Una vacanza da sogno nel Salento da amare, lungo la via Appia e sulle spiagge joniche dal mare cristallino

Torre Lapillo
Torre Lapillo

di Paolo Rausa

 

 

Lungo la Via Appia, regina viarum, ora SS 7, che da Roma conduceva merci e truppe romane a Brindisi per imbarcarsi in direzione Oriente, si incontrano nell’immediato entroterra del porto pugliese città d’arte e rinomati centri storici, una campagna fertile di ulivi e di viti, e un mare, a sud, sullo Jonio, dai colori sfuggenti, verdi, turchesi, blu. Una vacanza ideale in questa zona del Salento, dopo aver scelto la propria spiaggia del cuore, per es. a Torre Lapillo, una torre di guardia del ‘500,  nel lido La Pineta, oppure le spiagge dorate di Campomarino al lido Fuori Rotta, lasciandosi sedurre dai prodotti agricoli di questa terra generosa e dalle sagre, le feste paesane religiose o gli eventi tradizionali.

Centro storico di Oria
Centro storico di Oria

A Oria fervono i preparativi per celebrare il 9 e il 10 agosto il Torneo dei Rioni, giunto alla sua 48ma edizione, che rievoca l’arrivo in città di Federico II, soprannominato puer Apuliae, nel 1225 per attendere la sua sposa Jolanda di Brienne, in viaggio dall’Oriente. 800 figuranti in abiti medioevali a cavallo si sfidano nelle giostre in rappresentanza dei  quattro rioni di Lama, Castello, Giudea e San Basilio.

A due passi la cittadina di Francavilla Fontana, cosiddetta per il rinvenimento di una fonte sacra durante una battuta di caccia, ad appena 5 chilometri da Oria. Lungo i suoi viali alberati e le ampie piazze si affacciano splendidi palazzi, barocchi e neoclassici, e il castello degli Imperiali. La devozione religiosa si  esprime nella chiesa madre, con cupolone – il più alto del Salento – , la chiesa dei padri liguorini con  altari e i fregi in oro zecchino e la chiesa di Santa Chiara, che conserva le 14 statue in cartapesta dei Misteri, che sfilano per le vie della città durante la suggestiva processione del Venerdì Santo, evento che si configura fra i riti della Settimana Santa. Qui si trovano fra le prelibatezze il confetto riccio, una mandorla ricoperta di zucchero e lavorata ancora artigianalmente, e la pampanella, una ricotta avvolta in foglie di fico, dette pàmpane. D’estate la si porta al mare, perché disseta con il suo sapore fresco.

Ci spostiamo di poco, a nord ovest, per raggiungere Villa Castelli, un borgo rurale, che si eleva su una gravina, un’acropoli costruita su un asse viario centrale, il decumano,  ai cui estremi si fronteggiano i simboli del potere religioso con la chiesa madre e del potere civile con la palazzina estiva degli Imperiali, ora ristrutturata magnificamente dal Comune che vi ha posto la sede amministrativa e uno spazio museale etnografico-archeologico. Sorge al limitare delle civiltà fiorite sul suo territorio, la messapica, la magno-greca e la peucetica. ‘Tutto merito della campanula versicolor, un fiore in via di estinzione che ha trovato il suo abitat qui e in Attica!’ – ci dice con orgoglio il sindaco  Vito Antonio Caliandro. Una tappa d’obbligo, se non altro per gustare i dolcetti di pasta reale, unione riuscita di mandorla e zucchero, al Bar La Sfornata. La terra dell’ulivo e del vino, il Salento, in questa zona si esprime nelle eccellenze delle produzioni in stabilimenti condotti da giovani imprenditori agricoli: l’Azienda Dantona, con annesso b&b di charme e le sue tre etichette di olio extravergine, ma gusterete anche il gelato all’olio di oliva; l’Azienda Melillo, una masseria didattica (www.melillo.biz), che produce vino di qualità e in particolare il Nereo, un primitivo dal gusto dolce, e il frantoio oleario Cassese.

Anche questo è Salento: arte, storia e buoni prodotti della terra! Diverse le possibilità di pernottamento a Oria, nel centro storico, modalità albergo diffuso: La Tana del Lupo o le Antiche Dimore, la Domus Frumenti,  il B&b Messapia, il B&b Torre Palomba e il Bb Nonna Pina; cibo di qualità secondo tradizione al Ristorante Fuori Porta di Oria.

Un bagno ristoratore al mare, al Lido  La Pineta di Torre Lapillo e al Lido Fuori Rotta di Campomarino concluderà degnamente la vostra vacanza.

 

 

Omaggio a due giovani e brave autrici salentine

di Rocco Boccadamo

Girando, come sovente mi capita di fare, tra eventi culturali e, in particolar modo, presentazioni di nuovi libri, ho avuto l’opportunità d’incontrare e conoscere due “stelle”, astri specialissimi  sotto le sembianze di giovani e aggraziate donne, che, a mio parere, brillano, distinguendosi, nel firmamento della poesia e della scrittura in genere.

Citandole in ordine alfabetico, Alessandra Peluso e Maria Pia Romano.

Alessandra Peluso
Alessandra Peluso

La prima, nata e residente a Leverano (LE), laureata in filosofia, di professione redattrice editoriale e critica letteraria (sul sito web di Affari Italiani.it, il primo quotidiano on line italiano, nella pagina Culture, sono pubblicate circa cento sue recensioni di libri di autori vari), è autrice delle raccolte poetiche “CANTO D’ANIMA AMANTE” edizioni Besa (2009) e “Ritorno Sorgente”, edizioni LietoColle (2013).

La seconda, nata a Benevento ma salentina per discendenza e in tutti i sensi, ha scritto e pubblicato, fra l’altro, i romanzi “Onde di follia”, edizioni Besa (2006), “L’anello inutile” edizioni Besa (2011) e “La cura dell’attesa” edizioni Lupo (2012). Dopo una prima laurea, ha recentemente conseguito il titolo accademico in ingegneria. E’ giornalista dal 2000.  Come professione continuativa, si occupa di uffici stampa.

romano

Alla luce delle opere prodotte, Alessandra e Maria Pia si pongono già alla stregua di autentiche e genuine eccellenze in campo culturale e, v’è da credere, sono destinate a vie più affinare, completare, arricchire e impreziosire la virtù dei loro versi e/o scritti in forma di prosa.

Personalmente, mi sono soffermato, con grande piacere, attenzione e coinvolgimento, sulle suggestive, originali e avvincenti pagine di Alessandra Peluso e Maria Pia Romano; al punto che mi sento di suggerire la lettura dei loro libri.

Al termine di queste brevi note, mi piace allegare un recente scritto “aperto” della Romano, indirizzato alla Peluso:

 

Lettera ad una poetessa

Sono inciampata per caso nei tuoi versi, in una mattina di marzo in cui il tuo libro mi ha chiamata ed ho sorseggiato le tue atmosfere delicate. Accade così da molto tempo per me, che vivo un presente sgangherato, sospesa da un capo all’altro della Puglia, sempre accelerata verso dove non so, ma incapace di rallentare. Sono diventata allergica alle presentazioni letterarie, ma sono sempre più innamorata delle stanze di carta e le tue, Alessandra, sono un Ritorno sorgente che ha il colore dei tuoi occhi di mare, nelle cui trasparenze si svela un universo dolce, in cui entrare in punta di piedi.

Ti conosco poco, anzi, non ti conosco affatto. Avevo negli occhi il tuo sorriso fresco e il tuo sguardo liquido mentre ti leggevo. I tuoi versi semplici, musicali, mi hanno riportato alla tua armoniosa ed elegante presenza, per tutte le volte che ci siamo incrociate e ci siamo scambiate poche parole e sorrisi accennati.

Il tuo Ritorno sorgente è uno scrigno di emozioni che hanno il sapore dei tuoi anni e dei tuoi rossori, dei tuoi respiri e dei tuoi silenzi, della natura che a volte tace, a volte si fa parola. Onda increspata, finestra sul giorno, tempo lento, certezza deposta e ritrovata nel vento. La tua poesia crescerà con te, quando imparerai ad affilare le parole e ti lascerai attraversare ancora ed ancora dalla vita, quella vita che ora, è giusto così, dona bellezza snodandosi in immagini armoniose.

Tu come me, forse, ti senti nuda non se non indossi il fondotinta, ma se non hai un libro in borsa. Tu sai di cosa parlo quando dico che la poesia è una vocazione ed una dannazione, perché sa aggiustarci il passo nella vita, ma troppo spesso ci costringe ad andare fuori tempo, perché il tempo della vita normale non riusciamo a capirlo.

Tu senti che la poesia chiede sempre un prezzo e ancora non sai dove può condurre, ma te lo spiegherà la tua esistenza, quando non farai domande.

Imparerai, come ho imparato io, che il mondo non aspetta i nostri libri. Che oltre al clamore mondano davvero non c’è nulla e inizierai a ridere di coloro che si affannano per vedersi dedicare un articolo su un giornale. Chincaglierie da farisei, perché conta più un lettore vero di mille adulatori. Sarà allora che ti ripiegherai su te stessa e scriverai le tue poesie più belle, che saranno forse meno dolci e più vibranti. Meno carezze e più schiaffi, nei tuoi versi, immagino di vedere nel tempo di-verso in cui la vita si farà ancora musica dell’anima.

Ma ora è giusto così, lascia andare le mie parole. E lascia che il senso al tuo cammino lo dia la condivisione autentica, il resto verrà da sé.

Il tuo Ritorno sorgente sono i tuoi occhi, liquidi e belli da far paura.

Il verde della copertina, lo sai, non l’ho apprezzato: stride con quello che mi comunichi, quando in silenzio apro le pagine e scopro il tuo mondo.

Nella distesa d’erba e vigne

ascolto addensarsi la libertà.

Taccio un gridare lacci lenti,

baratto il poco con la natura umile.

È la primavera che s’imbarazza di colori,

ho gioia semplice di bimbi nell’acqua.

Alessandra Peluso, “Ritorno sorgente”, Lietocolle.

 

Maria Pia Romano

4 giugno 2014

 

Maria Pia Romano
Maria Pia Romano

 

 

Io, ho trovato eccezionalmente bello il suddetto documento, compresi i versi finali che sono opera della poetessa di Leverano.

Cimiteri e hamburger

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di Gianni Ferraris

Ho fatto in un solo giorno due cose che non faccio abitualmente. Anzi, proprio raramente, la seconda poi…

Prima sono stato ad accompagnare una persona al cimitero. Ogni volta che ci entro rimango stupito dallo sfarzo di alcune cappelle monumentali e della gerarchia che vuole i meno blasonati (socialmente ed economicamente soprattutto) seppelliti in terra. Ogni volta mi raggiunge sibilante il pensiero dei motti popolari che dicono come “siamo tutti uguali davanti alla morte”.

Un po’ come (ecco il blasfemo che arriva) quel souvenir, inno al pessimo gusto non tanto di  chi l’ha ideato e costruito, quanto di chi lo acquista magari ridendoci su, un piccolo water soprammobile con su scritto (come dimenticare?) “saranno grandi i papi, saran potenti i re, ma quando qui si siedono son tutti come me”. Ma se un piccolo water può tanto, la morte non dovrebbe essere regina incontrastata dell’uniformazione? Eppure esorcizziamo sempre, siccome rimane l’ultimo mistero da svelare, dobbiamo farcene una ragione e tentare di darle un senso che supera l’umana capacità di comprensione, soprattutto dobbiamo, si diceva dalle mie parti, “battere la fisica”, mantenere le posizioni sociali, quasi fosse come morire un po’ meno.

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La fede, in fondo, serve anche a questo, e proprio questa è stata la più grande rivoluzione filosofica ed etica delle chiese: offrire all’uomo una seconda chance. Ho molto rispetto, spesso un po’ di invidia, per chi crede, perché raggiunge due scopi: non è mai solo, non morirà mai. Allora come spiegare quelle lacrime profuse ad ogni funerale? La vita oltre la morte è più luminosa e più vicina all’infinito, in fondo. E forse proprio qui sta il gap, infinito è cosa che non ci appartiene, come non ci appartengono il mai o il nulla. Noi siamo finiti, lo sguardo, l’udito, i sensi lo sono, hanno un orizzonte da vedere, oltre quello chissà cosa c’è, ma non fa nulla, noi siamo finiti, tondi, belli.

Per chi, come me, non ha la ventura di credere all’aldilà, tutto diventa più arduo. Occorre vivere qui ed ora, occorre finire il finito, godere di quell’orizzonte e fregarsene del resto. Forse per questo la rabbia di fronte al mondo che gira a rovescio, perché sappiamo (tutti noi, credenti e non) che non vale la pena far crepare di fame o guerra delle persone. Che è un crimine etico, politico, morale. Sappiamo che è comportamento criminale quello di chi vuole respingere immigrati che hanno fame, roba da processo per tentato genocidio. Invece l’Italia del mondiale perduto è spaccata su questo fronte. Ed ognuno diffonde il proprio verbo “in nome del suo Dio”.

Per questo il cimitero mi pare luogo, pur con le opere d’arte che contiene, di profonda diseguaglianza. Non ci vado mai perché la vita di chi ci sta dentro è, a parer mio, finita con l’ultimo suo respiro. E allora mi ricordo sorrisi e sguardi, parole e silenzi. Non mi va di andare a cercare di immaginare immobilità e fissità e disgregazione.

Ci sono molti modi per andarsene e molte culture della morte. Un amico egiziano mi raccontò della sepoltura di suo padre: “nudo, coperto solo di un sudario, come siamo nati dobbiamo tornare a Dio”. Mi affascina questo Dio, molto più di quello che  ci vuole tutti ben vestiti, con tanto di cravatta. Mi dicevano amici leccesi che esisteva un negozio di scarpe “anche per morti”. Metti che non ne avesse un paio degno… Quasi come Dio, nella sua infinita bontà, altro non avesse da fare che giudicare dall’aspetto chi arriva da lui. Quasi come, uno come me che ha vissuto in jeans e la cravatta, nei lunghissimi 63 anni di vita, l’ha messa si e no 20 ore, si sentisse a proprio agio tutto in ghingheri. E se nel viaggio mi stropiccio tutto? E se i capelli non stanno a posto?

Personalmente sono per la cremazione, però pare sia cosa costosa e laboriosa. Ricordo quando leggevo i bilanci del mio piccolo paesino, una della spese più enormi era relativa al cimitero. Far star bene i vivi non sarebbe eticamente meglio?

Vabbè, pensieri sparsi vagando fra cappelle monumentali e leggendo lapidi di nomi che pochi ricordano, dopo la prima generazione tutti dicono “chissà chi era questo…”

Ah, erano due le cose strambe che ho fatto quel giorno, per la seconda spero che il mio amico Pino De Luca non legga, non vorrei perdere la preziosa conoscenza e amicizia di un raffinato gastronomo. Lo stesso giorno del cimitero, all’ora di pranzo, sono stato al Mc Donald. Veramente una porcata, meglio una pizza o una puccia.

The solo art exhibition of… Marina Colucci

personale nardò
sabato 28 giugno – lunedì 7 luglio 2014
La Saletta di Nardò – via Alessandro Volta, 126
Inaugurazione ore 19:00   
Ingresso libero sino a esaurimento posti    


The solo art exhibition of… Marina Colucci

Scaramuzza Arte Contemporanea, in collaborazione con La Saletta, presenta sabato 28 giugno, alle ore 19.00, all’interno della prima rassegna estiva di arte contemporanea de La Saletta – parco culturale di Nardò, “The solo art exhibition of… Marina Colucci”: la mostra personale ispirata alla tematica “desiderio interiore e realta’ del mondo esteriore”, in corso sino al 7 luglio 2014.
Marina Colucci nata a Taranto si specializza in restauro della pietra leccese a pieni voti presso l’Accademia di Lecce. Dopo un intenso periodo lavorativo vissuto a Milano come fotografa si stabilisce definitivamente a Lecce, che illumina con le sue figure danzanti e coloratissime. Forme vive di quell’interiorità profonda che la rendono l’artista versatile e meritevole che conosciamo.
Alla presentazione della mostra farà seguito un connubio di poesia e musica “Il mulino e la viola” con versi di Beppe Bresolin e musiche a cura di Giuseppe dell’Anna.   
Ufficio Stampa – Scaramuzza Arte Contemporanea:
Via Libertini 70 – 73100 Lecce
Doriana Agrosì +39 328 8941464
scaramuzza.artecontemporanea@gmail.com   

Si è spento il maestro Giuseppe Alfredo Pastore, noto musicologo di origini napoletane, ma salentino d’adozione

 Pastore 1

 

a cura dell’UPR Conservatorio Tito Schipa – Lecce

Si è spento, all’età di novantanove anni, il maestro Giuseppe Alfredo Pastore, noto musicologo di origini napoletane, ma salentino d’adozione. Ha diretto il Conservatorio Tito Schipa di Lecce per oltre un trentennio.  I funerali venerdì 27 Giugno, alle ore 17:00 nella Chiesa di San Pio a Lecce.

 

Durante il suo lungo mandato il maestro Pastore ha promosso un forte inserimento del Liceo nella realtà culturale cittadina, anche attraverso il recupero e la divulgazione della tradizione musicale di compositori salentini. Ancora oggi il Conservatorio di Lecce orienta in questa direzione molti progetti, impegnandosi in un percorso musicologico che, partendo da fonti inedite, arriva a esecuzioni curate filologicamente. Motivo conduttore della sua attività di studioso è stata la ricerca intorno alla figura di uno dei più illustri figli di Puglia, Leonardo Leo, compositore, maestro di cappella e operista, continuatore di una scuola che vedeva il suo principale rappresentante in A. Scarlatti, e i suoi epigoni in Durante, contemporaneo di don Lionardo, e negli allievi Jommelli, Piccinni, Paisiello…

Pastore ha strappato Leo alla dimenticanza dei moderni: un lavoro paziente e certosino, fatto di costante confronto con le fonti manoscritte, che ha permesso di restituire tra gli altri, in edizione critica, capolavori come l’opera buffa Amor vuol sofferenza (tra le poche conservate), l’oratorio Sant’Elena al Calvario e un Concerto per Quattro violini obbligati e Basso continuo. Ha realizzato numerose pubblicazioni monografiche e revisioni di composizioni di altri maestri napoletani nati tra la Terra di Bari e la Terra d’Otranto (Cafaro, Tricarico, Traetta, Piccinni, Paisiello) e non (Scarlatti, Orefice, Speranza, Durante).

Appassionato bibliofilo, è stato geloso custode di una nutrita biblioteca specializzata privata che annovera migliaia di volumi, manoscritti, edizioni rare e di grande pregio, gran parte dei quali personalmente catalogati con grande cura e messi a disposizione degli studiosi e dei ricercatori.

Formatosi al Conservatorio “S. Pietro a Majella” diretto da Francesco Cilea, ha condiviso la sua formazione con compagni come Aldo Ciccolini o Jacopo Napoli, ha vissuto nel fermento culturale di Benedetto Croce ma anche nei salotti dove la colta borghesia dell’epoca teneva le proprie esclusive conversazioni.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, con la nascita di nuove iniziative editoriali, ha affiancato al mestiere di compositore quello di pubblicista collaborando con le terze pagine di numerosi periodici napoletani (tra gli altri, la rivista S. Carlo e il quotidiano Roma),  fatto  volontariato nella Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele II” coltivando un sempre più serrato interesse per la ricerca musicologica. Negli anni 50 la sua vita si sposta a Lecce: comincia a insegnare Storia della Musica al Liceo “Tito Schipa”, ne diventa nel 1953 Direttore e riesce a ottenere, nel 1970, il passaggio dell’Istituzione in Conservatorio.

Diventa una presenza di assoluto riferimento per la cultura salentina: pubblicista per La Gazzetta del Mezzogiorno e per Il Quotidiano, didatta, musicologo, revisore dell’opera Amor vuol sofferenza per il prestigioso Festival della Valle d’Itria e di varie composizioni prodotte ed eseguite nel  Festival Concertistico d’Organo di Lecce.

Terminato il mandato al Conservatorio ha continuato a produrre incessantemente. Ha curato la  trascrizione di un manoscritto di Bassi e Fughe di F. Durante (Padova, Armelin Musica, 2003) e l’edizione di un autografo di memorie A. Petito, attore partenopeo del secondo Ottocento (Lecce, Del Grifo, in corso di stampa), continuano a riannodare “gli amorosi sensi” con la la sua Napoli che ha sempre fatto da sfondo alla sua formazione e all’ attività tutta.

Con evidente commozione, Salvatore Stefanelli – attuale Direttore del Conservatorio, dichiara: La comunità del Tito Schipa gli è grata per tutto ciò che ha fatto, per il forte impulso sul territorio, per gli studi, per le ricerche avviate, per il metodo e per le scoperte che terranno sempre vivo il suo ricordo e che rappresenteranno una possibilità per tutti i giovani studiosi.

