalla sulla tomba di Tito Claudio Secondo, liberto dell’imperatore Claudio (dunque risalente al I secolo d. C.).
V(ixit) an(nos) LII / d(is) M(anibus) / Ti(beri) Claudi Secundi / hic secum habet omnia / balnea vina Venus / corrumpunt corpora / nostra se<d=T> vitam faciunt / b(alnea) v(ina) V(enus) / karo contubernal(i) / fec(it) Merope Caes(aris) / et sibi et suis p(osterisque) e(orum)
(Visse 52 anni. Agli dei Mani di Tiberio Claudio Secondo. Qui con ha tutto con sé. I bagni, i vini, il sesso corrompono i nostri corpi, ma la vita la fanno i bagni, i vini, il sesso. Per il caro compagno di tenda fece [costruire questo sepolcro] Merope di Cesare e per sé e per i suoi e per i loro posteri).
Cinquantadue anni non era una durata della vita da buttar via per quei tempi ma a Salerno dopo più di un millennio si pensò bene di aggiungere altri dettagli per allungare la vita …
Nella individuazione generica dell’amore (venus) e particolare del coito (coitus) tra ciò che nuoce agli occhi è da ravvisare, secondo me, un’anticipazione delle teorie terroristiche contro la masturbazione messe in campo agli inizi del XVIII secolo, secondo le quali tale pratica indurrebbe, tra l’altro, la cecità.
E, dopo questa fesseria che ha dovuto attendere due secoli per essere smentita, non voglio io essere il padre di un’altra affermando, con un gioco di parole che un tempo sarebbe stato definito senz’altro triviale, che la fava prima fece male perché stimolante, poi perché stimolata …
1 Credo che questa funzione propiziatrice, tenendo conto della forma fallica del baccello, sia parallela a quella apotropaica che avevano le innumerevoli immagini di falli ancora oggi visibili a Pompei. In basso un esemplare con la “didascalia”: HIC HABITAT FELICITAS (Qui abita la felicità).
2 Oggi Borkum, sul mar Baltico.
3 Naturalis historia, XVIII, 48: Sequitur leguminum natura, inter quae maxime honos fabae, quippe ex qua temptatus sit etiam panis. Lomentum appellatur farina ex ea, adgravaturque pondus illa et omni legumine, iam vero et pabulo, in pane venali. Fabae multiplex usus omnium quadripedum generi, praecipue homini. Frumento etiam miscetur apud plerasque gentes, et maxime panico solida ac delicatius fracta. quin et prisco ritu puls fabata suae religionis diis in sacro est. Praevalens pulmentari cibo, set hebetare sensus existimata, insomnia quoque facere, ob haec pythagoricae sententiae damnata, ut alii tradidere, quoniam mortuorum animae sint in ea, qua de causa parentando utique adsumitur. Varro et ob haec flaminem ea non vesci tradit et quoniam in flore eius litterae lugubres reperiantur. in eadem peculiaris religio, namque fabam utique ex frugibus referre mos est auspici causa, quae ideo referiva appellatur. Et auctionibus adhibere eam lucrosum putant. Sola certe frugum etiam exesa repletur crescente luna. Aqua marina aliave salsa non percoquitur. Seritur ante vergiliarum occasum leguminum prima, ut antecedat hiemem. Vergilius eam per ver seri iubet circumpadanae italiae ritu, sed maior pars malunt fabalia maturae sationis quam trimestrem fructum. eius namque siliquae caulesque gratissimo sunt pabulo pecori. Aquas in flore maxime concupiscit, cum vero defloruit, exiguas desiderat. Solum, in quo sata est, laetificat stercoris vice. Ideo circa Macedoniam Thessaliamque, cum florere coepit, vertunt arva. nascitur et sua sponte plerisque in locis, sicut septentrionalis oceani insulis, quas ob id nostri fabarias appellant, item in Mauretania silvestris passim, sed praedura et quae percoqui non possit. Nascitur et in Aegypto spinoso caule, qua de causa crocodili oculis timentes refugiunt. Longitudo scapo quattuor cubitorum est amplissima, crassitudo digiti. Ni genicula abessent, molli calamo similis; caput papaveri, colore roseo, in eo fabae non supra tricenas; folia ampla, fructus ipse amarus et odore, sed radix perquam grata incolarum cibis, cruda et omni modo cocta, harundinum radicibus similis. Nascitur et in Syria Ciliciaque et in Toronae chalcidices lacu.
7 Nei vocabolari greci la voce originale (ἐρυθρῖνος, leggi eriuthrìnos) è tradotta dubitativamente con serrano o con fragolino. Secondo me l’identificazione corretta è nel secondo pesce per due motivi: a) la voce greca deriva da ἐρυθρός (leggi eriuthròs), che significa rosso (indicazione che mi sembra più calzante per il fragolino che per il serrano); b) proprio dal greco ἐρυθρῖνος è derivato il salentino lutrinu, nome dialettale del pagello fragolino.
8 Comunemente noto col nome di occhiata, dal latino oculata(m)=dotata di grandi occhi. Il pesce è detto anche, come nel nostro brano, melanuro, che è dalla radice dell’aggettivo μέλας/μελαῖνα/μέλαν (leggi melas/melàina/melan)=nero+οὐρά (leggi urà)=coda.
9 In realtà dovrebbe trattarsi della vulva della scrofa che in parecchi autori, tra cui Plutarco (I-II secolo d. C.) e Ateneo (II-III secolo d. C.), è citata come un’autentica ghiottoneria.
10 Il che significa che di notte se la spassava con la signora Giovanna (non in carne ed ossa ma quella che etimologicamente ne è derivata: la damigiana)?
