‘Leggerezza: gravità senza peso’, le opere dell’artista salentino Sandro Greco in mostra al Monastero degli Olivetani di Lecce
di Paolo Rausa
L’ingresso alla mostra di Sandro Greco è all’insegna della metamorfosi. Non si è più in città, nel caos del traffico, nella baraonda di rumori, qui tutto tace e si ode, se si presta orecchio, perfino il sibilo delle ali, il frusciare delle farfalle che non sono solo dipinte o installate ma colorano il prato in cui sono immerse e noi con loro. La fantasmagoria di colori ci rallegra. Sandro, un giovane di 86 anni, è subito lì a spiegarci che l’arte è inspiegabile, almeno nel suo significato, perché la sua cifra sta nel rapporto che si stabilisce fra l’artista e il visitatore, in quel connubio spirituale che consente un’osmosi fra la nostra e la sua personalità poliedrica. ‘Fiuri e… culuri’ mi verrebbe da titolare questa mostra. Senonché questo è il titolo di una delle prime raccolte di poesie di mio padre, Fernando Rausa. E’ strano come i concetti si assomiglino, per quanto espressi con mezzi diversi. Qui è la leggerezza delle farfalle che costituisce la cifra, la sua fragilità, la sua bellezza che dura il volgere di un giorno o al più una settimana, per quelle più longeve un mese. La loro essenza è la nostra. Chiedo a Sandro se si sente una farfalla. La risposta è ovvia: ‘Per me è la riprova che la condizione della farfalla dovrebbe insegnare all’essere umano a percorrere la vita sulla terra senza lasciare un segno negativo della sua attività antropica, che si risolve in opere, costruzioni, disboscamenti che poi si ritorcono sulla sua esistenza, quando il corso del fiume travalica il suo letto in cui è ridotto dalle ville e dai capannoni che sorgono sul suo orlo’. L’altro aspetto appariscente dell’arte di Sandro Greco sono i colori, che egli stesso da buon chimico realizza una volta per tutte. Siamo immersi magicamente in un altro mondo che è fuori dalle mura del Monastero possente degli Olivetani a Lecce, siamo nei prati che possiamo ammirare nelle campagne dove il paesaggio è modellato secondo l’armonia di una nota, di un sogno, quello di guardare la natura con meraviglia, con spirito di bambini, senza mai perdere quello stupore inebriante. Sandro Greco modella la materia, il legno, la terracotta, l’olio, la tempera e la riduca a icona delle sue convinzioni maturate nel corso dell’esistenza dura, ma ricca di esperienze. La fede sorregge le sue aspirazioni artistiche e spirituali. L’altro artista con cui mi sono accompagnato alla mostra, Vincenzo de Maglie da Minervino di Lecce, scava nel legno di noce e di ulivo e così ricava immagini della nostra esistenza reali o immaginarie. Il loro incontro è avvenuto all’insegna della reciproca curiosità, sullo scambio di modalità per arrivare alla medesima verità, che l’uomo insegue per raggiungere il divino che c’è in noi. E gli artisti come Sandro e Vincenzo vi sono molto vicini. Info: Museo degli Olivetani, viale San Nicola – Lecce, orari: lun.-ven. 8,00-19,00, per informazioni e visite guidate tel. 338 2618983, oppure 340 8227373, www.unisalento.it/mostre.
Oggi la Montagna spaccata insieme con La reggia fa parte del comune di Galatone ma in passato essa faceva parte del territorio di Nardò ed aveva forse un altro nome prima che quello attuale lo soppiantasse con la realizzazione della litoranea.
Ecco cosa scrive Antonio De Ferrariis detto Il Galateo nel De situ Iapygiae uscito a Basilea nel 1558: Urbs inter omnes, quas unquam vidi, meo iudicio in amoenissima planitie sita. Distat ab ora sinus Tarenti tribus aut quatuor milibus passuum, a Lupiis quindecim, a Tarento XLV. Oram habet XXIV milia passuum longitudinis a confinio Tarentinae orae usque ad rupem altam, mari impendentem, quam a rectitudine ortholithon dicunt. Hic lapis Neritinorum et Callipolitanorum agrum disterminat (La città [Nardò] tra tutte quelle che ho visto a mio giudizio è posta in una amenissima pianura. Dista dalla costa del golfo di Taranto tre o quattro miglia, da Lecce 15, da Taranto 45. Ha una costa di 24 miglia di lunghezza dal confine della costa tarantina fino all’alta rupe, che incombe sul mare, che per la sua posizione eretta chiamano ortolito1. Questa pietra distingue il territorio dei Neretini da quello dei Gallipolini).
Sarà stato Ortolito il toponimo in uso al tempo del Galateo? Il dubbio nasce non tanto dall’iniziale minuscola quanto dal fatto che il contesto non esclude affatto che si tratti di un nome comune la cui definizione è data dalle parole precedenti2.
Torre dell’alto lido si chiama una torre costiera non molto distante (foto in basso).
Il suo nome potrebbe essere deformazione di Ortolito (immaginando che il toponimo si riferisse ad un territorio più vasto di quello dell’attuale Montagna spaccata) per influsso del dialettale ièrtu (=alto) e lido, che etimologicamente nulla hanno a che fare con la parola di origine greca3 e la deformazione potrebbe essere stata propiziata da una sorprendente quanto casuale affinità concettuale. Potrebbe, però, essere nato autonomamente come nesso italiano, ma le forme precedenti del toponimo mi spingono a privilegiare la deformazione di una voce dialettale. Nella carta di Giovanni Antonio Magini (1555-1617) Terra di Otranto olim Salentina et Iapigia la nostra torre è Torre Arteglio.
Nella mappa Terra d’Otranto di Antonio Bulifon (1649-1707) il toponimo è ancora T. Arteglio.
Nella mappa del 1714 Provincia di Terra d’Otranto già delineata dal Magini e nuovamente ampliata in ogni sua parte secondo lo stato presente data in luce da Domenico de Rossi la Torre dell’alto lido è Torre di Artellotto.
Nell’Atlante geografico del Regno di Napoli (completato nel 1812) di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni T. d’Alto Lido.
Tutto ciò, purtroppo, non aiuta a capire se la voce del Galateo è da intendersi ortolito oppure Ortolito.
La rabbia di cui parlo nel titolo non è, comunque, solo quella che in questo momento mi prende non essendo stato in grado di risolvere il dubbio. Di essa parlerò a breve nella seconda parte.
1 La voce è dal greco ὀρθός (leggi orthòs)=retto+λίθος (leggi lithos)=pietra.
2 Le edizioni del De situ Iapygiae (che si rifanno tutte, a parte qualche dettaglio di poco conto, a quella princeps di Basilea) che ho potuto consultare recano ortholithon. Non deve averlo ritenuto, invece, nome comune Emanuele Pignatelli che in Civitas Neritonensis: la storia di Nardò ed altri contributi, a cura di Marcello Gaballo, Congedo, Galatina, 2001, a p. 18 scrive: … di qui a linea retta finisce alla Montagna Spaccata, ovvero all’Ortolito, riattaccandosi in quel sito al territorio di Gallipoli. E nella pagina precedente incorre, per quanto ho riportato nelle restanti note, in un’imperfezione di natura filologica quando scrive … costeggiato da una rupe alta, e denominata Ortolito (ossia Altum saxum-alto sasso) …
Senza pensarci su due volte, dunque, il Pignatelli crede di emendare l’incongruenza presente nello storico neretino Giovanni Bernardino Tafuri (1695-1760), che nell’ edizione del De situ Iapygiae col suo commento inserita in Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Gio. Bernardino e Tommaso Tafuri stampate ed annotate da Michele Tafuri, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1851, v. II, pp. 25-93, a p. 87 scrive:
Con la grafia con l’iniziale minuscola (che come s’è detto sarebbe quella originale) appare in contraddizione quanto si legge in Dell’origine, sito ed antichità della città di Nardò dello stesso Giovanni Bernardino Tafuri, opera inserita nel primo volume della raccolta già citata (pp. 325-543), Napoli, Stamperia dell’Iride, 1848, dove a p. 341 si legge:
3 Ièrtu corrisponde all’italiano (letterario!) erto che è per sincope da eretto, a sua volta dal latino erectu(m), participio passato di erìgere=innalzare, composto da e=da+règere=reggere (concetto di direzione dal basso verso l’alto). Lido, invece, è dal latino classico litus=lido, costa, spiaggia e non dovrebbe avere nessun rapporto col citato greco λίθος. Mi sarei aspettato in tal caso lithus e non litus. In latino medioevale esistono infatti lithus, litium e litum, ma col significato di pietra (e un lido non è esclusivamente roccioso).
9 settembre 2014 – Martedi
S’evolve FB. Si cominciò con gli aforismi, le battutacce e i non sense. Poi si passò alle immagiini e alle scritte sentenziose. Per acquisire like sostanzialmente sempre uguali. Adesso è tempo di video più o meno riciclati.
La potenza della rete è nell’assenza dell’oblìo, ovvero nella sua esistenza probabilistica. Una presenza mediatica può riapparire da un momento all’altro e anni e anni di “imenoplastica” scompaiono in un secondo.
Non so dire se s…ia un bene o un male, so che molti video come molti post e molte immagini non mi piacciono affatto, ma anche molte persone che incontro nella vita reale non mi piacciono affatto, da qui la mia convinzione profonda: un social forum è una delle possibili astrazioni della vita reale e, molto spesso, le astrazioni sono una verità più profonda di quella che appare nel contatto reale.
Per me, affidare alla rete queste riflessioni è diventata una specie di terapia mattutina. Immaginare che ci sia qualcuno che ascolti le tue esternazioni, per quanto possano essere inutili, ti fa sentire meno solo, specialmente dopo il calar del sole …
“Le sere sono uguali, ma ogni sera è diversa
e quasi non ti accorgi dell’ energia dispersa
a ricercare i visi che ti han dimenticato
vestendo abiti lisi, buoni ad ogni evenienza, inseguendo la scienza o il peccato…”
Buon giorno a tutti
Con la frasca, di cui discorrerò in un successivo post, il mirto è tra le essenze fondamentali della macchia mediterranea.
Nome dialettale: murtèddha
nome italiano: mirto, mortella
nome scientifico: Myrtuscommunis L.
famiglia: Myrtaceae
Le denominazioni riportate derivano tutte dal latino myrtus a sua volta dal greco myrtos, che con lo stesso significato ha anche myrsìne o myrrìne. La nostra pianta non si sottrae al destino leggendario di personaggi mitici trasformati in vegetali e celebrati da autori più o meno famosi e più o meno antichi (due soli esempi: l’alloro in cui si muta Dafne per sfuggire alla libidine di Apollo, la canna in cui per pietà fu mutato da Zeus Calamo dopo la morte di Carpo); nel nostro caso la testimonianza è di epoca bizantina, anche se l’opera in cui è contenuta (Geoponica), compilazione risalente al X secolo, è frutto di precedenti stratificazioni: “Mirsìne era una fanciulla attica, che superava in bellezza tutte le ragazze e in forza tutti i ragazzi. Era pure devota alla dea Minerva e trascorreva il suo tempo nelle palestre e negli stadi e incoronava i giovani che gareggiavano e vincevano. Alcuni di loro vinti e superati, mossi da odio e invidia per la fanciulla, la uccisero. Ma non estinsero la riconoscenza di Minerva per la fanciulla, sicché ancora rimane preferito dalla dea il mirto al pari dell’olivo e, cambiata vita, invece delle olive esso produce le sue bacche”.1
Probabilmente la leggenda è molto più antica dell’opera che ce l’ha tramandata e quasi certamente è legata all’importanza che alla pianta gli antichi riconoscevano. Mi limito a riportare la corposa testimonianza di Plinio (I° secolo d. C.) perché essa compendia ogni conoscenza (anche di epoca a lui anteriore) con i suoi riferimenti simbolici e concreti: “La natura del succo è degna di eccezionale ammirazione nel mirto, dal momento che da questa sola specie si ricavano due tipi di olio e di vino, e ancora, come ho detto, il mirtidano2. E venne usato dagli antichi in sostituzione del pepe prima che venisse scoperto, viene esaltato il sapore della carne di cinghiale pure in un certo preparato che trae da esso il nome, dopo aver aggiunto per lo più mirti agli intingoli. Si tramanda che questo albero fu visto sotto il cielo dell’Europa più vicina, che inizia dai monti Cerauni3, per la prima volta a Circeo sulla sepoltura di Elpenore4 e gli resta il nome greco, per cui appare come una pianta straniera. Fu dove oggi è Roma già al momento della sua fondazione, poichè si tramanda che con un ramoscello di mirto Romani e Sabini, dopo che avevano voluto scontrarsi per il rapimento delle vergini, deposte le armi, si purificarono in quel luogo dove c’è la statua di Venere Cloacina; gli antichi infatti dicevano cluere per purgare. E pure in quell’albero c’è una specie di profumo e allora per questo fu scelto, poiché Venere presiede all’accoppiamento5 e a questo albero, non so se primo tra tutti piantato a Roma nei luoghi pubblici per un fatidico e memorabile augurio. Infatti si trova tra i santuari antichissimi di Quirino, cioé dello stesso Romolo. Lì davanti allo stesso tempio ci furono per lungo tempo due sacri mirti, uno chiamato patrizio, l’altro plebeo. Il patrizio durò molti anni esuberante e florido per tutto il tempo che anche il senato fiorì, grande, il plebeo inaridito e squallido.Dopo che questo si riprese mentre il patrizio ingialliva, a partire dalla guerra marsica s’indebolì l’autorità dei senatori e a poco a poco la sua maestà marcì in sterilità. Anzi ci fu anche una vecchia ara a Venere Mirtea, che ora chiamano Murcia. Catone ha tramandato tre tipi di mirto: il nero, il bianco, quello coniugale, probabilmente da coniugio, di quella specie del Cloacino. Ora anche l’altra distinzione del coltivato e del selvatico e nell’uno e nell’altro di quella a foglia larga, nel selvatico particolare quella del pungitopo. I giardinieri considerano specie coltivate la tarantina dalla foglia minuta, la nostrale dalla foglia larga, la esastica dal fogliame densissimo, con sei ordini per volta. Questa non viene usata, è ricca di rami e non alta.Credo che ora la coniugale è chiamata nostrale.Il mirto è profumatissimo in Egitto. Catone ha insegnato che si ricava il vino da quello nero seccato all’ombra e aggiunto al mosto. Se le bacche non vengono seccate se ne ricava olio. Poi si scoprì che anche dalla bianca si ricava vinobianco, con due sestari di mirto pestato macerato e poi spremuto in due emine di vino. Le foglie pure vengono essiccate in farina a rimedio delle ferite nel corpo umano, con una polvere leggermente pungente e che placa la sudorazione. Anche nell’olio, strano a dirsi, c’è un certo sapore di vino e nello stesso tempo un liquido grasso con la principale proprietà di correggere il vino filtrato attraverso un sacco. Trattiene la feccia e lascia passare solo il liquido puro e si offre come compagno con ottime referenze al filtrato. Anche le sue bacchette, solo portate, giovano a chi procede a piedi in un lungo viaggio; anzi pure gli anelli fatti col ramoscello privi di ferro curano i rigonfiamenti dell’inguine. Anche in campo bellico è entrato e trionfando sui Sabini P. Postumio Tuberto durante il suo consolato, egli che primo tra tutti entrò in città con l’onore dell’ovazione, poiché aveva condotto agevolmente l’impresa senza spargimento di sangue, coronato del mirto di Venere vincitrice avanzò e rese desiderabile quest’albero pure ai nemici. Questa fu poi la corona di coloro che godevano dell’ovazione, eccetto M. Crasso che dopo avere trionfato su Spartaco e gli schiavi fuggitivi avanzò incoronato di alloro. Masurio scrive che anche coloro che trionfavano sul carro usarono una corona di mirto. L. Pisone tramanda che Papirio Masone, che per primo sul monte Albano trionfò sui Corsi, era solito assistere ai giochi del circo coronato di mirto. Questi era l’avo materno dell’Africano minore. Marco Valerio usava due corone, di alloro e di mirto, perché l’aveva promesso in voto.
L’integrazione delle proprietà terapeutiche del mirto trova spazio in numerosi altri passi, a curare (come estratto oleoso) i disturbi più disparati in combinazione con altre essenze (angina: XX, 56; occhi gonfi: XXII, 68; colera e dissenteria; XXII, 70) o da solo (gengivite, odontalgia, dissenteria, ulcerazioni uterine, cistite, scottature, lesioni da attrito, forfora, ragadi, condilomi, lussazioni, contro la puntura di cantaride e buprestide e sostanze urticanti, come deodorante: XXIII, 44).
Ecco, poi, notizie sulla preparazione e sull’uso del mirtidano: “Fra poco diremo in che modo secondo Catone viene preparato il vino al mirto, i Greci lo fanno in altro modo. Dopo aver pestato i rami teneri cotti con le loro foglie in mosto salato, ne bolliscono una libbra in tre congi di mosto, finché ne restano due. Quello che nello stesso modo viene fatto dalle bacche del mirto selvatico si chiama mirtidano. Esso tinge le mani”7; “Abbiamo detto in che modo si fa il mirtidano. Giova alla matrice riscaldato ed applicato ad empiastro, molto più efficace anche con la corteccia, le foglie e il seme. Viene estratto anche il succo dalle foglie tenerissime pestate in un mortaio, versando poco a poco vino aspro o altrimenti acqua piovana: e di questo succo si servono contro le ulcere della bocca e del sedere, della matrice e del ventre, per far diventare neri i capelli, come astringente per il viso, per schiarire le lentiggini e ogni qualvolta si abbia bisogno di un astringente”.8
Nell’opera di Plinio, inoltre, il mirto compare a modello di comparazione nella descrizione di altre piante, a riprova dell’enorme considerazione in cui era tenuto: rhus (XXIV, 54), heliantes (XXIV, 102), chamaerops (XXVII, 69), polyrrhizon (XXVII, 103).
Le proprietà terapeutiche di questa pianta in veterinaria sono attestate dal contemporaneo Columella che contro la dissenteria nel bue consiglia: “Né manchino germogli di lentisco e mirto e di verde olivastro”; “Devono essere somministrati germogli di olivastro e di canna, allo stesso modo bacche di lentisco e di mirto”.9 Lo stesso autore ci informa dell’importanza del mirto nell’alimentazione dei colombi (“Molti ritengono che dev’essere offerta una varietà di cibi per evitare che quando è unico manifestino avversione. Questo si evita quando si gettano loro semi di mirto e lentisco, oppure bacche di olivastro e di edera, nonché di corbezzolo”10), del suo utilizzo nella costruzione di arnie (“…le celle in cui nidifichino le api ed esse siano coperte da arbusti di bozzo o di mirto piantati in mezzo, che non superino l’altezza delle pareti”11), per aromatizzare il vino (“Prima di togliere il mosto dal tino riempi pure in abbondanza i contenitori di rosmarino o di alloro o di mirto affumicato affinché il vino fermentando si purifichi bene; poi strofina leggermente i contenitori con pigne”12). Le sue indicazioni sulla preparazione del vino al mirto (addirittura quattro procedure!) sono molto più precise ed esaurienti di quelle di Plinio: “Prepara così il vino al mirto utile contro le coliche, la diarrea e il mal di stomaco: due sono le specie di mirto, il nero e il bianco. Si raccolgono le bacche del nero quando sono mature, se ne estraggono i semi e così vengono essiccate al sole e conservate in un vaso di creta in luogo asciutto. Poi durante la vendemmia da un vecchio ceppo o, se non c’è, dalle vecchissime vigne di Aminea si raccolgono uve maturate al calore del sole e il mosto da esse estratto viene messo in un barile e subito nel primo giorno, prima che inizi la fermentazione, bacche di mirto, prima messe da parte, vengono accuratamente pestate e si pesano di queste tante libbre quante sono le anfore da trattare; allora viene preso un pò di mosto dal barile che ci accingiamo a trattare e viene sparsa come farina ciò che è stato pestato e pesato. Dopo di ciò dalla massa si ricavano dei pezzetti e così vengono messi nel mosto del barile ai margini facendo attenzione che ogni pezzetto non vada a finire sopra l’altro. Quando il mosto sarà fermentato e filtrato due volte di nuovo allo stesso modo e nella stessa misura vengono pestate le bacche ma questa volta non si fanno pezzetti ma viene versato il mosto dal barile in una coppa, viene mescolato con le bacche finché non assume le sembianze di un brodo grasso; quando la miscela è pronta si versa nel barile e si gira con un mestolo di legno. Poi dopo nove giorni il vino viene filtrato e il barile viene strofinato leggermente con ramoscelli di mirto secco e viene apposto un coperchio perché niente vi caschi dentro. Fatto ciò, dopo sette giorni il vino viene di nuovo filtrato e versato in anfore ben impeciate e profumate; ma bisogna fare attenzione, quando i versa, a non versare anche la feccia. Prepara così un altro vino al mirto: fai bollire tre volte miele attico e togli la schiuma altrettante volte. Oppure se non ha il miele attico scegli il migliore e togli la schiuma quattro o cinque volte, poiché, quanto più è di qualità scadente tante più impurità ha. Quando il miele si è raffreddato scegli bacche di mirto bianco quanto più possibile mature e strofinale per evitare di pestare i semi che si trovano all’interno. Poi dopo averle messe in una fiscella spremile e mescola il succo, che dev’essere nella quantità di sei sestari, con un sestario di miele bollito, versalo in una bottiglietta e tappala. Questo però deve essere fatto nel mese di dicembre, tempo in cui sono maturi i semi del mirto e bisogna fare attenzione che per sette giorni prima che le bacche siano raccolte (se è possibile, altrimenti per non meno di tre) il tempo sia stato sereno o almeno non abbia piovuto; e bisogna fare attenzione a non raccoglierle se sono bagnate di rugiada. Molti spremono la bacca nera o bianca del mirto quando è matura e, dopo averla seccata un pò all’ombra per due ore, la schiacciano in modo che, per quanto è possibile, i semi interni restino integri; a questo punto spremono per mezzo di una fiscella la massa pestata e attraverso un filtro di giunco versano il succo purificato in bottigliette ben impeciate, senza aggiungere miele né altro. Questo liquido non dura tanto a lungo (ma talvolta può durare senza pericolo) è più utile alla salute che il composto dell’altro mirto conosciuto. Ci sono quelli che, quando il succo estratto è abbondante, lo fanno bollire fino a ridurlo ad un terzo e dopo che è raffreddato lo mettono in bottigliette impeciate; così confezionato dura più a lungo. Ma anche se non è stato fatto bollire può durare senza pericolo per due anni, a patto che sia stato preparato igienicamente ed accuratamente”13.
E poteva mancare all’appuntamento con la nostra mortella Apicio, il cuoco più famoso dell’antichità? Le bacche compaiono ripetutamente tra gli aromi nella preparazione di salse che accompagnano sia la carne (“Altra salsa bianca per carni tagliuzzate: pepe, timo, cumino, semi di sedano, finocchio, rita oppure menta, bacche di mirto, uva passa: tempera con vino melato e agita con un ramo di santoreggia”14; “Salsa per carni tagliuzzate: affetta uova sode, pepe, cumino, prezzemolo, porro cotto, bacche di mirto un pò di più, miele, aceto, sugo di acciughe, olio.”15) che il pesce (“Salsa per orata: pepe, ligustico, carvi, origano, bacca di ruta, menta, bacca di mirto, tuorlo d’uovo, miele, aceto, olio, vino, sugo di acciughe. Scaldala e utilizzala così”16), come la cacciagione in genere (“Pepe, cumino fritto, ligustico, menta, uva passa snocciolata o prugne di Damasco, miele in piccola quantità. Lavora il tutto con vino al mirto, aceto, sugo di acciughe e olio. Riscalda e rimesta con sedano e satureia”17) e in particolare la pernice (“Pepe, ligustico, seme di sedano, bacche di mirto o uva passa, miele, vino, aceto, sugo di alici e olio. Utilizzalo freddo”18) e il cinghiale (“Altra salsa per cinghiale: trita pepe, ligustico, origano, bacche di mirto snocciolate, coriandro, cipolla; versa miele, vino, sugo di alici, olio in piccola quantià; riscalda, adensa con amido, versa sul cinghiale cotto in forno. Questa salsa va bene per ogni tipo di selvaggina19”).
E, dopo i pagani, un autore cristiano, Sant’Agostino, sceglie il mirto per spiegare, addirittura, il concetto della Trinità: “Diciamo poi che l’alloro, il mirto e l’olivo sono solo tre alberi o tre essenze o nature…Ma dove non c’è nessuna diversità di natura così generalmente vengono chiamate parecchie cose che possono essere pure chiamate con nomi particolari. La differenza di natura infatti fa sì che l’alloro, il mirto e l’olivo o il cavallo, il bue e il cane non siano indicati con un nome speciale (le piante tre allori o gli animali tre buoi) ma generale (le piante tre alberi e gli animali tre animali)”20.
Per tutto il medioevo e buona parte dell’età moderna particolare successo ebbe tra i prodotti cosmetici come purificante e tonificante della pelle l’Acquadegli angeli, distillato delle foglie e dei fiori del mirto.
In epoca più recente particolare successo commerciale ha riscosso il liquore di mortella sardo (non è per stupido campanilismo, ma quello che prepara in casa mia moglie è di gran lunga migliore…). E poi, come non dire che mortadella non è altro che il diminutivo del latino murtàtum=insaccato condito con mirto, anche se di mirto (e forse anche di carne…) oggi non c’è nemmeno l’ombra?
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1 XI, 6; traduco il testo greco riportato nell’edizione a cura di P. Nehedam uscita a Cambridge nel 1704 per i tipi dell’Accademia , pagg. 305-306.
2 I branI relativi alla sua preparazione e agli usi terapeutici sono riportati più avanti.
3 In Epiro.
4 Uno dei compagni di Ulisse.
5 Vedi più avanti il mirto coniugale che Plinio riporta da Varrone.
6 Naturalishistoria, XV, 35-38: Sucorum natura praecipuam admirationem in myrto habet, quando ex una omnium olei vinique bina genera fiunt, item myrtidanum, ut diximus. Et alius usus bacae fuit apud antiquos ante quam piper reperiretur illam optinens vicem, in quodam etiam genere opsonii nomine inde tracto, aprorum sapor commendatur, plerumque ad intinctus additis myrtis. Arbor ipsa in Europae citeriore caelo, quod a Cerauniis montibus incipit, primum Cerceis in Elpenoris tumulo visa traditur Graecumque ei nomen remanet, quo peregrinam esse apparet. Fuit, ubi nunc Roma est, iam cum conderetur; quippe ita traditur, myrtea verbena Romanos Sabinosque, cum propter raptas virgines dimicare voluissent, depositis armis purgatos in eo loco qui nunc signa Veneris Cluacinae habet; cluere enim antiqui purgare dicebant. Et in ea quoque arbore suffimenti genus habetur, ideo tum electa, quoniam coniunctioni et huic arbori Venus praeest, haud scio an prima etiam omnium in locis publicis Romae sata, fatidico quidem et memorabili augurio. Inter antiquissima namque delubra habetur Quirini, hoc est ipsius Romuli. In eo sacrae fuere myrti duae ante aedem ipsam per longum tempus, altera patricia appellata, altera plebeia. Patricia multis annis praevaluit exuberans ac laeta; quamdiu senatus quoque floruit, illa ingens, plebeia retorrida ac squalida. quae postquam evaluit flavescente patricia, a Marsico bello languida auctoritas patrum facta est ac paulatim in sterilitatem emarcuit maiestas. quin et ara vetus fuit Veneri Myrteae, quam nunc Murciam vocant. Cato tria genera myrti prodidit, nigram, candidam, coniugulam, fortassis a coniugiis, ex illo Cluacinae genere. Nunc et alia distinctio sativae aut silvestris et in utraque latifoliae, in silvestri propria oxymyrsinae. Sativarum genera topiarii faciunt Tarentinam folio minuto, nostratem patulo, hexasticham densissimo, senis foliorum versibus. Haec non est in usu, ramosa atque non alta. Coniugalem existimo nunc nostratem dici. Myrtus odoratissima Aegypto. Cato docuit vinum fieri e nigra siccata usque in ariditatem in umbra atque ita musto indita. Si non siccentur bacae, oleum gigni. Postea conpertum et ex alba vinum fieri album, duobus sextariis myrti tusae in vini tribus heminis maceratae expressaeque. Folia et per se siccantur in farinam ad ulcerum remedia in corpore humano, leniter mordaci pulvere, ac refrigerandis sudoribus.Quin immo oleo quoque, mirum dictu, inest quidam vini sapor simulque pinguis liquor, praecipua vi ad corrigenda vina saccis ante perfusis. Retinet quippe faecem nec praeter purum liquorem transire patitur datque se comitem praecipua commendatione liquato. Virgae quoque eius, gestatae modo, viatori prosunt in longo itinere pediti; quin et virgei anuli expertes ferri inguinum tumori medentur. Bellicis quoque se rebus inseruit, triumphansque de Sabinis P. Postumius Tubertus in consulatu, qui primus omnium ovans ingressus urbem est, quoniam rem leniter sine cruore gesserat, myrto Veneris victricis coronatus incessit optabilemque arborem etiam hostibus fecit. Haec postea ovantium fuit corona excepto M. Crasso, qui de fugitivis et Spartaco laurea coronatus incessit. Masurius auctor est curro quoque triumphantes myrtea corona usos. L. Piso tradit Papirium Masonem, qui primus in monte Albano triumphavit de Corsis, myrto coronatum ludos Circenses spectare solitum; avus maternus Africani sequentis hic fuit. Marcus Valerius duabus coronis utebatur, laurea et myrtea, qui et hoc voverat.
7 XIV, 103 Myrtiten Cato quem ad modum fieri docuerit mox paulo indicabimus, Graeci et alio modo. Ramis teneris cum suis foliis in salso musto coctis tunsis, libram in tribus musti congiis defervefaciunt, donec duo supersint. Quod ita e silvestris myrti bacis factum est, myrtidanum vocatur. Hoc manus tinguit.
8 XXIII, 82: Myrtidanum diximus quomodo fieret. Vulvae prodest, adpositu, fotu, et illitu. Multo efficacius est cortice et folio et semine. Exprimitur ex foliis succus mollissimis in pila tusis, adfuso paulatim vino austero, alias aqua coelesti: atque ita expresso utuntur ad oris sedisque ulcera, vulvae et ventris: capillorum nigritiam, malarum perfusiones, purgationem lentiginum et ubi constringendum aliquid est.
9 De re rustica, VI, 2 Nec desint lentisci myrtique et oleastri cacumina viridis; VI, 3 Cacumina oleastri et arundinis, item baccae lentisci et myrti dandae.
10 Op.cit., VIII, 4 Multi varietatem ciborum, ne unum fastidiant, praebendam putant. Ea est cum obiciuntur myrti et lentisci semina, item oleastri et hederaceae baccae nec minus arbuti.
11 Op. cit., VIII, 5 …cubilia quibus innidificent aves, eaque contegantur intersitis buxeis vel myrteis fruticibus, qui non excedant altitudinem parietum.
12 Op. cit., XII, 4 Mustum autem antequam de lacu tollas, vasa rore marino vel lauro vel myrto subfumigato et large repleto, ut in effervescendo vinum se bene purget; postea vasa nucibus pineis suffricato.