 

Alessio Errico presenta “Prigionieri tramontati”

premio

Germogli poetici dalla nostra terra
Alessio Errico presenta “Prigionieri tramontati”

Ingenui, passionali, spietati: non un singolo attributo potrebbe racchiudere compiutamente i versi di Alessio Errico, poeta leccese classe ’91, al proprio esordio editoriale con “Prigionieri tramontati” (Vitale Edizioni, Sanremo), una modesta raccolta attualmente non ancora in commercio che, con il patrocinio dell’Associazione Arcobaleno di Tivoli, del giovane autore seleziona i componimenti più apprezzati dalla critica letteraria.

L’opera rappresenta, con sottile spregiudicatezza stilistica, un’incontenibile analisi sociale e interiore, la quale non può che risolversi unicamente nel libero arbitrio del singolo individuo; purché questi, per mezzo dell’arte, delle letture e, più di tutto, di empatia e solidarietà verso il prossimo, giunga all’indipendenza etica dal sistema consumista e tecnocentrico del nostro millennio, verso una completa maturazione spirituale e la rivendicazione dei propri diritti intellettuali. Proprio quello dei diritti è il tema ricorrente nella poetica di A.E.: auspicio o presagio di un nuovo Umanesimo?

Grazie all’interesse e al fervido supporto dell’associazione culturale “Lecce In Movimento”, domenica 29 giugno 2014, a partire dalle ore 20.00, il poeta presenterà se stesso e un estratto del proprio canzoniere al pubblico di Lecce, che presso gli uffici della c.d. Chiesetta Balsamo – splendida cornice cinquecentesca in via Pozzuolo – potrà sfogliare, assistere a una lettura di “Prigionieri tramontati” e richiederne copie fino ad esaurimento, omaggio spontaneo dell’autore.

 

www.facebook.com/alessioerricopoeta

Zucchine in carpione

da ricette.com
da ricette.com

di Gianni Ferraris

 

Ingredienti:

Aceto bianco, due bicchieri.

Vino bianco, un bicchiere.

Aglio, cipolla, alloro, bacche di ginepro, salvia, grani di pepe nero.

Per il carpione:

Appassire le cipolle tagliate grossolanamente in olio evo e ovviamente, trattandosi di cucina piemontese, una ragionevole noce di burro. Quando la cipolla è appassita aggiungere l’aglio schiacciato, l’alloro, il ginepro, il pepe, vino e aceto. Far cuocere per trenta minuti possibilmente senza far bollire.

 

Mentre cuoce affettare le zucchine longitudinalmente, infarinarle, friggerle in olio e sgocciolarle. Lasciare intiepidire, metterle in una terrina e ricoprirle con il carpione. Lasciar raffreddare mangiarle il giorno dopo anche conservate in firgorifero, saranno stupende. Le zucchine possono essere anche grigliate semplicemente oppure fritte senza essere infarinate. Vedete un pò voi.

Questa è la ricetta già “ammorbidita”, un tempo l’aceto era rosso, come il vino. Però io ho ricordi, le cucino con Maria che sta lì accanto e mi dice “attento con l’aceto, poi non ti piace”.

Già, non utilizzo quasi mai aceto, a casa non si faceva, neppure il vino si usava. Con un padre astemio, nonostante fosse piemontese doc, il vino era bandito da tavola, Compariva solo in occasioni speciali, quando c’erano ospiti.

Maria in fondo mi vuole bene. Per questo le ho cucinate con lei accanto, virtualmente accanto. Lei sapeva cucinare di tutto, la porta della cucina dava sul negozio, casa e bottega, il paese è piccolo, tutti  conoscono tutto di tutti. Se lei stava con le mani in pasta (nel senso letterale) apriva con il gomito la porta a molle e invitava la cliente in cucina “aspetta che finisco di impastare”. Potevano essere gnocchi di patate o pasta fatta in casa, la signora comprendeva e ripassava, o entrava in cucina e si mettevano a parlare del più e del meno, dei mariti e dei figli. Se nessuno ascoltava dicevano sogghignando dell’amante della fruttivendola. Molte fruttivendole del paese hanno l’amante, forse. Ma questo non è dato sapere, solo immaginare. Un negozio da portare avanti, due figli che arrivavano da scuola, un marito che non si sapeva cucinare un uovo sodo, e lei con naturalezza riusciva a infornare coniglio disossato, pasta al forno. A inondare la casa di profumi di minestroni che quando arrivavano i figli dicevano “di nuovo minestrone?” Quasi un incubo!

E si beveva acqua, neppure gassata, naturale. A volte in estate la birra Peroni, raramente però. Questa era concessa. Poi Maria m’insegnò, un po’ controvoglia perché ai maschi non si addice la cucina, a fare la maionese. Poi le zucchine in carpione che mi faceva solo quando “siamo via e stai a casa solo, si conservano” e non c’era papà che non amava l’aceto.

Così oggi le ho fatte usando la sua ricetta, quella annacquata. Metà aceto, metà acqua, il resto come sopra. Le bacche di ginepro no, non le avevo. E nel carpione ci potevi mettere uova in camicia, squisite,  fesa di tacchino impanata o carne rossa, sempre impanata e fritta. Tempo prima, quando il Tanaro era pescoso e non inquinato, il pesce d’acqua dolce era conservato in carpione, dalle nostre parti esistono ricettari di pesce d’acqua dolce:  carpe, tinche,  cavedani. Tutto Delizioso.

Maria forse apprezza, chissà. Ricordarla mentre prepara pesche al forno ripiene… A volte viene nostalgia di parlare con lei, a volte la si può sentire accanto che dà consigli.  O che urla di chiuderlo il frigorifero, perché consuma. O quando le chiedevo “cos’hai votato?” e lei rispondeva “come papà”. Sono arrivato a trent’anni per sentirmi dire “ho sempre detto così a papà, ma ho sempre votato come mi pareva” e rideva. In fondo anche questa è ribellione.

L’omaggio di Ortelle a Giorgio Cretì con la presentazione del volume antologico delle opere

Omaggio a Giorgio Cretì, i relatori

di Paolo Rausa

Una battaglia, due fronti contrapposti – i relatori e il pubblico, fra cui i famigliari di Giorgio Cretì, schierati per guerreggiare non a fini distruttivi ma per esaltare il figlio di questa terra salentina di Ortelle, quel Giorgio Cretì che ha scritto romanzi (Pòppiti e l’Eroe antico), ‘Erbe e malerbe’, un trattato con i nomi e le caratteristiche delle erbe spontanee utilizzate per alimentare generazioni di ‘pòppiti’, una serie di libri sulle ricette della cultura contadina del Salento e dei luoghi in cui è vissuto o ha stretto amicizie, le terre di Emilia Romagna, Liguria e Lombardia.

Qui si era trasferito, in un paesino in provincia di Pavia Giorgio Cretì, portando con sé l’immagine lussureggiante e dolente del paesaggio salentino, che ha prodotto generazioni di contadini, attaccati allo scoglio o meglio alla zolla – come ha efficacemente ricordato di lui Raffaella Verdesca. La scrittrice con una tecnica tipica della geometria frattale ha esaminato gli scritti di Giorgio colmi di passione e di amore per la sua terra, descritta con tecnica veristica nel ruolo di narratore esterno, pur non indulgente a volte di fronte alle ristrettezze mentali dei contadini e degli umili ma propenso a mostrare un cuore che ha battuto incessantemente per loro.

Omaggio a Giorgio Cretì, il pubblico fra cui i famigliari
Omaggio a Giorgio Cretì, il pubblico fra cui i famigliari

Questi figli del Salento hanno lasciato traccia in un muro a secco, in una pajara, in una masseria testimoni di una civiltà in declino che tuttavia, come dice Eugenio Imbriani, docente di Antropologia all’Università del Salento,  ci appartiene come cultura da tramandare e da immaginare come futuro per i nostri figli a partire dall’esperienza dei nostri ‘pòppiti’. Occorre quindi indurre alla conoscenza del territorio e della cultura che ha espresso, manifestatasi attraverso i segni di una lingua ancestrale dai significati densi, come bagaglio di conoscenza da trasmettere ai nostri giovani.

Il merito del progetto ‘Ortelle e gli ortellesi visti con gli occhi di Giorgio Cretì e dei contemporanei’ va attribuito all’Amministrazione Comunale, che attraverso le figure del Sindaco Francesco Rausa e dell’Assessore alla cultura, ha sostenuto il progetto, finanziato dal CUIS. La Fondazione di Terra d’Otranto ha curato la pubblicazione del volume antologico che raccoglie i testi dei romanzi e dei racconti di Giorgio Cretì, illustrati dalle fotografie di Stefano Cretì, esposte nell’atrio di palazzo Rizzelli e di Carlo Casciaro e Antonio Chiarello, i quali hanno riproposto le loro opere pittoriche che illustrano paesaggi e personaggi della terra tanto amata da Giorgio Cretì.

copertinafronte

A illustrarne la figura e le esperienze umane è intervento a nome della famiglia Giuseppe, visibilmente commosso quando ha ricordato le escursioni di Giorgio con la macchina fotografica o la tavolozza che imitava i variopinti colori dei prati.

‘Giorgio in realtà non è andato via dalla sua terra. Ha portato via i colori, gli odori e il mare di lutto e di paradiso, zolle del Salento, pezzi e testimoni di questa terra rievocata con nostalgia – ha esordito Raffaella Verdesca -, presentando l’opera letteraria di Giorgio Cretì come omaggio alla sua terra che questa sera restituisce quanto pattuito tacitamente e sancito fra conterranei che si amano e si rispettano.

Il 1° giugno, ‘Pòppiti’ è stato  rappresentato in piazza S. Giorgio dalla Compagna ‘Ora in scena’ su testo della stessa Verdesca. L’appuntamento si rinnoverà ad ottobre durante la festa di S. Vito, quando la cultura si intreccerà con la tradizione della cucina salentina, descritta mirabilmente in tante opere di Giorgio Cretì.

 

Vincotto Experience. Ad Alliste

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Domenica 15 Giugno 2014

ore 21.00

ad ALLISTE

in Piazza Municipio

il Cafè dei Napoli organizza:

 

CIBO DA STRADA DI QUALITÀ / VINCOTTO EXPERIENCE

e “ANTICA TERRA” (Lupo Editore)

un libro di Vito Adamo,

Parteciperanno:

 Sergio Blasi, ideatore dalla Notte della Taranta

Cosimo Lupo, editore

Nello Wrona, giornalista

Luciano Pagano, scrittore 

 

Domenica 15 Giugno ore 21.00 ad Alliste in piazza municipio a cura del Cafè dei Napoli si terrà un’altra tappa di “Cibo da Strada di Qualità” – Vincotto Experience.

 

Si tratta, come sempre, di un appuntamento all’insegna del gusto e del recupero dei sapori, in compagnia di alcune tra le specificità agroalimentari più interessanti del Salento. Le qualità del chilometro zero, i sapori della tavola, si mescolano alla poesia e alle immagini di “ANTICA TERRA. Viaggio sentimentale nel Salento” (Lupo Editore), il libro di Vito Adamo, lel quale la poesia della vita si mescola alla poesia di un territorio.

Quale sarà l’esperienza gastronomica, il percorso della serata? Si inizierà con “la puccia” di Massimo Lolli, i “prodotti sott’olio” dei fratelli Vizzino, uniti al gusto del “capocollo” di Santoro e della “glassa di vincotto” balsamico della famiglia Venneri. Un vero e proprio percorso nel gusto, quella che, con un ottimo riscontro nel tempo, viene proposta come “VINCOTTO EXPERIENCE”.

A seguire una nuova, inedita, esperienza di gusto, con “la novellina”,  la patata di Rocco Biasco al vincotto balsamico, “I capunti” di farina di grano senatore Cappelli al vincotto ingentilito del pastificio Cardone e, per concludere “Il vincottino”, “i quaresimali”, “i mustazzueli”, e il pangioia di Giovanni Venneri.

Durante la serata si terrà la presentazione del libro “ANTICA TERRA. Viaggio sentimentale nel Salento” di Vito Adamo (Lupo Editore).

 

Musica dal vivo a cura dei “DIMORA”, ovvero sia  Shary Antonaci (Voce), Luigi Esposito (Tastiera), Luca Mastroleo (Sax), Max Ingrosso (Batteria), Francesco Grisolia (Basso), Lino Castelluccio (Chitarra), e, infine, la special guest Walter Santoro.

 

Antica Terra. Viaggio sentimentale nel Salento”, scritto da Vito Adamo e pubblicato da Lupo Editore.

Il volume è realizzato con il patrocinio della Regione Puglia, della Provincia di Lecce e della Città di Alliste. Quello che potranno apprezzare i lettori di questo volume, oltre ai versi inediti e sinceri, scritti in questi anni da Vito Adamo, sarà un vero e proprio “viaggio sentimentale”, per testi e immagini, un ripercorrere a ritroso nel tempo le emozioni e le sensazioni di una terra, il Salento, nella quale sono cresciuti i nostri padri e nella quale noi stessi siamo cresciuti.

 

Vito Adamo è un osservatore attento, e la sua antica terra è fatta di sguardi millenari, colorati e accesi dalle tonalità delle piante, dei particolari, di muri e tramonti. Il suo viaggio racconta anche una storia, in versi, di un incontro con una terra che appassiona e incanta, se ci si lascia ancora appassionare e incantare dinanzi alle piccole cose. Un invito a scoprire la bellezza che è nascosta nei luoghi che attraversiamo quotidianamente e, allo stesso tempo, un monito perché questa bellezza non venga perduta.

 

Info:

Cafè dei Napoli – Alliste (Le)

http://cafedeinapoli.it/  Tel. 0833.584418

L’anno salentino (annu) e alcuni suoi insospettabili figli

di Armando Polito

 

vitella o capra di un anno

annècchia (nel Brindisino a Carovigno), nnècchia (nel Leccese a Tricase e nel Tarantino a Palagiano e a Sava)

vitello di un anno

annìcchiu (nel Brindisino a Carovigno)

capra di un anno

nìcchia (nel Leccese a Vernole)

vitello o capretto di un anno

nnìcchiu (nel Tarantino ad Avetrana)

caprone

nìcchiu (nel Leccese ad Otranto); di origine onomatopeica, invece, nniccu (=porco, nel Brindisino a Brindisi e Francavilla Fontana), nniccu-nniccu, voce di richiamo per il porco (a Brindisi) e nìcchji-nicchji, voce di richiamo della capre1 in uso nel Brindisino a Mesagne.

 

Tutte le voci fin qui elencate derivano dall’aggettivo latino annìculus/annìcula/annìculum=di un anno, che continua come sostantivo2 nel medioevale annìculus, lemma così trattato nel glossario del Du Cange (la traduzione a fronte, come di consueto, è mia):

 

Annìculus deriva da annus (=anno) con la stessa tecnica di formazione di fenum (=fieno)>fenìculum (=finocchio)>italiano finocchio. Solo che annicchio in italiano non si è sviluppato, finocchio sì; ne approfitto per ricordare che per il significato traslato eufemistico sinonimo di omosessuale in più di un dizionario (per esempio, il De Mauro) si legge che il passaggio semantico non è chiaro. A me sembra chiarissimo, tenendo conto che fenìculum è diminutivo di fenum (=fieno) e che nell’italiano antico finocchio aveva il significato traslato di persona sciocca, incapace; già l’originario suffisso diminutivo aveva acquistato una valenza dispregiativa che, poi, si sarebbe ulteriormente specializzata, con la consueta malvagità umana suffragata da un discutibile concetto di normalità, in senso sessuale. Non mancano in rete al riguardo esilaranti ipotesi di sedicenti etimologi: per esempio nel medioevo insieme con le streghe venivano bruciati pure gli omosessuali e, dettaglio questo totalmente inventato, per attenuare la puzza della carne che bruciava sul rogo venivano gettati fasci di finocchio; ma la più esilarante di tutte è certamente fenus culi=guadagno del culo, che suppone la seguente, debilitante trafila fonetica che il geniale inventore si è ben guardato dal presentare : fenus culi>*fenùsculi (e già avremmo dovuto avere *fenuscùli)>*fenùcculi (assimilazione mai incontrata)>*fenùculi (scempiamento)>*finocchi (sincope di –u– ed evoluzione –cl->-cch-)>finocchio (regolarizzazione della desinenza).

Per chiudere questa parentesi fito-sessuale: anche questa voce, come tante legate alla sfera sessuale, è figlia, oltre che della malvagità di cui ho detto prima, del maschilismo; altrimenti spiegatemi perché finocchio non ha dato finocchia e stronzo ha dato, invece, stronza. Evidentemente l’omosessualità femminile non era nemmeno contemplata, così come la prostituzione maschile (lo stesso gigolò ha avuto sempre una considerazione più benevola e accondiscendente rispetto alla gigolette che da ragazza della malavita ha esteso il suo significato a prostituta); tant’è che solo di recente e fino ad ora solo nel linguaggio parlato da puttana è germogliato puttano.

Non deve indurre in errore il fatto che tutte le voci fin qui elencate si riferiscono al mondo animale e, in particolare, il nìcchia di Vernole alla capra di un anno. Si dirà che sempre di ovino si tratta e che nìcchia potrebbe essere derivato da *aunìcchia, inusitato diminutivo di àunu=agnello [dal latino agnu(m)] e così, per estensione, sarebbe successo a tutte le altre. Sarebbe un’infezione strana che suppone non solo l’aferesi di au– ma un diminutivo formale (*aunìcchia) di una voce (àunu) che diminutiva è già semanticamente.

terreno incolto o lasciato temporaneamente a riposo

nnicchiàricu (nel Brindisino a Carovigno)

nnicchiàrucu (nel Leccese a Tricase) 

nicchiàrucu (nel Leccese a Salve)

nicchiàricu (nel Leccese a Maglie e Otranto, nel Brindisino ad Oria, nel Tarantino a Manduria)

Pure  le voci di questo secondo gruppo sembrerebbero derivare da anniculus con l’assunzione di un doppio suffisso aggettivale. Così nicchiàricu (ma il discorso vale pure per le altre varianti) sarebbe da annìculus attraverso la trafila:

 annìculus>*annicularis>*annicularicus>*anniclàricus>*annichiàricu>*nnichiàricu>nicchiàricu,

come è successo, per esempio, per fumo>fumario>fumarico. Tuttavia, per la pertinenza esclusiva di tutte loro al mondo agricolo e in particolare per la loro attinenza con la coltivazione, non mi sentirei di escludere, anzi privilegerei, una formazione da anno+l’infisso -col- (dalla radice del verbo latino còlere=coltivare)+il doppio suffisso aggettivale già ricordato, per cui la trafila sarebbe stata: *anniculàricus>*anniclàricus>*annichiàricu>*nnichiàricu>nicchiàricu.

L’ultimo posto riservato a nicchiàricu non è casuale perché mi piace chiudere con la sua forma femminile nell’uso di due poeti salentini molto lontani nel tempo. Il primo è Gerolamo Bax  (1689-1740) di cui ci resta solo la farsa Nniccu Furcedda pubblicata la prima volta da Pietro Palumbo nel  1869-70 e una seconda nel 1912-1914; seguì quella di Rosario Jurlaro del 1964, quella di Ciro Santoro nel 1985 e finalmente l’edizione critica di Mario Marti nel 1994.   Riporto dalla prima edizione (anche qui la traduzione in italiano è mia) poche battute (Atto III, Scena VIII, vv. 1903-1917) tra Nniccu Furcedda (massaro della masseria di Fallacchia in agro di Francavilla) e Roccu Spellecchia (dottore, promesso sposo a Nina, figlia di Nniccu, la quale, però, è innamorata di Paolu Ncappacanna).

E siamo al secondo poeta. Nicchiarica questa volta ha avuto l’onore (son sicuro che l’autore avrebbe pensato e detto esattamente l’inverso) di far parte del verso iniziale  di L’oru de lu sud (che poi dà il titolo all’intera raccolta) in Terra mara e nicchiarica (in cui la voce dal significato originario di non coltivata da un anno3 slitta a quello poeticamente esasperato di abbandonata forse per sempre) di Fernando Rausa (1926-1977), uscita per i tipi dell’editore Manni a Lecce nel 2006.

_____________

1 A Nardò, invece, la voce di richiamo per la capra è izza. Siccome in greco capra è αἴξ/αἰγός (leggi àix/aigòs) il Rohlfs, in alternativa all’origine onomatopeica, ha ipotizzato che izza derivi dal tema αἰγ– della voce greca da un *αἰγίτσα=capretta.