17 O amicissimo Hercole sei venuto? entra quà, che questa dea, poi che ti ha sentito à venire, hà impastato, e parecchiato il pane. ha messe à fuoco le pugnate de legumi, ciò è due, ò tre di fava, ha cotto un bove integro, ha rostito fugaccie, ischizzate, hor entra.
(Da Bartolomio e Pietro Rositini de Prat’Alboino, Le comedie del facetissimo Aristofane, Vincenzo Vaugris al segno d’Erasmo, Venezia, 1545)
Ercole, caro, caro, sei tu? Entra!
La Dea, come ha saputo ch’eri qui,
ha impastato del pane, ha cotto due
o tre pignatte di purè di ceci,
ha fatto arrosto un bove intero intero,
ha messo in forno torte e pasticcini.
(Da Ettore Romagnoli, Le commedie di Aristofane, Zanichelli, Bologna, 1927)
18 C’è invece un detto neretino che recita: Mangia fae ca ti ‘ntòstanu l’osse! (Mangia fave che ti si induriscono le ossa!).
19 Κιβώριον (leggi chibòrion) come nome comune significa coppa, cupola. Κιβώτιον (leggi chibòtion) come nome comune significa cassetta ed è diminutivo di κιβωτός (leggi chibotòs) che significa cassa e, come termine matematico, cubo. Anche il primo sembra presentare un suffisso diminutivo, per cui non mi pare azzardato, considerando anche che Dioscoride li usa come sinonimi, supporre per entrambi una comune derivazione da κύβος (leggi chiùbos) che significa cubo, dado.
20 Questa volta per brevità do il testo in formato immagine (da Pedanii Dioscuridis Anazarbei De Materia Medica, Weldmann, Berlino, 1907, v. I, pagg.180-181
21 De ecclesiasticis officiis, II, 12, 5: Antiqui, pridie quam cantandum erat, cibis abstinebant, psalientes tamen, legumine causa vocis assidue utebantur. Unde et cantores apud gentiles fabarii dicti sunt.
Approfitto per ricordare che baggiano, sinonimo di sciocco, anticamente era l’appellativo con cui i Bergamaschi chiamavano gli abitanti dello Stato di Milano (Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. XVII); la voce deriva da baggiana, varietà di fava a semi molto grossi, a sua volta dalla locuzione latina faba baiana=fava di Baia.
La fava (Vicia faba) è una pianta erbacea annuale, appartenente alla famiglia delle Leguminose, dai cui fiori, alla fine dell’inverno, si sviluppano dei grossi baccelli contenenti i semi dalla caratteristica forma reniforme e appiattiti.
Di antichissima coltivazione, è citata già nei testi biblici, ove il suo consumo viene temporalmente collocato già prima del Diluvio universale. Gli studi paletnobotanici, eseguiti in numerosi siti dell’Italia meridionale, Puglia inclusa, danno la Fava o meglio il Favino come il legume più diffuso e quindi consumato, insieme alla Lenticchia, già nel Neolitico. Un consumo, che sarebbe progressivamente aumentato, e di molto, facendone il legume più diffuso nel Calcolitico, nell’Età del Bronzo e nell’età del Ferro. Un primato, che questo legume avrebbe conservato anche con l’avvento della Storia, e mantenuto sino praticamente ai nostri giorni.
In età ellenistica, veniva consumata sia fresca che secca, oltre ad essere ampiamente impiegata nella panificazione, Teofrasto (371-286 a. C) parla della produzione che si faceva a Taranto. Un consumo ed un apprezzamento notevoli quindi, nonostante i moniti di grandi autorevoli filosofi che non perdevano occasione per lanciarsi in terrorizzanti vituperi contro questo legume. Nella cultura ellenica, infatti, si riteneva che la fava con il suo fusto cavo e senza nodi mettesse in relazione i viventi con l’Ade, che era il regno dei defunti e per tale motivo il suo consumo era oggetto di tabù e restrizioni.
Pitagora, grande filosofo e genio incontrastato nelle discipline matematiche, nonché fine erborista le considerava un cibo malefico in grado di corrompere la mente ed il fisico. Egli, in prima persona, le odiava tanto che evitava con cura ogni minimo contatto con le stesse, una sorta di fobia che gli sarebbe stata fatale, infatti, in fuga dagli scherani di Cilone di Crotone, preferì farsi raggiungere ed uccidere piuttosto che mettersi in salvo attraverso un campo di fave.
Della sua stessa opinione anche Aristotele il quale, oltre alla caratteristica di corrompere anima e corpo, attribuiva loro anche il potere di far fare sogni osceni, inducendo a pericolose tentazioni. Ciò nonostante i Greci non si lasciarono mai condizionare più di tanto, probabilmente perché, come lo sono la maggior parte dei popoli, attratti dal fascino delle cose proibite o perché, ancora più semplicemente, impossibilitati a rinunciarvi in un’epoca di limitata variabilità di risorse alimentari le apprezzavano e le sapevano ammannire in svariate ricette.
Omero, le cita spesso nei suoi poemi e Aristofane, commediografo gastronomo, nella sua commedia “Le Rane”, nutre, fra gli intervalli delle sue leggendarie fatiche, il mitico Ercole, con una superenergetica, quanto ghiotta, purea di fave.
Ancor di più e con meno riserve, furono amate dai Romani che a mezzo del grande gastronomo Apicio, autore del “De Re Coquinaria”, ci hanno tramandato anche tutta una serie di ricette, alcune curiose e particolari ed altre che somigliano incredibilmente a ricette ancora in auge in molte cucine tradizionali, tra cui nella cucina regionale pugliese.
Tra gli impieghi più particolari messi a punto dai Romani, una speciale farina che trovava utilizzo nella preparazione di focacce e dolci e che diluita nel vino, addolcita con miele e aromatizzata con spezie, dava luogo ad una particolare densa bevanda.