13 Op. cit., XII, 38, 1-8 Vinum myrtitem ad tormina et ad alvi proluviem et ad inbecillum stomachum sic facito: duo genera sunt myrti, quorum alterum est nigrum, alterum album. Nigri generis bacae, cum sunt maturae, leguntur, et semina earum eximuntur, atque ipsae sine seminibus in sole siccantur, et in fictili fidelia sicco loco reponuntur. [2] Deinde per vindemiam ex vetere arbusto vel, si id non est, ex vetustissimis vineis Amineae bene maturae uvae sole calido leguntur, et ex is mustum adicitur in seriam et statim primo die, antequam id ferveat, bacae myrti, quae fuerant repositae, diligenter conteruntur et totidem earum librae contusarum appenduntur, quot amphorae condiri debent; tum exiguum musti sumitur ex ea seria, quam medicaturi sumus, et tamquam farina conspargitur, quicquid contusum et appensum est. Post hoc complures ex ea massulae fiunt et ita per latera seriae in mustum demittuntur, ne altera offa super alteram perveniat. [3] Cum deinde bis mustum deferbuerit et bis curatum est, rursus eodem modo et tantundem ponderis bacae, sicut supra, contunditur, nec iam, ut prius, massulae fiunt, sed in labello mustum de eadem seria sumitur, praedicto ponderi permiscetur, sicut sit instar iuris crassi; quod cum est permixtum, in eandem seriam confunditur et rutabulo ligneo peragitatur. [4] Deinde post nonum diem, quam id factum est, vinum purgatur et scopulis aridae myrti seria suffricatur operculumque superponitur, ne quid eo decidat. Hoc facto, post septimum diem rursus vinum purgatur et in amphoras bene picatas et bene olidas diffunditur; sed curandum est, ut, cum diffundis, liquidum et sine faece diffundas. [5] Vinum aliud myrtiten sic temperato. Mel Atticum ter infervere facito et totiens despumato. Vel si Atticum non habueris, quam optimum mel eligito et quater vel quinquies despumato, quoniam, quanto est deterius, tanto plus habet spurcitiae. Cum deinde mel refrixerit, bacas albi generis myrti quam maturissimas legito et perfricato, ita ne interiora semina conteras. [6] Mox fiscello ligneo inclusas exprimito, sucumque earum, qui sit sextariorum sex, cum mellis decocti sextario misceto et in lagunculam diffusum oblinito. Sed hoc mense Decembri fieri debebit, quo fere tempore matura sunt myrti semina, custodiendumque erit, ut, antequam bacae legantur, si fieri potest, VII diebus, sin autem, ne minus triduum serenum fuerit aut certe non pluerit; et, ne rorulentae legantur, cavendum. Multi nigram vel albam myrti bacam, cum iam maturuit, destringunt et, duabus horis eam cum paululum in umbra expositam siccaverunt, proterunt, ita ut, quantum fieri potest, interiora semina integra permaneant; tum per lineum fiscum, quod protriverant, exprimunt et per colum iunceum liquatum sucum lagunculis bene picatis condunt neque melle neque alia re ulla inmixta. Hic liquor non tam est durabilis, sed quamdiu sine nox[i]a manet, utilior est ad valitudinem quam alterius myrtitis notae compositio. Sunt qui hunc ipsum expressum sucum, si sit eius copiosior facultas, in tertiam partem decoquant et refrigeratum picatis lagunculis condant; sic confectum diutius permanet. Sed et, quod non decoxeris, possit innoxium durare biennio, si modo munde et diligenter id feceris.
14 VII, 6, 7 Aliter ius candidum in copadiis: piper, thymum, cuminum, apii semen, foeniculum, rutam alias mentham, baccam myrteam, uvam passam; mulso temperabis, agitabis ramo satureiae.
15 VII, 6, 12 Ius in copadiis: ova dura incidis; piper, cuminum, petroselinum, porrum coctum, myrti baccas plusculum, mel, acetum, liquamen, oleum.
16 X, 12 Ius in pisce aurata: piper, ligusticum, careum, origanum, rutae bacam, mentam, myrtae bacam, ovi vitellum, mel, acetum, oleum, vinum, liquamen. calefacies et sic uteris.
17 VI, 5, 1 Ius in diversibus avibus: piper, cuminum frictum, ligusticum, mentham, uvam passam enucletam aut damascena, vel modice; vino myrteo temperabis, aceto, liquamine et oleo; calefacies et agitabis apio et satureia.
19 Aliter in apro: teres piper, ligusticum, origanum, baccas myrti exenteratas, coriandrum, cepas; suffundes mel, vinum, liquamen, oleum modice: calefacies, amylo obligas, aprum in furno coctum perfundes. Hoc et in omne genus carnis ferinae facies.
20 DeTrinitate VII, 7: …laurum vero et myrtum et oleam, tantum tres arbores vel tres substantias aut naturas…. Sed ubi est naturae nulla diversitas ita generaliter enuntiantur aliqua plura ut etiam specialiter enuntiari possint. Naturae enim differentia facit ut laurus et myrtus et olea, aut equus et bos et canis non dicantur speciali nomine, istae, tres lauri, aut illi, tres boves, sed generali, et istae, tres arbores, et illa, tria animalia.
CATONE (III-II secolo a. C.), De agricultura, 6, 1: In agro crasso et calido oleam conditivam, radium maiorem, Sallentinam, orcitem, poseam, Sergianam, Colminianam, albicerem; quam earum in iis locis optimam dicent esse, eam maxime serito (Nel terreno grasso e caldo (pianta) l’olivo nelle varietà da condimento, allungata maggiore, salentina, orcite, posea, sergiana, colminiana, albicere; di esse pianta soprattutto quella che in quei luoghi dicono essere la migliore).
DIONIGI DI ALICARNASSO (I secolo a. C.), Antiquitates Romanae, I, 37, 2: Ποίας δ᾽ ἐλαιοφόρου τὰ Μεσσαπίων καὶ Δαυνίων καὶ Σαβίνων καὶ πολλῶν ἄλλων γεώργια; (Di quelle di quale regione olivicola [sono meno pregiate] le coltivazioni dei Messapi, dei Dauni, dei Sabini e di molti altri?
VARRONE (I secolo a. C.), De re rustica, I, 8: Iugorum genera fere quattuor: pertica, arundo, restes, vites. Pertica, ut in Falerno; arundo ut in Arpino; restes, ut in Brundisino; vites, ut in Mediolanensi (I tipi di spalliera sono press’a poco quattro: con pertica, canna, corda, viticci. Pertica, come nel Falerno; canna, come nel territorio di Arpi; corde, come nel Brindisino; viticci come nel Milanese).
PLINIO (I secolo d. C.), Naturalis historia, XIV, 3, passim: Metaponti templum Junonis vitigineis columnis stetit (A Metaponto il tempio di Giunone si resse su colonne di vite); Nec non Tarentinum genus aliqui fecere, praedulci uva (Inoltre alcuni considerarono di origine tarantina una specie di vite dall’uva dolcissima); Verum et longinquiora Italiae ab Ausonio mari non carent gloria Tarentina … (Veramente, [viti] d’Italia piuttosto lontane dalla parte del mare Ausonio, non mancano di fama la tarantina …).
La storia del tempio di Metaponto [naturalmente non si tratta dell’ultimo, del quale ci restano le rovine, visibili nella foto in basso tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/Era_(mitologia)#mediaviewer/File:Metapontum_2013.JPG)] retto da colonne di vite (comunque, mi chiedo inizialmente: vite vera e propria o colonna di legno di vite o colonna in pietra rivestita da vite?), anche se non coinvolge il territorio di Terra d’Otranto ma uno confinante, è troppo intrigante perché io passi agli altri brani dello stesso autore sulla vite e sull’olivo salentini senza spendere su di essa più di una parola (si salvi chi può! …).
Che la vite non abbia nel nostro territorio un fusto di grosse dimensioni è cosa risaputa e confermata anche dalla testimonianza di Plinio che nello stesso capitolo dello stesso libro ricorda impieghi tutto sommato eccezionali del suo legno: Jovis simulacrum in urbe Populonio ex una conspicimus, tot aevis incorruptum; item Massiliae pateram. Etiam nunc scalis tectum Ephesiae Dianae scanditur una vite Cypria, ut ferunt, quoniam ibi ad praecipuam amplitudinem exeunt (Ho visto nella città di Populonia una statua di Giove ricavata da una sola vite, intatta dopo tanto tempo; allo stesso modo una tazza a Marsiglia. Anche ora si sale sul tetto del tempio Diana ad Efeso mediante una scala fatta di una sola vite di Cipro, come dicono, poiché lì giungono ad una grossezza eccezionale).
E di seguito Plinio dà la sua spiegazione: Nec est ligno ulli aeternior natura. Verum ista ex silvestribus facta crediderim (Né altro legno ha una durata maggiore. Veramente sarei propenso a credere che questi manufatti siano stati ricavati da viti selvatiche).
Non mi è chiaro se al carattere selvatico Plinio attribuisca la grossezza o la durata nel tempo oppure entrambe.
Nel capitolo 98 del libro XVI vi è un’integrazione riguardante il tempio di Diana ad Efeso: Maxime aeternam putant hebenum et cupressum cedrumque, claro de omnibus materiis iudicio in templo Ephesiae Dianae, utpote cum tota Asia extruente quadringentis annis peractum sit. Convenit tectum eius esse e cedrinis trabibus. De simulacro ipso deae ambigitur. Ceteri ex hebeno esse tradunt, Mucianus III consul. ex iis, qui proxime viso eo scripsere, vitigineum et numquam mutatum septies restituto templo, hanc materiam elegisse Pandemion, etiam nomen artificis nuncupans, quod equidem miror, cum antiquiorem Minerva quoque, non modo Libero patre, vetustatem ei tribuat. Adicit multis foraminibus nardo rigari, ut medicatus umor alat teneatque iuncturas, quas et ipsas esse modico admodum miror (Ritengono estremamente durevoli l’ebano, il cipresso e il cedro essendo chiaro su di loro tutti l’esempio nel tempio di Diana ad Efeso poiché col concorso di tutta l’Asia fu edificato in quattrocento anni. Si conviene che il suo tetto è di travi di cedro. Sulla statua stessa della Dea ci sono dubbi. Alcuni tramandano che fosse di ebano, Muciano console per la terza volta, uno di quelli che da poco avendola vista ne hanno scritto, (dice che è) di vite e mai cambiata pur essendo stato il tempio restaurato sette volte e che tale essenza la scelse Pandemione, indicando anche il nome dell’artefice, cosa di cui certamente mi meraviglio poiché le attribuisce un’antichità maggiore di Minerva2 e del padre Libero. Aggiunge che si bagna col nardo attraverso parecchi fori affinché l’umore medicamentoso nutra e mantenga salde le unioni della cui esistenza non mi meraviglio molto).
Indipendentemente dalle dimensioni della statua di Diana, il dettaglio delle unioni ci potrebbe spingere ad ipotizzare che nemmeno la statua di Giove a Populonia e, quel che ci interessa più da vicino, le colonne del tempio di Metaponto fossero in un unico pezzo.
Eppure l’ipotesi è messa in dubbio dalla testimonianza di Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Geographia, II, 1, 14: Ἐν δὲ τῇ Μαργιανῇ τὸν πυθμένα φασὶν εὑρίσκεσθαι τῆς ἀμπέλου πολλάκις δυεῖν ἀνδρῶν ὀργυιαῖς περιληπτόν, τὸν δὲ βότρυν δίπηχυν [Nella Margiana (regione asiatica identificata con la valle di Fergana) dicono che spesso si trova il ceppo della vite così grosso che solo due uomini possono abbracciarlo e il grappolo di due cubiti].
Può darsi che Strabone abbia riportato una diceria esagerata e perciò suscettibile di tara, come non è da escludersi, nonostante lo spesso, che sia esistito qualche esemplare di quelle dimensioni, certamente non paragonabili a quelle di qualche vite centenaria nella quale è possibile imbattersi, per esempio, sulla costiera amalfitana, cui si riferisce la foto che segue, il corrispondente dei nostri ulivi patriarchi.
Per quanto fin qui detto appare verosimile che le colonne del tempio di Metaponto fossero costituite veramente da ceppi di vite gigante. Non sono un ingegnere ma credo che sarebbero state, comunque, in grado di reggere il peso del tetto. C’è stato, però, in un passato non molto remoto, chi ipotizzò, sia pure indirettamente, che la fabbrica fosse una capanna piuttosto che un tempio vero e proprio.
Si tratta di Vincenzo Cuoco (1770-1823) che nel 1806 pubblicò il Platone in Italia, romanzo in forma epistolare, il cui inizio sembra anticipare il dilavato e graffiato autografo2manzoniano: Il manoscritto greco che ora ti do tradotto, o lettore, fu ritrovato da mio avo, nell’anno 1774, facendo scavare le fondamenta di una casa di campagna che ei volea costruire nel suolo istesso ove già fu Eraclea3. Ogni angolo dell’Italia meridionale chiude tesori immensi di antichità; e non ve ne sarebbe tanta penuria se i possessori non fossero tanto indolenti quanto lo è il ricco possessor del terreno, ove era una volta Pesto, e dove oggi non vi si trova né anche un albergo per ricovrar coloro che una lodevole curiosità move dalle parti più lontane dell’Europa a visitar le ruine venerabili della più antica città dell’Italia.
L’ultimo periodo è di una sconcertante attualità; solo che, probabilmente, il Cuoco si sarebbe ben guardato dallo scriverlo se avesse presagito che il suo invito sarebbe stato accolto con la costruzione di case, alberghi, villaggi turistici e simili sopra i siti archeologici o nelle loro immediate adiacenze, con l’unica magra alternativa di spostare alcuni manufatti dal luogo in cui sono custoditi (vedi la polemica sui Bronzi di Riace da esibire o meno alla ormai famigerata Expo 2015).
Meglio non divagare, ma solo per rispetto del lettore e dell’economia del post, non certo di quella legata unicamente all’ignoranza e alla speculazione; nel capitolo XXXV così si legge: Peccato, che in questo bel tempio, tu ricerchi in vano una bella Dea! Non vedi né il sublime Giove, né la Minerva bella del nostro Fidia. Quando sei nel sacrario, ti si mostra una colonna rozza, sconcia, quasi simile a quelle sciagurate colonne di viti che sostengono quella capanna che in Metaponto chiamasi anch’essa tempio di Giunone.
E il Cuoco, quasi a commento alle immaginarie parole messe in bocca a Platone, in nota a Giunone aggiunge con nonchalance, quasi a conferma filologica della sua invenzione: Lo stesso Plinio ci dice che in Metaponto eravi un tempio di Giunone le di cui colonne eran di legno di vite. O la vite di Metaponto dovea esser marmo, o il tempio dovea esser una capanna.
Capanna o non capanna che sia stato questo tempio, non mancano testimonianze moderne di manufatti in legno di vite.
Girolamo Fabri, Le sagre memorie di Ravenna antica, Francesco Valuasense, Venezia, 1664, p. 3: A questa Santa Basilica (il Duomo di Ravenna) fa nobile, e maestoso ingresso una gran piazza apertavi dall’Arcivescovo Cristoforo Boncompagno con trè porte in faccia, la maggior delle quali è di vari marmi, e colonne egregiamente ornata, e massime di un grandissimo architrave con diversi intagli, figure, & è tradizione antica, che la porta di legno, che la chiude sia di vite.
Scipione Maffei,Osservazioni letterarie, Stamperia del Seminario, Verona, 1739, tomo IV, p. 371: Meritano menzione ancora le antiche porte del Duomo, che sono di legno di vite. Le tavole sono lunghe piedi 10, larghe più d’un piede, e grosse un’oncia e mezza.
Giovanni Poleni, Sopra al tempio di Diana d’Efeso, in Saggi di dissertazioni accademiche pubblicamente lette nella nobile Accademia etrusca dell’antichissima città di Cortona, tomo I, parte II, Pagliarini, Roma, 1742, pp. 48-49: Le porte della vecchia Chiesa Cattedrale di Ravenna, che fu abbattuta pochi anni sono, ed ora si rifabbrica magnificamente erano di legno di vite. Menzionate esse furono nella relazione d’un giro fatto dal celebratissimo Autore delle Osservazioni letterarie; e di esse pure me ne ha data una piena contezza il Reverendissimo P. P. Pomponio Suardi Abate in S. Vitale di Ravenna. Questo misurar fece da un architetto quelle porte, ed io qui trascrivo la nota delle misure da lui mandatami. La lunghezza delle Tavole è di palmi Romani 21. In circa: la larghezza di mezza porta è di palmi 8 e mezzo; la larghezza delle Tavole più strette è d’once 14 e delle più larghe d’once 21. In circa: la grossezza delle dette Tavole è di once 4 circa. Anche al dì d’oggi nelle pignete vicine a Ravenna vi si veggono delle viti d’una straordinaria grossezza. Quelle porte, benché antichissime siano, non ostante sono così ben conservate, che li direttori di quella grandissima fabbrica della Cattedrale pensano di servirsi delle Tavole di esse per formare alla cattedrale medesima le nuove porte.
Francesco Ginanni (1716-1766), Istoria civile e naturale delle pinete ravennati, Salomoni, Roma, 1774 p. 204: Di questa spezie di vite (labrusca, di cui ha parlato prima) forse potrebbero essere le tavole, che formavano le antiche Porte del Duomo nostro, e ora foderano le moderne. Esse erano lunghe piedi 10, larghe più di un piede, e mezzo.
Al di là delle divergenze dimensionali ravvisabili nei brani del Maffei e del Poleni, sembrerebbe che il pensiero dei direttori nominati nel passo del Poleni divenne, in qualche modo, realtà, ma credo che il foderano del passo precedente vada inteso tenendo conto di quanto si legge in Francesco Nanni, Il forestiere in Ravenna, Roveri & figli, Ravenna, 1821, p. 5: Meritano qui di essere ricordati sedici riquadri di tavole di vite, tenue avanzo delle antiche porte di questa Cattedrale, impostati nel di dietro della moderna porta, i quali fanno prova di quanto scrissero gli antichi intorno al crescere a dismisura di questa pianta.
La notizia è confermata da Gaspare Ribuffi in Guida di Ravenna, Roveri & figli, Ravenna, 1835, p. 16: Parete interna della Porta d’ingresso in Prospetto. Sopra la porta di mezzo: Grandioso Quadro rappresentante il Convitto del re Assuero di Carlo Bonomi ferrarese scolaro di Paolo Veronese. Nella serranda: Sedici riquadri di tavole di Vite, avanzo delle antiche Porte di questa cattedrale. Sarebbe interessante, a questo punto, sapere come sono e stanno le porte attuali e chissà se qualche lettore, magari ravennate perché per lui sarebbe più agevole, non soddisferà questa mia curiosità.
Chissà, chissà, chissà … che fine ha fatto il tronco di cui scrive Gaetano Savi nel Trattato degli alberi della Toscana, Piatti, Firenze, 1811, tomo II, p. 192: … nell’atrio dell’orto botanico di Pisa se ne (di vite) conserva un tronco alto braccia 5 (m. 2,918), e di braccia 2 (m. 1,67) di circonferenza, proveniente dalla maremma Sanese, e nominatamente da un terreno situato Tra Soreno e Castellottieri.
Dopo questa lunga parentesi torno all’assunto iniziale e alla carrellata principale delle altre testimonianze pliniane.
XV, 1, 8: Principatum in hoc quoque bono obtinuit Italia toto orbe, maxime agro Venafrano eiusque parte quae Licinianum fundit oleum: unde et Liciniae gloria praecipua olivae. Unguenta hanc palmam dedere, accomodato ipsis odore. Dedit et palatum, delicatiore sententia. De cetero baccas Liciniae nulla avis appetit (Anche in questo bene [l’olio, prima ha parlato del vino] l’Italia ha il primato in tutto il mondo, soprattutto nel territorio di Venafro e nella parte di esso che produce l’olio liciniano, per cui altissima è la considerazione riservata all’oliva licinia. Questa fama la diedero i profumi adattandosi loro il suo odore; la diede anche il gusto per il sapore alquanto delicato. Per il resto nessun uccello è ghiotto delle bacche di [oliva] licinia).
MACROBIO (IV-V secolo d. C.), Saturnalia, III, 20, 6: Olearum genera haec enumerantur: Africana, albigerus, Aquilia, Alexandrina, Aegyptia, culminia, conditiva, Liciniana, orceas, oleaster, pausia, paulia, radius, Sallentina, Sergiana, Termutia (Si contano queste varietà di olivi: l’africana, l’albigera, l’aquilia, l’alessandrina, l’egizia, la culminia, quella da condimento, la liciniana, l’orcea, la pausia, la paulia, la allungata, la salentina, la sergiana, la Termuzia).
Chiedo scusa al lettore per averlo intrattenuto, ancora una volta, con un argomento nella trattazione del quale di mio c’è ben poco, a parte l’augurio finale, in due versi (!), endecasillabi in rima baciata, per chiudere in allegria, augurio per oggi limitato a queste due essenze e dovuto alle ben note contingenze non solo economiche:
Lunga vita alla vite e all’ulivo
per noi vino ed olio senza additivo!
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1 Minerva era considerata l’inventrice di tutte le arti.
2 Come sapeva qualsiasi studente del passato (quando la lettura de I promessi sposi era obbligatoria), il Manzoni finge di aver ritrovato un antico manoscritto e, dopo aver rinunziato alla sua semplice trascrizione, decide di prender la serie de’ fatti da questo manoscritto, e rifarne la dicitura.
L’Ultima Cena dello scultore Vincenzo de Maglie da Minervino di Lecce
donata al Santo Padre Francesco nell’udienza del 3 settembre
di Paolo Rausa
Il nostro viaggio inizia il giorno prima su un furgone, da Minervino di Lecce a Poggiardo per raggiungere Roma, Caput mundi, la Sede di Pietro, ora assunta dal Vescovo Francesco giunto da lontano. Vincenzo de Maglie, nel corso della mia visita qualche mese prima alla sua esposizione di oggetti d’arte intagliati e scolpiti nel legno di ulivo, aveva notato che su questo bassorilievo avevo indugiato. ‘E’ l’ultima cena, simbolo di Cristianità!’ – mi presentò così così la sua opera, una notevole scultura di 79×159 cm., imponente. ‘Il mio desiderio è di donarla al Santo Padre.’ – sussurrò. Siamo sulla strada per Roma, maciniamo chilometri lungo il tracciato della via Appia, tante volte percorsa al contrario dalle legioni romane per raggiungere Brindisi e da qui salpare per l’oriente, desiderato e temuto. Roma, la Capitale! Siamo dentro la città, gli occhi di Vincenzo sono inumiditi. Niente rispetto al giorno dopo, quando scende dal sagrato di San Pietro dopo aver stretto la mano del Papa Francesco e aver indicato il suo dono: ‘E’ il simbolo della Cristianità, Sua Santità! Mi guarda negli occhi e aggiunge: Auguri! Quello sguardo, quella persona emanavano santità, pace!’. Vincenzo non aggiunge altro. Parlano per lui gli occhi che lacrimano e dai quali si può comprendere il travaglio di una vita. In pochi attimi Vincenzo la ripercorre tutta e si sofferma in particolare su un sogno, fatto in Svizzera nel 1963. Una figura bianca gli lancia delle tavole e lo invita ad attraversare il fiume impetuoso. Un periodo buio della sua vita. Quella figura bianca ora è associata al Papa. Il Sindaco di Minervino Fausto de Giuseppe lo abbraccia, così fanno anche i due assessori Antonio Accoto e Giuseppe della Luna, orgogliosi di avere cotanto cittadino che hanno accompagnato per dimostrare l’attaccamento del suo paese natale all’artista che ha saputo trarre dalla materia, il legno di noce e di ulivo – la forza e la pace – un’opera d’arte che rappresenta un lascito testimoniale di Cristo all’umanità – il suo corpo e il suo sangue – per consegnarlo al Papa Francesco, pastore delle genti. Non si possono esprimere queste emozioni, solo gli occhi tradiscono, ora con il sorriso ora con il pianto lustrale, che indica la via della salvazione.
Il suo nome è Angelo, novantenne, ultimo dei canestrai, superstite di un’antica civiltà, quella che per intenderci ha navigato con doveroso silenzio le difficoltà del periodo fascista e gli anni del dopoguerra lavorando assiduamente senza mai desistere.
Angelo, seduto sul suo panchetto, ha tanto da rivelare mentre ordisce quei fascetti di canna finemente mondati prima di “chiudere” le bordature del paniere e ridefinire la sua simmetria con pochi e rapidi accordi delle dita. Nel frattempo, mi racconta della sua terra d’Arneo, storia vibrante di giovani braccianti in cerca di terre da abitare, spazi dove ci si sostava tra i cespi di macchia e olivastri per realizzare in fretta un pratico cesto di vimini da riempire lungo la via del ritorno con qualcosa di buono. Angelo riesamina la sagoma del suo cesto per assicurarsi che non ci sia altro da spuntare, accorcia qualche aspro spigolo qua e là, lo libera tra la stretta delle sue ginocchia e poi lo ripone lentamente sul ripiano accanto agli altri.
Ce ne sono decine di diverse dimensioni e sfumature; qualcuno è sospeso alla bacchetta di una vecchia bici, un altro si tiene al cavicchio di una vecchia scala da potatore; tutti dissimili, ogni pezzo è unico e raro, grondante di semplicità e di pregevole tradizione. Nonostante le sue mani nodose non fossero abili come un tempo e la sua vista sia diminuita, Angelo, tesse con tenacia la sua dose giornaliera di vimini e rianima il suo sentimento popolare realizzando cestini con il pensiero di regalarli.
Il suo diletto spiegato dai vecchi cestai di paese, artigiani di professione o afferrato dagli zingari camminanti nelle fiere d’ ottobre, nasce così, in modo semplice, raccogliendo lungo i fossi delle macchie e della campagna salentina, esili rametti di salice chiaro, d’olmo, polloni d’ulivo, di ginestra, di lentisco e di fresche canne.
Il fondo, mi dice Angelo, è l’ossatura a raggiera, una sorta di mandala, che permette di reggere il peso dei frutti; la sua resistenza dipende dal materiale utilizzato e dalla parsimonia spesa per costruirlo e poi aggiunge sottovoce: “con una dose di passione il cesto può venire bene anche nel suo profilo”; quando l’utilità giunge prima del suo aspetto.
Le panare capovolte sull’arco del manico, anche se vuote, sono per me, già ricolme di naturale empatia verso la terra e di nobile cultura popolare che non basterebbe un solo racconto per descriverli. Si riconosce la specie del giunco dal suo profumo, l’elasticità della sua fibra dal momento in cui si coglie, quando è ben lignificata, nel periodo invernale, perché il vimine deve strizzare senza spezzarsi, per essere tessuto, accavallato lungo i lati, sovrapposto o rivoltato tante volte. Spesso, dopo una scrupolosa stagionatura, si ripone il fascetto o il vimine da lavorare, in un bacile d’acqua, per alcuni giorni, per ravvivarlo e ammorbidirlo al punto giusto, prima dell’intreccio che raddoppia la sua compattezza.
I salentini lo chiamano panaru (paniere) o panareddrha, quando si tratta di un paniere per la merenda o ancora caniscia, per la raccolta del tabacco o della biancheria, tipico prodotto artigianale della zona di Castrì di Lecce o di Acquarica del Capo dove vi è ancora l’occasione di ritrovare il bravo intrecciatore. L’intreccio delle fibre vegetali si perde nella notte dei tempi, sin dal neolitico ai giorni nostri, il suo utilizzo è unanime, adatto per ogni circostanza: per raccogliere le drupe e i legumi, per lo stoccaggio del grano, per portare cibi caldi ai contadini tra campi o annodato a una fune per salire su il pane.
Lu panaru in particolare era lo strumento che accompagnava le donne “allu rispicu”, cioè alla spigolatura delle ultime olive cadute sottochioma o per la raccolta delle dolci “racioppe” piccoli racemi scordati sul ceppo dopo la vendemmia.
Legati allu panaru sono i cicli della stagione invernale che invita a zappare e potare in gennaio per avere un buon raccolto, “zzappa e puta te scinnaru se uei bbinchi lu panaru”, o che indicano la piovosità di febbraio come buon auspicio, “l’acqua te fibbraru te inche lu panaru”. Pittoreschi invece i detti che ricordano il sentimento non ricambiato e il tradimento continuato, “l’amore luntanu è comu l’acqua intra lu panaru” e “ puerti cchiu corne tie ca nu panaru te municeddrhe!
“Mìntere fiche allu panaru” (aggiungere fichi al paniere) “culare come nu panaru” (fare acqua da tutte le parti) o “perdere filippu e panaru” (perdere il paniere ed altro) sono ancora modi di dire in grado di rievocare il quotidiano della civiltà salentina. Auguriamoci allora che il valore di questa espressione rurale sia condivisa perché una simbiosi così affettiva con le piante, non può che non essere recuperata e tramandata.
Non era difficile per i numerosi intervenuti all’incontro culturale tenutosi nel Salone del castello di Castro Marina, il 29 agosto 2014, ascoltare ragioni a favore, ancora una volta, della tutela e della riscoperta del noto sito archeologico, Castrum Minervae, fatto con la presentazione del volume Pietro Marti (1863-1933). Cultura e Giornalismo in Terra d’Otranto, di Ermanno Inguscio, su puntuale introduzione del giornalista Rocco Boccadamo.
Una tematica scottante nella perla adriatica, Castro, accostata alla tirrenica più nota Portofino, annunciata dalla puntuale locandina dell’Associazione “Castro puoi volare in alto” di Gigi Fersini, se a tal proposito una attualissima kermesse porta, addirittura, alla eventualità del cambio del nome della bella località turistica salentina sulla base delle nuove acquisizioni archeologiche dell’équipe del prof. D’Andria. Ciò che era stato già preannunciato da Pietro Marti, nel 1932, già Regio Ispettore ai Monumenti dal 1923 al 1929, nel suo volume Ruderi e Monumenti nella Penisola salentina. Con molta chiarezza egli aveva chiesto, nella Ragione del libro, tra le cinque sue proposte, di dichiarare il Salento inferiore “zona archeologica” di estremo interesse, citando espressamente, accanto a CastrumMinervae, le località di Valentium, Carminianum, Sesinum, Rudiae, Lupiae, Turium o Sybaris, Tutinum, Veretuma, Oxentum, Hydruntum, Bavata, Aletium, Soletum, Galatena e Vasten: solo alcune delle 144 località di città sepolte da esplorare scientificamente.
Alle domande di Boccadamo, l’autore del volume, edito dalla Fondazione Terra d’Otranto di Marcello Gaballo, ha rimarcato quanto scritto da Marti, circa la sua ansia di ricerca, di tutela e di rivendicazione del noto e dell’ignoto patrimonio archeologico rappresentativo.
Un lavoro di decenni di puntuali segnalazioni e denunce, anche all’interno della Brigata leccese dei Monumenti, ribadito con forza anche nei suoi volumi, a cominciare dal fortunato Origini e Fortuna della Coltura salentina (1893), Lettera a Pompeo Molmenti, La Provincia di Lecce nella storia dell’Arte, Storia e Arte e Nelle Terre di Galateo, sintesi, quest’ultima opera, dell’attività di conferenziere di Marti in giro per tutta la Puglia. Mai inerte spettatore, Marti aveva sempre con tempestività segnalato e fatto pressioni sulla Sovrintendenza regionale e sulle Amministrazioni comunali la necessità di una più larga conoscenza della vita preistorica, messapica, romana, medievale e moderna del Salento e della Puglia.
Una ciclopica battaglia di Marti compiuta anche sui suoi giornali, dal 1887 al 1931, come “La Democrazia”, “L’Avvenire”, “Il Presente”, “L’Imparziale”, “La Voce del Salento” e “Fede”. Una passione storico-archeologica per la Puglia dimostrata nelle sue Relazioni, nei Discorsi inaugurali delle Esposizioni d’Arte pura e applicata in Lecce e Gallipoli (1924,1925,1926,1928), nei Bozzetti di Diporti a Carpignano, a Otranto, a Maruggio, a Surbo, a Cerrate, a Giurdignano.
Novità autorevole la sua, ma quasi sempre inascoltata, nelle cinque proposte-denuncia dello studioso Marti, lanciate, sempre nella Ragione del libro del volume Ruderi e Monumenti.
