Non possiamo bere tutto il vino del mondo, ma è nostro ineluttabile dovere provarci

“Non possiamo bere tutto il vino del mondo, ma è nostro ineluttabile dovere provarci” (Pino De Luca)

per canti e cantine

di Gianni Ferraris

Musica e vino, parafrasando posso dire “Io non so parlar di vino, l’emozione non ha voce…” come cantava più o meno un Celentano d’epoca, invece del vino lui ci metteva l’amore, però era giovane, ora che siamo sicuramente meno giovani,  forse  più maturi cerchiamo emozioni anche in amori altri, nella natura, a volte, come si legge nelle brevi nota biografiche dell’autore del libro, Pino De Luca “dopo una vita trascorsa fra scienza e peccato, è approdato all’e(t)nogastronomia…”.

Parlando di vino, anzi dei vini, nella fattispecie di quelli salentini, un osservatore dotto e colto dovrebbe scrivere frasi come:

“rosso cupo, con preponderanza del violaceo; profumi avvolgenti di vaniglia e poi di spezie, fino all’eucalipto. Al palato è morbido, setoso, consistente ma molto ben educato…”[1]

Bene, non lo scriverò mai per il semplice fatto che per mia formazione il vino è un liquido da degustare, quando proprio voglio fare il raffinato intenditore mi faccio guidare da chi mi consiglia cosa abbinare con cos’altro. Altre volte (barbaramente) mi piace rinfrescare un rosso importante in frigorifero qualche tempo.  Riesco a volte, è vero, a capire se un vino sa di tappo, e riesco a sentire, altre volte, aromi e profumi che non saprò mai a quali spezie si riferiscono, e lì mi fermo, sono un consumatore più o meno abituale, non un raffinato conoscitore. Però sono grato a Pino de Luca perchè, con “Per canti e Cantine”, forse a sua insaputa parla anche a me e prova a mettermi a mio agio abbinando la cantina alla musica, ed essendo di una generazione quasi contigua (lui è decisamente più giovane) ricordo i canti che cita, le cantine invece le intravedo e i bicchieri di vino li immagino. E ricordo, i filari di viti che ho visto da sempre. Mi hanno accompagnato dal Monferrato alle Langhe, sulle colline Toscane, le pianure Romagnole e giù, fino al Salento. Da Fenoglio e Pavese e Paolo Conte, a Verri, Bodini, Mino De Santis.  Con l’amore, la musica ed il vino si può diventare grandi, immensi, immortali forse, per dirla con Galeano “siamo tutti mortali fino al primo bacio e al primo bicchiere di vino”. Non so se Galeano si è spinto troppo oltre, però manca la prima emozione provata ascoltando Chopin piuttosto che il bolero di Ravel o, più prosaicamente ma neppure troppo, il salentino e irridente Mino De Santis che canta “tuttu è cultura, anche se cangia la temperatura”.  E ricordo Guccini che nei suoi concerti, accanto alla sua seggiola, aveva una bottiglia di vino.

pino de luca

Si, De Luca dice a me, profano, che nei canti e nelle cantine (perché non ha messo anche incanti, nel titolo?) ci si può perdere. Le parole avvolgono perché sono:

“come il vino, hanno bisogno del respiro e di tempo perché il velluto della voce riveli il loro sapore definitivo” (Luis Sepulveda) .

Così è piacevole farsi accompagnare in questo non immaginifico viaggio fra paesi, città, cantine e produttori attenti e capaci, nominati uno ad uno,  da Taranto a Manduria, a Copertino a Brindisi e ancora altri, campi di terre rosse, viti e vitigni, canti e cantori. Fare accarezzare il negramaro di Copertino dalla voce di Sangiorgi, il Negramaro e i Negramaro. Oppure sentire irrompere “libiamo libiamo” de La Traviata bevendo bollicine ad Alezio. O ancora  immaginare il sapore forte e prepotente di un primitivo bevuto sulle note di “All’alba Vincerò” cantato da Mario Del Monaco. E ancora risentire, perché scordarcene?

