L’estate è propizia per alzare gli occhi al cielo nella notte, a osservare il firmamento, più che le altre stagioni. Le notti calde che ridonano il respiro dopo il caldo del giorno, agevolano l’incontro con gli astri, perduti nelle lontananze celesti, smarriti dai nostri orizzonti circoscritti, dimenticati nella smania del vivere, o forse mai conosciuti.
In certe notti, baciate dalla brezza di terra, in luoghi abbandonati alla grazia del buio che avvolge e illumina intorno, può avvenire di perdersi fra le stelle.
Se non si ha fretta, se un po’ di umiltà ci assiste, pian piano prende forma la mappa celeste, il firmamento ci prende per mano e noi, ritornati bambini, ci inoltriamo nelle profondità dell’universo a rincorrere una stella che ammicca lassù…e così, di stella in stella, come gli avi di un tempo, tracciamo segmenti di significato per una geografia astrale, per non smarrire la strada e poter ritornare, novelli Pollicini, su questa terra che sì, ci fa penare ma ci avvolge materna, protettiva e matrigna insieme.
Ma torniamo a perderci fra le stelle per una sera… ecco qui Cassiopea, là il Grande Carro e il Piccolo che si tira dietro la Stella Polare…e noi non più marinai, non carovanieri, non sappiamo che farcene e poi abbiamo il “navigatore”…di altre stelle abbiamo bisogno, fari per l’animo, universo tutto da esplorare, con grovigli di nebulose e buchi neri, e noi incapaci a venirne a capo, non punti di riferimento, non modelli, prospettive nebbiose e incerte.
Storie mitologiche riempiono il cielo, non favolette né telenovele di qualche millennio fa. Miti, netti, indecifrabili, inquietanti. Vita e morte, amori, sacrifici, passioni, gelosie, vendette, capricci e prepotenze son tracciati nella mappa celeste da tempo immemorabile: Orione, Cigno, Aquila, Chioma di Berenice… Un’eredità celeste che attende d’essere goduta da una umanità balbuziente? E’ nel cielo il bandolo della umana psiche?
Troppe domande, troppi problemi per un’esistenza così breve da vivere, ricca di tesori da riconoscere, ammirare e godere in un tempo di cui non ci è data certezza, tempo che non possiamo governare, che scivola via dalle mani e forse s’accumula lassù, nel buio fra una costellazione e l’altra, quale riserva per l’umanità futura, una “previdenza” astrale.
No, troppo difficile trovare una ragione… e già il sonno appesantisce le palpebre… guarda lì una stella cadente! Non una stella, sai, un meteorite.
Sì, va bene, ma hai espresso un desiderio? No, non ne ho avuto il tempo…
Non è la prima volta e non sarà certamente l’ultima, se Dio vorrà, che mi consento qualche divagazione che sembra estranea alla salentinità che contraddistingue questo sito. Ho avuto la fortuna di nascere in una terra che può vantare una enorme tradizione culturale che ben poche terre “di passaggio” possono vantare in tutto il mondo; perciò sobbalzo pure io, nel mio piccolo, quando ho l’occasione di imbattermi in episodi sconcertanti e il sussulto diventa un vero e proprio terremoto, soprattutto quando protagonisti di quegli episodi sono personaggi “pubblici”.
Il senatore Antonio Razzi è considerato il campione dell’ignoranza dell’italiano (e non solo …) tra i politici, tanto da essere considerato l’emblema del fenomeno nella esilarante caricatura (?) di Maurizio Crozza.
Scrollarci di dosso le etichette che a torto o a ragione ci vengono appiccicate è molto difficile, tanto che a volte ci rassegniamo a portarle addosso, anche perché (direbbe Razzi …) sono un ingrediente della notorietà e, siccome è meglio essere conosciuti e che in futuro si continui a parlare di noi piuttosto che il contrario, di quell’etichetta diventiamo pure gelosi.
Fossi Antonio Razzi, sotto questo punto di vista comincerei a preoccuparmi seriamente.
Perché? La spiegazione eloquente è nei due video che di seguito segnalo e che si riferiscono a due politici, il primo dei quali ha fatto parte del governo Letta, il secondo è ministro dell’attuale governo Renzi.
Nel caso in questione, però, il coinvolgimento è assolutamente indiretto e l’ignoranza è da ascrivere ad altri, anche se i monaci brasiliani fanno ancora bella mostra di sé al mondo sull’Enciclopedia Treccani on line …
Ecco i video di cui parlavo (per il primo vedi pure https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/07/23/ora-sappiamo-perche-i-cervelli-fuggono/; attenzione, la protagonista del secondo, tragicomico, è l’attuale ministro della difesa, già insegnante di lettere; italiano a parte, il contenuto relativo agli F35 nobilita perfino lo storico tunnel di Maria Teresa Gelmini …):
Paese schizofrenico il nostro, in cui la locuzione a mia insaputa (che prepara ottimamente il terreno al gioco dello scaricabarile) è all’ordine del giorno. Ormai i tempi sono maturi perché questa locuzione assuma la dignità di istituto giuridico a dare man forte all’attenuante incapacità di intendere e di volere. Così succede che una sovrintendente si dichiari all’oscuro dello scandalo eclatante dei Bronzi di Riace fotografati con un perizoma che più sexy non si può, scaricando, con faccia di bronzo …, la responsabilità su misteriosi “preposti”, come se lei non ne fosse il capo e non avesse il dovere non dico di dimettersi ma almeno di chiedere il declassamento a sottintendente, parola in cui il lettore può pure attribuire al sotto un riferimento alla superfetazione, sia pure temporanea, oggetto dello scandalo e ad intendente il valore etimologico e primitivo di persona che intende.
Non passa nemmeno una settimana e si apprende che capitan Schettino ha partecipato in qualità di esperto (nel senso di persona che ha vissuto almeno un’esperienza del genere) di naufragi ad un seminario presso un’università (ne ometto il nome per evitarmi esercitazioni sarcastiche …). Il rettore parla di iniziativa indegna, come se il principio della libertà di insegnamento non debba comunque essere filtrato per evitare, nella fattispecie, il sospetto che l’iniziativa del docente organizzatore del master risponda alle stesse finalità pubblicitarie che hanno consentito il conferimento di lauree honoris causa a personaggi che col mondo della cultura (non dico accademico …) non hanno nulla da spartire e agli stessi di partecipare in qualità di improvvisati tuttologi a trasmissioni televisive di profilo non bassissimo ma sotterraneo.
Il degrado culturale tocca il fondo quando si pensa che un master possa trarre benefici, anche in termini di partecipazione, dalla presenza non di veri esperti (che palle!) ma di protagonisti di fatti di cronaca in grado di solleticare nelle giovani menti gli istinti più morbosi (la curiosità scientifica è tutt’altra cosa).
Già era successo, d’altra parte, che ad un condannato in via definitiva fosse concesso di prendere parte attiva alla riscrittura della Costituzione e ad altri pregiudicati di continuare imperterriti la loro attività criminale, magari nello stesso settore (pubblico!).
Una distinzione sottile, però, va fatta in difesa del capitano. Egli è ancora in attesa di giudizio e giustamente ci si può sciacquare la bocca sostenendo, magari a denti stretti, che il suo intervento appare soltanto inopportuno (altro aggettivo di grande successo …).
Proprio ieri mi è giunto da parte di una delle più prestigiose università americane (e quali, sennò …) l’invito, da parte di uno dei bidelli, a tenere un ciclo di conferenze sul dialetto salentino. Lì per lì stavo per rifiutare, poi ho accettato. E se, a ciclo concluso, Marcello Gaballo, creatore ed anima di questa fondazione, dovesse essere tirato in ballo , non potrà, poveretto!, nemmeno giustificarsi dicendo che tutto è avvenuto a sua insaputa …
P. S. Non vorrei essere considerato un dietrologo, ma ho la quasi certezza che fatti simili abbiano la funzione, ben più deleteria, di distrarre l’opinione pubblica da problemi contingenti ben più gravi, intasando così il residuo senso critico con questi immondi detriti. Per fare pulizia ci vorrebbe una ruspa gigantesca e, quel che più conta, un manovratore all’altezza. Non vedo, purtroppo, in fondo al famigerato tunnel, buono per tutte le occasioni, né l’una né l’altro …
Il titolo fa quasi presagire una sorta di scoop su una triangolazione di fondi neri, lo sport preferito di chi ha ridotto il nostro paese (a scanso di equivoci, mi riferisco all’Italia…), con la connivenza di politici di ogni colore, al degrado ambientale, morale e alla fame. Parigi, tuttavia, a quanto ebbe a dirmi il mio commercialista …, non rientra nell’elenco dei paradisi più accorsati e perciò lo scoop è rimandato ad altra data.
La puntata di oggi contiene ben poco di mio, perché è solo la documentazione di un viaggio compiuto da una canzone che trae origine, come genere, dalla nostra terra ma che, stando al testo, vide i natali a Napoli.
L’ho trovata sul sito della Biblioteca Nazionale di Spagna e precisamente alle pagine 7-11 di Le tour du monde en dix chansons nationales & caractéristiques, Choudens Imp. Arouy, Paris, 1874 (?), opera di Paul Lacome (1838-1920) integralmente leggibile e scaricabile al link
http://bdh-rd.bne.es/viewer.vm?id=0000108483&page=1 (di seguito il frontespizio).
L’autore, che vanta una serie impressionante di pubblicazioni prevalentemente di argomento musicale, ha riservato l’onore di rappresentare l’Italia a La pizzica tarentina; essa con lo spartito e il testo tradotto in francese, nel libro occupa le pagine 7-11, che di seguito riproduco.
Trascrivo ora il testo francese per rendere evidente la suddivisione in versi (tutti ottonari; fanno eccezione il 13, il 14 e il 15 dodecasillabi dove l’immagine delle coppie allacciate e quella del trascorrere inesorabile del tempo fino ad una sua inconsapevole dilatazione richiedevano un ritmo meno incalzante, più disteso) e poi lo traduco:
C’est à Naples et sous la tonnelle,
lorsque la lune monte aux cieux,
que la joyeuse tarentelle
unit les couples amoreux. (due volte)
Pan! pan! pan! Joyeux bruits de fêtes,
claquez, tambours et castagnettes!
Pan! pan! pan! Que de brunes têtes
ne demandent qu’à perdre la raison!
Pan! pan! pan! Lorsque la nuit brille,
le plaisir dans les yeux scintille!
Pan! pan! pan! Quelle est donc la fille
que l’on pourrait tenir à la maison!
Dansez, dansez, doucement, les couples s’enlacent.
Dansez, dansez muets et la main dans la main.
Dansez, dansez, sans les compter les heures passent,
dansez, dansez, il sera trop vite demain!
C’est à Naple et sous la tonnelle,
lorsque la lune monte aux cieux,
que la joyeuse tarentelle
unit les couples amoreux.
Mille bruits animent l’espace,
cependant chacun est muet;
mais quand un joyeux couple passe,
la brise trahit son secret. (due volte)
Pan! pan! pan! Je t’aime, ma belle.
Quoi me trouverais-tu cruelle?
Pan! pan! pan! O ma tourterelle!
Tu m’enchainas de solides liens!
Pan! pan! pan! Ta lêvre de flame
hélas a consumé mon âme!
Pan! pan! pan! Pour être ta femme,
je donnerais le ciel et tous les saints!
C’est à Naple et sous la tonnelle,
lorsque la lune monte aux cieux,
que la joyeuse tarentell
unit les couples amoreux!
È a Napoli e sotto la pergola, quando la luna sale in cielo, che la gioiosa tarantella unisce le coppie innamorate (due volte).
Pan! pan! pan! Gioiosi rumori di feste, battiti con le mani, tamburi e nacchere! Pan! pan! pan! Quante teste brune non chiedono che di perdere la ragione! Pan! pan! pan! Quale è dunque la ragazza che si potrebbe tenere in casa! Danzate, danzate, dolcemente, le coppie si allacciano, Danzate, danzate muti e mano nella mano. Danzate, danzate, senza contarle le ore passano, danzate, danzate, domani sarà troppo tardi. È a Napoli e sotto la pergola, quando la luna sale in cielo, che la gioiosa tarantella unisce le coppie innamorate.
Mille rumori animano lo spazio mentre ciascuno è muto; ma quando passa una coppia felice, la brezza tradisce il suo segreto (due volte)
Pan! pan! pan! Io t’amo, mia bella! Perché dovresti trovarmi crudele? Pan! pan! pan! O mia tortorella! Tu mi incatenasti con solidi legami! Pan! pan! pan! La tua bocca di fiamma, ahimè!, ha consumato la mia anima. Pan! pan! pan! Per essere la tua donna io cederei il cielo e tutti i santi! È a Napoli e sotto la pergola, quando la luna sale in cielo, che la gioiosa tarantella unisce le coppie innamorate!)
Invito chi conosce la musica (io, purtroppo so solo perché il pentagramma si chiama così …) a tentare di individuare la canzone originale (sarebbe interessantissimo il confronto tra i due testi) e, visto che la musica non cambia, sarebbe il massimo se potesse fornircene l’esecuzione Io sono in grado di dire solo che non potevano mancare nel testo due ingredienti classici: la luna e il pergolato. Basta ricordare: Dorme ‘o mare…Oje bella viene!/’n cielo ‘a luna saglie e va… (Piscatore ‘e Pusilleco) e Perziana scesa/’o frato se n’e asciuto/e appuntamento/è sotto ‘o pergulato… (Pusilleco addiruso).
In attesa che qualche amico musicista aderisca al mio invito non mi rimane che deliziare, dopo averlo fatto con i miei, i vostri occhi con alcune stampe antiche sul tema. Ho scelto quelle in cui il pergolato è sempre presente. Per la luna abbiate pazienza, prima o poi ‘n cielo ‘a luna saglie …
La tarantella, olio su tela di Eduardo Dalbono (Napoli 1841-1915); immagine tratta da http://www.blindarte.com/listing/zoomify/photo/TKlot_11528_1.jpg/id/11528
Tarantella, litografia di Giuseppe Lanzedelli, Vienna, 1859: immagine tratta da http://www.stampeantiche.info/files/a45-tarantella-grande.jpg
La tarantella a Napoli, incisione di Charles Maurand (seconda metà del XIX secolo), tratta dal periodico L’Illustrazione popolare, Treves, Milano, 1869.
La tarantella, di Saro Cucinotta (1830-1871) incisore e Teodoro Duclére (1816-1867) disegnatore; tavola tratta da Francesco De Bourcard, Usi e costumi di Napoli, Nobile, Napoli, v.II, 1858.
Incisione di A. H. Payne, 1850 circa; immagine tratta da http://www.abebooks.com/Tarantella-Payne-A-H-1860-Campania/12419354460/bd
Sextilis modo fert Augusto a Caesare nomen/in metas semen qui Cereale struit/et largam confert operosus in horrea messem/spicea dum manibus munere Virgo gerit.
(Ora prende il nome da Cesare Augusto il sesto mese1 che dispone in mucchi il seme di Cerere e operoso ripone nei granai l’abbondante messe mentre una ragazza per lavoro porta con le mani fasci di spighe)
Direi che la didascalia rispetto all’immagine costituisce quella figura retorica che, con parole di origine greca, si chiama ýsteron–pròteron (alla lettera: dopo-prima) e consiste nell’inversione cronologica di azioni. Qui, poi, manca ogni riferimento all’operazione che precede tutte le altre, la mietitura, nonostante essa sia chiaramente presente nell’incisione.
Questa seconda immagine, invece, è tratta da http://www.mykonosroom.it/wp-content/uploads/2014/01/95620364.jpg. Ignoro il nome del fotografo ma conosco benissimo l’autore della didascalia, al quale riferirò fedelmente e in un attimo qualsiasi improperio dovesse essergli rivolto in rete per questo suo parto. Ecco, intanto, la trascrizione (per renderne più agevole la lettura) e la traduzione perché, come per la prima immagine non tutti sono obbligati a conoscere il latino, così per questa lo stesso vale per il neretino.
Acostu sempre iddhu ggh’è rrimastu/ma cranu no ndi sìmina cchiù ceddhi./Rrobba ‘mpurtata, quistu è ormai lu pastu,/nc’è la pubbricità spaccacirieddhi./Minàti allu bar e alla tiscuteca/campamu ti mosse e ddi rumuri./Non c’è na màgghia, ma ci si ndi freca!/Tasse? Pi cci li paia so’ dduluri./ Ti la carosa timi l’uècchiu finu/ca sta tti rite sott’all’ombrellone./Addhu cca spica! Bbasta nnu bikinu/e già si ddivintatu nnu cugghiòne.
(Agosto è rimasto sempre quello, ma grano non ne semina più nessuno. Roba importata, questo è ormai il pasto, c’è la pubblicità spaccacervelli. Buttàti in un bar o in una discoteca campiamo di mosse e di rumori. Non c’è un euro, ma chi se ne frega! Tasse? Son dolori per chi le paga. Devi temere l’occhio fino della ragazza che da sotto l’ombrellone ti sta sorridendo. Altro che spiga! Basta un bikini e già sei diventato un coglione).
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1 Sextilis nel calendario romano era originariamente il sesto mese; con Numa Pompilio conservò questo nome ma indicò l’ottavo mese, come anche nel calendario istituito da Giulio Cesare (calendario giuliano); con la riforma di questo, attuata poi da Augusto, fu chiamato in suo onore Augustus.
Ha avuto luogo, nella serata di domenica 3 agosto, la cerimonia di consegna dei riconoscimenti inseriti nell’ambito del Premio Castrum Minervae, giunto alla nona edizione.
Splendida l’ambientazione voluta dagli organizzatori, ossia a dire la magica Piazza della Vittoria del borgo di Castro, delimitata da un lato, come è noto, dalla ex cattedrale; originale anche il palcoscenico richiamante un tempio pagano, del genere di quello, dedicato alla dea Minerva, accennato nei versi dell’Eneide all’atto della rievocazione del primo sbarco dell’eroe troiano in Italia e i cui resti sono venuti alla luce, qualche anno addietro, in occasione di scavi archeologici lungo le mura della Perla del Salento.
L’evento, portante, in questa tornata, il titolo “In viaggio con Enea, tra cultura e creatività, nuovi immaginari contemporanei”, è stato inframmezzato dall’esibizione di una serie di artisti della danza, del canto, della musica e della recitazione, con numeri di buona qualità che hanno tenuto fissa l’attenzione del numeroso pubblico che gremiva Piazza della Vittoria.
Contesto, scenario e corollario a parte, purtroppo, a mio parere, è affiorato qualche limite, ossia a dire non è sembrato pienamente all’altezza il “cuore” del premio per quanto riguarda la specifica destinazione delle artistiche statuine simbolizzanti i riconoscimenti.
I vincitori designati dall’amministrazione comunale di Castro col conforto di un Comitato scientifico costituito ad hoc sono stati i seguenti:
– LUA Laboratorio Urbano Aperto di S. Cassiano (Le), aggiudicatario del “Premio innovazione culturale di Puglia” con il progetto “Lampa” riecheggiante, nel titolo, l’olio lampante di una volta;
– Cantina due Palme di Cellino S.Marco (BR), assegnataria del “Premio migliore comunicazione e promozione di Puglia”;
– Saietta Film, che si è aggiudicato il “Premio migliore impresa culturale di Puglia”, grazie al film “In grazia di Dio” diretto dal regista salentino Edoardo Winspeare.
In aggiunta, in apertura della serata, c’è stata la consegna di un premio speciale, voluta direttamente dall’amministrazione civica di Castro, a favore del Sindaco pro tempore all’epoca dell’ideazione e dell’inaugurazione del “Castrum Minervae”.
In realtà, pur dovendosi oggettivamente riconoscere l’utilità e l’indubbio prestigio insiti nella manifestazione in discorso, a latere dell’edizione appena svoltasi è affiorata l’impressione di un eccesso di presenze istituzionali, reso ancora più evidente dalla carenza, se non assenza, di autentiche collaborazioni, consulenze e voci culturali di qualità. Ovvero, di reali esperienze professionali idonee a garantire la piena aderenza delle scelte di volta in volta operate agli obiettivi istituzionali del premio: individuazione di realtà distintesi nei vari campi, comprese, ad esempio, eccellenze emerse sul piano della cultura, scrittura e poesia.
° ° °
Fin qui, i cenni di cronaca e le opinioni soggettive intorno all’evento.
Dopo di che, è desiderio dell’autore aggiungere le seguenti note d’insieme dedicate a Castro e alla sua gente.
Castro, la purissima perla del Salento incastonata fra illuminanti fuochi di storia e sfavillii di modernità, è un mio grande amore e luogo dell’anima.
Si tratta di un crogiolo d’autentiche meraviglie, come se, forse a causa di una cocente delusione, la divina Pallade Atena per i greci o dea Minerva per i romani – il cui nome costituisce parte integrante dell’appellativooriginale del piccolo borgodi cui si scrive, appuntoCastrum Minervae– avesse lasciato stillare ai suoi piedi una piccola pioggia di lacrime. Dette ultime, penetrando poi nel terreno e irrorandolo, avrebbero dato vita a un humus del tutto speciale, a sua volta fonte e origine di una vasta gamma, meglio un concentrato, di bellezze naturali straordinarie e mirabili che si riscontrano diffuse in questa ridente e amena plaga del Basso Salento.
Un puntino quasi invisibile sulle carte geografiche, che però reca, di per sé, il pregio di ergersi pressappoco a una sorta di ombelico del connubio fra gli ultimi strati del verde Adriatico e le più vivaci distese, dalle sfumature color blu intenso, del mare Ionio.
Quasi per effetto di un miracolo strano, ma di miracolo non si tratta, Castro è compostamente “vecchia” sulle orme della sua antica e gloriosa storia, intessuta anche da vicende di saccheggi e distruzioni per opera di orde piratesche e di bramosi eserciti conquistatori che salpavano le ancore dalle opposte sponde, vicinissime, del Canale d’Otranto. Si presenta, nello stesso tempo, gioiosamente giovane, giacché è riuscita a conservare, anche il giorno d’oggi, una compatta voglia di vita e di crescita: qui, si deve sottolineare, non esiste, se non in termini modesti, il problema del calo delle nascite, i giovani, i ragazzi e i bimbi appaiono numerosi, almeno quanto (se non addirittura di più) viene dato di constatare con riferimento alle persone anziane.
L’antica Castrum Minervae richiamata all’inizio, si identifica oggi con Castro Città o Castro Alta, adagiata su un costone /promontorio discretamente rialzato sul mare e cinta in parte, almeno intorno all’estensione del borgo, da un’infilata di mura e una catena di castelli con torri cilindriche o a sagoma di parallelepipedo.
La torre più grande, per la verità, da oltre un trentennio è stata “sdemanializzata”, passando così in proprietà a un facoltoso medico, il quale l’ha trasformata in lussuosa residenza privata che vanta, specialmente, un panorama a dir poco mozzafiato: vi si spazia verso nord, quasi a voler rivolgere un rispettoso saluto ideale alla Serenissima, regina di sempre dell’Adriatico, verso est, dove, a portata di mano, si trovano, e sovente si scorgono, le coste e i rilievi dell’Albania e della Grecia, verso sud, nella quale direzione lo sguardo, doppiato il capo di Santa Maria di Leuca, sembra invece rivolgersi all’universo delle civiltà musulmane, importanti e contrapposte. Sostando presso questa torre, si ha veramente la sensazione di “sollevarsi” dall’esistenza quotidiana con i suoi intoppi e le sue brutture e, per un arcano artificio, di salire, salire in alto.
In aggiunta, qui, una serie di pietre, spuntoni e vicoli secolari si fanno «sentire», esercitando la loro presenza silenziosa, ma, a parte ciò, nella gente (schietta e semplice) appaiono vive e palpitanti le impronte, appunto, di vecchie e sagge consuetudini
A pochi passi, ecco il piccolo, ma molto armonioso, edificio dell’ex cattedrale, con annesso un raccolto e ben restaurato palazzo vescovile.
Da due lati, l’ex cattedrale si affaccia su uno slargo molto accogliente e tranquillo, riparato dai venti, dove, anche in pieno inverno, è concesso di sostare beatamente sotto il sole che non brucia ma riscalda.
A breve distanza, si apre il piccolo e infiorato Vico S. Dorotea, terminante in un belvedere che si affaccia, a fianco di un altro torrione dei castelli, verso il porticciolo della marina, le incombenti serre salentine e il capo di Santa Maria di Leuca.
A ridosso del primo castello, cilindrico, si stende un’altra piazzetta costituente il classico punto di ritrovo dei castrioti in ogni stagione, largo impreziosito da un‘ampia terrazza quasi protesa verso il mare sottostante sul fronte nord est e nord, con veduta delle scogliere della Grotta Zinzulusa, di Porto Miggiano e di Santa Cesarea Terme.
È questo il sito da cui, più frequentemente e maggiormente, si ha modo di impattare visivamente con la costa greco/albanese, che in certe occasioni, d’inverno in particolare, grazie a uno speciale fenomeno di rifrazione della luce volgarmente denominato “Fata Morgana”, sembra trovarsi a pochissimi chilometri di distanza, potendo distinguerne finanche determinati particolari, ad esempio strade, edifici e altri punti cospicui.
Davvero mitiche, sono le sere, a Castro. A traverso della prima oscurità, sulla destra del prolungamento di Via S. Antonio, quasi a strapiombo, uno splendido scorcio del Canale d’Otranto, punteggiato da insenature e, come già ricordato, da grotte marine, alcune delle quali famose e rinomate per gli studi e le ricerche di carattere scientifico-paleontologico, nonché per i numerosi visitatori che, specie durante la bella stagione, vi accedono. Appena lontane, le luci di Porto Miggiano e di Santa Cesarea Terme. Nell’insieme, un’atmosfera intensa e magica, tanto che, pur nel buio, bastano i nitidi e scintillanti luccichii delle stelle per viverla e gustarla intensamente. A un certo momento, in siffatto magico contesto, ecco levarsi la luna: emerge dalle onde alla stregua di una gigantesca e succosa anguria, ma con un colore più vivo e intenso che, sembra incredibile, ti prende l’anima. Le tonalità del colore, man mano che il disco si alza, vanno attenuandosi ed addolcendosi, ma restano comunque stupende, riflesse, con una lunga scia, luminosa e misteriosa nello stesso tempo, sulla distesa delle acque del Canale. Che bellezza! Di tale livello, e così assoluta ed esclusiva, che, allo spettatore, nel profondo, viene di pensare (o di sognare, non se ne rende conto) alla possibilità di chiudere gli occhi per l’ultima volta avendo davanti, magari, uno spettacolo del genere.