Se, grande è stata l’attenzione dell’uditorio nel Castello di Castro Marina, alla presentazione del volume di Inguscio, si riscopre ancora una volta, un po’ in tutti gli scritti di Marti, la necessità della nazionalizzazione del Museo Castromediano in Lecce, l’ampliamento e il riordino del Museo Civico di Lecce e del Museo Archeologico di Gallipoli. Ma egli giungeva a chiedere persino la compilazione di un inventario analitico delle opere d’arte conservate nelle chiese della Regione Puglia e nelle gallerie private, ad evitare che tesori dell’arte pugliese, acquistate da facoltosi privati, finissero bellamente nel Museo del Louvre. E, dalle colonne del suo giornale leccese “La Voce del Salento”, chiedeva continuamente alle Autorità preposte il restauro di monumenti come i gioielli della Basilica di Santa Croce, della chiesa delle Scalze a Lecce, di Santa Caterina in Galatina, di Santa Maria di Cerrate, del castello di Acaya, delle cripte di Carpignano e Giurdignano. Un grido di allarme, il suo, sempre attuale. Un’ansia-passione, quella di Pietro Marti, ben descritta nel volume di Ermanno Inguscio.
Quel giornalista salentino, aveva imparato ad amare l’arte alla scuola fiorentina dello scultore Antonio Bortone e ad occuparsi del recupero di beni storico-ambientali nella sodale frequentazione tarantina con l’archeologo Luigi Viola. Marti, così, nei primi giorni del 1933, già fiaccato nella salute, nell’ accorrere a Rudiae a tentare di fermare la furia devastatrice di contadini e tomabaroli, sotto uno scroscio micidiale di pioggia, riuscì a fermare un ennesimo scempio ai danni della comune memoria. Rientrato nel capoluogo leccese, Marti dovette sostenere un ultimo letale assalto di una sopravvenuta polmonite, che, senza pietà, per mesi non gli lasciò scampo.
Ma le intuizioni-denuncia di Marti in campo storico-artistico ne fanno un campione di civica modernità: eco di tanta lucida fatica, nella vita di un uomo impegnato come lui, innamorato della sua terra, è nel volume di Ermanno Inguscio, storico e continuatore di quell’antica civica passione, la tutela del nostro patrimonio culturale.
Le stampe antiche, in fondo, corrispondono alle foto dei nostri giorni, hanno, cioè la preziosa funzione di trasformare il presente in passato da consegnare al futuro. E anche se nelle une e nelle altre la composizione e l’inquadratura, per non parlare del gioco di luci ed ombre, tradiscono, comunque, l’interpretazione della realtà, tuttavia, per entrambe resta nel tempo una certa valenza fedelmente documentaria.
Quasi quattrocento anni1 si fanno pesantemente sentire. Oggi sarebbe impossibile condensare in un’unica immagine tutte le attività visibili nella stampa, nemmeno usando un grandangolo spintissimo all’interno di qualche azienda vinicola integrata, i cui vigneti, cioè, siano contigui alla fabbrica in cui si svolgono tutte le attività di lavorazione del prodotto, fino all’imbottigliamento ed all’invecchiamento del vino.
Tante movenze, tanti passi, tanti gesti, tanti moti sentimentali sono stati resi irripetibili dal progresso tecnologico e faccio questa riflessione, senza avventurarmi in più o meno lambiccate considerazioni sociologiche implicanti un giudizio negativo: anche se fossero calzanti, equivarrebbe a sputare nel piatto in cui mangio, visto che senza la rete difficilmente avrei saputo dell’esistenza di Callot e che per stilare queste righe non sto usando certo la penna d’oca …
E, continuando nelle riflessioni, debbo dire che difficilmente una foto moderna avrà una didascalia in latino2 e altrettanto difficilmente, in qualsiasi lingua corrente sia scritta, avrà un potere evocativo che riesca a travalicare i semplici, rozzi e brutali caratteri descrittivi. Magari, credendo di fare una cosa grandiosa, l’autore o, più probabilmente, l’utilizzatore ci accoppierà la solita citazione dotta di stampo facebookiano, cioè la quintessenza della saggezza di oggi …
La vera disgrazia, secondo me, non è il cosiddetto progresso, ma la progressiva incapacità di notarne le storture o, peggio, dopo averle notate, fare spallucce, cioé quasi fatalisticamente accettarle.
E così settembre sarà destinato a diventare il simbolo dell’autunno della nostra umanità in attesa dell’ineluttabile suo inverno.
Che ancora stia facendo effetto sul mio cervello il caldo, per quanto non intenso, di quest’estate ormai metereologicamente (altra differenza rispetto al passato …) alle spalle?
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1 La tavola è di Jacques Callot (1592-1635).
2 Nella nostra tavola due distici elegiaci da cui trapela un connubio-uomo natura non inquinato ancora dalle legge del bieco profitto o, come oggi si dice, del libero mercato : Septimus a Martis September mense locatus/vasa, cados, cuppas doliaque ampla parat./Grata maturas aura vendemiat uvas/Sole fruente astro, pendula Libra, tuo [Settembre, collocato al settimo posto a partire da marzo, prepara vasi, barili, coppe e capienti tini. [La gradevole stagione vendemmia le uve mature, mentre il sole gode, o costellazione della Libbra sospesa (nel cielo), della tua stella].
Quanto alla pendula Libra, di ascendenza ovidiana (Fasti, IV, 385), essa entra nella formula (questa tutta in esametri) in voga tra gli astronomi del secolo XVI: Zodiaci caput est Aries, et veris, et anni/Aestatis Cancer, Autumni pendula Libra,/incipit ex imo pluvialis Hiems Capricorno [Capo dello Zodiaco e della primavera e dell’anno è l’Ariete, dell’estate il Cancro, dell’autunno la Libbra sospesa (nel cielo), incomincia dal profondo Capricorno il piovoso inverno].
La si può trovare a Est, lasciando la litoranea che da S. Cataldo va verso Otranto, annidata su un costone di calcare. Non una torre ma un faro-torre, il faro di Missipezza che ammicca nella notte sul Canale d’Otranto per segnalare ai naviganti alcune secche antistanti su cui cresce, rigogliosa, la posidonia.
E’ la posidonia ad approdare per prima, ad ogni autunno che ritorna, portata dalle correnti del mare ad ammucchiarsi lì, sulla spiaggetta-porticciolo, ai piedi del faro. Le foglie brune, sminuzzate dal mare, riposano lì, poi non le vedi più, se le riprende il mare.
In direzione Nord si seguono sentieri a strapiombo sul mare, su “scenari mozzafiato” come si usa dire. Bisogna fare attenzione a non lasciarsi distrarre dalla bellezza della costa perché il sentiero può rivelarsi interrotto all’improvviso, inghiottito da una frana provocata dalle piogge o dalle mareggiate.
Ripreso il cammino, un cammino in punta di piedi per non disturbare, si può godere degli odori di stagione: una fioritura di tamerice o di mirto, un mentastro o una santoreggia sollecitati dal proprio calpestio.
E intorno voli, evoluzioni in volo di piccioni di mare, da un nido all’altro, nelle pareti dei faraglioni, cesellate.
Se poi c’è mareggiata, provocata dalla tramontana o dal grecale, il cammino si fa più coinvolgente. Da scalette che fendono la tenera roccia, si può scendere giù al livello del mare e camminare sugli scogli dove approdano le onde.. Estremo e fantastico il percorso, tra un mare mutevole a seconda del vento del giorno, e una roccia color oro che si fa modellare.
C’è il Bastimento, poi il Castello delle Microfate e l’ampia spianata di Acquaduce: qui le acque dolci sotterranee approdano al mare, formando vasche, gallerie, anfratti, dove si può avvertire il gocciolare del tempo e il respiro del mare. Il luogo ideale per la pesca con la canna, per nuotare, per prendere il sole, per meditare.
Se si vuol proseguire si arriva alla punta del Matarico e al costone a sud della baia di Torre dell’Orso con le Due Sorelle.
In direzione Sud da Torre Sant’Andrea, il cammino si fa più intimo, lungo sentieri polverosi d’estate, fangosi poi, dove si possono notare le ossa della terra che affiorano quali carrarecce spontanee e remote.
A lato, cespugli di macchia odorosi in ogni stagione, fioriti all’improvviso anche fuori stagione.
A Est l’orizzonte è solcato da vele e pescherecci, da vecchie petroliere, carghi che rimandano a Conrad e ad avventure letterarie.
Seguono approdi improvvisi, solitari, per varia umanità, e piccole oasi di sabbia sottile. Aldilà del Canale d’Otranto, a volte, capita di vedere il profilo dei monti d’Albania, che sposta più in là l’orizzonte.
Passo dopo passo si arriva a San Giorgio dove ha inizio una catena di dune che porta a Frassanito e poi oltre, verso Alimini. Radici antiche di ginepro trattengono la sabbia di queste dune maestose sopravvissute al logorio ed alla smania dei nostri tempi e alla furia delle mareggiate.
Una vegetazione spontanea, mediterranea, le ricopre e le infiora e il mare si fa mansueto per non spaventare.
L’alunno, il maestro-professore, il dirigente scolastico
di Ermanno Inguscio
A descrivere gli anni della sua infanzia ci viene in soccorso lo stesso Pietro Marti, il quale, nelle sue Memorie, opera incompleta, scrisse i ricordi autobiografici riguardanti il periodo storico compreso tra la sua nascita ed il 1879, anno nel quale ricevette la sua prima nomina a maestro elementare a Ruffano, suo paese natale.
L’opera, dedicata a Gregorio Carruggio, noto scrittore leccese, del quale era buon amico e con cui collaborava anche sulla rivista di quest’ultimo, “Il Salento”, è saltata fuori dal fondo di una biblioteca privata, rimasto nascosto sino al 1992. Il manoscritto steso con la caratteristica sua grafia appare composto di getto, viste le numerose correzioni e s’interrompe a metà di una frase sulla pagine segnata al 29 luglio di una agenda del 1932. Il manoscritto, iniziato nella stesura agli inizi del 1933, registra una interruzione con la frase, nella quale iniziava a descrivere l’incontro con una fanciulla “dalla dolce e pura affettuosità” e trova quasi certamente la sua spiegazione nella improvvisa morte del suo autore, avvenuta a Lecce il 18 aprile 1933. In quelle poche pagine, una quindicina in tutto, Marti descrive la sua infanzia triste e modesta, gli episodi che più colpirono il mondo della sua fanciullezza (l’abbraccio di Giuseppe Pisanelli, l’aurora boreale del 1871, i tristi eventi di miseria del 1873 tra le popolazioni salentine).
E’ una vera confessione che va al di là della esperienza di vita, in cui sembra rivivere il suo romantico immaginario giovanile, e che Marti fa interrogandosi intorno alla dimensione esistenziale dell’uomo nella società e offrendoci l’occasione per considerare la profondità del suo saldo approdare nel mondo della cultura. Di sé giovanissimo Marti afferma di avere sempre creduto nell’ideale di pace e di giustizia, nell’amore reciproco, sebbene orfano, povero, sperduto quasi nella solitudine grigia del borgo rurale.
Si smarriva di fronte alle miserie degli umili, considerava la donna vittima della sopraffazione sessuale, trepidava per l’abbandono e la maternità. La sua giovinezza era sbocciata in un’epoca di fanatismo rivoluzionario, ma era convinto che l’ideale è legge della vita ed alimento del progresso e guardava con ripugnanza quanti, bruciando incenso al Dio Tornaconto, misuravano i propri comportamenti sulla bilancia dell’egoismo.
Sin dalla piena maturità, e prossimo alla fine dei suoi giorni, egli restava turbato di fronte alle forme di cupidigia umana, di pervertimento, di privilegio e di miseria. All’età di tre anni, nel 1866, il piccolo Pietro, per iniziativa della sorella Caterina, venne investito del “battesimo patriottico”: avvolto in un drappo tricolore e portato dentro una grande sala al pianterreno di palazzo Viva, venne consegnato nelle mani di un reduce garibaldino mutilato, in divisa indossata da Marsala al Volturno, che incitava a seguire Garibaldi per la liberazione del Veneto. Tra gli applausi e come augurio di vittoria, il piccolo Pietro venne mostrato all’assemblea festante tra canti di giubilo.
All’età di cinque anni, nel 1868, Marti venne portato dal padre, una sera, nel palazzo di Antonio Leuzzi, munifico signore della città natale, ma liberale, che aveva invitato nel salone delle feste amici e personalità del diritto, della politica e dell’arte, per rendere omaggio al grande giurista Giuseppe Pisanelli. Una volta nel salone, dopo l’omaggio del padre al grande personaggio, il piccolo Pietro destò l’interesse del Pisanelli, che si mise amabilmente sulle ginocchia il piccolo, scambiando qualche frase con lui e baciandolo, infine, sulla fronte.
Del 1873, anno definito funesto per tutta la regione del Capo di Leuca, Marti rievoca le piogge torrenziali dell’autunno precedente e le grandini dell’estate, ma anche la triste condizione di cittadine e villaggi, pieni di poveri mendicanti e di malfattori dediti a ruberie e assalti di ogni genere. Nella sua memoria campeggiano il ricordo infantile del pane nero d’orzo, introvabile, e delle erbe del contado, che costituivano l’unica base dell’alimentazione popolare; ma anche le mute privazioni delle sorelle e la cupa rassegnazione dei suoi genitori. Tra gli episodi di violenza abbastanza inquietante era stato quello dell’assalto all’Ufficio del registro, compiuto da donne travestite da agenti di finanza.
A carestie e calamità si era aggiunta, nell’autunno, la morte del fratello Giuseppe. Aumentato lo stato di bisogno, il fratello Luigi aveva accolto come una vera fortuna la nomina di istitutore nel Convitto Palmieri di Lecce; il fratello Antonio, alunno prodigio del Ginnasio Capece di Maglie, aveva dovuto abbandonare gli studi e accettare anche lui un incarico nell’ insegnamento primario. Illuminante, tra primi ricordi scolastici di Marti, quanto egli scriveva di sé, piccolo scolaro: Spesso mi recavo a scuola senza pane, ma tanta miseria non faceva al mio spirito. Sebbene fanciullo sentivo in me qualcosa che mi faceva guardare con baldanza l’avvenire…, che la dice lunga sulla sua motivazione negli studi e sulla ferma volontà di riscatto personale e sociale. Nel 1874, a undici anni, il Nostro ebbe il modo di trascorrere una giornata trionfale a scuola. Egli, non sempre gratificato come dovuto dall’austero maestro, pur mostrando grande creatività nei testi scritti, viene sottoposto alla stesura di un compito in classe d’italiano (Prodigio di fede e di costanza), alla presenza del terribile ispettore Calvino. Alla spedita consegna del testo, vergato senza brutta copia, dopo neanche due ore di tempo a disposizione, lo scolaro Marti provocò nell’arcigno ispettore grande meraviglia, per la bontà del prodotto. Questi se ne rallegrò davanti all’intera classe, dispensando lodi al piccolo prodigio e suggellando gl’incoraggiamenti meritati con un bacio sulla fronte dell’alunno. Marti, per la compiacenza di tanti piccoli amici e il plauso inaspettato dell’Ispettore, riuscì a dimenticare le ingiurie della sorte (l’umiliazione degli abiti rammendati e le scarpe in pessimo stato).
Nel 1879, e per tre anni, ebbe l’incarico di maestro nelle scuole rurali di Ruffano. Una nomina, di gratificante prestigio sociale, all’inizio forse, e ricevuta soprattutto per benevolenza di un sindaco, il liberale Leuzzi, ma stroncata da un vicesindaco Santaloja, che innescò un grave contenzioso, dopo un licenziamento per assenteismo, e che farà dire a Marti, con amarezza, che la vita del Maestro di quel tempo fosse spesso un tirocinio di privazioni e di umiliazioni. L’educatore del popolo guadagnava appena tanto da non morire di fame e, soprattutto, il suo stato morale era fatto di servilismo obbligatorio verso tirannelli, spesso analfabeti, che la fiducia del patrio governo elevava alla carica di sindaci e ispettori.
Della sua cittadina di quel tempo, Ruffano, egli amava ricordare ben tre cose: la bellezza fascinatrice del paesaggio, la fraterna intimità di Carmelo Arnisi e la dolcezza pura e affettuosa di una fanciulla. Il clima ostile creatosi in paese e la conflittualità aperta con l’amministrazione comunale, con esiti fino al Consiglio di Stato, lo costringono ad emigrare con alcuni fratelli nel capoluogo leccese.
Qui fonda un prestigioso ginnasio privato, frequentato da studenti della migliore intellighenzia di Lecce. Ma dopo appena due anni, e prima di fondare i giornali “La Democrazia” e “Il Popolo”, anche il suo ginnasio naufraga sotto i colpi di una dittatura faziosa e violenta. Nel 1893, già direttore de “L’Indipendente”, pubblica a Lecce Origine e fortuna della Coltura salentina, che gli procura notorietà nazionale, e, per “chiari meriti”, ottiene una cattedra per insegnare lettere e storia a Comacchio, nel ferrarese. E’ stato questo il passaggio di Marti da “maestro” a “professore”.
Nel 1895 pubblica a Ferrara il secondo volume de Origine e Fortuna della Coltura salentina, elogiato dallo stesso Carducci in Nuova Antologia.Dopo appena un biennio di esperienza scolastica tra i canali di Comacchio e molti plausi soprattutto in campo giornalistico (come direttore del foglio “Il Lavoro”), Marti, per questioni di salute, farà ritorno in Puglia. Egli sia a Taranto sia a Lecce troverà nel giornalismo e nell’insegnamento i due congeniali canali di realizzazione personale. Nella città ionica si fa apprezzare come operatore culturale (fonda “Il Salotto” e la sezione cittadina della “Dante Alighieri”), a Lecce, oltre che collaboratore di vari giornali, é apprezzato docente in vari tipi di scuola superiore (tecniche, artistiche e classiche).
In tutta la Puglia (Brindisi, Bari, Cerignola, Lecce) e altrove (Roma) tiene conferenze di vario contenuto storico-artistico. Accomuna una intensa attività produttiva editoriale a quella dell’insegnamento per un ventennio, sino a registrare anche l’esperienza di dirigente scolastico nella città di Manduria. L’11 ottobre 1921, per iniziativa del sindaco socialista Errico Giovanni, Marti viene designato per istituire a Manduria, in qualità di preside-dirigente, una “Scuola Tecnica privata”, quando a Lecce esercita la sua attività di professore di lettere nell’Istituto Statale d’Arte. Un anno di fruttuose soddisfazioni trascorre con un gruppo di circa 50 alunni iscritti, tra la soddisfazione di amministratori e famiglie. Così almeno sembra, a giudicare da una sua “Relazione” di fine anno, inviata al ministero il 29 luglio 1922.
Nell’autunno dello stesso anno, le mutate condizioni politiche generali e la baldanza della sezione fascista di Manduria rischiano di incrinare gravemente quell’esperienza scolastica, pure giudicata in città particolarmente fruttuosa. I fascisti locali lo accusano di avere percepito indebitamente due stipendi statali, dal novembre 1921 al gennaio 1923, e il clima in città sembra sommergere la buona esperienza del dirigente Marti. Nell’azione di volantinaggio fascista si getta fango sulla sua esperienza, si ipotizza la fine della “Scuola Tecnica Superiore” e il “tradimento” di Marti, come un dirigente scolastico “che se ne vuole andare” e affossare quell’istituto cittadino. Marti, provocato sul registro della comunicazione a lui congeniale, risponde con suo volantino a stampa, dal titolo “Per la verità” : nel giungere a Manduria, puntualizza, egli si era naturalmente messo in aspettativa da professore a Lecce e l’opera diffamatoria della sezione PNF avrebbe portato tutti i responsabili in tribunale, con esiti di rilevanza penale. E nello stesso foglio dichiara: La missione della scuola dev’essere sacra e superiore a tutte le passioni personali e politiche; ed è triste per ogni paese quell’ora in cui si tenta di propinare il veleno della disistima fra discepoli e maestri.
Un’autentica dichiarazione di valore ideale sulla funzione educativa dell’istituzione scolastica e della funzione docente, della necessità di una forte sinergia tra famiglia e scuola, dell’idea del servizio che la politica deve fornire nell’interesse generale della popolazione. Quell’istituzione scolastica a Manduria sopravvisse per il 1922-’23 e Marti, a cui era stato offerto un importante incarico scolastico a Taranto, ritirò la sua decisione. Rimase per un altro anno a dirigere la Scuola Tecnica in quella città, per poi rientrare definitivamente a Lecce nel 1924. Nel 1923 aveva fondato, intanto, l’importante rivista “Fede” (poi trasformata, dal 1926, in “La Voce del Salento”), era stato nominato Ispettore ai Monumenti della provincia di Lecce. Per invito dell’Associazione Pugliese, tiene a Roma una conferenza, riportata su tutti i giornali della capitale.
Nell’estate del 1924 prepara l’organizzazione delle Biennali d’Arte, cui partecipano artisti e cultori della Puglia e dell’intera Italia meridionale. Le Biennali saranno ripetute nel 1926 e 1928, con il consenso del Governo, di stampa e di critica. Ormai la sua passione di “docente” si affina verso percorsi culturali che lo vedranno, tra le tante opere pubblicate, autore de Ruderi e Monumenti della Penisola Salentina (1932), anche Direttore della Biblioteca Provinciale “Bernardini”, prima di cominciare a scrivere le sue Memorie, preziose, ma rimaste purtroppo incomplete.
Non così la sua figura di docente appassionato in favore della scuola e di ciò che essa d’importante significa per l’intera società di ogni tempo.
Specialmente nelle grandi città non è raro incontrare signore eleganti che tengono al guinzaglio un cane, spesso di piccola taglia, che indossa un cappottino probabilmente costato più di quello della loro padrona. Da sfegatato amico degli animali quale pur sono grido allo scandalo (e qui mi aspetto l’intervento, sempre gradito, di Angelo Micello …1).
A differenza dell’uomo che nei millenni ha perso, quasi sicuramente per un uso non sempre giustificato di vestiti via via sempre più sofisticati (dalla rozza pelle-trofeo con cui il troglodita esibiva la sua abilità nella caccia fino agli avveniristici tessuti sintetici di oggi), la “pelliccia” con cui madre natura l’aveva creato, gli altri animali hanno conservato per lungo tempo pressoché immutate le loro capacità di difesa nei confronti del clima. Poi, in nome del profitto e non certamente del benessere animale, si passò, per fare solo due esempi, alle stalle a temperatura condizionata e con musica in sottofondo e al cappottino del periodo iniziale ; e qui il profitto assume connotati più subdoli perché coinvolge un modo di sentire ormai radicato nell’uomo, per cui il mio cagnolino non può circolare con un capo meno elegante e costoso di quello degli altri così come io non posso farlo se non ho in tasca almeno due telefonini di ultima generazione, naturalmente da esibire ad ogni passo …
Per contrasto, non posso fare a meno di rivolgere il mio rispettoso (una volta tanto non c’è sarcasmo …) pensiero al povero pensionato che mai rinuncerebbe a comprare all’amico cane, gatto o altro animale che sia, almeno a Natale, una scatoletta da gatto, cane, o altro animale vip (tipo quelli che si vedono in tv), saltando uno o più di un pasto … Ma, in fondo, a pensarci bene, ha pure ragione la signora elegante (moglie al 101% di un evasore fiscale o di un ladro, preferibilmente di stato …): se, mossa da un sentimento di fraterna partecipazione alla impossibilità da parte della gente comune (un tempo si diceva onesta) di rinnovare il guardaroba del proprio amico, decidesse, in un salutare momento di labilità mentale (così, almeno definirebbe la situazione il suo psicologo … da sogno), di far circolare la creatura come mamma l’ha fatta, la poveretta, col sistema immunitario ridotto ai minimi termini, creperebbe subito di raffreddore, pardon, cimurro.
Insomma, una congerie di motivi, in cui è difficile, se non impossibile, distinguere l’economico dal sentimentale, hanno inquinato, credo irreversibilmente, il rapporto tra noi umani e quello tra noi e le cosiddette bestie. Prima che Angelo mi preceda, così come ha fatto con i campioni di Olimpia e con i gladiatori dicendo che non c’è nulla di nuovo sotto il sole, lo faccio io, integrando, fra l’altro, quanto da lui stesso detto a proposito degli schiavi.
Nel mondo greco e romano la condizione servile era pari a quella delle bestie e qualsiasi umiliazione e violenza era, da un punto di vista giuridico, assolutamente legittima e corretta. La cultura, però, allora, aveva un grande valore ed era in grado di operare il miracolo di trasformare lo schiavo-bestia in liberto-amico del padrone o liberto-istitutore dei suoi figli. Di solito ciò avveniva con gli schiavi greci, mentre gli altri erano condannati al loro destino di sofferenze e stenti. Non so, perciò, quanto fosse convinto Seneca (I secolo d. C.) nel tuonare contro eccessi che al suo (?) tempo sembravano normali e non vorrei che il suo invito a trattare lo schiavo clementer, comiter quoque2(con clemenza, anche con confidenza ) fosse solo un tributo teorico alla filosofia stoica (per la quale il diritto naturale costituiva la legge fondamentale) e, quindi una pura esercitazione da intellettuale; non sapremo mai, purtroppo, come egli trattava i suoi schiavi e, quindi, se predicava bene ma razzolava male.
Comunque, siccome dalle sue parole traspare la tendenza al calcolo e alla convenienza piuttosto che la tensione verso un’umanità totalmente disinteressata3 (cosa, questa, non da umani …), non è fuori luogo pensare che probabilmente ai suoi tempi ci si era allontanati poco dalle posizioni di Catone il censore (II secolo a. C.) per il quale lo schiavo per il padre di famiglia era quello che per l’imprenditore agricolo di oggi può essere un trattore, per il presidente di una squadra di calcio il giocatore di fama avviato al tramonto: (il padre di famiglia) venda l’olio se il prezzo è buono, il frumento che è in eccesso, i buoi vecchi, le greggi e le pecore poco produttive, la lana, le pelli, il carro vecchio, i ferri vecchi, il servo vecchio, il servo che si ammala spesso e qualsiasi altra cosa sia di più4.
Insomma, sosteneva Catone, tutto ciò che è improduttivo va venduto, anche se si tratta di un essere vivente, bestia o uomo che sia. A distanza di circa tre secoli il greco Plutarco metterà in bocca a Catone parole da lui mai dette, scrivendo: … (Catone) dice di non aver mai comprato nessun servo per più di millecinquecento dracme, non avendo bisogno di (servi) effeminati o formosi ma di lavoratori e uomini robusti, come stallieri e bovari e riteneva che era necessario che fossero venduti questi diventati vecchi e non nutrire gente inutilizzabile5.
La parte che ho sottolineato è pericolosissima perché, pur essendo per motivi stilistici e grammaticali, da intendersi come strettamente connessa concettualmente con la vendita di cui si parla immediatamente prima, ha propiziato l’interpretazione, assolutamente arbitraria per i motivi che ho appena detto, secondo la quale Catone consiglierebbe di lasciar morire di fame lo schiavo improduttivo qualora non si fosse riusciti a sbarazzarsi di lui vendendolo.
Dopo essere passati dal cagnolino col cappotto agli schiavi, a constatare, ancora una volta da parte mia amaramente ma senza rassegnazione, l’importanza determinante di quello che oggi si chiama mercato (in cui il riconoscimento del talento raramente è legato al concetto della sua utilità sociale, è questo il punto …) i tempi sono più che maturi per volgere la nostra attenzione alle pecore del titolo.
Varrone (I secolo a. C.) ci ha lasciato questa testimonianza: Allo stesso modo per lo più si deve fare con le pecore col cappotto di pelle, che per la bontà della lana, come sono le tarantine e le attiche, sono ricoperte di pelli perché la lana non si sporchi o quanto meno possa essere ben tinta o lavata o preparata6.
Ho tradotto pecore col cappotto di pelle l’originale oves pellitae per evitare una sgradevole ripetizione, dal momento che pellitae alla lettera significa coperte di pelle. La conferma dell’adozione di questa precauzione nel Tarantino ce la dà il contemporaneo (di Varrone) Orazio: Onde, se le Parche ingiuste me lo [di trascorrere la vecchiaia a Tivoli] impediscono, cercherò di raggiungere il dolce corso del Galeso dalle pecore col cappotto di pelle e i campi su cui regnò lo spartano Falanto.7
Molto probabilmente questa precauzione tarantina8 è d’importazione greca e nulla vieta di pensare che essa sia stata introdotta dai coloni spartani e che nel mondo greco le pecore col cappotto di pelle non fossero solo quelle attiche, sulle quali, oltre la testimonianza di Varrone, abbiamo anche quella di Diogene Laerzio (III secolo d. C.): (Diogene, non lui, ma il filosofo cinico del IV secolo a. C.) avendo visto che a Megara le pecore erano protette da pelli mentre i figli dei Megaresi erano nudi, disse: “È più vantaggioso essere il montone piuttosto che il figlio di un megarese”9.
Una battuta che, forse, il filosofo si sarebbe potuto risparmiare se solo avesse pensato che, nel caso in cui le pecore non fossero state incappottate, il figlio del megarese forse non sarebbe andato in giro nudo ma quasi certamente sarebbe morto di fame …
Che abissale, tragica differenza, comunque, rispetto ad oggi in cui per il tarantino, scomparse le pecore (anche quelle senza cappotto …) e stravolto il Galeso, da troppo tempo vale (e, quel che è peggio, è ancora in atto) il ricatto o la borsa o la vita! oppure, se preferite, o la fame o il cancro!
Se qualche poeta ha l’intenzione di celebrare la bellezza rimasta ancora incontaminata di qualche luogo del Salento, si sbrighi perché, se per lo sfacelo del Galeso (uno dei tanti …) son dovuti passare millenni dal canto di Orazio, oggi egli rischia di vedere cancellata la bellezza residua prima ancora di cominciare il suo.
2 Ad Lucilium epistulae morales, XLVII, 13: Vive cum servo clementer, comiter quoque, et in sermonem illum admitte et in consilium et in convictum (Vivi con il servo con clemenza, anche con confidenza e consentigli di partecipare alla conversazione, alla decisione, alla mensa).
3 Op. cit., XLVII, 4: Sic fit, ut isti de domino loquantur, quibus coram domino loqui non licet. At illi, quibus non tantum coram dominis, sed cum ipsis erat sermo, quorum os non consuebatur, parati erant pro domino porrigere cervicem, periculum inminens in caput suum avertere; in conviviis loquebantur, sed in tormentis tacebant (Così succede che parlino del padrone quelli ai quali non è concesso di parlare in sua presenza. Ma coloro ai quali era concesso di parlare non solo in presenza dei padroni ma anche con loro, la cui bocca non era cucita, erano pronti a dare la vita per il padrone, a far caderevsulla loro testa il pericolo imminente; parlavano nei banchetti ma tacevano nelle torture).
4 De agricultura, 2: Vendat oleum, si pretium habeat; vinum, frumentum quod supersit, vendat; boves vetulos, armenta delicula, oves deliculas, lanam, pelles, plostrum vetus, ferramenta vetera, servum senem, servum morbosum, et si quid aliut supersit, vendat.
6 De re rustica, II, 2, 18: Pleraque similiter faciendum in ovis pellitis, quae propter lanae bonitatem, ut sunt Tarentinae et Atticae, pellibus integuntur, ne lana inquinetur, quo minus vel infici recte possit, vel lavari ac parari.
7 Odi, II, 6, 9-12: Unde si Parcae prohibent iniquae/dulce pellitis ovibus Galesi/flumen et regnata petam Laconi/rura Phalanto.