Un percorso comunque accidentato, se è vero com’è vero che la prestigiosa Scuola Medica Salernitana, rispolverando gli antichi precetti classici, le avrebbe nuovamente messe alla gogna, dichiarandole nocive per la vista. Nel “Regimen Sanitatis”, infatti si legge: “Fave, vin, lussuria, pianto, copula e punture; botte, polve e opre dure, cause agli occhi son di lutto”.
Furono certamente intraprendenti e di buon gusto i sindaci neritini che nei primissimi anni del XVII secolo vollero realizzare una espressione artistica ed architettonicamente originale come l’Osanna. Ancora oggi il monumento emerge nella sua bellezza stilistica all’inizio della “villa”, nell’ omonima piazza, un tempo subito fuori dalla cinta muraria.
Sia stata essa un capriccio umano, un elemento di arredo urbano oppure una eclettica testimonianza storica o ancora solamente un simbolo della fede del popolo neritino, certo è che essa rimane un’opera davvero singolare, aldilà delle intenzioni dei costruttori o dei committenti.
Ultimata nel 1603, l’ Osanna fu edificata su aere publico, ad Dei cultura, per interessamento dei sindaci di allora, Ottavio Teotino e Lupantonio Dimitri, rispettivamente sindaco dei nobili e del popolo, come ci è dato di leggere attorno al cornicione della cupola: HOC HOSANNA AD DEI CULTURA À FUNDAMENTIS AERE PUBLICO ERIGENDUM CURARUNT OCTAVIUS THEOTINUS ET LUPUS ANTONIUS DIMITRI SINDICI, 1603.
Il luogo dove sorge doveva già allora essere rinomato, trovandosi di fronte alla porta San Paolo o Lupiensis, che il neritino Angelo Spalletta aveva ricostruito circa quindici anni prima. Era il biglietto da visita della città per quanti giungevano da Lecce e la sua piazzetta doveva essere piuttosto animata per quanti vi si recavano ad attingere l’acqua o per gli acquisti: lì, come risulta dai documenti, vi erano perlomeno “la fontana” e la “beccaria di fore” (la macelleria fuori dalle mura).
Un altro edificio dominava la piazzetta, l’antichissima chiesetta di S. Maria della Carità, oggi in deplorevole abbandono, che nel 1310 già versava i dovuti tributi ecclesiastici. Fungevano da sfondo le mura aragonesi della città con i suoi coevi torrioni circolari.
È possibile che il nostro monumento dovesse semplicemente riempire un vuoto e quindi essere stato inventato di sana pianta. Piuttosto credibile appare invece un’altra ipotesi, che dovesse racchiudere al suo interno una preesistente colonna commemorativa, come tante altre possono osservarsi in varie cittadine del Salento ed anche lì poste all’ ingresso del paese.
Qualche Autore infatti ha felicemente ipotizzato che la colonna centrale del nostro monumento sia costituita da un’antica pietrafitta, cioè una delle antichissime stele votive erette dagli avi per le loro credenze votive, successivamente cristianizzata apponendo in cima il simbolo della Croce.
Di fatto le pietrefitte venivano issate su una piattaforma a gradinata, erano di un solo blocco di pietra leccese ed erano alte circa 3-4 metri.
Al di là delle ipotesi, la nostra costruzione per la sua posizione strategica e struttura architettonica inusuale resta unica, risultando una delle più belle espressioni del “rinascimento” neritino, che in quel ventennio si manifesta con incredibile ripresa delle arti, delle lettere, dell’ architettura. Il benessere dei suoi baroni, la pinguedine dei suoi terreni, l’accresciuto numero di residenti e forestieri, la stanno rendendo infatti una tra le più interessanti città del Salento: ovunque vi sono cantieri e ogni convento, chiesa e palazzo viene ampliato ed abbellito.
La rinascita culturale e sociale fa nascere anche ottime maestranze, che da Nardò si attivano in ogni luogo di Terra d’Otranto. Sono gli anni di Giovan Maria Tarantino, degli Spalletta, dei Dello Verde, dei Bruno e di tanti altri abili mastri, tra i quali va senz’ altro ricercato l’artefice del nostro monumento.
Al suo valore storico si associa infine l’affetto dei neritini, che da sempre vi si attorniano la domenica delle Palme, per celebrare il rito della benedizione dei ramoscelli da parte delle autorità ecclesiastiche, in memoria dell’ ingresso trionfale di Cristo in Gerusalemme.
Riguardo l’ ingegnosa struttura ricordiamo solo che la sua cupola poggia su otto colonne, di cui le esterne congiunte tra loro mediante archetti plurilobati di epoca successiva. La base ottagonale fa pendant con l’omonima pianta della vicina chiesetta della Carità ed il binomio, non casuale, richiama ad usi e tradizioni assai importanti per la vita cittadina, tra i quali certamente i festeggiamenti della prima settimana di agosto in occasione dell’ antichissima fiera dell’ Incoronata.
L’ ultimo restauro dell’Osanna risale al 1996, mentre l’ area antistante è stata completata nel 2001, riportando all’ integrità numerica i gradini su cui si erge il monumento, dei quali cinque erano rimasti coperti dagli innalzamenti del manto stradale. Con i lavori è stata rimossa la ringhiera di ferro degli anni ’40 che la circondava per proteggerla da danneggiamenti.
A distanza di 400 anni il monumento resta un gioiello, unico ed irripetibile, e come tale da conservare e da esibire con orgoglio… perché lo merita!
Verso l’anno mille circa dell’era cristiana, invalse l’uso di graffire delle croci con pietre o metalli appuntiti sulle facce di un menhir o di piantarvi in alto delle croci di pietra.