Fare il bagno a Castro Marina ingenera un sublime piacere, senza prezzo e senza paragone.
Potrebbe, qualcuno, osservare, con semplicismo ed approssimazione, che si è di fronte a immagini e sensazioni d’altri tempi, anacronistiche, ma, per fortuna, la verità è di diverso segno: la gente di Castro dimostra di vivere, con ammirevole equilibrio, le scansioni dei giorni nostri, mantenendo, contemporaneamente, talune antiche e belle tradizioni ereditate dai secoli passati, che avverte ancora pregnanti e in cui si riconosce. L’augurio oggettivo e obiettivo è che le presenti note suscitino, in chi avrà modo di scorgerle e scorrerle, un soffio di interesse e/o di curiosità per visionare o riscoprire, alla prima favorevole occasione, le meraviglie di Castro e siffatto speciale spessore dei suoi abitanti.
‘Pòppiti’ alla masseria Capriglia, in agro di Ortelle (Le),
il 10 agosto 2014 a rimirar le stelle
Lo spettacolo teatrale Pòppiti dal Faro della Palascìa,il 1° gennaio 2014 alle 4 del mattino, alla piazza San Giorgio di Ortelle il1° giugno, ora sceglie come proscenio direttamente i luoghi in cui si svolsero i fatti narrati nell’omonimo romanzo di Giorgio Cretì (1933-2013), la masseria di Capriglia, lungo la vecchia strada comunale fra Vignacastrisi e Santa Cesarea Terme. Sentirete parlare di Pitria, Serricella, pajare e ascolterete la storia d’amore e di guerra che ha coinvolto questi pòppiti del basso Salento infuocato, immersi in un paesaggio multicolore, variopinto di erbe e malerbe, mentre la loro vista spazia oltre l’orizzonte verso est in direzione Albania, ancora timorosa delle galee turche, e verso sud in direzione S. Maria di Leuca, dove i salentini dopo morti ritornano con il cappello in testa, ricorda Vittorio Bodini.
Dal romanzo la scrittrice Raffaella Verdesca ha tratto il testo teatrale, che la Compagnia Teatrale ‘Ora in Scena’ porterà sulle scene naturali dei luoghi in cui si svolse questo dramma popolare. La regia dello spettacolo è di Paolo Rausa, montaggio e assistente alla regia Ornella Bongiorni. Una storia d’amore e di passione vissuta nel Salento rurale, abbiamo detto. Sullo sfondo incombe la guerra di Libia, è il 1911.
Nel minuscolo universo della masseria si intreccia la storia d’amore di Ia e di Pasquale, che l’ha ingravidata e perciò decide di portarla via, in fuga. Pasquale è poi richiamato in guerra, Ia resta col bimbo da svezzare. Al suo ritorno Pasquale trova la situazione che meno si sarebbe aspettato. Un dramma che spinge ancora una volta alla fuga con la moglie e il figlio, per iniziare una nuova vita dove può coltivare un’altra terra, lontana, quella che “con il sangue abbiamo conquistato in Libia”.
I dialoghi sono accompagnati dai ritmi tradizionali di P40 e Lucia Minutello, immagini di Antonio Chiarello e Carlo Casciaro, lacoreografia di Kalimba Studio Dance. Gli interpreti: Ia,Pasquale (Florinda Caroppo, Michele Bovino), Massaro Rosario (Antonio Rizzo), Rocco (Fernando Circhetta), Dorotea (Maria Orsi), Cirina,PeppinoParmatiu (Norina Stincone, Luigi Cazzato).
Nella narrativa contemporanea sono davvero rari i libri che fanno rumore. E quando vengono pubblicati si fa di tutto per boicottarli. Le redazioni dei giornali che contano e la critica letteraria più benpensante e conformista sono i demiurghi di un’operazione di ostracismo mirata a isolare nell’oblio l’autore che ha avuto il coraggio di scrivere un libro che disturba il manovratore. È il caso di Macelleria Equitalia di Giuseppe Cristaldi, da poco pubblicato per i tipi di Lupo editore. Il giovane scrittore salentino ha scritto uno dei libri più coraggiosi del momento. Un atto di denuncia nei confronti di Equitalia “ovvero l’apparato che si occupa, per conto dello Stato Italiano, di porre in esecuzione gli atti emessi dagli uffici giudiziari”. I procedimenti di esecuzione forzata a tempi della crisi che hanno mandato sul lastrico intere famiglie. La cronaca di questi ultimi anni è piena di suicidi di piccoli imprenditori vessati e umiliati da questo Leviatano fiscale che agisce per nome e conto dello Stato. Giuseppe Cristaldi racconta tutto questo senza fare sconti a nessuno. Con una scrittura tagliente che si avvale anche di una straordinaria contaminazione tra la lingua italiana e il dialetto leccese. Attraverso il racconto di cinque drammi esistenziali, Cristaldi descrive lo scenario sociale e economico della crisi ai tempi di Equitalia, perversa e legalizzata macchina infernale di riscossione dei tributi autorizzata dal potere a distruggere senza pietà le vite dei cittadini. Dall’ultimo gesto di Rocco e di Enrico, che avevano deciso di ribellarsi alla morsa feroce dello Stato ritornando a un’intimità umana e carnale, fino alle complicità conniventi della criminalità organizzata con funzionari corrotti di Equitalia, Cristaldi, avvalendosi della forma romanzesca, non risparmia fendenti a questo sistema perverso che sta stritolando un popolo che kafkianamente non riesce a difendersi davanti a questo tribunale e alla sua macelleria sociale, pronta a creare cittadini insolventi da dare in pasto al potere sempre assetato di denaro, affinché a pagare anche con la vita siano sempre e soltanto chi onestamente vive del proprio lavoro. Macelleria Equitalia è il libro scritto da un autore coraggioso che ha deciso di guardare con estrema attenzione al suo tempo e alle sue pericolose ingiustizie. Cristaldi affonda la lama nel marcio e soprattutto lo chiama con il suo nome senza mai nascondersi. “Si capisce che mi considero uno scrittore politico. In effetti, non c’è scrittore che non lo sia. Ma lo si è in due modi: o si offre la propria ‘irresponsabilità al potere o la propria ‘responsabilità’ a tutti. Io ho preferito questo secondo modo”. Cosi amava definirsi Leonardo Sciascia. Giuseppe Cristaldi appartiene a questa categoria di scrittori e con Macelleria Equitalia ha deciso di offrire la propria responsabilità a tutti. Noi abbiamo scelto di stare dalla sua parte e faremo tutto il possibile affinché il suo libro scomodo abbia numerosi lettori.
Fuori campo in basso a sinistra si legge Aubert del(ineavit) & sc(ulpsit) e al centro Audot éd(iteur); perciò, anche se a proposito di questa tavola viene citato di solito soltanto il nome di Audot, cioè dell’editore, per dare a Cesare quel che è di Cesare ed a Dio quel chi è di Dio, bisognerebbe aggiungere che Aubert ne fu il disegnatore e l’incisore.2 Da notare, quasi a sottolineare il marchio tipografico, éd(iteur) in francese contrapposto al latino [del(ineavit) etsc(ulpsit)] che accompagna Aubert.
La tavola che segue, di anonimo, è tratta dal n. 18, anno II, del settimanale Poliorama pittoresco, anno II, n. 18 del 13 dicembre, 1837, p. 141, Napoli.
Fuori campo in basso a destra qui si legge Segoniinc(ìdit). Incìdit (incise) è sinonimo dello sculpsit della tavola precedente. Ad uno sguardo sommario le due stampe sembrano identiche, ma, soffermatomi su alcuni dettagli …
…, potrei affermare, usando il linguaggio matematico, che S (cioé Segoni) = A (cioè Aubert)– DA (cioè i dettagli evidenziati in A) + DS (cioè i dettagli evidenziati in B).
Con l’immagine precedente ho dato la soluzione di un esempio di quel gioco enigmistico che si chiama Scopri le differenze e mi chiedo quanti lettori in più avrei avuto se avessi dato al post proprio questo titolo, nonostante Lecce plagiata sia uno di quelli che, come si dice in gergo, tira … (e tiratura ha o non ha lo stesso etimo?).
Poi mi pongo una domanda molto più seria: se Vincenzo Segoni3 si mostra così bravo da ricalcare quasi perfettamente l’incisione dell’Aubert, supponendo che mai abbia potuto disporre del rame originale, che gli costava dar vita ad una tavola tutta sua? E chi mai potrebbe credere che la scelta dello stesso punto di osservazione possa essere dovuto, guarda caso, al caso, mentre alcuni elementi della composizione (per esempio, in basso al centro, il gruppo dei sei personaggi) sembrano ricalcati?
E pensare che essa veniva pubblicata su una rivista della quale Benedetto Croce nella sua nota n. 3 (p. 191) alle lezioni di Francesco De Sanctis raccolte dal Torraca (La letteratura italiana nel secolo XIX. Scuola liberale-scuola democratica, Morano, Napoli, 1902) ebbe a dire: le illustrazioni sono, per quei tempi, assai buone. Ma come faceva il buon Benedetto ad accorgersi di un furto (peraltro molto diffuso nelle carte geografiche in epoca in cui certamente la rappresentazione del territorio non era legato ai sistemi di rilevamento odierni che non possono che dare un esito univoco da cui scaturisce l’assoluta sovrapponibilità, scala a parte, almeno dei profili delle coste) avvenuto prima, in tempi, quali erano i suoi, in cui la diffusione delle pubblicazioni, soprattutto di quelle di taglio scientifico, era limitata, l’unica rete esistente era quella da pesca e il nesso motore di ricerca non compariva neppure tra i romanzi di fantascienza?
Chi pensa che il vizietto della scopiazzatura si sia fermato al 1839 si sbaglia e basta attendere la pubblicazione di un’opera prestigiosa, cioè, di Attilio Zuccagni-Orlandini, l’Atlante illustrativo, ossia raccolta dei principali monumenti italiani antichi, del medio evo e moderni e di alcune vedute pittoriche, Presso gli Editori, Firenze, 1845; dal secondo volume è tratta la tavola che segue (a differenza delle altre non reca firma di sorta), sulla quale il lettore si potrà esercitare nel gioco enigmistico prima ricordato.
Prima, però, che la caccia continui. mi pare doveroso presentare la tavola che cronologicamente, almeno fino ad ora, si pone al primo posto e, quindi al momento è la più attendibile candidata ad essere considerata come modello da cui non avrebbero potuto prescindere tutte quelle a lei successive.
Appartiene al Viaggio pittorico nel regno delle due Sicilie, di Domenico Cuciniello e Lorenzo Bianchi, opera in tre volumi pubblicata in proprio a Napoli dal 1830 al 18334.
Fuori campo a destra il nome degli editori ed a sinistra quello dell’incisore, Federico Wenzel, che fu attivo a Napoli dal 1827 al 1850.
2 L’assenza del nome accanto ad Aubert unitamente al fatto che spesso quest’arte si tramandava di padre in figlio non rende agevole l’identificazione e la collocazione cronologica del nostro. Debbo ancora una volta ringraziare la Biblioteca Nazionale di Francia che mi ha permesso di giungere alle conclusioni che mi accingo ad esporre non senza essere partito dai dati. E i dati in questo caso sono costituiti dalle stampe, custodite appunto in Francia, recanti la firma Aubert.
La prima stampa è, come si legge, il ritratto di F. J. Talma acteur du Theatre Français & Pensionnaire de S. M. I & R.; a sinistra: Hollier del(ineavi)t, a destra Aubert sourd-muet sculp(si)t. Il soggetto rappresentato visse dal 1763 al 1826, il che ci consente di poter collocare con buona approssimazione la data di esecuzione del ritratto nell’ultimo decennio del secolo XVIII.
La seconda raffigura M.lle Duchénois Actrice du Theatre Français & Pensionnaire de S. M. I & R. In basso a sinistra, esattamente come nel precedente, Hollier del(ineavi)t, a destra Aubert sourd-muet sculp(si)t.
Sourd-muet fa parte integrante del cognome, quasi fosse uno pseudonimo, comunque un segno distintivo; per saperne di più su questo Aubert sordomuto sono preziose le informazioni che si ricavano da Ferdinand Berthier, L’abbé Sicard, Douniol & c., Parigi, 1873, p. 135: Parmi les artistes qui, de leur coté, lui ont payé leur tribut, nommons avec orgueil le sourd-muet Aubert, collaborateur, pendant de longues années, du célèbre Desnoyers, qui a gravé son portrait (Tra gli artisti che dal canto loro gli [all’abate Roche-Ambroise- Cucurron Aubert, 1742-1822, autore, tra l’altro di Cours d’instruction d’un sourd-muet de naissance, Le Clere, Parigi,1800 e Traité des signes pour l’instruction des sourds-muets, Stamperia dell’Istituzione dei sordomuti, Parigi,1808]hanno pagato il loro tributo, ricordiamo con orgoglio il sordomuto Aubert, collaboratore nel corso di lunghi anni del celebre Desnoyers, che ha stampato il suo ritratto).
Didascalia: Louis Dauphin de France né à Versailles le 4 Septembre 1729. A sinistra: Peint par N. Le Sueur; a destra: Gravé par M. Aubert. Il soggetto rappresentato visse dal 1729 al 1765, la scena si riferisce al suo matrimonio e Michel Aubert nacque forse nel 1700 ma morì certamente nel 1757. Molto probabilmente, quindi, l’esecuzione è da collocare proprio intorno al 1757 e, comunque, Michel Aubert visse prima dell’Aubert sourd-muet, anche se non mi è stato possibile ricostruire i probabili rapporti di parentela.
Didascalia: Concino Concini Maréchal d’Ancre né au Comté de Penna en Toscane, vint en France l’an 1600. Fu tuè le 24 Avril 1617. A sinistra AK(?) Pinxit, a destra M. Aubert sculp(sit).
Didascalia: Van-Mander; a sinistra C. Eisen d(elineavit), a destra M. AubertS(culpsi)t. Charles Eisen visse dal 1720 al 1778. Il soggetto raffigurato è il pittore fiammingo Karel Van Mander vissuto dal 1548 al 1606.
Didascalia: Claude Gillot de Langres peintre ord(inai)re du Roy en son Academie de Peinture et Sculpture; a sinistra C. Gillot Pinx(it), a destra J. Aubert Sculp(sit). Di Jean Aubert è incerta la data di nascita, morì nel 1741.
Didascalia: Vue de S.te Hélène et de James-Town; a sinistra: Fortier aqua forti, a destra Aubert sculp(sit).
I temi dominanti o esclusivi (ritratto o paesaggio) in questo o quel gruppo, considerazioni di carattere cronologico e, infine, l’assoluta corrispondenza grafica del nome dell’incisore tra il dettaglio della tavola di Lecce
e quelle dell’ultimo gruppo
mi inducono a pensare che si tratti dello stesso incisore e, tenendo conto che anche il disegnatore (Fortier) è lo stesso è plausibile ascriverne l’esecuzione agli inizi del XIX secolo. L’edizione francese nel frontespizio recita recuillis et publiés par Audot père (raccolti e pubblicati da Audot padre).
Se così fosse la tavola dovrebbe rappresentare la piazza così com’era proprio al principio del XIX secolo). Da notare che delle due statue di Carlo II a cavallo (evidenziate dall’ellisse rossa) presenti nella tavola del Pacichelli (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/17/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-814-lecce/), in basso riprodotta, non è visibile (nelle nostre il campo è più ristretto) quella con annessa fontana.
Nella foto d’epoca che segue il “ricovero” di una delle statue all’interno del Sedile.
Il Segoni fece parte pure della schiera di disegnatori che con le loro tavole corredarono Le antichità di Ercolano esposte edite a Napoli dalla Stamperia Reale in 8 volumi (versione digitale in http://katalog.ub.uni-heidelberg.de/cgi-bin/search.cgi?sprache=GER&query=le%20antichit%C3%A0%20di%20Ercolano%20esposte&fsubmit=ok&quelle=homepage) dal 1757 al 1792. Di lui sono le tavole XI, XXVa, XXVb e LX del IV volume uscito nel 1765 e la V del V uscito nel 1767, di seguito riprodotte. Dato il numero veramente irrisorio delle sue tavole rispetto ad altri disegnatori posso affermare senz’ombra di smentita che di quel gruppo non costituì certo un elemento di punta. Nel Manuale del forestiero in Napoli uscito per i tipi di Bobel e Bemporad a Napoli nel 1845 nell’elenco degli incisori con il relativo recapito a pag. 131 si legge: Segoni Vincenzo Gradini S. Spirito 52.
Chiudo con un problema, anzi un’indagine irrisolta non per colpa mia.
A pag. 537 del testo Le peintre-graveur italien di Alexandre De Vesme, uscito nel 1905 per i tipi di Allegretti a Milano, nel catalogo delle opere di Carlo Porporati (1741-1816) la scheda n. 39 reca la seguente informazione:
Son riuscito a trovare la prima incisione del soggetto fatta da J. G. Wille nel 1774 su disegno del figlio Pierre Alexandre (immagine seguente tratta da http://purl.pt/5495/3/).
Vana è stata, purtroppo, ogni ricerca di quelle del Segoni e del Valperga. Confido nell’aiuto di qualche lettore più fortunato di me, perché una comparazione sarebbe estremamente interessante anche per poter eventualmente capire meglio le deviazioni del Segoni rispetto all’Aubert nella stampa di Lecce, da cui tutto è partito.
La nuova Cartoguida turistica di Carpignano Salentino e Serrano: invito al viaggio Itinerari cicloturistici alla scoperta del territorio
Piazza Duca D’Aosta, Carpignano Salentino
6 agosto 2014, ore 21.30
Ore 21.30 – Saluti
Paolo FIORILLO, Sindaco di Carpignano Salentino
Introduce
Lucia ANTONAZZO, Assessore alla Cultura e al Turismo
La Nuova Cartoguida turistica di Carpignano Salentino e Serrano
Sandro MONTINARO, autore Cartoguida
Carpignano Salentino e Serrano la via della spiritualtà. Dal rito al culto, tra segni sacri e luoghi santi
Daniela BACCA, Polis Turismo
Il turismo in bicicletta: una risorsa economica per il Salento
Paolo SANSÒ, vicepresidente FIAB Maglie “Il Ciclone onlus”
Effetti benefici del ciclismo sulla salute
Rolando MANGIA, Medico Chirurgo specialista in Cardiologia
Ore 22.45 – Saluti finali
Paolo FIORILLO, Sindaco di Carpignano Salentino
Dalle ore 19.00 alle ore 20.30 sarà possibile partecipare, con le guide dell’Associazione Carpiniana, alla visita guidata del centro storico e della cripta bizantina di Santa Cristina. Il punto di raduno è in piazza Duca d’Aosta.
Durante la serata sarà allestito il laboratorio all’aperto “GIVE ME BIKE” organizzato a cura di Bicinema un’organizzazione finalizzata alla promozione di iniziative culturali attraverso la bicicletta.
A fine serata sarà distribuito il materiale promozionale ai partecipanti, alle associazioni, alle attività commerciali e turistico-ricettive del territorio. La Cartoguida turistica è stata realizzata nell’ambito del Progetto “WBB Wander by Bicycle” finanziato dal Programma di Iniziativa Comunitaria Interreg Italia-Grecia 2007-2013.
Il web sa accendere buoni sentimenti, anche se crederlo ci fa sentire creduloni.
Muore un povero madonnaro, in circostanze prevedibili, la notizia vola sul web e ci ritroviamo in tanti a condividere una tristezza infinita.
Madonnaro e distributore di santini. Ne aveva sempre tanti fra le mani, non sempre erano del santo festeggiato proprio quella volta.
Luigi arrivava per tempo con la sua bici, la piazza assolata e ancora vuota. La banda addossata a far la siesta in quella striscia breve d’ombra, coincidente col campanile o la chiesa, che si trova in ogni piazza di paese, nell’estate inclemente salentina.
Delimitava la sua zona d’azione, molto prossima alla chiesa, se non proprio sul sagrato, e cominciava a tracciare la sagoma del santo di turno.
Mescolava poi i colori di gesso per dar corpo al manto della Madonna o del Santo, su piani stradali sconnessi e scuri, lavagna ostile su cui impressionare una qualche santità.
I lineamenti lasciavano un po’ a desiderare, bisognava immaginarseli, ma i simboli c’erano tutti, riprodotti dalle figurine che da sempre riempivano le sue tasche.
Procedeva serio nel suo impegno ma non disdegnava di rispondere con un sorriso a chi gli rivolgesse un’attenzione.
Rimessosi in piedi, ripulite alla buona le mani sui pantaloni, sistemato il berretto in testa, fa ora il giro fra i tavolini del bar mentre la banda riempie la piazza delle romanze più popolari…celeste Aida…che gelida manina…sono un barbiere di qualità…
I santini girano ora fra le dita della gente buona, c’è ancora qualcuno che abbozza un bacio all’icona, altri infastiditi allontanano il nostro uomo, se non con brutte parole, con un gesto della mano.
Lui va oltre con passo incerto e veloce, sorride a chi lo saluta amichevolmente e gli rivolge parole scherzose. Farfuglia parole di risposta.
Uno scambio di battute col venditore di noccioline, una visita veloce in chiesa per salutare, e poi via verso casa, a cavallo della sua bici.
Questo per tutte le feste di paese nel Salento, dove si fa fatica a contare i paesi ed anche i santi.
Fino a ieri sera, festa di San Brizio a Calimera.
Morte annunciata si diceva, un annuncio che Luigi, il nostro madonnaro, non ha saputo o voluto cogliere per tempo.
E la sua bicicletta col faro in aria, a illuminar le stelle che approfittano dell’assenza della Luna.
Ora in paese son commossi tutti, si prepara a festa la via del suo viaggio finale, con scritte e disegni che ne commemorano le gesta, improvvisati madonnari, con mani sporche di gesso e gli occhi umidi di tristezza.
«Promuovere il territorio attraverso un prodotto editoriale ad ampia distribuzione, puntando sul turismo culturale e sulla valorizzazione della ricco patrimonio storico, culturale e paesaggistico.Sono lieta di presentare la Nuova Cartoguida Turistica – dichiara l’Assessore alla Cultura e Turismo del comune di Carpignano, Lucia Antonazzo – che vuole offrire un’occasione unica di scoperta e di emozione, per turisti ma anche per i residenti, di uno dei territori più importanti e suggestivi di Terra d’Otranto. L’augurio è che questa pubblicazione possa portare i cittadini, i turisti e tutti gli appassionati di cicloturismo a conoscere e ad apprezzare Carpignano Salentino e Serrano, due centri che presentano una ricchezza particolare da un punto di vista storico, culturale e paesaggistico».
La “Nuova Cartoguida di Carpignano e Serrano”, pratica e maneggevole nel suo formato tascabile, è stata pensata per il turista che soggiorna nel territorio ma anche per il residente che vuole scoprire aspetti meno noti della realtà che lo circonda.
È stata realizzata nell’ambito del Progetto WBB Wander by Bicycle finanziato dal Programma di iniziativa comunitaria Interreg Italia-Grecia 2007-2013, promosso dal Comune di Martano in collaborazione con i comuni di Sternatia, Zollino, Carpignano Salentino e il COTUP Consorzio degli Operatori Turistici Pugliesi per l’Italia e Patras municipal enterprise for planning & development s.a., Achaia s.a. – developing company of local authorities e Region of Western Greece per la Grecia.
Scopo della Cartoguida è quello di scoprire e valorizzare un territorio caratterizzato da affascinanti ambienti naturali, ricco di storia, cultura e tradizioni, in cui il tempo e l’uomo hanno lasciato tracce significative che aspettano solo di essere conosciute, lette e interpretate.
È un invito al viaggio. Una passeggiata a ritroso nella memoria, scandita dai sapori, dai profumi e dai colori del paesaggio, lenta e ritmata dalle tradizioni che mirabilmente custodiscono schegge di ricordi del passato. Un viaggio che, puntando al recupero e alla riscoperta dei caratteri più salienti dell’identità mediterranea di questi luoghi, consente al viaggiatore di trascorrere una passeggiata per nutrire profondamente corpo e spirito attraverso la conoscenza di alcuni aspetti pregnanti della cultura locale.
Realizzata da Sandro Montinaro, redatta sia in italiano che in inglese, la cartoguida è distribuita gratuitamente ed è consultabile anche dai telefonini di ultima generazione grazie al QR code appositamente elaborato che, letto da qualsiasi telefono cellulare o smartphone munito di fotocamera e di un apposito programma di lettura, permette, grazie a internet, l’accesso immediato a tutti i contenuti presenti nella versione cartacea della cartoguida sia in italiano che in inglese.
I QR code sono sistemati nei pressi dei principali luoghi di interesse storico-artistico di entrambi i centri sfruttando la segnaletica esistente e consultabili presso tutti i luoghi pubblici, negozi e strutture ricettive del territorio.
Infatti, è stata intenzione del comune di Carpignano Salentino distribuire gli adesivi con il QR code a tutte le attività commerciali al fine di dotarle di uno strumento utile per la promozione e valorizzazione del territorio.
Oltre all’excursus storico dei due centri, sulle due cartoguide è possibile trovare tutta una serie di informazioni: i Beni culturali di particolare interesse storico, artistico e naturalistico (chiese e cappelle, palazzi, colombaie, menhir, sepolture neolitiche, frantoi ipogei, monumenti, costruzioni in pietra a secco, ulivi secolari e così via); un ricco corredo fotografico utile per stimolare la fantasia del visitatore e trovare spunti per partire alla scoperta del territorio; le informazioni (turistiche, geografiche, i numeri utili, e le festività civili e religiose) utili sia ai turisti che ai residenti. Infine, sono localizzate le strutture turistico ricettive presenti nel territorio (Bar, Ristoranti, Hotel, Agriturismi e B&B).
Quel che segue vuole essere la cortese e grata risposta al commento di Sergio Notario ad un recente post di Gianni Ferraris (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/08/01/non-e-pizzica-ne-taranta-era-jazz-a-sogliano-cavour/#comment-10243) per la parte in cui venivo nominato. L’impossibilità di inserire nei commenti immagini mi ha costretto a scrivere queste poche righe e ringrazio la redazione per aver dato loro il rilievo di regola riservato ad un post “normale”.
Spero che i diagrammi A e B che ho approntato in formato immagine riescano a dare un’idea più efficacemente di quanto sarebbero stato in grado di farlo le parole.
Nel salentino SSIGNURIA (usato assolutamente come formula di saluto, anche se sottintende, secondo me SALUTE A) credo che il raddoppiamento di S sia di natura espressiva e non fonetica [da AD SIGNURIA>ASSIGNURIA (assimilazione)>’SSIGNURIA (aferesi)]; me lo fa pensare il fatto che tale raddoppiamento è presente anche in frasi in cui di un originario ad non c’è nemmeno l’ombra: Cce ddici ssignuria? (alla lettera, in una simpatica commistione confidenzial-reverenziale: che dici tu signoria?)