8 Pare, però, che tale pratica, continuata poi fino a tempi più vicini a noi, in Italia non fosse limitata al Tarantino, stando a quanto ci ha tramandato Columella )(I secolo d. C.), che usa una terminologia diversa (tectum pecus/tectae oves=gregge protetto/pecore protette), De re rustica, VII, 2: … pratis planisque novalibus tectum pecus commodissime pascitur … M. Columella patruus meus, acris vir ingenii atque illustris agrticola, quosdam mercatus in agros trastulit et mansuefactos tectis ovibus admisit. Eae primum hirtos, sed paterni coloris, agnos ediderunt, qui deinde ipsi Tarentinis ovibus impositi, tenuioris velleris arietes progeneraverunt. Ex his rursus quicquid conceptum est maternam mollitiem, paternum et avitum retulit colorem ( … nei prati e nelle pianure lasciate a maggese molto agevolmente pasce il gregge protetto … Marco Columella, mio zio, uomo di ingegno acuto e illustre agricoltore, dopo averne [di arieti selvatici importati dall’Africa] comprato alcuni, li portò in campagna e divenuti mansueti li accoppiò alle pecore protette. Queste la prima volta partorirono agnelli dalla lana ruvida, che, accoppiati poi con pecore tarantine, generarono montoni di vello più morbido. In seguito tutti gli esemplari da questi concepiti presentarono la morbidezza materna e il colore paterno e degli avi).
Molto probabilmente le oves pellitae sono quelle stesse per le quali Columella più avanti (XI, 2) raccomanda: Oves Tarentinae radice lanaria lavari debent, ut tonsurae praeparentur (Le pecore tarantine debbono essere lavate con la radice lanaria per essere preparate alla tosatura).
E il contemporaneo Plinio, Naturalis historia, VIII, 72: Ovium summa genera duo, tectum et colonicum: illud mollius, hoc in pascuo delicatius, quippe quum tectum rubis vescatur (Le principali specie di pecore sono due, la protetta e la colonica; la prima è più morbida, la seconda più delicata nel pascere poiché la protetta si nutre di rovi).
Il lettore curioso certamente si sarà chiesto quale pianta sia la radice lanaria nominata da Plinio. Per ora sappia che tanto la voce latina che la greca sono tradotte nei vocabolari con saponaria. Per motivi che qui sarebbe troppo lungo riportare e che, se qualche lettore manifesterà interesse all’argomento potrebbero costituire l’argomento di un prossimo post, credo che tale identificazione sia stata, quanto meno, frettolosa.
Si è appena tenuta la IX edizione del Premio “La luna dei Borboni”, dedicato al grande poeta, scrittore, traduttore e giornalista salentino Vittorio Bodini.
La manifestazione, sentita, quest’anno, con particolare intensità giacché concomitante con il centenario della nascita del preclaro personaggio, si è svolta, al solito, nella raccolta Piazza S. Nicola, un vero e proprio leggiadro bocciolo, di Cocumola (Lecce), la minuscola frazione che, in certo qual modo, si può considerare culla e luogo dell’anima di Bodini.
Alla presenza della figlia del poeta, Valentina, la serata è stata condotta con competenza e professionalità dalla giornalista e scrittrice Luisa Ruggio.
Nell’ambito del prestigioso premio, sono stati inseriti, per la prima volta, anche riconoscimenti a favore del giornalismo: assegnatari, in questa edizione, i due quotidiani regionali “La Gazzetta del Mezzogiorno” e “Nuovo quotidiano di Puglia”, rappresentati, rispettivamente, dalla giornalista Gloria Indennitate e dal giornalista e scrittore Antonio Errico.
La friseddra ppoppitara si distingue dalla frisa salentina in quanto consumata esclusivamente da popolazione indigena di etnia ppoppitara. Mentre la frisa salentina vive e viene consumata da bauscia milanesi e altre popolazioni esogene in interminabili eppiaurs spizziccata da pulitissime unghie laccate, la friseddra ppoppitara compie la sua vita solo pochi secondi, il tempo giusto di compiere il suo destino, quello di sfamare. A differenza della variante geneticamente modificata, la frisa, prodotta da spregiudicate industrie turistico-commerciali, la friseddra non ha bisogno di guide e corsi per essere consumata. Non servono specifici attrezzi di ammollamento, non serve consultare rinomati forum di cultura salentina per sapere come spargerci sopra l’olio e il sale, non serve sapere quale tipo di sottopiatto abbinare. La friseddra ppoppitara non ha mai avuto affianco a sè sul tavolo una lista di vini o di aperitivi. A essere pignoli, l’archetipo ppoppitaro non si è mai posato su un piatto ma direttamente su una banca, più spesso sul solo palmo della mano.
Nata appunto per sfamare nei campi e sul lavoro, la friseddra ppoppitara, vede la luce nella sua vita solo per pochi secondi: dal buio dei forni, al buio dei capasoni al buio di una bocca, tutto molto riservato, nessuno fino ad ora è mai riuscito a fotografarla o a stamparla su un cartello pubblicitario. Dicevamo che il consumo della frisa salentina, come per altre pietanze salentine, richiede una lunga preparazione pseudo-culturale del consumatore. In genere si parte da storie di popoli nomadi, passando per soldati crociati e si finisce col ricordo del nonno appeso alla parete. Il bauscia va rassicurato perchè il dubbio che gli si stia facendo mangiare pane raffermo bagnato vecchio di due settimane è insito in queste operose genti italiche. Invero in questi ultimi anni, l’attività della propaganda salentina ha forgiato intere popolazioni europee alla convivenza pacifica coi gechi in camera da letto e a comprarsi il nostro vino a un prezzo quintuplo rispetto a quello di dieci anni fa. La cultura salentina in questo decennio, alimentata da svegli commercianti, scaltri operatori turistici e immobiari e rimbambiti settantenni salentini, estranei a qualunque corrente culturale ppoppitara di origine, ha fatto miracoli. Sopravvivono, comunque, in questo estremo lembo di Puglia molte enclavi di etnia ppoppitara che perseverano le loro abitudini tra cui il consumo della friseddra e l’uso del termine scajone. Perchè non restino dubbi al lettore, ma non sia assolutamente una guida anch’essa, in quanto il consumo della friseddra non richiede guide, ne tanto meno il ppoppitaro ne conosce l’uso e il bisogno di un manuale, ricordiamo brevemente i tre sottotipi di friseddre ppoppitare: la friseddra de ccumpagnamentu, la friseddra a ssula e la friseddra ntru latte. Trattandosi di cultura ppoppitara per gente ppoppitara, e quindi letta in futuro lontano da solo pochi studiosi di antropologia culturale la trattazione sarà in ppoppitaro stretto. Friseddra de ccumpagnamentu: Spicciatu u pane friscu te tocca alla friseddra! La moddri a ru cappa cappa, a spatti su a banca culla faci a frissuli. Li suppi ntru brudinu de pummidori siccati e ta manci. Friseddra a ssula: No ssa mancia ciuveddri, meju li spranci susu nu pummidoru. La moddri, fuscennu fuscennu spranci susu do pummidori, oju, sale e prima te sponsa ntra manu e cu te cade tuttu nterra, ta ngnutti a tre uccuni. Friseddra ntru latte: La moddri, la spatti su a banca o la spranci ntra manu, la scoppi ntra coppa du latte e te spicci cu giunci u zzuccuru prima ca a friseddra se suca tuttu u latte.
Un Festival d’arte in un castello lungo la costa salentina a sud di Otranto. Da qui si guarda a Oriente. Lo hanno fatto i romani inseguendo il sogno di Alessandro il Macedone, i locali nel 1480 timorosi delle galee turche che lasciarono un segno di sgomento. Da qui, dal Castello Spinola Caracciolo di Andrano, sede del Parco della Litoranea Salentina, da Otranto a Tricase fino a S. Maria de finibus terrae, dove – dice Bodini – i salentini dopo morti tornano con il cappello il testa, prende il via la proposta artistica del Festival che comprende una mostra d’arte contemporanea, concerti, teatro, cinema, letture e la degustazione di prodotti tipici biologici e dei vini delle più rinomate cantine del Salento. ‘Sarà proprio il regista salentino Edoardo Winspeare, che ha diretto molti film su questa terra, l’ultimo dei quali lo splendido ‘In grazia di Dio’, – ci comunica Maria Rizzello De Pierri, presidente della Associazione Culturale Mediterranea con sede ad Andrano e curatore artistico della Mostra e direttore artistico del Festival – ad inaugurare la mostra il 5 settembre alle ore 20,30.
Una mostra che accanto ad una sezione storica con l’esposizione di opere di artisti di primo piano quali Picasso con la pregiata litografia ‘Arlecchino Mediterraneo’ e i dipinti di Guttuso, Manzù, Fiume, ecc. accoglie opere di artisti contemporanei provenienti da varie parti del mondo (Brasile, Spagna e Albania) e italiani, fra cui i salentini Casciaro e Chiarello, e inoltre Caroli, Scanderebech, Schifano, Zingarelli, Carrozza, Malerba, Cacciatori e Marzo.
Il Mediterraneo è il ‘Mare nostrum’ dei romani e prima ancora il mare su cui sono sorte civiltà, luogo di scambi fra gli etruschi, i fenici-cartaginesi, i greci con le loro colonie, e poi di tutte le varie civiltà che si sono susseguite con il loro carico di cultura e di violenza, sempre comunque ardenti per il desiderio di incontrare l’altro da sé per incantarlo e possederlo. Il mare dei miti, la Colchide, Medea, gli Argonauti, Odisseo polùmetis, dal multiforme ingegno, di letterati e di poeti. Kavafis, fra tutti con la sua Itaca, “Se Itaca è la mèta del tuo viaggio/formula voti sia una lunga via;/peripezie e scoperte la gremiscano…” Ma è Fernand Braudel, ne ‘Il Mediterraneo (lo spazio e la storia – gli uomini e la tradizione)’ a darne una sintesi: ‘Si può dire che il Mediterraneo realizza il proprio equilibrio vitale a partire dalla triade ulivo-vite-grano.’ L’olio, il vino e il pane, che non mancano sul nessun desco, in qualunque parte delle sue sponde, la loro mancanza e la loro ricerca forniranno ispirazione alle opere esposte e alle varie proposte di riflessione: il 6 settembre alle 20,00 la visione del documentario ‘L’approdo delle anime migranti’ di Simone Salvemini, alle 21,00 la presentazione del libro ‘Adriatico: golfo d’Europa’ a cura di don Giuseppe Colavero, alle 21,30 la rappresentazione teatrale Kater di Francesco Niccolini del Teatro Thalassia. Il giorno successivo, 7 settembre, alle ore 21,00 incontro con l’autore di ‘Ama il tuo sogno’, Ivan Sagnet e alle ore 21,30 il concerto ‘Officine Zoè con Baba Sissoko’.
Da segnalare la grande tela di Carlo Casciaro dal titolo “la Nike violata’, una grande statua che emerge dal mare su un’intensità di azzurro illuminata da una pallida luna con il suo panneggio mosso dal vento, simbolo del pensiero greco di progresso e di civiltà ai cui piedi però giacciono corpi senza vita di migranti, barconi naufragati e un viso di donna terrorizzato che esprime l’angoscia di questi viaggi della morte in un mare che è sempre stato incrocio di civiltà, e la tela di Antonio Chiarello “di/Segni d’Acqua”- acrilico su tela cm.70×200, accompagnata dai versi di Girolamo Comi: ‘…Mare, un brivido etereo che riproduce l’immagine spirituale del Cielo’.
Esordisco con miei complimenti all’autore del recente post (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/08/29/olio-e-imbonitori/) per lo splendido scritto che, seppur datato, non avevo avuto ancora occasione di leggere, nonostante mi ritenga un topo di rete … non fognaria.
Mi permetto, però, di muovere un solo rilievo all’affermazione “sempre dall’ulivo viene l’arco con cui il re d’Itaca compie la Nemesi verso i Proci”.
Conosco molto bene il legno d’ulivo per averlo lavorato, anche al tornio, prima che la passione per l’informatica prendesse definitivamente il posto di quell’hobby (perciò, non fatevi illusioni: non si accettano ordinazioni …). Si tratta di un legno durissimo ed assolutamente non flessibile, quasi come l’acciaio: si spezza ma non si piega. Tra tutti i tipi di legno credo che sia il più vivo, nel senso che è sensibile all’ambiente e non è raro veder comparire nei manufatti, di qualsiasi dimensione, delle crepature (segno che la stagionatura, in un certo senso la morte, non giunge mai a compimento) anche a distanza di parecchi decenni.
La serie di foto che segue vuole essere la dimostrazione che non racconto balle e la rozzezza degli oggetti lo dimostra. Non accampo giustificazioni per quest’ultima ma faccio presente che si tratta di lavori realizzati con un tornio da cavernicolo: su un panchetto di legno abbastanza pesante era fissato un binario sul quale era stato saldata ad un’estremità quella che aveva la pretesa di essere la testa (un pezzo di ferro dentellato); sul binario poi scorreva la contropunta e perpendicolarmente era stato saldato un altro binario su cui scorreva un supporto regolabile sul quale tener fermo lo scalpello nel corso del lavoro. La testa era collegata con una cinghia ad un motore sottratto al ventre di una lavatrice in attesa di rottamazione. A ripensarci mi chiedo come per tanti anni sia riuscito non solo a sopravvivere ma anche a non procurarmi alcun danno con quell’aggeggio infernale.
Comincio con una foto d’insieme di alcuni oggetti collocati (poteva essere diversamente?) su un tavolo il cui piano è costituito da un unico pezzo di olivo (per poterlo ridurre nelle condizioni in cui è ho distrutto tre trapani e due levigatrici e consumato un numero imprecisabile di mascherine …).
Presento ora in dettaglio qualche oggetto più significativo. Comincio con due contenitori.
Proseguo con gli immancabili mortai. Questo avrebbe fatto comodo a Polifemo …
… questi altri sono più a misura d’uomo …
… una cornice, certamente indegna della bellezza della donna in foto …
… una specie di scultura (?) morta …
… un uovo, come quello usato dalle nostre nonne per rammendare i calzini (se continua la situazione economica attuale, quasi quasi mi rimetto a fabbricarli, questa volta in serie) …
… uno dei tanti modelli di pipa; parecchie le ho usate prima di passare ai sigari.
Per quanto osservato posso affermare senza rischio di essere smentito che anche oggi un arco ricavato dall’ulivo (anche con una struttura multistrato) potrebbe essere solo un bell’oggetto di arredamento. Per quello che può interessare: quando esercitavo quell’hobby (sto parlando di più di trent’anni fa …) mi costruii pure (questa volta solo usando sega, seghetto, trapano e levigatrice) una racchetta da pingpong, grazie alla quale (mi ero studiato ben bene, però, le reazioni della pallina nell’impatto con quel tipo di legno) per qualche anno non ce ne fu per nessuno (e nessuno, naturalmente era in grado di usarla con la stessa efficacia; insomma, un Ulisse del pingpong … poi subentrò l’artrosi e cominciò l’odissea …). Ecco l’immagine di quella che avevo battezzato micidial ’81 (come si legge nel dritto … manco fosse una moneta), personalizzandola con ulteriori scritte in cui spicca per modestia optima optimo (la migliore per il migliore). So già cosa state pensando: la locuzione è ellittica di qualcosa e va ricostruita così: la migliore (racch[i]etta) per il migliore (scorfano).
Tra una racchetta da pingpong ed un arco corre, però, una bella differenza. Ma c’è di più: se è ipotizzabile che nell’antichità gli archi potessero essere di legno (ma non d’ulivo), l’arco di Ulisse non lascia adito a dubbi. Ecco come Omero descrive i preliminari, non meno importanti dell’atto che l’eroe si appresta a compiere (naturalmente la strage dei Proci …, che vi aspettavate con quei preliminari e il successivo atto?): “Prima guarda bene se è integro, poi lo passa attentamente sul fuoco e infine monta la corda”. Queste parole ci fanno inequivocabilmente capire che l’arco di Ulisse era di corno, il materiale di regola usato, oltre al legno, nella fabbricazione degli archi, ma che, a differenza di questo, andava preventivamente riscaldato in quanto la cheratina da cui è composto in tal modo si ammorbidisce e lo rende flessibile. Con questo trucchetto Ulisse fottè i Proci, che, nel tentativo di tenderlo a freddo, si ritrovarono tutti con una bella ernia e subito dopo vittime dei missili e dell’operazione chirurgica (la sua autentica, non fasulla e propagandistica in stile americano …) dell’eroe di Itaca.
Comunque, se l’arco esce di scena, ci sono due nuove entrate, sempre riferite all’eroe omerico e sempre dall’Odissea:
1) V, 474-487: Ulisse trova riparo nella cavità di due olivi (di cui uno selvatico) insieme intrecciati a formare quasi un unico corpo.1
2) IX, 319-330: di ulivo è il tronco divelto da Polifemo per farsene un bastone, lasciato a stagionare nella caverna e utilizzato da Ulisse per accecarlo (quello che per Polifemo doveva essere uno strumento per far fronte all’artrosi diventa la causa di un male ben peggiore …).2
Gruppo frammentario rinvenuto nel 1957 nella caverna che fungeva da stanza da pranzo estiva nella villa di Tiberio a Sperlonga, conservato nel locale museo. Immagine tratta da http://www.ettorehippodamos.com/sites/ettorehippodamos.com/files/Odiseo%20y%20Polifemo.jpg
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1 Ὣς ἄρα οἱ φρονέοντι δοάσσατο κέρδιον εἶναι/βῆ ῥ᾽ ἴμεν εἰς ὕλην· τὴν δὲ σχεδὸν ὕδατος εὗρεν/ἐν περιφαινομένῳ· δοιοὺς δ᾽ ἄρ᾽ ὑπήλυθε θάμνους,/ἐξ ὁμόθεν πεφυῶτας, ὁ μὲν φυλίης, ὁ δ᾽ ἐλαίης./Τοὺς μὲν ἄρ᾽ οὔτ᾽ ἀνέμων διάη μένος ὑγρὸν ἀέντων,/οὔτε ποτ᾽ ἠέλιος φαέθων ἀκτῖσιν ἔβαλλεν,/οὔτ᾽ ὄμβρος περάασκε διαμπερές· ὣς ἄρα πυκνοὶ/ἀλλήλοισιν ἔφυν ἐπαμοιβαδίς· οὓς ὑπ᾽ Ὀδυσσεὺς/δύσετ᾽. Ἂφαρ δ᾽ εὐνὴν ἐπαμήσατο χερσὶ φίλῃσιν/εὐρεῖαν· φύλλων γὰρ ἔην χύσις ἤλιθα πολλή,/ὅσσον τ᾽ ἠὲ δύω ἠὲ τρεῖς ἄνδρας ἔρυσθαι/ὥρῃ χειμερίῃ, εἰ καὶ μάλα περ χαλεπαίνοι. Τὴν μὲν ἰδὼν γήθησε πολύτλας δῖος Ὀδυσσεύς,/ἐν δ᾽ ἄρα μέσσῃ λέκτο, χύσιν δ᾽ ἐπεχεύατο φύλλων.Ὡς δ᾽ ὅτε τις δαλὸν σποδιῇ ἐνέκρυψε μελαίνῃ/ἀγροῦ ἐπ᾽ ἐσχατιῆς, ᾧ μὴ πάρα γείτονες ἄλλοι,/σπέρμα πυρὸς σώζων, ἵνα μή ποθεν ἄλλοθεν αὔοι,/ὣς Ὀδυσεὺς φύλλοισι καλύψατο (Mentre a lui che pensava era in dubbio che cosa fosse più conveniente, capitò di andare verso la selva; la trovò vicino all’acqua in un luogo splendido; si nascose sotto due arboscelli nati insieme, uno di ulivo selvatico, l’altro di ulivo domestico. Dentro di loro non soffiò forza di venti spiranti umidità né mai lo splendente sole li battè con i suoi raggi, né pioggia battente vi penetrò, così reciprocamente intrecciarti erano cresciuti. Sotto di loro entrò Odisseo. Subito con le proprie mani si preparò un comodo giaciglio; infatti c’era uno strato di foglie smisuratamente spesso tanto da coprire due o tre uomini nella stagione invernale, anche se fosse stata estremamente rigida. Vedendo le foglie si rallegròil tanto sofferente divino Odisseo, si distese dunque nel mezzo e si sparse addosso uno strato di foglie. Come talvolta uno in isolata campagna, in cui non vi sono altri vicini, nascose un tizzone sotto la nera cenere salvando il seme del fuoco per non attizzarlo da qualche altro luogo, così Odisseo si nascose sotto le foglie).
2 Κύκλωπος γὰρ ἔκειτο μέγα ῥόπαλον παρὰ σηκῷ,/χλωρὸν ἐλαίνεον· τὸ μὲν ἔκταμεν, ὄφρα φοροίη/αὐανθέν. Τὸ μὲν ἄμμες ἐίσκομεν εἰσορόωντες/ὅσσον θ᾽ἱστὸν νηὸς ἐεικοσόροιο μελαίνης,/φορτίδος εὐρείης, ἥ τ᾽ ἐκπεράᾳ μέγα λαῖτμα·/τόσσον ἔην μῆκος, τόσσον πάχος εἰσοράασθαι./Τοῦ μὲν ὅσον τ᾽ ὄργυιαν ἐγὼν ἀπέκοψα παραστὰς/καὶ παρέθηχ᾽ ἑτάροισιν, ἀποξῦναι δ᾽ ἐκέλευσα·/οἱ δ᾽ ὁμαλὸν ποίησαν, ἐγὼ δ᾽ ἐθόωσα παραστὰς/ἄκρον, ἄφαρ δὲ λαβὼν ἐπυράκτεον ἐν πυρὶ κηλέῳ/καὶ τὸ μὲν εὖ κατέθηκα κατακρύψας ὑπὸ κόπρῳ,/ἥ ῥα κατὰ σπείους κέχυτο μεγάλ᾽ ἤλιθα πολλή. (Nella spelonca del Ciclope giaceva un grande bastone verde, di ulivo; l’aveva tagliato perché fosse usato una volta secco. Guardandolo ci sembrò come albero di nera, grande nave mercantile a venti remi, che solca il vasto mare, tanta era a guardarsi la grossezza, tanto lo spessore. Avvicinatomi ne tagliai quanto due braccia aperte, la passai ai compagni e ordinai loro di pulirla; essi lo resero uniforme, io accostatomi appuntii l’estremità, subito poi afferratolo lo temprai nel fuoco ardente e lo nascosi accuratamente sotto il letame che giaceva abbondante nella spelonca).
Passerò in rassegna le varietà da me conosciute ancora presenti nel territorio di Nardò, nonostante l’antropizzazione del territorio e motivi di carattere economico abbiano pesantemente declassato fino a renderlo irrilevante un frutto che nell’economia rurale aveva fino a sessant’anni fa un posto di primissimo piano. Il lettore noterà che questo mio scritto è grondante di punti interrogativi. Lo interpreti come un mio limite ma soprattutto come una richiesta del suo aiuto…
ARNÉA
É una varietà invernale; il nome suppone un latino *vernèa, forma aggettivale con la stessa derivazione dell’italiano letterario verno, per aferesi da inverno e questo dal latino hibèrnu(m)=invernale (sottinteso tempus=stagione), probabilmente con aggiunta in testa della preposizione in. Proprio la caratteristica della maturazione e la stessa terminazione in –ea escluderebbero una derivazione dal latino medioevale hibernicus, variante del classico hibèricus=spagnolo, che presupporrebbe, invece, un riferimento alla terra d’origine. Di fichi invernali parla Catone nel brano a e Columella nel brano c leggibile nel link riportato più in basso alla voce FRACAZZÁNU.
CAMPANIÉDDHU
Evidente la derivazione del nome dalla forma simile a un campanello.
CAŠCITIÉDDHU
Probabilmente per la forma appiattita che evoca un piccolo contenitore (cašcitèddha, diminutivo di càscia a Nardò significa piccola cassa e a Salve e Vernole scatola) e per il fatto che la polpa la polpa è spesso cava all’interno; a meno che non sia originaria di Cascito (frazione del comune di Foligno).
CULUMBÁRA
Varietà molto precoce; il nome è forma aggettivale da culùmbu=fiorone, dal latino corýmbu(m)=corimbo, dal greco kòrymbos=cima, infiorescenza.
DELL’ABATE
Il nome appartiene presumibilmente, come SIGNÙRA, al gruppo di quelli legati ad un dedicatario, la cui identità, com’è facile intuire, è quasi impossibile individuare.
FRACAZZÁNU IÁNCU, FRACAZZÁNU RUSSU e FRACAZZÁNU RIGATU
Deformazione di brindisino (per aferesi di b– e metatesi a distanza di –r-), con riferimento al luogo d’origine.
MILUNGIÁNA
Evidente la somiglianza con la melanzana.
NAPULITÁNA
Riferimento al luogo d’origine.
PÁCCIA
Il nome potrebbe essere dovuto alla forma strana (a trottola ma molto schiacciata e con peduncolo cortissimo) ma anche ad altre due caratteristiche: la pianta raggiunge rapidissimamente dimensioni notevoli e il frutto a maturazione tende a spaccarsi.
PURGISSÓTTU
Il corrispondente italiano è brogiotto, forse da Burjazot, nome della città spagnola di origine. La voce neretina sembra derivare direttamente dalla voce spagnola, con passaggio b->p-, sincope di –a-, passaggio –z->-ss– e regolarizzazione della desinenza. Per dare un’idea della persistente difficoltà etimologica riporto solo due testimonianze, la prima più datata, la seconda più recente: a) In Dendrologiae naturalis scilicet arborum historiae libri duo di Ulisse Aldrovandi, Battista Ferronio, Bologna, 1668 pag. 430: Celidonius noster Bononiensis Geoponicus has delectas, & a se cultas ficorum species molles praebet legendas, Brogiottorum scilicet, quos ita dictos crederem prae summa sui dulcedine ab Ambrosia Deorum cibo, quasi Ambrosiottos… (Il nostro Celidonio autore bolognese di un trattato di agricoltura presenta queste tenere varietà di fichi scelte e da lui coltivate come quelle da tenere in più alta considerazione, cioè quella dei Brogiotti, che crederei così detti per la loro notevolissima dolcezza dall’ambrosia cibo degli dei, quasi ambrosiotti…). b) Nel Vocabolario etimologico della lingua italiana di Ottorino Pianigiani, Società editrice dante Alighieri di Albrighi e Segati, Roma, 1907: deriva dall’equivalente portoghese borgejote, borjaçote, che trova spiegazione in borjaca=spagnolo burjaca, sacco, bolgia, dal latino bursa borsa. Fico di color paonazzo che matura verso la fine di settembre e che più degli altri ha la forma di borsa o sacchetto.
Dalla precocità (24 giugno, festa di San Giovanni) nella produzione dei fioroni.
SANTANTÓNIU
Dalla precocità (13 giugno, festa di San Antonio da Padova) nella produzione dei fioroni.
SÉRULA
Da un latino *sèrula=un pò tardiva, diminutivo del classico sera? Oppure dal toponimo sardo Sèrula?1. O dalla voce del Tarantino (Grottaglie) sèrulu=orciòlo, corrispondente al neretino ursùlu? Sarei grato a chiunque mi aiutasse a dipanare la matassa, dal momento che nulla so sulla presunta maturazione tardiva di questo fico né tanto meno sulla sua forma, come dimostra l’assenza di foto.
SIGNÚRA
Il nome (se non è riferito, come probabilmente per DELL’ABATE, ad un dedicatario, la cui identità, fra l’altro, è pressoché impossibile individuare ) è forse a sottolineare la prelibatezza degna di una signora, ma non escluderei nemmeno una maliziosa allusione di carattere sessuale.
TRUIÁNU
Probabilmente dal luogo d’origine (Troia, in provincia di Foggia).
UTTÁRA
Corrisponde all’italiano dottata, forse da Ottati, nome di una località in provincia di Salerno. Ferdinando Vallese nel suo trattato Il Fico, Battiato, Catania, 1909, fa risalire il nome Ottato al latino optatus= desiderato.
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1 Ho trovato questo toponimo in Goffredo Casalis, Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli stati di S. M. il Re di Sardegna, Marzorati, Torino, 1846, pag. 218.
Ottimo report e… quanti ricordi! Ricordo che da piccolo si andava a raccogliergli e mangiarli direttamente sugli alberi delle campagne Leccesi (verso lo stadio). Di tutti quegli alberi e varietà oggi ne rimangono ben poche, gli altri sono tutti sotto il cemento delle periferie che avanzano verso il mare…
I miei preferiti erano i CAŠCITIÉDDHI anche perchè le api spesso e volentieri depositavano alla loro base dell’ottimo miele!
Questo saggio è da manuale, caro Armando. Complimenti ancora!
Una varietà mi sembra sia sfuggita: la fica mele. Ti risulta? Vecchi ricordi me la indicano come tra le più dolci e buone
Un dubbio atroce: milungiana o minungiana? Finora l’ortaggio l’ho sempre chiamato con il secondo dei due
Maria Antonietta
Non per mettere i puntini sulle iii….ma non trattasi di un ortaggio. E’ una infruttescenza (= frutto) dal nome “sicono”, all’interno sono tantissimi fiori trasformati.
La fica mele è la prima volta che la sento (eppure ho i miei anni…); quanto a milungiàna/minungiàna il Rohlfs per Nardò registra entrambe le forme. Debbo, però dire, che ho sentito più spesso usare la seconda, anche se in casa mia (per questo motivo l’ho scelta) si è sempre usata la prima. Quanto al saggio, meglio chiamarlo “assaggio”….
Armando Polito
Per mettere i puntini sulle i, ma anche per aggiungerne, com’è dovuto, una…: il fico si chiama milungiàna/minungiàna proprio per la somiglianza (nella forma e nel colore) con l’ortaggio (melanzana) e l’inflorescenza e infruttescenza del fico si chiama siconio.
Redazione
rileggendo mi vengono in mente gli aggettivi attribuiti ai fichi. Innanzitutto “scritta”, quando è ormai matura. All’opposto “ìfara” (acerba); “cacata”, in avanzata maturazione. Se non erro si dicono anche “mpitruddhate” quando la maturazione non è stata completata a causa delle avverse condizioni metereologiche
Nino Pensabene
Ieri avrei voluto intervenire per integrare le varietà di fichi con altre che – ricordo – la Giulietta teneva segnate in una pagina delle sue agende o quaderni. Purtroppo non sono riuscito a trovarla questa pagina. Prometto che appena la troverò sarà mia cura darne notizia. Così, a memoria, ricordo che ci devono essere delle varietà qui non citate, così come scopro la novità – per me – delle “fiche campaniéddhu”, “cascitiéddhu”, “purgissòttu”, “quàgghia” e “trujanu”.
Nelle campagne di Copertino, in 45 anni di permanenza, non li ho mai sentito nominare. Può darsi che vengono presentati con altri nomi: ecco perché la necessità di confrontarli con quelli che – ne sono sicuro – la Giulietta cita con altri nomi.
Ricordo, a proposito, che la stessa Giulietta lasciava ‘in letargo’ questa pagina perché diceva avrebbe voluto completare la nota, aggiungendo altre varietà delle quali non ricordava il nome e che nessun contadino le sapeva più indicare.
Riferendomi alla nota della Redazione, confermo la “scritta”, metafora di riga bianca sul fico data dalla buccia aperta (spaccata) per avvenuta maturazione; confermo “tìfara”, qui a Copertino, per “acerba” e anche “mpitruddhate” per il motivo spiegato. In quanto invece all’essere “cacata”, non lo è per eccessiva maturazione ma perché punta o “pizzicata”, non ricordo se da un particolare tipo di mosca o verme. Infatti “cacata” sta per “sporcata”, e chi ricorda l’interno del fico in questa particolare condizione sa che ha il colore del cioccolato, dicat delle cacarelle: in sintesi come se qualcuno avesse cacato dentro il fico.
LUIGI CATALDI
Caro Armando, ma pot’essere ca te rascordi sempre la fica “minna”?! pot’essere ca ete quiddhra ca chiami “napulitana?”
aspetto conferma. Buona settimana a tutti!
Armando Polito
Sarebbe stato impossibile per me non ricordarla con quello che evoca nel suo nome, ma a Nardò non l’ho mai sentita nominare. Dubito che uno studio di ficologia comparata possa chiarire definitivamente se corrisponde alla “napulitana”.
Francesco
Se posso essere utile informo che a Latiano ho sentito parlare di fica ‘ngannamele o ‘ncannamele, ma non mi ricordo com’è. E’ molto diffusa e comune la fica janculedda che non ho visto nell’elenco, probabilmente interessa piu la zona morgese che il salento?