 

“…La fatica è di più

Sulle braccia scure

Lacrime

Non ne abbiamo più

Facce scolpite e dure

Voglia di cambiare

Bella terra mia

Nata allu soli

Forte terra mia

All’odio e all’amuri

E sacra como stu cielu

Grande co’a stru mari

Tutta la vogghiu

Tutta la vogghiu liberari…”

 

cantata in un Festival di Sanremo il secolo scorso da Mariella Nava da Taranto. E ascoltarla mentre si bene un negramaro figlio della forte terra da liberare dall’ipocrisia, dai rifiuti forse. Terra grande, immensa, imprigionata fra i due mari. “Una zattera” per citare un altro immenso salentino, il regista, autore, attore Mario Perrotta.

Oppure sedersi e sorseggiare un rosato di negramaro, perché altro non può essere, secondo Pino, il vino rosato se non di uve Negramaro. Perché il rosato non è del Salento, ma è il Salento stesso. Ne ha i profumi, la luce, la forza. Chissà, questa domanda la giro all’autore, se ne ha anche le contraddizioni di essere un rosso fermatosi a mezza strada. Sorseggiare e ascoltare musica di rinascita e di colori intensi, albe e tramonti che fanno rima con amori e la leggera pesantezza di sentimenti forti e avvolgenti, ascoltando la primavera di Vivaldi.

A leggere il viaggio salentino di De Luca mi è venuto in mente, piuttosto che le colline monferrine o langarole, terre di nobilissimi vini che si chiamano Barolo, Barbaresco, Barbera, il misconosciuto (ingiustamente) Grignolino ecc., il ligure sciacchetrà. Vitigno coltivato su terrazzamenti che guardano il mare delle Cinque Terre. Terreno strappato alle rocce, ripulito, dove si produce quella meraviglia. Forse saranno quelle rocce che vedo spuntare di tanto in tanto dalle terra rossa di Salento a ricordarmelo, chissà. O forse la vicinanza del mare. E non si può parlare di Liguria, mi consentirà Pino, senza riascoltare Creuza de ma di Fabrizio De Andrè. Quei sentierini che fanno tornare alla mente contadini con la vanga in spalla. Ho fatto una digressione geografica anche se, ammetto e concordo pur nella mia enoica ignoranza, con Pino “…Abbiamo vini in Salento che non temono assolutamente i maestri d’altre parti d’Italia e nemmeno quelli d’oltralpe…”, ma sui vini francesi non facciamo digressioni, quando vorranno imparare a vinificare, l’Italia intera li accoglierà con gioia e senza far loro pesare una pur evidente superiorità.

 

Pino De Luca – Per Canti e Cantine – Kurumuny editore – € 12,00

 

[1] P. De Luca- Per canti e cantine pag. 97

La Quercia elegante di Carpignano

RICOMINCIA LA STAGIONE DELLE GHIANDE. Mi raccomando a tutti gli appassionati di Natura salentina e mediterranea, cominciano i giorni in cui la rarissima Quercia elegante di Carpignano dona le sue preziosissime ghiande, non lasciamone nessuna ai roditori, ma siano raccolte, una volta cadute a terra, accudite perché germoglino e piantate tutte! Informatene anche gli appassionati che non hanno facebook! Un bene rarissimo e prezioso che è un peccato sciupare! Finché non ne avremo piantumate un centinaio ovunque, la varietà è ancora a rischio! Pensate che a fine ottobre verrà anche un gruppo di appassionati di querce appositamente dall’ Olanda proprio per prenderne le preziose ghiande!

Oreste Caroppo

caroppo
Quercus caroppoi, Carpignano Salentino. Foto di Oreste Caroppo del 14 settembre 2012

ECCEZIONALE SCOPERTA BOTANICA nel Salento: la Quercia Elegante (Quercus caroppoi) esemplare unico al mondo e sconosciuto
(testo diffuso dal Forum Ambiente e Salute)

Che il Salento fosse terra di meraviglie, questo lo si sapeva già, ma oggi ancor di più il Salento si scopre e mostra in tutta la sua ricchezza territoriale e biologica, fregiandosi di una perla rarissima, anzi, unica al mondo! A Carpignano Salentino, borgo simbolo di agricoltura e tradizioni fortissime e millenarie (documentate e riscoperte dal grande drammaturgo Eugenio Barba e il suo sperimentale Odin Teatrer), la già ricca biodiversità salentina oggi si arricchisce di una gemma preziosissima.