2 Di solito l’assunzione di valore sostantivato di un aggettivo suppone una fase intermedia in cui viene sottinteso il sostantivo ad esso collegato; per esempio: in casta (che è dall’aggettivo latino casta=pura; che brutta fine ha fatto pensando pure al suo significato politico!) si è sottointeso razza. Nel nostro caso  il fenomeno trova ulteriore giustificazione nella ridondanza fonetica del nesso agnus anniculus=agnello di un anno, anche se agnus non ha nulla a che fare con annus.

3 Corrisponde, perciò, nel suo significato di partenza, all’italiano novale [che è dall’aggettivo sostantivato latino novale=terra dissodata (in Plinio), maggese (in Virgilio), messi (in Giovenale) da novus=nuovo] che indica un terreno messo a coltura per la prima volta oppure, come sinonimo di maggese, lavorato dopo un periodo di riposo. Il tutto riassunto in queste brevi istruzioni in dialetto leccese (frutto di conoscenza, rispetto e amore antichi per la natura) oggi desolatamente obsolete dopo che le colture intensive in nome del dio profitto hanno reso sterile la nostra terra nel volgere di pochi decenni, frantumando la magia di quel cerchio che evocano le parole che seguono: Subbra lu mascese ranu; subbra lu favale lu massaru face ranu; subbra lu nicchiaricu cade ranu (Sul maggese grano; sul campo prima coltivato a fave il massaro produce grano; sul novale va bene il grano).

Nel latino medioevale novalis conserva l’ambiguità del significato classico. Ecco, infatti, come la voce è trattata nel glossario del Du Cange:

La lucertola

lucertola

di Elio Ria

 

Giugno con le sue arie di scirocco stende il cammino di signora lucertola,

strafica, da non immaginare come donna – diciamo così – molto bella e figa.

Quei bei raggi del sole appena nato la scaldano e la fanno muovere con passo dolce

ed elegante, mena la coda non più per amore, poiché primavera è già passata

e già femmina si sente.

Quando il predatore gli trancia la coda, rimane immobile a significare morte,

furbesco espediente per tentare la fuga con tutto il fiato in serbo  in una crepa di muro.

Passeggia sui muri, per strada, sulle rovine con passo di femmina di mondo

e quand’anche dovesse incontrare un molestatore canterino con fare deciso smorza il richiamo.

Il sole la cuoce  in lieta posa ed essa si accresce di forza e bellezza. Nei campi erra e mai osa essere svampita.

Lei è cosi: né l’indugiar del tempo, né il caldo profumato delle frasche, né i grilli, né le civette

la distrarrebbero dalle faccende di essere la signora dei campi di grano.

 

 lucertola protopapa

Ricette con ceci e orzo. La farinella

ceci1

di Massimo Vaglio

 

La Farinella

La farinella è un prodotto tipico di Putignano avente origine contadina che viene preparato con orzo e ceci tostati, ridotti in farina e salati. In passato questo sfarinato ha rappresentato un’importante fonte di sopravvivenza assieme ai fichi secchi per i contadini che lavoravano i campi e conservato in dei sacchetti di tela  accompagnava quotidianamente il consumo verdure e cipollotti. Negli ultimi decenni, questo piatto, la cui tradizione si andava perdendo è tornato a far parte della tradizione di Putignano e viene servito nei giorni del Carnevale preparato in varie versioni, dolci e salate.

 

Farinella calda

Ingr. : farinella di ceci e orzo, cipolla, pomodori maturi, olio d’oliva, prezzemolo, pepe nero.

In una casseruola portate a bollore dell’acqua con una cipolla, dei pomodori maturi tagliati a piccoli pezzi e del prezzemolo tritato. Successivamente condite con sale, pepe nero o peperoncino in polvere e olio di frantoio. Quando la cipolla è cotta, togliete la casseruola dal fuoco e versate il brodo vegetale ottenuto in un piatto fondo aggiungete la farinella mista di ceci e orzo a poco a poco e stemperatela lentamente con il brodo fino a quando il piatto avrà assunto una consistenza uniformemente cremosa.

 

Dolcetti di farinella

350 g di burro,  oppure olio extra vergine di oliva, 400 g di zucchero, 500 g di farinella di orzo, 500 g di farinella di ceci, 2 uova, scorza di arancia e limone grattugiata, cannella, latte q.b.

Lavorate in una ciotola il burro a pomata aggiungendo man mano zucchero, uova, la scorza di limone e arancia e la cannella. Mescolate diligentemente e versate sul tutto le due farine e continuare a rimestare fino a far amalgamare tutti gli ingredienti aggiungendo latte se l’impasto dovesse risultare troppo duro. Fate riposare l’impasto per un’ora. Quindi riprendetelo, formate dei dolcetti a piacere e cuoceteli in forno a 150° per 15 minuti circa.

Vecchi ricordi…

ph Mauro Minutello
ph Mauro Minutello

di Mauro Minutello

Vorrei conoscere il sentiero che seguono i ricordi per tornare alla mente. A volte sono così lontani che non si ha più idea di averli custoditi con cura.
Lunedì pomeriggio 2 giugno 2014 , pulisco l’attrezzatura fotografica, quando, chissà perché, inizia a tornare alla luce l’immagine di mio nonno, quando veniva a prendermi da casa e mia madre dopo avergli aperto l’uscio mi chiamava… “corri, il nonno è venuto a prenderti, mi ha chiesto se vuoi andare con lui”.

In un attimo ero fuori pronto a sedermi sulla canna della sua bicicletta color argento e lui dopo aver salutato con un sorriso mia madre iniziava a pedalare, con quella cadenza sempre uguale, da movimento perpetuo.
Dopo la partenza iniziava a raccontare tante storie fantastiche che mi portavano lontano, prendendo per mano i pensieri di bambino.
Quel pomeriggio del giugno di 48 anni fa mi disse “andiamo a trovare Giovanni e suo fratello, loro d’estate vivono in campagna vedrai che ti piacerà. Sanno preparare i fuochi d’artificio e se fai il bravo gli chiederò di farlo per te”. Non proferii parola, sin quando non mi disse “vedi quei due alberi alti.. ? Siamo arrivati, il loro giardino è là”.
Una volta entrati, Giovanni, che il nonno aveva salutato con un rumoroso “buona vespra”, usci dalla casupola a torso nudo, con i pantaloni tenuti su da una corda legata in vita con un doppio nodo. Fu grande la mia sorpresa quando mi accorsi che era scalzo, la pelle color bronzo, secco da far paura. Rispose, sorridendo “a signuria maestro Ciccio”. Finiti i convenevoli si sedettero sullo scanno di pietra a parlare, mentre io, trasformatomi in esploratore, prendevo il largo con il benestare di entrambi..
La voce di mio nonno mi riportò alla realtà quando mi chiese “ha detto Giovanni se vuoi vedere i fuochi, lui ha preparato i tubi, ma devi andare a chiamare suo fratello che dorme sotto quel noce. Lo vedi, è quell’albero grande dopo il campo di grano, corri, su!”
Arrivato sotto i rami dell’albero immenso lo vidi sdraiato su un vecchio telaio da tabacco su cui aveva steso una coperta. Stava fumando. Dopo avermi guardato con gli occhi che brillavano disse “dammi una mano ad alzarmi, cavaliere”. La cosa che mi colpi fu il folto baffo grigio con i peli ingialliti dalla parte dove reggeva il sigaro con le labbra. Mentre tiravo a me la sua mano rugosa, mi sentii veramente un cavaliere, nonostante avessi ancora i pantaloni corti.
Giovanni aveva infisso nel terreno due paletti, con su un tubo metallico, da cui nella parte inferiore usciva una piccola miccia, lunga non più di cinque centimetri.

Il fratello armeggiò per alcuni minuti con dei sacchetti di polvere diversi, con fare da alchimista, poi disse “allontanatevi, che accendo”. Pochi secondi dopo il primo botto ed il cielo si riempì di colori fantastici. Per tre volte rimasi senza fiato a guardare la sua magia, mentre il cuore mi batteva forte per l’emozione. Il sole stava per tramontare quando ci avviammo sulla strada del ritorno dopo aver promesso a Giovanni che saremmo ritornati…
Ho appena finito di pulire la macchina fotografica quando una delle mie idee strane viene alla luce: “perchè non tornare lì… deve essere da queste parti, non molto lontano. Sì, basta lo zoom corto, due minuti dopo salto il muro di recinzione di casa e mi avvio tra le erbe alte. Purtroppo gli alberi alti non ci sono più.
Dopo un pò ho il presentimento di essere assai vicino, ma non ho idea di dove sia esattamente, finchè un vecchio contadino mi grida da lontano: ” Heii, heii, dove vaii? chi cerchi? è proprietà privata!”. Lo saluto alzando la mano destra, mente mi avvicino all’ingresso del suo podere mi fermo e dopo aver salutato come una volta: “buona vespra”. Chiedo se posso entrare, si toglie la coppola e mi chiede chi io sia. Gli spiego che cerco il fondo di Giovanni e suo fratello, che erano miei lontani parenti e comunico il desiderio di rivederlo. Solo allora mi saluta con un  “signurìa si giovane. Doi minuti e si rrivatu”. Quindi mi indica la strada, senza immaginare che mi avrebbe atteso sul ciglio della strada per verificare di aver individuato ciò che cercavo.
E’ una strana sensazione quella che si prova tornando nei luoghi dei ricordi, Non ci sono più Gionanni, il fratello e mio nonno; il terreno è incolto e le erbacce chiudono l’ingresso della casetta, ma nel momento in cui mi sono seduto per terra, come allora li ho tutti rivisti, seduti a parlare, assorti del loro lavoro. Anche il vecchio noce è spoglio. Anche con lui gli anni sono stati duri. Scatto una sola unica foto e vado via. E’ giunto il momento di riporre in buon ordine i ricordi.

 

Facciamo causa alla Sibilla?

di Armando Polito

immagine tratta da http://www.diskos.it/wordpress/business-writing-lucchini/
immagine tratta da http://www.diskos.it/wordpress/business-writing-lucchini/

Chiedo scusa al lettore se ogni tanto mi concedo qualche divagazione uscendo fuori dall’ambito della cultura specificamente salentina, ma, se è giunto a leggere queste righe, se la prenda con la bontà della redazione nei miei confronti …

Anche questa volta il primo stimolo mi è stato dato da un’immagine, quella di testa, recentemente riciclata in facebook con veste grafica diversa e senza, ti pareva!, citare il link da cui credo sia partita. Lasciamo la nonna in bilico tra la fame del lupo e la premura di Cappuccetto rosso tesa a non turbare la sua tranquillità non vedendola e consideriamo la frase che segue, opportunamente messa in campo da Alfredo Romano (e questo è stato il secondo, decisivo stimolo)  a commento di una recente condivisione (si dice così, o, di facebook e non solo di quello, non ho capito niente?).

Ibis redibis non morieris in bello

Per quanto riguarda l’origine della frase i testi a stampa e la rete parlano di una profezia, ora della Sibilla Cumana, ora della Pizia, che, come la sua collega campana, esercitava in nome di Apollo a Delfi. Intanto va detto che, siccome la profezia è in latino, la paternità andrebbe riconosciuta alla profetessa nostrana (in basso l’ingresso, l’interno del suo antro e una trasfigurazione artistica che esibisce fattezze un po’ mascoline e una carnagione quasi africana, che, probabilmente, allude all’ambiente oscuro in cui la profetessa esercitava).

immagine tratta da http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Antro_della_Sibilla_cumana.1.jpg
immagine tratta da http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Antro_della_Sibilla_cumana.1.jpg
immagine tratta da http://viaggi.it.msn.com/italia/lantro-della-sibilla-cumana
immagine tratta da http://viaggi.it.msn.com/italia/lantro-della-sibilla-cumana
La Sibilla Cumana rappresentata da Michelangelo nella Cappella Sistina. Immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:CumaeanSibylByMichelangelo.jpg
La Sibilla Cumana rappresentata da Michelangelo nella Cappella Sistina. Immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:CumaeanSibylByMichelangelo.jpg

Ma come ci è giunto questo testo? Lasciando perdere la rete che per simili questioni è quanto mai poco attendibile, in pubblicazioni qualificate, almeno sulla carta1, si legge che esso è da attribuire ad Alberico delle Tre Fontane (può darsi pure che l’acqua fosse assolutamente dolce, ma sicuramente le bollette che gli arrivavano saranno state salatissime, un vero sal…asso2), un monaco cistercense vissuto nel XIII secolo, autore di un Chronicon, opera pubblicata per la prima volta da G. G. Leibniz nel secondo tomo di Accessionum Historicarum per i tipi di Nicola Förster, Hannover, 1678 e poi a cura di G. G. Pertz in Monumenta Germaniae Historica, t. XXIII, Hahn, Hannover, 1874.

Ho letto tutto il testo del Chronicon riportato nelle due pubblicazioni (ho consultato la prima, introvabile, nella edizione del 1698 uscita ad Hannover, sempre per i tipi di Nicola Förster). Della profezia non c’è traccia.

Debbo pensare che essa sia contenuta in qualche glossa di uno dei tanti manoscritti? Allora, perché non dirlo?

Archiviato senza successo il problema della tradizione del testo, che rimane sibillina …, passiamo alla causa preannunciata nel titolo.

Dappertutto, pure in pubblicazioni anche queste qualificate che spaziano dalla filologia alla filosofia, dalla psicologia alla religione, si legge che l’interpretazione cambia a seconda della posizione della seconda virgola. Se, infatti, essa è collocata, come va fatto e come fra poco dimostrerò, dopo redibis, la traduzione è: andrai, ritornerai, non morrai in guerra; se, al contrario, la seconda virgola è collocata dopo non, la traduzione sarebbe: andrai, non ritornerai, morrai in guerra.

Ho detto sarebbe perché questa seconda resa del testo e la conseguente traduzione sono fasulle per due motivi:

il primo è di ordine grammaticale perché neppure nei più scalcinati autori latini è prevista l’anastrofe dell’avverbio non che risulta, invece, sempre anteposto alla voce cui si riferisce (morieris) e l’anastrofe non è presente neppure nel più scalcinato e sgrammaticato graffito pompeiano;

il secondo è di ordine metrico, essendo questa la scansione del verso in questione che è un senario giambico e che, questa volta, riporto volutamente senza punteggiatura:

La doppia sbarra in rosso costituisce la cesura, cioè la pausa che va rispettata nella lettura; in pratica essa corrisponde alla nostra virgola.

Altro non aggiungo se non porre la domanda: dato per scontato che un rude soldato non potesse essere a conoscenza di cotali finezze, erano Apollo o la Sibilla ad ignorare il latino (sarebbe stato un fatto imperdonabile per un dio, gravissimo per la sua intermediaria terrena … ), oppure  il percettore o l’interprete del messaggio (qualche inserviente dell’oracolo)? E, sempre data per scontata almeno per Apollo, se di ignoranza si trattava,  la buona fede, è legittimo sospettare per gli altri protagonisti umani, se conoscevano il latino,  la mala fede tesa ad alimentare quel clima di ambiguità e di mistero che avrebbe poi trovato la sua etichetta nell’aggettivo sibillino e che rappresenta quel sostrato sostanzialmente di paura, non tanto per il presente quanto per il futuro, che è alla base di tutte le religioni e, in genere, di ogni potere?

Dopo millenni non siamo messi meglio: per restare alla sfera laica, la paura (perfino quella che nella sua forma più immediata e materiale coinvolge la pancia nelle sue esigenze fisiologiche e non metaforiche, le quali ultime continuano ad essere riservate alle varie caste …) ci assale più volte nel corso della giornata e la Sibilla (leggi capo del governo) di turno e i suoi inservienti (leggi tv e giornali di stato) continuano imperterriti, anche senza essere stati consultati, a lanciare profezie, fidando (mi auguro che questa loro fiducia possa essere al più presto la causa stessa della loro fine) nella dabbenaggine e nell’ignoranza dei sudditi onesti.

Di questi, pochi conosceranno il latino, gran parte di loro non avrà neppure una passabile conoscenza dell’italiano, ma ormai gli spasmi dello stomaco vuoto in parecchi di loro sono tali che sforzarsi a capire le profezie (leggi lotta all’evasione fiscale e alla corruzionefine del rigorelavoro e sviluppo) significherebbe sprecare il poco tempo rimasto, sia pure solo per sopravvivere. 

Non so se il reato commesso dalla Sibilla o da chi per lei sia andato in prescrizione e per questo assumerò, comunque, presso gli organi competenti le dovute informazioni perché, in questa fattispecie, le cose potrebbero stare diversamente …; nel caso in cui non dovesse risultare prescritto, mi dichiaro fin da ora disponibile a difendere in giudizio i legittimi interessi degli eredi con la richiesta di un congruo risarcimento per la tragedia … non annunciata del loro congiunto (nel caso di sopravvivenza con connessi danni di qualsiasi entità nulla avrei potuto fare in virtù di quel non morieris=non morrai …); tale risarcimento, poi, assumerà connotati faraonici perché verrà chiesta la giusta e dovuta rivalutazione.

Sarà demolito senza pietà ogni tentativo di difendere la parte convenuta accampando ragionamenti del tipo ma se il soldato, sapendo il destino che l’attendeva, non fosse partito per la guerra, avrebbe sì salvato la vita ma commesso il reato di diserzione. Nella fattispecie (poi la smetto perché non posso scoprire tutte le mie carte prima ancora di cominciare a giocare …) sarebbe facile ribattere che la morte ha estinto il reato per il quale la collettività non può chiedere nessun risarcimento, ma che lo stesso non vale per gli eredi che hanno subito il danno, sempre prescrizione permettendo …

Avviso per i furbetti: nel caso in cui dovesse spuntare fuori come un fungo più di un erede (non è ammessa, comunque, l’azione collettiva o, come dicono i benparlanti, la  class-action …), assumerò le difese di colui che offrirà di più come compenso per la mia prestazione (è la prima volta al mondo che questo tipo di causa viene intentato … siate comprensivi!). Per quanto riguarda, infine, il certificato di morte del soldato, il problema non si pone: chi si aggiudicherà la mia difesa lo avrà con un piccolo, ma rapportato sempre all’entità della causa, supplemento che sarà versato anticipatamente, insieme con l’emolumento principale, su un conto fiscalmente paradisiaco nel momento in cui si aggiudicherà il privilegio dei miei servigi.

Il mio studio illegale si prenderà altresì cura di quanti, ormai come me avanti negli anni, intendano chiedere il risarcimento del danno per il trauma subito in giovane età, quando fin dalla scuola media insegnanti saputelli li hanno sottoposti sadicamente alla tortura della fasullamente duplice, come ho dimostrato, interpretazione della profezia.

Non posso fare niente, invece, per gli eventuali eredi di Provenzano Salvani, protagonista, certamente più acculturato del nostro soldato,  di un’avventura simile, della quale ci dà notizia Giovanni Villani (XIII-XIV secolo) nella sua Cronaca (cito da Cronache di Giovanni, Matteo e Filippo Villani, Sezione letterario artistica del Lloyd austriaco, Trieste, 1857, v. I, pag. 126): Il conte Guido Novello si fuggì, e messere Provenzano Salvani  signore e guidatore dell’oste de’ Sanesi fu preso; e tagliatogli il capoo e per tutto il campo portato fitto in su una lancia. E bene s’adempiè la profezia e revelazione che gli avea fatta il diavolo per via d’incantesimo, ma non la intese; che avendolo fatto costrignere per sapere come capiterebbe in quella oste, mendacemente rispuose, e disse: anderei e combatterai, vincerai no, morrai alla battaglia, e la tua testa fia la più alta del campo; e egli credendo avere la vittoria per quelle parole, e credendo rimanere signore sopra tutti, non fece il punto alla fallacia, ove disse: vincerai no, morrai ecc. E però è grande follia a credere a sì fatto consiglio come quello del diavolo. 

Una cosa è mettersi contro la Sibilla, un’altra contro il diavolo, cioè contro me stesso, se è vero quello che di me dice mia moglie: sei un diavolo! Non so se l’espressione vada interpretata come un complimento o come un rimprovero e, tutto sommato, mi conviene continuare a non saperlo o, meglio, a fingere di non  saperlo …

______

1 Secondo la tradizione l’ambiguo motto sibillino sarebbe stato riferito, o inventato, da un frate Alberico, cronista del sec. XIII (in Giornale italiano di Filologia, Armanni, Napoli, 1956, vv. 9-10, p. 30).

Espressione usata da Alberico delle Tre Fontane  Chronicon per indicare l’ambiguità degli oracoli (in F. Del Giudice, Il latino in tribunale: brocardi e termini latini in uso nella prassi forense, Simone, Napoli, 1999, p. 109).