Salvatore Calabresevorrei aggiungere l’aggettivo attribuitivo ^^nnigghiata^^ ossia il fico che all’esterno sembra maturo mentre la polpa interna è secca come la crusca (canigghia). Inoltre, mi risulta che la denominazione di ^^S.Giuanni ^^ si riferisce ad un fiorone che matura nel periodo di S. Giovanni e il relativo fico, che nasce da quell’albero, lo si definisce ^^culumbara^^ perchè è il fico più precoce che matura quando ancora su altri alberi ci sono ancora i fioroni (culumbi). Per quanto concerne il miele che si crea sul fico non è assolutamente dovuto alle laboriose api ma si tratta di una linfa concentrata e zuccherosa che il frutto secerne quando è ben maturo. Vorrei aggiungere ancora che a Nardò lu ^^ fracazzanu rigatu^^ è correntemente definito ^^fracazzanu pintu^^.
Redazione
un lettore mi ha mandato un messaggio dicendo di aver mangiato proprio in questi giorni delle prelibate “fica sessa”, il cui albero si trova in un appezzamento tra Galatone e Galatina
manca la fica Rizzeddra, la migliore in assoluto, con la pelle che è quasi un velo inesistente, docissima da matura, che sa quasi di spezie, piccola da infilare in bocca in un sol colpo.
nino pensabene
Ho trovato la pagina di cui in un mio precedente commento ho fatto riferimento. In effetti, dal modo come sono scritte le varietà di fichi che riporterò qui di seguito, si deduce (per lo meno lo deduco io che conosco il modo di condurre la ricerca da parte di Giulietta) che non si tratta di una ricerca completata ma solo delle varietà coltivate nei nostri fondi, soprattutto a “La Corte” dove fino alla prima metà del Novecento il ficheto era a coltivazione intensiva.
JETTE
PILOSE
PACCE
FRACAZZANI ( JANCHI – NIURI)
CANNAJANCHE
UTTATE
PALUMMARE (JANCHE – NIURE)
PITRELLE
CHIANGIMUERTU
BORSA TI MELE
MINUNGIANE
MINUNCEDDHRE
PUTINTINE
NAPULITANE
ARNEE
TI NATALE
TI LA SIGNURA
TI L’ABATE
TI LU PAPA
CULUMMARE
nino pensabene
In un altro appunto trovo ancora “la FICA PANITTERA” e “la FICA LONGA”.
In più, fra quelle già citate, noto che anche “li UTTATE”, “li CHIANGIMUERTU” e “li BORSA TI MELE” sono nella varietà “JANCHE e NNEURE”.
Fra i fichi fioroni trovo annotati:
– PITRIELLI
– CULUMMARI
– TI SANTU ITU
– URGIALURI
Se vi invio una foto di una mia varietà di fico potrebbe classificarmela?
Le sarei molto grato.
Giuseppe Litta
armando polito
La ringrazio per i complimenti e mi scuso per il ritardo dovuto a morte del pc (meglio lui…) dopo un decennale onorato servizio. In riferimento alla sua domanda spero di non deluderla essendo io non un botanico ma solo un inguaribile curioso assetato di conoscenza. Comunque, forse solo nel nostro caso tentare o essere tentati non è peccato, nemmeno in senso laico.
Può inviarmi la foto all’indirizzo in calce e, possibilmente, indicarmi l’eventuale nome con cui il fico in questione potrebbe essere stato, magari occasionalmente,da altri identificato e la zona di allocazione,anche se essa potrebbe non coincidere con quella d’origine.
antonio
Faccio vivi complimenti per la ricerca, ma devo assolutissimamente integrare l’elenco con la tipologia “albaneca”. E’ il tipo di fico che matura da ultimo rispetto agli altri, da cui, ritengo, il nome : nega l’alba. Molto diffuso nel territorio galatonese e va mangiato con la buccia, saporitissima.
In un tronco di ulivo Ulisse intagliò il suo talamo nuziale, di legno d’ulivo è il manico dell’ascia bronzea che Calipso gli dona per costruire la sua zattera, sempre dall’ulivo viene l’arco con cui il re d’Itaca compie la Nemesi verso i Proci.Biòs è l’arco d’ulivo, strumento di morte, Bìos è la vita che si concepisce nel talamo nuziale … E un ramoscello d’ulivo porta la colomba a Noé per suggellare il patto dell’Arca, e l’unzione sovrintende confermazione, ordine sacro e l’atto estremo. D’ulivo sono le fronde che accolgono l’Emanuele a Gerusalemme e frantoio (Getsemani) è il luogo del tradimento e dell’estremo sacrificio.Quanti simboli in quell’albero, in quei frutti e nel succo che ne scaturisce. Prezioso per tutti, per i vivi e finanche per i defunti. Salubre e santo.
Non si può far verbo dell’olio senza parlar d’ulivi.
Di oli ne esistono tanti, ma l’olio che viene dalla premitura delle drupe dell’albero che impreziosisce da millenni le terre del Mediterraneo è altra cosa.L’ulivo è pace, morigeratezza nei costumi, gloria, giustizia, sapienza, rinascita a nuova vita. È l’albero che si torce per impedire che da esso si possa trarre il legno della croce e così resta, scultura perpetua e testimone per secoli di abbondanze e carestie.
Conviviamo da sempre con questi giganti buoni, alberi che la stupidità e l’avidità di pseudo-umani troppo spesso sacrificano a inutili forme di pseudo-modernità. Dai nostri ulivi secolari si estrae, appunto da secoli, l’olio, l’oro verde.L’esigenza di tutelarne il valore ha prodotto, forse troppo lentamente, normative stringenti capaci di rendere più difficili le frodi. La più recente riguarda la riconoscibilità di oli prodotti da olive “maltrattate”.
Non è questo il luogo per tassonomie e classificazioni, ma l’elemento chimico-fisico minimale per riconoscere un Olio Extra Vergine d’Oliva (OEVO) ci sia permesso: Acidità: 0,8%; Numero di perossidi: 20; Acidi saturi: 1,3; Steroidi: 1, Isomeri: 0,03; e all’esame spettrofotometrico: K232: 2,5; K270: 0,1, ?K: 0,001.
Ovvio che non basta, queste sono le condizioni minimali, di chimico-fisiche, ve ne sono tantissime altre, fra le ultime la quantità di sostanze che va sotto il nome di alchil-esteri e metil-esteri.
Poi si ragiona di olfatto, gusto, salubrità. Il nostro territorio è da sempre dominato da cultivar di celina di Nardò, ogliarola leccese e porzioni ampie di leccino e frantoio.
Non eravamo terra vocata alla produzione di oli alimentari, ma solo di oli lampanti, ovvero atti a fornire energia per i lampioni di grandi città come Milano e Parigi.Poi l’evoluzione e il petrolio, l’energia elettrica e i testimoni della storia a presidiare i campi, a onorare le mense che intelligenza e cultura secolare hanno arricchito con produzioni ad uso alimentare e dalle caratteristiche straordinarie.
Quale miglior “integratore alimentare” per i bambini convalescenti può sostituire un cucchiaino di “olio di affioramento”? Cosa c’è di più sano di una frisa con olio, pomodoro, sale e un pizzico di origano fresco? E le paparine ripassate con olio, olive nere e una punta di diavolicchio?
Potremmo andar avanti per secoli … e per secoli siamo andati avanti. Liberi dalla necessità di produrre per le torce, i produttori più avveduti hanno affinato tecniche di produzione, di raccolta e di molitura e oggi il Salento è patria di oli da sballo, dal Terra d’Otranto DOP a vari monocultivar dalla versatilità incredibile.Arrivano mail che raccontano di uso per far pasta frolla e salsa besciamel, gelato e creme, infusi e guarnizioni …Gli oli del Salento son capaci di “parlare”, di suggerire l’uso da farne.
Ma per questi oli bisogna raccogliere le olive al momento giusto: l’invaiatura (ovvero quando da verdi cominciano ad annerire) e, immediatamente, molirle a freddo. Le drupe sono frutti che assorbono moltissimo e degradano rapidamente. Meno le si tocca meglio é. Ci sono oli buoni crudi su alimenti crudi, crudi su cotti, cotti per cotti, cotti per crudi. Sapori decisi, a scalare.
Un monocultivar di Celina filerà su un carpaccio di triglia, un blending delicato colorerà un piatto di legumi, un leggero soffritto di fruttato medio con acciuga e aglio insaporirà dei cavoli al vapore, e neutro deve esser l’olio con il quale si tosta il guanciale che arricchisce una crudaiola di fiaschetti … Se la frittura non é abitudine giornaliera, farlo sempre e solo d’olio vergine di oliva dal gusto neutro, chi perora la leggerezza di altre sostanze per la frittura mente sapendo di mentire.
La possibilità di scelta per gli oli è straordinaria, chi fa ristorazione collettiva abbia il tavolo degli Oli e non l’oliera di un olio anonimo, è un tocco di classe non da poco. L’Olio di Oliva è storia, cultura e fede. Non si tratti come un qualunque grasso vegetale.
Il costo? Singolare che quando si va a fare il tagliando per l’auto si scelga l’olio migliore e per nutrir sé stessi e i propri figli ci si ponga il problema del costo dell’olio …
Son passati esattamente sette anni da quando questo articolo fu scritto e pubblicato. Ed ora? Tutto questo dovremmo lasciarlo svanire per insipienza, codardia o semplice ignavia? Nemmeno per sogno: difendere gli ulivi è difendere la vita. E va fatto seriamente e senza “se” e senza “ma”. E senza “guaritori” o “sciamani” per i quali spero che ci sia qualcuno pronto all’applicazione dell’art. 661.
PER LA FESTIVITA’ DI SANT’ORONZO I CONTADINI REGALAVANO AL LORO PADRONE UN GALLETTO DI PRIMO CANTO
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
L’uso leccese di festeggiare sant’Oronzo mangiando in suo onore un galletto di primo canto, traeva origini da un’antica leggenda secondo la quale il Santo – consacrato vescovo personalmente dagli apostoli Pietro e Paolo – aveva celebrato la sua elezione sgozzando un gallo ai piedi di san Pietro, che da poco approdato sulla costa di Bevagna dimorava nella macchia d’Arneo. Un gesto altamente simbolico in quanto, rifacendosi al racconto evangelico, cioè alla valenza di rimprovero che il canto di un gallo nel pretorio di Gerusalemme aveva avuto nei confronti di san Pietro, con l’uccisione della bestia il neo Vescovo aveva voluto attestare la vittoria spirituale del Principe degli Apostoli, ormai così forte nella fede da non avere bisogno di svegliarini.
Partendo da tali presupposti ne conseguiva che, ammazzando il pollo in onore di sant’Oronzo, in definitiva si recava tributo a san Pietro, ed era proprio in virtù di questa coordinata di approccio che l’usanza, nata in ambito cittadino, aveva messo radici anche nelle campagne, dove, però, le originarie intenzioni puramente laudative avevano sviluppato significanti a pretto interesse categoriale.
I contadini si facevano sì dovere di allevare uno o più galletti per il 26 di agosto, ma solo per farne un presente al signor padrone, mai nell’intento di regalarlo a un loro pari o, meno che meno, per usufruirne personalmente; e questo anche quando particolari situazioni (buone condizioni economiche,
Sono frutti, prodotti, derrate, cui, adesso, si annette rilievo scarso, se non, addirittura nullo; si è quasi arrivati a ignorarne l’esistenza, la cura e l’uso.
Sulla scena delle risorse agricole locali, resistono appena, con alti e bassi, le granaglie, le olive, l’uva, gli agrumi, gli ortaggi e/o verdure.
Lupini, carrube e fichi sono, insomma, divenuti figli minori e spuri della terra, le relative coltivazioni appaiono rarefatte e, di conseguenza, i raccolti trascurati o abbandonati.
Mentre, sino alla metà del ventesimo secolo ma anche a tutto il 1960/1970, rappresentavano beni indicativi per i bilanci delle famiglie di agricoltori e contadini ed elementi di non poco conto per le stesse, dirette occorrenze alimentari.
I primi, della sottofamiglia delle Faboidee, al presente richiamati solo sulla carta e nelle enciclopedie come utili ai fini della decantata “dieta mediterranea”, si trovavano diffusi su vasta scala, specialmente nelle piccole proprietà contadine attigue alla costiera, fatte più di roccia che di terra rossa, si seminavano automaticamente e immancabilmente senza bisogno di soverchia preparazione del terreno, né necessità di cure durante il germoglio e la crescita delle piante, dapprima in unità filiformi, poi robuste e ben radicate sino all’altezza di metri 1 – 1,50, recanti, alla sommità, rudi baccelli contenenti frutti a forma discoidale, compatti, di colore fra il giallo e il beige – biancastro.
Al momento giusto, le piante erano divelte a forza di braccia e sotto la stretta di mani callose e affastellate in grosse fascine o sarcine. A spalla, i produttori trasportavano quindi tale raccolto nel giardino o campicello, con o senza aia agricola annessa, più prossimo alla casa di abitazione nel paese, lasciandolo lì, sparso, a essiccare completamente sotto il sole.
Dopo di che, avevano luogo le operazioni di separazione dei frutti dai baccelli e dalle piante, sottoforma di sonore battiture per mezzo di aste e forconi di legno. Diviso opportunamente il tutto, con i già accennati discoidi, si riempivano sacchi e sacchetti.
Il prodotto, in piccola parte, era conservato per le occorrenze, diciamo così, domestiche: previa bollitura e aggiuntivo ammorbidimento e addolcimento con i sacchetti tenuti immersi nell’acqua di mare, i lupini diventavano una sorta di companatico o fonte di nutrimento di riserva e, in più, servivano ad accompagnare i “complimenti”, consistenti in panini, olive, sarde salate, peperoni e vino, riservati, in occasione dei ricevimenti nuziali, agli invitati maschi.
Invece, l’eccedenza, ossia la maggior parte del raccolto, era venduta a commercianti terzi.
° ° °
Le carrube sono i favolosi e bellissimi pendagli, color verde all’inizio e marrone sul far della maturazione, donatici dagli omonimi maestosi alberi, taluni di dimensioni monumentali, tutti affascinanti.
Anche riguardo alle carrube, non si pongono attenzioni particolari, salvo periodiche potature delle piante, i frutti si raccolgono, al momento, purtroppo, da parte di pochi, attraverso tocchi con aste di legno, un’operazione denominata abbacchiatura, come per le noci.
Il prodotto, copioso e abbondante ad annate alterne e riposto in sacchi di juta, oggi è indirizzato esclusivamente alla vendita a terzi; al contrario, in tempi passati ma non lontanissimi, le carrube, dopo l’essiccazione al sole, erano in parte abbrustolite nei forni pubblici del paese e, conservate in grossi pitali in terracotta, insieme con le friselle e i fichi secchi, componevano le colazioni e, in genere, i frugali pasti in campagna dei contadini.
Piccola nota particolare, d’inverno, poteva anche capitare di grattugiare le carrube e, mediante la graniglia così ottenuta mescolata con manciate di neve fresca (beninteso, nelle rare occasioni in cui ne cadeva), si realizzava un originale e gustoso dessert naturale e sano.
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I fichi, al momento, purtroppo, lasciati, in prevalenza, cadere impietosamente ai piedi degli alberi, erano, una volta, oggetto di una vera e propria campagna di raccolta, ripetuta a brevi intervalli in genere sempre nelle prime ore del mattino, con immediato successivo sezionamento (spaccatura) dei frutti e disposizione dei medesimi su grandi stuoie di canne , “cannizzi”, e paziente fase di essiccazione sotto il sole.
Allo stesso modo delle carrube, in parte erano poi cotti nei forni e andavano a integrare le fonti dell’alimentazione famigliare, in parte erano somministrati agli animali domestici, in parte, infine, erano venduti.
Soprattutto, se non proprio, per i fichi, le famiglie avevano l’abitudine, in luglio e agosto, di spostarsi fisicamente dalle case di abitazione nel paese, nelle piccole caseddre di pietre situate nelle campagne, cosicché si risparmiavano le ore occorrenti per l’andata e il ritorno di ogni giorno a piedi e avevano, in pari tempo, agio di attendere direttamente e più comodamente a tutte le fasi della descritta raccolta.
Non c’è che dire, ieri, in un modello esistenziale più semplice, alla buona e intriso di spontanea connaturata operosità, si aveva interesse, e attenzione, anche per beni “poveri” ma, con ciò, non meno utili di altri; oggi, il concetto di valore si è in certo senso ripiegato su se stesso e finalizzato a obiettivi e orizzonti di tutt’altra stregua, fra cui miraggi a portata di mano.
La tassonomia, si sa, è scienza relativamente recente e unanimemente ne è considerato il padre Linneo, naturalista svedese del XVIII secolo, inventore del metodo binomiale, basato cioè sull’attribuzione ad ogni pianta di un nome formato da due componenti, il primo riferentesi al genere di appartenenza (comune alle specie che presentino alcune caratteristiche principali), il secondo alla specie. Era il superamento del sistema precedente, invalso fin dai tempi dei botanici greci e latini, basato su una descrizione più o meno dettagliata di ogni pianta (con una rozza applicazione del metodo comparativo in espressioni del tipo con le foglie simili a quelle della…) ma improntata, tutto sommato, a criteri arbitrari, vale a dire personali (il che rendeva operazione difficoltosa, anche per gli addetti ai lavori, la comparazione e il controllo). Anche se era fatale che alcune nuove denominazioni si sostituissero, aggiungessero o affiancassero a quelle di Linneo, non è un caso che il terzo componente più frequente in ogni nome scientifico è ancora oggi proprio l’abbreviazione del suo nome.
È il caso di un’essenza particolarmente diffusa nel mondo mediterraneo e che fino alla metà del secolo scorso ebbe una rilevante importanza economica nel nostro territorio: il fico.
Ficus carica L. è il suo nome scientifico e, tralasciando il primo componente già oggetto di ampia trattazione in più di un post su questo sito, soffermerò la mia attenzione su carica. La voce in latino ha il significato letterale di fico secco della Caria e quello traslato di fico secco in genere.
Per il primo significato ecco la testimonianza di Plinio (I° secolo d. C.): “La Siria oltre a questo ha altri alberi peculiari. Nel genere delle noci sono conosciuti i pistacchi. Si dice che giovino contro i morsi dei serpenti come cibo e bevanda, Poi nel genere dei fichi quelli di Caria e altri dello stesso genere più piccoli che chiamano cottani1”; “Appartengono a questo genere [i fichi], come dicemmo, i cottani, quelli di Caria e quelli di Cauno che furono di presagio a Marco Crasso mentre si apprestava ad imbarcarsi per la campagna contro i Parti quando un venditore pronunziò il loro nome2. Lucio Vitellio, che poi fu censore, li introdusse nel suo podere di Alba dalla Siria, quando era ambasciatore in quella provincia, negli ultimi anni dell’impero di Tiberio3”; “I datteri piacciono per la carnosità, quelli di Tebe per il guscio, le uve e certi datteri per il succo, pere e mele per la callosità, le more per la polpa, i noccioli per la cartilagine, certe in Egitto per i chicchi, i fichi di caria per la pelle. Questa viene tolta ai fichi verdi come scorza e invece è massimamente gradita nei secchi4”.
La voce compare pure in Ovidio (I° secolo a. C.): “Dissi: -Che pretendono per loro il dattero e il rugoso fico di Caria?-5; “Qui c’è la noce, qui c’è il fico di Caria misto ai rugosi datteri6”. La scarsa considerazione per il fico di Caria manifestato da Ovidio nel primo dei due brani appena citati viene ribadita per i cottani da Giovenale (I°-II° secolo d. C.): ”Io non dovrei evitare la porpora di costoro? Che prima di me firmi un documento e si riposi disteso sul letto migliore uno venuto a Roma spinto dallo stesso vento che porta prugne e cottani?7”. E il contemporaneo Marziale lo ribadisce a più riprese: “Nulla mi hai fatto avere in cambio del mio piccolo dono, e già son trascorsi cinque giorni dei Saturnali. Dunque, neppure pochi grammi di argento settiziano8, né la tovaglia inviatati dal cliente lamentoso? Neppure un piatto che rosseggia del sangue di tonno di Antipoli9? Neppure uno che contenga piccoli cottani?10”; “Mi hai mandato, o Umbro, tutti i regali che ti hanno portato in cinque giorni per i Saturnali: dodici tavolette a tre fogli per scrivere e sette stuzzicadenti; a questi si aggiunsero come compagni una spugna, un tovagliolo, un bicchiere e mezzo moggio di fave con un cesto di olive del Piceno e un nero vaso di mosto cotto di Laletania11; e vennero piccoli cottano con biondeggianti prugne e un vaso pieno pieno di fichi della Libia. Credo che questi doni a me recapitati da otto imponenti (facchini) di Siria a stento valgano tutti trenta nummi. Con quanto minore sforzo un tuo garzone avrebbe potuto recapitarmi cinque once d’argento!12”; “Questi cottani che ti giunsero riposti a forma di ritorta colonnetta sarebbero stati fichi se fossero stati più grandi13”.
Eppure, che tavolette da scrivere e cottani fossero tra i regali consueti in occasione di importanti festività è chiaro dalle parole di Seneca (I° secolo d. C.) : “Dal pranzo nulla potè esser tolto. Fu preparato in non più di un’ora, in nessun caso senza fichi di Caria, in nessun caso senza tavolette per scrivere. QuellI [i fichi] se ho il pane fungono da companatico, altrimenti, invece del pane, ogni giorno mi rinnovano il nuovo anno, che io rendo fausto e felice con i buoni pensieri e con la grandezza d’animo14”.
Lascio per ultima la testimonianza di Petronio (I° secolo d. C.) per la sua attualità estrema che da una parte, secondo me troppo sbrigativamente, può essere valutata come la solita laudatio temporis acti (nostalgia del tempo che fu) oppure, peggio, dall’altra (non certo da quella dei poveracci e degli onesti…) come qualunquistica: “E così in quel tempo approvvigionarsi era come raccogliere cicorie selvatiche. Se tu compravi un asse di pane non avresti potuto consumarlo interamente neppure con un altro. Ora ti tocca un panino che è più piccolo dell’occhio di un bue. Poveri noi, ogni giorno peggio! Questo paese cresce in senso contrario, come la coda di un vitello. Ma perché abbiamo un edile che non vale tre fichi di Cauno, il quale darebbe la nostra vita in cambio di un asse? E così se la gode a casa sua e in un giorno guadagna più nummi di quanto riesca a guadagnarne un altro in tutta una vita15. So benissimo donde ha arraffato mille monete d’oro. Ma se noi avessimo i coglioni16 non se la godrebbe così. Il fatto è che il popolo in casa è un leone, fuori una volpe17”.
Non sono un giocattolo a molla e nemmeno un cavalleggero, ma la carica si è esaurita…
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1Traduco così il còttana del testo originale (Naturalishistoria, XIII, 10: Syria praeter hanc peculiares habet arbores. In nucum generepistacis nota. Prodesse adversus serpentium traduntur morsus, et potu et cibo. In ficorum autem caricas et minores eius generis, quae cottana vocant). La variante còctana potrebbe facilmente indurre a supporre che il nome sia forma aggettivale neutro plurale dalla radice (coct-) del supino (coctum) del verbo còquere, con riferimento al fatto che si trattava di una varietà particolarmente adatta all’essiccazione se non, addirittura, alla successiva cottura nel forno; nulla di tutto questo perché in latino nel suffisso aggettivale –ànus/-àna/-ànum la a è sempre lunga, per cui avremmo dovuto avere cottàna e non còttana come nel nostro caso. In realtà la voce pliniana è trascrizione del plurale del greco kòttanon (in cui la a è breve, per cui in latino l’accento risulta sulla sillaba precedente) attestato in Ateneo di Naucrati (autore del II°-III° secolo d. C., ma la sua opera contiene citazioni di poeti perduti di molto più antichi), Deipnosofisti, IX, 34 (385°): “Dicendo un altro che era un piatto gradevolissimo anche la gallina in salsa di olio e aceto, Ulpiano che ha sempre da dire la sua, il solo che se ne stava disteso mangiando poco e tenendo d’occhio quelli che parlavano, disse: -Che è mai la salsa di olio e aceto se voi non nominerete i cottani e il lepidio, cibi caratteristici della mia patria?-“.
2 Ne aveva parlato Cicerone (I° secolo a. C.), De divinatione, II, 40: Cum M. Crassus exercitum Brundisii imponeret, quidam in portu caricas Cauno advectas vendens, -Cauneas- clamitabat. Dicamus, si placet, monitum ab eo Crassum caveret ne iret: non fuisse periturum si omini paruisset (Mentre Crasso imbarcava a brindisi l’esercito, un tale che vendeva nel porto fichi importati da Cauno [città della Caria] andava gridando: -Fichi di Cauno!-. Diciamolo pure, se vogliamo: ammonito da questo fatto, Crasso si sarebbe dovuto ben guardare dal partire; non sarebbe morto se avesse dato retta al presagio). La predizione nefasta coinvolgerebbe i fichi di Cauno solo marginalmente perché sarebbe tutta imperniata su un gioco di parole in base al quale il Cauneas! gridato dal venditore non sarebbe altro che la contrazione della locuzione cave ne eas!=guardati bene dal partire!
3 Op. cit., XV, 21: Ex hoc genere sunt, ut diximus, cottana et caricae quaeque conscendendi navem adversus Parthos omen fecere M. Crasso venales praedicantes voce, Cauneae. Omnia haec in Albense rus e Syria intulit L. Vitellius, qui postea censor fuit, cum legatus in ea provincia esset, novissimis T. Caesaris temporibus.
4 Op. cit., XV, 34: Carne palmae placent, crusta Thebaicae, suco uvae et caryotae, callo pira ac mala, corpore mora, cartilagine nuclei, grano quaedam in Aegypto, cute caricae. Detrahitur haec ficis virentibus ut putamen, eademque in siccis maxime placet.
5 Fasti, I, 185: -Quid volt palma sibi rugosaque carica?- dixi.
6 Metamorfosi, VIII, 674: Hic nux, hic mixta est rugosis carica palmis.
7 Satire, III, 77-79: Horum ego non fugiam conchylia? Me prior ille/ signabit fultusque toro meliore recumbet,/advectus Romam quo pruna et cottana vento?
8 Di bassa lega, da saeptum=recinto, con riferimento al luogo dove i Romani contrattavano e vendevano a peso.
9 Oggi Antibes.
10 Epigrammi, IV, 88, vv. 1-6: Nulla remisisti parvo pro munere dona,/et iam Saturni quinque fuere dies./Ergo nec argenti sex scriptula Sepriniani,/missa nec a querulo mappa cliente fuit?/Antipolitani nec quae de sanguine thynni/testa rubet? Nec quae coctana parv gerit? Il motivo, però, era comparso un secolo prima in Stazio, Silvae, IV, 9, 27-28: Nusquam turbine conditus ruenti/prunorum globus atque coctanorum? (In nessun caso [hai da mandarmi] un ammasso informe di prugne e di cottani buttati giù da un vento rovinoso?).
11 Regione della Spagna.
12 Op. cit., VII, 53: Omnia misisti mihi saturnalibus, Umber,/munera, contulerant quae tibi quinque dies: bis senos triplices et dentiscalpis septem;/his comes accessit spongia, mappa, calix/semodiusque fabae cum vimine Picenarum,/et Laletanae nigra lagena sapae; parvaque cum canis venerunt coctana prunis,/et Libycae fici pondere testa gravis./Vix puto triginta nummorum tota fuisse/munera, quae grandes octo tulere Syri./Quanto commodius nullo mihi ferre labore/argenti potuit pondera quinque puer!
13 Op. cit., XIII, 29: Haec tibi quae torta venerunt condita meta,/si maiota forent coctana, ficus erant.
14 Epistole, 87: De prandio nihil detrahi potuit. Paratum fuit non magis hora, nusquam sine caricis, nusquam sine pugillaribus. Illae, si panem habeo, pro pulmentario sunt; si non, pro pane quotidie mihi annum novum faciunt, quel ego faustum et felicem reddo bonis cogitationibus et animi magnitudine.
15 Si direbbe, tanto per fare un esempio già citato nel pregevole post di Gianni Ferraris Ahi Alessano, terra di Tonino Bello! del 13 gennaio u.s., il “trota” ante litteram. Vallo a spiegare all’interessato quello che ho appena finito di dire…; credo, però, che la spiegazione sarebbe complicata anche per i destinatari dei benefici di cui ci dà notizia Rocco Boccadamo nel suo contributo Pugni nello stomaco alla crisi del 14 gennaio u.s….
16Mai traduzione dell’originale sed si nos coleos haberemus fu così doverosamente letterale.
17 Satyricon, 44:Itaque illo tempore annona pro luto erat. Asse panem quem emisses, non potuisses cum altero devorare. Nunc oculum bublum vidi maiorem. Heu heu, quotidie peius! Haec colonia retroversus crescit tanquam coda vituli. Sed quare nos habemus aedilem trium cauniarum, qui sibi mavult assem quam vitam nostram? Itaque domi gaudet, plus in die nummorum accipit quam alter patrimonium habet. Iam scio unde acceperit denarios mille aureos. Sed si nos coleos haberemus, non tantum sibi placeret. Nunc populus est domi leones, foras vulpes. Nel volpe (puntualmente, arbitrariamente e erroneamente, per quanto dirò, trasformato dai traduttori in pecora) contrapposto a leone, un’amara autocritica, con la citazione della favola di Esopo che così riassumo: La volpe la prima volta che vide il leone morì quasi dallo spavento, la seconda si spaventò di meno, la terza divenne così coraggiosa da attaccarci bottone. Morale: l’abitudine rende tollerabile ciò che prima ci turbava profondamente.
* Povero illuso! Non sa che ho appena finito di appendere agli ami quei tre cazzi di re1 che mi ha riservato l’altro giorno manco fossero saraghi …
Probabilmente quello con la togna è il tipo di pesca più diffuso da chi, amante del mare, disponga di un natante di dimensioni anche minime, quali possono essere quelle di una barchetta, un canotto e (perché no?, fa pure quasi rima) un pedalò.
Ho pescato anch’io con la togna, poi un po’ per pigrizia, un po’ perché gli anni si facevano sentire ho smesso. Oggi, se mi fosse concesso, non ritornerei a farlo, prevalentemente per problemi di natura sentimentale. A scanso di equivoci: si tratta sì di questioni di cuore, ma non come comunemente intese.
Faccio, per diluire la nostalgia e per vincere il pudore, una digressione tecnica dicendo che la togna, che può essere considerata una variante del bolentino, è sostanzialmente una semplice lenza, un filo di nylon lungo dai 30 m. in su (nulla vieta di costruirsene una più corta; dipende dai fondali che si è abituati a frequentare) avvolto quando non è in uso attorno ad un pezzo rettangolare di sughero. Segue, collegata alla prima da una girella, la parte terminale costituita da uno spezzone di filo più sottile, lungo circa un metro, al quale vengono fissati ad intervalli regolari tre spezzoni di filo ancora più sottile (a ciascuna estremità viene montato un amo), mentre al capo estremo si applica il piombo.
Dopo che la parte terminale è stata armata con l’esca, la lenza viena calata in acqua srotolandola dalla tavoletta tenuta saldamente con una mano. Di solito, dopo che il piombo ha toccato il fondo (ma a seconda del tipo di pesce presente in zona talora conviene fermarsi a mezza altezza) la si solleva di poco più di mezzo metro e si resta in attesa che il pesce abbocchi. Se la giornata è quella giusta, mentre si stringe il filo tra il pollice e l’indice si sentirà uno strappo e a quel punto bisogna essere abili perché tirando con troppa energia si rischia che il pesce si slami e lasciando fare tutto a lui si rischia di sfamarlo senza alcun rischio da parte sua. Dall’entità dello strappo si può intuire la grossezza del malcapitato o il numero di malcapitati (naturalmente, non più di tre). Pari abilità e sensibilità va richiesta lungo tutta l’ascesa della preda finché non è al sicuro sulla barca. Il momento più eccitante era, almeno per me, quello dello strappo e della consapevolezza (spesso delusa …) che difficilmente il pesce si sarebbe liberato; ed erano momenti di emozione che prevalevano sull’ansia di sapere il tipo e la pezzatura della preda (molto spesso era un falso allarme, perché dall’acqua uscivano fuori solo tre cazzi di re e le bestemmie non erano certo all’indirizzo della monarchia …).