Proprio nel territorio di Carpignano Salentino è stato scoperto un inedito e unico esemplare al mondo di quercia, tanto da meritarsi quale nome scientifico lo stesso nome del suo scopritore, Oreste Caroppo, difatti questa perla rarissima di biodiversità è stata battezzata quale “Quercus caroppoi” e che per la sua innegabile bellezza e eleganza si è meritata il nome di Quercia Elegante di Carpignano Salentino.

ph Oreste Caroppo
ph Oreste Caroppo

L’esemplare scoperto è l’antichissima testimonianza ancora viva e vegeta del mitico, variegatissimo e lussureggiante “Bosco dei Greci”, e prima ancora dei Messapi, ricordato, a tutt’oggi, dagli anziani e dagli abitanti di questi luoghi magici; bosco di straordinaria bellezza che si estendeva da Calimera, dove ancora oggi, presso la famosissima chiesetta di San Vito, nel cui interno si trova l’apotropaica megalitica pietra forata, si possono ancora notare degli imponenti esemplati di Leccio (Quercus ilex, localmente chiamato in vernacolo “lizza”), guardiani e custodi di una delle porte di accesso nell’area boschiva che a partire la lì ammantava il territorio fino alle porte di Martano, comprendendo il borgo di Carpignano Salentino e Serrano declinando da un lato verso Borgagne e Roca Vecchia e le attuali marine di Melendugno quali Torre dell’Orso-Sant’Andrea-San Foca, fin su a congiugersi con la foresta delle Cesine e di Rauccio, la foresta di Lecce, e dall’altro lato unendosi a sud-est con l’area boschiva dei Laghi Alimini e Otranto, e a sud fino a fondersi con le selve (la Silva) della immensa e antichissima Foresta Belvedere, nel cuore del basso Salento, ricchissima di biodiversità mediterranea e di una relitta flora appenninica lì conservatasi grazie a particolari condizioni microclimatiche geologiche e orografiche sin dall’epoche preistoriche, e che a sua volta si congiungeva a sud con le macchie di Tricase ricche di Quercie Vallonee (Quercus macrolepis, specie quercina, questa, emblematica e vivente in Italia soltanto in Terra d’Otranto, salvata dall’estinzione locale grazie alla corale partecipazione spontanea dei salentini, che ne hanno preso le ghiande e l’hanno ripropagata quasi ovunque possibile; una mobilitazione civico-ambientalista che fa oggi ben sperare per una rapida massima diffusione di questa nuova e, forse, anche molto antica entità quercina, la Q. caroppoi, ritrovata e vivente in territorio di Carpignano.

ph Oreste Caroppo
ph Oreste Caroppo

Questa strabiliante scoperta, oltre a riempire di indicibile gioia tutti i cittadini del Salento, a dimostrazione dell’estrema importanze e vitalità che giorno dopo giorno ci regala questa straordinaria terra, impone un’importante presa d’impegno da parte di tutti, e, soprattutto, da parte di tutte le istituzioni, ovvero la doverosa attivazione di un programma di massima salvaguardia e tutela di questo esemplare unico al mondo con la creazione pianificata di una campagna di propagazione tramite un sano e doveroso piano di ripristino naturale dei luoghi storici, con sistematiche azioni di riforestazione e salvagaurdia, con azioni puntuali di bonifica-decementificazione e deasfaltizzazione, seguendo un certosino restuaro paesaggistico-territoriale. Un’entità botanica che ha bisogno dell’amore di tutti affinché le sue preziosissime ghiande siano raccolte e coltivate con massima cura negli orti e giardini del territorio pugliese per un’azione partecipata e condivisa volta alla salvezza di questa splendida, e bisognosa di cure, Quercia Elegante. Allo stesso tempo è importante la ripropagazione e diffusione da parte del Corpo Forestale dello Stato di questa inedita entità quercina.

ph Oreste Caroppo
ph Oreste Caroppo

Qui a seguire si può leggere l’importante e ufficiale relazione redatta dal prof. Piero Medagli ricercatore del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche ed Ambientali (Di.S.Te.B.A.) dell’Università del Salento.