Per questo processo di cristianizzazione i menhir erano chiamati impropriamente culonne o croci o in griko sannà, da osanna (che in ebr. significa “salvaci!”) col significato metonimico altomedievale di “Domenica delle palme”.
Non bisogna però confondere i menhir, benedetti dai papâs bizantini e adattati a sannà, coi sannà veri e propri o culonne cu ccroci commemorative della Passione di Cristo, innalzati, secondo l’usanza medievale di alcuni paesi della Grecìa salentina, alla periferia del paese e, più tardi, nel ‘600/’700, anche nel centro storico.
È molto probabile che pure il sannà sopra ricordato, nei pressi della chiesa greca magliese di S.Maria della Scala, sia stato un menhir.
Di questo menhir o Crocemuzza, allo Scamata, alla periferia occidentale del paese, non è rimasto che il ricordo nelle antiche carte, com’è avvenuto per l’altro esistente presso la masseria di Maglie o del castello, tra l’ingresso del cimitero e il Palombaro, e quello nei pressi dell’Àviso, a sud della campagna di S. Sidero. E’ andato pure distrutto il menhir detto S. Biagio o Crocemuzza o Croce, al confine tra il feudo di Maglie e quello di Melpignano. Del menhir S. Rocco, poco distante da quest’ultimo, dà notizia solo il De Giorgi. Così di tutti i menhir, esistenti in tempi passati alla periferia più o meno vicina al casale magliese, oggi ne sono rimasti solo tre: quello a S. E., detto menhir Crocemuzza o delle Franite, ad est della strata vecchia di Scorrano, un altro detto Spruno tra la strada ferrata Maglie-Bagnolo, e quello a N.E. detto menhir Calamàuri (Cfr. gli Inventari di Maglie del 1483/84, A.S.N., “fovea sita et posita in Sannà […] in loco de Scala”, e la cerimonia del 1° gennaio 1585, nella quale i francescani compaiono per la prima volta in Maglie, “piantando la croce appresso il sannà”.
(Emilio Panarese, La vicenda storica dei francescani di Maglie, 1585-1982, estr. da “Contributi”, 1982,I,4).
a cura dell’Ufficio Pubbliche Relazioni – Conservatorio di Lecce
CONCERTO DELLA PASSIONE NELLA TRADIZIONE SALENTINA
“VIA CRUCIS” di SERAFINO MARINOSCI
Lecce – Chiesa di San Matteo
MARTEDÌ 15 APRILE 2014 ORE 20:30
GIACOMO LEONE Tenore
EMILY DE SALVE Baritono
CORO DI VOCI BIANCHE “SULL’ALI DEL CANTO”
TINA PATAVIA Maestro del Coro
ORCHESTRA DI FIATI DEL CONSERVATORIO “TITO SCHIPA”
FRANCESCO MUOLO Direttore
Proseguono gli appuntamenti con la musica di alto livello accademico promossi dal Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce. Il nuovo incontro, che si terrà nella magnifica chiesa barocca di S. Matteo in Lecce, martedì 15 aprile 2014 alle ore 20.30, in sintonia con lo spirito e i riti della settimana santa, è affidato alle cure dei giovani talenti Giacomo Leone (tenore) ed Emily De Salve (baritono), affiancati dal Coro di voci bianche “Sull’ali del canto”, preparato dal M° Tina Patavia, e sostenuti dall’Orchestra di Fiati del Conservatorio, per la direzione del M° Francesco Muolo.
Dedicato al recupero e alla riproposizione dei canti devozionali della Passione di Cristo nella tradizione salentina, il concerto è incentrato sulla “Via Crucis” di Padre Serafino Marinosci e su alcune musiche religiose di tradizione orale legate al Venerdì Santo, espressioni culturali che resistendo al tempo e alle mode ci consegnano l’essenza del divenire umano.
«Tomba che chiudi in seno/ il mio Signor già morto/ finch’Ei non sia risorto/ non partirò da te:/ no! Alla spietata morte/ allor dirò con gloria:/ dov’è la tua vittoria/ dov’è dimmi dov’è!». Al canto di questi versi di Metastasio, Marinosci affidò l’accompagnamento di Gesù al sepolcro «nuovo scavato nella roccia», come narrato nell’ultima stazione della struggente “Via Crucis” composta dal frate minore pugliese intorno al 1895, quale meditazione musicale di alcuni episodi della Passione di Cristo lungo la via dolorosa che separò il Pretorio di Pilato dal Calvario.
Padre Serafino Marinosci (Francavilla Fontana, 1869-Napoli, 1919) mostrò sin dalla tenera età una forte passione per la religione e per l’arte. Frequentò il convento di Santa Maria della Croce in Francavilla Fontana (Br), dove si accostò alla musica grazie agli insegnamenti del maestro Trisolini per l’organo e del maestro Sarago per il violino. Restato orfano d’entrambi i genitori, si diede alla vita monastica entrando nel convento di Galatone (Le) dei Frati Minori Alcantarini, e fu per sempre padre Serafino della Purità. Riprese gli studi musicali a Taranto, dove compose il mottetto “Alla Vergine Desolata” (1894) e la struggente “Via Crucis” per due tenori e basso, con accompagnamento di pianoforte o harmonium. Passato al convento di San Giacomo in Lecce frequentò il corso di armonia col maestro Cazzella, musicista emerito già allievo di Donizetti, e si dedicò alla composizione di Litanie, Messe e Tantum ergo. Quando il 3 marzo 1895 eseguì per la prima volta la sua “Via Crucis” nella monumentale Basilica di Santa Croce in Lecce, la stampa salentina vaticinò che la fama del fraticello avrebbe varcato i confini della natia provincia con quei motivi originali e ispirati che manifestano la purezza e la squisitezza del sentimento religioso del suo autore. Trasferito nel 1899 nel convento di San Pasquale a Chiaia in Napoli, frequentò il Conservatorio di San Pietro a Majella, compiendo studi appassionati e severi di contrappunto e fuga. Acquisita una non comune erudizione scientifico-estetica nella sublime arte dei suoni, con i maestri Oronzo Scarano, Nicola D’Arienzo e Paolo Serrao, Padre Serafino compose oltre quaranta opere, alcune delle quali restano esempi di genialità e dottrina, come la meravigliosa “Missa pro pace” e la “Messa di reque” a due voci eguali (1908). La morte lo colse a Napoli il 21 novembre 1919 mentre istrumentava la “Messa pastorale”.