La ragione sentimentale prima accampata coincide proprio con quel momento topico dell’abboccamento, che ieri esaltava, attraverso quell’antico rituale di morte, il predatore più o meno giovane, oggi angoscia il vecchio al quale sembra una metafora della fine.
Urge un’altra digressione tecnica e con questa si concluderà il post. La voce togna solo da poco è entrata nel vocabolario italiano. Nel dialetto salentino è presente da molto tempo e probabilmente è un prestito veneziano, ma l’origine della parola è molto antica. L’etimo presente in tutti i vocabolari è quello già proposto dal Rohlfs per il salentino: dal greco volgare *ἀπετωνία (leggi apetonìa), cfr. il neogreco ἀπετωνιά (leggi apetonià) e πετωνιά (leggi petonià)=lenza per pescare”, con una correzione che coinvolge solo la cronologia e, in parte la grafia: dal greco medioevale ἀπετονία (leggi apetonìa). Non son riuscito, invece, ad avere conferma delle voci indicate dal Rohlfs come neogreche.
Togna, così, deriverebbe da ἀπετονία per aferesi da *apetògna con la stessa trafila fonetica del salentino stamegna3, solo che qui non c’è (o, meglio, non son riuscito a trovare attestazione del) l’intermediario latino. Io posso solo aggiungere che il secondo componente di *ἀπετωνία è τόνος=tensione, a sua volta connesso col verbo τείνω=tirare.
In riferimento al precedente cronologia sarebbe interessante scoprire se la voce è passata dal veneto ai dialetti meridionali (e poi, ultimamente, in italiano) oppure se ha seguito il percorso inverso.
Anche qui posso solo dire che la più antica testimonianza letteraria nel dialetto veneto risale al XVI secolo: Maffio Venier, Canzoni e sonetti, sonetto 32, v. 7: co trovo chi me prese el cuor a togna. Testimonianza coeva è nei versi 404-405 di La guerra de’Nicolotti e Castellani di autore ignoto: Fè sia, voga, premi, vegnì a lai/che a togna qua se pia de bone trute. Per il XVII secolo P. Cacia, L’ipocrisia, vv. 57-60: Un tal veste a l’usanza del Cigogna/co le scarpe de bruna e un capellazzo/che pol servir d’ombrela in Canalozzo/a quei che pesca clevoli de togna.
Per dare, non definitivamente …, un calcio all’etimologia ma soprattutto alla malinconia chiudo con i versi 49-52 della satira XII (De’ matrimonii disuniti) facente parte de Il vespaio stuzzicato di Dario Varotari il giovane (secolo XVII): No’ so come confar Zovene fresca/se possa con Mario grancio, e stantivo,/che insenco per el più, retroso, e schivo,/xè togna senza pesce, hamo senz’esca.
La traduzione è d’obbligo per agevolare il lettore sul significato allegorico che io, pur nella generica similitudine piscatoria, forse con troppa malizia, attribuisco a quel pesce … (Non so come una giovane fresca possa confarsi con un marito rancido3 e stantio, che intristito4 per lo più, ritroso e schivo, è togna senza pesce, amo senza esca).
3 Credo che sia variante di granzio=rancido (come fa supporre il successivo stantio), piuttosto che di granzo=granchio (nonostante questo evochi i movimenti lenti e quasi rattrappiti che ben si addicono, ahimè, ad un uomo avanti negli anni).
4 Insenco è variante di insenètio, dal latino in+senectus=vecchio, a sua volta da senex con lo stesso significato.
La coltivazione del lupino (Lupinus albus L.) risale a più di tremila anni addietro, e pare, che fosse molto comune anche nell’antico Egitto ove, i suoi semi, venduti cotti e salati, agli angoli delle strade, costituivano un cibo popolare diffuso fra le classi più povere della popolazione.
Il suo areale di coltivazione, che un tempo comprendeva tutta la regione mediterranea ha subito secoli di progressivo declino, in quanto, la sua granella, per essere utilizzata nell’alimentazione umana, deve essere trattata onde eliminare la lupanina, alcaloide amaro e velenoso contenuto appunto nel seme. Per quanto sopra, anche nel Salento il lupino è stato sempre considerato un legume povero, destinato con le dovute cautele prevalentemente agli usi zootecnici, tanto che la sua coltivazione si è nel tempo sempre più sporadicizzata, limitata alla produzione di foraggio verde e soprattutto al sovescio.
Negli ultimi anni, in seguito alla selezione di nuove varietà a basso contenuto di lupanina, questo legume sta in diverse nazioni riconquistando velocemente terreno, anche grazie alla sua grande produttività, alla scarsa laboriosità della coltivazione e al fatto che offre ottimi risultati anche su terreni poveri e aridi, che grazie alla capacità che hanno queste piante di fissare l’azoto atmosferico, vengono anche migliorati a vantaggio delle coltivazioni successive. L’interesse però è enormemente cresciuto quando recenti indagini biochimiche hanno rilevato in esso
Elemento insopprimibile nell’abbigliamento contadino, il grembiule assolveva a delle funzioni precise, che andavano oltre quelle semplicistiche di tutela del vestito o quelle vanitose di un ornamento, pur tenendo conto della bellezza di alcuni grembiuli da festa, tessuti in casa con fantasiose greche a più colori o addirittura ricamati.
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
(…) Il grembiule aveva un suo significato simbolico, sicché quello che una donna non voleva o non poteva dire a voce, lo esprimeva attraverso i suoi movimenti, le sue pieghe, il modo di indossarlo o sventolarlo. Se una ragazza, sotto lo sguardo insistente di un giovanotto, fingeva di dare un’assestatina al suo grembiule spostandolo sia pure leggermente verso destra, era segno che il giovanotto le era simpatico e che quindi putìa mannàre (poteva mandare), cioè rivolgersi tranquillamente ai genitori per chiedere la sua mano. Lo stesso gesto però, se compito da una donna sposata, o all’indirizzo di un uomo sposato, veniva giudicato indice di lascivia, impudica mossa di adescamento, e come tale capace di suscitare risentimenti e liti. Non per nulla il grembiule veniva chiamato “mmùccia irgògne” (“coprivergogne”) e “pignu t’onestàte” (“pegno d’onestà”): spiombando dalla cintola in giù, fin sotto il ginocchio, lo si considerava idealmente uno scudo posto a difesa delle parti intime, e una contadina onesta, che ci teneva a conservarsi e ad apparire tale, non si permetteva mai di circolare per le strade senza grembiule, poiché sarebbe equivalso a mostrarsi quasi nuda.
Pure se oggettivamente il corpo era già nascosto fino ai piedi dalla voluminosa arricciatura di più gonne sovrapposte, era infatti sempre e solo al grembiule che si affidava l’ufficiale dissimulazione delle forme, ritenendolo una schermatura quasi magica, una specie di cintura di castità capace di rintuzzare ogni eventuale tentazione di sguardo. Indossarlo era come infilarsi le mutande (indumento a quell’epoca pressoché sconosciuto alle donne popolari e totalmente assente dalle liste di corredo) e acquisire, per processo psicologico, una certa libertà di comportamento, in quanto già in partenza si era salve nella pudicizia. E dell’obiettività di questa interpretazione, che potrebbe apparire anche esagerata, si ha la prova rifacendosi a particolari circostanze, in occasione delle quali il grembiule assurgeva a sintesi di vestitura.
D’estate – tanto per fare un esempio -, trovandosi le famiglie accampate in campagna, nei pagliai, private dell’intimità della casa, capitava spesso, nel clima di quella sana allegria che autorizzava a un brioso cameratismo fra gli abitanti dei vari pagliai, di essere svegliati nel colmo della notte perché fatti oggetto di un’improvvisa serenata o di un altrettanto improvvisato scherzo. Svegliati di soprassalto occorreva uscire in fretta all’aperto, senza avere il tempo materiale di infilare pantaloni, allacciare gonne o indossare corpetti, anche perché nei pagliai lo spazio a disposizione era così esiguo da non concedere libertà di movimenti. Per fortuna ciò non creava problemi alle donne: sulla scia degli uomini, che balzavano lesti presentandosi come fantasmi nel biancore dei lunghi carzunètti spicàti (mutandoni confezionati con pesante tela tessuta a spina di pesce), anche loro non trovavano nulla di strano a mostrarsi solo protette dalle ampie e lunghe camìse barbarèsche (camicie avana tessute con cotone barbaresco) purché su queste (che in fatto di copertura erano più di un vestito) avessero avuto modo e accortezza di indossare il grembiule, tenuto, per previggenza, a portata di mano vicino al pagliericcio. A criterio loro, e di chi le stava guardando, erano perfettamente a posto e, se si dava l’occasione, potevano anche ballare la pìzzica pìzzica (la tarantella), tanto lu mantìle nc’era (il grembiule c’era) e un eventuale occhio peccaminoso no llu putìa caurtàre (non lo poteva – allusivamente – bucare). Usbergo da vive e usbergo da morte: essere seppellite senza grembiule era la più temuta delle ipotesi, poiché equivaleva a doversi presentare a Dio in abbigliamento impudico e di conseguenza macchiate d’impurità. Ciò spiega come nel profilarsi di un pericolo – uragano, temporale o scossa tellurica – si aveva premura a indossarlo, nel timore che il fenomeno naturale degenerasse in vera calamità e arrivasse a determinare non soltanto la morte, ma anche, per necessità contingenti, una sepoltura affrettata delle eventuali vittime. “Arménu l’àngilu ti Ddiu cu nni ttròa cu llu mantìle” (“Almeno che l’angelo di Dio ci trovi col grembiule”), dicevano annodandolo in fretta, e aggiungevano: “… e Ccristu cu nni éscia la ‘ntesiòne” (“… e Cristo che ne apprezzi l’intenzione”).
Questo elevare il grembiule a simbolo di santa morte raggiungeva il suo acme nelle morti di parto, più specificamente quando madre e figlio soccombevano insieme prima che quest’ultimo potesse ricevere il battesimo. In questi casi si usava comporre le due salme in un’unica bara, posando il neonato sul ventre della madre e coprendolo con il di lei grembiule, quasi fosse ancora nel grembo. Anche alle mani della morta si dava una sistemazione originale: non si intrecciavano sul petto come quelle di tutti i cadaveri, ma si stendevano diritte lungo i fianchi affinché potessero simbolicamente reggere le due cocche estreme del grembiule, che venivano fermate passandole fra dito e dito. E ciò come supplica, come indicazione specifica al Padreterno che – si credeva – in grazia dell’onestà della madre, rappresentata appunto dal grembiule, non avrebbe condannato al limbo l’anima non battezzata. Una raccomandazione in extremis, tesa a imporre una valenza di meriti indiretti e che, vista nel contesto di un patteggiare fra terra e cielo, poteva suonare arbitraria; al contrario, non deve sorprendere, poiché il suo azzardo era soltanto apparente, in quanto non nasceva come presuntuoso accampare diritti, bensì come richiesta di misericordia. Oltretutto, affidandone il messaggio al grembiule, si attuava, sia pure inconsciamente, uno scavalco del momento, poiché ciò che era strumento a livello oggettivo finiva con l’assurgere a riferimento di una realtà collettiva, tracciando l’identità di un popolo, ossia una condizione di vita (e di morte) che era situazione sociale.
Nel grembiule simbolicamente veniva a raffigurarsi lo spazio agreste, habitat di una classe subalterna abituata fin dalla nascita a mendicare tutto, non escluso il lavoro, visto alternativamente o come dovere da compiere, o come grazia da ricevere. Dovere che, per le donne, si configurava nella sostanza di sfibranti giornate trascorse, dall’alba al tramonto, nel folto degli oliveti a raccogliere, mantilàta rretu mantilàta (grembiulata dietro grembiulata), le olive del padrone sotto lo sguardo severo del fattore, sempre avaro nel concedere soste allo spezzarsi delle schiene. Grazia che, nel suo colmo, tornava ad accendere l’immagine di un grembiule più o meno gonfio di spighe sfuggite alla falce e per contratto vantaggioso concesse all’industriosa spigolatura delle donne, che fra le stoppie, sfidando le punture delle tarantole, le contendevano alla fame delle capre.
Da queste grazie strappate ai padroni alle grazie da impetrare dal cielo il passo era breve, e non occorreva, sia pure in allusivo, mutare recipiente di raccolta. Nessuna meraviglia se in chiesa, durante la recita delle litanie Lauretane, giunte all’invocazione
“Mater divinae gratiae” le mani correvano all’orlo inferiore del grembiule per poterlo tempestivamente sollevare in sincronia con il collettivo espandersi dell’”Ora pro nobis”. Oltretutto il gesto nasceva dalla volontà di mutare in liturgia il quotidiano affanno, affinché si stabilisse una propiziatoria omologia fra attese contadine e speranze cristiane, fra grano che sbuca e Cristo che risorge, fra madre terrena che suda e Madre celeste che dona.
Tendere il proprio grembiule, molleggiandolo a mo’ di coppa, significava porsi in attesa della provvidenza, avere fiducia nella provvidenza, e nello stesso tempo propiziarsela con un atto di umiltà: con tale gesto non ci si uniformava forse al comportamento delle pezzenti, che bussando alle porte o sostando ai crocicchi, più che tendere la mano, preferivano tendere il grembiule? “Mantìle cerca a ssuffraggiu pi’ lli muérti” (“Grembiule chiede a suffragio dei morti”), era la loro formula d’uso; una frase che veniva mutata soltanto durante la settimana santa, quando protendendo il grembiule dicevano: “Mantu ti la Nduliràta pi’ lli pene ti Cristu”. Presentare il grembiule come “Mantello della Vergine Addolorata (che chiede) per le pene di Cristo” conferiva, allo stesso, simbolo di sacralità, tanto da indurre gli offerenti più religiosi a tributargli un segno di bacio prima di deporvi l’obolo. Gesto significativo che toccava financo il cuore dei nobili, i quali, pur essendo refrattari a ogni commistione con gli usi popolari, non esitavano a suggerirlo alle loro donzelle come fioretto quaresimale.
Tutto ciò non deve però far credere che il grembiule fosse esentato dall’esprimere sentimenti meno pii o addirittura intenzioni bellicose. La castigatezza o sboccataggine del suo linguaggio dipendevano, oltre che dalle circostanze, dalla personalità di chi lo indossava, ché lo muoveva a sua misura e costume: come c’era la donna mite che a un rimprovero, magari immeritato, lo segnava di croce a fare intendere che era l’emblema della sua prudenza, il sigillo del suo silenzio, così c’era la donna superstiziosa che, credendo di essere oggetto di uno sguardo malevolo, non ci pensava due volte a raccoglierne l’ampiezza in due cocche e protenderle in avanti a mo’ di corna; o quella ancora più volgare che non si peritava, in occasione di un acceso diverbio, a sollevarlo stizzosamente, intendendo con ciò gratificare la parte avversa di una mossa sconcia, equivalente al “Toh, prenditi questa!” o, più chiaramente, al torcersi sgarbatamente e presentare il posteriore. Altrettanto irriguardoso era il gesto di sventolarlo, sia che lo si facesse ondeggiare in linea orizzontale, sia che lo si scuotesse in senso verticale, cioè dall’alto in basso. Ferma restando la sostanza, cioè il disprezzo, i due movimenti avevano significati diversi: col primo s’intendeva scacciare la persona antipatica o importuna, declassandola al rango di mosca, insetto ritenuto il più molesto e usualmente allontanato, appunto, sventolando il grembiule. Il secondo movimento, al contrario, risultava indiretto, cioè destinato non all’interlocutrice del momento, ma a una persona assente, della quale si stava pettegolando e alla quale si voleva far pervenire, in cifrato mimico, un acidulo “Di te me ne sbatto!”.
Contestualizzato nei significati tipici della cultura contadina, il grembiule si avvaleva infatti di un suo preciso codice, e nello scambio fra emissione e ricezione riusciva a creare la situazione, relazionando meglio e più in fretta delle parole. Un padrone che, arrivando sul fondo, si vedeva venire incontro la contadina con il grembiule arrotolato sui fianchi e fermato alla cintola, capiva subito che la stessa gli si era rivoltata contro e, da ribelle, diciamo pure da maschio a maschio, era pronta a sfidarlo. Punta massima di sfida, atto di estrema sfrontatezza solo paragonabile all’indicibile malacriànza (maleducazione) ti nnu illànu (di un villano [contadino]) che avesse avuto l’ardire di presentarsi a parlare a llu patrùnu (al padrone) tenendo ‘nchiuàta an capu la còppula (inchiodata in testa la coppola). Tanto coraggio, però, i poveri contadini raramente lo avevano, e per far valere le loro misere rivendicazioni trovavano più conveniente far parlare le mogli, le madri, le sorelle, anche perché la frattura generata dal comportamento di una donna risultava sempre accomodabile.
Se la faccenda avesse preso una brutta piega, generando magari lo sfratto dal fondo, si poteva sempre fingersi sdegnato contro la scrianzàta (screanzata) che aveva provocato lu jastimàtu sgarru (il maledetto errore) e convincere il padrone a non tenere conto ti nna cuccuàscia ca canta a mmenzatìa (di una civetta che canta a mezzogiorno, cioè a sproposito), facendo presente che, sia in casa sia sul fondo, li càusi àlinu e nno lli stiàni mmappisciàti (i pantaloni valgono e non le gonne fruste, cioè è da tenere in considerazione la parola dei maschi, non quella delle donnette), giacché la fémmina tene lu capìddhru luéngu, ma lu sensu éte curtu! (la donna tiene lungo il capello, ma corta l’intelligenza!). Che se poi il padrone si fosse mostrato irremovibile, ci avrebbe pensato la stessa donna a sanare il conflitto, buttando con insuperabile maestria acqua sul fuoco.
Le donne salentine avevano nelle vene sangue greco, per trasmissione atavica erano predisposte alla finzione scenica, specie se la stessa comportava ruoli tragici, basati sulla potenza magica della parola e del gesto. La loro vena recitativa istintivamente si scaldava al fiato delle occasioni, e con la stessa efficacia con la quale sapevano farsi valere nel ruolo di vespe arrabbiate, sapevano calarsi nei panni della mortificazione, del pentimento, della sottomissione. Sicché lo screzio, che aveva avuto inizio nella spavalderia di un grembiule arrotolato sui fianchi, si concludeva nel silenzioso spiombo di un grembiule scuro che, in quel caso, oltre a velare il corpo, nascondeva anche le mani.
Nascondere le mani sotto il grembiule equivaleva infatti a una dichiarazione di disarmo, oltre che di umiltà e afflizione; un metaforico regredire negli anni e quasi annientarsi nell’immagine di un’infanzia povera, per la quale il grembiule della madre, e più ancora quello della nonna, rappresentava uno spazio sacro, una specie di marsupio, una provvidenziale tenda sotto la quale rifugiarsi nei momenti di paura, di vergogna, o anche semplicemente di freddo. Sedimentazioni sopravanzate a tempi d’innocenza, per necessità convertite in mediazione dialettica nei rapporti sociali, ma non per questo meno incisive nel loro riproporsi, poiché spesso si innescavano e si configuravano come amari rigurgiti nelle situazioni più scardinanti dell’esistenza, prime fra tutte quelle di lutto. Allora sì che il gesto di nascondere le mani sotto il grembiule nasceva istintivo, poiché a determinarlo non era tanto la convenzionalità di una formula di rispetto, quanto il gelo stesso del trapasso, assorbito come brivido di sconfitta, di totale impotenza di fronte all’ineluttabile transitorietà della vita. E questo sia che la morte fosse cicòra ‘ngnuttùta (cicoria inghiottita), cioè assaporata direttamente attraverso la scomparsa di un proprio caro, sia che si proponesse come fiézzu ti cipòddhra nnanti ll’uécchi (puzza di cipolla davanti agli occhi), cioè avvenimento che portava al pianto per condivisione di pena. Unica differenza fra i due casi, la posizione delle mani: le donne direttamente interessate al triste evento se le adagiavano sul grembo, piuttosto in basso, appaiate come ali e in posa di abbandono, quasi fossero inerti. Le altre le intrecciavano a simbolo di preghiera, mantenendole alte, subito dopo la cintola, e protendendole in avanti, il che le faceva emergere da sotto la velatura del grembiule a guisa di misteriose pigne.
Posizione quest’ultima assunta non soltanto durante le veglie funebri o in occasione di visita nelle case in lutto, ma anche al passaggio di un funerale, a meno che non si trattasse del transito di un uomo ritenuto indegno di rispetto o, peggio ancora, delle esequie di una donna giudicata leggera, nna svirgugnàta insomma, per la quale non c’era condivisione di pena e all’indirizzo della quale impietosamente si diceva “No tti tocca salùtu ti mantìle” (“Non ti spetta saluto di grembiule”). Giudizio sommario che il più delle volte era stato pronunciato in occasione della veglia funebre o addirittura durante la vestizione della morta, alla quale era stato contestato e magari negato il privilegio di presentarsi all’altro mondo con il grembiule, ché in quel caso – si diceva – sarebbe stato no ggiustu mpellu (non giusto appello) alla misericordia divina, ma ‘nfamitàte ti buscìa (bugia infame).
Vissuta nella pietà o nell’astio, nel cordoglio o nel pettegolezzo, la morte era cronaca di ogni giorno, trafiletto paesano delineato dal suono delle campane, la cui voce, oltre a conferire spessore al rito di sepoltura, concorreva a richiamare l’attenzione sull’accadimento.
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Questo contributo è tratto dal volume “Tre Santi e una Campagna, Culti magico-religiosi nel Salento fine Ottocento”, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, 1994 (Capitolo “Li fronne ti Santu Cristòfuru”, pagg. 294-300).
Il fico d’India, è una pianta appartenente alla famiglia delle Cactacee e al genere Opuntia, caratterizzato da una moltitudine di specie, la maggior parte delle quali d’interesse ornamentale. La specie più importante dal punto di vista colturale e alimentare, è l’Opuntia ficus indica Mill., della quale si distinguono diverse cultivar in base alla colorazione della polpa del frutto (cui corrisponde in genere la colorazione della buccia) bianca, gialla, rossa.
Si conoscono, anche se poco diffuse, delle varietà a frutto senza semi (apirene) e la Burbank (Opuntia inermis), caratterizzata dall’assenza di spine. Le cultivar più diffuse nel Salento sono: quella a polpa gialla, molto produttiva; seguita a ruota dalla varietà a polpa rossa e a distanza dalla cultivar a polpa bianca.
La pianta risulta da un aggregazione di articolazioni carnose costituenti le pale o cladodi, queste, in periferia hanno consistenza succulenta e risultano tenere e appiattite, man mano, avvicinandosi alla base, acquisiscono consistenza fibro-legnosa, ingrossano e costituiscono il fusto. Le foglie, sono appena visibili e nascono alla base di varie gemme sparse sulla superficie delle pale. Intorno alle gemme sono disposti gli aculei, o setole, più o meno lunghi e rigidi. Dalle gemme situate sui
Nel rispetto di una tradizione fortemente consolidata, anche quest’anno, il 12 d’agosto, hanno avuto luogo le celebrazioni religiose e civili in onore della nostra amata e venerata Madonna del Rosario di Pompei.
Festeggiamenti, incentrati, com’è noto, nel trasferimento in processione del simulacro della Vergine dal Santuario al porto e, dopo la celebrazione dell’Eucarestia sul relativo piazzale, nell’uscita in mare, breve pellegrinaggio simbolico, insieme con un nutrito corteo di natanti, lungo il tratto di costa delimitante i confini territoriali di Castro.
Qui, invero, il rito d’insieme va ben al di là degli aspetti esteriori e meramente materiali tipici d’una festa del genere, essendo, soprattutto, sentito nell’animo degli abitanti e rappresentando, a ogni ripetersi, una vera e propria pietra miliare di fede e devozione. Ciò, a testimonianza del forte e intenso legame fra la Madre di Dio Vergine del Rosario benedetto e la gente del posto, con abbraccio, anche, del lavoro e delle attività ruotanti sul mare e intorno al mare.
La manifestazione, programmata da sempre durante la stagione estiva, è, dunque, attesa dalla comunità locale in maniera particolare, ma è partecipata e vissuta anche dai turisti e visitatori e da moltitudini d’affezionati che convergono a Castro dai paese vicini.
Pure l’autore di queste note “sente”, con intima e spontanea naturalezza, l’avvenimento, la festa della “Madonna mmenzu mmare” forma per lui un tutt’uno con il periodo estivo e con l’arrivo dei nipotini che, trascorrendo nel Salento almeno una parte delle loro vacanze, gli arrecano ventate di gioiosa, affettuosa e insostituibile compagnia.
Il corrente 2014, in più, ha segnato per lui un ulteriore speciale tassello nel legame interiore con la Madre Santissima, coincidendo con un anniversario, anzi traguardo, importante, certamente non comune se non unico, che ha visto l’intera famiglia riunirsi nel Santuario, ai piedi della statua della Vergine: com’era avvenuto il 18 aprile 1964, così è stato il 20 aprile 2014, ricorrenza, quest’anno, della Pasqua di Resurrezione.
Memore dell’anzidetto lontano 18 aprile, con un giovanissimo in attesa della sposa, a metà mattinata, sotto le scale che conducono all’interno del Santuario, allo stesso modo, lo scorso 12 agosto, il ragazzo di ieri ha scelto di passare dalla suggestiva chiesetta, per un pensiero in anteprima alla Protettrice: ed è stato assai bello trovare ogni cosa a puntino, fiori semplici e aggraziati nelle aiole fuori e, all’interno, il luminoso baldacchino reggente la statua della Madonna.
Pressoché nessuno intorno, solo un abitante doc di Castro, Nino mulese, avvicinato da un compaesano che gli faceva notare la bellissima “biancata” (mare calmissimo) di quel mattino, con la contemporanea, scontata, osservazione di Nino “lascia stare, guarda che è da giorni che non si prende (pesca) niente”.
Nel pomeriggio, all’avvio della processione con la Madonna in direzione porto, c’è stato il passaggio da piazza Cristoforo Colombo, in zona Grotta Del Conte, una scelta che, personalmente, ho molto apprezzato e considerato carica di significato denso e profondo, di un genere, purtroppo, assai raro negli attuali tempi: la Madre di tutti si è mossa, Lei, per approssimarsi alla Casa di riposo “S. Giuseppe”, in fondo una speciale Chiesa domestica, ospitante persone anziane, nella maggior parte non autosufficienti o costrette a letto.
Solenne, al solito, la successiva Santa Messa nell’area portuale e ricca di spunti l’omelia del Vescovo celebrante, cerimonia partecipata da moltissimi fedeli.
A seguire, il sempre affascinante corteo in mare, con il simulacro della Vergine ospitato a bordo della motobarca “S. Rocco”, nell’occasione arricchita di luci e di fiori.
A proposito della processione in parola, vengono alla mente di chi scrive le modalità delle uscite risalenti a sessanta – sessantacinque anni fa, quando le barche di Castro erano tutte rigorosamente a remi, senza motori o altri mezzi di propulsione o movimento, e però di gran lunga più numerose delle attuali. Giacché, all’epoca, la larghissima prevalenza dei residenti era fatta di pescatori, si sosteneva con la fatica in mare.
Rammenta, ancora, l’autore delle presenti righe, la sua primissima uscita al seguito della processione, datata 29 agosto 1947, giorno in cui veniva alla luce sua sorella Teresa, la quale, non a caso, porta il secondo nome di Pompea. E, negli anni successivi, le sistematiche analoghe “navigazioni” su battelli di pescatori castrioti, per accompagnare la Madonna nel tratto dalla Grotta Zinzulusa sino all’insenatura Acquaviva.
Con riferimento più o meno a tali lontane stagioni, è casualmente venuta fuori una fotografia di lavoratori del mare, accanto a un gozzo a remi con reti da pesca a bordo e, seduta accanto sullo scalo, un’anziana donna con abito nero e fazzolettone di eguale colore in testa, intenta a rammendare, appunto, le reti; vi sono raffigurati volti tuttora noti e ricordati in paese, ovviamente dalle persone di una certa età, ossia a dire Peppino Ciriolo e i fratelli Gino e Gabriele Capraro soprannominati schirosi.
Anche in occasione della festa testé svoltasi, una volta che il corteo di barche ha fatto rientro nella rada e prima del ritorno della Madonna nel suo Santuario, c’è stato lo sparo di bellissimi, entusiasmanti e affascinanti fuochi pirotecnici, per il godimento di svariate migliaia di persone, con gli occhi verso l’alto sulla volta blu, oppure sulla distesa d’acqua ad ammirare gli ammalianti giochi di luccichii che vi si susseguivano.
In parallelo, uno spettacolo silenzioso d’impronta maggiormente tradizionale e però parimenti accattivante è stato, a mio avviso, il lancio di una lunga sequenza di palloni aerostatici, che apparivano nel momento dell’iniziale, e gradualmente vie più celere, ascesa dalla punta di Pizzo Mucurune o da qualche terreno o abitazione nei paraggi.
Ecco, fuochi d’artificio coloratissimi, moderni con effetti anche sull’acqua e palloni fatti di materiale cartaceo, con, alla base, una fiammella o lucina, un indovinato e indicativo binomio fra passato e presente, o viceversa che dir si voglia, a testimonianza che, nonostante le grandi differenze e le novità che s’inanellano di pari passo con lo scorrere del tempo, le stagioni della vita dei singoli e quelle sociali in genere possono egualmente conservare punti di riferimento e di continuità in comune.
Al termine di queste osservazioni e riflessioni, mi piace sottolineare il transito della statua della nostra Madonna del Rosario accanto alla scala o rampa Italia, appena riaperta al pubblico, che, come si sa, conduce direttamente dalla “piazzetta” al Santuario, nonché lungo l’intero fronte del medesimo cuore della Marina, ricostruito dopo il crollo del 31 gennaio 2009.
Più di una volta ho approfittato dell’ospitalità di questo blog per stigmatizzare il tragico ritardo dell’Italia nella digitalizzazione, immissione in rete e libera e gratuita fruizione di tutto il nostro patrimonio culturale custodito in musei, biblioteche ed archivi, per il quale non sia coinvolto il diritto alla privacy o quello d’autore. Oggi le mie osservazioni riguardano un’istituzione europea il cui sito digitale vanifica in una contraddizione clamorosa (da qui il titolo) le finalità per le quali solo dovrebbe avere ragione di esistere. Mi riferisco all’Europeana, sulla quale il lettore potrà trovare informazioni più dettagliate in http://it.wikipedia.org/wiki/Europeana, nonché la conferma di tante promesse clamorosamente disattese (difetto, una volta tanto, copiato dall’Italia che in questo campo detiene da decenni il titolo mondiale …). Visitando casualmente il suo sito ho digitato Nardò nell’apposita casella di ricerca nell’home page (http://www.europeana.eu/). Al 16° posto della prima pagina dei risultati mi ha colpito l’icona che di seguito riproduco.
Nemmeno sotto tortura avrei rinunziato a cliccarci su con l’unico dito (non sto a specificare se delle mani o dei piedi) ancora integro. Così ho fatto ed è apparsa una scheda con sulla sinistra un’altra icona, cliccando sulla quale è possibile visionare le pagine del documento che di seguito riproduco con il testo trascritto a fronte, anche perché la bassissima definizione ne rende molto difficoltosa, a tratti impossibile, la lettura, che, tuttavia, ho potuto effettuare quasi integralmente grazie all’ausilio che i moderni programmi di grafica offrono in questi casi.
La stampigliatura superiore, nonostante gli sforzi, mi è rimasta illeggibile. Di seguito: Documenti riguardanti il soldato Ciccarese Rosario, caduto nella guerra mondiale.