———————————————————

Lecce 21 maggio 2013

Spett.le Amministrazione Comunale di Carpignano Salentino,

su segnalazione di Oreste Caroppo e verifica del sottoscritto con successive indagini bibliografiche e di laboratorio, è stata accertata la presenza in agro di Carpignano Salentino di un esemplare arboreo bicormico (con due tronchi separati partenti da un ceppo comune) di una quercia di origine ibridogena derivante dall’incrocio tra quercia di Palestina o quercia spinosa (Quercus calliprinos Webb) e cerro (Quercus cerris L.). Benché gli ibridi nel genere Quercus siano abbastanza diffusi in natura, l’ibrido in questione risulta costituito da una combinazione nuova e del tutto inedita alla scienza e si tratta dell’unico esemplare vivente fino ad ora conosciuto di questa rara entità alla quale è stato ufficialmente dato il nome di Quercia di Carpignano, sulla base della sua collocazione geografica (nome scientifico Quercus x caroppoi in onore di colui che per primo ha posto attenzione su questa nuova entità ibrida). I due tronchi risultano avere un’età di circa 20 anni ciascuno e sembrano scaturire alla base da un ceppo di circa 300 anni di età attualmente ricoperto e nascosto da un muretto a secco. Forse si tratta di un esemplare residuo di un’antica formazione forestale oggi scomparsa. La assoluta rarità di questo esemplare unico al mondo, sulla base delle conoscenze attuali e la sua collocazione lungo un bordo strada, impone rigorose misure di salvaguardia dell’esemplare ed iniziative volte alla conservazione e adeguata diffusione del nuovo ibrido con la creazione di nuovi individui prodotti da autoimpollinazione naturale e collocazione in aree idonee da individuare, al fine di scongiurarne l’estinzione. Ovviamente gli studi scientifici su questa entità sono ancora in corso presso l’Orto Botanico dell’Università del Salento e mirano a ricostruire le caratteristiche e le modalità di formazione del nuovo ibrido la cui origine, come accennato risale a circa tre secoli fa, in un contesto ambientale assai diverso dall’attuale. In ogni caso le informazioni acquisite sono sufficienti affinché venga data ufficialmente comunicazione all’Amministrazione Comunale di Carpignano Salentino allo scopo di predisporre adeguate iniziative di tutela. Ovviamente sia il sottoscritto che l’amico Oreste Caroppo restiamo a disposizione per ogni ulteriore chiarimento. Con i migliori saluti.

Dott. Pietro Piero Medagli – Botanico Università del Salento

———————————————–

 

ph Oreste Caroppo
ph Oreste Caroppo

A nuda voce. Canto per le tabacchine

 

nell’ambito della rassegna OktoberBook

a cura dell’Assessorato alla Cultura di Copertino

Domenica 19 Ottobre 2014 – alle ore 19.00

 

a Copertino (LE) presso la SALA CIVICA (Via Verdi)

 

ELIO CORIANO

presenterà

“A nuda voce. Canto per le tabacchine”

(musicaos:ed, poesia)

Voce e testi

Elio Coriano

Musica

Vito Aluisi

introduce, Luciano Pagano

ingresso libero

 

ElioCoriano-A-nuda-voce-canto-per-le-tabacchine

 

Domenica 19 Ottobre 2014, alle ore 19.00, nell’ambito della rassegna OKTOBERBOOK, realizzata dall’Assessorato alla Cultura di Copertino, si terrà, presso la Sala Civica di Copertino (via Verdi), la prima presentazione nazionale di “A nuda voce. Canto per le tabacchine”, la raccolta poetica di Elio Coriano.

“Elio Coriano con questa sua opera intende restituire una voce alle tabacchine morte il 13 giugno 1960 a Calimera, a causa di un incendio nei locali della ditta Villani e Franzo. Questo canto si unisce a quello di una generazione di salentini che hanno lavorato, anche in condizioni disumane, per garantire un futuro ai propri figli.” (dalla quarta di copertina). Questa raccolta inaugura la collana di poesia di musicaos:ed.