La phrase est reprise dans le Chronicon di Alberico delle Tre Fontane (XIII siècle, comme exemple de l’ambiguité possible des oracles (in Revue française de psychanalyse, Presses Universitaires de France, 2000, v. 64, p. 1263).

2 Tre Fontane era il nome del convento sito nei pressi di Chalons-sur-Marne.

3 Da notare: in morieris ie– è considerato dittongo per sinizesi; in bello la –e– è dovrebbe essere lunga perché seguita da due consonanti. Tuttavia, quando la sequenza di queste è muta+liquida, la vocale è ancipite, cioè, a seconda delle esigenze metriche può essere considerata lunga o breve; qui la prima –l– è stata assimilata ad una muta, per cui la –e– è diventata ancipite e dunque suscettibile di essere considerata breve.

Sulla buona strada sembrava essersi messo Raffaele Bruno in Poesia e filosofia, Angeli, Milano, 2000, dove a p. 11 leggo: Nell’oracolo della Pizia ne andava della vita, a seconda della cesura metrica; difatti altro, nella trascrizione latina, il significato ‘sintattico’ di: “Ibis et redibis / non morieris in bello”; altro il significato metrico, che comporta sospensione, contraddizione, attesa, dubbio, tensione, azzardo di: “Ibis et redibis non / morieris in bello”. Dopo la pertinente osservazione del significato ‘sintattico’ imperniata sull’appartenenza di non a morieris il Bruno scivola rovinosamente sul significato metrico con una confusione pazzesca tra due concetti elementari della metrica: la cesura e la fine del piede, dettagli che non coincidono mai. E poi, pur con l’aggiunta di un et tra ibis e redibis, sfido chiunque a scandire questo verso, il cui nome (senario giambico, esametro o vattelappesca che sia …) il Bruno si guarda bene dal fare.

 

 

 

Ascoltando Vecchioni al Politeama Greco

roberto-vecchioni

di Gianni Ferraris

Ascoltando Vecchioni al Politeama Greco. E’ stato un viaggio a ritroso nel tempo, siamo tutti più vecchi, ricordo, erano gli anni ’70 quando acquistai uno dei suoi primi album, si chiamava Elisir, conteneva brani che mi sono rimasti dentro, Velasquez, A.R. (Rimbaud), Effetto notte, Figlia, Pani e pesci ed altre. Sgorgava poesia. Da allora lo seguii: Samarcanda, Luci a San Siro, e fra le più belle quelle della prima parte della scaletta del concerto di Lecce: L’ultimo spettacolo, Dentro gli occhi, Ninni. 

Strano effetto rimbalzo, le poesie erano canzoni o viceversa, le emozioni, allora, in quegli anni densi di impegno e voglia di lasciarsi andare erano le stesse, forse avrei potuto detestarlo, diceva le cose che io sentivo mie. Eppure stavo ad  ascoltare le cose che mi sarebbe piaciuto saper scrivere… era bello.

Era struggente come l’intimismo di Vecchioni, lui mettere in piazza emozioni e sensazioni, anche le mie, forse molte di una generazione intera.

Mentre suo padre finiva di giocarsi il cielo a dadi e suo fratello non arrivava più a giocare sugli argini,  lui cresceva,  io ascoltavo. Ed oggi è arrivato con quell’album, l’ultimo, e quella canzone che, ancora una volta, accidenti a lui, sento un po’ mia. Dedicata a chi non ha voglia più di crederci, ai disillusi tutti. A quelli che tuttavia non riescono a non guardare, a non osservare, a non sentirsi inadeguati di fronte a quell’irreale vero che ci circonda. Quel “io non appartengo più”  in realtà è denuncia di fortissima appartenenza, quando ci sei dentro non riesci ad uscirne, quando vuoi capire e non ci riesci non molli la presa, riprovi e riprovi ancora. In fondo si è prigionieri in qualche modo.

 

…Sono sveglio dentro un sogno di totale indifferenza,
che persino tra le gambe mi si è persa la pazienza.
Io non appartengo al tempo del delirio digitale,
del pensiero orizzontale, di democrazia totale.
Appartengo a un altro tempo scritto sopra le mie dita,
con i segni di chitarra che mi rigano la vita.
Io l’ho vista la bellezza e ce l’ho stampata in cuore,
imbranata giovinezza a ogni antico nuovo amore.
Io non appartengo più, mi fa ridere lo ammetto,
ma vi giuro non lo faccio per malinconia o dispetto…

 

Non so se gli anni in cui lo “incontrai” furono meravigliosi o meno, non so neppure se è valsa la pena, in fondo. So che erano intensi e densi, che non c’era un attimo, un momento libero e che prima di addormentarmi lasciavo scorrere emozioni e malinconia anche. “Figlia, figlia, non voglio che tu sia felice, ma sempre contro finchè ti lasciano la voce…” cantava Vecchioni, ecco forse è il riassunto di un pensiero e un comportamento lungo quanto un ’68, sempre contro fino a quando non si era gettata sabbia negli ingranaggi del mondo che girava alla rovescia, dove i poveri non potevano che impoverirsi. Il sogno americano si frantumava per tutti quanti, ne avevamo uno italiano, fatto di conquiste e di emozioni forti. Forse sogni adolescenziali, chissà. Poi la storia ci ha scavalcati, qualcuno si è seduto, qualcun altro si è lasciato andare, altri hanno proseguito a guardare le cose della vita con aria sorpresa sempre.   Gli amori rincorsi sotto le luci di San Siro si sono trasformati, sono diventati maturi… molti sono marciti. Mentre  Guccini, diceva di Eskimo “… lo porta addosso mio fratello ancora, e tu lo porteresti e non puoi più…” per i più duri e puri valevano le parole de La Locomotiva “trionfi la giustizia proletaria…” anche se sapevamo, in fondo, che ormai erano parole che stavano entrando nel mondo delle fiabe. Forse della fede, esattamente come altre fedi. Una generazione sanguigna stava mutando dopo essere stata sedotta dall’utopia e travolta dalla realtà che non aveva saputo mutare. La caduta dei partiti sotto il peso delle tangenti era dietro l’angolo. Bombe e morti sui marciapiedi erano altro dalle speranze e dai desideri.

C’erano molti giovani ad ascoltare Vecchioni, ed applaudivano. Ognuno con la rilettura delle parole secondo il proprio sentire, il vissuto personale. E’ la grandezza di chi scrive, riuscire a far vibrare  più emozioni. “Con l’occhio azzurro io ti salutavo, con quello blu io già ti rimpiangevo”… molti l’hanno vissuto, nessuno nello stesso modo, con identica intensità. Eravamo in molti ad ascoltare, ognuno immerso nelle sue sensazioni, quasi impermeabili a quel che avveniva attorno. 

 

L’omaggio di Ortelle a Giorgio Cretì con la presentazione del volume antologico delle opere

Omaggio a Giorgio Cretì, i relatori

di Paolo Rausa

Una battaglia, due fronti contrapposti – i relatori e il pubblico, fra cui i famigliari di Giorgio Cretì, schierati per guerreggiare non a fini distruttivi ma per esaltare il figlio di questa terra salentina di Ortelle, quel Giorgio Cretì che ha scritto romanzi (Pòppiti e l’Eroe antico), ‘Erbe e malerbe’, un trattato con i nomi e le caratteristiche delle erbe spontanee utilizzate per alimentare generazioni di ‘pòppiti’, una serie di libri sulle ricette della cultura contadina del Salento e dei luoghi in cui è vissuto o ha stretto amicizie, le terre di Emilia Romagna, Liguria e Lombardia.

Qui si era trasferito, in un paesino in provincia di Pavia Giorgio Cretì, portando con sé l’immagine lussureggiante e dolente del paesaggio salentino, che ha prodotto generazioni di contadini, attaccati allo scoglio o meglio alla zolla – come ha efficacemente ricordato di lui Raffaella Verdesca. La scrittrice con una tecnica tipica della geometria frattale ha esaminato gli scritti di Giorgio colmi di passione e di amore per la sua terra, descritta con tecnica veristica nel ruolo di narratore esterno, pur non indulgente a volte di fronte alle ristrettezze mentali dei contadini e degli umili ma propenso a mostrare un cuore che ha battuto incessantemente per loro.

Omaggio a Giorgio Cretì, il pubblico fra cui i famigliari
Omaggio a Giorgio Cretì, il pubblico fra cui i famigliari

Questi figli del Salento hanno lasciato traccia in un muro a secco, in una pajara, in una masseria testimoni di una civiltà in declino che tuttavia, come dice Eugenio Imbriani, docente di Antropologia all’Università del Salento,  ci appartiene come cultura da tramandare e da immaginare come futuro per i nostri figli a partire dall’esperienza dei nostri ‘pòppiti’. Occorre quindi indurre alla conoscenza del territorio e della cultura che ha espresso, manifestatasi attraverso i segni di una lingua ancestrale dai significati densi, come bagaglio di conoscenza da trasmettere ai nostri giovani.

Il merito del progetto ‘Ortelle e gli ortellesi visti con gli occhi di Giorgio Cretì e dei contemporanei’ va attribuito all’Amministrazione Comunale, che attraverso le figure del Sindaco Francesco Rausa e dell’Assessore alla cultura, ha sostenuto il progetto, finanziato dal CUIS. La Fondazione di Terra d’Otranto ha curato la pubblicazione del volume antologico che raccoglie i testi dei romanzi e dei racconti di Giorgio Cretì, illustrati dalle fotografie di Stefano Cretì, esposte nell’atrio di palazzo Rizzelli e di Carlo Casciaro e Antonio Chiarello, i quali hanno riproposto le loro opere pittoriche che illustrano paesaggi e personaggi della terra tanto amata da Giorgio Cretì.

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A illustrarne la figura e le esperienze umane è intervento a nome della famiglia Giuseppe, visibilmente commosso quando ha ricordato le escursioni di Giorgio con la macchina fotografica o la tavolozza che imitava i variopinti colori dei prati.

‘Giorgio in realtà non è andato via dalla sua terra. Ha portato via i colori, gli odori e il mare di lutto e di paradiso, zolle del Salento, pezzi e testimoni di questa terra rievocata con nostalgia – ha esordito Raffaella Verdesca -, presentando l’opera letteraria di Giorgio Cretì come omaggio alla sua terra che questa sera restituisce quanto pattuito tacitamente e sancito fra conterranei che si amano e si rispettano.

Il 1° giugno, ‘Pòppiti’ è stato  rappresentato in piazza S. Giorgio dalla Compagna ‘Ora in scena’ su testo della stessa Verdesca. L’appuntamento si rinnoverà ad ottobre durante la festa di S. Vito, quando la cultura si intreccerà con la tradizione della cucina salentina, descritta mirabilmente in tante opere di Giorgio Cretì.

 

Quei “fiuri de la Pathria” recisi combattendo sul Carso

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di Paolo Vincenti

 

Mercoledi 30 aprile, in risposta ad un gentile invito di Paolo Rausa, giornalista, scrittore e regista teatrale, mi sono recato in quel di Poggiardo, Palazzo della Cultura, per assistere alla presentazione del libro “Li fiuri de la Pathria. Poesie sulla grande guerra” di Fernando Rausa (Comune di Poggiardo 2014), a cura di Paolo Rausa.

L’evento rientrava nell’ambito della manifestazione  “Dialogos. Rassegna culturale di Terra d’Otranto”, patrocinata dal Comune di Poggiardo – Assessorato alla Cultura, ed organizzata dall’alacre operatore culturale Pasquale de Santis. La rassegna, nella sede della Biblioteca Comunale, ha ospitato diversi autori salentini, a partire dal 22 marzo con la presentazione del libro “Il senso dell’incanto” di Laura e Pina Petracca e fino al 31 maggio con “Il sigillo del marchese” di Giuseppe Pascali.

Prima della presentazione del libro, ho potuto anche ammirare la personale dell’artista Vincenzo De Maglie, una mostra di sculture in legno di noce e di ulivo, ospitata nel piano terreno del poggiardese Palazzo della Cultura in Piazza Umberto I.

L’amico Paolo, milanese di Poggiardo o poggiadese di Milano, mi aveva già informato di questa iniziativa editoriale, in uno dei tanti nostri incontri in occasione dei suoi frequenti ritorni nella terra dei padri.

Si tratta di una serie di poesie in dialetto salentino che hanno a tema la Prima Guerra Mondiale, la Grande Guerra appunto, vista dagli occhi un salentino di Poggiardo che ad essa non ha partecipato ma che da essa è stato scosso nell’intimo. E dunque i tragici avvenimenti bellici sono filtrati dalla sensibilità poetica dell’autore, in un canto accorato di umana pietà e compartecipazione, abbraccio solidale.

Sostanzialmente Rausa canta la vita e il suo grande valore, tanto più grande quanto più essa è minacciata dalle contingenze. E di fronte al cruento conflitto bellico, la sensibilità del poeta sa cogliere questo valore  raddoppiato. “Li fiuri de la Pathria” furono recisi combattendo sul Carso, credendo nell’italia, come scrive Paolo Rausa, il quale si chiede:  “ha senso pubblicare in dialetto salentino versi che trattano avvenimenti lontani nel tempo e nello spazio? Ci siamo risposti di sì!

Perché ovunque arda l’amore per la propria terra e per l’estremo atto di sacrificio, ovunque ci si ricordi di un Ettore che sotto le mura di Troia non esita ad affrontare il nemico/avversario in una sfida fatale, lì il verso sprona a veder oltre, a lacrimare sulla sventura nelle trincee della vita”.

Certamente ha senso ricordare, soprattutto quando questa operazione viene sorretta da afflato poetico e nobiltà d’intenti, sincerità d’animo e vicinanza umana, tanto più se si pensa che queste poesie non erano nate per essere pubblicate, e quindi lontane da qualsiasi calcolo editoriale-commerciale. Esse rappresentano il canto d’amore, accorato e sincero, di un figlio della patria nei confronti dei suoi fratelli più sfortunati, recisi appunto come fiori e come gigli di campo (per citare il De Andrè della celeberrima “Canzone di Piero”, le cui note sono risuonate durante la serata), strappati ai loro affetti, passioni, interessi e alla loro terra, dall’abominio e dall’odio umani.

Fernando Rausa, 1926-1977, operaio edile e poeta autodidatta, pubblicò in vita le raccolte “Poggiardo mia” e “L’occhi ‘ntra mente” nel 1969, poi “Fiuri… e culuri”nel 1972 e infine “Guerra de pace” nel 1976. Ma scrisse tante altre poesie sparse ed anche un racconto inedito. Dopo trent’anni dalla sua morte, grazie alla cura del figlio Paolo, sono state pubblicate Terra mara e nicchiarica” (Manni 2006), con Prefazione di Donato Valli, “L’Umbra de la sira  (Edizioni Atena 2009), con Prefazione di Rita Pizzoleo. Valeva la pena però far conoscere, fra i materiali rimasti ancora inediti, queste poesie patriottiche, in specie a vantaggio delle giovani generazioni sempre troppo scarse di begli esempi ed edificanti riferimenti: questo deve aver pensato ancora Paolo, infaticabile promoter dell’opera del padre, quando ha deciso di dare alle stampe la presente pregevole raccolta.

Sulla prima pagina è riportato un brano tratto da “La grande guerra” di Paolo Rumiz. E durante l’incontro di Poggiardo,  è stato proiettato un filmato documentario,”L’albero tra le trincee” di Alessandro Scillitano con commento del giornalista Paolo Rumiz, in cui si ripercorrono quei luoghi, da Trieste all’Adamello, circa 600 kilometri di frontiera, che hanno fornito triste scenario alle vicende belliche: importante questo filmato, nella sua ricostruzione storica, sia per il suo valore documentale che memoriale. Durante l’incontro di Poggiardo, la lettura delle poesie di Rausa ha dato ai presenti in sala, fra i quali gli studenti del locale Istituto D’arte “Nino Della Notte”, emozioni intense, facendo entrare gli ascoltatori in quell’atmosfera di abbandono, abbrutimento, disfatta, evocata dai versi, ma anche di eroismo e di orgoglio di nazione. Dopo i saluti dell’Assessore alla Cultura Giuseppe Orsi,  l’intervento e le letture di Paolo Rausa, e le canzoni del cantautore salentino P40.

La grafica del libro è curata da Ornella Bongiorni, consorte di Paolo Rausa, la quale è intervenuta alla presentazione del libro con letture e numerosi spunti di riflessione. Nel libro compaiono le Presentazioni del Sindaco Giuseppe Colafati e dell’Assessore Giuseppe Orsi e poi la Nota del curatore .

I testi riportano in calce la traduzione in italiano. La poesia di Fernando Rausa ha una intima ispirazione, è una poesia molto sentita perché affonda i sentimenti di amore della patria nella nostra cultura rurale e si serve della lingua legata alla nostra terra e stratificata. Leggiamo allora di Vittorio Veneto e di Caporetto, del Piave e di Monte Grappa, di Enrico Toti e Francesco Baracca, della Folgore, di combattenti e reduci; a tutti va la parola del poeta, forgiata nella lingua degli avi, impastata con la nostra terra “mara e nicchiarica”. E sui vincitori e sui vinti, sui caduti di tutte le guerre, sventola quella bandiera italiana (“bandiera mia”) la cui poesia suggella la raccolta, che diventa simbolo di salvezza e di rinascita.

Ortelle. Paesaggi e personaggi … con gli occhi (e il cuore) di Carlo Casciaro e Antonio Chiarello

Fiera di Ortelle-il cibo nei quadarotti

di Paolo Vincenti

 

Nell’ambito della manifestazione “Omaggio a Giorgio Cretì” che si tiene ad Ortelle sabato 31 maggio e domenica 1 giugno 2014 in Piazza San Giorgio, è allestita la mostra di pittura “Ortelle. Paesaggi Personaggi … con gli occhi (e il cuore) di Carlo Casciaro e Antonio Chiarello”, presso Palazzo Rizzelli sempre nella centrale Piazza San Giorgio.

L’occasione è di quelle importanti. Infatti, nel salotto buono della città, Ortelle rende omaggio ad un suo figlio illustre, Giorgio Cretì autore del romanzo “Pòppiti” con una serie di incontri e conferenze e finanche una riduzione teatrale dell’opera summenzionata a cura di Raffaella Verdesca e Paolo Rausa.

Ma torniamo alla mostra pittorica di Casciaro e Chiarello, Chiarello e Casciaro.

I due ortellesi offrono un viaggio attraverso i propri personali mondi pittorici che si incontrano e si specchiano in omaggio ad un altro ortellese del passato, appunto Cretì.

Nell’evenienza  della mostra, è stato pubblicato un catalogo, con lo stesso titolo e una doppia speculare copertina, realizzato con il patrocinio del Comune di Ortelle, dell’Università del Salento, del CUIS e della Fondazione Terra D’Otranto.

Anche il catalogo vuole essere un omaggio allo scrittore ortellese, come è manifesto dalla copertina che in una banda marrone nella parte superiore reca scritto “Per un antico (pòppitu) eroe. Omaggio a Giorgio Cretì”. Nella parte centrale della copertina, la foto di un bellissimo antico portale del centro storico di Ortelle. All’interno del volumetto, Casciaro e Chiarello si dividono equamente gli spazi: da un lato le opere dell’uno e dal lato opposto quelle dell’altro, realizzando una sorta di residenza artistica o casa dell’arte su carta.

Il libro è introdotto da una bellissima poesia di Agostino Casciaro, dedicata proprio ad Ortelle e da una Presentazione della critica d’arte Marina Pizzarelli. Quindi troviamo i volti di Carlo Casciaro, fra i quali, ultimi realizzati, proprio quello dello Pòppitu Cretì, in un acrilico su tela del 2014; poi quello di Agostino Casciaro, sotto il quale vengono riportati alcuni versi di Renato Grilli, e quello di Giuseppe Casciaro (1861\1941), pittore del passato e maggior gloria ortellese. Inoltre, l’opera “Ortelle”, acrilico su tela 2012, con una citazione di Franco Arminio, “Capriglia”, acrlico su tela 2014,con una citazione di Giorgio Cretì,  “Largo Casciaro”, acrilico su tela 2013 e infine una scheda biografica di Carlo Casciaro.