Il CORO DI VOCI BIANCHE “Sull’ali del canto” del Conservatorio “T. Schipa” di Lecce è nato per espresso desiderio del Direttore M° Pierluigi Camicia nell’anno 2008, e affidato per la realizzazione alla professoressa Tina Patavia, la quale con grande entusiasmo e passione ne ha curato la nascita e l’ulteriore crescita. Il Coro è formato per lo più da bambini delle scuole elementari e medie del territorio scelti al fine di educarli all’utilizzo del canto e della musica. In alcune occasioni il Maestro del coro ha ritenuto opportuno affiancare ai piccoli alcuni brillanti allievi delle classi di Canto del Conservatorio in formazione di Coro Misto. L’attività tutta ha acquistato maggior prestigio avvalendosi inoltre della collaborazione artistica della professoressa Francesca Mammana, valente e poliedrica musicista. Nel corso degli anni il Coro ha partecipato a numerose manifestazioni pubbliche sul territorio pugliese, con grandi consensi di pubblico. Tuttora continua la sua attività con l’approvazione del Consiglio Accademico e dell’attuale direttore M° Salvatore Stefanelli.
EMILY DE SALVE, baritono, intraprende lo studio del Canto Lirico nel 2002 sotto la guida del soprano Maria Mazzotta, nella vocalità di sopranista con la tecnica del falsetto rinforzato. Nel 2009 il cambiamento. Dopo l’ammissione al Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce, sotto la guida del M° Maurizio Picconi, scopre la voce baritonale con ottimi risultati. Ha frequentato Masterclass con Giovanna Lomazzi, Astrea Amaduzzi e Mattia Peli. Frequenta il 5° anno di Canto Lirico presso il “Tito Schipa” di Lecce e svolge attività concertistica come solista e corista. In un’audizione a Venezia ha vinto il ruolo di Miss Magen nell’opera “Magen Zeit” del compositore Gabriele Cosmi che debutterà ad ottobre 2014 per il 58° Festival Internazionale di Musica Contemporanea della Biennale di Venezia, diretto da Ivan Fedele.
GIACOMO LEONE, tenore lirico, nasce a San Pietro Vernotico nel 1988. Sin dagli anni del Liceo Classico inizia a studiare Canto Lirico e dopo il diploma intraprende la carriera universitaria laureandosi in Scienze dei Beni Musicali presso l’Università del Salento. Nel 2009 entra a far parte del Coro stabile dell’Università e dal 2012 è allievo del corso di canto del Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce. Frequenta Masterclass con docenti del calibro di E. Dundekova e E. Erlingsdotter. Il 5 aprile 2013 è comparsa nell’opera “800. L’assedio di Otranto” del M° F. Libetta, messa in scena presso i Cantieri Teatrali Koreja di Lecce e, al contempo, si esibisce in Galà lirici tenutisi nel capoluogo leccese.
FRANCESCO MUOLOha iniziato giovanissimo lo studio della musica seguendo i corsi di Pianoforte e Cantoe diplomandosi brillantemente in Musica Corale e Direzione di Coro, Strumentazione per Banda, Direzione d’Orchestra, Composizione. È, inoltre, laureato, con il massimo dei voti, lode e menzione speciale in Discipline Musicali presso il Conservatorio “Niccolò Piccini” di Bari. Ha frequentato i corsi di Composizione Polifonica con i maestri D. Bartolucci e V. Miserachs e di Canto Gregoriano con B. Baroffio presso l’Istituto Pontificio di Musica Sacra nella Città del Vaticano. Partecipa a numerosi corsi di Direzione d’Orchestra con importanti maestri quali: B. Aprea, H. Samale a Roma e Duarte a Molfetta (Ba). A Orvieto, presso il Teatro “Mancinelli”, frequenta la scuola di Direzione d’Orchestra di B. Rigacci ed è scelto quale migliore corsista per la direzione dell’opera “Il Tabarro” di G. Puccini. Ha diretto, inoltre, diverse Formazioni Sinfoniche e Liriche, tra cui l’Orchestra della Provincia di Bari. Ha diretto nella città di Bari l’opera “L’elisir d’amore” di G. Donizetti nell’ambito delle esercitazioni della classe di Direzione d’Orchestra riscotendo importanti e concordi favori. Ha fondato e diretto l’Orchestra da Camera “G. Insanguine” di Monopoli riscoprendo i tesori della musica settecentesca ottenendo numerosi consensi di critica e di pubblico. Ha diretto i maggiori complessi bandistici pugliesi quali: “Gennaro ed Ernesto Abbate” di Squinzano (Le), Città di Noci (Ba), Filarmonica Salicese di Salice Salentina (Le). Alterna all’attività direttoriale anche quella di compositore. Ha al suo attivo diverse composizioni che spaziano dal genere sacro (messe e mottetti) a quello lirico-sinfonico e a quello per orchestra di fiati. Un suo brano, dal titolo “Il circo” per Symphonic Band, è stato eseguito nel maggio del 2007 presso il Palazzo dei Celestini, sede della Prefettura di Lecce, in occasione della Festa della Polizia. La sua operetta “Ghetonia”, su libretto di G. Palasciano, è stata scelta come il lavoro più rappresentativo della cultura italiana, in particolare della cultura salentina, in un progetto Interreg tra Provincia di Brindisi e Prefettura di Corfù, e rappresentata, in collaborazione con l’Orchestra del Conservatorio “T. Schipa” di Lecce, in diversi teatri pugliesi ottenendo lusinghieri risultati. Su richiesta del comitato “Un cordone per la vita” ha musicato per soprano e orchestra la poesia “Il gelsomino notturno” di G. Pascoli, brano eseguito nell’ottobre del 2008 al Teatro Politeama Greco di Lecce in occasione di una serata di solidarietà a favore della citata associazione con unanimi consensi. È autore, inoltre, di diversi testi didattici editi da case editrici pugliesi: “Vivere in” di Monopoli e “Papageno” di Bari. Attualmente frequenta l’Accademia di S. Cecilia a Roma e si perfeziona in Composizione con il M° Luciano Pelosi. È docente di Strumentazione e Composizione per orchestra di fiati per banda presso il Conservatorio “T. Schipa” di Lecce.