È da respingere l’ipotesi che in CEREA ci abbia messo lo zampino il greco χαίρω (leggi chàiro); questo lo dico per motivi fonetici (a parte la strana terminazione non si capisce perché si sarebbe dovuta perdere l’aspirazione originaria) ma soprattutto per l’analogia di formazione (il componente principale è unico) per la voce piemontese e per quella salentina.
Al prossimo gemellaggio, anche se non esistono solo il piemontese e il salentino; non so, però, se manterrei la stessa incosciente disinvoltura di fronte a qualche voce che dovesse arrivarmi, per esempio, dalla Groenlandia …
Non è pizzica né taranta. Finalmente le note volano in altra direzione.
Era jazz a Sogliano Cavour il 29 luglio, serata di dolce estate, strana in realtà, caldo scirocco che appiccica, però non caldo estivo che debilita. Ah le stagioni che non sono più quelle di una volta, dice chi sa.
Le note vanno, la piazza ascolta (colta?), ottimo jazz, è quasi deserta. Spiace per i musicisti (i maestri) confesso però che a me è piaciuto molto. Poca gente, pubblico attento e rilassato, riuscivo ad ascoltare anche ad occhi chiusi e a volare via con i pensieri mentre le note avvolgevano lo scirocco, le teste e i corpi delle persone. Diventavano emozioni che si sperdevano nell’aria appiccicosa. QUando capita di tenere il ritmo e non perderlo neppure per un attimo con i pensieri che vanno e l’aria che prova a rinfrescarti per brevi attimi.
Loro sono là dietro, nelle loro nicchie. Hanno perso la testa, chissà, forse per amore, o forse solo per l’ingiuria del tempo, ma è poi così ingiurioso il tempo? Certo che no, è solo un percorso, anche la pietra leccese si riempie di rughe che la divorano poco a poco. Loro sono San’Agostino e San Nicola da Tolentino (leggo da qualche parte), stanno a fare la guardia al portale della Chiesa di Maria Annunciata, annessa all’ex convento degli Agostiniani, ora municipio. Quanti conventi sparsi per il Salento che poi sono diventati luoghi altri, di buona o pessima amministrazione. Grazie ai santi, spesso alla faccia loro.
La musica, lo scirocco, i santi, la chiesa e una giovane coppia che non perde una nota. E cinquanta (forse) persone sedute attente, applaudono quando conviene farlo. Mi svegliano dai miei sogni, applaudo.
Freedom jazz festival si chiama la manifestazione. A volte divento autarchico, perché non chiamarla Libertà invece di Freedom? E’ una parola dolcissima, bella, importante, da scrivere con la maiuscola in questi tempi cupi per l’umanità, venti di guerra ovunque, caparbiamente si combatte sempre e comunque il buon senso e l’intelligenza.
Ricordano Gaslini dal palco. Acquistai un suo album (LP si chiamavano allora) che si intitolava “Colloquio con Malcolm x”, erano gli anni ’70, i musicisti sul palco neppure erano nati e io sono già vecchio. Giorgio Gaslini è morto in questi giorni, aveva 84 anni.
Sul palco si alternano
GLAD TO BE UNHAPPY:
– Stefano Mangia: voce e melodica;
– Giorgio Distante: tromba;
– Adolfo Volpe: chitarra ed elettronica.
GIANNI LENOCI HOCUS POCUS 5:
– Gianni Lenoci, pianoforte, composizione e direzione;
– Vittorio Gallo, sax soprano e sopranino;
– Pietro Rosato, sax tenore e clarinetto;
– Pasquale Gadaleta, contrabbasso;
– Giacomo Mongelli, batteria e percussioni.
Confesso, come succede spesso ultimamente sono arrivato in ritardo, forse mi sto crogiolando nelle abitudini salentine. Del primo concerto ho sentito solo due brani. Il secondo l’ho ascoltato tutto. Era jazz vero, suonatori eccellenti, serata stupenda.
A Sogliano che si chiama anche Cavour non perché, ho scoperto, il Camillo Benso c’entrasse qualcosa, solo che dopo l’unità d’Italia i comuni omonimi dovevano differenziarsi, come volle Vittorio Emanuele II°, e di Sogliano ce n’era uno vicino a Forlì. Il Salento volle fare un omaggio allo scomparso Camillo. E si che con i piemontesi qualcuno ha ancora il dente avvelenato adesso, dopo tutti questi anni.
Sogliano dal nobile passato, qualcuno dice che qui si adorava Giano (il bifronte) e il sole. Qualcuno lo inserisce fra i decatria coria (τα Δεκατρία Χωρία) i tredici paesi della Grecìa salentina.
Verso mezzanotte poi il ritorno a Lecce, su strade quasi deserte, scivolando dolcemente con la musica nella testa, i santi senza testa lasciati là. Le luminarie spente di Sogliano, il bar e la birra. Tutto assieme e dentro la testa. Musica, birra, jazz, silenzi, poca gente, la coppia silenziosa e attenta. Una serata senza pizzica e taranta.
L’aggettivo del titolo è riservato di regola a qualcosa che ci ha colpito in modo particolare, quando, forse, meno ce l’aspettavamo. Può essere un gol, un corpo, un paesaggio, un edificio, un quadro, una statua, una poesia (l’ordine, decrescente, corrisponde all’idea che ho io dell’emozionalità media …).
Uno dei miracoli della bellezza è quello di non essere soggetta, alla resa dei conti, al funzionamento di tutti e cinque i nostri sensi, compresa, addirittura la vista (questo concetto non vale, probabilmente, per l’emozionalità media di prima …). Così spettacolare può essere anche agli occhi di un cieco un tramonto raccontato dalla voce partecipe di un suo amico. E pensare che spettacolare deriva da spettacolo, questo dal latino spectàculu(m), a sua volta dal verbo spectare=guardare, derivato da spectum, supino di spècere=guardare, imparentato con il greco σκέπτομαι (leggi schèptomai=osservare), dal quale deriverebbe per metatesi –σκεπ– (leggi schep)>-σπεκ– (leggi spec). E poi una serie quasi sterminata di voci delle quali fornisco qui un arido ed incompleto elenco (per brevità escludo i composti) lasciando al lettore il piacere di individuare le molteplici sfumature o deviazioni rispetto al concetto di partenza: specie, speciale, specioso, specialista, specializzazione, specialità, specchio, specchiare, specchiato (aggettivo), speculare (aggettivo e verbo), specillo, spettro (pure lui!) e, restati tali e quali come nacquero in latino, spèculum e spècimen.
Se spettacolare può rivelarsi un piatto o un bicchiere di vino impegnando anche un solo senso per volta o, tutti insieme, la vista, l’olfatto, il gusto, l’udito (il vino agitato nel bicchiere canta), il tatto (vuoi mettere l’addentare una coscia di pollo tenendola stretta in mano con lo scarnificarla a rispettosa distanza con coltello e forchetta o mangiare una frisella con capperi, pomodori e rucola usando una forchetta anziché la mano?) e il gusto, è indubbio che i sensi di più largo impiego nella fruizione dello spettacolo propriamente detto sono la vista e l’udito, anche se in un futuro non lontano percepiremo anche i profumi e, ahimé, le puzze.
Sotto questo punto di vista la Notte della Taranta è assolutamente in linea con manifestazioni simili e non è mia intenzione riprendere la vecchia querelle tra coloro che si accostano al folklore con un approccio filologico rimpiangendo, per esempio, il Canzoniere grecanico salentino e chi, invece, si mostra più ben disposto ad una sua contaminazione e, dunque, ad una fruizione più consumistica, accettando in questo l’opinione di Lapassade sui Sud Sound System, simbolo del tarantamuffin, cioè della continuità musicale tra ragamuffin e tarantismo nel Salento.
Pretendere di mantenere in vita l’antico modernizzandolo, però, secondo me è estremamente pericoloso e fuorviante, oltre che, in ultima analisi, illusorio. Non vorrei, sotto questo punto di vista, che anche la povera, incolpevole taranta facesse la stessa fine del latino e del greco, che hanno pagato un pesantissimo tributo ad innovazioni didattiche che pretendevano di ridimensionare più o meno drasticamente l’aspetto grammaticale per privilegiare i contenuti, come se questi ultimi, per poter essere penetrati correttamente, non richiedessero allora e non richiedano ancora oggi (e così sarà pure domani) una conoscenza almeno dignitosa degli strumenti con cui sono stati realizzati, il latino e il greco, appunto. Est modus in rebus: non si può impunemente pretendere di fornire una conoscenza passabile di queste lingue e dei loro contenuti privilegiando il libro dei testi (la cosiddetta antologia) rispetto a quello della grammatica o viceversa.
E, come uno studente non in grado di distinguere il soggetto dal complemento oggetto (lo so che c’è di peggio, ma non voglio infierire …) di una frase italiana (conseguenza anche del moderno approccio al latino e al greco) crede di essere un filologo non essendo in grado nemmeno di organizzare correttamente una sua frase di tre parole o di interpretare correttamente quella organizzata correttamente da altri, così il turista, nostrano o no, crede di sapere tutto, assistendo alla magica notte, su questo pezzo di memoria e, forse, va pure in trance, come chi davanti al Colosseo non resiste all’impulso di farsi la foto-ricordo col finto centurione …
Non ho la pretesa di convincere nessuno della bontà dell’opinione che in più occasioni ho manifestato nei riguardi di simili operazioni; voglio solo invitare il lettore a meditare su una doppia comparazione che qui propongo.
La prima immagine è tratta dal saggio di Brizio Montinaro Danzare col ragno. Musica e letteratura sul tarantismo dal XV al XX secolo, Argo, Lecce, 2011 e mostra la tarantata Maria di Nardò durante la cura domiciliare praticata il 24 giugno 1959 dal barbiere-terapeuta, pure lui neretino, Luigi Stifani. La seconda è la tavola con cui Gustavo Doré illustrò i versi1 in cui Dante evoca la mitica figura di Aracne.
La sfortunata tessitrice che osò sfidare una dea non poteva non essere messa in campo da chi ha studiato il fenomeno del tarantismo2. La comparazione appena proposta facilita al lettore la comprensione del complicato intreccio in cui la tarantata si liberava dagli effetti del morso, reali o presunti che fossero e sia pure con l’aiuto esterno della musica, diventando prima essa stessa (endorcismo), con i suoi movimenti, tarantola. E il lenzuolo stropicciato dai suoi movimenti, dettaglio, a quanto ne so, ancora sfuggito, sembra evocare la tela distrutta dall’invidiosa Minerva.
Analogie suggestive e molto probabilmente casuali. Certo. Lo saranno anche quelle che è dato cogliere grazie alla seconda comparazione, quella che ha come oggetto due filmati dei quali segnalo i links; oppure nel mistificante sfruttamento commerciale delle nostre memorie dobbiamo mettere in conto anche la possibilità che un terzo, prossimo filmato sia più vicino a quello di un Erotica tour che a quello del documentario d’epoca?
1 Purgatorio XII, 43-45: O folle Aragne, sì vedea io te/già mezza ragna, trista in su li stracci/de l’opera che mal per te si fé. La figura dell’infelice fanciulla ricorre pure come similitudine nella descrizione del mostro demonico Gerione in Inferno, XVII, 10-18: La faccia sua era faccia d’uom giusto,/tanto benigna avea di fuor la pelle,/e d’un serpente tutto l’altro fusto;/due branche avea pilose insin l’ascelle;/lo dosso e ‘l petto e ambedue le coste/dipinti avea di nodi e di rotelle./Con più color, sommesse e sovraposte/non fer mai drappi Tartari né Turchi,/né fuor tai tele per Aragne imposte.
2 Alla luce di quanto ho già detto in https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/25/aspettando-la-notte-della-taranta-14-aracne/ non mi meraviglierei (non vorrei che fosse stato già detto o scritto a mia insaputa …) neppure se gli strumenti musicali che compaiono ne La Fábula de Aracne o Las Hilanderas di Diego Velázquez, Museo del Prado (1657-1658) venissero interpretati come allusivi a quelli utilizzati nel rituale di liberazione delle tarantate.
In questo periodo mi schizza nel capo il ricordo delle lenzuola stese sulle volte a stella e io che mi ci imbriglio nel mezzo. Il profumo del sapone SOLE, il piccolissimo paesino di mia madre, Gemini, il capo di Leuca e i sarmenti stipati nella cantina.
La calce e la chiazza cuperta, i bastoni degli anziani e l’immobilità, l’assurda immobilità delle pelli che reagiscono alla calura facendosi pietra.
Il mio più grande orgoglio è la consapevolezza dell’aver vissuto e di continuare a vivere a margine del continente, dove nascono le magie umide.
Manca poco alla Notte della Taranta, l’evento principe dell’estate salentina. Fervono i preparativi e pure io nel mio piccolo mi do da fare con questa miniserie in quattro puntate.
Com’è noto il tarantismo ha ispirato milioni di pagine e non ci si poteva certamente lasciar sfuggire l’occasione di cercare a tutti i costi qualche collegamento con il mito di Aracne. Laddove, poi, qualcosa non quadra c’è sempre la possibilità di formulare ipotesi più o meno fondate. Il guaio è quando queste ipotesi vengono riprese acriticamente e vengono disinvoltamente spacciate come dato scientificamente certo.
È proprio il caso della nostra Aracne, per la quale letture frettolose hanno portato, poi, sprovveduti lettori, suggestionati anche da alcuni testi di canzoni popolari e probabilmente dall’assonanza tra Aracne e Arianna, ad inventarsi una variante del mito (come in http://www.sagresalento.com/pizzica/10-pizzica-e-tarantismo.html), guardandosi bene dal citare le fonti ed usando la parola magica leggenda …, per cui Aracne fu sedotta da un marinaio che partì dopo la prima notte d’amore, e da allora visse in attesa del ritorno del suo amore. Una mattina la ragazza vide una barca avvicinarsi alla costa e fece il segnale convenuto con il suo marinaio. Dalla nave giunse la risposta: era tornato. Ma a pochi metri dal porto la barca fu affondata e coloro che erano a bordo vennero uccisi. Arakne vide morire il suo amore dopo anni di attesa. Così, alla morte della giovane, Zeus la rimandò in terra per restituire il torto ricevuto, non come ragazza ma come tarantola.
Posso affermare senza ombra di dubbio e tema di smentita che quello di Aracne è uno dei pochi miti tramandatoci in un’unica versione, per di più da un unico autore, Ovidio (43 a. C-18 d. C.), nei versi 1-145 del libro VI delle Metamorfosi, che di seguito traduco:
La dea tritonia (Pallade o Atena, identificata poi dai Romani in Minerva, nata sulle rive del lago Tritone, in Africa) aveva prestato orecchio a queste parole (delle Muse) ed aveva approvato il canto e l’ira delle Aonie (appellativo delle Muse perché in Aonia, cioè in Beozia, avevano la loro sede). Allora tra sé: “ Lodare è poco; sia lodata anch’io e non permetta che la mia divinità sia disprezzata senza punizione. E volse la sua attenzione al destino di Aracne di Meonia, che aveva sentito non voler cedere a lei nelle lodi per l’abilità nel lavorare la lana. Essa non era famosa né per il luogo né per la famiglia d’origine ma per la sua arte. Suo padre, Idmone di Colofone, tingeva le assorbenti lane con porpora di Focea. La madre era morta, ma anche essa era di origine plebea e della stessa condizione del marito. Tuttavia (Aracne) con la sua arte si era fatto un gran nome per le città della Lidia, sebbene, essendo nata da modesta famiglia, abitasse nella piccola Ipepe. Per vedere i suoi capolavori spesso le ninfe del Timolo lasciarono i vigneti del loro Timolo (o Tmolo, monte della Lidia), le ninfe abbandonarono le loro onde del Pattolo (fiume, sempre della Lidia). Né piaceva solo ammirare le vesti confezionate ma anche l’esecuzione del lavoro, tanto alto era il livello della sua arte. Sia che avvolgesse la lana rozza nei primi gomitoli o con le dita facesse avanzare il lavoro o con lungo gesto sfilacciasse, dopo averle afferrate di nuovo le lane simili a nuvolette o girasse il tondo fuso con l’agile pollice o ricamasse, avresti capito che era stata istruita da Pallade. Tuttavia lei (Aracne) lo nega e offesa da una così grande maestra dice: “Gareggi con me; non c’è nulla che io, una volta vinta, rifiuti”. Pallade si traveste da vecchia, copre le tempie con capelli bianchi mentre un bastone sorregge gli arti malfermi. Allora così comincia a dire: “L’età avanzata non ha tutte cose da evitare: l’esperienza viene dagli anni tardi. Non disprezzare il mio consiglio. La massima fama tra le mortali nel lavorare la lana sia cercata da te; riconosci la superiorità della dea e con voce supplichevole, temeraria, chiede il perdono per le tue parole: essa concederà il perdono a chi lo chiede”. (Aracne) la guarda torvamente, lascia il lavoro iniziato e, trattenendo a stento la mano e tradendo nel volto l’ira, con tali parole risponde a Pallade che ancora non si è rivelata: “Te ne vieni tu debole di mente e provata dalla lunga vecchiaia. E nuoce troppo troppo l’aver vissuto a lungo. Queste parole le ascolti tua nuora, tua figlia, se ne hai una. So consigliarmi bene da sola. Perché tu non creda di avermi giovato col tuo consiglio, non ho cambiato parere. Perché costei non viene qui? Perché evita questo confronto?”. Allora la dea disse: “È venuta” e fece scomparire l’aspetto senile e mostrò Pallade. Le ninfe e le donne di Migdonia onorano la dea, solo Aracne non rimase atterrita. Tuttavia arrossì e l’improvviso rossore le segnò suo malgrado il volto e di nuovo svanì, come l’aria suole divenire purpurea al primo apparir dell’aurora e dopo breve tempo schiarirsi al sorgere del sole. Insiste nell’atteggiamento assunto e per brama di stupida gloria precipita verso il suo destino; infatti la figlia di Giove (Pallade) non rifiuta né l’ammonisce di nuovo né ormai rinvia la gara. Non c’è indugio, si sistemano ambedue frontalmente e con sottile filo tende ognuna il suo ordito, la tela è congiunta al subbio, la canna tiene distinti i fili; la spola viene inserita in mezzo ai raggi appuntiti, cosa che fanno le dita, e i denti intagliati nel pettine battuto comprimono la trama passata tra i fili. Entrambe si affrettano e con la veste abbassata sul petto muovono le esperte braccia mentre l’impegno appassionato inganna la fatica. Lì viene tessuta anche porpora che ha sentito la caldaia di Tiro e tenui ombre dalle leggere sfumature, come l’arcobaleno con i raggi del sole rifratti dalla pioggia suole dipingere il lungo cielo di un grande arco; sebbene in esso risplendano mille colori diversi, tuttavia lo stesso passaggio sfugge agli occhi che osservano, a tal punto quelli contigui si somigliano, gli estremi differiscano. Lì viene inserito nei fili pure duttile oro e sulla tela viene rappresentata un’antica storia. Pallade raffigura il colle di Marte sulla rocca di Cecrope (primo re mitico di Atene) e l’antica contesa sul nome da dare alla terra. Sei dei da una parte, sei dall’altra con Giove al centro siedono con augusta gravità su alti scanni. Un aspetto tutto proprio contraddistingue ciascuno degli dei: l’immagine di Giove è quella di un re. Fa che vi stia il dio del mare e colpisca col lungo tridente l’aspra roccia e dal mezzo della ferita del sasso balzar fuori il mare, per aggiudicarsi con questo dono la città. A se stessa assegna uno scudo, un’asta dalla punta acuminata, un elmo per la testa, il petto è protetto dall’egida e rappresenta la terra mentre percossa dalla sua lancia genera la creatura del biancheggiantecon le bacche e gli dei che guardano stupefatti; fine dell’opera la (sua) Vittoria. Tuttavia, affinché la rivale di lode capisca dagli esempi quale premio possa sperare per così folle audacia, ai quattro angoli aggiunge quattro (altre) gare, vivaci nel loro colore, di immediata comprensione nel breve tratto. Un angolo mostra Rodope di Tracia ed Emo, ora gelidi monti, un tempo corpi mortali che attribuirono a sé i nomi dei sommi dei. Il secondo angolo mostra il miserevole destino della madre dei Pigmei: Giunone dopo averla vinta in gara ordinò che fosse una gru e indicesse guerre con il suo popolo. Raffigurò anche Antigone che un tempo osò contendere con la consorte del grande Giove e la regale Giunone la mutò in uccello né le giovarono Ilione o il padre Laomedonte perché come candida cicogna, spuntatele le penne, non si applaudisse da sola col rumoroso becco. Il solo angolo che rimane mostra Cinira privato dei figli; ed egli, mentre abbraccia i gradini del tempio, membra delle sue figlie, e si abbandona sulla pietra, sembra piangere. Contorna l’estremità dell’orlo con rami di olivo simbolo di pace: è questa la forma e con il suo albero dà fine alla sua opera. La donna di Lidia (Aracne) disegna Europa ingannata dall’immagine del toro: crederesti che il toro sia vero, vero il mare. Si vede mentre guarda la terra lasciata e chiamare le sue compagne e temere il contatto dell’acqua che sale e ritrarre le timide gambe. Raffigurò anche Asterie esser ghermita da un’aquila che si affatica, raffigurò Leda giacere sotto le ali di un cigno, vi aggiunse come Giove sotto le spoglie di un satiro ingravidò di due gemelli la bella figlia di Nitteo, come sia stato Anfitrione quando prese te, donna di Tirinto (Alcmena), come (sia stato) oro abbia ingannato Danae, come fuoco la figlia di Asopo, come pastore Mnemosine, come serpente screziato la figlia di Deo (Proserpina). Raffigura anche te, o Nettuno, mutato in torvo giovenco che ti accoppi alla figlia di Eolo. Tu sotto le sembianze di Enipeo generi gli Aloidi, sotto quelle di ariete inganni la figlia di Bisalte; e te la mitissima madre delle messi dalla bionda chioma sentì come cavallo, la madre, con serpenti al posto dei capelli, del cavallo alato, sentì come uccello, Melanto sentì come delfino. Per tutti loro rese fedelmente il loro aspetto e l’aspetto dei luoghi C’è lì in immagine da campagnolo Febo, come abbia assunto ora penne di sparviero, ora pelle di leone, come da pastore abbia ingannato Isse figlia di Macareo, come Libero con la falsa uva abbia ingannato Erigone, come Saturno sotto le sembianze di un cavallo abbia generato il biforme Chirone. L’estremità della tela , circondata da un fine bordo, mostra fiori intrecciati a flessuosa edera. Non Pallade, non la Gelosia avrebbe potuto criticare quell’opera. Si dolse del fatto la bionda dea (Pallade) e fece a pezzi la tela dipinta, le colpe degli dei. E come teneva (in mano) la spola (di legno) del monte Citoro, tre , quattro volte colpì la fronte di Aracne figlia di Idmone. La poveretta non lo sopportò e decisa si legò un cappio al collo. Pallade, avendo compassione di lei che pendeva, la sollevò e così disse: “Vivi pure, tuttavia pendi, malvagia, e, perché tu non sia sicura del futuro, la stessa legge di pena sia comminata per la tua stirpe e per i discendenti che verranno”. Poi andando via la cosparse del succo di erba di Ecate; e subito le chiome al contatto della triste sostanza scivolarono via, con esse il naso e le orecchie, il capo diviene piccolissimo, è anche piccola in tutto il corpo; sul fianco restano attaccate esili dita che fungono da zampe, ha il resto come ventre, dal quale tuttavia continua ad emettere del filo e da ragno costruisce le antiche tele.1
Risparmio al lettore la ridda di interpretazioni e dei ricami anche ideologici che il mito ha ispirato e umilmente lo rendo partecipe solo della particolare simpatia che nutro per questa ragazza che a qualcuno può sembrare presuntuosa ma che per me è solo consapevole dei suoi mezzi, intelligente, ribelle e anticonformista. A Pallade che crede di intimorirla con l’esibizionistica raffigurazione della potenza del potere divino (in ultima analisi della religione …) lei risponde magistralmente mettendo impietosamente in luce le miserie e gli inganni di quello stesso potere; il che spinge Pallade, che pure è simbolo di saggezza …, non al perdono (la soluzione più dignitosa, anche se destabilizzante, per lei e per i compagni di cordata) ma ad una raffinata vendetta.
Questa mia interpretazione è certo antitetica al significato morale originario, conservatosi pressoché immutato nel tempo, del mito. La morale, però, è in continua evoluzione e non è detto che quel che in passato era considerato un valore tale debba restare per sempre. D’altra parte l’ipse dixit fortunatamente è morto da tempo, anche se i rigurgiti del principio di autorità (che io preferirei veder sostituito, dopo adeguato cambio dei contenuti, con quello di autorevolezza, concetto che coincide con quello della responsabilità personale e, dunque, dell’esempio, quello buono …) si manifestano periodicamente, per cui abbiamo ancora un disperato bisogno di eroi, come Gandhi, Don Milani e, ahinoi!, pochi altri, che si contrappongano ai buffoni di turno, i cosiddetti potenti.
Qualcuno troverà opinabile quanto ho appena finito di affermare, ma converrà almeno in quanto sto per dire. Ho scomodato già molte volte il detto latino nomina omina (i nomi sono presagi). Non sembra parallela alla descrizione della metamorfosi subita dalla ragazza anche quella del suo nome grazie a fenomeni fonetici da manuale?
A commento di questo mio diagramma aggiungo che il nome, nato femminile (quando mai un uomo ha lavorato al telaio …) in latino ha sviluppato (dall’aggettivo greco sostantivato) anche il femminile (arànea) con lo stesso significato (l’iniziale valore aggettivale rimane nell’italiano ragnatela che suppone una locuzione latina aràneatela=tela di ragno), mentre il neutro (aràneum) è passato ad indicare, con perdita di prestigio, l’oggetto o la malattia.
Come l’unica fonte letteraria è Ovidio, così le testimonianze iconografiche antiche del mito sono estremamente scarse, sostanzialmente due e, per giunta, non interpretate univocamente dagli studiosi.
La prima è la decorazione (nel dettaglio sottostante tratto da Gladys Davidson Weinberg-Saul Weinberg, Arachne of Lydia at Corinth, in The Aegean and the Near East. Studies presented to Hetty Goldman on the occsion of her seventy-fifth birthday, S. S. Weinberg, New York 1956, tav. 33) di un aryballos (piccolo vaso per profumi e oli) datato intorno al 600 a. C. e custodito nel Museo Archeologico di Corinto.