Di Carlo ho già avuto modo di scrivere:  <Dalla fotografia alla pittura, Carlo Casciaro  comunica attraverso la sua arte e mi sembra perfettamente integrato con  il microcosmo di una piccola e fresca cantina nella quale ha ricavato il suo studio e dalla quale osserva il mondo esterno,  senza spostarsi da casa, indagatore dell’anima, collezionista di memorie, archivista di emozioni.  Carlo è un viaggiatore fermo, un nomade stanziale, se mi si perdona l’ossimoro. Da Milano, dove ha vissuto e lavorato diversi anni, è ritornato al paesello, nella sua amata Ortelle, e qui ha ripiantato radici,  la sua è diventata  una scelta di fede, perché è facile essere attaccati al paese dove si è nati, ciò è naturale e scontato, ma quando invece lo si risceglie in piena consapevolezza,  dopo essere stati via per anni, e lo si rielegge a propria residenza,  questo ha un valore raddoppiato. Così  Carlo ha deciso di vivere qui, nell’antica Terra Hydrunti,  a fotografare vecchi e vecchine, parenti, amici, sdentati  e sorridenti personaggi schietti e spontanei  di quella galleria di tipi umani che offre l’ecclesia ortellese, a immortalarli nei suoi ritratti a matita e pastello e ad appenderli con le mollette a quei fili stesi nella sua cantina a suggellare arte e vita, sogno e contingenza>.

Mutando verso del catalogo, si ripetono la poesia di Casciaro e la Presentazione di Pizzarelli, e poi troviamo le opere di Antonio Chiarello. Fra i versi di Antonio Verri e Vittorio Bodini, sette acquerelli con una piantina turistica di Ortelle, cartoline e vedute panoramiche della città di San Vito e di Santa Marina e una “Vecchia porta + vetrofania” del 2011. Quindi, la scheda biografica di Antonio Chiarello.

Anche di Antonio, fra le altre cose, ebbi a scrivere: <Antonio Chiarello, “cuore messapo”, vuole raccontare l’anima vera del Salento… Il nostro autore porta dentro di sé uno smisurato amore per  questa terra di mezzo che sempre affascina chi fa arte e chi ha un animo sensibile disposto all’ascolto. Chiarello si sente per intero  figlio di questa terra bagnata dai due mari e dei suoi angoli nascosti, delle sue pietre parlanti, del culto dei suoi santi, delle sue grotte, dei suoi millenari monumenti, dei suoi alberi e delle sue case, di Castro e di Porto Badisco, del suo cielo incantato e incantatore,  di Santa Cesarea e di Otranto, dei gabbiani che volano basso, delle sue chiese e delle sue storie, che è bello continuare a tramandare come favole di bimbo, come perle di una collana di tristezza e di felicità intrecciate per l’indissolubile.

Tutto queste cose fanno il “Salento d’autore” di Antonio Chiarello, cioè la sua veduta del nostro paesaggio, che è poi l’interpretazione che ad esso dà un pittore-grafico-fotografo di vaglia come il Nostro. Nella sua avventura umana ed artistica, Chiarello ha avuto la fortuna di circondarsi di personaggi di primo piano della cultura salentina, quali, ad esempio, Antonio Verri, Donato Valli, Antonio Errico, Pasquale Pitardi, Fernando Bevilacqua, Rina Durante.  E allora, per accostarsi all’universo poetico di Antonio Chiarello, è bello andare a visitare questa mostra che conferma esattamente quanto diceva Ugo Foscolo, ossia che “L’arte non consiste nel rappresentare cose nuove, bensì nel rappresentarle con novità”.>  E quest’ultima citazione vale dunque, e anzi doppiamente, come invito per la mostra di Ortelle.

Omaggio a Giorgio Cretì. A Ortelle

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“Per un antico(pòppitu)eroe” è l’incipit che accompagna il progetto/omaggio a Giorgio Cretì, giornalista, scrittore, cultore della gastronomia e delle tradizioni popolari, scomparso lo scorso anno. Ortelle, sua cittadina natale, gli rende merito con due iniziative culturali, che hanno lo scopo di celebrarne la memoria e anche di far germogliare altri semi che Cretì seppe spargere amorevolmente in terre lontane dal suo Salento.

Le manifestazioni si svolgeranno in piazza San Giorgio, agorà del borgo di Ortelle, Sabato 31 maggio con l’illustrazione del progetto “Ortelle e gli ortellesi attraverso gli occhi di Giorgio Cretì e dei contemporanei”, un progetto promosso dal Comune di Ortelle che si è valso della collaborazione della “Fondazione Terra d’Otranto”, finanziato dal CUIS e sostenuto  dall’Università del Salento, Dipartimento Beni Culturali.

Dopo i saluti delle autorità,i familiari di Cretì illustreranno la bio-bibliografia,mentre il presidente della Fondazione Terra d’Otranto dott. Marcello Gaballo presenterà il volume antologico che comprende i due romanzi, racconti inediti e foto d’archivio dello stesso Cretì.

Il volume, riccamente illustrato, sarà distribuito ad ogni famiglia del Comune, con ciò rispettando la volontà di Giorgio Cretì e della stessa Fondazione Terra d’Otranto, a cui sono stati ceduti i diritti dei testi pubblicati.

Domenica 1 giugno, alle 21, si alza il sipario sullo spettacolo teatrale “Pòppiti”, tratto dall’omonimo romanzo di Cretì. Il testo scritto dalla scrittrice Raffaella Verdesca sarà rappresentato dalla Compagnia teatrale ‘Ora in scena’, diretta da Paolo Rausa. Le musiche e le canzoni della tradizione salentina saranno eseguite da P40 e Lucia Minutello, la coreografia daKalimbaStudio Dance. Il racconto è unaffresco di salentinità,una storia d’amore e di guerra ambientata a Capriglia, una masseria collocata nell’entroterra fra Santa Cesarea Terme e Vignacastrisi. Le vicende si svolgono nel 1911 e si intrecciano con la guerra di Libia.

Nei due giorni è possibile visitare la mostra “Ortelle /Paesaggi Personaggi” con opere dei pittori locali Carlo Casciaro e Antonio Chiarello e la “lettura” fotografica di Pòppiti a cura di Stefano Cretì, allestita nell’atrio e nelle sale di Palazzo “Rizzelli”, in piazza San Giorgio.

Info: Comune di Ortelle, 0836 958014, www.comune.ortelle.le.it

 

Borgoinfesta è BorgoinCanto. A Borgagne

Borgoinfesta 9

a cura di Viviana Leo

X edizione

BORGOINFESTA 2014

BorgoinCanto, la rassegna musicale di Borgoinfesta

 

Dal 30 maggio al 2 giugno

Piazza Sant’Antonio, Borgagne (Le)

Info: 388/7710391

www.borgoinfesta.it

 

Grande musica a Borgoinfesta, il festival eco-culturale di Borgagne (Le) che spegne quest’anno dieci candeline con un programma di eventi imbastito intorno al tema “Essere Comunità”. Protagonista e narratrice di se stessa e della propria storia, la comunità di Borgagne è pronta ad accogliere migliaia di amici nel centro storico del paese in una grande festa che, seppur all’importante traguardo, continua a conservare una dimensione familiare e conviviale in cui sostenibilità, ecologia e solidarietà rappresentano le chiavi per interpretare in modo creativo e virtuoso il territorio e valorizzare la biodiversità culturale, elemento questo che ha portato l’associazione ‘Ngracalati, organizzatrice del festival ad aderire all’Associazione Nazionale Borghi Autentici d’Italia.

 

Programma

 

Venerdì 30 maggio

A inaugurare il programma di BorgoIncanto, la rassegna musicale di Borgoinfesta è Dario Muci che porta sul palco “Rutulì, barberia e canti dal Salento”, spettacolo che rappresenta solo una piccolissima parte del complesso e variegato patrimonio popolare e contadino. I canti riproposti fanno parte di quel repertorio della tradizione orale che attraversa l’Italia e arriva nel Salento, che raccoglie soprattutto un cospicuo repertorio di canti narrativi proveniente dal nord, tipico delle aree alpine. Oltre ai canti, hanno una loro forte presenza gli strumenti a corda, come un fado portoghese o un classico napoletano. Sono fondamentali anche la chitarra e il mandolino, strumenti principi della barberìa, ovvero la musica delle sale da barba, i saloni, dei veri e propri salotti dove si potevano anche ascoltare le novità della musica colta, oltre al repertorio classico di ballabili e serenate. Nel pomeriggio di sabato 31 l’artista salentino conduce “Paravoce”, uno stage di canto polivocale salentino.

La serata si apre con la sfilata di abiti vegetali di Note Fiorite, l’evento internazionale di arte floreale che
quest’anno dedica la passerella al tema del matrimonio. A seguire, dopo il live, la piazza continua a brulicare con canti e balli a cura di Gianni Amati.

 

 

Sabato 31 maggio

C’è grande attesa per il concerto del Canzoniere Grecanico Salentino, che dopo aver girato tutto il mondo arriva a Borgagne con uno spettacolo carico di energia e passione. Lo storico gruppo, passato da qualche anno sotto la direzione artistica di Mauro Durante, si esibisce con un repertorio di canti tradizionali e non che reinterpretano e riarrangiano il ricco patrimonio etnomusicale salentino. A caratterizzare il gruppo è l’affascinante dicotomia tra tradizione e modernità: il gruppo è composto dai principali protagonisti dell’attuale scena pugliese che reinterpretano in chiave moderna le tradizioni che ruotano attorno alla celebre pizzica. Un’esplosione di ritmo e magia, che trascinano in un viaggio dal passato al presente sul battito del tamburello, cuore pulsante della tradizione salentina. Sul palco Mauro Durante (voce, tamburello, violino), Maria Mazzotta (voce, percussioni), Giulio Bianco (zampogna, armonica, flauti, fiati popolari), Massimiliano Morabito (organetto), Emanuele Licci (voce, chitarra, bouzouki), Giancarlo Paglialunga (voce, tamburello), Silvia Perrone (danza).

Ad aprire la serata sono Giana Guaiana e Pippo Barrile con il progetto “Fatti di Terra e d’amuri”, un repertorio di canti in dialetto siciliani, sardo e pugliese, che raccontano l’amore in tutte le sue infinite sfaccettature, che dalle parole più dolci può sfociare in un grido di protesta. Dai canti dei carrettieri a brani più recenti come Mokarta e Dumà, resi celebri dalla voce di Pippo Barrile insieme ai Kunsertu, il live mette in risalto le voci accompagnate dalla chitarra, come nella più autentica tradizione popolare.

Il duo passa poi i microfoni a “Il paese che canta”, ensemble diretto dal maestro Roberto Corciulo che riscrive in chiave corale moltissimi brani della tradizione popolare salentina. Nato sul solco segnato dalle ‘Ngracalate, le cantatrici di Borgagne, “Il paese che canta” conserva e custodisce i canti che nei secoli hanno popolato le campagne salentine. Insieme alle voci maschili e femminili partecipano Stefania Murciano (voce), Sandro Trovè (tamburelli) e Antonio Mariano (chitarra).

 

 

domenica 1 giungo

Grazie al sostegno di Puglia Sounds e l’inserimento nella Rete dei Festival “Mediterranea Network”, Bogoinfesta propone la prima nazionale di “Mediterrante” il progetto musicale del siciliano Mario Incudine, uno spettacolo di canti, cunti, danze dalle due sponde del Mediterraneo, un viaggio tra le musiche nomadi che attraverso i flussi migratori di ieri e di oggi diventano le due facce della stessa medaglia. Accanto a Mario Incudine, sul palco suonano Faisal Taher (cantante palestinese voce storica dei Kunserto e dei Dounia) e Kaballà (autore e cantautore molto raffinato e coinvolgente), e i due percussionisti salentini Riccardo Laganà (musicista dell’Orchestra della Notte della Taranta ma anche di Einaudi, Sparagna, Caparezza) e Carlo Canaglia De Pascali. Da Borgagne si crea un ponte tra Sicilia, Palestina e Salento, in una fusione che dà vita a un concerto coinvolgente e appassionante.

Grande attesa anche per la “Notte delle cento chitarre”, un corteo musicante di strumenti classici ed elettrici, composto da musicisti professionisti, appassionati e dilettanti, per suonare insieme, in un’unica e potente vibrazione di corde e percussioni, un pezzo “aperto” pensato dal leader dei Mau Mau Luca Morino, ideatore del progetto. I cento musicisti suoneranno all’unisono, sotto la direzione di Morino che “chiamerà” i pieni, i silenzi e le armonie da eseguire con i mezzi classici dell’arte di strada, il megafono e il fischietto. Il risultato si annuncia esplosivo ma non lascerà spazio a protagonismi e virtuosismi: pubblico e musicisti saranno sullo stesso piano, entrambi legati da un grande coinvolgimento emotivo e dalla voglia di divertirsi giocando con la tradizione aggiornata al 2014.

Ad aprire la serata è Nicola Briuolo, allievo diretto di Matteo Salvatore, maestro di cui propone un repertorio di canti conosciuti e non, storie di miseria e povertà, di fascismo e di guerra, d’amore e sofferenza. L’eredità di Matteo Salvatore è stata raccolta in tutte le sue sfumature dal suo discepolo che a Borgoinfesta ne ripropone alcuni frammenti con Bernardo Bisceglia (mandolino e voce), Martina Calluso (voce) e Michele Bisceglia (percussioni).

A seguire la piazza continua a brulicare con canti e balli a cura di Gianni Amati.

 

Lunedì 2 giugno

A chiudere BorgoinCanto è Mino De Santis, menestrello tugliese, testimone di usi e tradizioni del meridione e del Salento, di storie di vita tra il triste ed il comico, senza perdere mai l’ironia e la musicalità tipica dei cantautori italiani. I suoi brani sono quadretti pittoreschi di personaggi, vizi e virtù di un’Italia e un Sud alla continua rincorsa di un’identità a suon di valzer, stornelli e fanfare.
Il dialetto viene facilmente tramutato in rime e versi senza mai scadere nell’ingenua poesia popolare. Ad accompagnare Mino De Santis sono Pantaleo Colazzo (fisarmonica) e Mauro Semeraro (mandolino).

Ad aprire la serata è il live di Mute Terre, gruppo che crea un ponte sonoro nel Mediterraneo, tra Balcani e Sud Italia partendo dalla tradizione salentina. Sul palco suonano Ilenia Miceli (voce), Christian Miceli (fisarmonica), Alessandro Trovè (voce e tamburello), Mattia De Luca (flauto traverso e ottavino), Jacopo Montagna (chitarra) e Gabriele Drago (tamburello).

 

 

Ricette salentine con i ceci. La massa o cìciri e tria

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di Massimo Vaglio

 

Ciciri e Tria o Massa

Ingredienti per 6 persone: 400 g di sfoglia secca di pasta di semola fatta in casa, 300 g di ceci, 1,5 dl di olio extravergine d’oliva, 2-3 pomodorini, 1/2 cipolla, 1 costa di sedano, 3-4 spicchi d’aglio, prezzemolo, alloro, pepe nero macinato, sale.

Lasciate i ceci per almeno una notte a bagno in acqua, se non siete sicuri della loro cocibilità, strofinateli fra le palme delle mani intrise di sale grosso e lasciateli sempre a bagno per una notte in acqua tiepida. Dopo aver fatto ciò, risciacquate bene i ceci e poneteli in una pignatta di terracotta a cuocere con acqua opportunamente salata e qualche foglia d’alloro. A metà cottura scolateli dall’acqua e rimetteteli a cuocere aggiungendo altra acqua calda e odori quali sedano, prezzemolo, aglio, cipolla e qualche pomodorino da serbo, pelato e privato dei semi; completate quindi la cottura. Scaldate l’olio, possibilmente quello dei frantoi salentini, in una padella, fate imbiondire due/tre spicchi d’aglio, toglieteli e mettete a friggere a crudo un terzo della sfoglia di pasta fino a farla diventare color bruno. Il resto della pasta la cuocerete normalmente in abbondante acqua salata. Quando la pasta sarà giunta a mezza cottura, eliminate quasi tutta l’acqua, aggiungete i ceci con tutto il loro brodo di cottura, riportate a bollore e infine unite la pasta fritta insieme al suo olio. Fate insaporire bene mescolando sempre sulla fiamma, portate a cottura e servite completando con una spolveratina di pepe nero. Volendo, potete cospargere all’ultimo momento la superficie del piatto con altra pasta fritta, in modo che rimanga croccante. In mancanza di sfoglia fresca potete usare proficuamente alcuni formati tipici regionali quali le lasagne ricce e le tripoline.

Questo piatto, come d’altronde tutti quelli d’origine antica, ha molte varianti; alcune prevedono l’uso della cipolla invece che dell’aglio, altre l’aggiunta di mollica o tocchetti di pane fritto, altre ancora l’inserimento dell’acciuga salata, ecc., noi consigliamo quella sopra riportata, per il gusto pieno, ma delicato e per la sua semplicità e digeribilità.

 

Massa cìciri e càuli

La ricetta è originaria di Otranto e paesi limitrofi, si discosta  dalla versione più classica sopra riportata perché insieme ai ceci vengono aggiunte anche dei broccoli di cavolo rapa locale (“mùgnuli”) stufati, si aromatizza infine il tutto con qualche chiodo di garofano e cannella in polvere,  una volta scodellato viene cosparso con pangrattato precedentemente fritto dorato in padella con un filo di olio.

 

Realvirtualmente

di Armando Polito

 

Realvirtualmente 

CONVOGLIO SU BINARIO,

TORMENTATA TRATTA

DI TRAVERSE E TRAVERSIE.

 

VANI VAGONI.

 

CHIUSI IN PARTENZA,

POTENZA L’ILLUSORIA META.

 

Ho trovato in rete questo componimento di anonimo. Non escludo che l’autore in un sussulto di lucida dignità abbia pensato bene di non firmarlo ma, se è così, sempre un vigliacco rimane, uno che non si assume le sue responsabilità (e, come vedremo, sono tante), che getta la pietra e nasconde la mano.

I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma anche del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi. (Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, cap. II)

L’estrema estensibilità semantica del torto manzoniano mi consente di riferire l’intera citazione al nostro caso. Chi ha scritto questi sei presunti versi ha prodotto una serie di danni a catena: prima a se stesso, poi agli sventurati ai quali per caso ne è capitata la lettura e, cosa, forse ancora più grave, al sedicente critico di turno che così si esprimeva nel suo delirantemente entusiasta commento:

 

“La poesia utilizza sublimemente la tecnica dell’analogia nascosta, che esalta la sua già notevole capacità di conferire sintesi e pregnanza alle parole-chiave, che così  recuperano tutto il significato etimologico di poetiche, l’attributo che più di ogni altro le rende preziose. Tuttavia tale poeticità non si esplica in una gamma pressoché infinita di significati e di evocazioni, è sufficiente un’ambiguità ora bipolare, ora tripolare ma, comunque, immersa contemporaneamente nelle due sfere del virtuale e del reale sublimemente fuse, eppur distinguibili, già nel titolo. La metafora del viaggio emerge, così, in convoglio che è nello stesso tempo  il flusso dei dati nel pc ma anche la disperata consapevolezza di ciò che lega ognuno di noi al suo simile; continua con binario, simbolo della nostra doppiezza ma anche del sistema matematico su cui si regge tutta la nostra architettura digitale. Si procede coerentemente con tormentata tratta in cui l’efficacissima allitterazione fa continuare i suoi effetti, con l’aggiunta del gioco enigmistico dell’incastro, in traverse e traversie.

Segue quasi una pausa di riflessione, uno sganciamento dall’ovvio, nello splendido isolamento di vani vagoni (ancora un incastro) in cui l’allitterazione continua a svolgere un ruolo fondamentale.

E siamo ai due versi finali in cui l’autore ha veramente dato il meglio di sé e che esprimono in modo quasi dissacrante il non senso del nostro viaggio. Si comprende allora perché la poesia risulta scritta in caratteri maiuscoli. Senza di loro solo Chiusi avrebbe avuto una duplice connotazione (toponomastica e aggettivale), mentre potenza in questo treno sgangherato che è la nostra vita avrebbe subito una sorta di declassamento a solo sostantivo (pur nella molteplicità delle sue specializzazioni: da quella economica alla militare, da quella sessuale a quella legata alla frequenza del processore) senza sostanza (grazie ad illusoria); e l’ambiguità resa possibile dalla scelta grafica paradossalmente illumina il titolo, squarciando il suo iniziale velo criptico”.

Può darsi pure che sia io il terzo a far danno, ma il mio giudizio, lapidario pur nella duplicità, lo devo esprimere per l’anonimo poeta e l’altrettanto anonimo (ad onor del vero si firma Colt25, non utilizzabile per il recupero delle sue generalità anagrafiche nemmeno risalendo al porto d’armi, laddove sia stato richiesto e rilasciato) recensore.

La poesia (?) appare come uno spot denigratorio, peraltro malriuscito, delle ferrovie statali, commissionato dalla concorrenza. L’autore prima di pubblicarlo, anzi, prima di scriverlo, avrebbe fatto meglio a gettarsi sotto un treno; almeno così avrebbe fatto danno solo a se stesso …

Quanto al critico, me la caverò ancora più presto, prendendo a prestito (questa sì che è allitterazione, tiè!) le sue stesse parole: due sfere

Dal Salento, il buon parroco, ‘u strazzatu e un pittogramma

 Rockwell_Hobo

 di Rocco Boccadamo

 

Qualche tempo fa, il parroco di un paese di queste vicinanze, nato, cresciuto e in servizio esclusivamente nel Basso Salento, celebrando la Messa domenicale, ha introdotto la sua omelia con un saggio in dialetto locale così recitante: “U cane se mmina sempre allu strazzatu”.