La lettera che segue, che volentieri rieditiamo, è stata scritta da Mimmo Ciccarese ed inviata lo scorso anno all’Assessore regionale Barbanente.
È un momento davvero delicato ciò che vivono i pugliesi adesso; si creano movimenti per la protezione dell’ambiente in ogni angolo della loro regione, dalla Capitanata di Foggia al Capo di Leuca. Assistiamo a storici cambiamenti, ad inconsuete rapine di spazi naturali, è sotto gli occhi di tutti: è un popolo turbato e scosso dalla necessità di tutelare l’incolumità di un ecosistema minacciato, sempre più stretto dalla morsa antropica.
È la cittadinanza che ravviva il concetto di paesaggio e si schiera con smisurata passione con la ricchezza è l’identità culturale del suo habitat. Si risvegliano piccoli movimenti, quelli del bene comune, coesi, capaci di interagire pacificamente con le istituzioni e comunicare al governo. Lo stesso popolo che resiste senza cedere, onesto e vigile, con la necessità di comprendere o denunciare gli abusi con la stessa decisione di chi attiva da sempre sogni e speranze.
Con la stessa pacifica “rivoluzione gentile”, i pugliesi si sentono più forti, coscienti e liberi di scegliere; è inutile smentirlo: il cambiamento c’è e si muove.
Un cambiamento possibile per quella gente, ad esempio, che rimuove dai balconi della sua casa la produzione di ceneri sottili o per quella che condivide l’ansia di altri ulivi espiantati, di migliaia di agricoltori irritati, che reclamano supporto e assistenza quando sono costretti a declassare la produzione su scale economiche terribilmente incerte.
Non ci sono stendardi ad suffragare un territorio, la gente vale quanto il desiderio di disporsi per tutelare il patrimonio ulivicolo e il suo valore, più alto della grande muraglia cinese e certamente molto più stupefacente della Pietà di Michelangelo o l’urlo di Munch.
Piante impossibili da contare, se non dalle loro stesse moltitudini congiunte da una miriadi di associazioni di tutela, che le descrivono e le rendono fondamentali.
La monumentalità nel caso dell’ulivo è molto di più che una questione di assi cartesiani, non basta misurarlo con un semplice formula empirica, perché tra queste piante potrebbero esserci molti più parametri di quanto si possa pensare.
L’olivicoltura vive gravi complessità e spesso le conferenze-vetrina sull’argomento, non si possono intendere, specie se inorridiscono il diritto di un lavoro, di una collettività dimenticata, spesso costretta ad emigrare o a lasciare la terra. Già, chi ha coraggio di parlare dell’abbandono agricolo? Quello che succede può essere documentato in ogni momento, piccole civiltà contadine che in silenzio affrontano il loro dramma quotidiano e non si può che essere solidali con loro, in particolar modo se si proviene da storie di vecchie lotte contadine come quelle dell’Arneo.
Questi sono i veri dibattiti che vale la pena condividere e non più gli accorati comizio di piazze di paese riempite per l’occasione dal solito carrozzone politico.
Ogni albero borbotta come la voce del suo custode, ma i movimenti sbocciano sempre dalle periferie, dai quartieri dimenticati, dagli angoli delle masserie, nei discorsi tra i frantoi, tra i filari degli ulivi. Testimonianze a bizzeffe: agricolture avvelenate, alberi bruciati o decapitati, discariche e sconforto, nonostante l’inesorabile impegno globale per supportare l’ecosistema olivicolo.
Ogni terribile abbattimento è espressione di una decadenza, è un attimo di solitudine nel silenzio delle cavità dei loro tronchi spesso seviziati da potature selvagge, fatte ad hoc, nei limiti della buona pratica agricola, per far decadere un antichissimo equilibrio: l’opposto di quello che i nostri progenitori facevano innestando il gentile sul selvatico.
Si assiste ancora a tagli irrazionali, ancora oggi non è chiara ad esempio, la differenza, tra ciò che definisce una “ capitozzatura”, “taglio della chioma” o “spalcatura” in un capitolato di un appalto di potatura; definizioni opinabili che attendono il parere di tecnici e operai specializzati, quasi mai chiamati a valutare per conformare disciplinari, termini e razionalità degli interventi.
In questo campo, vi è carenza di riferimenti comuni, già vigenti da tempo in altri nazioni che con opportune politiche del verde sono in grado di rendicontare addirittura il valore delle emissioni della CO2 e di quello ambientale, spesso trascurati dalle comunità pugliesi.
Il valore degli ulivi restituisce dignità alle prossime generazioni; ciò che sta avvenendo è inaccettabile; volgarità e l’arroganza di certe scelte consumano i territori.