C’è chi considera la decorazione come una semplice rappresentazione di genere dell’arte della tessitura e chi, invece, ci vede una specie di striscia, identificando una prima volta Pallade, travestita da vecchia e intenta a tessere, nella seconda (a partire da sinistra) figura femminile e una seconda volta nella quarta, quella più grande.
La seconda testimonianza iconografica (immagine tratta da M. P. Del Moro, Il foro di Nerva, in Il Museo dei Fori imperiali nei Mercati di Traiano, Electa, Milano, 2007, fig. 257) è il dettaglio di un fregio, risalente alla fine del I secolo d. C., del cosiddetto Foro transitorio a Roma. La prime due figure (a partire da sinistra) per alcuni sarebbero, rispettivamente, Aracne e Pallade mentre la prima viene colpita dalla seconda con la spola; per altri la scena rappresenta l’omaggio a Pallade da parte di un gruppo di tessitrici devote.
Sterminata, è invece, la serie delle rappresentazioni più recenti, che conobbero il momento di maggior successo in concomitanza con le varie edizioni illustrate delle Metamorfosi uscite soprattutto dal XV al XVIII secolo.
Le immagini con cui mi congedo dal cortese lettore sono tutte tratte dal sito della Biblioteca Nazionale di Francia (http://gallica.bnf.fr/).
Da un’edizione manoscritta francese del 1403 del De claris mulieribus di Giovanni Boccaccio.
Dall’edizione delle Metamorfosi di A. Vérard, Parigi, 1498.
Dall’edizione veneziana delle Metamorfosi di Bernardino De Bindoni del 1540.
Dall’edizione delle Metamorfosi di Giovanni di Tornes, Lione, 1559.
Da Les Metamorphoses d’Ovide, incisioni di Jean Mathieu, Vedova Langellier, Parigi, 1619.
Da Les Metamorphoses d’Ovide, traduzione in francese di P. Duryer, P. & J. Blaeu, Janssons à Waesberge, Boom & Goethals, Amsterdam, 1702.
Da Les Metamorphoses d’Ovide, traduzione in francese dell’abate Banier, Hochereau, Parigi, 1767.
Se ora vi soffermerete ad osservare la mirabile architettura di una ragnatela (sulle sue proprietà terapeutiche rivendicate anticamente e non vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/26/la-taranta-e-la-lingatera-la-tarantola-e-la-ragnatela/), magari impreziosita dalle perle della prima rugiada, ed eviterete di uccidere il primo ragno che vi capiterà a tiro, il sacrificio di Aracne e, molto più modesto, questo mio lavoro non saranno stati inutili … ; e, imitando la pubblicità televisiva, vi do l’arrivederci a breve con la seconda puntata.
1 Praebuerat dictis Tritonia talibus aures/carminaque Aonidum iustamque probaverat iram./Tum secum “laudare parum est; laudemur et ipsae/numina nec sperni sine poena nostra sinamus”/Maeoniaeque animum fatis intendit Arachnes,/quam sibi lanificae non cedere laudibus artis/audierat. Non illa loco neque origine gentis/clara, sed arte fuit. Pater huic Colophonius Idmon/Phocaico bibulas tingebat murice lanas./Occiderat mater; sed et haec de plebe suoque/aequa viro fuerat. Lydas tamen illa per urbes/quaesierat studio nomen memorabile, quamvis/orta domo parva parvis habitabat Hypaepis./Huius ut adspicerent opus admirabile, saepe/deseruere sui nymphae vineta Timoli,/deseruere suas nymphae Pactolides undas./Nec factas solum vestes spectare iuvabat;/tum quoque, cum fierent: tantus decor adfuit arti./Sive rudem primos lanam glomerabat in orbes,/seu digitis subigebat opus repetitaque longo/vellera mollibat nebulas aequantia tractu,/sive levi teretem versabat pollice fusum,/seu pingebat acu, scires a Pallade doctam./Quod tamen ipsa negat, tantaque offensa magistra/“certet” ait “mecum: nihil est, quod victa recusem.”/Pallas anum simulat falsosque in tempora canos/addit et infirmos, baculo quos sustinet, artus./Tum sic orsa loqui: “Non omnia grandior aetas,/quae fugiamus, habet: seris venit usus ab annis./Consilium ne sperne meum. Tibi fama petatur/inter mortales faciendae maxima lanae:/cede deae veniamque tuis, temeraria, dictis/supplice voce roga: veniam dabit illa roganti.”/Adspicit hanc torvis inceptaque fila relinquit,/vixque manum retinens confessaque vultibus iram/talibus obscuram resecuta est Pallada dictis:/“Mentis inops longaque venis confecta senecta./Et nimium vixisse diu nocet. Audiat istas,/siqua tibi nurus est, siqua est tibi filia, voces./Consilii satis est in me mihi. Neve monendo/profecisse putes, eadem est sententia nobis./Cur non ipsa venit? cur haec certamina vitat?”/Tum dea “venit” ait, formamque removit anilem/Palladaque exhibuit. Venerantur numina nymphae/Mygdonidesque nurus: sola est non territa virgo./Sed tamen erubuit, subitusque invita notavit/ora rubor rursusque evanuit, ut solet aer/purpureus fieri, cum primum aurora movetur,/et breve post tempus candescere solis ab ortu./Perstat in incepto stolidaeque cupidine palmae/in sua fata ruit: neque enim Iove nata recusat,/nec monet ulterius, nec iam certamina differt./Haud mora, constituunt diversis partibus ambae/et gracili geminas intendunt stamine telas/(tela iugo iuncta est, stamen secernit harundo);/inseritur medium radiis subtemen acutis,/quod digiti expediunt, atque inter stamina ductum/percusso paviunt insecti pectine dentes./Utraque festinant cinctaeque ad pectora vestes/bracchia docta movent, studio fallente laborem./Illic et Tyrium quae purpura sensit aenum/texitur et tenues parvi discriminis umbrae,/qualis ab imbre solet percussis solibus arcus/inficere ingenti longum curvamine caelum:/in quo diversi niteant cum mille colores,/transitus ipse tamen spectantia lumina fallit;/usque adeo quod tangit idem est, tamen ultima distant./Illic et lentum filis inmittitur aurum/et vetus in tela deducitur argumentum./Cecropia Pallas scopulum Mavortis in arce/pingit et antiquam de terrae nomine litem./Bis sex caelestes medio Iove sedibus altis/augusta gravitate sedent. Sua quemque deorum/inscribit facies: Iovis est regalis imago./Stare deum pelagi longoque ferire tridente/aspera saxa facit, medioque e vulnere saxi/exsiluisse fretum, quo pignore vindicet urbem;/at sibi dat clipeum, dat acutae cuspidis hastam,/dat galeam capiti, defenditur aegide pectus,/percussamque sua simulat de cuspide terram/edere cum bacis fetum canentis olivae/mirarique deos: operis Victoria finis./Ut tamen exemplis intellegat aemula laudis,/quod pretium speret pro tam furialibus ausis,/quattuor in partes certamina quattuor addit,/clara colore suo, brevibus distincta sigillis./Threiciam Rhodopen habet angulus unus et Haemum/(nunc gelidi montes, mortalia corpora quondam!),/nomina summorum sibi qui tribuere deorum./Altera Pygmaeae fatum miserabile matris/pars habet: hanc Iuno victam certamine iussit/esse gruem populisque suis indicere bella./Pinxit et Antigonen ausam contendere quondam/cum magni consorte Iovis, quam regia Iuno/in volucrem vertit; nec profuit Ilion illi/Laomedonve pater, sumptis quin candida pennis/ipsa sibi plaudat crepitante ciconia rostro./Qui superest solus, Cinyran habet angulus orbum;/isque gradus templi, natarum membra suarum,/amplectens saxoque iacens lacrimare videtur./Circuit extremas oleis pacalibus oras:/is modus est, operisque sua facit arbore finem./Maeonis elusam designat imagine tauri/Europam: verum taurum, freta vera putares./Ipsa videbatur terras spectare relictas/et comites clamare suas tactumque vereri/adsilientis aquae timidasque reducere plantas./Fecit et Asterien aquila luctante teneri,/fecit olorinis Ledam recubare sub alis;/addidit, ut satyri celatus imagine pulchram/Iuppiter implerit gemino Nycteida fetu,/Amphitryon fuerit, cum te, Tirynthia, cepit,/aureus ut Danaen, Asopida luserit ignis,/Mnemosynen pastor, varius Deoida serpens./Te quoque mutatum torvo, Neptune, iuvenco/virgine in Aeolia posuit. Tu visus Enipeus/gignis Aloidas, aries Bisaltida fallis;/et te flava comas frugum mitissima mater/sensit equum, sensit volucrem crinita colubris/mater equi volucris, sensit delphina Melantho./Omnibus his faciemque suam faciemque locorum/reddidit. Est illic agrestis imagine Phoebus,/utque modo accipitris pennas, modo terga leonis/gesserit, ut pastor Macareida luserit Issen;/Liber ut Erigonen falsa deceperit uva,/ut Saturnus equo geminum Chirona crearit./Ultima pars telae, tenui circumdata limbo,/nexilibus flores hederis habet intertextos./Non illud Pallas, non illud carpere Livor/possit opus. Doluit successu flava virago/et rupit pictas, caelestia crimina, vestes./Utque Cytoriaco radium de monte tenebat,/ter quater Idmoniae frontem percussit Arachnes./Non tulit infelix laqueoque animosa ligavit/guttura. Pendentem Pallas miserata levavit/atque ita “vive quidem, pende tamen, improba” dixit:/“lexque eadem poenae, ne sis secura futuri,/dicta tuo generi serisque nepotibus esto.”/Post ea discedens sucis Hecateidos herbae/sparsit; et extemplo tristi medicamine tactae/defluxere comae, cum quis et naris et aures,/fitque caput minimum, toto quoque corpore parva est:/in latere exiles digiti pro cruribus haerent,/cetera venter habet: de quo tamen illa remittit/stamen et antiquas exercet aranea telas.
Pensavo, passeggiando fra bancarelle e rumori della sagra dell’anguria, alle bolle di sapone come facevo un tempo.
Andavo da Lucia, al Bar Sport, chiedevo un cannuccia, mi voleva bene e me ne dava almeno tre!
Non erano di plastica all’epoca, ma di qualche paglia. Poi andavo a casa, mischiavo sapone di Marsiglia in scaglie con acqua in un bicchiere: “non prendere quelli buoni, prendi l’altro, quello un po’ scheggiato” diceva mia madre. Dovevo poi mescolare qualche tempo, andavo sul balcone, con la cannuccia facevo le bolle di sapone. Era bello, non necessariamente facilissimo, dovevi dosare sapone e acqua, dovevi misurare la quantità d’aria, se era tutto ben fatto venivano anche grandi, molto grandi, era un piacere vederle appoggiarsi sull’aria, avevano dentro l’arcobaleno. Se invece non venivano bene occorreva diventare piccoli chimici, ridosare acqua e sapone, in fondo anche le banali bolle di sapone erano educative, insegnavano.
La generazione successiva alla mia subì l’evoluzione tecnologica, via il sapone di Marsiglia in scaglie, via bicchieri e cannucce, si acquistavano cilindretti di plastica con dentro un liquido con sapone e un cerchio nel quale si formava la bolla. Anche qui occorreva saper soffiare con giusta cautela, finito il liquido si gettava via tutto, fare acqua e sapone era roba antica. In sostanza, mentre prima si gettava una cannuccia di materiale biodegradabile, dopo si conferiva (neologismo per dire di immondizia) un pezzo di plastica. Si chiama evoluzione.
Alla sagra dell’anguria mi sono trovato avvolto da mini bolle di sapone, belle, gioiose. Le stava facendo un bimbo con un marchingegno strambo, una sorta di pistola funzionante a batteria che le sparava a raffica. E camminando mi dicevo che quel bimbo conosce le bolle di sapone, però difficilmente sa come si formano, neppure la gioia di mischiare prodotti diversi per farle, nmè quella di saper soffiare con la giusta forza.
Soprattutto uno dei giochi più ecologici è diventato fonte di inquinamento incredibile. Oltre ai 200 grammi circa di plastica che, finito il liquido, probabilmente finiranno in discarica e le batterie che dureranno lo spazio di un paio di fette d’anguria. Poi si cercheranno, forse, nuove ricariche. Forse…
Certo, a questo punto il rischio di dire che “quando i mulini erano bianchi…” ci sta tutto. Non lo dico, era solo un pensiero in libertà, incasellato fra l’anguria, la banda che suonava la Norma, i bimbi che forse non sanno che per fare bolle di sapone è sufficiente il sapone e un po’ d’acqua, non servono marchingegni diabolici. O forse solo un po’ di nostalgia di Lucia, di un balcone per vedere dove volano e sognare terre sconosciute.
E mi chiedevo quel bimbo, fra cinquant’anni, se e come ricorderà quelle bolle di sapone alla sagra dell’anguria.
Un grande evento. Fernanda Ferraresso, che rappresenta uno dei punti di
riferimento per la poesia e per la letteratura in Italia e anche fuori, ha
scelto Terra d’ulivi per pubblicare il suo libro. Fernanda ha già collaborato
con Elio Scarciglia in altre opere e ora arriva per la prima volta nel Salento. Sabato 26 luglio 2014 ore 20.30 Palazzo Postiglione – Via Marsini, 23 – Salve (Le)
Comitato Tutela Ambiente e Salute e Terra d’ulivi (Le)
presentano NEL LUSSO E NELL’INCURIA di Fernanda Ferraresso (ed. terra d’ulivi 2014)
Introduce Cosimo Negro
Modera Patrizia Pizzolante
Intervengono – Fernanda Ferraresso, Antonio Imbò, Elio Scarciglia
Letture a cura di Assunta Raone e Morena Russo
Intermezzo Quintetto musicale
Durante la serata sarà proiettato “DIMMI SE” di Elio Scarciglia con testi di
Fernanda Ferraresso
I libri di Poesia, quando si nutrono della linfa della Vita, sono terreno
fertile di scoperte, percorsi della memoria che accompagnano in sottotraccia la
scrittura, illuminando le radure dove il pensiero si ferma, i nuclei
significanti generano il tessuto, la struttura delle pagine. La lettura di
questo libro è stata scoperta e riscoperta. Conosco Fernanda da qualche anno, e
ogni suo libro mi dona una parte di lei. Come un dialogo che non si interrompe,
come un fuso paziente che raccoglie la matassa dei ricordi, dipana il filo,
crea l’ordito, disegna la trama, la sua scrittura procede sicura e limpida,
domina la carnalità sfiorando l’allusione, la metafora, il simbolo. Così, in
“Nel lusso e nell’incuria” (Terra d’Ulivi, 2014), l’ordito delle memorie che
partono dalla madre, dalla casa, dalle separazioni dell’infanzia, dalle voci
dei vecchi (La Madia di Maya), diventa l’humus, l’ordito su cui tessere le
vicende più recenti dell’esistenza. (Raffaella Terribile)
Serrano (Lecce): 22 luglio 2014, consegna del premio “L’olio della poesia”, XIX edizione
di Rocco Boccadamo
Si prova, immancabilmente, una sensazione di semplice e leggero incanto nel ritrovarsi, al primo saluto della sera, nella piccola autentica bomboniera di piazza Lubelli, cuore della, a sua volta, minuscola, affascinante e un tantino misteriosa località salentina di Serrano.
Quest’anno, la manifestazione prende corpo nel giorno di Santa Maria Maddalena, una figura di divinità che, allo scrivente, viene sempre spontaneo d’immaginare come una donna giovane e fascinosa, volto incorniciato da una lunga treccia.
Ricorrenza canonica che, in un’altra cittadina del basso Salento, Castiglione d’Otranto, è contraddistinta da una secolare fiera – mercato a mera impronta paesana, una volta definita “fiera delle cipolle” e accompagnata dal semplice e indicativo proverbio “A Santa Maria Maddalena, va alla vigna e se ne vene prena (pregna)”, a voler così riferirsi, non si sa esattamente essendo di analoga intensità la verosimiglianza insita nelle due distinte e distanti opzioni, o ai primi acini d’uva che iniziano a maturare nei vigneti ad alberello classici del territorio (i cippuni), o a un tutt’altro genere di maturazione che arriva a lievitare dentro a un’immaginaria giovane contadina recatasi a lavorare, giustappunto, nella vigna.
Sia come sia, in questo 2014, la ricorrenza del 22 luglio, non se ne adonti la Santa, grazie alla concomitanza dell’evento serranese, da parte sua ormai divenuto adulto, sembra ritrarre un’indicativa ascesa di solennità, insieme con un alone d’ideale magia.
Per la verità, nell’odierna occasione, il cielo, in alto, è insolitamente accompagnato da nubi sparse, da cui, a certo punto, promanano finanche accenni di pioggia, e però si tratta di gocce sparute, soltanto per un attimo, quasi come un discreto segno di partecipazione, della volta tinta di blu scuro, alla festa. In fondo, senza il minimo disturbo, forse volendo riconoscere che, ad accarezzare il capo e a plasmare il sentimento e la suggestione dei tanti invitati e ospiti, stasera concorrono, bastevoli, altre gocce che profumano, con naturale maggiore intensità, di vita, passione, lavoro, tradizione, tanta fatica, ossia a dire gocce d’olio. E, come già notato da taluni commentatori, non poteva trovarsi un connubio più puntuale di quello tra il frutto o le lacrime degli ulivi da una parte e la poesia dall’altra, giacché la poesia nasce anch’essa da stille dell’animo, sempre, anche quando è espressa sotto forma di versi e parole d’allegria e di gioia.
Ancora un rilievo: da lassù, non si affaccia alcun profilo della luna, come se Selene avesse scelto di starsene in disparte, lasciando il posto, nella cornice di piazza Lubelli, a una sua gemella, inanimata e tuttavia non meno fulgida, “La luna dei Borboni”, il titolo di un volume che racchiude le più belle, indicative e conosciute poesia di un grande, ma ancora non adeguatamente apprezzato, poeta salentino, Vittorio Bodini, di cui cade adesso il centenario della nascita. Bodini, cantore del Capo di Leuca, di ulivi, carrettieri, contadini, arti e mestieri umili, volti riarsi, raggi accecanti. Per precisa scelta organizzativa, alla sua figura è dedicato il prologo della diciannovesima edizione dell’Olio della poesia e suscita viva emozione la presenza sul palco della figlia del poeta, Valentina, alla quale è consegnata una targa in ricordo del chiarissimo letterato.
Al solito, l’evento di Serrano si articola in tre punti e momenti.
Il primo, l’attribuzione di un segno di riconoscimento, il Premio millennium, a un esponente salentino distintosi nel campo della promozione culturale e della poesia in particolare, individuato e scelto, nell’occasione, in Maurizio Leo, che riceve in premio una pregevole scultura in pietra leccese, una sorta di simbolo identitario dell’interiorità materiale di questa terra.
Quindi, un’assegnazione, il Premio Salento d’amare, in certo qual modo alla carriera, andata, quest’anno, a un famoso personaggio artistico nel campo della composizione musicale e della canzone, Vinicio Capossela, istrionico e originale talento pur in una veste d’estrema semplicità, star di spessore internazionale e, però, dalle origini radicate nel meridione d’Italia, in Irpinia per la precisione. Pecularietà aggiuntiva, l’artista in discorso è una presenza frequente fra i nostri muretti di pietra, i nostri uliveti, avendo egli, da un ventennio, preso dimora, per le sue parentesi di riposo, nel paesino di Patù, giusto verso la punta estrema della nostra penisola, lì a gustarsi il fascino della natura in terra e sul mare di S.Gregorio, insieme con la genuina semplicità dei nuovi compaesani, essendo divenuto cittadino onorario della località prescelta.
Infine, al centro dell’evento, il vero e proprio “olio della poesia”, premio consistente in un quintale d’extra vergine di oliva e in un soggiorno a Otranto. Nella presente tornata della manifestazione, si rende onore al merito di un grande poeta e scrittore milanese, Maurizio Cucchi, il quale, a prescindere dalla sua moderna e accesa personalità, non è completamente azzardato configurarlo alla stregua di un Manzoni dei tempi presenti.
Colpisce e incanta, il maestro Cucchi, già col fascino che trasuda dal volto incorniciato da una folta canizie; ma, soprattutto, sono le sue riflessioni, i versi e le parole che giungono direttamente al cuore di che ascolta o legge. Dà l’idea, Cucchi, di voler tracciare ideali confini della vita, ancorando mirabilmente immagini e volti del passato recente e anche lontano a passi e a azioni della quotidianità corrente.
Circa duemila i presenti dinanzi al proscenio serranese, che assistono, coinvolti, alle scansioni dell’evento, in una serata per di più impreziosita, con maestria e spessa vena artistica, grazie alla lettura di brani per opera dell’attore salentino Francesco Piccolo, anima della compagnia teatrale “La Busacca” e all’esecuzione d’avvincenti intermezzi musicali a cura di un giovanissimo talento di casa nostra, Vincenzo Tommasi di Calimera, il quale, con la sua chitarra, conferisce un vero e proprio abbraccio al premio “Olio della poesia”.
Quanto stride con la cultura della mia terra l’approccio di alcuni amici che mi spiegano la loro modernità.
La modernità enogastronomica la intendono così:
“servire alle popolazioni locali l’esotismo, ovvero ciò che è viene da lontano!”
E pensare che io ho sempre immaginato l’ospitalità e il futuro enogastronomico della nostra terra proprio al contrario:
“servire a chi viene da lontano ciò che è “de quai”!!!”…
P.S.
La prima critica è giunta: solo vini pugliesi e salentini nei tuoi canti e nelle tue cantine.
Si. E se avrò salute canterò il Salento e la Puglia ovunque ma non per ottuso provincialismo, solo per profondo rispetto alla mia terra e alla tera d’altri. Potrei parlare anche di Sicilia, Campania, Sardegna, Lazio, Calabria, Piemonte e Lombardia e poi? I miei amici Siciliani, Campani, Sardi, del Lazio (que’altra parola io non la dico), Calabri, Piemontesi e Lombardi di cosa dovrebbero raccontare? Per altre terre si può avere un occhio di riguardo e una visione di un momento ma il cuore …. il mio cuore è qui, in questa striscia di terra a forma di martora che si abbevera tra due mari …. di questa critica non me ne dolgo, me faccio vanto.
* il post è stato estrapolato dal profilo Facebook di Pino de Luca, che non ha autorizzato. Ci perdonerà se lo abbiamo fatto senza chiedergli permesso
Se fosse come ci vogliono far credere dovremmo pensarlo veramente: l’Europa rompe i cabasisi (per dirla con Camilleri).
Ogni tassa, ogni balzello, ogni prelievo vengono imposti perché, si dice platealmente o si sottintende, “ce lo chiede l’Europa!” Il rosario iniziò con Monti, prima eravamo nelle mani del bunga bunga e dello scialo, d’altra parte con ministri dediti a parare le terga del loro capo, impegnato a non rispettare nessuna legge dello Stato, non potevamo certo aspettarci anche democrazia, etica e intelligenza amministrativa.
Quello che seguì, da Monti a Letta al giovane Renzi (immediato viene alle mente, parafrasando, “i dolori del giovane Werther”, però al momento i dolori, Renzi, li fa venire ai padri Costituenti che si staranno rivoltando ovunque si trovino), è tutto un mantra continuo. Ad oggi non conosco l’evoluzione la new tassa (voluta dall’Europa naturalmente) che agli inizi del 2014 era sulle prime pagine, quella sui morti. Si decise infatti di diminuire le detrazioni (all’epoca su 1500 euro) e di imporre un’aliquota IVA sulle spese funerarie del 10%, al momento erano esenti. Non è proporzionale, infatti la morte è “ ‘a livella”, uguale per tutti, quindi non poteva che essere una tassa uniforme.
Certo che il morto rende allo Stato e agli enti locali, è un’attività che non conosce crisi, si alza lo spread? Si muore uguale. Crolla la Borsa? Nessun problema, un bel funerale passa sotto casa ugualmente. Il reddito per lo Stato è inesauribile. Non è un caso che esistano, sul de cuius, una serie di balzelli che potremmo definire bizzarri. Volete cremare il vostro caro e conservarne le ceneri? Imposta di bollo sulla domanda di “Affido personale ceneri”.
Volete disperdere le ceneri in mare o all’aria dei monti? Tassa sull’autorizzazione con relativa imposta di bollo. Qui l’evasione è facilissima, voglio vedere la Guardia di Finanza che viene in casa a controllare se l’urna cineraria è piena o vuota.
Vi serve il rilascio di “certificato di constatazione decesso”? Con una versamento di 35 euro (più le spese per il bollettino postale) vi togliete la paura.
E ancora mi chiedo il significato di un bizzarro documento che dovetti una volta produrre: il certificato di esistenza in vita. Bello vero? Ero davanti all’impiegato del Comune di residenza e gli ho detto “mi vedi? Se vuoi puoi toccarmi”. Si fidò sulla parola, ero vivo. Lo certificò con tanto di bollo e timbro. In carta libera però. Allora non esisteva l’autocertificazione che poi arrivò su tutto, anche sul certificato antimafia: “dichiaro di non essere mafioso”, qualcuno sornione pare abbia scritto “dichiaro che la mafia non esiste, per cui non posso farne parte”.
E di tasse strambe è piena l’Italia. I commercianti che mettono tende parasole sugli ingressi dei negozi pagano “occupazione suolo pubblico” , una sorta di tassa sull’ombra, fate ombra al marciapiede, quindi pagate!
“Ci tasseranno anche l’aria” dice qualcuno (sicuramente un antieuropeista convinto). Già fatto! Il gas Metano e il GPL sono addizionati con aria per facilitarne la combustione. L’imposta è sul prodotto finito, aria compresa. Un po’ come l’IVA sulle tasse delle bollette di gas di città in cui l’imposta veniva calcolata anche sulle tasse regionali.
Petizioni, intercessioni, domande ricorsi. Tutto ha un costo erariale in Italia. Per proporli devi pagare.
I pubblici esercizi poi debbono pagare la tassa sui frigoriferi. Il freddo, bene sappiamo, è un lusso.
E attenti ad esporre i tricolore, potrebbe arrivarvi una richiesta di esborso fra capo e collo, la chiamano “tassa per la pubblicità”. E’ successo, può succedere!
E se fate un ricorso per una multa sbagliata dovete pagare il bollo. Se vincete significa che avevate ragione, però vi toglieranno solo la multa, nessun risarcimento è previsto!