In tal modo, il prevosto intendeva richiamare l’attenzione dei fedeli su un evento sfavorevole occorsogli fra capo e collo. Ossia a dire che, dopo un precedente ma non lontano guasto all’impianto elettrico della chiesa, costato non poco, in quei giorni era andato in tilt anche l’apparato dei microfoni e altoparlanti e, quindi, ne sarebbe derivato un ulteriore non indifferente onere.

Stringendo, il buon curato si affidava alla generosità delle sue pecorelle, sensibilizzandole apertamente a elargire qualche offerta più consistente, sì da poter affrontare l’aggravio finanziario aggiuntivo.

Indubbia e acuta l’abilità del pastore nel cercare di far breccia e raggiungere il suo obiettivo attraverso il ricorso a un vecchio detto popolare, per giunta nella lingua locale: poche parole e però intrise di notevole espressività, grazie al particolare abbinamento di soggetti e alla situazione o azione fra gli stessi intercorrente, l’amico fedele dell’uomo aduso e intento a infierire addosso a un poveraccio.

Questo l’antefatto, insolito e colorito, inanellatosi, diciamo così, dal pulpito di una parrocchia.

Guarda caso, il seguito laicamente correlato è che, io, ho appena partecipato a un work shop sul tema “Rapporto tra visual e open data” e, verso la fine delle lezioni, il docente, un famoso graphic designer, in mezzo a una serie d’immagini proiettate su un grande schermo, ha presentato anche un bellissimo crittogramma, allegato, con la didascalia, giustappunto, “cane che assalisce un barbone”.

A mio avviso detta scena si coniuga mirabilmente e perfettamente con l’antico saggio in dialetto salentino d’inizio omelia, segnando un’armonica fusione fra parole e immagini, dall’altare di una chiesa di paese a un’aula didattica, per la precisione con docente anglo americano.

Pietro Marti (1863-1933). Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto

Pietro Marti (1863-1933) Cultura e Giornalismo in Terra d’Otranto, Fondazione Terra d’Otranto, 2013, pp.  252, di Ermanno Inguscio.

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Della recente pubblicazione di Ermanno Inguscio, una elegante monografia sul giornalista salentino Pietro  Marti, scomparso nella sua Lecce ormai da otto decenni, Alessandro Laporta, direttore della Biblioteca provinciale  “N. Bernardini” rende atto all’autore che viene colmato un vuoto storiografico atto a rievocare la figura e l’opera di un insegnante, bibliotecario, giornalista, critico d’arte e animatore culturale del Salento tra Otto e Novecento. Pietro Marti, infatti, sulla scorta di una cospicua eredità fatta di libri, di articoli di giornali, di eventi e mostre d’arte, ha lasciato un patrimonio culturale che questo volume attualizza e rivaluta adeguatamente.

Inguscio, come scritto nella presentazione di Laporta, “ ha costruito un piedistallo su cui ora posa tranquilla la statua ideale di Pietro Marti”.

Un volume, edito dalla Fondazione Terra d’Otranto e curato dal suo presidente Marcello Gaballo, che risponde con pienezza  alle finalità delle attività di quell’Ente volte alla tutela, promozione e valorizzazione del patrimonio culturale dell’antica Terra d’Otranto.

La pubblicazione, scandita in relazione ai contenuti in quattro parti, presenta oltre alla bibliografia un indice delle molteplici illustrazioni sapientemente distribuite nel testo e soprattutto una puntuale “Cronotassi bio-bibliografica”, nella quale l’intera vicenda culturale ed umana di Marti è analizzata in sette periodi, che contraddistinguono peculiarità specifiche della sua multiforme attività. In successione, nello studio di Inguscio, le quattro parti del volume sul  “cacciatore di nuvole” (come è definito Marti da Cesare Giulio Viola): l’uomo di cultura, lo storico erudito e biografo, il direttore de “La Voce del Salento”, il cultore d’arte e di archeologia. “La parabola culturale e giornalistica di Pietro Marti, scrive l’autore del volume nell’”aletta” in seconda di copertina, figura di intellettuale poliedrico tra Otto e Novecento, si articolò nell’intera Penisola, spaziando dall’insegnamento al giornalismo, dalla ricerca storica al recupero dei Beni culturali di Terra d’Otranto e di Puglia. Originario di Ruffano (1863), ben presto emigrò a Lecce, dove fondò un ginnasio privato e diresse alcuni giornali di prestigio. Con la pubblicazione di  Origine e fortuna della Coltura salentina balzò all’attenzione nazionale con note di merito del Carducci e una cattedra d’italiano a  Comacchio. Soggiornò a Taranto, amico della famiglia dell’archeologo Luigi Viola, pubblicando testi e fondando alcuni giornali (“Il Salotto”), dirigendo importanti istituzioni scolastiche. Rientrato nel capoluogo leccese (1903), affinò l’attività di conferenziere e polemista, assumendo incarichi istituzionali e la nomina a regio Ispettore ai Monumenti e Scavi (1923-29).

Curò le Biennali d’Arte del 1924, 1926, 1928, fondò la rivista “Fede” (1923), divenuta poi “La Voce del Salento”, e infine assunse l’incarico di direttore della Biblioteca provinciale “N. Bernardini” di Lecce (1928-33), curando un apprezzato catalogo bibliografico”. Non meno degni di nota, nella pubblicazione di Inguscio, la riflessione sulla frequentazione familiare e il debutto giornalistico e letterario su “la Voce” del nipote Vittorio Bodini, poeta di rilevo del Salento, dopo gli studi di Antonio Lucio Giannone, compiuti presso l’Università degli Studi del Salento, che per primo ne aveva messo in giusta luce lo spessore letterario e l’ispirazione poetica.  E come per Pietro Marti, nel lavoro di Inguscio, anche per l’opera di Bodini, del resto, ricorre una periodizzazione, di sette fasi biografico-estetiche, riconosciuta dallo stesso critico Oreste Macrì, suo sodale e amico vicino-distante all’epoca delle adesioni-polemiche nell’assunzione del mito salentino, ma la settima, quella futurista di Bodini, fu certamente quella adolescenziale vissuta da Vittorio a Lecce, con il vecchio nonno Pietro, a cui l’irrequieto poeta aveva dedicato, nel marzo del 1933, tra rotative e le sue prime esperienze poetiche, “La processione delle lampadine”, con l’affettuoso sottotitolo “A Pietro Marti. A mio nonno”.

Anche per questo Pietro Marti registra qualche  merito nel panorama culturale pugliese.

Dei momenti di smarrimento

carrà

di Elio Ria

 

Rifiutando ogni cosa e il fuori, quasi, che esse sottrassero con velata gioia,

mi dispersi nelle parole dei non fatti

attraversando la discesa della Longa…

piombai nella piazza di fuga.

Restarono altri spazi aperti al mio seguito

Punti e angoli di un triangolo

che mi meravigliarono a tal punto

d’accorgermi dell’alta tensione

e dei segnali d’interrogazione

in traccia di anteriorità.

I Voli di Marina Colucci

marina colucci

di Paolo Vincenti

 

Marina Colucci è una giovane artista leccese, forse non  ancora conosciuta quanto meriterebbe. Si occupa di grafica pubblicitaria ma è soprattutto una  brava pittrice. Ha da poco esposto le sue opere nell’ex Convento dei Teatini, nell’ambito della rassegna organizzata dall’Associazione Artemista per “Itinerario rosa 2014”, dal 13 al 17 marzo. Notevole, fra le sue realizzazioni, il ciclo pittorico “china e acquerello”. Alcuni titoli: “Doppio fallo”, “Oltre i Segni”, “Locomotiva Lunare”,  “La Festa” , “I Gondolieri”, “Fuga”.  Un uso sapiente del colore, avvincente la policromia dell’insieme, poco o niente nero, molto verde, marrone,giallo, rosa, blu, rosso. Nella serie delle chine, molti e d’impatto i riferimenti sessuali mischiati ai rimandi astratti delle opere. Un trionfo di luna e stelle, capitelli dalla forma fallica, fiorellini che sembrano coriandoli e fili che si intrecciano a formare gusci di lumache, si confondono insieme, come in “Gaudium Magnum” . Si avverte un bisogno di fuga dalla realtà, dal contingente, attraverso i voli pindarici della fantasia ( penso al quadro”Alla maniera di Pindaro”) , verso un’altra mèta, una destinazione diversa, un passaggio, anche attraverso la vagina, da una vita ad un’altra e, attraverso la stella cometa, ad un altro sistema solare, come in “ Passaggio da un luogo ad un altro”. Ma i suoi falli, i seni, le vagine, sono gioiosi ed anche un po’ giocosi, nessuna morbosità nella reiterazione degli organi sessuali , che rappresentano anzi un inno alla vita e alla libertà dei sensi, quella libertà che, sebbene eterea, aeriforme, impasta la pittura di Marina Colucci in un tutt’uno con la vita (“Libero pensiero” si intitola una di queste opere), conferendole una cifra di velato “maledettismo” che ne fa un’artista sicuramente sui generis, di questi tempi, e piuttosto dirompente . Una tematica dunque molto originale, almeno se sposata con la tecnica utilizzata. Le sfumature, poi, gli effetti cangianti del colore illanguidiscono le atmosfere di questi quadri, rendendole ancora più fiabesche, oniriche, evanescenti.

Un tripudio di festa e musica, gli acquerelli del ciclo “ Vivace orchestra”. Un altro ciclo pittorico degno di nota è quello degli olii e in particolare dei “Clowns”. Nelle loro raffigurazioni il viso è l’elemento centrale che balza all’attenzione dell’osservatore. Un viso molto enigmatico ed espressivo, solcato da rughe profonde cui fanno da contrasto il belletto ed il grosso naso finto tipici della maschera di tutti i clowns,quasi a rendere con drammatica evidenza  la dicotomia profonda fra l’elemento artificiale (il trucco del pagliaccio) e quello reale (la loro faccia così umana). Questi pagliacci però vengono decontestualizzati e raffigurati in ambienti bucolici, fra i fiori e le frasche di una grande campagna dove, a giudicare dalla loro espressione divertita ma anche irriverente,sembra che essi si siano rifugiati dopo aver commesso qualche marachella per nascondersi al mondo e scampare all’implacabile punizione che la società moralista e bacchettona comminerà loro. Oppure questi pagliacci suonano degli strumenti musicali o fanno colazione bevendo un caffè e sempre la loro biacca con le sue crepe e i capelli bianchi a testimoniare meraviglia ma al tempo stesso disincanto. Questi clowns mi fanno pensare al film omonimo di Federico Fellini, un’opera nostalgica e commovente del grande regista italiano, datata 1971. E “felliniane” mi sentirei di definire anche queste pitture per l’uso delle ardite cromie e un certo barocchismo che  l’autrice conferisce loro. Hanno la poesia della tristezza i pagliacci  di Marina Colucci,  e sebbene l’autrice, seguendo l’invito rivolto da Leoncavallo nella sua celebre opera lirica,li faccia ridere, o almeno sorridere (mentre dietro la maschera l’attore piange di dolore), è innegabile che essi rappresentino nell’immaginario collettivo una sorta di spauracchio in seguito a quelle visioni di efferatezza e malvagità che una certa filmografia horror ha contribuito a far loro ispirare. O forse questi pagliacci della Colucci sono così disperatamente infelici che non riescono nemmeno a piangere, come nelle “Opinioni di un clown” di Heinrich Boll.

Gli olii della Colucci sono esposti presso l’Hotel Belvedere di Torre dell’Orso mentre gli acquerelli, piccoli in confezione regalo, sono distribuiti nelle librerie e in vari punti vendita del Salento.

Nella sua produzione si ascrivono anche diversi disegni realizzati con varie tecniche, come matita, sanguigna e pennino con inchiostro di china, che impreziosiscono le copertine di libri e pubblicazioni di colleghi e amici artisti. Marina infatti vanta una lunga collaborazione con lo scrittore Mauro Ragosta e con il leccese Salotto Culturale Samà.

La cosa più difficile per un artista è guadagnare una propria cifra stilistica, quel quid che è personale e rende riconoscibili, arrivare insomma ad essere sé stessi. Credo che Marina Colucci sia sulla buona strada per arrivare ad essere Marina Colucci.

Mintuare

di Armando Polito

La nostra vita è fatta anche di stranezze e in fondo è un bene, altrimenti sarebbe una noia … mortale. A questa caratteristica non poteva sottrarsi il nostro linguaggio che, forse con presunzione tutta umana, è considerato la linea di demarcazione tra noi e le cosiddette bestie.

Perciò stranezze, reali o presunte,  presenta pure ogni dialetto, corroborando, in chi lo considera superficialmente, l’antico e mai domo pregiudizio della sua inferiorità rispetto alla lingua nazionale, come se non rispettare una regola o una consuetudine fosse a priori indice di decadimento di valore.

È successo così che forme considerate auliche, letterarie e per ciò stesso nobili  comparissero ogni tanto inconsapevolmente nell’eloquio dei nostri nonni e dei nostri genitori ed è già un miracolo se di questo  rimane il ricordo nei figli, come me, ahimè, ormai avanti negli anni, un ricordo già spento nei nipoti che, senza riuscire ad articolare un discorso di senso compiuto in corretto italiano, raggiungono i loro più felici esiti espressivi con un’accozzaglia di termini italiani sì, ma impropri e intervallati in modo sempre più asfissianti da locuzioni straniere, prevalentemente inglesi, sintomo di un’idiota perdita di identità, nell’illusione di acquistarne una nuova e, idiozia delle idiozie, più prestigiosa.

Eccomi così a parlare di mintuare usato  come sinonimo di nominare qualcuno, ricordarne il nome. La voce ha il suo esatto corrispondente nell’italiano mentovare, di uso letterario, dal francese antico (oggi si usa ancora, ma regionalmente, il composto ramentevoir) mentevoir, composto a sua volta dal latino mente habere=possedere grazie alla mente (e non avere in mente che diluisce fin quasi ad annullarla la pregnanza grammaticale e semantica della locuzione originale).

Sicuramente mintuare oggi non fa parte del residuo minimo lessico dialettale, ampiamente sopraffatto da quello gergale, del giovane salentino e, forse anche per questo egli, se per sua disgrazia dovesse incontrare in una delle sue sporadiche letture, un mentovare, non potrà neppure sfruttare quel poco di intuito che gli è rimasto (anche l’intuito se non allenato muore …) e chissà che significato gli attribuirà, senza sentire minimamente il bisogno, pur avendo in tasca strumenti tecnologici che gli consentirebbero di farlo in tempo reale, di operare una rapida ricerca.

 

Ricette salentine con i ceci

ceci1

di Massimo Vaglio

 

Ceci e grano

Ingr. : 350 g di ceci, 150 g di grano stompato (perlato), una grossa cipolla, 4-5 pomodorini da serbo, olio di frantoio q.b. , una costa di sedano, 2 foglie d’alloro, sale.

Dopo aver tenuto i ceci a bagno per una nottata, metteli a cuocere in una pignatta. Dopo averli schiumati ripetutamente, unite il sedano, i pomodorini spellati, le foglie d’alloro e l’olio e portateli a cottura aggiustando man mano di sale. Contemporaneamente lessate il grano perlato. A questo punto, tritate finemente la cipolla, ponetela in una casseruola con un filo d’olio sul fondo e fatela rosolare dolcemente, quindi unite i ceci scolati e il grano e fate insaporire il tutto rimestando bene. A questo punto unite il brodo di cottura dei ceci e completate la minestra con dei dadini di pane di grano duro, fritti o bruscati.

 

 

Sancta Maria de Nerito. Arte e devozione nella Cattedrale di Nardò (1413-2013)

presentazione del volume

Sancta Maria de Nerito.

Arte e devozione nella Cattedrale di Nardò (1413-2013)

cop neerito bassa  

Sarà presentato venerdì 23 maggio 2014, alle ore 19.30 presso la Cattedrale di Nardò, il volume celebrativo del secentenario della Diocesi, dal titolo Sancta Maria de Nerito. Arte e devozione nella Cattedrale di Nardò (1413-2013).

Il volume, edito da Mario Congedo Editore e inserito nella Collana dei Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò-Gallipoli, è curato da Marcello Gaballo, Daniela De Lorenzis e Paolo Giuri.

L’opera, presentata ai lettori dal Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, offre al lettore un excursus storico-artistico attraverso l’analisi e lo studio dell’ingente patrimonio d’arte conservato nella Cattedrale di Nardò.

L’antico edificio, grazie al contributo di docenti e ricercatori universitari, oltre che di studiosi di varia provenienza ed estrazione, è stato analizzato in tutte le fasi storico-artistiche, dall’età medievale al restauro ottocentesco, in virtù del necessario concorso di molteplici e specifiche discipline, essendo il monumento un eccezionale palinsesto architettonico, oltre che un contenitore di oggetti d’arte di inestimabile valore, molti dei quali qui studiati e offerti al pubblico per la prima volta dopo i recenti restauri che hanno interessato prevalentemente il patrimonio pittorico.

È stato così possibile formulare nuovi studi e analisi artistiche e stilistiche relativamente agli affreschi (dal XIII al XVI secolo) a all’ingente corpus dei dipinti di estrazione napoletana, commissionati in gran parte nella prima metà del Settecento dal vescovo Antonio Sanfelice. Tra le opere pittoriche si segnalano, per rilevanza, le ante dipinte dell’armadio del Tesoro il cui restauro si è appena concluso, restituendo una tra le più pregevoli opere attribuite alla scuola di Francesco Solimena.

Notevoli sono anche i contributi relativi allo studio delle fonti documentarie, tra le quali la Bolla dell’11 gennaio 1413, e dell’arredo sacro, finora mai o scarsamente indagato: dal Crocefisso ligneo, agli interventi settecenteschi apportati da Ferdinando Sanfelice, fino alle compagini musive otto-novecentesche che decorano le cappelle e le stanze parrocchiali.

Frutto, dunque, di una fortunata convergenza di circostanze, i contributi raccolti nel presente volume passano in rassegna sei secoli di storia della Cattedrale di Nardò mediante un capillare scavo archivistico e un attento studio delle fonti documentarie, storiche, letterarie e iconografiche. Tale studio rappresenta, pertanto, una scelta motivata dalla necessità di incoraggiare la valorizzazione, la salvaguardia e la trasmissione del ricco patrimonio artistico, culturale, simbolico e materiale della Ecclesia Mater neritina non solo a fini celebrativi, ma anche e soprattutto per preservare l’integrità e l’identità del tempio, assurto a chiesa regia con decreto del 12 ottobre 1803, dichiarato monumento nazionale il 20 agosto 1879, ed elevato dalla Santa Sede a dignità di Basilica minore il 2 giugno 1980.

 

Saggio V. Cazzato

Piano dell’opera

Card. Gianfranco Ravasi, Prefazione

Mons. Fernando Filograna

Don Giuliano Santantonio

Introduzione

Armando Polito, 11 gennaio 1413 – 11 gennaio 2013. Nardò celebra il suo seicentesimo anniversario

Maurizio Carlo Alberto Gorra, Seicento anni di stemmi: la cronotassi araldica dei presuli neritini

 

PARTE I. L’ETÀ MEDIEVALE

 

Mariella Nuzzo, La Cattedrale di Nardò: dall’origine all’età angioina

Patrizia Durante, Edizioni di monodia liturgica e tradizione manoscritta nella Biblioteca Diocesana di Nardò “Antonio

Sanfelice”

Giuseppe Castelluccio, Il Crocifisso ligneo della Cattedrale di Nardò

Maria Rosaria Marchionibus, La Cattedrale di Nardò e la sua decorazione pittorica

Marcello Gaballo-Armando Polito, Prima attestazione conosciuta del volgare a Nardò

Manuela De Giorgi, La Dormitio Virginis “sculpto opere”, ovvero il rilievo erratico dalla Cattedrale: diario di un viaggio ancora in corso

 

PARTE II. L’ETÀ MODERNA

 

Giovanni De Cupertinis, Ferdinando Sanfelice e il restauro della Cattedrale di Nardò

Mario Cazzato, Barocco in Cattedrale. Ovvero il declino della “maniera neritina”

Maura Lucia Sorrone, Scultura lignea e arredi liturgici in Cattedrale (1590-1734): artisti e committenze

Stefano De Mieri, Pittori del Sei-Settecento in Cattedrale: Francesco Solimena “ritrovato” e gli altri (Lucatelli, De Matteis e Olivieri)

Maria Teresa Tancredi, Pitture sei-settecentesche divise tra l’Episcopio e il Seminario vescovile di Nardò

Paolo Peri, Paramenti liturgici della Cattedrale di Nardò: oro, argento e seta, simboli e sacralità

 

PARTE III. L’ETÀ CONTEMPORANEA

 

Paolo Giuri, Il “ripristino” ottocentesco della Cattedrale di Nardò

Elsa Martinelli, “Per la gloria del Signore e della Sua Santa Casa”: l’organo Inzoli (1897) della Cattedrale di Nardò

Daniela De Lorenzis, Le compagini musive otto-novecentesche della Cattedrale di Nardò (rilievi di Fabrizio Suppressa)

Emilio Panarese, Gli arredi lignei della Scuola d’Arte di Maglie nella Cattedrale di Nardò

 

APPENDICE DOCUMENTARIA

Armando Polito, Nardò, la diocesi e i suoi vescovi riportati da Ferdinando Ughelli nell’ Italia Sacra

 

FONTI MANOSCRITTE E BIBLIOGRAFIA (a cura di Daniela De Lorenzis e Paolo Giuri)

Borgagne. Borgoinfesta?