È opportuno, quindi, creare condizioni fondamentali che traccino i percorsi di un ulivo espiantato, per evitare possibili fenomeni d’illegalità diffusa, tramite un adeguata sorveglianza, che coinvolga la passione della gente comune e, perché no, l’interesse delle associazioni di categoria presenti in Puglia, affinché la sua popolazione sia risarcita da un possibile oltraggio ambientale.
Mappare e preservare gli alberi sul territorio di competenza è di grande utilità per conoscere, ad esempio, le misure da adottare per contenere le cause del dissesto idrogeologico o della desertificazione, creare percorsi eco turistici o favorire i prodotti tipici e i consorzi di olio extravergine prodotto da ulivi secolari ancora meglio sostenere le idee che tutelano il paesaggio. Oggi schierarsi dalla parte degli ulivi, dei loro portavoce, ribadisce il coraggio e la replica; chi è indifferente a queste questioni non può dire di amare la sua terra né le sue meravigliose creature.
Attiguo alla bellissima e struggente insenatura Acquaviva di Marittima, c’è un fondo agricolo a gradoni, ricco di vegetazione tanto da essere denominato “Bosco”.
Su un suo terrazzamento, al tempo della mia infanzia, svettava rigogliosa una gran pianta di gelso (ancorché rimaneggiata, è tuttora in piedi), dal gustoso frutto nero violaceo che giungeva a maturazione durante il periodo estivo, quando consistenti gruppi della popolazione del paese erano soliti raggiungere quel tratto di mare per i rituali bagni.
Il podere non era né recintato né delimitato da muri; ufficialmente era intestato a una locale famiglia benestante, ma, per antica anche se non ortodossa consuetudine, si considerava alla stregua di proprietà comune.
Pure il mitico albero di gelso era, quindi, ritenuto appartenente a tutti. Chi ne aveva voglia, vi si accostava, si arrampicava sui rami e faceva grosse scorpacciate di frutti, con golosa voracità e senza badare all’impiastricciamento della bocca e del volto.
I ragazzini – e, fra loro, io non potevo certamente mancare – facevano la parte del leone nelle scalate al benemerito gelso, in certo senso gareggiando a chi mangiava più more. A differenza dei grandi, dopo averne divorato a sazietà, essi piluccavano due manciate di frutti, quindi, con pressione fra dita e palmi, li spiaccicavano e, infine, adoperavano il succo zuccheroso che sgorgava grondante per dipingersi il volto e il corpo.
Dopo le abbuffate e i camuffamenti da piccoli negri, con quattro salti, i monelli raggiungevano poi la distesa d’acqua salata sottostante e si detergevano vigorosamente, diffondendo intorno, ovviamente, un’innaturale chiazza di colore, ma arrivando alla fine a più o meno pulirsi il volto.
Purtroppo, in qualche occasione, le scalate all’amata pianta erano seriamente “disturbate” e fremiti di paura assalivano i giovani scalatori.
Nel Salento, tra la fauna presente, è diffuso un rettile innocuo denominato biacco, dal colore uniformemente nero e, perciò, forse più impressionante, che, a quanto sembra, deve essere ghiotto di gelsi.
Sta di fatto che talvolta, mentre noi eravamo sulla pianta, scorgevamo, giù sul terreno, uno o più esemplari di serpenti, lì convenuti per divorare i frutti caduti dai rami.
Per la paura, ci guardavamo bene dallo scendere, fino a quando tali ospiti, sazi e appagati, non riprendevano a strisciare per far ritorno ai loro anfratti.
* Avete presente la favola della volpe e l’uva? Eppure, a pensarci bene, tra POLITO e POLITICO c’è solo la differenza di un suffisso …
Tranquillizzo tutti dichiarando immediatamente che il titolo costituisce la protasi di un periodo ipotetico di terzo tipo, altrimenti detto dell’impossibilità.
Quanto dirò rappresenta la parte mancante che tecnicamente si chiama apodosi.
Debbo, però, fare una premessa, altrimenti che politico, sia pur remotamente potenziale, sarei?
Come tutti hanno sentito giornalmente e sanno, siamo reduci da un avvicendamento governativo che in prima battuta ha dovuto fare i conti in concreto con il rigore (basato soprattutto sull’inasprimento fiscale a danno dei soliti noti e a favore dei soliti ignoti e noti (questi ultimi noti, però diversi dai primi …) e non sulla lotta, seria, all’evasione) e, solo a parole, con la crescita.
Dopo aver detto che solo il Padreterno (che, per chi ci crede, non è solo un economista …) sarebbe stato in grado di coniugare con successo due concetti così antitetici, va rilevato come la riduzione della spesa (non userò voci inglesi per non sputarmi in faccia quando mi guardo allo specchio …) sia continuata, con esiti fallimentari, nella seconda tappa e sia da tempo in atto, senza nulla promettere, a mio avviso, di diverso (scusate, discontinuo …) dal deja vu (il francese mi è leggermente più simpatico …), anche nella terza.
Per fare in modo che almeno in questa qualche riduzione dello spreco si realizzi (senza, come spesso succede, che la rimodulazione o la modifica, parole magiche che riesumano e rianimano l’eliminazione (pardon, la rottamazione), sia inferiore ai costi, considerando che la salute anche per un paese vecchio e di vecchi come il nostro è evidentemente un lusso, non certo un diritto sancito dalla Costituzione e un bisogno che nella scala dei valori viene subito dopo il pane, pongo fine alla premessa e passo all’apodosi.