Qualcuno più “intelligente” di altri provò anche con la tassa sui fidanzatini. Al governo regnava Monti, la proposta (poi rientrata perché si sono resi conto non tanto di averla detta grossa, quanto piuttosto di essere stati beccati in flagranza di rapina) era di tassare gli sms.
Chissà se a qualcuno è balenata l’ipotesi di poter tassare i rapporti sessuali. Potremmo trovarci un contatore sulla testata del letto. E comprenderemo immediatamente che “E’ l’Europa che lo vuole!”
Parte da Salento la riscossa tricolore contro l’invasione di alimenti esteri sulla pietanza simbolo dell’italianità Presentazione e degustazione martedì 22 luglio ristorante Lo Scoglio di Pirro, Torre San Giovanni (Ugento)
Quasi due pizze su tre (63 per cento) servite in Italia sono ottenute da un mix di farina, pomodoro, mozzarelle e olio stranieri. Una vera beffa per il prodotto simbolo dell’italianità. La riscossa tricolore parte quest’estate dal Tacco d’Italia ed ha le sembianze ed il gusto di una pizza al “cento per cento salentina”, tutta realizzata con ingredienti di Terra d’Otranto, a partire dalla farina, sino al pomodoro, alla mozzarella fior di latte, all’olio extravergine, al basilico ed alle olive. La pizza “salentinissima” verrà presentata (e degustata) martedì 22 luglio, alle 20, nella pizzeria Lo Scoglio di Pirro, a Torre San Giovanni. Ad illustrare le finalità di un’iniziativa che potrebbe avviare un ciclo virtuoso per l’economia locale, ci saranno il direttore di Coldiretti Lecce, Giampiero Marotta, la responsabile di Campagna Amica di Coldiretti Lecce, Teresa Buttazzo ed il gourmand e cultore del cibo Pino De Luca, che racconterà aneddoti e segreti dei preziosi ingredienti che danno vita alla pizza autoctona. La pizza salentina al cento per cento rappresenta un tentativo di inversione di rotta, dunque, ad un trend assai negativo fotografato dal dossier “La crisi nel piatto degli italiani nel 2014”, presentato dal presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo al Teatro Palapartenope di Napoli. Dall’indagine Ixe è infatti emerso che quasi due pizze su tre (63 per cento) servite in Italia sono ottenute da un mix di farina, pomodoro, mozzarelle e olio provenienti da migliaia di chilometri di distanza senza alcuna indicazione per i consumatori che oggi hanno rinunciato del tutto ad andare in pizzeria (25 per cento) o hanno ridotto le presenze (40 per cento) rispetto a prima della crisi. Oltre alla pizza è sempre meno tricolore la pasta, mentre i sughi più nostrani, dall’arrabbiata alla puttanesca, profumano d’oriente e il pane viene impastato nei Paesi dell’est Europa. Del resto i dati parlano chiaro: in Italia sono stati importati nel 2013 – spiega la Coldiretti – ben 481 milioni di chili di olio di oliva e sansa, oltre 80 milioni di chili di cagliate per mozzarelle, 105 milioni di chili di concentrato di pomodoro dei quali 58 milioni dagli Usa e 29 milioni dalla Cina e 3,6 miliardi di chili di grano tenero con una tendenza all’aumento del 20 per cento nei primi due mesi del 2014. “Un fiume di materia prima che – sostiene il direttore di Coldiretti Lecce, Giampiero Marotta – ha purtroppo compromesso notevolmente l’originalità tricolore del prodotto servito nelle 50mila pizzerie presenti in Italia che generano un fatturato stimato di 10 miliardi, ma non offrono alcuna garanzia al consumatore sulla provenienza degli ingredienti utilizzati”.
L’appuntamento gastronomico sarà preceduto da un’altro taglio del nastro nel segno della qualità alimentare e della tipicità delle produzioni: alle 18 sarà infatti inaugurata ad Ugento in via Napoli n. 15 la prima “Bottega Italiana” del Salento leccese, uno spazio commerciale dove acquistare solo prodotti agricoli italiani selezionati all’origine, provenienti direttamente dal circuito delle aziende agricole accreditate al Consorzio Produttori Campagna Amica.
La tutela degli alberi monumentali è legge dello Stato, è stata pubblicata con la G.U del 1 febbraio 2013, per la prima volta in Italia. I comuni dovranno censirli, documentarli e chi ne provoca l’abbattimento potrebbe essere sanzionato con ammende salate. Tali norme riguardano anche il verde urbano e prevedono l’istituzione della giornata degli alberi il 21 novembre. Già si contano in Italia circa 22.000 alberi notevoli tra cui 2.000 esemplari di grande interesse e 150 di eccezionale valore storico. È senza dubbio un passo di rilievo per lo sviluppo sostenibile delle città che comunque peccano ancora di riferimenti comuni sulla manutenzione degli spazi verdi urbani. I sindaci, a cui si appella l’esplicita richiesta di consultare le giuste competenze di tecnici e appassionati, dovranno rendere noto alla fine del loro mandato il bilancio del verde. Tale regolamento convalida la bontà e la perseveranza delle campagne ecologiche sostenute fino ad adesso, in favore del patrimonio arboreo e boschivo.
Con l’attuazione del protocollo di Kyoto e le politiche di riduzione delle emissioni, la prevenzione del dissesto idrogeologico e la protezione del suolo si giunge ad evidenziare la monumentalità come fattore vitale. Con il rito della giornata degli alberi si vogliono interessare le scuole di concerto ai ministeri dell’Istruzione e delle Politiche agricole per promuovere iniziative in sostegno all’ecosistema, nel rispetto di tutte le specie vegetali. Modelli di educazione civica e ambientale senza dubbio forti e ricchi di volontà di cambiare gli attuali atteggiamenti d’indifferenza o d’imperizia amministrativa in tema di verde.
Allora cosa cambierà con tale legge per gli ulivi millenari e soprattutto adesso le domande diventano più che pertinenti!
Cosa definisce la “monumentalità”?
C’è da riflettere sul David o la Pietà di Michelangelo, sul Quarto Stato di Pellizza da Volpedo o l’Urlo di E.Munch e poi associarli ad uno solo dei nostri ulivi; per quelli che un mio amico salentino mi ripete sempre: “se riesci a vedere un solo profilo su queste piante è troppo poco”.
Per la legge regionale del 2007 sulla “Tutela e Valorizzazione del paesaggio degli Ulivi della Puglia” si definisce il carattere di monumentalità quando la pianta possiede un’età plurisecolare. L’art.2 della legge, lo deduce dalla dimensione del tronco, che deve avere un diametro uguale o superiore aun metro misurato all’altezza di un metro e trenta dal suolo; nel caso di alberi con tronco “frammentato” il diametro è quello complessivo ottenuto ricostruendo la forma teorica del tronco intero.
Avete mai provato a misurare un albero d’olivo millenario?
La monumentalità non è solo una questione di assi cartesiani! Saremmo certamente in grado di ricavarne grandezze come altezza o circonferenza, quando un fusto è regolare o la sua impalcatura non deriva da un innesto su olivastro. Quasi sicuramente potrebbero sfuggire tante altri variabili utili all’intenzione di valutarne monumentalità o perfino l’età di un albero, come quelle relative alla velocità d’accrescimento, all’incidenza della sua chioma, alla sua biomassa o alla sua produzione di CO2.
Se la purezza di queste valutazioni si traduce con una misura del tronco inferiore alle aspettative, si dovrebbe valutare anche il “carattere”. “Il carattere di monumentalità può attribuirsi agli uliveti che presentano una percentuale minima del 60 per cento di piante monumentali all’interno dell’unità colturale, individuata nella relativa particella catastale”. Va bene porre un parametro per questa stima, ma si sa, il territorio pugliese, in particolare quello più meridionale è molto frazionato ed ancora intorpidito da incertezze sociali ed economiche.
Ma cosa s’intende per “unità colturale”?
L’azienda olivicola media ha pochi ettari e, in genere, ha differenti unità produttive sparse in più comuni; il rilevamento satellitare in tempi recenti ha rivalutato questo concetto e i ritocchi su questa materia potrebbero essere in itinere. Per queste sollecitazioni dovremmo solo rendere merito a migliaia di piccoli conduttori di piccoli unità secolari, che con amorevole dedizione tra tante difficoltà hanno tutelato questo patrimonio conoscendo solo le leggi della natura. Purtroppo, a questo proposito, va accentuato il riferimento all’uso dei pesticidi sotto chioma degli ulivi per la preparazione delle piazzole di raccolta. Per questo motivo, un sistema di tracciabilità di un olio proveniente da olivi secolari ben venga, ma che sia anche salutare; non è certo piacevole pensare alla tutela di un olivo senza considerare anche il suo agro-ecosistema, compreso quello delle aree protette.
La legge sulla Tutela degli ulivi accetta la monumentalità quando accerta il “valore storico-antropologico, quando sono citati o rappresentati in documenti o in rappresentazioni iconiche – storiche”.
Quanti epiteti d’eccezione conoscete nel vostro agro?
Fortunatamente, d’immagini, ritratti e testimonianze ce ne sono a bizzeffe da accreditare e conservare un intero territorio, basterebbe solo consultare le antiche mappe medioevali. A differenza di altre regioni, dove gli olivi secolari sono rari, identificati e appellati, la Puglia possiede un patrimonio così esteso che non riesce neanche a marcare un’identità per ognuno di essi e comunque individuarli o mapparli è già un atto di tutela che ogni cittadino potrebbe assumere. Un censimento è difficile ma non impossibile se ci si avvale dei moderni mezzi di rilevamento e di tracciabilità disponibili. In Puglia il valore storico-antropologico ed emotivo oltrepassa qualsiasi valutazione tecnica o teorica.
Cosa definisce una forma teorica nel regolamento di Tutela degli ulivi?
La cosiddetta forma teorica, infatti, può essere: spiralata, alveolare, cavata, con portamento a bandiera o con presenza di formazioni mammellonari tanto che qualcuno riesce a riconoscerne una faccia, un’espressione, una danza o addirittura una caricatura. Forse sarebbe il caso di consultare una commissione di esperti d’arte per valutare la struttura scultorea dell’albero e magari anche di definire il suo limite spaziale ed estetico. Per la “Tutela degli ulivi” una pianta è monumentale quando trovasi (localizzata) adiacente a “beni d’interesse storico-artistico, architettonico, archeologico riconosciuti ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137)”.Una regione come il Salento, con centinaia di migliaia di alberi secolari di respiro messapico dovrebbe essere rivalutata o meglio dettagliata. In questa terra non c’è uliveto secolare senza un menhir, un dolmen, un ipogeo o un’antica masseria.
L’adiacenza non specifica la distanza reale, anzi, in alcuni casi diventa paradossalmente un infelice anomalia per la stessa pianta. Basterebbe, quindi, riconoscere meglio il valore di questi ultimi per proteggere un solo ulivo e di chi vive della loro presenza.
Allora non sarebbe il caso di riassumere le nostre riflessioni su questo argomento?
L’ulivo secolare dovrebbe essere vissuto come un richiamo per chiunque voglia relazionare il proprio status creativo con il territorio. L’osservatore percepisce questa dimensione ecologica e naturale con lo stesso stupore con cui ammira un opera d’arte, s’incuriosisce e quota con interesse; quasi sempre ritorna ai piedi del suo albero più caro in segno di devozione e ringraziamento. Si dovrebbe dire monumentale anche quando si riconosce il suo valore simbolico ed ecologico; questa definizione avrebbe una considerevole valenza anche per i gruppi olivicoli più appassionati, quelli che per intenderci, sarebbero eticamente i veri custodi degli alberi secolari con cui adesso ogni comune dovrebbe relazionare. L’ulivo è stato da sempre portavoce di pace per i popoli del mediterraneo ed indubbiamente emblema di grazia e sacralità da millenni. Secondo il mito fu proprio Atena a ingentilire l’oleastro per farlo diventare simbolo di castità. Per i romani era il simbolo degli uomini illustri, per gli ebrei era simbolo di giustizia e sapienza, mentre per i cristiani è figura di rigenerazione e di riconciliazione della terra con il cielo tanto che il suo olio è ancora oggi usato nelle celebrazioni liturgiche.
L’Italia con l’art 9 della costituzione Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Lo Stato italiano demanda alle Regioni la tutela e la selezione delle aree protette, tra cui i monumenti naturali. La Legge quadro 394 del 1991, chiamata anche legge Moschini, al comma 8 dell’art. 2 recita: «la classificazione e l’istituzione dei parchi e delle riserve naturali d’interesse generale e locale sono compiute dalle Regioni». Ai fini della presente legge costituiscono il patrimonio naturale, le formazioni fisiche, geologiche, geomorfologiche e biologiche, o gruppi di esse, che hanno rilevante valore naturalistico e ambientale. I territori nei quali siano presenti i valori di cui al comma 2, specie se vulnerabili, sono sottoposti ad uno speciale regime di tutela e di gestione, allo scopo di perseguire, in particolare, le seguenti finalità: a) “conservazione di specie animali o vegetali, di associazioni vegetali o forestali, di singolarità geologiche, di formazioni paleontologiche, di comunità biologiche, di biotopi, di valori scenici e panoramici, di processi naturali, di equilibri idraulici e idrogeologici, di equilibri ecologici”. b) applicazione di metodi di gestione o di restauro ambientale idonei a realizzare un’integrazione tra uomo e ambiente naturale, anche mediante la salvaguardia dei valori antropologici, archeologici, storici e architettonici e delle attività agro-silvo-pastorali e tradizionali; c) promozione di attività di educazione, di formazione e di ricerca scientifica, anche interdisciplinare, nonché di attività ricreative compatibili; d) difesa e ricostituzione degli equilibri idraulici e idrogeologici. I territori sottoposti al regime di tutela e di gestione di cui al comma 3 costituiscono le aree naturali protette. In dette aree possono essere promosse la valorizzazione e la sperimentazione di attività produttive compatibili.
Alla luce di tali regolamenti e dell’insieme di valori sarebbe importante considerare la regione Puglia come un enormeParco degli Ulivi secolari, magari accompagnato da un valido disciplinare di produzione, in cui gli enti locali dovrebbero acquisire le prerogative e la volontà di farne parte integrante, come una sorta di debito etico nei confronti di una civiltà rurale ancora fondata sull’atavica passione per il suo patrimonio estremamente vulnerabile. Evidentemente c’è ancora molto da censire: si spera che questo impegno abbia la sua utilità.
Ingr. : 320 g di pasta mista, 250 g di ceci già cotti, 300 g di baccalà già ammollato, 2 cucchiai di concentrato di pomodoro, 2-3 spicchio d’aglio, olio di frantoio q.b. , pepe nero e sale
Ponete i ceci con tutto il loro brodo di cottura in una casseruola e portate a bollore, rosolate in una padella con un filo d’olio sul fondo e gli spicchi d’aglio schiacciati il baccalà tagliato a tocchetti, fatelo rosolare e insaporire bene e unitelo ai ceci. Aggiungete il concentrato di pomodoro e lasciate cuocere per una ventina di minuti. Sbollentate la pasta e scolatela qualche minuto prima dalla cottura (lasciando da parte un po’ di acqua di cottura) unitela ai ceci con il baccalà e completatene la cottura, se dovesse asciugarsi troppo aggiungete un po’ di acqua di cottura della pasta. Servite spolverizzando di pepe nero macinato al momento.
Voglio anzitutto rassicurare il lettore dicendo subito che non mi accingo a parlare delle donne brutte di Nardò, ammesso, per assurdo, che ce ne siano; a questo punto mi aspetto dalla prima lettrice un passaparola che mi renderà uno degli uomini più “contattati” di questa città e, mi voglio automontare …, d’Italia.
Forse qualche buongustaio resterà deluso ma non troverà nessuna ricetta, né vecchia né nuova per un bel piatto a base di mitili da consumare da solo o in buona o dolce compagnia. E il buongustaio, questa volta senza distinzione di genere, non col passaparola (che, comunque, stimolerebbe, nonostante il giudizio negativo, la curiosità altrui) ma col silenzio lascerà immutato quello che avrò ottenuto grazie all’iniziale lettrice di prima.
E allora? Certe volte basta che una iniziale (intendo dire lettera …) sia maiuscola o minuscola per suscitare apprensioni infondate o aspettative senza futuro. Se vuoi sapere come ciò possa avvenire e non fai parte della schiera dei più che già son passati a leggere o a fare altro, cercherò di non deluderti.
Avrai notato, intanto, che ho scritto Neritine e non neritine, perché siamo in presenza di un aggettivo sì ma sostantivato a tal punto da essere diventato nome proprio di un genere di molluschi acquatici.
Guarda quant’è lunga la lista che ho trovato in William Healey, List of marine Mollusca, Government printing office, Washington, 1885, p. 195-197.
Chissà quante altre specie si saranno aggiunte nel frattempo al genere Neritina, magari con nomi ancora più curiosi, per vari motivi, di quelli già visti (per esempio: brasiliana, clandestina, pygmaea, tristis, venosa, virginea)!
Ma il nome principale, Neritina, che indica il genere, potrebbe aver a che fare con Nardò, considerando che il toponimo, già Neretum in Ovidio, diventò in epoca moderna (prima di assumere la forma attuale), Nerito, da cui l’etnico Neritini (quasi prevalente rispetto alla variante Neretini da Neretum)?
Neritina è diminutivo del latino scientifico nerìta che è dal greco νηρίτης (leggi nerìtes) o νηρείτης (leggi nerèites), nome di un mollusco marino. La voce è sicuramente connessa con Νηρηίς (leggi Nerèis)=figlia di Nereo, Nereide, a sua volta da Νηρεύς (leggi Nerèus)=Nereo, divinità del mare tranquillo.
Se, come sembra, Nardò si ricollega ad una radice nar che significa acqua, la domanda di prima non esclude una risposta affermativa.
E chiudo con alcune immagini di Neritine. Altro che cozze, pure tra i molluschi! Così dispiace che la loro bellezza non si possa ammirare nelle nostre acque; la loro, perché per ammirare quella delle nostre donne basta, in questa stagione, recarsi al mare. Buon bagno a tutti e che la stessa lettrice con cui ho iniziato si sobbarchi, per favore, ad un altro giro di passaparola …!
“Laudato si’, mi Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte, et ello è bello et iocundo et robustoso et forte.” Notissima questa Lode del Cantico delle Creature.
Frate Focu è bello, iocundo, robustoso e forte e, se siamo a Scorrano anche molto molto saporito. Già Frate Focu è il nomignolo che è appioppato ad una delle salse più straordinarie che offra il Salento: in tutti gli altri comuni, in particolare a Spongano, detta Cunserva Mara.
Prodotto di origine almeno seicentesca da annoverare tra quelli di lunga durata[1] visto che utilizza le solanacee come elemento costitutivo e il calore come elemento conservativo. La salentinità è specificata dall’Olio d’Oliva come elemento protettivo.
È noto che le solanacee (quasi tutte) hanno provenienza esotica, precisamente dalle Americhe e che, a parte numerosi studi che ne predatano la scoperta da parte dell’Europa, solo con le caravelle cominciano gli scambi intensi e le traversate comode dell’Atlantico.
Le solanacee sono notoriamente velenose[2] ma è altrettanto noto che la solanina è termolabile e quindi il potere venefico scompare con il calore.
Due fra di esse sono i componenti della “Cunserva mara”: il peperone e il pomodoro.
Del peperone, in ragione della parentela con “frate focu” si usa una varietà dolce e una varietà ricca di capsaicina, anch’essa venefica (dicono) ma tanto tanto saporita …
Infatti “mara” non è sinonimo di amara bensì di piccante e la piccantezza è derivata dalla percentuale di “tiaulicchi” con il quale si confeziona “Frate Focu”.
Secondo il protocollo dei prodotti tipici di Puglia le percentuali tra peperone e pomodoro devono essere rispettivamente 70% e 30%, ma non v’è proferito verbo sulla divisione tra “pipe russu” e “piparrussu” che sembrano uguali solo che il primo è dolce come una carota e il secondo arriva facile facile al centinaio di migliaia di Scoville[3].
Diciamo che un 70-30 tra dolce e piccante da una salsa alla quale tutti si possono approcciare. Sul 50-50 comincia a diventare “Frate Focu” …
Il materiale da utilizzare per la Cunserva mara è dunque costituito da peperoni rossi dolci, peperoncini rossi piccanti e pomodorini fiaschetti. Tutti questi ingredienti devono essere ben lavati, privati del picciolo e dei semi e sminuzzati. Posti quindi in una grande pentola, allungati con un fondo di acqua fresca e una manciata di sale, coperti per bene e lasciati a bollire a fuoco lentissimo per 4-5 ore, fino a quando i pomodori (ricordarsi che devono essere privati di semi) non si spappolano completamente.
Quando la marmellata è bella cremosa essa va passata con una macchinetta per fare la salsa e la passata va posta in ampie terrine di terracotta per alimenti. Devono essere molto ampie e poco profonde poiché vanno esposte al sole protette da zanzariere a trama sottilissima per evitare gli insetti e la polvere.
L’esposizione avverrà tutti i giorni dall’alba al tramonto fino a quando la “Cunserva Mara” non assumerà un colore mogano scuro e sarà abbastanza dura.
Quando la salsa si è essiccata la si pone in un vaso profondo (limmu o limbu) sempre di creta vetrificata, la si copre con un telo di lino e la si lascia al fresco per due o tre giorni, la cunserva si ammorbidirà riassumendo una certa pastosità.
È tempo della “spatolatura”: poco alla volta si aggiunge Olio Extra Vergine di Oliva (OEVO) e con una “cucchiara” di grandi dimensioni si mescola l’olio alla cunserva. In dieci-dodici giorni avremo una crema densa ma molto cremosa e spalmabile che può essere trasferita in vasetti di vetro sterili e coperta con un filo di OEVO.
Compagna inimitabile di friselline, sagne ‘ncannulate e, fidatevi, di arrosti alla brace e formaggi semistagionati, la Cunserva Mara fa da companatico di per sé.
La Cunserva Mara e Frate Focu sono festeggiati appositamente e rispettivamente a Spongano e Scorrano.
[1] cunserva viene senza dubbio da conservare, “cum serbare” ovvero mezzo con il quale proteggere
[2] Autoproducono la solanina, un alcaloide glicosidico che utilizzano per proteggersi da funghi e insetti.
[3] La scala Scoville è quella che misura, in maniera organolettica, la “piccantezza” di un peperoncino, vi sono altre scale più oggettive ma la Scoville è ancora la più usata. Per avere una misura i valori tra 2500000-5200000 della scala indicano gli spray della Polizia. Un peperoncino molto piccante arriva a 50000-70000 Scoville, tranne i super campioni come Habanero che può arrivare a 800000 o all’Infinity Chili che arriva a 2000000. Diciamo che dopo i 100000 siamo al limite del commestibile anche se vi sono persone che riescono ad usarlo serenamente.
Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto,/chi ha dato, ha dato, ha dato…/scurdámmoce ‘o ppassato,/simmo ‘e Napule paisá! recita il ritornello della celebre tarantella di Fiorelli-Valente. Sono passati esattamente 70 anni da quando la canzone venne composta, ben 167 dalla composizione dell’Inno di Mameli, inno che potrebbe essere più realisticamente surrogato dalla canzonetta napoletana dopo aver sostituto il Napule dell’ultimo verso (che poi corrisponde al titolo) con Italia. La sostituzione, però, non è agevole né corretta metricamente parlando ed è come se perfino la tanto malandata Napoli si rifiutasse di indossare le vesti di questa sgangherata penisola.
Così l’invito di lasciare da parte il passato e pensare al futuro suona beffardo e quasi una celebrazione musicale del noto principio gattopardesco, soprattutto alla luce di quel chi ha avuto, ha avuto, ha avuto,/chi ha dato, ha dato, ha dato, che per una sorta di maledizione sembra voler continuare ad estendere il passato prossimo nel presente e nel futuro.
E il futuro evoca ciò che già in altre nazioni, che abbiamo ancora l’incosciente spudoratezza di definire meno evolute di noi, è stato realizzato da tempo: la famigerata agenda digitale, nesso con cui la politica si sciacqua giornalmente la bocca sputando ovvie banalità che la maggior parte di noi, purtroppo, si precipita a bere, deprivata com’è pure della capacità di provare quel sentimento nobilissimo che si chiama schifo.
Si prospetta ancora una volta una valanga di parole, una montagna di progetti, uno sperpero di pubblico denaro (per la stesura di quei progetti e poi per la loro, si fa per dire, realizzazione) nella ripetizione di un copione giudicato fallimentare dagli stessi interessati, come chiunque può rendersi conto leggendo (arrivare fino in fondo e non spaccare il monitor costituisce un bonus pari alla metà di punti necessari per andare dritti dritti in Paradiso …) quanto è riportato al link http://documenti.camera.it/leg17/dossier/Testi/TR0146.htm.
Non mi meraviglierei, perciò, se si ripetesse quanto successo in passato, quando parecchi settori della pubblica amministrazione erano stati informatizzati con attrezzature avveniristiche costate almeno il doppio rispetto al prezzo di mercato ma col risultato brillante di non servire praticamente a nulla perché non in grado di dialogare tra loro per motivi legati all’hardware o al software (esilarante per quest’ultimo l’adozione di sistemi operativi diversi e incompatibili tra loro).
Più di una volta ho stigmatizzato in questo stesso sito la nostra scandalosa arretratezza relativamente alla digitalizzazione e all’immissione in rete, per una fruizione totalmente gratuita, del nostro sterminato patrimonio culturale. Nel frattempo, mentre gli altri sono felicemente in azione già da decenni, non è successo nulla e debbo riconoscere di essere un povero ingenuo quando, pur avendo insegnato latino e greco, dimentico che agenda (gerundivo neutro plurale diventato, poi in italiano femminile singolare) in latino significa cose da fare e che acta, invece, significa cose fatte. Allora, fino a quando si parlerà di agenda e non di acta (o, con assimilazione, atta, neologismo che non brevetterò …) digitale, che cosa pretendo? Non conta niente, poi, che in JobsAct il secondo componente deriva dal latino actum, singolare del precedente acta? Siamo, perciò, sulla buona strada e la smettano pure i gufi e disfattisti di parlare, con riferimento a quello attuale, di governo degli annunci; cosa dire, allora, del precedente governo del fare (non del da fare …) per il quale l’agenda digitale era una delle priorità? Almeno questo è sincero, come sincero, rispetto all’esito finale, è stato chi ha progettato il MOSE in cui, come ho avuto occasione di dire (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/11/il-ponte-tra-otranto-e-apollonia-con-uno-sguardo-al-presente-e-purtroppo-anche-al-futuro/), S sta per sperimentale; con questi precedenti, per lui devastanti, solo un pessimista incorreggibile può sospettare che, in ossequio a questa nefasta (sempre secondo lui) sincerità, pure la banda larga diventerà un allargamento della banda dei soliti disonesti e, più o meno, noti.