 

Borgagne. Ph Raffaele Puce
Borgagne. Ph Raffaele Puce

di Wilma Vedruccio

 

Un sogno ad occhi aperti, di Angelo Pellegrino, diventato un sogno collettivo.

Una scommessa che ogni anno si rilancia sul tavolo da gioco.

Un contagio, se lo sguardo vuol essere negativo.

Una clessidra, dove la polvere d’oro dei giorni di un’intera annata passa dalla strettoia dei giorni di festa e s’ accumula sul fondo quale capitale d’energia per l’anno che verrà quando la clessidra sarà capovolta.

Ma i giorni della festa !!

Rimane il piacevole stordimento della musica ascoltata, una valanga di foto che vorrebbero fermar quei giorni, aneddoti da raccontare.

Resta il gusto di ciò che si è mangiato, ma la ricetta sfugge, bisognerà attendere il prossimo anno per riassaporare piatti che arrivano da tempi di una volta, fino alle nostre moderne papille gustative.

Resta la frenesia della danza nei muscoli e nell’animo sia di chi ha provato la gioia e lo stordimento del ballo collettivo, sia di chi ha solo guardato la folla palpitante pulsare al ritmo della pizzica e di altra musica mediterranea che dalle tarantelle si è lasciata contaminare.

Rimane, in chi è avanti negli anni, la speranza di poter esserci ancora in questa dolce follia collettiva.

Resta l’orgoglio di aver vissuto giorni da città d’arte, respirando la polvere sollevata dagli scalpellini che intagliano la pietra e visitando mostre con istallazioni da provare a capire e a spiegare a chi non c’era.

Di quei giorni rimane il gruzzoletto delle monetine della Solidarietà che assume dignità di ricchezza nella lontana Africa del Benin, nell’orfanotrofio di Ouenou, dove sarà speso per la sopravvivenza.

Alla Comunità del Borgo resta la consapevolezza che si può smovere la crosta dei secoli se si mettono insieme le idee, i progetti, le energie, da condividere per avere tutti insieme un più ampio respiro.

Infine  Borgoinfesta è…la festa che apre le porte alla stagione estiva.

 

Borgagne e la Notte delle cento chitarre

borgoinfest

BORGOINFESTA 2014 – X edizione

LA NOTTE DELLE CENTO CHITARRE – II edizione

Progetto a cura di Luca Morino, leader dei Mau Mau

 Domenica 1 giugno 2014

Borgagne (Le)

info@borgoinfesta.it

www.borgoinfesta.it 

a cura di Viviana Leo

 

Borgoinfesta recluta cento chitarristi. Dopo la partecipazione di musicisti registrata lo scorso anno, la “Notte delle cento chitarre” torna per la seconda edizione domenica 1 giugno a Borgagne (Le) nell’ambito di Borgoinfesta, che quest’anno festeggia il suo decimo compleanno con una programmazione imbastita intorno al tema “Essere Comunità”.

La sfida è creare grande corteo musicante di strumenti classici o elettrici, composto da musicisti professionisti, appassionati e dilettanti, per suonare insieme, in un’unica e potente vibrazione di corde e percussioni, un pezzo “aperto” pensato dal leader dei Mau Mau Luca Morino, ideatore del progetto, che si arricchisce anche delle improvvisazioni dei cantanti che hanno risposto al richiamo.

 

ph Raffaele Puce
ph Raffaele Puce

“La prima novità di quest’anno”, racconta Luca Morino, “è che il corteo musicale delle 100 Chitarre sarà itinerante grazie alla presenza di un “trattore musicale”, cioè una versione nostrana di quelli che al carnevale di Rio sono chiamati “trio eletrico”, e toccherà alcuni angoli di Borgagne prima di arrivare in piazza Sant’Antonio. L’altra novità è che a tutti i partecipanti sarà regalata una bellissima t-shirt pensata e disegnata per la Notte delle 100 Chitarre”

Borgoinfesta 9

La performance –cui farà seguito il concerto di Mario Incudine, Kaballà e Faisal Taher, prima nazionale organizzata nell’ambito della Rete dei Festival “Mediterranea Network” grazie al sostegno di Puglia Sounds- si annuncia un’esperienza unica, presentata in esclusiva a Borgagne (Le) in un contesto molto sensibile ai temi della condivisione e partecipazione, e che quest’anno entra in perfetta sintonia con il tema di Borgoinfesta “Essere Comunità”.

I cento musicisti suoneranno all’unisono, sotto la direzione di Luca Morino che “chiamerà” i pieni, i silenzi e le armonie da eseguire con i mezzi classici dell’arte di strada, il megafono e il fischietto. Il risultato si annuncia esplosivo ma non lascerà spazio a protagonismi e virtuosismi: pubblico e musicisti saranno sullo stesso piano, entrambi legati da un grande coinvolgimento emotivo e da una spassionata voglia di divertirsi giocando con la tradizione aggiornata al 2014.

 

Per info e adesioni scrivere a info@borgoinfesta.it o consultare la pagina fb “La notte delle 100 chitarre”.

Dal Ciolo alle grotte Cipolliane, uno stupendo e difficile sentiero

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di Gianni Ferraris

 

Dal ponte del Ciolo si vede il mare… là sotto. Sarebbe bello saper volare, pensavo. Chissà perché. Un falchetto in cielo. I turisti arriveranno solo fra qualche mese in massa, ora siamo pochi laggiù, quasi alla fine della terra, pochi e fortunati, potremo dire a chi arriverà più avanti che noi quei luoghi li abbiamo visti prima che l’improvvisazione creativa di reticolatori impacchettasse tutta la montagna con reti di metallo.

Qualcuno dice che franerà, altri dicono che si può fare di meglio che non deturpare il paesaggio e la cruda ruvidezza di quelle rocce. Vedremo, sapremo. TAP di qua, reti di là, un Salento mercificato. L’amico Boero lamenta sulla sua pagina facebook la follia avvelenatrice di terreni di chi utilizza diserbanti sotto gli ulivi come se piovesse e poi ci scrive “zona avvelenata”. Forse quel proprietario di ulivi pensa di essere intelligente, secondo me è solo un modo per mettere in piazza (nel campo) un cartello che potremmo tradurre “vedi come sono scemo, avveleno tutto e gioisco”.

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Dal Ciolo alle grotte Cipolliane, si percorre uno stupendo e difficile sentiero fra le rocce a picco sul mare. Rocce crude, macchia mediterranea, il mare là sotto, piatto come una tavola… come un pensiero leggero.  Me lo aveva fatto conoscere molto tempo fa l’amico Marco Cavalera, lui e la sua associazione amano e studiano il territorio, ragazzi che hanno in comune la passione per l’archeologia e la consapevolezza di essere lasciati da parte dal mondo del lavoro. Marco prende in mano un sasso e te ne racconta la vita e la storia. Ascoltando si scopre che era lì da infinito tempo, e che non è una banale scheggia di roccia ma probabilmente fu utensile. Mi vergogno un po’ a dire che per me è solo un sasso. Non dico. Ora però ci andiamo senza guida e quando vedo un sasso appuntito almeno un dubbio mi assale, ma questo a Marco non lo dirò.

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I ragazzi che non lavorano, già. In Italia, lo diceva un noto ministro, la cultura non si mangia, di cultura non si vive. Neppure della consapevolezza delle nostre radici. E il messaggio è passato nel sentire di molti. Una fotografia denuncia come, proprio vicino alle grotte Cipolliane, un luogo che reca tracce di un passato remoto fatto di uomini e donne, orsi e cervi, che spiega come prima del mare ci fosse brughiera,  dove la sabbia fossile ancora si vede, si può toccare, un luogo dove la natura è emozione e il pensiero vola in un silenzio irreale a cui non siamo più abituati e che ci stupisce; proprio lì, in quel paesaggio che dovrebbe essere patrimonio dell’umanità, il martedi dopo Pasqua i resti della “civiltà” si vedevano, si toccavano, si odoravano. Un tempo ebbi modo di scrivere parlando di ragazzi belli e aitanti, che dicevano, in spiaggia, di tesi di laurea ed esami : “i cretini di oggi saranno i dirigenti di domani”. Se ne erano andati lasciando sulla sabbia bottiglie di plastica e bicchieri. Alle Cipolliane invece i cretini hanno lasciato resti del picnic della pasquetta.

Qualcuno dice di maleducazione, secondo me sono proprio “bizzarri”, giusto per usare un eufemismo, nel parlar comune avrei detto coglioni, ma qui non si dice. Ragazzi probabilmente di buone famiglie dei paesi vicini, come dice qualcuno che ha visto, che hanno fatto scempio del territorio.  Quelli sono i loro luoghi, probabilmente a casa loro pranzando gettano a terra pane avanzato, resti di insalata, ossa di pollo e poi calpestano il tutto, chissà.

Qualcuno ha poi pulito, resta a perenne ricordo dell’imbecillità  un perimetro per fare il fuoco e grigliate, altra cosa proibita dove c’è macchia mediterranea e dove gli incendi sono all’ordine del giorno.

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Ho respirato mare, aria, storia, terra e profumo di resine e fiori alle Cipolliane. Il sentiero non è agevole, ancora chi arriva lì quando non è pasquetta e c’è l’obbligo di deturpare l’ambiente, lo fa con fatica, amore e rispetto per quel che vede. Tutti tranne qualcuno che pensa di lasciare i segni del suo passaggio proprio in mezzo al sentierino stretto, che bisogno aveva quell’imbecille di farla proprio in mezzo al sentiero senza sentire l’esigenza di trovare almeno un angolo nascosto?  La puzza si mischiava al profumo di primavera.  Sicuramente i ragazzi della Pasquetta lamentavano il fatto di dover arrivare fin lì a piedi, e pensavano, forse, che meglio sarebbe poter asfaltare per arrivarci con gli scooter o il SUV. “Intanto non c’è neppure più un orso”.

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Libri. Maria Rosaria Manieri in “Fraternità”

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di Francesco Greco

 

“Fraternité” vò cercando, ma anche égalité e liberté

 

Sosteneva Pertini che l’uguaglianza senza la libertà non è una conquista auspicabile, e comunque un uomo del suo spessore politico e culturale ne sarebbe rimasto indifferente. Ma come avrebbe reagito e cosa avrebbe detto se a essere messe in discussione fossero allo stesso tempo le idee di libertà, uguaglianza e fraternità? Concetti antichissimi, imposti da mille rivoluzioni e oggi svuotati semanticamente nel contesto di una deriva culturale e politica, ma anche etica, dell’Occidente? Ancor più grave perché non legittimata e quindi non contrastata, che sparge barbarie negli interstizi più nascosti della società civile?

La globalizzazione ispirata dal liberismo della foresta, da ferriere, ha inaridito le conquiste individuali e collettive dei popoli attraverso le rivoluzioni, da Spartaco a quella francese e poi russa, sino al suggello sottinteso della nostra Resistenza. Valori che erano il collante delle moderne società sono stati relativizzati. Il potere è nelle mani di pochi, di oligarchie e satrapie d’ogni sorta, in primis quelle bancarie. La comunicazione poi, concentrata nelle mani di pochi, ha svuotato l’etimo della “liberté”, riducendoci a cloni a cui è servita la stessa sbobba fatta di menzogne e verità addomesticate: sociologia da bar sport. La democrazia è così svuotata di senso e i cittadini ectoplasmi privi di potere reale vittime di un darwinismo sociale in un canovaccio atomizzato, “l’età del vuoto segnata del crepuscolo del dovere”, in cui prevale un soggettivismo arido che fa il gioco del nichilismo.

Collegate ontologicamente fra loro – non per caso gridate dai parigini sulle barricate – anche il termine “fraternité” (“termine in disuso nel lessico pubblico contemporaneo”) ha subìto un processo relativizzante, almeno nell’accezione laica, poiché il suo significato “giudaico-cristiano”, al contrario, non ha ceduto l’intimità del suo etimo alla secolarizzazione dominante (“…ethos della Chiesa, quale speranza di una nuova religione civile”). Sull’idea di fraternità in un momento storico così ambiguo e confuso, di transizione, in cui i vecchi idoli e le figure intrise di autorità finiscono nella polvere ma non se ne issano di nuove, e mentre la politica non sa più “leggere” la società, ed è lentamente disfatta e sopraffatta dai populismi, le intolleranze, i razzismi, attingendo a un’ampia bibliografia (Habermas, Bauman, Marramao, Ignatieff), riflette Maria Rosaria Manieri in “Fraternità” (rilettura civile di un’idea che può cambiare il mondo), Marsilio, Venezia 2013, pp. 156, € 15.00 (collana “Tempi”).

La Manieri ha un robusto background alle spalle: ha militato nel Psi ed è stata senatrice sino al 2006. E’ professore associato all’Università del Salento, ha firmato ricerche e saggi critici sull’umanesimo, il rapporto fra politica e morale, la donna e la famiglia nella filosofia moderna. Intensa la prefazione di Giuseppe Vacca, che mette molta carne al fuoco parlando di “principio dimenticato” (…) “La ricostruzione del principio politico europeo condotta in maniera brillante in questo saggio conferma che le uniche forme in cui il principio laico di fraternità si sia incarnato sono state il concetto kantiano di giustizia e quello socialista di solidarietà (…) Il tema è dunque squisitamente politico e condivido l’idea di ripartire dalla critica del modo di produzione capitalistico che costituisce non solo la lezione più feconda di Marx, ma anche l’urgenza storica del nostro tempo”.

E dunque, per la saggista nata a Nardò (Le) “nel panorama mutato e mutevole del mondo, va emergendo una nuova, quantunque antica e del tutto inedita e inesplorata, richiesta di fraternità (…) nuovi legami fra cittadini, sessi e generazioni, nel segno di una nuova sintesi storica fra libertà e uguaglianza”.

La modernità ci ha cacciati nel vicolo cieco di un paradosso. La saggista cita Peter Singer: “Oggi le persone sono legate un tempo inimmaginabili”. E Zygmunt Bauman (il teorico della modernità liquida): “…siamo già, e lo rimarremo a tempo indefinito, oggettivamente responsabili gli uni degli altri. Ma ci sono pochi segnali di una disponibilità, da parte di noi che condividiamo il pianeta, ad assumerci una responsabilità soggettiva per questa nostra responsabilità oggettiva”. Come dire: per ritrovare il filo della civiltà, sconfiggere il “vuoto etico”, ridare corpo al termine fraternità è un passaggio obbligato. Non ci sono altre opzioni.

”Non di amore – riflette la Manieri – ha dunque bisogno la società moderna, ma di organizzazione sotto principi razionali, universalmente validi, tali da consentire la formazione di un corpo sociale veramente comune”. La nostra sopravvivenza è legata a questa rivoluzione, una sfida epocale: ne saremo capaci?

Fammi una domanda che esco fuori come un gigante …

di Armando Polito

fotogramma tratto ed adattato da "Crozza nel paese delle meraviglie"
fotogramma tratto ed adattato da “Crozza nel paese delle meraviglie”

Questa volta l’ispirazione a scrivere questo post mi è stata data da Maurizio Crozza e dalla sua esilarante imitazione del senatore Antonio Razzi. Fingo, perciò, di essere pseudo-Crozza/pseudo-Razzi/Polito e per iniziare m’invento pure la domanda che lo pseudo Andrea Zalone (la validissima spalla del comico), che per comodità chiamerò Arnaldo,  ha appena finito di rivolgermi con l’improbabile intento di venire incontro al mio desiderio espresso nel titolo:

ARNALDO  – Professore Polito, c’è chi collega Santa Cesarea Terme con la leggenda dei Giganti. Qual è la sua opinione? –

POLITO – Non credo, anche perché i Giganti negli anni ’60 sono stati veramente leggendari, ma però erano già molto più giovani di Santa Cesarea che mi ricordo ho letto sul calendario quando avevo tre anni, anche perché sono stato un bambino-prodigio –

ARNALDO – Allora, professore, non conosce quanto ci ha tramandato Strabone nei paragrafi 3-5 del sesto libro della sua Geografia? –

POLITO – Strabono è bello, anzi bellissimo, anche perché lo dice lo stesso nome … –

(a questo punto tira fuori dalla tasca una bottiglietta dalla quale ingurgita tre o quattro sorsi per poi rimettersela in tasca; assunta quasi all’improvviso un’espressione ispirata, continua)

– … Caro mio, mo ti dico le parole esatte di Strabone e te le traduco pure: Περίπλους δ᾽ ἐκ Τάραντός ἐστιν εἰς Βρεντέσιον μέχρι μὲν Βάριδος πολίχνης ἑξακόσιοι στάδιοι: καλοῦσι δὲ Βᾶριν οἱ νῦν Ὀυερητόν, κεῖται δ᾽ ἐπὶ τοῖς ἄκροις τῆς Σαλεντίνης, καὶ τὸ πολὺ πεζῇ μᾶλλον ἢ κατὰ πλοῦν εἰς αὐτὴν ἐκ τοῦ Τάραντος εὐμαρὴς ἡ ἄφιξίς ἐστιν. Ἔνθεν εἰς τὰ Λευκὰ στάδιοι ὀγδοήκοντα, πολίχνιον καὶ τοῦτο, ἐν ᾧ δείκνυται πηγὴ δυσώδους ὕδατος. Μυθεύουσι δ᾽ ὅτι τοὺς περιλειφθέντας τῶν γιγάντων ἐν τῇ  κατὰ Καμπανίαν Φλέγρᾳ Λευτερνίους καλουμένους Ἡρακλῆς ἐξελάσε., καταφυγόντες δὲ δεῦρο ὑπὸ γῆς περισταλεῖεν, ἐκ δὲ ἰχώρων τοιοῦτον ἴσχοι ῥεῦμα ἡ πηγή· διὰ τοῦτο δὲ καὶ τὴν παραλίαν ταύτην Λευτερνίαν προσαγορεύουσιν.

Anche perché questa è la traduzione: Da Taranto a Brindisi il periplo è di 600 stadi fino alla cittadina di Baris; oggi la chiamano Vereto ed è sita sulla punta della regione salentina e da Taranto il tragitto è più agevole per terra che per mare. Ci sono 80 stadi fino a Leuca, anch’essa piccola città, nella quale si mostra una fonte di acqua puzzolente. Raccontano che Ercole cacciò quelli dei Giganti chiamati Leuternii catturati durante la battaglia di Flegra in Campania. Rifugiatisi qui sarebbero scomparsi sottoterra e dal loro sangue putrefatto si sarebbe originata siffatta fonte; per questo chiamano Leuternia questo litorale.

Come vedi, amico mio, l’indicazione delle distanze è precisissima e proprio questo dettaglio colloca la fonte, come lo stesso Strabone dice, a Leuca e non in un posto identificabile con Santa Cesarea –

ARNALDO (decisamente sorpreso, anzi trasecolante) – Strabone visse tra il I secolo a. C. e il I secolo d. C.; su questa storia dei Giganti abbiamo qualche altra testimonianza, magari di un secolo diverso? –

POLITO -Amico, perché mi fai questa domanda? Ti ho visto, sai, che trasecolavi … –

ARNALDO – Pare che ne abbia parlato pure lo Pseudo-Aristotele nel paragrafo 97 del De mirabilibus auscultationibus, opera databile fra il I e il II secolo d. C. –

POLITO – Questo non credo, anche perché non ho mai sentito parlare di Tele Aristo. Però non tutto è perduto … (estrae la bottiglietta dalla tasca, tre sorsi, la ripone e riprende) … Allora in greco fa così: Περὶ τὴν ἄκραν τὴν Ἰαπυγίαν φασὶν ἔκ τινος τόπου, ἐν ᾧ συνήβη γενέσθαι, ὡς μυθολογοῦσιν, Ἡρακλεῖ πρὸς Γίγαντας μάχην, ῥεῖν ἰχῶρα πολὺv καὶ τοιοῦτον ὥστε διὰ τὸ βάρος τῆς ὀσμῆς ἄπλουν εἶναι τὴν κατὰ τὸν τόπον θάλασσα.