 

dall’introduzione al volume, di Ada Donno

“Il Salento era diventata una delle aree più altamente specializzate nella produzione e la prima lavorazione delle qualità di tabacco levantino, che Rosetta e le sue compagne avevano imparato a distinguere e a chiamare coi loro nomi impronunciabili che a loro suonavano come “santujaca”, “peristizza” e “zagovina”: le più chiare dalle più scure, le più larghe dalle più piccole, le più ruvide dalle più lisce. Le tabacchine erano manodopera indispensabile: prima di tutto perché la lavorazione delle foglie richiedeva le mani abili, leggere e veloci delle donne, meglio se in giovanissima età. Spesso erano quelle stesse mani che negli altri mesi dell’anno tessevano i propri corredi al telaio o ricamavano quelli commissionati dalle signore dei paesi.

E poi perché era manodopera docile, che si poteva pagare la metà degli uomini senza dovere spiegare perché, disposta a piegarsi ad ogni angheria pur di tenersi quel posto.

Molte delle compagne di lavoro di Rosetta provenivano dalle famiglie di coloni o di braccianti che producevano il tabacco nelle campagne attorno agli opifici. Con la loro fatica stagionale, precaria e frammentata, d’estate nelle campagne di raccolta e d’inverno negli opifici, le lavoratrici del tabacco integravano il reddito familiare.

Tale concezione integrativa, a giustificazione della bassa retribuzione femminile, era stata per secoli lo strumento di assoggettamento sociale, politico e culturale, nonché familiare, delle donne. Secondo un criterio indiscusso, infatti, alle donne veniva corrisposto per legge solo il compenso dello sforzo richiesto dal lavoro in fabbrica o in campagna. Il corrispettivo economico delle cure domestiche, invece, attività propria della donna per definizione e destino, veniva integrato nel salario dell’uomo capofamiglia, al quale soltanto spettava il mantenimento della donna e dei figli.

E caso mai non fosse bastata questa giustificazione, c’era l’altra più rozza e sbrigativa, comunemente accettata, dell’inferiorità della forza fisica femminile, del più basso livello d’istruzione e specializzazione e rendimento: in una parola, della naturale, ineliminabile inferiorità della donna.”

 

dall’intervento di Francesco Aprile

all’interno del volume

“C’è tutta la dimensione di Elio Coriano in questo ultimo lavoro poetico. C’è tutto un percorso che dall’esordio si articola assumendo la vita come una forma di resistenza poetica ai ‘mali” sociali.’”

“Ci sono un paio di mani callose morbide e bianche più della madonna, felici, bagnate dal sole e dalla fatica sotto le unghie. Ci sono un paio di mani callose morbide e bianche, sodali d’amore e crescita e maturazione, e sanno come fare del silenzio una canzone di fatica e lotta, di coscienza e amore.” 

 

dall’intervento di Luciano Pagano all’interno del volume

“Elio Coriano, nel suo excursus poetico, che va dalle prime opere pubblicate a oggi, si è mosso, dunque, partendo dall’io e dalla scrittura come attraversamento dei deserti dell’anima, fin dalle più estreme solitudini che derivano con il confronto tra tenebra e luce, anima e corpo, realtà e ideale. I versi del poeta hanno così costruito una corazza solida, tale da permettere un ritorno alla realtà con atteggiamento differente, propositivo e portatore di un messaggio di rivendicazione che va oltre la semplice denuncia, per approdare infine ai toni della poesia civile, e al suo confronto con la storia, sia contemporanea che quotidiana, fino all’immediato presente. La poesia di Elio Coriano, quindi, prende consistenza, in “Für Ewig 3” e in questo suo “A nuda voce”, in una occasione di riscatto per coloro che non hanno voce, riannodando la scrittura di Coriano alla tradizione della poesia contemporanea, che si sostanzia come dialogo incessante tra pensiero e scrittura, tra filosofia e storia, tra reale e razionale, con un testimone preso in prestito, per citare tre nomi, da Bertolt Brecht, Anna Achmatova e Franco Fortini.”