Ora dovrei dire – Passiamo a cose più serie! -, come se queste non lo fossero …
Dopo aver ringraziato per analoghi lavori precedenti il sito della Biblioteca Nazionale di Francia, oggi intendo farlo con quello della Biblioteca Nazionale di Spagna e rendere partecipe il lettore che ne ha interesse di una vera e propria chicca, il Theatrum civitatum nec non admirandorum Neapolis et Siciliae regnorum pubblicato ad Amsterdam da Jean Blaeu, famoso cartografo olandese, nel 1663. L’opera è visibile e scaricabile in alta definizione al link http://bdh-rd.bne.es/viewer.vm?id=0000001517. Il file integrale in pdf è molto pesante (ben 518 MB) e per avviare l’operazione basta cliccare sul simbolo del dischetto in alto a sinistra e poi farsi con gli amici un giretto per tutti i bar della città o del paese.
Chi non ha amici o del bar odia pure la parola ma dispone di un secondo pc può visionare, cliccando sulla relativa miniatura, la pagina (sempre in pdf) che desidera e poi salvarla. Quando la riaprirà con Acrobat reader potrà continuare ad avvalersi dello zoom e studiarne così agevolmente ogni dettaglio.
Riporto di seguito il frontespizio e le pagine relative alle mappe (tralascio per motivi di spazio il testo in latino che le accompagna; se a qualcuno interessa me lo faccia sapere e provvederò subito all’integrazione) di Brindisi, Gallipoli e Nardò, gli unici centri di Terra d’Otranto che hanno avuto l’onore di trovare ospitalità nell’opera, a testimonianza dell’importanza che essi avevano all’epoca. Cliccando sul link che compare in calce ad ogni mappa (qui per ovvi motivi in bassa definizione) il lettore accederà direttamente alla pagina nella definizione originale.
Ho ritenuto opportuno, introdurre, in queste mie riflessioni, con due brani, scelti, tra i tanti ed interessanti episodi, che descrivono la densa vita di Ambrogio Salvio, il domenicano vescovo di Nardò che come si già raccontato, dal 1569 al 1577 guidò quell’antica diocesi. Leggendo, comprenderete l’obiettivo dello scritto. Lo studio pone l’attenzione su un periodo che la storia locale, ritengo, abbia tenuto troppo da parte, ma che invece si colloca in una fase di grandi decisioni fondamentali per la Chiesa e conseguentemente sullo sviluppo della nostra città. Chi per studio o per curiosità volesse adoperarsi nel leggere quei volumi, ne trarrebbe una complessa atmosfera, esistente, proprio nella nostra diocesi. Si tratta della nostra storia e pochi sono i documenti che possono descriverne il contesto. D’altronde, nessuno fin’ora ha dichiarato di aver trovato falsità incongruenze o errori, o ancora, interpretazioni sbagliate di quelle notizie. Sappiamo però che la storia di Nardò, esiste in alcune relazioni, depositate anche presso la biblioteca privata Chigi.
Sono brani, dunque, tratti dai due volumi che compongono il “Della vita del venerabile monsignore F. Ambrogio Salvio dell’ordine de’ predicatori. Eletto vescovo di Nardò dal Santo Pontefice Pio Quinto e di altre notizie storiche spettanti a quella Chiesa”. I due volumi sono stati pubblicati dalla Stamperia Arcivescovile in Benevento nel 1716.
Tali brani descrivono e dunque dimostrano come venne elaborato un approccio interessante, ed allo stesso tempo importante, nei metodi, dall’anziano vescovo di Nardò. Ricordo che Michele Ghislieri fu il Santo Padre, dal 1566 -72
QUEL BASTONE DEL SANTO PONTEFICE, REGALATO CON PROFONDO AFFETTO E STIMA, AL NUOVO VESCOVO DI NARDO’
capitolo I del secondo volume pag. 102
“… Onde strano parvergli a prima vista, che se gli raddoppiassero le fatiche, quando il lasciarlo riposare era necessità più presto, che elezione. Contuttociò, e tra perche ubbidientissimo Uomo si fù sempre egli, e tra perche ancora non sentì mai smorzato in sé quel vivo desiderio di lavorare nella vigna del Signore, accettò ubbidiente la carica, non senza il merito d’un gran rassegnamento fatto maggiore, e dalla sua decrepitezza, e dal bisogno, da lui conosciuto di quella Chiesa. E bene a chi piacerà andare avanti nella nostra storia sarà agevole il ravvisare in lui un ottimo Prelato, un zelante Pastore, e un Padre amoroso verso la cara Gregge alla sua cura affidata. Bisognò intanto che San Pio ve l’astringesse con un espresso comando di santa ubbidienza, che altrimenti la sua soda modestia, e profonda umiltà vinto avrebbe ogni altro rispetto, e rimasta sarebbe defraudata del suo ottimo fine l’intenzione santissima del Pontefice. Quale per rimostrargli sempre più la propensione dell’Animo suo, intento a favorirlo, aiutarlo, ed assistergli in ogni sua occorrenza, lo dispensò primieramente dal pagamento delle Bolle, ordinando, che gli fussero spedite gratis, indi lo provide di denaro per soffrire co minore incomodo quelle spese, che in tali congiunture non possono evitarsi, cendogli pagar mille feudi. Ultimamente con una sovrabbondanza di tenerezza, e d’affetto, vedendolo prender congedo da se per inviarsi al Vescovato, gli donò un suo bastone, il quale a di nostri conservasi nel Convento di S. Domenico in Bagnolo. Essendoche fusse quello tenuto sempre caro dal Salvio, come memoria rimastgli di quell’affetto, con cui il Santo Pontefice lo riguardava…”.
Un altro episodio che riporto l’ho titolato:
GLI ATTRIBUTI CHE ‘DISCIPLINANO’
dal capitolo III del secondo volume pag. 156 (opera citata in testa)
“ … Nella continua occasione di assistere al Coro osservato avea, che alcuni dei suoi Canonici soverchiamente frettolosi, e alquanto distratti, e disattenti recitavano tanto in fretta l’Officio, che tirandosi dietro la voce degli altri tutti, mancavasi molto a quella pausa, e devozione, che ricercasi nel salmeggiare. Chiamatili a se ammonilli il Vescovo più, e più volte. Ultimamente vedendo, che nulla approfittavansene, aspettò che una mattina tutti fussero al Coro i Canonici in atto di aspettarlo per cominciare. Comparve egli, ma vestito, e adornato di tutte le vesti Ponteficali, e assisosi alla sua Sede con una certa aria di maestà, fece un Ragionamento con tal calore, e veemenza, che ne rimasero per qualche tempo storditi. E tanta fu la compunzione, e’l terrore di quei, sovra di cui principalmente scaricorsi quella piena, che per lo avanti ravveduti, ed emendati riuscirono e di consolazione al zelante Pastore , e d’esempio a Compagni. E questo doveroso genio di sempre più mantenere riformato, ed esemplare il suo Clero, lo rendette ancora cauto oltremodo e guardingo nell’ordinare Cherici, e nell’ammetterli allo stato di Ecclesiastici. Ne ciò succedeva, se non quando aveane preso rigorosa ugualmente, che minuta informazione, e dopo averli da per se stesso più, e più volte esaminati. Mostrandosi oltre a ciò renitente molto in dispensare a quel tempo, che da un’ordine all’altro vogliono i Canoni, che si frammezzi: volendo, che col lungo esercizio delle virtù, e col desiderio più ardente, si rendessero maggiormente degni di quel grado, a cui aspiravano.Questi furono i mezzi, co’ quali ottenne, ciocche a prima vista parea poco meno che impossibile, un’intiera riforma di tutta la sua Diocesi. La quale poi andò così in essa prendendo piede, che Monsignor Cesare Bovio immediato di lui successore, benché venisse, come altrove abbiamo scritto, dalla scuola di S. Carlo, ebbe a dire nel primo entrarvi. Io trovo il terreno della mia diocesi molto ben governato senza alcuna erba trista di modo, che non vi è bisogno d’altro, che di ottima semenza”.
Le domande e le curiosità sono tante e leggendo i volumi diventeranno tantissime.
Perché un Papa (in particolare San Pio V) manda il teologo domenicano (quasi obbligandolo e richiamandolo all’ obbedienza) a 78 anni, ad iniziare una tremenda battaglia per la fede, nella diocesi di Nardò? (leggendo si capirà il motivo del “tremenda”).
Perché ‘quel’ Papa, si fa carico dei pagamenti delle bolle, privilegiando la figura di Ambrogio Salvio e ponendosi quasi a disposizione del domenicano, purchè lui dedicasse attenzione a quella diocesi?
Cosa sapeva il Papa (San Pio V) della diocesi di Nardò, per “richiamare” una gigantesca figura dell’ordine domenicano (molti lo indicano anche come maestro del Ghislieri, quindi, del Papa) come quella di Ambrogio Salvio? (forse aveva concreti dubbi sulla conduzione della diocesi, dopo la presenza del vescovo Giovan Battista, della famiglia Acquaviva D’Aragona?)
Il domenicano avendo carta bianca ela fiducia estrema del Papa mette in atto la zelante strategia che aveva adottato nella sua vita. In Cattedrale, sposta il coro (non soltanto), per far avanzare l’altare (mensa) e porlo a più stretto contatto con i fedeli, gestisce l’urbanistica innalzando cuspidi, recupera monasteri e riconsolida la fede con episodi evidenti di profonda fede e zelo come quello di andare in casa delle famiglie indigenti e portare loro conforto e cibo.
L’equivoca situazione della diocesi di Nardò, non veniva fuori forse da un’altra importante figura prima di lui (Giovan Battista Acquaviva d’ Aragona)? Ma allora perché il narratore racconta di tante situazioni al limite della normale civiltà che Ambrogio Salvio, rivela fino a “piangere” per la situazione in cui trova quella diocesi?
Ambrogio Salvio combatterà contro l’arroganza, il tradimento, la cupidigia, la superficialità dei comportamenti, il malcostume, denuncerà i titoli acquisiti senza la dovuta dottrina per il clero e cercherà di arginare diverse sacche di eresie contro la fede. Ma com’era la situazione della diocesi di Nardò a quel tempo?
Come si vedrà (per chi leggerà i densi due volumi), è evidente un’atmosfera al quanto particolare che ritengo, la storia locale, non abbia, messo a fuoco abbastanza e magari, considerato nel giusto modo. Specialmente quelle particolari relazioni conseguenti al contesto dei rapporti tra la chiesa, i duchi del periodo e il popolo. Auspico una rivalutazione, dell’opera, e in particolare della figura di Ambrogio Salvio.
13 FACINOROSI TELAMONI DI LECCE VS 13 FANCIULLI BIZANTINI DI NARDO’
Ricordo a questo proposito ciò che ho già riportato in altri scritti e che ritengo di fondamentale importanza. Il domenicano Ambrogio Salvio è vescovo di Nardò dal 1569 al 1577 e che l’ispirazione, quindi, la decisione della facciata di San Domenico come un arco di trionfo domenicano, a tre fornici, è contemporanea alla battaglia di Lepanto 1571 (è uno dei buoni motivi per cui l’opera vada tenuta da conto per il suo valore storico architettonico, nell’ambito, ritengo, di tutto il meridione d’ Italia). Coincidono troppi elementi per non definire quella facciata preziosa in ogni suo particolare, e sarà certamente ‘scrutata’ ancora. Per esempio, è molto probabile e facilmente presumibile, anche con un confronto visivo (particolare che difficilmente sarà riportato su documenti, ricordo che la facciata della chiesa non è mai stata descritta nei dettagli come stiamo contribuendo a fare, con questi miei scritti), che il domenicano cerca di ‘naturalizzare’ moderatamente l’azzardo, ritenuto esageratamente pagano, della facciata leccese di Santa Croce, il cui tremendo primo livello, a quel momento, era già costruito fino alla balustra compresi i telamoni reggitori. Il domenicano, teologo, allora, a Nardò, sottolinea l’equivoco sull’interpretazione della legge della natura, ‘sostenuto’, ad esempio, dalle colonne laterali poste all’ingresso del tempio di Lecce. Invece di bacchi danzanti e fauni barbuti a cavallo di volute fin troppo esplicite, di sirene bicaudate o figure femminili che ‘offrono’ il loro ventre come frutto ricolmo, a Nardò, egli contrappone, ‘criticamente’ la norma. La serie di regole che la disciplina impone per la salvezza dell’anima. E, proprio là, dove a Lecce, insiste un nastro con vitigni, spirali e simboli pagani che prepara alla scenografica balaustra sostenuta da telamoni, invece a Nardò ci sono vari omucoli (M. Manieri-Elia) apparati con i vari messaggi di fede, e che ‘segnano’ un intero livello. Gli dei pagani barbuti, esposti in perverse ammiccanti torsioni, non possono avere posto, all’ingresso del tempio, invece, hanno l’obbligo di ‘reggere’ o sostenere la regola che conduce alla salvezza dell’anima. Ne risulta una semplice, ma sconvolgente teoria critica, estetica, simbologica. Penso che possa essere stato proprio questo, uno dei motivi dell’ispirazione della facciata di San Domenico. Essa nasce dal semplice incontro dell’uomo con Dio nel dies irae (giorno del giudizio), a continuo monito per le sue creature. Di fronte alla sua presenza, infatti, messa da parte l’arroganza e la superbia, risultano i 13 facinorosi telamoni a Lecce, trasformati, a Nardò, in 13 fanciulli nudi (di cui, il motivo di quella simbologia, chiarirò nel link indicato in calce) pronti per il giudizio.
Tesori, dunque, che acquistano preziosità e lucentezza intellettuale, pari alla sensibilità di chi li legge o ne ipotizza interpretazioni, fin’ora, tutte attendibili.
Per approfondire l’argomento, in tutti i suoi punti discussi, dal quale l’articolo è tratto, vedere:
Non prendo parte alle allegre risate. Nessuno si cura di me. Gli amici lieti sempre dediti ai discorsi consueti m’annoiano. Mi pare osceno rimanere. Con un libro in mano m’apparto nell’angolo di un caffè. Fra il fumo di un sigaro cubano e le grida di alcuni, partecipo al silenzio di una vecchia con un rosario in mano che nel perdersi, con devozione, nell’oblio delle grazie le pare giusto. Almeno così sembra.
Sublima in nobili grani di preghiere le richieste con rito incalzante e dondolio del corpo che nella pronuncia dell’amen si arresta. Povera donna! Quale fiamma interiore la sostiene? Quale dio non è con lei? Quale compagnia cerca e non trova? Non ha il fazzoletto nero sul capo come le donne di un tempo, il suo volto è rugato e fatto a pezzi. Ai margini di se stessa fissa il centro delle sue giornate e non ride. La sorte sarà stata strana con lei. Quali domande formula all’angelo della solitudine? Quale luogo vorrebbe. Quale sogno vorrebbe? Se potesse fermare il mondo lo farebbe?
Segni riconoscibili di abbandono. Smorfie inesistenti. Labbra congiunte e immobili. Vorrei rubare il suo pianto nascosto per capire. Un non senso della risposta le sta appresso: segno di cose non fatte e nascoste per non destare contrarietà.
Accenno un sorriso d’invito al colloquio. Impassibile si avvia altrove. Inaccessibile ed eterna.
Il titolo di oggi non mi è stato ispirato da qualche recente fatto di cronaca che ha visto i NAS protagonisti nel sequestro di qualche partita di formaggio avariato, ma dall’esigenza di parlare di un prodotto che per secoli da alcuni è stato considerato anche nel nostro territorio una vera e propria leccornia e che ha il gemello nel sardo casu marzu (cacio marcio). Per chi ha uno stomaco poco reattivo c’è questo filmato tratto da http://www.youtube.com/watch?v=qG0y1eMc6GQ e, di caratura internazionale visto il commento in inglese, quest’altro in http://www.youtube.com/watch?v=vZ_-JzM-YQg.
Per completezza dico pure che casu cu lli ièrmi ha anche la variante sinonimica casu puntu (cacio punto; da chi si capirà dopo …).
Fa, comunque, senso ai più pensare di mangiare, sia pur involontariamente, qualcosa che ha già visto come non gradito commensale un verme, pensate a me che butto all’aria il piatto di verdura quando nell’acqua di cottura vedo, per quanto microscopico, un bruchetto già morto, a differenza dei vermi di cui sopra.
E non cambio opinione nemmeno considerando che, se il verme del formaggio non è morto, non morirei neppure io e che, al limite, nel formaggio più invitante del mondo potrebbero nascondersi additivi e conservanti in grado di farmi morire nel volgere di pochi anni. Il verme si vede, le sostanze chimiche (per non parlare di quelle di base usate talora nella preparazione del prodotto …) no; ma tant’è e, siccome, purtroppo, non credo di essere il solo a ragionare così, il numero in questo caso non fa la forza, ma, senza che ce ne rendiamo conto, la debolezza.
Quando ASL era uno dei pochi acronimi la cui nascita e proliferazione non poteva essere immaginata nemmeno dalla più sfrenata delle fantasie la vendita del casu cu lli ièrmi non era un reato come lo è oggi. Oltretutto, leccornia per pochi a parte, bisogna ricordare che erano tempi in cui l’economia era ispirata al principio del niente si butta, proprio il contrario di quanto avviene nei nostri tempi.
Poi, magari, ci sarà la solita ricerca dei soliti studiosi americani che metterà in relazione l’età untracentenaria di alcuni pastori sardi con la consumazione abituale di casu marzu. Anche se, grazie alla loro scoperta, mi dovesse essere garantito che vivrei cent’anni ed oltre cominciando a mangiare da subito casu cu lli ièrmi, non cambierei di una briciola i miei gusti alimentari.
A quegli eventuali ricercatori, però, voglio ricordare un aneddoto: il nonno materno di mia moglie, brindisino, consumava giornalmente questa specialità e si divertiva anche a tenere allenati i suoi riflessi catturando al volo e mangiando le larve della mosca [Piophila casei, in basso; piophila è dal greco πύον (leggi piùon)=pus, marcio+φίλη (leggi file)=amica; casei è genitivo del latino càseus=cacio. Piophila casei, perciò, alla lettera significa amica del marcio del formaggio) che punge la forma.
Queste larve sono in grado di spiccare salti notevoli rispetto alla loro dimensione: anche di venti cm.; il che, tenendo conto che in lunghezza, di centimetri, non ne superano uno, equivarrebbe per un saltatore in lungo alto m. 1,80 ad un salto di 36 m.!
Il nonno morì, se mi hanno bene informato, a 78 anni. Starà a quei ricercatori indagare il nesso tra età raggiunta e modalità di consumazione e scoprire, per esempio, che il regolare e semplice cibarsi di casu cu lli ièrmi ti garantisce di superare i 75 anni e la connessa caccia alla larva saltellante (il movimento è vita, non per la larva ma per chi se ne ciba …), ti fa, magari, centenario. Se è così, vuol dire che il nonno, piuttosto pigro, esercitava saltuariamente quel tipo di caccia …
L’epigrafe consta di otto endecasillabi di pregevole fattura, i primi sei con rima alternata AB AB AB, gli ultimi due con rima baciata CC.
Questa autopresentazione sintetica ed efficace che rivendica anche nel campo della salute la preminenza, quanto meno cronologica (PIGLIA PRIA), della religione (SÌ VOLE LA SANTA CHIESA E ‘L SUO FULGENTE SOLE1) sulla scienza (IL DOTTO PARER, LA DISCIPLINA DEL MEDICO TERREN), è leggibile a Nardò nella chiesa dei SS. Medici alla base di un affresco venuto alla luce nel 1980 (le foto sono mie e risalgono al 2000), raffigurante la Madonna con il Bambino e in basso i santi Cosimo e Damiano, la cui posizione subalterna nell’ambito del divino è ribadita dall’esser citati per ultimi (… Christo… Regina dei Cieli … Santi …); essa, perciò, appare anche come un’efficacissima didascalia del dipinto.
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1 Nel 1603 era papa Clemente VIII, ma credo che qui il riferimento sia senz’altro all’Eucaristia (la medicina ch’è ‘l sacramento guida del Cristiano), sicché quello che ho definito un biglietto da visita si chiude con la stessa immagine divina del verso 2, a sancire il trionfo sulla malattia o, quantomeno, sull’inquietudine dello spirito (non tende forse a questo la fede?), cioè l’immagine tutta umana con cui si era aperto.
Nel mio ultimo anno d’insegnamento (2000-2001) la moda del test aveva già preso piede, soprattutto sulle riviste cosiddette femminili, nonostante non avesse assunto l’importanza che ha oggi, soprattutto nell’ambito della valutazione didattica.
Mi ritrovai quasi all’improvviso in questa situazione: non potevo apparire agli occhi dei miei ragazzi, per colpa anche dell’età, come un docente antico ed antiquato; d’altra parte mi trovavo drammaticamente a corto con le interrogazioni a causa delle numerose assenze, le mie, fatte per motivi turistici ma regolarmente giustificate da un compiacente certificato attestante una febbre da cavallo; veramente il medico la prima volta voleva scrivere da somaro, ma ha dovuto cedere quando l’ho minacciato di denunziarlo per calunnia ricordandogli che oltretutto ero un componente di spicco (a dire il vero millantai un presidente, che in Italia fa sempre un effetto della Madonna, anche se ero solo uno degli addetti volontari, nemmeno il loro capo, alla pulizia dei bagni della sede) del comitato per la protezione dell’asino di Martina Franca).
Il test mi consentiva di prendere due piccioni con una fava e non mi lasciai sfuggire l’occasione.
Lo somministrai (per chi non lo sapesse: è questo il verbo tecnico) ai ragazzi e, dopo tre settimane (non è questo, comunque, il mio record …) passai in rassegna le schede compilate. Guardate un po’ come si presentava quella di Armando Polito (caso rarissimo di omonimia, ma succede) alla fine dell’operazione.
Credo che chiunque avrebbe valutato il lavoro allo stesso modo; solo che io dovetti prima accertarmi che tra me e lui non ci fosse nessuna parentela. Un sito specializzato nella ricostruzione degli alberi genealogici mi venne provvidenzialmente in soccorso (anche se questo tipo di provvidenza, a differenza di quella divina, costa maledettamente); andando a ritroso fino alla centesima generazione (che bravi!) mia e sua, l’esito fu negativo e, anche se mi pareva un po’ masochistico, emisi l’impietoso verdetto.
Mi sentivo in pace con la coscienza e non mi fece alcun effetto il sorriso beffardo con cui Armando Polito accolse il giudizio del suo attempato (magari avrà pensato pure, lo dico a posteriori, rincoglionito) omonimo.
La mia sicurezza, però, cominciò a vacillare quando mi venne recapitata una raccomandata con la quale mi veniva notificato il ricorso presentato dal legale del mio alunno; la stessa sicurezza si mutò in inquietudine quando lessi la firma dell’avvocato: Armando Polito.
Ero scombussolato a tal punto che per due giorni interi, seguendo un istinto quasi scaramantico e omeopatico [similia similibus=ogni fenomeno (va curato) con uno simile] cercai invano sugli elenchi telefonici di tutta Italia un avvocato che si chiamasse come quello dell’allievo, come l’allievo stesso e, cominciavo a dubitare della mia stessa identità, come me. L’unico avvocato Armando Polito se l’era accaparrato l’alunno Armando Polito nel ricorso presentato contro l’insegnante Armando Polito!
Il terzo giorno mi pervenne un’altra raccomandata il cui testo mi raggelò il sangue. Eccolo (il testo …):
L’immagine del barbone (ma senza risparmi con cui, magari, presentare istanza al tribunale per cambiare nome e cognome …) mi fece svegliare di soprassalto. Dipenderà da questo incubo la mia nota avversione al test come strumento di valutazione? O sotto sotto (misteri dell’animo umano!) si nasconde il desiderio che il sogno diventi, ormai per gli altri insegnanti in servizio, realtà?
I soldi non sono tutto nella vita. Con i soldi non si compra la felicità. Ho sempre considerato frasi simili come tentativi laici di consolazione paralleli a quello cristiano prima e cattolico poi che prevede la compensazione nell’al di là (lo scrivo volutamente con gli spazi, altrimenti che attesa sarebbe …) per chi, in un modo o nell’altro, ha sofferto su questo pianeta (non mi meraviglierei se il principio fra qualche centinaio di anni dovesse essere esportato, come la famigerata democrazia, anche su altri corpi celesti che dovessero avere la sfortuna di ospitare la nostra dannata specie).
Tuttavia, pur condividendo in linea teorica i principi laici (per quello cattolico preferirei che già su questa terra fosse garantito a tutti se non il paradiso almeno il purgatorio), nella mia pratica di insegnante non ipocrita non ho mai perso l’occasione di demonizzare l’ingiusto o disonesto profitto sottolineando, però, come il denaro non sarà pure importante ma, se sei un barbone, puoi anche morire di polmonite, se sei ricco puoi anche sperare, se non di guarire dal cancro, almeno di curarlo.
Sono quasi quindici anni che non metto piede in un’aula (che culo andare in pensione prima di essere licenziati per indegnità!), ma debbo riconoscere che qualcosa nella mia opinione è cambiato, sia pur di poco.
Riprendo il titolo, cominciando, in un certo senso … pubblicitario, dalla fine: Per tutto il resto c’è … Card.
I puntini di sospensione non sono solo un espediente per evitare pubblicità gratuita ma anche per lasciare al lettore l’integrazione che preferisce, anche plurima, visto che c’è chi (non dico il nome …) sicuramente di carte di credito ne ha una montagna.
Per tutto il resto, dicevo, c’è … Card, ma (ecco quello con cui avrei dovuto cominciare) non ha prezzo la soddisfazione di poter dare, senza correre il minimo rischio di essere accusato di calunnia, del pregiudicato, ad uno (anche questa volta lo lascio anonimo … e a pagare per tutti) condannato con sentenza passata in giudicato.
Mi preoccupa moltissimo, però, quello che ormai passerà alla storia come il patto del Nazareno, perché il tema principe, quello della riforma elettorale, potrebbe in realtà nascondere ben altro, come d’altra parte impietosamente fa presagire lo stesso anagramma del nesso, irrispettoso, non per sua colpa, perfino di Cristo, per cui il patto del Nazareno diventa (controllate pure, controllate …) ridotto alle panzane.