28 maggio 1917/Ciccarese Rosario di Cosimo/Nardò (Lecce)/Rog1 Napoli/23 ottobre 1915
Qui è evidente che si tratta del ritaglio di un giornale. Avrebbe fatto bene chi ha usato le forbici ad aggiungerci la testata o, almeno, ad annotarne il nome e la data. A questo aggiungasi la digitalizzazione schifosa e si comprenderà come sia stata confezionata una bella frittata. Di essa son riuscito a recuperare solo : Un altro eroe ha dato Nardò all’attuale guerra. Il giovane Rosario Ciccarese di Cosimo …………………….. Lascia il padre vecchio e la madre, da parecchi anni pazza, alla quale egli aveva dedicato la sua vita …
Speravo che l’idiozia venisse ridimensionata dall’Europa, ma, evidentemente, da burocrati strapagati per dimostrare la loro genialità partorendo norme sulla pezzatura della melanzana barese e simili, mentre si guardano bene, per esempio, dall’imporre stampigliature facilmente leggibili sulle etichette (possono fare tranquillamente la concorrenza a certe clausole presenti su svariati modelli contrattuali leggibili solo se al momento si dispone di un microscopio elettronico di ultima generazione) e la loro applicazione in zone della confezione che non obblighino il consumatore ad una sorta di caccia al tesoro, non ci si poteva aspettare di meglio.
Mi ero illuso di poter integrare le lacune nella lettura quando mi sono accorto che lo stesso documento è presente anche in http://www.14-18.it/documento-manoscritto/mcrr_caduti_62_46/1 e non mi dilungo a raccontare con quanta trepidazione ho cliccato sulla lente d’ingrandimento ai piedi di ogni miniatura, ma, provate a farlo pure voi, si instaura un loop di caricamento senza fine e, naturalmente, senza risultato. Mi chiedo a che serva, se non a giustificare lo sperpero di denaro, accettare chiavi in mano senza alcun controllo alla consegna una prestazione informatica in cui la metà più importante (che me ne faccio di un documento illegibile?) non funziona.
Meno male che a distanza di quasi cento anni è leggibile ancora chiaramente il nome del valoroso soldato sulla lapide commemorativa dei caduti neretini della prima guerra mondiale posta sul palazzo comunale in Piazza Salandra.
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1 Quasi sicuramente è un’abbreviazione: Rog(avit)=chiese? A tal proposito chiedo l’aiuto di qualche lettore che abbia esperienza di burocrazia militare ad ogni livello. Comunque, se la mia informazione dovesse essere confermata significherebbe che i documenti qui raccolti furono chiesti da Napoli il 23 ottobre 1915 e furono pronti solo il 28) maggio 1917. Altra ipotesi è che Rog sia da leggere come Rog(ato) a Napoli e in questo caso, naturalmente, cadrebbe la mia illazione sulla lentezza della burocrazia che, comunque, avrebbe proprio nei tempi di guerra un’attenuante non trascurabile.
2 Dovrebbe trattarsi di un aggettivo (la parte finale della parola pare essere –ntiva) e dovrebbe, dunque, indicare il tipo di frattura. Confido, questa volta, nell’aiuto di qualche lettore traumatologo.
3 La parte iniziale della parola sembra essere strap- e dovrebbe indicare un tipo di bomba austriaca. C’è qualche lettore esperto di cose militari che possa aiutarmi per la seconda volta?
Nardò:/sia benvenuta ogni location/ma -No!-/diciamo ad ogni deformation/; Nardò:/sentir si possa ancor più spesso -Action!-,/però attenti ad ogni exageration!
Nella cantilena-titolo costituita da secondine (la metrica tradizionale era rimasta ferma alle terzine; prima che qualcuno mi rubi l’idea dovrò comporre qualche cosa in rima in cui compaia almeno un’unina …) ed endecasillabi, cantilena immonda ma, forse, non quanto lo è più di un testo di un rapper osannato, magari, da stuoli di ragazzine, spiccano alcune voci inglesi che ho introdotto a bella posta per attirare l’attenzione del lettore, italiano in primis …
Avrei potuto sostituire location con ambientazione ed action con azione senza pagare alcun tributo alla metrica e, in particolare, alla rima, ma vuoi mettere il fascino di una spruzzatina di inglese posta qua e là? La cosa paradossale (per me ridicola …) è che forse solo gli italiani (e parecchi …) non sanno che location è una formazione moderna dal latino locatione(m)=collocazione, disposizione, affitto, contratto, che action è dal latino actione(m)=attività, azione, atto e che deformation è dal latino deformatione(m)=deformazione, degrado.
– E con exageration come la mettiamo? – mi sembra di sentire dal mio orecchio destro il rimprovero di qualche professore di inglese che, oltre la laurea, può vantare più di un master (non di quelli alla Oscar Giannino …).
– Confermo quanto sostenuto dal collega e aggiungo che exagération è voce francese – capta subito dopo il mio orecchio sinistro da un professore di francese anche lui plurititolato come il precedente.
Quando ormai ho deciso di prenotare una visita dall’otorino, tutto torna alla normalità perché sento perfettamente da entrambe le orecchie la mia risposta : – Avete entrambi ragione. Lo ammetto, l’inglese exageration è una mia invenzione ma, alla luce di quanto ho detto e in considerazione che proprio il francese è stato l’intermediario del passaggio nell’inglese di molte voci derivanti dal latino, non c’è da aspettarsi che tale passaggio, prima o dopo, avvenga? E, se ho esagerato, che exageration sia, tanto più che la voce francese deriva dal latino exaggeratione(m)=accumulazione, amplificazione, esagerazione, iperbole -.
Vorrei vedere ora (si avvererà mai il sogno?) che colore assumerebbe il volto dell’insegnante di italiano (non esistono, tra le lingue cosiddette vive, solo il francese e l’inglese!) che, dopo aver sottolineato come errore grave un esaggerare, dovesse sentirsi replicare dall’allievo che egli ha solo seguito la scrittura etimologica e, calcando la mano, che non si azzardi in futuro, per la stessa ragione, a sottolineare un eventuale imagine [dal latino imagine(m)] per immagine. Se io fossi ancora insegnante, mi congratulerei col mio alunno ma gli farei presente che sarei, però, spietato (che verme!, con tutto il rispetto per quelli veri) se gli scappasse un eventuale immaggine …
Mi accorgo solo ora (dopo verme, pure ipocrita!) di essermi attardato un po’ troppo in queste divagazioni filologiche e di aver dimenticato la nostra Nardò, la cui vocazione turistica si può concretizzare anche nel fungere da scenario a riprese cinematografiche e televisive. L’occasione si è ripetuta frequentemente in questi ultimi anni e questo può fare solo piacere per gli effetti anche economici che la notorietà induce.
Segue un elenco certamente incompleto (sarò grato a chiunque segnalerà integrazioni atte a far lievitare l’orgoglio cittadino …) in ordine cronologico, in cui il volenteroso e paziente lettore potrà incontrare qualche sequenza che immortala le bellezze del nostro territorio (feudo è una parola che odio per le evocazioni storiche che implica …). Nell’augurare buona visione mi permetto di fare un’osservazione finale rivolta a chi in futuro dovesse sceglierci ancora per il suo lavoro: gli saremo certamente molto grati se saremo costretti a ripristinare (ahimè per poco!) il decoro (in primis la pulizia) dei luoghi ma ancor di più se le riprese saranno così fedeli da restare nel tempo come testimonianza attendibile del loro stato contemporaneo (per quanto solo momentaneamente migliorato …), promettendo di non renderci più protagonisti di inconvenienti assurdi, stupidi e ridicoli come quello documentato in http://www.portadimare.it/cronaca/10357-video-foto-chiese-150mila-euro-a-biagio-antonacci-perche-una-cappella-rurale-appariva-nel-video-girato-a-nardo.
Il link appena segnalato si riferisce al filmato n. 6 dell’elenco; qualcosa mi dice, però. che parecchi lettori andranno subito al n. 2 … Lo facciano, ma non tutti insieme, perché così intaseranno la rete e io con quest’ultima ci lavoro … seriamente.
8) Il peccato e la vergogna 2 (2013); non son riuscito a trovare su youtube lo spezzone in cui compare Nardò.
Per ultimo in ordine di citazione ma non di importanza (forse per questo non gli ho assegnato un numero d’ordine …), o, come dice chi parla bene, last but not least, un video in cui una delle protagoniste è una bellezza neretina, questa volta in carne ed ossa: https://www.youtube.com/watch?v=XxCso8WgvGg(intorno a 40″).
Il video visibile in https://www.youtube.com/watch?v=tUHXnX8qNog presenta il peruviano Pascual Mimbela quasi fosse l’inventore della pittura subacquea (da intendersi non come avente necessariamente per soggetto l’ambiente marino e la vita che lo popola ma come realizzata stando sott’acqua).
Dopo aver ricordato che da qualche anno in Ucraina si svolgono vere e proprie gare in cui i pittori si cimentano ad esprimere la loro creatività a profondità variabili nel Mar Nero e che parecchie agenzie di viaggi mettono in risalto la possibilità di seguire, per esempio alle Maldive, dei corsi appositi, l’orgoglio territoriale mi spinge ad affermare, sia pure con la riserva espressa nel titolo col punto interrogativo e che fra poco giustificherò, che questo tipo di pittura sarebbe stata inventata più di sessanta anni fa dal leccese Palumbo (il nome, purtroppo, non l’ho potuto recuperare ma spero sempre che qualche lettore discendente del pittore-sub possa integrare la lacuna), come dimostrerebbe il filmato de La Settimana Incom n. 00983 del 27 agosto 1953 all’indirizzohttps://www.youtube.com/watch?v=WCBg5q-w8SE.
La Settimana Incom era in pratica un cinegiornale (INCOM è l’acronimo di INdustria COrtiMetraggi) che veniva proiettato nelle sale cinematografiche, prima del film in programmazione, a partire dal 1945 fino al 1965 (2555 numeri). In contrasto con il Neorealismo, che rappresentava tutti i problemi e le incertezze dell’Italia del dopoguerra, inculcava l’idea di un futuro prospero e felice (oggi, invece …) attraverso la proposizione stereotipa di valori legati ad un’ideologia nello stesso tempo cattolica e industriale (sempre meglio, comunque, delle notizie di cronaca nera e rosa con la loro funzione distraente e, in parecchi casi, abbagliante e decerebrizzante).
Sorge, perciò, il sospetto (da qui il punto interrogativo del titolo ed i condizionali usati all’inizio) che l’intento, sempre presente nei vari numeri di questo cinegiornale, di accrescere l’orgoglio nazionale anche con la notizia di fatti insoliti e, quindi, più o meno stupefacenti, abbia qui dato vita ad una mezza bufala, perché l’operatore verso la fine si sarebbe dovuto soffermare sull’opera finita inquadrandola opportunamente prima che l’autore la ponesse a prua sotto l’ancora (ma se il quadro è fresco, i suoi movimenti, inevitabili data l’oscillazione della barca, non sono pericolosissimi per l’integrità del dipinto?). E poi, una mezza conferma io la colgo nell’ironia del commento: la sua tavolozza malgrado l’ambiente non pare da acquarello … a quest’arte nata dieci metri sotto la superficie non si può negare la profondità e nemmeno la freschezza.
Comunque, anche se le cose dovessero stare così, al Palumbo nessuno potrebbe contestare il titolo di primo autore di croste subacquee (quindi sarebbe stato, nella fattispecie, un subpittore, piuttosto che un pittore-sub …), che è già un bell’ossimoro …
Sono solo canzonette cantava sarcasticamente Edoardo Bennato nel brano di chiusura dell’omonimo album uscito nel 1980. Con lo stesso sarcasmo dico che è solo una canzonetta quella di cui mi occuperò oggi e per dimostrarlo comincio scomodando il n. 9765 del 22/11/1910 del quotidiano parigino Le Matin ( le relative immagini sono state tratte dall’indirizzo http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k569620g/f1.zoom.r=manduria.langEN).
Questa è la prima pagina.
Segue la quarta con evidenziato in rosso lo scritto del quale mi occuperò oggi.
È un racconto dal titolo La lampe (La lampada) inserito nella rubrica Contes des mille et un matins (Racconti di mille e un mattino) e reca la firma di Franz Toussaint (per ora basti il nome). Di seguito ho riportato il testo in formato immagine, tratto, adattato ed opportunamente assemblato dall’originale, cui di mio ho aggiunto la traduzione a fronte e qualche nota esplicativa.
È giunto il momento di spendere su Franz Toussaint qualche parola per delineare la sua figura al lettore che probabilmente su di lui ne sa quanto ne sapevo io prima di leggere il suo racconto.
Nato nel 1879, morto nel 1955, fu, oltre che scrittore, traduttore, orientalista e sceneggiatore di films muti (di uno, Inch’Allah, eseguì anche le riprese nel 1922).
In questo racconto accanto alla dissimulata citazione dantesca vi è quella, imprecisa, di una canzone popolare di Manduria; ho detto imprecisa perché il verso riportato è l’ultimo si, ma, come vedremo, della prima strofa. Credo che questo sia dovuto al fatto che la citazione, secondo me è non diretta ma, per così dire, di seconda mano, cioè presa da Paul Bourget, Sensations d’Italie. Toscane, Ombrie, Grande-Grèce, Lemerre, Parigi, 1891, pagg. 278-279, cui appartiene l’immagine che segue (tratta da https://archive.org/stream/sensationsdital01bourgoog#page/n286/mode/2up) alla quale ho aggiunto, giuro che non lo dirò più …, la mia traduzione e qualche nota.
Nella nota 10 il viaggiatore Bourget parla di compagnon. Si tratta, però di un compagno di viaggio assolutamente virtuale e che si concretizza nella parole che poco prima (pag. 275) concludono un racconto riportato, sempre popolare:
Le battute del dialogo, dunque, sono state trascritte dalla brochure del signor Gigli. Questo fantomatico signor Gigli è Giuseppe Gigli (1862-1921), letterato sostanzialmente autodidatta, nato a Manduria, autore di Superstizioni, pregiudizi e tradizioni in Terra d’Otranto con un’aggiunta di fiabe e canti popolari, Barbera, Firenze, 1893. Tale libro, tenendo conto dell’anno della sua pubblicazione (1893) e di quello dell’opera del Bourget (1891), non può essere la brochure di cui l’autore francese parla, anche perché esso consta di ben 280 pagine. La brochure, perciò, sarà una sorta di edizione ridotta che precedette quella maggiore o più precisamente quel documento stampato in un numero limitato di esemplari di cui lo stesso Gigli parla nella prefazione:
Nella lettura, inviata presumibilmente anche al Bourget, compariva probabilmente solo la prima strofa (che poi l’autore francese trascrisse) della canzone, il cui testo completo comparirà, nel citato lavoro del Gigli uscito nel 1893, inserito nel capitolo che reca il titolo Il ballo della tarantola , capitolo che occupa le pagg. 66-71; qui, però, per brevità riprodurrò questa sezione fino al testo della nostra canzone, cioè le pagine 66-68) tratte, come la prefazione, dal link dove l’opera può essere letta integralmente (https://archive.org/details/superstizionipr00giglgoog):
Riassumiamo ora cronologicamente i fatti:
Fine 1888: Giuseppe Gigli raccoglie le testimonianze popolari che esporrà in una conferenza il 18 gennaio 1889. Di lì a poco stanperà la lettura e la invierà a molti dotti folkloristi d’Italia, di Francia (tra questi quasi sicuramente il Bourget) e d’Inghilterra.
1891: Il Bourget pubblica il suo lavoro e riproduce la prima strofa.
1893: Il Gigli pubblica il suo lavoro con il testo definitivo della canzone. Da notare che la prima strofa presenta varianti rispetto al testo riportato dal Bourget. Credo che siano errori di trascrizione di quest’ultimo: cacciati per càcciami; ai per aìa.
22/11/1910: Su Le Matin viene pubblicato il racconto La lampe di Franz Toussaint che fa un figurone quando, a proposito di Ai nu cori e lu donai a ti!, non esita a dire che è l’ultimo verso della malinconica canzone di Manduria. Il lettore noterà che il verso appare con le varianti segnalate nel Bourget.
Conclusione: Franz Toussaint avrà nella circostanza (che potrebbe anche essere parzialmente autobiografica visto che svolse il servizio militare in Marocco) fatto un figurone ma, essendo il testo del Gigli uscito ben diciassette anni prima, mostra di non essere aggiornato (questione di rete? …). A tal proposito si potrebbe discutere per secoli sulla libertà e sull’innocenza dell’artista, al quale, si dice, tutto va perdonato, compresi certi dettagli che eventualmente affliggano i suoi ricalchi, anche quando essi potrebbero apparire come citazioni infedeli …
Non sarà questo, comunque, l’ultimo ricordo della canzone di Manduria, perché Ernesto De Martino in La terra del rimorso, Il saggiatore, Milano, 1961, pag. 165 così scrive: In questa trasfigurazione dei patimenti d’amore, la donna tormentatrice diventa corega di una vicenda musicale in cui gli strumenti e le loro parti sono il corpo e l’anima dell’amante tormentato: un tema particolarmente adatto a far da orizzonte ai contenuti critici assunti di volta in volta nel rituale coreutico-musicale del tarantismo. In un canto della Terra d’Otranto raccolto verso il 1889 dal Gigli in Manduria, l’eros precluso si esprime in una lirica lavorata col noto tema popolare del distacco dell’amata per una partenza forzata.1
Segue il testo della canzone in cui, rispetto a quello del Gigli si notano queste varianti: v. 1: allegro per allegru; v. 2; cacciàti per càcciami; v. 4: donai per dunai; tia per te; v. 5: arrivederci per arrividerci; addio per addiu; v. 6: non per nu; di per ti; v. 7: non per nu; mio per miu; v. 8: mentre per mentri; sorte per sorti; lontano per luntanu; v. 10: fama per fiama; v. 11: e per ma; v. 12: io per iu; l’ama per t’ama.2
La nota 97 rinvia a G. Gigli, Superstizioni, credenze e fiabe popolari in Terra d’Otranto, Lecce, 1889, pp. 23 sgg. Questo fa pensare che la lettura a stampa forse conteneva l’intera canzone ma, essendo il De Martino nato nel 1908, non può essere stato uno dei destinatari di quella lettura., anche se da quella deve aver tratto la sua citazione. Insomma anche lui, come Franz Toussaint, si mostra, con tutto il rispetto, filologicamente non aggiornato, peccato più grave per un etnologo che per un narratore, anche se a quei tempi non c’era il formidabile supporto della rete …
E ora, di fronte a Malinconicu cantu, e allegru mai, chi avrebbe il coraggio di dire, non sarcasticamente, che si tratta solo di una canzonetta? Eppure essa non compare (questione di aggiornamento in rete?) tra i 250 titoli citati in http://www.laterradelrimorso.it/elencocanti e neppure sul sito dell’Archivio sonoro della Puglia (http://www.archiviosonoro.org/puglia/archivio/archivio-sonoro-della-puglia/fondo-accademia-nazionale-santa-cecilia.html ); a questo punto non mi meraviglierei neppure se la canzone non fosse stata registrata nemmeno una volta da qualche gruppo e, per farla completa, non fosse stata mai eseguita in nessuna edizione de La notte della taranta.
1 Sul topos della partenza e della commistione amore e morte propongo solo due esempi (il primo di Palermo, il secondo di Salaparuta) tratti da Giuseppe Pitrè, Canti popolari siciliani, Pedone-Lauriel, Palermo, 1871, pagg. 324 e 331:
Sta partenza pi mia è ‘na cosa amara,/nun m’aspittannu mai stu gran turmentu;/cci ha curpatu la sorti micirara,/a ch’ha vulutu lu nostru turmentu./Nun ti scurdari a mia, Rusidda cara,/a costu di qualunqui mancamentu:/ca mortu stissu supra di la vara/nun mi scordu di tia sempri in eternu./
Sta partenza pi mia fu troppu amara,/mi livasti li spassi e gusti ancora,/senti la vuci mia chi ti dichiara,/chi t’amirò in eternu fina chi mora./- Si mori, o bella, addiu amanti cara:/vuja a ‘na sepurtura ora pr’ora;/iu gridu e gridiroggiu a vuci chiara:/-Binchì cinniri sugnu iu t’amu ancora-.
2 Di seguito il prospetto in base al quale sarà più agevole seguire il mio tentativo di ricostruire, confrontando i singoli versi corrispondenti, la sofferta vicenda della tradizione testuale della canzone che, probabilmente, dopo la sua rozza raccolta è stata oggetto di ripensamento:
Primo verso: l’allegro di b per l’allegru di a e c secondo me è un errore di lettura o di stampa.
Secondo verso: il càcciami (imperativo singolare) di c appare grammaticalmente più corretto del plurale cacciati poiché uno solo è il complemento di vocazione (malinconicu cantu, e allegru mai) cui esso si riferisce.
Terzo verso: è identico in a, b e c.
Quarto verso: l’aìa comune a b e a c mi fa pensare che l’ai di a sia un errore di lettura o di stampa. Da notare, poi, in ossequio al vocalismo salentino il dunai di c che subentra al donai di a e b. Più complessa e difficile da definire la questione di ti di a che diventa tia in b e te in c: la forma metricamente più corretta è ti (e tii sarebbe stato ancora più corretta, ma le forme salentine in uso sono tu, tie, tia e te); tia di b potrebbe essere errore di lettura (o adattamento arbitrario?) del ti di a, mentre il te di c mostra di essere una soluzione intermedia tra ti e tia.
Quinto verso: da questo verso in poi manca la possibilità del confronto con a e in assenza di questo aiuto tutto diventa possibile: arrivederci di b per arrividerci di c potrebbe avere la stessa genesi di allegro per allegru ma anche essere figlio della stessa italianizzazione di donai di a e b rispetto a dunai di c.
Sesto verso: a proposito di non di b per nu di c e a proposito di di di b per ti di c vale quanto detto per l’arrivederci del verso precedente.
Settimo verso: per non/nu vedi quanto detto per il verso precedente
Ottavo verso: tutte le parole di b (ad eccezione di mi chiama) sono italianizzazione di quelle di c.
Nono verso: è assolutamente identico (so di c per so’ di b è da intendersi come scelta grafica di rappresentazione o meno dell’apocope) in b e c.
Decimo verso: a proposito di fiama di c per fama di b vale quanto detto a proposito di arrividerci di c per arrivederci di b nel quinto verso.
Undicesimo verso: Ma in c per e di b.
Dodicesimo verso: io di b per iu di c potrebbe essere un altro caso di quegli italianismi di cui il Gigli parlava nella prefazione, non mantenuto nella stesura finale. L’ama di b per t’ama di c dev’essere senz’altro un errore di lettura, anche per la traduzione del tutto arbitraria che il De Martino ne fornisce: ti custodisce il mio cuore amante.
A 19 anni cominciai a prendere confidenza con Lecce, le sue viuzze e i suoi locali e le sue feste e le sue menate. Mi invaghii con moderazione di una ragazza che aveva lasciato la provincia tarantina e preso una stanza in affitto nei paraggi di Porta Napoli. Pranzavo spesso da lei. Quando si arrivava alla frutta portavamo l’anguria sul terrazzo e facevamo un gioco indimenticabile. Sputare i semini cercando di fare “canestro” nei vasi delle piante. Chi faceva più canestri, vinceva. Niente soldi né targhe né coppe: chi perdeva scendeva a fare il caffè. Avevamo a disposizione venti semini a testa. Vorrei chiedere a tutti gli assessori comunali della provincia di fare proprio questo gioco low cost inventato da due universitari poco seri e promuoverlo ad Evento A Difesa Del Territorio E Dei Suoi Prodotti Agricoli. Un sindaco qualunque potrebbe tagliare il nastro. I concorrenti comincerebbero ad addentare fette d’anguria per poi sparare i semini. La giuria sarebbe composta dalla pro loco e da qualche commercialista in pensione. Non dite subito no. Pensateci.
Se corrisponde al vero la notizia diffusa dai mass media, si sta ingaggiando Antonio Conte come commissario tecnico della nazionale di calcio per un periodo di due anni a 3,6 milioni d’euro a stagione. A mio avviso, a prescindere dall’indicativo contributo da parte di uno sponsor, si tratta d’una pazzia.
Il neo presidente della FIGC Tavecchio è coinvolto in quest’affare? In caso affermativo, tolga immediatamente il disturbo e, insieme con lui, vadano a casa tutti gli altri responsabili della decisione.
Nello stesso tempo, si faccia presente al signor Conte che guidare la rappresentativa azzurra è un grande onore e, perciò, potrebbe assumere l’incarico a titolo gratuito. Ad ogni modo, al massimo riconoscergli un compenso di cinquecento mila euro a stagione. Sarà interessante vedere se l’allenatore accetta o rifiuta.
Il titolo non ha la pretesa di essere la parodia di Agosto, moglie mia non ti conosco, il noto proverbio; l’operazione, infatti, sarebbe stata miserabile poiché esso fu adottato già nel lontano 1930 da Achille Campanile, uno dei più grandi umoristi del nostro tempo, per un suo romanzo pubblicato a Milano da Treves. Esso non contiene neppure un riferimento ai cambiamenti climatici che hanno portato alla progressiva e neppure tanto lenta scomparsa delle stagioni, per così dire, intermedie (autunno e primavera). Qui intendo solo mettere in risalto due connotati antichi del mese in questione, dei quali, se il primo è scontato, il secondo apparirà piuttosto curioso.
Essa fa parte di una serie recante la firma dell’incisore Le Blond (1635-1709) e dedicata ai mesi dell’anno, in cui, però, ad ogni mese viene accoppiato un peccato.
Liquiderò sbrigativamente la figura femminile (seduta, con la destra scopre il seno destro, nella sinistra stringe la zampa sinistra di una scimmia che, poggiata nello spazio tra il braccio e il fianco sinistri della donna e notevolmente inarcata in avanti, è nell’atto di masturbarsi1) dicendo che essa risponde perfettamente a tutti i canoni della pittura barocca; la mia frettolosità, forse, è dovuta alla non perfetta coincidenza delle sue forme con i miei criteri estetici. Sarà una mia fantasia ma, per esempio, il seno sembra uno di quelli gonfiati e un po’ innaturali cui la chirurgia estetica, probabilmente nei suoi esiti più infelici, ci ha ormai abituati, anche se è molto più lineare e storicamente corretto dire che per quel dettaglio anatomico è rispettato il criterio rappresentativo tipico della pittura dell’epoca e l’esame comparativo con altre incisioni della stessa serie, ove ce ne fosse stato bisogno, lo confermano. Eccone solo alcune, tratte anche queste dal sito della Biblioteca Nazionale di Francia.
Nonostante la fretta prima dichiarata, però, non posso fare a meno di dire come sarebbe forse azzardato considerare tout court la stampa come una rappresentazione non tanto “laica” quanto blasfema e stupidamente dissacrante del tema della Madonna con Bambino, in cui tutti i valori subiscono una polverizzazione e perfino il tema la bella e la bestia vede amplificata la sua originaria dose di perversione. Per quanto riguarda gli altri elementi iconografici, infine, potrebbe sembrare che le spighe e l’uomo (ma ha tutte le sembianze di un dio) con i loro fasci in alto a sinistra giungano un po’ in ritardo rispetto alle scadenze normali dell’attività agricola; ma bisogna tener conto della diversa latitudine rispetto al nostro territorio.
A sinistra ed a destra (per chi guarda) di le Blond excud(it) avec Privilege du Roi (Le Blond incise con privilegio del re): LUXURE 3 (lussuria 3; la cifra indica il posto occupato nella graduatoria dei vizi capitali secondo la morale cattolica) e AOUST 8 (agosto, ottavo mese).
Segue un testo in tre quartine, costituite ognuna dall’alternanza di un novenario e di un ottonario con rima AB/AB. Trascrivo e traduco:
Da notare nel testo originale, accanto a forme tipicamente secentesche (Aoust per Août; au fonds per au fond; bruslent per brulent; esclair per éclair; eschaufe per eschauffe) veri e propri errori di stampa (de’au per d’eau; nempeche per n’empeche).
Speravo che la didascalia mi fornisse un qualche aiuto nella corretta interpretazione della stampa, ma essa instaura solo un parallelismo abbastanza scontato tra il caldo d’agosto e il calore della passione d’amore, anzi, tout cour, carnale, con un riferimento, credo, altrettanto banale, di quel versatore d’acqua agli improvvisi e brevi temporali tipici di questo mese.
Passo ora al connotato, sempre antico, curioso. Chi l’avrebbe detto che nel medioevo il mese di agosto non godeva certo di quelle simpatie che ne hanno fatto il mese simbolo della vacanza, della spensieratezza, del divertimento, tutti concetti che, con i chiari di luna correnti, possono tradurre in realtà solo i ladri, i parassiti e gli evasori fiscali?
Basti per tutte la testimonianza di Bonvesin da Riva (1240 circa-1315 circa) in De controversia mensium (cito dall’edizione a cura di Giovanni Orlandi, in Felix olim Lombardia. Storia di studi padani dedicati dagli allievi a Giuseppe Martini, s. n., Milano, 1978), v. 150: Palidus Augustus facie, tamen intus iniquus (Agosto pallido in volto, tuttavia non calmo nell’intimo); vv. 257-260: … Augustus, sit licet aeger,/cum baculo veniens, cum quo substentat, iniquo/accedit vultu, baculo multumque minatur/a longe (Agosto, per quanto malato, venendo col bastone con il quale si regge, avanza con volto minaccioso e col bastone minaccia molto da lontano).
Lo stesso Bonvesin provvide a tradurre in versi in volgare (con il titolo Tractato dei mesi) l’opera scritta in esametri. Ecco le parti ( ottava 73, vv- 1-2 e ottava 112, vv. 3-8. ) che ci interessano (cito dall’edizione a cura di Eduardo Lidforss, Romagnoli, Bologna, 1872): Con su vulto infermizo/Avosto se rancura (Col suo volto malaticcio agosto manifesta le sue rimostranze); Avosto, mese infermizo/con so lomentamento,/a pigliù un baston,/ke ge dà sustantamento;/tuto ziò k’el sia infermizo,/el è d’un fer talento (Agosto, mese malaticcio per lamentarsi ha pigliato un bastone che gli dà sostegno; nonostante sia malaticcio, ha un bel caratterino).
Sembra che si sia ispirato proprio ai versi di Bonvesin l’anonimo autore dell’affresco rappresentante agosto nel ciclo dei mesi (XIII secolo) nella Chiesa di Santa Maria del Castello a Mesocco, in Svizzera.
Cicli pittorici di epoca successiva mostrerebbero, secondo me, l’evoluzione semantica e tutta umanistica del bastone, non più come sussidio all’infermità ma come strumento di lavoro (pungolo per i buoi e, probabilmente, da utilizzare, nella fase successiva non rappresentata, per la battitura del raccolto) tipico del mese, come mostra un affresco, datato agli inizi del XV secolo), anche questo anonimo, facente parte del ciclo dei mesi raffigurati su un muro interno di Torre dell’Aquila nel Castello del Buonconsiglio a Trento.2
In fondo, però, parte della negatività del concetto medioevale è rimasto fino ai nostri giorni, se si pensa all’espressione fa un caldo da morire, il sole ti ha dato alla testa e, senza scomodare gli effetti, talora fatali, del colpo di sole, allo stato di disagio fisico che, specialmente dalle nostre parti, complice lu sciroccu ‘ncuddhusu (lo scirocco appiccicaticcio), procura, soprattutto ai metereopatici come me, l’elevato tasso di umidità.
Traccia e, probabilmente, sintesi di tutto questo è nel proverbio Acostu ti li muta li chimere3 (Agosto te li cambia, i sogni), se, dal riferimento iniziale esclusivo al mondo agricolo e soprattutto alle grandinate in grado di distruggere interi vigneti, ha assunto un significato più generico (Agosto tradisce le tue aspettative).