Introduzione di Ada Donno

Interventi di Francesco Aprile, Luciano Pagano

edizione italiana e inglese

elio-coriano-a-nuda-voce-canto-per-le-tabacchine

Elio Coriano è nato a Martignano nel 1955. Poeta e operatore culturale, insegna italiano e storia presso l’Istituto Professionale “Egidio Lanoce” di Maglie. Con Conte Editore ha pubblicato “A tre deserti dall’ombra dell’ultimo sorriso meccanico” (Three deserts from the shadow of the last mechanical smile – Premio Venezia Poesia 1996), nella collana Internet Poetry, fondata da Francesco Saverio Dodaro. Con “Le pianure del silenzio” tradotto in cinque lingue, ha inaugurato sempre per Conte Editore, E 800 – European literature, collana diretta e ideata da Francesco Saverio Dodaro. Nel 2005 ha pubblicato per “I Quaderni del Bardo”, “Dolorosa Impotenza. Il Mestiere delle Parole” con dieci disegni di Maurizio Leo e la prefazione di Antonio Errico. Nel 2006 per Luca Pensa Editore, nella collana Alfaomega, ha pubblicato “Scritture Randage” con la prefazione del filosofo cileno Sergio Vuskovic Rojo. Del 2007 è “H Letture Pubbliche (poesie 1996-2001)” con ‘i libri di Icaro’. Nel 2004 fonda assieme a Stella Grande e Francesco Saverio Dodaro il gruppo di musica popolare “Stella Grande e Anime Bianche” di cui è curatore dei testi e direttore artistico. Inoltre, negli ultimi due anni, ha curato e messo in scena una sua orazione su Gramsci, intitolata FÜR EWIG, accompagnato dal pianista Vito Aluisi. Nel 2010 pubblica, per Lupo Editore, “Il lamento dell’insonne”, vincitore nel 2012 del premio nazionale “Città di Mesagne”. Nel 2013, pubblica “Für Ewig 3” (Lupo Editore), presentato per il “76° Gramsci, Pensatore Unitario” il 27 giugno 2013 presso la Camera dei Deputati. I testi di “A nuda voce. Canto per le tabacchine” fanno parte di uno spettacolo teatrale e musicale realizzato con Stella Grande e Anime Bianche.

 

 

 

“A nuda voce. Un canto per le tabacchine” – Elio Coriano

 

musicaos:ed, poesia 01, pp. 194, ISBN 978-1500815271

 

 

 

www.musicaos.it

 

info@musicaos.it

 

 

 

“Spirale”, raccolta di poesie di Eugenio Guagnano

 guagnano
Sarà presentato ufficialmente sabato18 ottobre 2014, alle ore 19.00, presso il Fondo Antonio Verri, Via S. Maria del Paradiso a Lecce, il libro “Spirale”, raccolta di poesie di Eugenio Guagnano edito da Edizioni Esperidi. Introduce Mauro Marino, giornalista e responsabile del Fondo Verri, dialoga con l’autore Maria Conte, docente di filosofia. Sarà presente l’editore Claudio Martino.Il Volume. “Ogni iniziato della poesia conosce quanto alto è il rischio: bere l’idromele furtivamente rende cattivi poeti, alzarsi in volo senza una direzione preclude l’esito del viaggio” (dall’introduzione di M. Conte). Inquietudine, trasgressione, rigenerazione: sono tre gli stadi attraverso cui si dipana la spirale dei versi del giovane Guagnano; un pezzo di vita diventato poesia con la consapevolezza che “la bellezza è nella bontà del pensiero”.L’autore. Eugenio Guagnano (Nardò 1988) frequenta il corso di scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce e, affascinato dal teatro, di recente ha iniziato a studiare recitazione. Suona da autodidatta chitarra e tastiera. Da adolescente si avvicina alla poesia leggendo i classici della letteratura italiana dedicandosi poi anche a Baudeleire e Auden. La poesia è per Eugenio una relazione necessaria ma non sufficiente tra uomo e natura.

 

Conservazione, gestione e valorizzazione dei Beni Culturali

 

“Corso di Formazione in Italia per Operatori Esteri ICE-Assorestauro”

13/16 Ottobre 2014

Tema generale del corso:

Conservazione, gestione e valorizzazione dei Beni Culturali

Come tutti gli anni Assorestauro è stato incaricato dall’Istituto per il Commercio Estero (ICE) per il coordinamento e la gestione scientifica del corso dedicato ad operatori esteri specializzati nel settore del Restauro e provenienti da paesi di primario interesse per il mercato del comparto della conservazione.