Così a breve potrebbe venir fuori qualche altra legge ad personam, anzi ad personas, visto che la spettabile compagnia dei pregiudicati, già tutt’altro che striminzita, diventa ogni giorno sempre più folta …
Siccome, però, leggi simili vanno fatte bene (cioè prevedendo tutte le possibili conseguenze e prendendo tutte le misure atte a compensare anche il danno imprevisto o imprevedibile, cosa lontana anni luce da quelle destinate alla collettività …) suggerisco di non dimenticarsi di introdurre il principio della retroattività; dieci anni possono bastare per sbarazzarsi di un numero impressionante di calunniatori divenuti pregiudicati inseriti in novelle liste di proscrizione con immediate ricadute su quelle elettorali, che potranno (anzi continueranno ad) essere stilate senza l’interferenza esterna del cittadino che ancora conserva un qualche brandello di cervello.
Allora sì travaglio sarà per parecchi, me compreso, e non solo per Travaglio …
Il nome della rosa, il best-seller di Umberto Eco uscito nel 1980, si sarebbe potuto chiamare diversamente? Questo secondo interrogativo, dirà qualcuno, gettato così, senza preavviso, spiega perfettamente quello del titolo, diradando i residui dubbi …
L’occasione per scrivere queste righe che conterranno mie riflessioni abbastanza datate (nel frattempo i fumi dell’alcol dovrebbero essere svaniti, a meno che pure attualmente non sia ‘mbriacu a stozze, in italiano ubriaco fino ad essermi ridotto a pezzi) è stata casualmente fornita dalla lettura dell’ottimo recente lavoro di Angelo Micello, che chiunque può leggere all’indirizzo http://www.micello.it/2014/06/stat-vinea-pristina-nomine-nomina-nuda-tenemus/, dal titolo STAT VINEA PRISTINA NOMINE, NOMINA NUDA TENEMUS. Mi pare doveroso aggiungere che il sito in questione, per quanto possa valere il mio giudizio, è oro colato rispetto a tanti altri che appaiono come un’immonda miscela appiccicaticcia (grazie anche ad un forsennato copia-incolla) di affermazioni senza capo né coda, sovente spacciate per verità più o meno scientifiche.
L’operazione di Angelo era stata già effettuata da Umberto Eco, il cui romanzo si chiude con
Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.
Tecnicamente è un esametro di stampo tipicamente medioevale costituito tutto (meno l’ultimo piede) da dattili (- ˘˘) e privo di cesura. Altre caratteristiche le sottolineerò dopo, perché legate al rapporto con gli altri versi.
Ecco la scansione:
Stāt rŏsă|prīstĭnă|nōmĭně|, nōmĭnă|nūdă tě|nēmŭs
Traduzione: La primitiva rosa sopravvive solo nel nome, noi conserviamo i nudi nomi.
Al di là delle sottili e spesso bizantine interpretazioni date di questo verso, a quell’imbecille del sottoscritto il senso pare chiaro: delle varie realtà umane a cui abbiamo dato il nome resta solo quest’ultimo, il che significa, per esempio, che tutto è in continua trasformazione, anche se l’etichetta rimane la stessa che a quella realtà venne data per la prima volta. Nel nostro caso: quel fiore che per la prima volta venne chiamato rosa oggi comprende un enorme numero di varietà.
Ma, interpretazioni a parte, rimane il fatto che il verso adottato dall’edizione della quale ho segnalato all’inizio il link, è: Stat Roma pristina nomine, nomina nuda tenemus (Sopravvive l’antica Roma nel nome, conserviamo i nudi nomi).
Di questo si mostra perfettamente consapevole l’autore del romanzo che già nel saggio I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Sonzogno, 1990, s. p., scriveva (riporto il brano in formato immagine per fare più presto):
Il concetto verrà ribadito nell’edizione (sempre Bompiani) del 2012, dove alla fine leggo (riporto anche questo brano in formato immagine):
Questo secondo brano rivela chiaramente una rottura di scatole dell’autore che, però, si difende malamente entrando in contraddizione con quanto aveva riconosciuto nel primo. Lì riconosce che il titolo probabilmente sarebbe stato diverso, qui ai curiosi, ai pignoli, a i lippi e ai tonsori (è, ad esprimere disprezzo, un climax ascendente perfetto …) dichiara che un narratore non deve fornire interpretazioni della propria opera.
Aggiungo io che un semplice narratore non deve dar conto nemmeno del titolo dato alla sua opera ma, quando egli, come nel nostro caso, è un semiologo nonché un filosofo e per narrare trae ispirazione, sia pure occasionale, dalla sua scienza, non solo può ma secondo me deve tener conto di quest’ultima, fosse solo per un titolo da dare. Il rigore è d’obbligo, tanto più che nell’economia del romanzo Roma o rosa o, come vedremo, qualche altra voce, sarebbe stato irrilevante. L’assenza di questo rigore, proprio in chi per definizione dovrebbe farne la sua bandiera costantemente sventolante, è estremamente pericolosa perché alle leggende moderne recepite come antiche o alle storie romanzate basate su interpretazioni di fonti lacunose recepite come verità storica dal lettore ingenuo (vedi a tal proposito, per restare al nostro territorio, oltre che alla saga sui Messapi di Fernando Sammarco anche ciò di cui ho avuto occasione di discorrere, fra l’altro, inhttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/05/21/manduria-e-cheronea-un-gemellaggio-imperfetto/; https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/11/27/perche-gli-olivi-patriarchi-salentini-sono-sculture-viventi/; https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/16/leucasia-una-sirena-salentina-no-unaltra-bufala-e-lo-dimostro/) si affiancano acritiche certezze germogliate da dati quanto meno discutibili e corroborati nella coscienza del lettore dall’autorevolezza dell’autore solo apparentemente, secondo me, incolpevole.
E passo ai dati quanto meno discutibili.
Intanto va detto che Eco avrebbe fatto meglio a metterci al corrente del nome e del cognome di quel qualcuno del primo brano, scopritore di Roma invece di rosa [naturalmente con tutti i dati possibili ed immaginabili sul manoscritto o sui manoscritti (dico così sulla scorta di quello che può essere un lapsus freudiano: alcuni manoscritti … diceva ) e la relativa collocazione], diventato nel secondo un ancor più generico mi hanno segnalato.
C’era, poi, bisogno dell’amico latinista (anonimo anche questo; sarà per un malinteso concetto della privacy?) per scoprire che Roma metricamente non poteva andar bene?
Ecco, infatti, cosa verrebbe fuori nella scansione:
Stāt Rōmă|prīstĭnă|nōmĭně|,nōmĭnă|nūdă tě|nēmŭs.
Il primo piede sarebbe un mostruoso –˘, che nessuno prima ha mai incontrato.
Ma è veramente pensabile che Bernardo di Cluny sia incorso in un errore metrico così marchiano, l’unico di tutta la composizione (ho controllato, ho controllato …)? Io credo che le cose stiano diversamente e mi accingo a dimostrarlo, non dopo aver detto che tutti i versi che citerò sono tratti dall’edizione critica (che è rimasta come quella di riferimento) pubblicata in Rerum Britannicarum medii aevii scriptores, or chronicles and memorials of Great Britain and Irelandduring the middle ages, v. II, a cura di Thomas Wright ed altri, Londra, editori vari, 1872, pp. 3-102, integralmente consultabile e scaricabile da http://books.google.it/books?id=WrNSAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=anglo-latins+satiricals+poets&hl=it&sa=X&ei=l8eqU8iKFc6g7Abx4oHYAw&ved=0CC8Q6AEwAg#v=onepage&q=anglo-latins%20satiricals%20poets&f=false.
Lascio ora da parte il verso incriminato (il 952 del primo libro in cui si legge rosa e non Roma) e riporto gli altri versi in cui compaiono, questa volta inequivocabilmente, Roma e rosa.
LIBRO I
v. 1034: Regna labascere, retro recedere Roma videtur (Sembra che i regni crollino, che Roma proceda a ritroso).
v. 1038: Roma, prior tua gloria mortua, Rex tibi defit (Roma, la tua gloria di prima è morta, ti manca un re).
v. 177: Tunc rosa sanguine, lilia virgine mente micabunt (Allora brilleranno la rosa per il sangue, i gigli per il carattere vergine).
v. 318: Est rosa sanguine, purpura lumine sobrietatis (Hai la rosa per il sangue, la porpora per la luce della sobrietà).
vv. 454-455: Est hominis via nunc mala, cras pia, nunc rosa, cras fex./Mox rosa fit rubus, ipseque cras lupus haeret ovili (La via dell’uomo ora è cattiva, domani pia, ora una rosa, domani una feccia. Subito la rosa diventa rovo e domani lo stesso lupo si accosterà all’ovile).
v. 736: Carnis amor perit; est rosa, fex erit; ergo spuatur (L’amore della carne perisce ; è una rosa, sarà una feccia; dunque sia sputato).
v. 751-752: O caro lactea, nunc rosa, postea sarcina vilis,/flos tibi corruet et rosa defluet haec iuvenilis (O carne lattea, ora una rosa, poi vile fardello, il fiore ti cadrà e questa rosa della gioventù scorrerà via).
v. 762: Quid, rogo, carnea gloria? Glarea. Quid rosa? Foenum (Cos’è, chiedo, la gloria della carne? Ghiaia. Cos’è la rosa? Erba secca).
v. 823: Mox puer interit ut rosa deperit edita vere (Subito muore il fanciullo come sfiorisce la rosa sbocciata in primavera)
v. 865 : Dum sibi coelitus influit halitus est rosa, floret (Finché dal cielo soffia la vita è una rosa, fiorisce).
v. 883 : Ut rota vertitur, ut rosa cernitur, et quasi claret (Come ruota si volge, come rosa viene vista e quasi risplende).
v. 896 Fex iacet horrida, qui rosa florida culmine stabat (Giace orrida feccia chi stava come una rosa al culmine della fioritura).
LIBRO II
v. 728: Fingit ovem lupus atque rosae rubus assimilatur (Il lupo simula la pecora e il rovo viene assimilato alla rosa).
v. 874: Ut rosa cernitur, ut rota sternitur et sua secum (Come rosa viene vista, come ruota viene prostrato e le sue cose con sé).
v. 915: Atria splendida castraque florida sunt rosa mundi (Splendidi palazzi e sontuosi castelli sono la rosa del mondo).
LIBRO III
vv. 598-605: Est modo mortua Roma superflua; quando resurget?/Roma superfluit, afflua corruit, arida plena;/clamitat et tacet, erigit et iacet, et dat egena./Roma dat omnibus omnia, dantibus omnia Romae,/cum precio, quia iuris ibi via, ius perit omne./Ut rota labitur, ergo vocabitur hinc rota ,/quae solet ubere laude fragrascere sicut aroma./Roma nocens nocet atque viam docet ipsa nocendi (Ora è morto ciò che di Roma restava; quando risorgerà? Roma è eccessiva, scorrendo va in rovina, povera, piena, strepita e tace, si erge e giace e dà povertà. Roma dà a tutto a tutti quelli che a Roma danno tutto, a caro prezzo perché ivi c’è la via del diritto, ogni diritto muore. Come ruota scivola, dunque da qui sarà chiamata ruota essa che suole profumare di ampia lode come di aroma. Roma nuocendo nuoce ed essa stessa insegna la via del nuocere).
v. 624: Roma ruens rota, foeda satis nota cauteriat te (Roma ruota che corre, infame assai nota ti brucerà).
v. 557: Est gravis hic thronus, hic honor est onus, haec rosa spina (Qui il potere è impegnativo, qui l’onore è onere, questa rosa spina).
v. 670: Te rosa sanguine, lilia virgine mente perornant (Fanno risplendere te, o rosa, per il sangue, i gigli per il vergine aspetto).
Tanto Roma che rosa appaiono come simboli se non della caducità delle cose umane almeno del loro incessante cambiamento. Probabilmente proprio la maggiore frequenza di rosa avrà indotto Eco alla sua scelta, anche se, come lui stesso ammette, Roma sarebbe molto più coerente con i versi che precedono.
Vale la pena, anzi sono costretto, a riportarli e tradurli:
Est ubi gloria nunc Babylonia, nunc ubi dirus Nabuchodonosor et Darii vigor illeque Cyrus? Nunc ubi Regulus aut ubi Romulus aut ubi Remus? Stat Roma pristina nomine, nomina nuda tenemus.
(Dove ora Babilonia è gloria, dove il terribile Nabucodonosor e la potenza di Dario e il famoso Ciro? Ora dove Regolo o dove Romolo o dove Remo? Sopravvive l’antica Roma nel nome, conserviamo i nudi nomi).
Nell’edizione critica da me citata e utilizzata, però, i versi non compaiono consecutivamente, ma i primi due sono i 933-934 e i secondi i 951-952. Siccome tutta la composizione è in esametri leonini, cioè ogni coppia di versi è legata da rima finale, mi pare strana la pur parziale omofonia che lega le prime due parole finali con le ultime due sempre finali, fenomeno che mai ricorre in tutta la composizione. Questo dettaglio, insieme con l’altro già detto dei piedi che sono, meno l’ultimo, tutti esametri, dà un’idea dell’abilità dell’autore tenendo conto anche del fatto, tutt’altro che irrilevante, che l’intero componimento comprende ben 2966 versi (1078 il primo, 974 il secondo e 914 il terzo).
Al di là di questo mi chiedo se il rosa dell’edizione critica (che in calce per rosa non registra nessuna variante Roma, il che significa che tutti i manoscritti recano rosa) non sia, però, da leggere rota. Mi ha fatto venire il dubbio la ricorrenza di questa immagine nei seguenti versi:
LIBRO I
v. 877: Donec homo viget, affluit, indiget, ut rota currit (Finchè l’uomo vive, abbonda, ha bisogno, corre come ruota).
v. 981: Ut rota volvitur, indeque pingitur ut rota mundus (Il mondo gira come una ruota e perciò come una ruota è rappresentato).
LIBRO II: il già citato, per rosa, verso 874 Ut rosa cernitur, ut rota sternitur et sua secum (Come una rosa viene visto, come una ruota viene prostrato e le sue cose con sé).
LIBRO III: i già citati, per Roma, vv. 603: Ut rota labitur, ergo vocabitur hinc rota Roma (Come ruota scivola, dunque da qui sarà chiamata ruota) e 624: Roma ruens rota, foeda satis nota cauteriat te (Roma ruota che corre, infame assai nota ti brucerà).
E della simbologia medioevale (e non solo) la ruota della fortuna è un elemento di spicco, forse ancor più della rosa. Poi, si sa, in epoca a noi più vicina diventerà il quiz più famoso della storia della televisione e, ma è solo una battuta che mescola il sacro con il profano (ma anche quest’ultimo, nella fattispecie, è cultura in senso lato), chissà quante copie in più avrebbe venduto il nostro best-seller solo che Eco avesse aspettato poco più di un lustro a pubblicarlo col titolo Il romanzo della ruota!
Per tornare alle cose serie, il verso autentico potrebbe essere: Stāt rŏtă|prīstĭnă|nōmĭně|, nōmĭnă|nūdă tě|nēmŭs. E tutto andrebbe bene metricamente essendo anche la o di rota breve. Da un punto di vista semantico, poi, ci sarebbe una sorta di gioco di parole, anche questo tutt’altro che estraneo alla cultura medioevale, in cui l’immagine traslata della ruota (la vita) si confonderebbe con quella di partenza (l’elemento meccanico), l’una e l’altra soggette col trascorre del tempo a trasformazioni (per la ruota non c’è bisogno di scomodare gli pneumatici). Faccio notare pure che i due versi in cui ricorre rota sono abbastanza vicini al nostro e che il primo controllo delle scritture andrebbe operato, se non è già stato fatto, sui due versi (l’887 del primo libro e l’874 del secondo) in cui rosa e rosa compaiono entrambi e anche sui due (603 e 624 del terzo libro) in cui a comparire entrambi sono Roma e rota.
Se, come spero di aver dimostrato, già la scelta di Eco meriterebbe un approfondimento di natura diplomatica [aggettivo, a scanso di equivoci, riferito al/ai manoscritto/i che conterrebbe/conterrebbero nel famigerato (!) verso la variante rosa; non è proprio il caso di scomodare la politica che non reputo proprio la meglio attrezzata a risolvere questo tipo di problemi, visto che non è in grado, oltretutto, neppure di individuare quelli che dovrebbero essere di sua competenza …], Angelo non me ne vorrà se dico che la sostituzione da lui operata di rosa (o Roma che sia) con vinea non è assolutamente possibile (da un punto di vista metrico, essendo, invece, dal punto di vista semantico, perfettamente coerente con lo sviluppo, ho già detto ineccepibile, del suo lavoro; diversamente sarebbe stato se la sostituzione avesse coinvolto un brano in prosa, anche se alla fine del suo lavoro Angelo cita il verso originale nella lezione riferita da Eco) perché un bisillabo ed un trisillabo non sono intercambiabili. Verrebbe fuori, infatti, questa scansione:
Stāt vĭněă|prīstĭnă|nōmĭně|, nōmĭnă|nūdă tě|nēmŭs
e un piede – ˘˘˘, al pari di –˘, non l’ha mai incontrato nessuno.
Non rimane a questo mio post e a qualche lettore speranzoso come me che attendere, se mai ci sarà, l’eco di Eco …
Sento di troppo ardir nascer paura, Petrarca, Canzoniere, CLXXVII, 11.
Ipse subibo umeris. Nec me labor iste gravabit (Io stesso ti sosterrò sulle spalle. Né questa fatica mi peserà), Virgilio, Eneide, II, 708.
Carte 94 e 95.
Non pò più la virtù fragile e stanca, Petrarca, Canzoniere, CLII, 9. Debile per fragile è dovuto alla citazione a memoria.
Maius opus moveo. Rex arva Latinus et urbes (Promuovo un’opera alquanto grande. Il re Latino i campi e le città), Virgilio, Eneide, VII, 45.
Carte 96 e 97.
Cosa bella mortal passa, et non dura, Petrarca, Canzoniere, CCXLVIII, 8; Ogni cosa mortal Tempo interrompe, Petrarca, Trionfi. Trionfo del Tempo, 114. Qui il motto nasce dalla fusione dei due versi petrarcheschi.
Virgilio, Eneide, I, 281: Consilia in melius referet, mecumque fovebit (Volgerà in meglio le sue decisioni e insieme con me sarà favorevole); X, 632: Ludar, et in melius tua, qui potes, orsa reflectas! (Possa io sbagliarmi e tu, che lo puoi, possa volgere al meglio i tuoi destini!).
Carte 98 e 99.
Et ho già da vicin l’ultime strida, Petrarca, Canzoniere, CCCLXVI, 61.
Te doctis lacrimant numeris; tu maestus in umbra/dilecti cervi vulnera saeva gemis (Ti piangono con dotti versi; tu mesto nell’ombra compiangi le crudeli ferite del diletto tronco).
Il lavoro del nostro frate si chiude con un distico elegiaco di sua creazione e l’ultima figura sembra riscattare la ripetitività delle precedenti in una sorta di trasfigurazione dell’albero che è diventato una statua decapitata, la cui testa, però, giacente in un angolo, ricorda le corna di un cervo. Si tratta anche di un gioco di parole tenendo conto che cervus in latino significa cervo ma anche, per traslato, tronco forcuto. E tu maestus in umbra è ricalcato sul tu, Tytire, lentus in umbra (tu, Titiro, tranquillo sotto l’ombra) di Virgilio (Ecloghe, I, 4), l’autore da cui il nostro frate ha maggiormente attinto.
Dopo due carte bianche ce n’è una non numerata:
Sono 5 distici elegiaci in cui Fra’ Giovanni Sezzo loda l’autore del manoscritto che, dunque, si chiude con uno scritto laudativo così come si era aperto con quello di Valerio De Palma. Di seguito ne fornisco la scansione e la traduzione.
Segnalo che un sonetto consolatorio per Vittorio Prioli fu scritto pure dal leccese Giovanni Domenico Salviati in Rime, Pietro Micheli Borgognone, Lecce, 1633, p. 48. Lo riporto con qualche mia nota di commento.
Al Sig. D. Vittorio Priuli per il suo Cipresso caduto
Drizzò l’alta Reina un Mausoleo
del Consorte al moria di bronzi, e marmi,
ma tù d’illustri, e risonanti carmi
al caduto Cipresso ergi un trofeo.
E bench’estinto il gran Maroneb, e Orfeoc,
e gli altri che cantar d’amore e d’armi
poggiando su ‘l cavallo Pegaseod,
così vedrassi da l’oblio profondo
sottratto, e al tempo, insidioso mostro,
l’Arbor ch’amò già Febo in corpo humanoe.
Opra è, Signor, de la tua nobil mano,
ch’alza, e solleva ogni più grave pondof,
e quasi eterna i tronchi al secol nostro.
a Artemisia, sorella e moglie di Mausolo, satrapo di Caria, alla morte del congiunto avvenuta nel 353 a. C. gli eresse una tomba monumentale ad Alicarnasso. Era una delle sette meraviglie del mondo e da Mausolo trae origine il nome comune mausoleo.
b Publio Virgilio Marone, il poeta latino del I secolo a. C., autore dell’Eneide.
c Mitico cantore che piegava gli animali e tutta la natura al suono della sua lira.
d Mitico cavallo alato, simbolo della libertà del poeta.
eCiparisso (da cui cipresso) era un giovane amato da Apollo (Febo è un appellativo del Dio) che dopo aver ucciso accidentalmente il cervo regalatogli dal dio chiede a quest’ultimo che il suo pianto non abbia mai fine. Così Apollo lo trasforma nel cipresso da cui sgorga laresina le cui goccioline somigliano a lacrime.
f peso.
Siamo alle conclusioni. Francesco Cuomo è un epigono di quella produzione letteraria di stampo erudito-moraleggiante (senza escludere, secondo il mio punto di vista, una punta di esibizionismo culturale …) continuata fino al secolo XVIII, che aveva avuto i suoi maggiori esponenti anzitutto in Andrea Alciato, Emblemata, Heinrich Steyner, Augusta, 1531) e poi in Cesare Ripa, Iconologia overo descrittione dell’immagini universali cavate dall’antichità et da altri luoghi, Eredi Gigliotti, Roma, 1593).1
La tecnica utilizzata è semplicissima: basta collegare un motto (quasi sempre una citazione da un autore famoso) con un’immagine e il nostro emblema (o insegna) è bell’e pronto2. Si comprende come in questo tipo di produzione l’immagine avesse già in quel tempo assunto rispetto al testo un’importanza non pari a quella quasi esclusiva di oggi ma, comunque, preponderante, anche per lo spazio occupato, rispetto al testo che, superando raramente due linee, fungeva quasi da didascalia. Tutto ciò comportava che la scelta dell’incisore delle tavole venisse operata attentamente. Lo prova il fatto che non è raro incontrare in testi del genere tavole che presentano varianti minime (in alcuni casi nessuna variante) rispetto ad altre realizzate anche decenni prima: l’imitazione della roba di qualità (un eufemismo per contraffazione), insomma, non l’hanno inventata i napoletani e, dopo di loro, i cinesi. Va da sé che il pubblico cui questa produzione era destinata era estremamente ristretto e parecchie pubblicazioni non recano il nome dell’editore (o sono a spese dell’autore), del luogo di edizione e per alcune la data approssimativa si può dedurre solo dalla lettera dedicatoria che quasi di regola le accompagna.
Mi piace immaginare che il nostro Francesco non potesse permettersi il lusso di ricorrere ad un incisore professionista, anche perché, probabilmente, l’idea di dare alle stampe la sua opera non l’aveva nemmeno sfiorato. Per questo la semplicità e la ripetitività dei disegni (alcuni, se si fa attenzione, sembrano ricalcati) rappresentano il valore aggiunto tipico di ciò che è unico, proprio come sintetizzano i nostri nessi fattu ‘mmanu (fatto a mano) e fattu ‘ccasa (fatto in casa). Questa unicità (anche come esemplare, nonostante il fatto che di un manoscritto si potessero fare altre copie più o meno simili) riscatta abbondantemente, secondo me, le inesattezze e i collegamenti concettuali disinvolti e forzati, se non arbitrari, che nel commento ho evidenziato, e impreziosisce il dono. E poi è da sottolineare il taglio “laico” del suo lavoro, quando gli sarebbe stato più facile, credo, sostituire le citazioni da Petrarca e da Virgilio con altrettante tratte dalle sacre scritture.
Non so se tutto questo e qualche altro merito che sicuramente mi sarà sfuggito fu apprezzato pure da Vittorio Prioli, se mai gli giunse il dono.
È certo, invece, che né lui né l’autore avrebbero mai potuto immaginare che esso avrebbe varcato l’oceano per giungere nelle mani di uno studioso che, nonostante fosse un’autorità in questo campo (ma forse proprio per questo …), non gli avrebbe dedicato nemmeno un articoletto.
Lungi da me, comunque, l’idea che ora giustizia sia stata fatta …
Giovanni Paolo Rinaldi, Il museo distinto in Imprese & Emblemi, Moneta, Roma, 1644.
Jacob Catz, Poëtische wercken, s. n., s. l.,1645
Joannes De Solorzano Pereira, Emblemata, Morras, Madrid, 1653
Autori vari, Amoris divini emblemata, Plantino, Antuerpia, 1660.
Gioacchino Camerario, Symbolorum et emblematum centuriae quatuor, Kuckler, Magonza, 1668.
Juan de Borja, Empresas morales, Foppens, Bruxelles, 1680.
Iacopo Boschi, Symbolografia sive de arte symbolica, Bencard, Augusta, 1702.
Autori vari, Symbola et Emblemata, Wetsten, Amsterdam, 1705.
2 Oggi produzioni simili, grazie ad un pc e ad una connessione con la rete, potrebbero essere realizzate in una sola giornata a tonnellate. Il problema è che, a differenza del passato, ci sono seri rischi di fraintendere il senso del motto scelto (naturalmente in inglese …, meglio non perdere tempo con l’italiano o, peggio, con il latino) e, dunque, di accoppiargli un’immagine i cui collegamenti non sarebbe in grado di cogliere nemmeno la più sfrenata fantasia.
Praticare la sanità da comuni cittadini a volte riserva sorprese piacevoli, più spesso, parlando di burocrazia, imbarazzanti.
ASL di Lecce, banalissima pratica di cambio medico. Arrivo alle 12,15 la signora, gentilissima e sorridente, mi dice “Lo sportello è aperto al pubblico dalle 8,30 alle 11,30 però venga per le otto, altrimenti finiscono i numeri e deve ritornare, sa, con la riduzione del personale allo sportello c’è un solo addetto” Per il resto della conversazione mi ha fornito informazioni puntuali, precise e cortesissime, una che ne sa, ho pensato.