Eccoti la traduzione: Dicono che presso il capo iapigio da un luogo in cui, come raccontano, avvenne che ci fosse la battaglia di Eracle contro i Giganti, scorre molto sangue putrefatto e tale che per l’intensità del fetore il mare è innavigabile lungo quel tratto –

ARNALDO (Quasi allibito) – La testimonianza di Strabone, però, essendo più antica, dovrebbe valere di più di quella dello Pseudo-Aristotele –

POLITO – Non credo, anche perché stavo pensando che Tele Aristo non si vede forse perché non è passata in tempo al digitale terrestre; fammi pensare … (solito intervento della bottiglietta, ormai agli sgoccioli) … sì, infatti, anche se oggi nella vicinanze di Leuca non c’è nessuna fonte sulfurea non è detto che non ci sia stata in passato. Infatti Giorgio Agricola in De la generatione delle cose che sotto la terra, s. n. 1549, s. p., scrive: In Calabria medesimamente presso à Leuca è un fonte, che puzza: e i poeti hanno favoleggiato, e detto, che egli nasca da la marcia e putrefattione de’ giganti Leuternii: e Giuseppe Maria Alfano a pag. 119 di Istorica descrizione del Regno di Napoli, Manfredi, Napoli, 1748 scrive: In tempo di Carlo Magno nell’anno 966, fra le tante incursioni di Mori, e barbari cadde quest’antica Città di Leuca, in cui vi era una fonte d’acqua sulfurea bollente –

ARNALDO (in preda ad una crisi isterica) – Professore, non so che dire: i nostri ruoli sembrano invertiti … –

POLITO (con la mano sulla tasca, quasi a cercare un qualche aiuto nella bottiglietta ormai vuota) – Non credo, anche perché invertito è bello; infatti quando stavo in Svizzera comandavo a degli operai che erano uomini sessuali e non mi hanno mai dato fastidio. Sai che ti dico, caro amico? Fatti una fonte tutta tua di lambrusco e scolatene cinque litri prima di farmi le domande. E mo, come mi dice mia moglie quando devo comprare il brillantante per la lavastoviglie, FINISH! –

Riflessioni in libertà di un volitivo

mare

di Rocco Boccadamo

 

Sin da quando ero ragazzo, nel  mio intimo, ha sempre albergato, con impulsi composti ma nitidi, un piccolo e  insieme speciale sentimento: il sano orgoglio dell’italianità, dell’appartenenza  – sia pure a guisa di granello piccolissimo – al decantato, ammirato e stimato “  popolo di santi, navigatori e poeti”.

Per di più, a prescindere  dall’effetto come anzi riversatosi sulla mia persona, trovo bello sottolineare  che siffatta lusinghiera reputazione goduta dalla gente del vecchio stivale si è  perpetuata nell’arco di secoli, grazie anche alle implementazioni che man mano  sono arrivate a conquistarsi un posto a fianco delle emerite realtà originarie:  si pensi alla moda, e al “fai da te”in genere, con etichetta  italiana.

Non che il vivere quotidiano  nel nostro paese sia stato dispensato da problemi, disagi, sacrifici e limiti;  tutt’altro, di sicuro nessun paradiso in terra.

Però, l’impronta delle qualità,  delle eccellenze, delle doti di spicco verso cui si volgevano gli altri popoli,  quasi a volersi specchiare, hanno per lunghissima pezza costituito, nella  penisola, una solida e sana pietra miliare per le coscienze, le azioni e i  comportamenti concreti dei più.

Purtroppo, come è cambiato, e  non da adesso, lo scenario che ci circonda!

Al punto, che non sembra  affatto sintomo di qualunquismo affermare che lo scadimento dei costumi trovasi  proprio alla portata degli occhi di tutti.

Lontana, dunque, anni luce la  terra di “santi eccetera”, il giorno d’oggi il Bel Paese presenta sul  palcoscenico del mondo prevalentemente un cast di “divi”, di cui, davvero, non  v’è chi non avrebbe fatto volentieri a meno: faccendieri intriganti, maneggioni  senza scrupoli, finanzieri, imprenditori e dirigenti che fabbricano carte false  e rubano, controllori che non vigilano e forse sono collusi, autorità e politici  che latitano quando, addirittura, non vanno a braccetto con coloro che si  macchiano in prima persona di reati.

E, schiacciata, danneggiata e  resa povera dal grande circo di scellerati impuniti, ecco un’autentica marea di  cittadini ignavi e sprovveduti, ai quali chissà se sarà mai resa giustizia e se  verranno rifusi, in tutto o in parte, i danni.

Ci si soffermi per un attimo,  ad esempio, sulla clamorosa vicenda, proprio da prima fila e autentico caso di  scuola, del noto colosso italiano del latte o di Parma: se in tanti hanno  imbrogliato il globo intero sottraendo o distruggendo miliardi, falsificando  documenti e bilanci e così via discorrendo, come sarà stato il comportamento dei  medesimi a proposito della garanzia della qualità e della salubrità dei prodotti  alimentari recanti il famoso marchio, di cui, su incalcolabile scala, ci  nutriamo? Possiamo stare tranquilli? Le autorità competenti hanno compiuto e  predispongono puntualmente i controlli del caso per rassicurarci?

Oltre che per via delle  suddette specifiche note dolenti, provo un senso di rammarico nel constatare che  ormai il mio Paese è caratterizzato da frequenti scioperi e/o discese in piazza:  ogni volta, una singola categoria, sia pure sotto la bandiera della  rivendicazione di propri legittimi diritti, danneggia vistosamente, spesso  irrimediabilmente, molteplici, se non tutte le altre, categorie di cittadini.

Un’immane spirale viziosa,  un’inconcepibile catena di controsensi.

Per non parlare, infine,  dell’imo assoluto in cui risultano precipitati finanche valori e principi  elementari, naturali e fondamentali.

A questo punto, che aggiungere?  Semplicemente auspicare che il Padreterno e/o altre divinità poste in alto ci  salvaguardino dagli “scivoloni irreversibili “ che incombono e intervengano  nella maniera più consona per rimettere tutti sulla retta  carreggiata.

Le Verdi Stanze. I giardini del Salento in mostra

giardino Masseria Appidè
giardino Masseria Appidè

 

 

a cura di Valeria Dell’Atti

Ogni giardino è affidato ad una guida specializzata, che porterà il visitatore a scoprirne gli aspetti progettuali, storici, botanici. In alcuni casi saranno gli stessi proprietari a svelarne i segreti e le cure che ne conservano lo splendore. Anche quest’anno, aderiscono con entusiasmo, gli allievi del prestigioso e storico Istituto Tecnico Agrario Presta – Columella di Lecce.

Gli scenari e le ambientazioni sono varie: giardini in antiche cave,  giardini “di delizia”, formali o “all’inglese”, giardini ottocenteschi, giardini di statue, boschetti di lecci e di querce e, all’interno di uno stesso giardino,  molteplici i temi e le sovrapposizioni di stili.

A Lecce sarà possibile visitare il giardino di Villa Carrelli (Reale) e la Villa comunale. Nella Valle della Cupa, i giardini di Villa De Giorgi, di Villa Carrelli – Palombi e di Casina Andretta. Per il primo anno, il circuito di visita ricomprende il territorio di Nardò, con la Villa comunale, giardino storico di pertinenza del Castello, la Villa Saetta in località Cenate, la Masseria dell’Alto di Portoselvaggio e la Masseria Brusca. Nel cuore della Terra d’Otranto, sarà possibile visitare: il Parco Achille Tamborino di Maglie; la Masseria Appidè a Corigliano d’Otranto; La Cutura a Giuggianello. Nel basso Salento:  il giardino Episcopo a Poggiardo e il Castello Winspeare a Depressa.

Villa Carrelli, Lecce
Villa Carrelli, Lecce

A quanti vorranno visitare i giardini in bicicletta, Le Verdi Stanze propone due ciclo tour. “Lecce e la Valle della Cupa”, è l’itinerario organizzato dall’Associazione Ing.Art di Lecce (raduno a Porta Napoli h. 9:30 – Info e prenotazioni: 3891367695) , che muovendosi nel meraviglioso contesto di Contrada Pisello, offre l’opportunità di fare tappa anche ai giardini Bozzicolonna e San Souci.

“Da Nardò alle Cenate”, è l’itinerario proposto dall’Associazione Messapiae di Nardò (raduno nella Villa comunale di Nardò h. 8:30 – Info e prenotazioni: 3204277300), che integra la visita dei giardini, con soste alle masserie Carignano Grande e Torre Nova, poste lungo il percorso.

 

Le visite guidate ai giardini sono organizzate in turni a partire dalle 8:45 e fino alle 13:15.

Le prenotazioni e l’acquisto dei ticket dovranno essere effettuati attraverso un comodo servizio di booking on line dal portale Tourango.it .

Al momento della prenotazione, i visitatori potranno scegliere i giardini da visitare e, per ogni giardino, il turno di visita preferito.

Per maggiori informazioni consultare il sito www.leverdistanze.wordpress.com oppure contattare la Fluxus Cooperativa ai numeri 0833572657 – 3804739285

 

 

 

Approfondimenti sui giardini  e le località

 

Il circuito di visita de Le Verdi Stanze, ricomprende Villa Carrelli (Reale), polmone verde nel cuore di Lecce e capolavoro salentino del noto paesaggista – giardiniere toscano Pietro Porcinai.

Lecce è anche custode di uno dei più interessanti parchi pubblici del Salento, la Villa Comunale, i cui tesori d’arte, come le statue poste al suo interno, potranno essere meglio compresi con le valide guide a disposizione dei visitatori.

Nella Città di Monteroni, si aprono due gioielli di architettura del verde, i giardini di Villa De Giorgi e di Villa Carrelli – Palombi con fitta vegetazione ed elementi architettonici tali da ricreare una sensazione di meraviglia e stupore. Qui si ritrovano elementi progettuali cari al Porcinai, che probabilmente ne ispirò la realizzazione.  Nel cuore della Valle della Cupa, dove un tempo sorgevano il casale e il feudo di Malcandrino apre per la prima volta al pubblico Casina Andretta, con il giardino impiantato in antiche cave,  i terreni di pertinenza interessati da secoli dall’estrazione di tufo e suggestivi ambienti scavati nella roccia.

La Villa Comunale di Nardò, il giardino botanico di pertinenza del Castello aragonese, occupa parte dell’originario fossato e rispecchia pienamente il gusto dell’epoca di ricreare un “giardino dello stupore”. Il chiosco posto all’interno conserva ancora le preziose maioliche provenienti dall’antica fabbrica Paladini.

Il giardino di Villa Saetta in località Cenate a Nardò, nasce dalla passione degli attuali proprietari ed è frutto della ricerca di equilibrio e continuità tra l’architettura imponente della villa e il paesaggio circostante. Tutte le essenze poste a dimora si ispirano a scelte ecosostenibili di frugalità e resistenza. A meno di 1 km, il giardino della Masseria dell’Alto dei Baroni Fumarola, sembra uscito dalle mani di un artista a partire da quel meraviglioso sistema geomorfologico e vegetazionale che è il parco regionale di Portoselvaggio. La vegetazione è essenziale, fatta di pochi protagonisti tipici della nobile tradizione italica  e qualche misurato esotismo che conferisce varietà e ne invoglia la scoperta. Si rimane nell’area di Portoselvaggio con la Masseria Brusca e il giardino “dei Continenti”. Una fitta vegetazione, ricca di zone d’ombra, un’oasi di pace dove s’inserisce una collezione di statue, eleganti figure femminili raffiguranti Asia, Africa, Europa e America, intervallate da altrettante statue.

Il giardino della Masseria Appidè a Corigliano d’Otranto, è un gioiello nel cuore del Salento. I Baroni Comi di Martano la elessero a residenza estiva, affidando ad agronomi e botanici il progetto di un giardino per lo svago e il relax. Spiccano Il “giardino all’italiana”, imponenti magnolie, profumati pini ed altissime palme e un viale pergolato con panche di pietra. A Maglie, protagonista è il Parco Achille Tamborino, con i vari ambienti

 

impreziositi da elementi architettonici, come il complesso di grotte artificiali e lo scenografico chiosco orientaleggiante con funzione di belvedere.

Il Giardino Botanico “La Cutura”, a Giuggianello, presenta una ricchezza di ambienti tali da stimolare il visitatore nei suoi sensi più nascosti. Dal giardino roccioso, alla serra di piante grasse e succulente, il “giardino all’italiana”, il bosco di lecci e il “giardino dei semplici”.

Poggiardo possiede un meraviglioso parco, realizzato su commissione della famiglia Episcopo. Il giardino Episcopo con l’ ingresso segnalato da due scenografiche torrette belvedere, presenta i caratteri tipici del giardino ottocentesco, collinette, avvallamenti, sentieri sinuosi e pregevoli elementi architettonici e d’arredo.

In quel di Depressa, il Castello Winspeare accoglie il visitatore nel cinquecentesco cortile, da qui si accede nel giardino, l’antico agrumeto, con una zona riservata allo svago, provvista di un esotico e fitto boschetto di bambù.

 

Fornelli Indecisi. Le primarie su ottanta ricette di cucina, a Lecce

piattitavolataA Lecce, domenica 11 maggio, alle 12.30

La cucina dozzinale di Fornelli Indecisi

la finale del concorso alla Masseria Ospitale

Le Culinarie (le primarie del centrotavola) hanno sfoltito

le 80 ricette in gara giunte da tutta Italia decretando i 12 piatti finalisti

 

 

Dopo un’attenta e difficile valutazione da parte della giuria delle circa ottanta ricette giunte da tutta Italia, dopo le accese “Culinarie” (le Primarie del Centrotavola) che sul sito ufficiale hanno coinvolto quasi 4 mila utenti (con circa 12 mila visualizzazioni di pagina) provenienti da una cinquantina di paesi sparsi in tutti i continenti, la quarta edizione di Fornelli Indecisi, concorso di cucina dozzinale nato su Facebook, arriva alla sua prova finale. L’appuntamento è per domenica 11 maggio, a partire dalle ore 12.30 presso la Masseria Ospitale.

Nel corso della finale i fantastici 12 giunti a questa impegnativa sfida dovranno cucinare la propria ricetta e farla assaggiare ad una giuria composta da alcuni “esperti” e da persone selezionate nel pubblico che degusteranno le dodici pietanze e decreteranno il vincitore per ogni categoria. La giuria presieduta dal patron Pierpaolo Lala sarà composta da Donpasta, dj, economista, appassionato di gastronomia ora alle prese con il progetto Artusi 2.0, Pino De Luca, professore, gustosofo e tra i vincitori della prima edizione, Roberto Covolo, “Project Manager” dell’ExFadda di San Vito dei Normanni dove sta nascendo il progetto XFood, le spizzicate salentine Daniela Sabato e Letizia Basile, le giornaliste Paola Sgobba, Fabiana Salsi, Metella Ronconi e Manila Benedetto, il giornalista e gastronomo di grande esperienza, Sandro Romano, e Tobia Lamare, musicista e cantore della parmigiana di melanzane.

La giuria di qualità, che assegnerà un premio speciale offerto da Coldiretti Lecce, sarà composta da Michele Bruno, tra gli organizzatori del Mercatino del Gusto di Maglie e già governatore di Slow Food Puglia, dalla giovane chef Sara Latagliata, anima del progetto Nobili Pasticci, e da Lorenza Dadduzio di Cucina Mancina. Non mancheranno le sorprese dell’ultimo momento. Le selezioni musicali saranno affidate al giornalista e scrittore Ennio Ciotta.

 

Ai vincitori andranno tanti onori, un bouquet di ortaggi (offerto da Flower Design di Antonio Suppressa) e ricchi premi (in materie prime) grazie alla preziosa collaborazione con le aziende che sostengono l’iniziativa. Tra i premi anche un cesto di buoni e sani prodotti della Dieta Med-Italiana.

Fornelli Indecisi è realizzato grazie alla collaborazione con Libera Terra di Puglia, Arome de cacao, Birranova, Birrozza, Candido, Cantele, Cardone, Coldiretti Lecce – Campagna Amica, Compagnia Brassicola Zerottanta, Coolclub, Dieta Med-Italiana, Dodicilune, Ex Fadda – XFood, Fabbri, Forno a legna Rizzo, Kurumuny, La Bottega del Dolce e Salato, Le carte salentine, Lupo Editore, Masseria L’Astore, Masseria Le Sciare, Masseria Ospitale, Melcarne, Merica, Movimento Turismo del Vino – Puglia, Olio Intini, Olio Serra, Pazlab, Pizzaviaggiando, Pro_Salento, quiSalento, Royal Gelati, Salento In Tasca, Salumificio Santoro, Tirsomedia, Vincotto Primitivo.

 

Queste (dopo qualche defezione dell’ultimo minuto) le ricette che si contenderanno la vittoria finale: Paparinòpita di Marina Greco, Massa e mugnuli di Maria Lucia Piccinno e Calamaro al cuore di frisa di Luigi Rizzo tra gli antipasti; Tagliatelle di birra scura al birragù di Filippo Muratore e Lorenzo Valente, La pia frittata di Fortunata (detta Titina) Siniscalchi, Onelia Greco, Elisabetta Cucurachi e Lagane di San Giuseppe con crema di scarola di Gianluca Sciannameo tra i primi; Pollo, patate e fantasia di Sara Greco, Pescatrice Giallorossa di Mariano Longo & Simone Rollo, Pollo vendicatore di Claudia Melissa Barbarito tra i secondi; Strudel Salentino (o strudel “comu voi tie”) di Rossana De Iaco, Pitta te mendule (“Torta di mandorle al mandarinetto”) di Rita de Bernart, Kalineri di Federica Marangio tra i dolci.

 

Ovviamente tutti i partecipanti non resteranno a bocca asciutta ma degusteranno il pranzo preparato da Valeria, chef del ristorante. Come per gli scorsi anni una parte dell’incasso del pranzo, grazie alla collaborazione e alla sensibilità di Oronzo, Valeria e di tutto lo staff della Masseria Ospitale sarà devoluto in beneficenza.

 

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Fornelli Indecisi è un’idea del patron Pierpaolo Lala. Classe 1977, è socio fondatore e lavoratore della Cooperativa Cool Club di Lecce che si occupa di ideazione, organizzazione e promozione di eventi culturali, di uffici stampa e di editoria. Nel 2004 ha pubblicato con Maria Vittoria Dell’Anna il volume “Mi consenta un girotondo. Lingua e lessico nella Seconda Repubblica” (Congedo). Dopo una lunga militanza su fanzine e giornali autoprodotti nel 1996 ha iniziato a scrivere su quotidiani e periodici locali. Vive prettamente su Facebook e quando ha tempo a San Cesario di Lecce. Nel 2012, 2013 e 2014 si è esibito al Fondo Verri di Lecce con lo spettacolo “Non sono un cantautore”. La sua grande passione fin da piccolo è la cucina (e si vede). Ha ideato Fornelli Indecisi solo per poter rubare ricette. Dall’esperienza del concorso è nata l’omonima collana editoriale per Lupo Editore che ha già prodotto “50 sfumature di fritto. Piccolo manuale untologico” e “Una frisella sul mare. Canzoni, ricordi e ricette da spiaggia”. A breve uscirà “Cucinare con i piedi. Storie di cene mondiali”.

 

Tutte le info, news e nuove ricette sul sito www.fornellindecisi.it

Alba

L' Aurora, 1819 di  Juan Antonio de Ribera y Fernandez (1779-1860) Spagna,  Museo National del Prado Madrid
L’ Aurora, 1819 di Juan Antonio de Ribera (1779-1860) Spagna, Museo National del Prado Madrid

di Elio Ria

 

Alba, ti ho abbracciata, oggi inaspettatamente… al tuo arrivo ero impreparato, distratto. Eri bionda; e le aree d’ombra dell’aurora – tiepide – quasi, fuggevoli fra il campanile, e la panchina della piazza, caddero giù in basso sul selciato.

Alba, eri bella; ma il giorno con gli enormi occhi azzurri ti prese. Mi fosti amica per un bagliore, appena… vertigine di devozione.

Son qui, zippato con la febbre memoriale e non vi è ispirazione per una preghiera muta, che vorrebbe anzi essere insolente di moltitudine di distanze.

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

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