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1 Per dare ampia possibilità al lettore di dire la sua riproduco di seguito il dettaglio ingrandito:
Esclusa la possibilità che la scimmia stringa una cornucopia, ci sarebbe da dire che le dimensioni del presunto membro contrastano con quelle medie della specie (non eccelse, se raffrontate con quelle della nostra) e la scimmia rappresentata, fra l’altro, se veramente è il contraltare del Bambino, non dovrebbe essere adulta. Rimane da pensare che l’incisore abbia volutamente esagerato per sottolineare gli effetti di agosto sulla lussuria, pure quella animale.
2 Il lettore avrà notato il contrasto tra la figura maschile del malaticcio agosto nell’affresco e l’immagine florida della donna della stampa, assurta (in onore al più bieco maschilismo risalente ai tempi di Adamo ed Eva) a simbolo di lussuria. Niente di nuovo sotto il sole se si pensa che già Esiodo (VIII-VII secolo a. C.), Le opere e i giorni, vv. 582-596, ricordava: Ἦμος δὲ σκόλυμός τ᾽ ἀνθεῖ καὶ ἠχέτα τέττιξ/δενδρέῳ ἐφεζόμενος λιγυρὴν καταχεύετ᾽ ἀοιδὴν/πυκνὸν ὑπὸ πτερύγων, θέρεος καματώδεος ὥρῃ,/τῆμος πιόταταί τ᾽ αἶγες καὶ οἶνος ἄριστος,/μαχλόταται δὲ γυναῖκες, ἀφαυρότατοι δέ τοι ἄνδρες/εἰσίν, ἐπεὶ κεφαλὴν καὶ γούνατα Σείριος ἄζει,/αὐαλέος δέ τε χρὼς ὑπὸ καύματος· ἀλλὰ τότ᾽ ἤδη/εἴη πετραίη τε σκιὴ καὶ βίβλινος οἶνος,/μάζα τ᾽ ἀμολγαίη γάλα τ᾽ αἰγῶν σβεννυμενάων,/καὶ βοὸς ὑλοφάγοιο κρέας μή πω τετοκυίης/ πρωτογόνων τ᾽ ἐρίφων· ἐπὶ δ᾽ αἴθοπα πινέμεν οἶνον,/ἐν σκιῇ ἑζόμενον, κεκορημένον ἦτορ ἐδωδῆς,/ἀντίον ἀκραέος Ζεφύρου τρέψαντα πρόσωπα,/κρήνης τ᾽ αἰενάου καὶ ἀπορρύτου, ἥτ᾽ ἀθόλωτος,/τρὶς ὕδατος προχέειν, τὸ δὲ τέτρατον ἱέμεν οἴνου.
(Quando il cardo fiorisce , e la canora cicala posata su un albero diffonde il suo stridulo canto col fitto vibrare delle ali nella stagione dell’estate che affatica, allora le capre sono molto grasse, il vino è il migliore, le donne libidinosissime, gli uomini, invece, veramente fiacchi, poiché Sirio debilita testa e ginocchia e per il caldo la pelle diventa secca; ma proprio allora ci sia l’ombra di una roccia e vino di Biblo, una focaccia impastata con latte e carne di capre che non siano in calore e di mucca che ha pascolato nei boschi e non abbia figliato e di capretti frutto di primo parto; (conviene) berci sopra limpido vino, seduto all’ombra, sazio in cuore di cibo, volgendo il viso verso il fresco Zefiro e una sorgente perenne e corrente e che non sia intorbidata; (conviene) mescere tre parti di acqua, la quarta dev’essere di vino).
E Alceo (VII-VI secolo a. C.), frammento 347v, a distanza di un secolo, con un ricalco che sfiora il plagio: Τέγγε πλεύμονας οἴνωι, τὸ γὰρ ἄστρον περιτέλλεται,/ἀ δ’ ὤρα χαλέπα, πάντα δὲ δίψαισ’ ὐπὰ καύματος,/ ἄχει δ’ ἐκ πετάλων ἄδεα τέττιξ …/ἄνθει δὲ σκόλυμος, νῦν δὲ γύναικες μιαρώταται/λέπτοι δ’ ἄνδρες, ἐπεὶ [καὶ] κεφάλαν καὶ γόνα Σείριος/ἄσδει …
(Bagna i polmoni con il vino, infatti l’astro gira intorno, la stagione è terribile, tutto ha sete per il caldo, riecheggia dolce la cicala dalle foglie, fiorisce il cardo, ora le donne sono turpissime, gli uomini smunti poiché … Sirio debilita la testa e le ginocchia …).
*È andato a riposare. Per due ore ha cliccato disperatamente e inutilmente su Ti piace nell’illusione di ottenere qualche gradimento in più rispetto all’unico espresso da lui stesso … Lo sto sentendo farfugliare nel sonno la stessa vomitevole (eppure lo amo!) cantilena che ha messo in rete.
Quando la cornetta era lo strumento prevalente per telefonare e, perciò, espressioni tipo li corne tua! (le corna tue!) indirizzate ad un interlocutore fastidioso erano in linea …, quasi contemporaneamente con la telefonata che ti salva la vita dovemmo sorbirci per parecchi mesi il tormentone della ragazzina con i suoi Ma mi ami? Ma quanto mi ami? Ma mi pensi? Ma quanto mi pensi?, cui faceva eco la madre che tradiva il non farsi le cornette sue con un materialistico Ma quanto mi costi?
Poi presero il sopravvento, in un tecnologico intreccio diabolico di interessi che un tempo sarebbero stati etichettati come inconfessabili, i telefonini, la rete propriamente detta (per dispetto non dico web) e la sua specializzazione, la rete sociale (ancora per dispetto non dico social network).
E iniziò il tormentone del mi piace, col colmo dei colmi quando a cliccare l’opzione è lo stesso autore del post. È l’apoteosi della vanità, la consacrazione di un’eccessiva autostima e, per un cattolico, una professione di superbia, che, ricordo, è il peggiore tra i sette vizi capitali.
Ma, si sa, al peggio non c’è limite. Così è sempre più raro non incontrare giornalmente, per esempio in Facebook, qualche post che sfrutta la morbosità albergante in misura diversa in ognuno di noi, per ottenere, con il ricatto, una manciata di mi piace in più. Il meccanismo è semplicissimo: basta postare un’immagine o un titolo (meglio entrambe …) con un’allusione di tipo sessuale, macabro o strano (non aspettatevi di incontrare questa procedura quando volete vedere qualche filmato che mostra certe cose incredibili che alcuni animali sanno fare, anche se ogni tanto una riflessione sul senso della bravura dei loro addestratori meriterebbe di trovare spazio …) e dirottare chi voglia vedere il filmato verso un link dove si avvertirà l’interessato che potrà farlo dopo aver cliccato mi piace o condividi.
Dato l’enorme numero di condivisioni anche da parte di persone notoriamente serie debbo pensare che il trucchetto funziona alla grande. Pure io ci son cascato (ma non è una prova di notoria serietà …), ma solo due volte. Quando la terza ero sul punto di farlo sedotto dalle rotondità di un bel posteriore femminile, mi son detto: “Ma perché devo essere più idiota di chi posta cose (e chiamale cose …) simili?”. E non l’ho fatto più. Non sarebbe opportuno che anche molti altri lo facessero? Poi, magari, s’inventeranno qualche altra diavoleria; che so, un Ti piace? (soggetto sottinteso questo post) graduale, con opzioni Ti piace tutto?, Ti piace la prima metà?, Ti piace l’ultimo periodo?, Ti piace ma con quali integrazioni? (segue un esteso sottomenu), etc. etc.
Così non ci sarà nemmeno bisogno di scrivere nessun commento (benedetta comodità!) e quei pochi rimasti che si preoccupano ancora di esprimersi e scrivere correttamente potranno impegnarsi in altro. Ma chi ci assicurerà che nella selva di menu e sottomenu non si nasconde qualche altro inganno?
Il titolo non allude ad un improbabile scontro campanilistico tra macinnulari e nnardiati1, con l’auspicio da parte di questi ultimi dell’intervento pacificatore del santo dei voli; nemmeno presso gli antichi mi risulta che qualcuno, forse perché deluso dal proprio, tentava di corrompere con preghiere e offerte il dio dei nemici …
Il problema è infinitamente meno grave, cioè di natura filologica, e riguarda l’etimo del nome della cittadina distante da Nardò non più di dieci km. Ecco a tal proposito cosa scriveva Girolamo Marciano (1571-1628) nell’opera postuma (Stamperia dell’Iride, Napoli, 1855) Descrizione, origine e successi della Provincia d’Otranto, p. 476: “Fu detto Cupertino secondo alcuni da Cuperio suo primo edificatore, e secondo altri a Cooperio voce latina, ovvero da Aperio Apertino, e dopo per la figura protesi Copertino, o Coopertino dalla sua quasi chiusa ed aperta campagna, simile a quella del Poeta: Vix e conspectu exierat campumque tenebat,/cum pater Eneus saltus ingressus apertos. Altri dicono Convertino dal verbo Converto, ed altri Conventino da Convenio, per essere stati i popoli de’ suddetti casali dopo la loro distruzione conversi e convenuti ad abitare in questo luogo. Onde Servio sopra quei versi di Virgilio: Tunc manus Ausoniae et gentes venere Sicanae;/saepius et nomen posuit Saturnia tellus dice che tutti gli abitanti della terra o sono ivi geniti, o forastieri, o vennero da un solo luogo, ovvero da luoghi diversi, come si dice essere stati questi che da’ suddetti diversi casali convenuti edificarono questa terra, e la chiamarono Convertinio. Il che si pruova chiaramente dalle sue insegne, le quali sono un pino carico di frutta con queste lettere C. P. significando i frutti e la raccolta natura del pino, i cui frutti sono l’immagine della natura, l’unità e ferma conversione di quei diversi popoli congregati in uno dinotati con quelle due lettere, le quali dicono Conventio et Custodia populorum, che convenuti si doveano con naturale ordine custodire e conservare unitamente in un sol popolo a guisa del frutto del pino, il quale si unisce, e con naturale ordine conserva in un sol corpo i suoi molli semi, come ben disse il beato Ambrogio e nota Pierio nei suoi Geroglifici, così dicendo: Naturae immaginem esse pinum Divus Ambrosius dixit, quippe quae semina ab illo primo divino celestique privilegio accepta custodiat, partusque suos quadam veluti annorum vice et ordine referat, neque nisi vi coloris admota excludat. Atque eadem ipsa nux flammae speciem imitatur, lacinatis, in turbinem toris reticulato opere circumductis”.
Cerchiamo di dare dei connotati più precisi ad alcuni nomi, anche comuni, messi in campo dall’umanista di Leverano senza indicazione della fonte (per uno come me, che in questo campo non dà fiducia a nessuno, me stesso in primis, è dura …). 1) Cuperio, secondo alcuni non meglio identificati sarebbe stato il fondatore di Copertino. Un CuperiusHostilianus è attestato in un’epigrafe (CIL, XI, 3614) rinvenuta a Cerveteri: Vesbinus Aug(usti) l(ibertus) phetrium Augustalibus / municipi(i) Caeritum loco accepto a re p(ublica) / sua i<m=N>pensa omni exornatum donum dedit / descriptum et recognitum factum in pronao aedis Martis / ex commentario quem iussit proferri Cuperius Hostilianus per T(itum) Rustium Lysiponum / …… Un Caius Cuperius compare col titolo di quinquennalis1 insieme con innumerevoli altri in un’epigrafe (CIL, XIX, 244) lunghissima (per questo non ne riporto il testo) rinvenuta ad Ostia antica. Un terzo Cuperius, infine, compare in un’iscrizione funeraria (AE, 1987, 388) , riprodotta nella foto che segue, rinvenuta nei pressi di Saturnia (in provincia di Grosseto): D(is) M(anibus) / Cuperiu[s] Cleme[ns(?)] / Cu[peri
Ora, se Copertino è di origine prediale, Cuperius avrebbe dovuto dare Cuperianus (ager)=territorio di Cuperio e, quindi non Copertino ma Coperiano. Ignorando chi sono gli alcuni padri della proposta, non posso chiedere loro ragione della scomparsa di una –i– e dell’aggiunta di una –t-; e poi, anche se conoscessi il loro nome, la mia domanda resterebbe inevasa, essendo defunti da una manciata di secoli , a meno che qualcuno non voglia organizzare una bella seduta spiritica … 2) a Cooperio: sicuramente errore di stampa per “da cooperio” (cooperio è la prima persona singolare del presente indicativo attivo del verbo cooperìre=coprire); per capire anche quello che vien subito dopo, qui debbo precisare che secondo altri (pure questi non identificati) Copertino deriverebbe da *coopertinus, forma aggettivale di coopertus, participio passato di cooperìre. 3) “da Aperio Apertino”. Anche qui per il non addetto ai lavori va chiarito: aperio è la prima persona singolare del presente indicativo attivo di aperìre=aprire e Apertino sarebbe forma aggettivale da apertus, participio passato di aperìre; “e dopo per la figura protesi Copertino, o Coopertino dalla sua quasi chiusa ed aperta campagna, simile a quella …”: a parte il fatto che con la protesi di c– da Apertino si ha Capertino e non Copertino, è inverosimile l’ammucchiata concettuale successiva in cui, ricordandosi di quanto detto al n. 2, si mette in campo contemporaneamente una chiusura ed un’apertura senza la minima copertura … alla quale maldestramente si cerca di ricorrere scomodando, addirittura, un poeta. 4) “Altri dicono Convertino dal verbo Converto, ed altri Conventino da Convenio …”; qui gli effetti della sbornia precedente sembrano svaniti perché, anche se le fonti non sono citate, almeno Convertino è la forma con cui il toponimo appare, come vedremo di seguito, nelle mappe più datate.5) Convertinio: sicuramente errore di stampa per Convertino. 6)Conventio et Custodia populorum (unificazione e protezione di popoli). Così il Marciano scioglie le lettere C e P dello stemma, attribuendo, dunque, a C quasi una doppia valenza abbreviativa ed introducendo il concetto nuovo della protezione, semanticamente in linea con cooperìre; a questo punto, però, poteva farla completa e mettere in mezzo pure conversio (rivoluzione) …
Ecco ora le mappe promesse:Il Regno di Napoli in una tavola di Pirro Ligorio (1513-1583) inserita nel Theatrum orbis terrarum di Abraham Ortelius pubblicato ad Anversa da Gilles Coppens de Diest nel 1570:
Puglia piana terra di Bari, terra di Otranto, Calabria et Basilicata, 1589, di Gerardo Mercatore: A
puliae, quae olim Iapygia, nova corographia, 1595, di Giacomo Gastaldi: Da notare come in quest’ultima mappa in Convertino è saltata la –v– e come il toponimo latino Neritum (Nardò) risulta tradotto nello strano Naroi. Siccome il Marciano mostra che già al suo tempo il toponimo era Copertino o Cupertino2, sorge il sospetto che il Convertino delle mappe, più o meno coeve, sia stato indotto proprio dalla maggiore considerazione riservata all’ultima delle elucubrazioni etimologiche già viste.
Insomma, per tornare al titolo: sull’etimo sarebbe opportuno un illuminante intervento del santo; ma dovrebbe essere diretto, concreto, pubblico, inequivocabilmente autentico, per evitare che qualche cialtrone, magari, sfrutti a modo suo qualche sogno dovuto ad una cena troppo abbondante, credendo di poter volare, sia pure metaforicamente, anche lui. Forse sto chiedendo troppo, anche ad un santo, per giunta protettore degli studenti?
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1 Macinnulàriè da macènnula=arcolaio (da un latino *machìnula, diminutivo del classico màchina, che è, a sua volta, dal greco dorico μαχανά (leggi machanà), in attico μηχανή (leggi mechanè), da cui son derivati Meccano (il nome commerciale del gioco in passato più diffuso prima che Lego e successivamente le diavolerie elettroniche ne prendessero il posto), meccanica, meccanico, meccanismo e meccanizzare; la voce primitiva è μῆχος (leggi mechos)=mezzo, espediente. Se il nomignolo si riferisse all’arte della filatura, di regola riservata alle donne, sarebbe sinonimo di effeminati. Le cose, però, stanno diversamente. Si racconta che un contadino per sapere da che punto esatto spirasse il vento collocò una macennula sul campanile di una chiesa e, siccome essa girava un po’ da una parte e un po’ in senso contrario, concluse che in quel giorno il vento spirava da tutte le direzioni. Siccome, poi, le disgrazie non vengono mai sole gli abitanti di Copertino hanno anche il nomignolo di Mangiaciùcci, ricordo del fatto che in occasione della festa patronale il piatto speciale era la carne ti ciùcciu a ppignàtu (carne di ciuco cotta nella pignatta). ‘Nnardiàti è di formazione piuttosto recente; Nardò, infatti, è uno dei pochi centri del Salento i cui abitanti non hanno un nomignolo tradizionale. Debbo fare i miei complimenti a chi ha inventato questo participio passato da un inusitato *innardiàre (da in+*nardiàre) in cui, poi, l’aferesi di i- ha finito per sottolineare anche foneticamente la valenza dispregiativa. Il lettore avrà capito che nutro una particolare simpatia per questi nomignoli e, quindi, non mi piace il fatto che i neretini non abbiano un nomignolo tutto loro, più caratterizzante di quello di cui ho già detto. Mi conforto pensando che, pur risiedendo da sempre a Nardò, sono nato a Manduria, i cui abitanti possono esibire la bellezza di tre nomignoli: mangiacàni, ccitipidùcchie (uccidipidocchi) e sonacampani (campanari). Se i primi due contengono un’allusione a condizioni di vita non certo ottimali, il terzo potrebbe far riferimento al numero notevole di chiese della città ma, più probabilmente, contenere una punta d’invidia nei confronti di una popolazione che più volte nella storia seppe resistere, reagire nella sconfitta, ricostruire.
2 Quinquennalis era un magistrato che nelle colonie e nei municipi ricopriva una carica quinquennale con funzioni analoghe a quelle dei censori in Roma. 3 In numerosissimi atti del XVI secolo ricorre, in riferimento al luogo di origine di persone nominate, de Cupertino che suppone un latino Cupertinum, da cui l’italiano Cupertino, forma utilizzata dal cartografo dell’esploratore spagnolo Juan Bautista de Anza (1736-1788) per dare, in onore al santo di origini salentine, il nome San José de Cupertino (oggi Stevens Creek) ad un ruscello e nel XX secolo il solo Cupertino divenne il nome della città californiana cuore della Silicon Valley. Insomma, un po’ di benemerenze informatiche, anche se non richieste, ce l’ha pure il santo copertinese, ma sarebbe veramente azzardato mescolare il sacro col profano sostenendo che con Copertino abbia a che fare Coppertone, il noto marchio di abbronzanti. I meno giovani tra i lettori ricorderanno senz’altro la simpaticissima immagine pubblicitaria che segue: A stroncare sul nascere l’azzardo di indebita mescolanza prima nominato va detto che in Coppertone il primo componente è copper=rame e il secondo tone=tonalità. W l’America, dunque? Ma neppure per scherzo! Copper è dal latino cuprum=rame rosso [dal greco Κύπρος (leggi Chiùpros)=Cipro (il rame abbonda nell’isola)] e tone dal latino tonos=tono, a sua volta dal greco τόνος (leggi tonos) con lo stesso significato. E in Cera di Cupra, la crema per il viso creata dal mitico dottor Ciccarelli insieme con il dentifricio Pasta del capitano, Cupra potrebbe avere la stessa origine ma far riferimento a Venere che, secondo Esiodo, dal mare di Cipro sarebbe nata. È chiaro ora perché mi vien da ridere il doppio quando sento qualche nostro esponente politico esprimersi isolatamente o in forma distesa (direi un po’ troppo …) in inglese (?)?
Sto studiando la Xylella Fastidiosa, la moria di ulivi nel Salento è orribile e, temo, continuerà ancora per quattro o cinque anni. Il batterio è pericoloso ma abbiamo alcuni vantaggi operativi che non scriverò qui ovviamente. Se la Xylella diventa questione nazionale possiamo far fare all’Italia un grande balzo scientifico in campo agricolo e biologico. Se invece triamo a campare aspettiamoci anche l’attacco alla vite e la desertificazione di una delle aree più belle del pianeta. Altro che turismo e dieta mediterranea …
Si può agire, si può fare. Ma ci vogliono risorse e sforzi unitari. Poi litigheremo dopo.
Ma adesso bisogna mantenere il patrimonio ulivicolo e svilupparlo, e, possibilmente, trovare il modo PULITO di sconfiggere la Xylella. Si può fare.
Chi pensa che l’unica bandiera che sta dietro il fronte del No al passaggio del gasdotto TAP dalle coste Salentine sia di natura ambientale ha, molto probabilmente, preso un grosso granchio. Quello che sta succedendo nel tacco d’Italia va al di là della semplice battaglia ambientalista o del “no a tutti i costi” e si colloca nel più ampio scenario dell’approccio territorialista. Secondo questa teoria, vecchia ormai ben più di dieci anni e che trova nel prof. Magnaghi e il suo “Progetto Locale” perfetta sintesi, il Territorio non esiste in natura ma nasce dell’azione di una Comunità Locale in un determinato spazio, operando cioè relazioni culturali con l’ambiente circostante. Questa nuova dimensione vede essenzialmente il Territorio come “evento culturale”, costituito dalla “fecondazione della natura da parte della cultura”.
Riflessione molto affascinante e, allo stesso tempo, incredibilmente avanguardista rispetto all’approccio capitalista che, per farla breve, tende a racchiudere la natura in apposite riserve e parchi per speculare su tutto il resto del territorio. Per la serie mettiamo la natura nel Parco delle Cesine o nella Riserva Marina di Porto Cesare e poi, col resto, ci facciamo quello che vogliamo. Tap, porti turistici e villaggi che andranno di moda al massimo per 10 anni (vedi degrado di Torre Inserraglio). Facile no? Nel proporsi, la riflessione sulla territorialità dei luoghi che abitiamo, non può che aprire una finestra sull’opportunità di un opera altamente invasiva quale il Trans Adriatic Pipeline che, rompendo la costa in una delle località più significative per la cultura identitaria salentina, arriva ad operare una vera e propria campagna di “sensibilizzazione” (ovvero destabilizzazione degli equilibri locali) atta a far passare il concetto che, in fondo, tutto può diventare territorio. Basta venderlo bene.
Niente di più falso.
Anche in questo caso viene in nostro soccorso l’illustre Magnaghi puntando dritto agli aspetti che caratterizzano gli atti prodotti da una cultura come “territorializzanti”, e che per questo si rifanno direttamente alla storicità del rapporto Popolazione/Luogo e al grado di sostenibilità delle azioni che tra i due elementi, naturalmente, si sono succedute nel tempo e che, spontaneamente, tuttora intercorrono.
La sostenibilità diventa così capacità di autogoverno di un Territorio al netto di continui sostegni esterni, aspetto fondamentale in quanto permette di dare valore ai saperi locali, gli unici in grado di produrre atti territorializzanti e profondamente identitari dei luoghi. Gli stessi che rendono un “Locale” (in questo caso il nostro, questo Salento) unico e fortemente appetibile per il mercato globale.
Non sembra essere questo il pensiero di Tonio Tondo, noto politico copertinese di area centrista che, in un recente articolo apparso sulla Gazzetta del Mezzogiorno, mortifica l’attuale strategia di Tap fatta di sponsorizzazioni selvagge ad eventi e sagre di natura popolare e non solo e suggerisce nuove strade da percorrere al fine di rendere l’opera meno “antipatica” alla popolazione salentina. Così, nell’ipotizzare finanziamenti e borse di studio ai meritevoli, si riaprono vecchi scenari con soluzioni alternative. Disegnando rette nella galassia della geopolitica planetaria ci si dimentica di quanto, mai come ora, globalizzare faccia rima con localizzare. Si sorvola sulle potenzialità di un Salento a vocazione turistica per sponsorizzare opere ad elevato impatto ambientale, sociale e politico. Si ignora il ribollire di anime pronte ad investire tempo e denaro su questo Salento per investire in infrastutture pericolosamente compromettenti dal punto di vista territoriale, volute da chi vede un “corridoio” nell’altrui “salotto”.
Peccato che l’operazione “simpatia” teorizzata nel brillante articolo non tenga conto di una volontà popolare già fortemente cosciente delle ripercussioni paesagistiche e turistiche che l’opera avrà nel breve-medio periodo, per non parlare di quello che resterà quando di quel gas nessuno avrà più bisogno, a giacimenti esauriti. Avremmo forse una decina di medici ed ingegneri targati Salento in più, ma resterà un tubo che nessuno (compreso il nostro Tonio) vorrà a ricordarci quanto costa caro non avere politici e giornalisti in grado di leggere a dovere i messaggi che la popolazione locale (e non solo), civilmente, continua a recapitare.
Comunque c’è di che essere ottimisti, almeno a giudicare dalla reazione spontanea e pacifica della popolazione a questo che rappresenta il primo vero tentativo di espropriazione di uno dei caratteri fondanti la cultura salentina, ovvero la perfetta sintonia che da secoli unisce popolazione e paesaggio. Il Processo partecipativo nato attorno all’argomento può e deve evolvere in qualcosa di più, in quello che l’autore definisce ”produzione sociale del territorio”. Concetto che diventa fondamentale perché è anche la chiave di volta della critica ad un modello societario “fordista” basato sul lavoro salariato e sul metodo “catena di montaggio”.
Un modello oramai sperato che di fatto ha allontanato l’abitante dalle scelte sociali riguardanti la propria Vita (l’Ilva dovrebbe averci insegnato qualcosa a riguardo). Il lavoro autonomo deve diventare il contenitore di informazione e conoscenza in grado di accelerare il processo virtuoso di creazione di nuove relazioni sociali che, appunto, producano non solo Comunità, ma sopratutto Territorio.
Così l’abitante-consumatore creato dal fordismo, dalla infinita divisione del lavoro e della vitalità urbana lascerà il posto all’abitante-produttore, pienamente consapevole del proprio contesto sociale, politico, culturale e territoriale. Tap permettendo.
C’era una volta il telefono cellulare, assunse poi nel lessico comune il terrificante nomignolo di “telefonino”, quasi si potesse contrapporre non già al telefono, ma al telefonone.
Cellulare deriva da cellula, lo impariamo dai telegiornali, ogni volta che c’è un criminale in giro la polizia “verifica quali cellule ha agganciato”. Le cellule sono in pratica delimitate da quelle simpatiche antenne che troviamo ovunque, sui palazzi, camuffate da abeti in un oliveto, su tralicci che guardano il mare ecc.
Il principe di tutti i problemi del cellulare è da sempre la batteria. Un tempo c’erano banali batterie al nichelmetalidrato (non mi si chieda cos’è, non so e non mi interessa) che avevano l’effetto memoria. In pratica succedeva che, caricando la batteria quando era a metà, lei memorizzava quel tempo di ricarica ed avrebbe sempre caricato per quello stesso periodo indipendentemente dalla capacità della batteria stessa. Questo procurò enormi vendite di carica/scarica batterie. Si inseriva la batteria dentro il marchingegno, si faceva scaricare e poi si caricava completamente. I più risparmiatori si ingegnavano con un cavetto elettrico ed una lampadinetta per scaricare il tutto. Poi arrivarono le batterie al litio ioni e la storia cambiò.
Le prime batterie, studiate non già per essere miniaturizzate, ma per durare a lungo, avevano dimensioni importanti, i primi cellulari, venduti a prezzi stratosferici e con abbonamenti per i quali occorreva un consistente conto in banca, erano muniti di pacco batterie a parte, in apposita valigetta a tracolla con telefono appeso. In pratica erano telefoni come quelli di casa, solo che pesavano il triplo ed erano di dimensioni doppie. I più estroversi (e ricchi) camminavano per la città con questo pacco di almeno 5 Kg. appeso al collo, a volte telefonavano urlando perché la copertura era limitata e pensavano (cosa che ancora succede) che la distanza si potesse coprire parlando a voce altissima. Passato questo periodo di immenso piacere nel prendere per i fondelli i telefonatori stradali che nel mese di luglio, a 40° si portavano appresso quel pacco, l’evoluzione fu rapida, i costi diminuirono e le batterie presero sembianze umanamente comprensibili ed accettabili. Al TACS (Access comunication system) che consentiva solo chiamate nazionali, si sovrappose presto il GSM (global system mobile telecomunication) che rendeva universale l’utilizzo. Il cellulare iniziò a diffondersi rapidamente, in Italia, nonostante tariffe care, più che in altri paesi, ed iniziarono a miniaturizzarsi, si assistette a cambiamenti semestrali, dal cellulare che occupava una tasca della giacca al rivoluzionario star tak della Motorola che stava nel palmo di una mano e potevi perderlo nelle tasche dei giacconi. Io amai molto il Philips Genie, 99 grammi, batteria della durata di almeno 6 giorni, piccolo, maneggevole e intuitivo. Per stupire i giovanissimi dirò che addirittura questi telefoni avevano i tasti. Oggi sono spariti per lasciare il posto allo schermo dove digiti almeno 3 cifre per volta. Il tutto con nomi rigorosamente in inglese, lo schermo si chiama touch screen (schermo tattile) e via dicendo.
Eh si, non ci sono più i telefoni cellulari di una volta, quelli che servivano per telefonare. Il telefono oggi deve avere quanto meno una fotocamera che riduce cittadini di ogni fascia d’età a sedicenti fotografi, si fanno almeno 100 scatti per volta (tanto non costano una mazza) e lunghissime riprese che nessuno guarderà mai. In qualunque momento pubblico, dai concerti alla presentazione delle pentole laminate oro, vedi giovani e anziani che, anziché seguire quel che si dice, hanno le braccia levate al cielo a riprendere tutto. Se qualcuno telefona in quel momento viene stramaledetto.
Poi devono essere in grado di fare il selfie, non contenti di fotografare quello che si ha di fronte, e presi da una smania di egocentrismo incontrollabile, tutti a farsi fotografie da soli. La cosa mette molta tristezza a ben pensare, un “fai da te” molto vicino alla masturbazione.
Non solo, il telefono cellulare deve poter essere un computer, si possono inviare e mail scrivendole con quella cosa che tastiera non è, soprattutto si deve sempre essere rintracciabile perché lui, il perfido, trasmette anche la tua posizione geografica. Per le coppie di amanti sono tempi duri. Pare sia allo studio anche una mappatura dei luoghi chiusi, se si è in bagno a espletare bisogni elementari non si potrà più dire al rompipalle di turno che chiamano: “stavo lavorando per lei”.
Con il telefono si possono acquistare azioni e fare buone azioni, donare quattrini o fare shopping compulsivo on line, e mille altre funzioni. Tutto ha tuttavia un prezzo da pagare. Eravamo rimasti ai telefoni miniaturizzati, per fare tutte le cose che offe un “normale” cellulare attualmente in commercio lo schermo deve essere più grande (altrimenti come conti i peli della barba quando fai selfie?), la tastiera deve consentirti di premere due pulsanti alla volta invece dei tre o quattro di prassi ecc. Ecco quindi che le dimensioni cambiano, diventano più grandi, ingombranti e delicati. Non è raro vedere qualcuno che telefona tenendo mezzo metro quadro di i pad (i pod?) attaccato all’orecchio, con un effetto ridicolo al punto di suscitare compassione: “poveretto, guarda cosa è costretto a fare”.
E non si preoccupino i bagnanti, oggi esiste la custodia da mare per iphone (quello che una volta, quando eravamo trogloditi, chiamavamo telefono cellulare), lo metti dentro e ci puoi fare il bagno. In effetti è pensabile, nel 2014, tuffarsi in mare senza cellulare? Metti che il tuo amico da Boston metta una foto osè su facebook e tu non lo sai in tempo reale, che figuraccia ci fai? Metti di incontrare uno scorfano, lo fotografi e poi dici a tutti che hai fatto selfie.
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Paolo
I miei preferiti erano i CAŠCITIÉDDHI anche perchè le api spesso e volentieri depositavano alla loro base dell’ottimo miele!