Le confezioni di medicinali la cui fornitura è a carico (totale o parziale) del Servizio Sanitario Nazionale recano dal 2 agosto 2001 (data di emissione dell’apposito decreto, vi risparmio il numero) un’etichetta con la dicitura CONFEZIONE DISPENSATA DAL S.S.N. Approfitto dell’immagine allegata per far notare la scarsa definizione che è nativa, non dovuta, cioè, a difetti di ripresa: forse sarà un espediente per rendere più difficile la falsificazione ma io trovo in questo dettaglio pubblico un parallelo con quello privato della lettura tanto veloce da risultare quasi incomprensibile (più o meno quella che contraddistingue la lettura di uno strumento notarile …) dell’avvertimento sulle controindicazioni fatto in coda allo spot pubblicitario di un medicinale. Oppure, più verosimilmente, rappresenta, quasi profeticamente, la rappresentazione grafica di quanto sto per dire.
Sul significato di dispensare riporto quanto si legge sulla Treccani on line (e, più o meno, su qualsiasi altro vocabolario):
dispensare v. tr. [dal latino dispensare, intensivo di dispendĕre «distribuire»] (io dispènso, ecc.).
1.
Distribuire: dispensare ai poveri le proprie ricchezze; dispensare favori, grazie, elemosine; estensivamente: passò dispensando a tutti sorrisi e strette di mano; scherzosamente: dispensare pugni, scappellotti, impertinenze, ecc.
2.
a. Esimere, liberare da un obbligo, da una prestazione, da un’imposizione, da un atto che, secondo le norme o il costume, sarebbe dovuto: dispensare dagli esami scritti; dispensare dal servizio militare; dispensare dal produrre un documento; nel diritto canonico, dispensare dai voti, dagli impedimenti matrimoniali (anticamente anche transitivamente, dispensare il matrimonio), ecc. In senso più ampio: siete dispensati dall’intervenire alla riunione; si dispensa dalle visite, negli annunci di morte. Nel riflessivo, dispensarsi dal fare qualcosa, esimersi, fare a meno di: non posso dispensarmi dal dirvi che siete un ingrato (Goldoni).
b. Nel pubblico impiego, dispensare dal servizio, risolvere il rapporto nei riguardi di un impiegato non idoneo al lavoro per motivi di salute o per insufficiente rendimento (v. dispensa1, n. 5 b).
3. anticamente
a. Spendere, consumare.
b. Amministrare.
È evidente che il DISPENSATA dell’etichetta ha avuto finora il significato n. 1, non a caso sinonimo di distribuire. L’apodosi prevede la semplicissima sostituzione del significato n. 2 al n. 1, operazione a costo zero perché le etichette resteranno tali e quali (anche se questo dettaglio indispettirà non poco i burocrati …) e la nuova interpretazione (corrispondente a liberata dall’obbligo di prestazione da parte del S. S. N.) sarà sancita per decreto. Notevolissimo, poi, sarà il ristoro per il bilancio, dovendo il cittadino mettere mano al borsellino per pagare integralmente tanto una confezione di aspirina quanto una dei cosiddetti farmaci salvavita.
A corredo della proposta, poi, esibirei la seguente relazione di alta filologia, della quale ometto non solo per brevità la parte iniziale che contiene il riferimento alle leggi precedenti e che è lunga, per la precisione e per la storia, duecentoquarantacinque righe e un quarto:
“Atteso che la parziale contraddizione dei significati 1 e 2 nasce dall’ambiguità della particella dis– che in latino può indicare divisione, per esempio distribùere (da cui distribuire), o separazione, per esempio discèdere=dividersi (con la prima gradazione di significato è connessa la definizione n. 1, con la seconda la n. 2) o distinzione, per esempio disquìrere=indagare, analizzare o pienezza, per esempio disperire=andare totalmente in rovina oppure, e infine, direzione in un senso e in quello opposto, per esempio discùrrere=andare qua e là, si precisa che nella fattispecie da oggi DISPENSATA assume inequivocabilmente il significato n. 2. Si prega nel contempo il titolare del Miur di disporre che su tutti i vocabolari che da oggi verranno stampati sia aggiunto al lemma in questione la dicitura come termine medico-farmaceutico è sinonimo di non più preso in carico: DISPENSATO DAL S. S. N.=non più preso in carico dal Servizio Sanitario Nazionale”.
Fèrri, Roberto.– Artista figurativo (n. Taranto 1978). Dopo essersi diplomato al liceo artistico di Taranto, nel 1996 si trasferisce a Roma, dove nel 2006 si laurea all’Accademia di belle arti. F. guarda alla grande pittura del Seicento di Caravaggio, del quale sembra voler riprodurre i tagli di luce, come anche all’accademia ottocentesca francese di Jean Louis David o alla maestria tecnica e coloristica di Jean Auguste Dominique Ingres. Nel 2003 gli viene dedicata una prima mostra personale al Centro d’arte contemporanea Luigi Montani di Genzano di Roma. Lo stesso anno, la galleria Il labirinto di Roma organizza una sua personale intitolata La luce del corpo. Nel 2006 espone alla galleria Il cortile e la galleria Anarte di Sant’Antonio, Texas, organizza una sua mostra di disegni. Nel 2007 gli viene dedicata una personale all’Istituto italiano di cultura di Londra, intitolata Roberto Ferri beyond the senses, e nel 2009 il Complesso del Vittoriano a Roma gli dedica un’importante monografica. Nel 2011 è tra gli artisti invitati al Padiglione Italia della 54a Biennale di Venezia.
La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione
al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.
C.F. 91024610759 Conto corrente postale 1003008339 IBAN: IT30G0760116000001003008339
www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.
Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi: Gestione contatti e invio di messaggi MailChimp Dati Personali: cognome, email e nome Interazione con social network e piattaforme esterne Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo Servizi di piattaforma e hosting WordPress.com Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio Statistica Wordpress Stat Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo Informazioni di contatto Titolare del Trattamento dei Dati Marcello Gaballo Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com