L’indomani alle 8,15 sono lì a cercare il mio numero. In ogni salumeria, supermercato al banco affettati, in panetteria, in uffici diversi esiste una macchinetta dove prendi il tuo numero, un self service. Alla ASL di Lecce non c’è. Dietro una scrivania ci sta la signora sorridente e gentile del giorno prima, mi avvicino con un sorriso in risposta al suo, lei mi riconosce e mi porge il numerino, identico a quelli delle macchinette. Si vede che le ristrettezze economiche fanno si che l’ASL possa acquistare i numerini e non le macchinette. Poi mi siedo sulle panche assieme alla folla di chi già stava lì alle sette e mezza, ho il 77 e chiamano il 68. La chiamata però non è un display come dal fruttivendolo, neppure come dal salumiere, no, è una signora che esce dall’ufficio e chiama. Parlo con il signore che sta vicino a me, si occupa di immigrati “sono qui per loro, lavoro in un ufficio accoglienza e ci sono mille problemi”. Qualche considerazione sull’edificio, in stile decisamente del ventennio, con un dipinto sopra gli ex sportelli per il pubblico che ritrae lavori di campagna, tabacchine. Non c’è né pesca, né mare. “Li avranno fatti per la bonifica” mi fa notare il vicino.
Finalmente il 77, entro e saluto tutti… Beh, tutti, saluto lui, l’unico impiegato che riceve il pubblico. Fatti i conti ci sono tre persone che lavorano, uno ascolta, consiglia e si occupa di pratiche, una ha il compito di dare i numerini, la terza di chiamare i numerini. In sostanza, due su tre svolgono un lavoro, per quanto dignitoso, assolutamente inutile, la folla non è poca lì fuori. Esco alle 10,30 circa.
Poi debbo prenotare una radiografia. Se uno fuma per quarant’anni non si deve meravigliare se poi respira quanto, come e se capita. Vado in parafarmacia (i parafarmacisti mi stanno simpatici, i farmacisti meno, sembrano nobili in fase di decadenza). La ragazza prende la richiesta, digita sul computer e mi dice “A Lecce per metà ottobre, a Maglie e Poggiardo in agosto. Il ticket è di 46,50 euro”.
Parliamo un po’ e mi fa, visto che devi pagare vedi se te la fanno privatamente, al massimo torni e facciamo la richiesta. Vado dal privato e mi dice “in convenzione sono 20 euro per metà agosto, a pagamento 40 euro e la facciamo immediatamente”.
Ma non è la sanità pubblica che costa meno al paziente? Mah… Mistero… Ah, a proposito, sappiate che per l’esenzione del ticket siamo considerati ricchi se guadagniamo una cifra pari o superiore a 8236,31 Euro (688,634 mensili). Non per dire, ma quei 31 centesimi fanno la differenza fra un povero e un ricco. Poi dici che i politici non fanno una mazza, sapete quanto ci vuole per arrivare a concepire 0,31 euro? Almeno tre intere sedute a camere riunite.
La domanda, posta qualche decennio fa, sarebbe rientrata senza dubbio nella categoria di quelle che la grammatica definisce retoriche, cioè dalla risposta scontata. Poi i tempi, gli uomini, i bisogni, i valori, le conoscenze e le coscienze cambiano e con loro anche la natura delle domande, sicché oggi la nostra comporta una risposta fulminante (olio) da parte di quei matti etichettati come retrogradi e ambientalisti ed una altrettanto fulminante (ma questa rischia di esserlo anche alla lettera e di bruciare tutto …: petrolio) da parte degli amanti del progresso e del benessere (io ci aggiungerei pure profitto … proprio a tutti i costi … altrui e corruzione).
La domanda, perciò, non è più definibile retorica, come può esserlo ancora una così articolata ad un lavoratore dipendente che non sia un pazzo masochista (in tal caso dovrebbe essergli impedita qualsiasi agibilità, perché nocivo per sé e per la sua famiglia): Preferiresti pagare meno o più tasse? A riprova, comunque, della relatività teorica di qualsiasi domanda retorica (o, meglio, presunta tale) e del fatto che il furbo è sempre più un passo avanti rispetto all’onesto, l’orgogliosa risposta di un evasore abituale e totale sarebbe: Ma io pago già meno tasse del dovuto, anzi non ne pago proprio! E non sarebbe univoca nemmeno la risposta ad una domanda del tipo Preferisci vivere in buona salute o soffrire di una o più malattie?: basta immaginarla posta ad un ipocondriaco (anche in lui non escluderei una componente masochista …).
Lascio da parte questa filosofia da stra…pazzo e mi abbandono (povero lettore, dalla padella nella brace!) ad una rabbiosa affermazione che non mi attarderò a provare: olio e petrolio sono parenti sì, ma solo per motivi etimologici.
Olio è dal latino òleu(m), a sua volta dal greco ἔλαιον (leggi èlaion) che significa olio d’oliva; non a caso nella stessa lingua ἔλαιος (leggi èlaios) significa olivo selvatico e ἔλαια (leggi èlaia) può significare tanto ulivo che oliva . In questo caso la differenza di genere [la prima voce, il prodotto ricavato dal frutto, è di genere neutro; la seconda, la specie selvatica (almeno in teoria è la meno nobile …) è di genere maschile, la terza, comune all’albero e al frutto, è di genere femminile)] non ha reso necessario nessun provvedimento per garantire pari opportunità …
Petrolio secondo la comune opinione deriverebbe da petroleum, voce che sarebbe attestata per la prima volta (così recita, senza il condizionale da me usato, pure l’Enciclopedia britannica on line: http://www.britannica.com/EBchecked/topic/454269/petroleum#toc50694) in Giorgio Agricola [versione italianizzata di Georgius Agricola, a sua volta latinizzazione del nome originale che era Georg Pawer, passato a Bauer che come nome comune significa, appunto, contadino)], mineralogista tedesco del XVI secolo.
Infatti all’inizio del libro IV del De natura fossilium uscito per la prima volta a Basilea nel 1546 si legge1:
Traduco: Segue un altro succo grasso congiunto con lo zolfo per naturale parentela. I Greci lo chiamano ἄσϕαλτος (leggi àsfaltos)2, i Latini bitume. Da ciò risulta non solo ciò che dagli autori è chiamato con questo nome, ma anche nafta, canfora, malta, il pissasfalto, gagate, gemma samotracia, pietra tracia, pietra ossidiana e molte altre pietre annoverate da Plinio tra le gemme, i carboni fossili, la terra detta dai Greci ἀμπελίτις (leggi ampelìtis)3, inoltre succino e ambra. Quel succo poi è chiamato con tanti e diversi vocaboli per la varietà e delle qualità che lo contraddistinguono e della lingua delle genti nelle cui terre sgorga; viene venduto infatti al minuto in primo luogo liquido (i naturalisti correttamente lo chiamano bitume4 liquido, stilla infatti per lo più da qualcosa di denso) poiché è molto simile all’olio per la grassezza e da alcuni autori talvolta è chiamato olio ed ora è chiamato petrolio poiché vien fuori dalla roccia.
Nulla da eccepire all’Agricola nemmeno sul piano etimologico perché in effetti petròleum deriva dalla locuzione latina petrae oleum=olio di pietra. Non credo, però, che inventore di petroleum sia stato l’Agricola; la voce forse non è del latino umanistico-rinascimentale, perché sue tracce sono ravvisabili nel latino tardo-medioevale.
Dal glossario del Du Cange, con la mia traduzione a fronte:
Il primo documento, dunque, risale al 1022, il secondo (da un frammento di cronaca interamente leggibile in http://books.google.it/books?id=LSJHAAAAcAAJ&pg=PA631&dq=vena+olei+petrolei&hl=it&sa=X&ei=Z0WlU5rrC8iO0AXes4CYBA&ved=0CFAQ6AEwBw#v=onepage&q=vena%20olei%20petrolei&f=false) all’anno 1450. Già questo, secondo me, consente di retrodatare la presunta nascita di petroleum. Ma c’è di più: il petroleia del primo documento, sia o non sia un nome proprio, ha tutta l’aria di essere forma aggettivale da petroleum che, essendo, come abbiamo detto, un sostantivo, composto ma sempre sostantivo, come aggettivo non poteva che dare, rispettivamente al maschile, al femminile e al neutro, che petrolèius/petrolèia/petrolèium. Da qui petroleia fons che, dunque, suppone un precedente petroleum. Conclusione: credo che il Du Cange avrebbe dovuto registrare il lemma PETROLEUM e non PETROLEUS perché nel nesso olei Petrolei la prima voce è apposizione della seconda. Il lettore noterà che Petrolei è scritto con l’iniziale maiuscola che in latino si usa di regola con tutto ciò (anche avverbio, con l’unica esclusione del verbo) che deriva da un nome proprio. Debbo pensare, allora, che per il Du Cange ci sia un collegamento tra petroleus e petroleia fons quando, a proposito di questa dice nisi sit nomen proprium (a meno che non sia un nome proprio)? Per tentare di dipanare la matassa non rimane che controllare la fonte citata dal Du Cange. Ed ecco (sia benedetta in eterno la rete!) i dettagli che ci interessano tratti da Claude François Menestrier [che il Du Cange latinizza ed abbrevia in Menester(ium)], Histoire civile ou consulaire de la ville de Lyon, De Ville, Lyon, 1696, p. VI (ma dell’appendice che segue a ben 548 pagine)5:
……… Ad ovest il corso del fiume e delle fonti e il finale dei canali attraverso la fonte Petroleia …
… Scritto per mano di Martino monaco indegno sabato 16 marzo nell’anno del Signore 1022, nella quinta indizione, sotto il regno di Rodolfo nelle Gallie.
Viene confermata l’iniziale maiuscola in Petroleiam, si direbbe, a questo punto, nome proprio, nonostante la perplessità manifestata dallo stesso Du Cange che ha l’abitudine grafica di evidenziare con l’iniziale maiuscola nelle citazioni la parola coincidente con il lemma, come, puntualmente, succede pure in Petroleus. È doveroso fare un altro controllo, approfittando della generosità della rete e di quel pizzico di fortuna che nella vita è indispensabile.
Ecco il dettaglio tratto da Andreas Felix Oefelius, Rerum Boicarum scriptores, A spese di Ignazio Adamo e Francesco Antonio Veith, 1763, Augusta, t. I, p. 6316:
Traduco: Pure ai suoi [di Gaspare Aindorffer che, com’è detto poco prima, fu nel XV secolo il 43° abate del monastero di Tegerns, della cui cronaca, giuntaci pure frammentaria, fa parte il passo] tempi intorno all’inizio dell’osservanza della regola, oltre il lago di fronte alla cappella già detta fu trovata dai frati una vena, ormai attiva da circa quarant’anni, di olio Petrolio, ungendosi col quale soprattutto i paralitici e i rattrappiti in gran numero vengono restituiti alla salute. Sebbene in diverse sofferenze e malattie consenta di recuperare la salute, tuttavia è efficacissimo rimedio soprattutto contro le ustioni, sicché, se uno subito untosi vedrà mitigarsi il suo dolore, cosa che efficacemente è provata dall’esperienza, per questo è in grande considerazione presso i popoli stranieri.
Anche qui leggo Petrolei con l’iniziale maiuscola, ma, collegandomi, e confermandole, alle conclusioni cui ero già giunto prima di questi controlli, dico che è come se Petroleum fosse diventato una specie di marchio, così come noi oggi, riferendoci a qualsiasi olio (vegetale, minerale, sintetico) diciamo olio Vattelappesca (per non fare pubblicità a nessuno …).
Ad ogni buon conto, anche se l’oleum petroleum citato dagli autori che non siano l’Agricola non dovesse aver avuto altra funzione se non quella terapeutica [ed un semplice petroleum compare già nelle opere di Arnaldo di Villanova (1240-1312 circa), allievo della Scuola medica salernitana] emersa da alcune testimonianze (ma l’Agricola, d’altra parte, nulla aveva detto sul suo utilizzo), valga per tutti il ferrarese Antonio Musa Brasavolo che in Examen omnium simplicium medicamentorum, Giovanni e Francesco Frelleo, Lione, 1537 alle p. 457-4597 nomina più volte il petroleum e il suo utilizzo anche non medicamentoso, nonostante il titolo dell’opera.
Lascio ora da parte la cronologia di petroleum per collegarmi al titolo e far riflettere che senza l’oleum a nessuno sarebbe venuto in mente di creare petroleum. Paradossalmente all’inizio l’olio estratto dalle olive era meno naturale del petrolio che sgorgava spontaneamente dalle rocce perché comportava una fase più “traumatica”(quella della molitura) rispetto alla semplice raccolta. E il processo, senza tuttavia creare danni all’ambiente, durò millenni.
Questa tavola è opera dell’incisore Giovanni Stradano (italianizzazione di Iohannes Stradanus, a sua volta latinizzazione di Jan van der Straet). Tratta dalla serie Venationes Ferarum, Avium, Piscium8 pubblicata ad Anversa da Philip Galle nel 1580, mostra tre uomini intenti a raccogliere la nafta con le spugne dalla superficie del mare lungo la costa siciliana (a sinistra centro abitato fortificato, a destra navi a vela e a remi. Altri personaggi sono intenti a strizzare il prezioso contenuto dentro a delle giare. La didascalia è costituita da quattro esametri: Naphta bituminis est liquidi genus: in mare manat/montibus e Siculis, fluidisque supernatat undis;/spongia eam excipiunt nautae, expressamque recundunt/ollis, ut varios hominum servetur in usus (La nafta è un tipo di bitume liquido: sgorga in mare dai monti di Sicilia e galleggia sulle fluide onte; i marinai la raccolgono con una spugna e dopo averla strizzata la pongono in giare perché serva ai vari usi degli uomini).
Il riferimento alla Sicilia (con sostituzione del mare al fiume) è sicuramente un’eco delle parole di Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, XXXV, 51: Gignitur etiam pingue, liquorisque oleacei in Sicilia Agragantino fonte inficiens rivum. Incolae id arundinum paniculis colligunt, citissime sic adhaerescens. Utuntur eo ad lucernarum lumina olei vice, item ad scabiem iumentorum ([Il bitume] nasce anche grasso e simile ad acqua oleosa in Sicilia dalla sorgente di Agrigento inquinando il fiume. Gli abitanti lo raccolgono con le pannocchie delle canne, così rapidissimamente aderendovi. Se ne servono per le lucerne invece dell’olio, parimenti contro la rogna degli animali).
Poi l’uomo pensò bene di andare lui a cercare queste risorse e iniziarono le trivellazioni a profondità sempre maggiori. Da questa tentazione, sorretta per lo più in malafede dall’alibi idiota di un effimero, peraltro non privo di rischi ambientali, e limitato ritorno economico, poteva restare indenne il nostro mare?
Voglia Iddio, visto che certi uomini ben poco lo vogliono e che gli altri ben poco possono contro il profitto di pochi e, peggio ancora, il malaffare, voglia Iddio che alle scale della prima foto di testa utilizzate un tempo per spruare9 le olive non subentrino (a completare l’opera, quanto naturale?, della Xylella fastidiosa e, questa sicuramente non naturale, dei megavillaggi turistici e delle superstrade) i tralicci della piattaforma della seconda e che all’immagine, anch’essa d’epoca, delle raccoglitrici non si sostituisca quella, malamente riveduta e corretta in peggio rispetto alla siciliana del XVI secolo, dei raccoglitori di nafta e affini, per intenderci non di quelli sgorgati spontaneamente, che la cronaca ci ha già desolatamente e più volte proposto.
Così credo di aver dato conto pure del rabbiosa che accompagnava la premessa e di come la parentela solo etimologica di olio e petrolio comporti in sé una totale incompatibilità caratteriale tra le due voci. Il che significa che, se uno dei due deve esser fatto fuori visto che la convivenza è impossibile, questa condanna spetta certamente all’ultimo arrivato, cioè al petrolio e non all’olio.
E che la domanda del titolo nel cuore e nella mente di tutti ritorni ad essere retorica, ma come lo era fino a qualche decennio fa, grazie ad un’improcrastinabile inversione di tendenza nell’idea di sviluppo che trovi corrispondenza in una volontà politica, finalmente scevra da ingannevoli se e ma e soprattutto a leggi dal testo semplice e privo di interpretazioni ambigue, che in passato erano il frutto di accordi e compromessi, oggi cominciano ad esserlo anche dell’ignoranza totale, pure della lingua, di coloro che sono stati delegati (ci sarebbe da chiedersi pure da chi sono stati scelti come candidati …) a rappresentarci!
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1 Dettaglio tratto dall’Opera omnia, rivista dallo stesso autore, uscita postuma a Basilea per i tipi di Froben nel 1558, p. 222.
2 Da cui il nostro asfalto tramite il latino tardo asphaltus. La voce greca è composta forse da α privativo + σφάλλω (leggi sfallo)=vacillare, cadere.
3 Da ἄμπελος (leggi àmpelos)=vite; questo tipo di terra era usata per curare le viti (Papiro di P. Flinders, 2.29a) ma anche come cosmetico (Dioscoride, De materia medica, V, 160).
4 Del bitume l’Agricola si occuperà nel libro XII della sua opera più famosa, il De re metallica, pubblicato nel 1556, un anno dopo la sua morte, a Basilea per i tipi di Froben. Nell’immagine che segue la pagina 469 (il volume consultabile integralmente e scaricabile da https://archive.org/stream/gri_000033125008455038#page/n3/mode/2up)
9 Spruàre=raccogliere le olive con le mani prima che cadano dall’albero. La voce è variante di spruiare (usata a nel Tarantino e nel Brindisino), che è dal latino expurgare=spurgare (quasi purificare il ramo togliendo le olive).
Et spento il foco onde aghiacciando io arsi, Petrarca, Canzoniere, CCXCVIII.
Fit obice maior (Diventa più grande dell’ostacolo). L’attribuzione ad Orazio è errata.
In Francesco De Pietri, I problemi accademici, Savio, Napoli, 1642, s. p., l’autore, membro della napoletana Accademia degli Oziosi col nome di Impedito, parlando di se stesso così scrive: Taccio le particolari Imprese di tanti Illustrissimi, e dignissimi Accademici, delle quali, mi riserbo altrove à favellare; ma fra tante non vo tacer la mia, sotto nome d’Impedito, di cui il corpo è un Ruscello corrente, ch’arrestato, & impedito, allagando si rende maggiore, quasi un mare, col Motto d’Ennio Obice maior.
Con tutto il rispetto per l’accademico De Pietri debbo dire che pure l’attribuzione di Obice maior ad Ennio è fasulla; aggiungo, anzi, che in tutta la letteratura latina questo nesso non è attestato. Siccome il De Petri insieme con Giovanni Battista Manso, Giovanni Andrea Di Paolo, Giovanni Battista Della Porta, Giulio Cesare Capaccio e Giambattista Basile era stato uno dei fondatori dell’Accademia nel 1611, non è azzardato pensare che da lì il nostro frate abbia tratto il motto sostituendo alla originaria attribuzione, come s’è detto fasulla, un’altra anch’essa fasulla.
A questo punto sospetto che il De Pietri si sia inventato la paternità enniana del suo motto, destinato, però, a far furore. Esso, infatti, sarà ripreso nel tempo in forme ampliate. La prima, VIRTUS OMNI OBICE MAIOR, (La virtù è più grande di ogni ostacolo) è in una stampa di Charles Le Brun e Gérard Audran, La Vertu surmonte tout obstacle: le passage du Granique ((1650-1675 c.), custodita a Dole nel Musée des beaux-arts (1650-1675 c.).
La seconda, AB OBICE MAIOR ([Reso] più grande dall’ostacolo), è in una medaglia di Luigi XV datata 1743.
Ritorno per un attimo alla questione della paternità del motto affermando che il De Pietri, se non ha tentato una nobilitazione truffaldina di una sua invenzione, potrebbe aver commesso un errore attribuendo ad Ennio un verso di Claudio Mario Vittore (V secolo d. C.), che al momento della scelta del motto gli era venuto in mente, senza preoccuparsi, fra l’altro, di citarlo esattamente. Il Vittore, infatti, nel Commentarius in Genesim I, 70-75 aveva scritto a proposito del fiume Tigri: Sed Tygris, nigro tamquam indignatus averno,/prosilit aethereas motu maiore sub auras,/et rursum spelaea subit, mersusque cavernis/intus agit fremitus, et fortior obice factus/multiplicatur aquis, atroque citatior antro/exit et Assyrios celeri secat agmine campos (Ma il Tigri, come se fosse adirato col nero averno, si solleva in aria con un movimento maggiore e di nuovo entra nelle rocce e immerso nelle caverne freme all’interno e divenuto più forte dell’ostacolo ingrossa di acque e più veloce esce dalla nera cavità e con celere corso attraversa i campi assiri).
La stampa con la presenza del fiume Granico e la medaglia nel cui verso è raffigurato in primo piano un fiume in piena sembrerebbero confermare la mia ipotesi sulla paternità del motto e sugli adattamenti da esso via via subiti e dei quali è testimonianza quest’emblema tratto da Symbolographia sive de arte symbolica di Iacopo Bosch uscito ad Augusta nel 1702 per i tipi di Bencard, ove il motto è: FIT MAIOR MULTIS OBSTANTIBUS (Diventa più grande a causa di molte cose che l’ostacolano).
Torniamo ora al nostro manoscritto.
Carte 58 e 59.
Cagion sarà, ch’innanzi tempo i’ moia, Petrarca, sonetto Orso, e’ non furon mai fiumi né stagni (non inserito nel Canzoniere) 11. La sostituzione di moia con pera fa pensare che il frate abbia utilizzato un’altra tradizione manoscritta o che abbia citato a memoria.
Virgilio, Georgiche, III, 110: nec mora nec requies; at fulvae nimbus harenae (né indugio né pace; ma una nuvola di bionda sabbia); Lucrezio, De rerum natura, IV, 227: nec mora nec requies interdatur ulla fluendi (non sia concesso alcun indugio né interruzione dello scorrere). Strana l’omissione del nec iniziale, mentre la sostituzione di mora con quies può andar bene dal punto di vista semantico ma è improponibile metricamente.
Carte 60 e 61.
Da sì lieti pensieri a pianger volta, Petrarca, Canzoniere, CCCV, 4. Da notare l’adattamento di volto per volta.
Matronae puerique, vocat labor ultimus omnis (le matrone e i fanciulli; l’ultima fatica chiama tutti), Virgilio, Eneide, XI, 476.
Carte 62 e 63.
Sì ch’a la morte in un punto s’arriva, Petrarca, Canzoniere, XXX, 14.
Insuetum per iter gelidas enavit ad Arctos (Per un inconsueto cammino nuotò verso le Orse), Virgilio, Eneide, VI, 16.
Carte 64 e 65.
Caduta è la tua gloria, et tu nol vedi, Petrarca, Canzoniere, CCLXVIII, 23.
Di, si qua est caelo pietas quae talia curet (Dei, se in cielo c’è una qualche pietà che curi tali cose),Virgilio, Eneide, II, 536. Quel per prima di si costituisce un errore veramente inspiegabile, anche perché è difficile immaginare, pure in poesia, una preposizione (per) seguita da una congiunzione (si).
Carte 66 e 67.
Perduto ho quel che ritrovar non spero, Petrarca, Canzoniere, CCLXIX, 3.
Si quis in adversum rapiat casusve deusve (Se o un caso o un dio rapisca verso l’avversità), Viriglio, Eneide, IX, 211.
Carte 68 e 69.
Et io del mio dolor ministro fui, Petrarca, Trionfi. Trionfo d’Amore, II, 61.
Laomedontiaden; sed cunctis altior ibat (Il figlio di Laomedonte; ma andava più altero degli altri), Virgilio, Eneide, VIII, 162.
Caro lettore che ancora sei rimasto (ma confortati, lo ero pure io fino a mezz’ora fa …) all’ASL, all’IRPEF alla TASI, sappi che tutto il nostro futuro sarà legato ad acronimi e il momento di maggior goduria sarà raggiunto, e non siamo molto lontani …, quando ci esprimeremo con una serie di suoni somiglianti più a grugniti, con tutto il rispetto per i porci veri, che a parole.
Poiché le lettere del nostro alfabeto, poi, superano, come sai (tu lo sai, ma dubito che lo sappia chi scrive le leggi) appena le due decine, il numero di composizioni possibili non è che sia infinito e già quasi quattro anni fa in https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/06/una-nuova-babele/ mostravo come l’ambiguità e l’equivoco fossero ormai una realtà più che un rischio.
Nel frattempo un numero sterminato di nuovi acronimi ha fatto la sua comparsa e alcuni di oro, embrioni congelati in attesa di tempi più propizi, sono sbocciati, mirabilmente fecondati da attento e competente dibattito, alla vita da poco o da pochissimo.
È il caso del POS la cui introduzione è stata tanto dolce (quest’aggettivo mi ricorda il nesso decrescita dolce, altra idiozia …) da non prevedere alcuna sanzione per chi non si adegua. Sarebbe come se non fossi passibile di multa qualora percorressi in auto una strada in senso vietato. E poi il legislatore, padre di una creatura acefala qual è una legge priva di sanzione, quello stesso legislatore (sì, magari individualmente proprio quello stesso che ha avuto per primo quell’idea geniale che tanto entusiasmo e successo ha riscosso presso i colleghi) ha la spudoratezza di sciacquarsi la bocca con concetti tipo certezza della pena. Ti sembro, perciò, blasfemo se propongo di sciogliere POS in Pacchia Omessa Sanzione?
Il POS di cui sto parlando è l’acronimo di Point Of Sale che trovo registrato già nell’edizione dell’anno 2000 del Vocabolario De Mauro. Ma non è il solo, perché POS (acronimo, questa volta, tutto italiano) si chiama anche il Piano Operativo di Sicurezza che tutte le imprese devono presentare prima di entrare in un cantiere edile, disposizione in vigore dal 2008 (non ho controllato se questa volta la sanzione è prevista, ma non mi meraviglierei se non ci fosse …).
Da qui la legittima domanda postami nel titolo. Dici che non mi hai mai visto porre piede come impresario in un cantiere edile? Intanto fatti i fatti tuoi! E poi, anche se io lavoro in nero e prendo le mie brave precauzioni, alle leggi ci tengo e quindi ho o non ho il diritto di sapere se chi mi compila, a pagamento, il POS si è dotato o meno di POS?
Da cittadino modello (siamo il paese dei modelli …) attendo una risposta, che confido sarà rapidissima, da parte delle autorità competenti. Ti farò sapere, ma nel frattempo aspetta pure tu e sappi che in questo dannato paese, specialmente per chi si incazza nero nel vedere certe cose e si rode il fegato, tutto è pos … sì … bile!
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