I paesi invitati quest’anno sono:

OMAN – LIBANO – GIORDANIA – PALESTINA

Lecce può egregiamente rappresentare la naturale “porta” europea da e per i paesi del Mediterraneo non solo per l’accoglienza degli immigrati ma anche per attività culturali di altissimo livello, come testimonia questo corso: infatti, Lecce – Città candidata Capitale europea della Cultura 2019 è con noi.

Dopo visite a cantieri di Napoli, al cantiere di Pompei, a cantieri a Bari, a Nardò e a Lecce, il corso si concluderà proprio a Lecce

GIOVEDÌ 16 OTTOBRE 2014 a Palazzo Turrisi Palumbo, via Marco Basseo, dalle ore 15.00

con un seminario tecnico al quale parteciperanno le imprese che hanno messo a disposizione i propri cantieri per le visite, con una introduzione scientifica a cura della Soprintendenza, nella persona dell’Arch. Michela Catalano, e dell’Università del Salento, nella persona della Prof.ssa Mariaenrica Frigione.

A seguire sono previsti incontri B2B con gli ospiti stranieri, aperti a tutte le aziende del settore del Restauro che hanno interesse ad intraprendere relazioni con i paesi invitati.

4^ PEDALATA PER LA PACE E LA LEGALITA’ “in memoria di Renata Fonte”,

renata

4^ PEDALATA PER LA PACE E LA LEGALITA’ “in memoria di Renata Fonte”, Domenica 19/10/2014 a Porto Selvaggio.

Vi informiamo che domenica 19/10/2014 si svolgerà la 4^ pedalata per la pace e la legalità a Porto Selvaggio, luogo simbolo della lotta alla criminalità, vero gioiello della natura. Una ciclo-passeggiata che ci aiuterà a “rigenerare memoria”, a ricordare Renata Fonte, donna, madre, amministratrice del Comune di Nardò, uccisa il 31 marzo 1984. Alla piccola carovana dei promotori potranno unirsi altri gruppi ciclistici e cittadini con auto proprie. Nel parco a lei dedicato incontreremo sua figlia, Sabrina Matrangola e continueremo una riflessione-azione affinchè il sacrificio di Renata Fonte a favore dell’ambiente, della sua terra, della cultura della legalità possa continuare ad essere un monito per tutti. Con i più cordiali saluti. Rino Spedicato  Presidente Associazione Retinopera Salento Onlus

L’iniziativa è promossa da: Retinopera Salento Onlus, ACLI, Bici in Opera, ASD Oria Messapica, Friends’ Bike Brindisi, Gruppo Ciclistico Salice Salentino, Gruppo Ciclo-Amatori Torre Santa Susanna, Amici di don Tonino Bello, con il patrocinio di “LIBERA” e dei CSV “Poiesis” e “Salento” (Centri Servizi al Volontariato per le province di Brindisi e Lecce)

portoselvaggio (ph Marcello Gaballo)

Per info:  associazione@retinoperasalento.it; bicinopera@gmail.com; aclisanpancraziosalentino@gmail.com; 393/7666828

Programma:  ore 8.00 raduno c/o il piazzale della stazione di servizio “Total” via x Torre Lapillo a San Pancrazio Salentino;  ore 8.15 partenza;  ore 9.45 arrivo a Porto Selvaggio;  ore 10.00 incontro con Sabrina Matrangolo, figlia di Renata Fonte;  ore 10.30 esibizione del balletto del Centro Danza “Movimento” sul brano musicale del cantautore Angelo Presta dal titolo: “Renata, mia madre”;  ore 10.45 visita al parco “Renata Fonte”;  ore 11.45 “panino in compagnia”;  ore 12.15 ritorno in bici.  Vi aspettiamo.

In sella per la pace, la legalità, la promozione della cultura del volontariato, la tutela dell’ambiente

La rinascita della stupenda valle del fiume Asso

asso
ph Maurizio Calò

di Oreste Caroppo
Un sogno comune da materializzare tutti insieme e al più presto, nella nostra Apulia Salentina!

Dopo il processo virtuosissimo ed in corso in tutto il cuore del basso Salento, volto alla partecipatissima rinascita del grande Parco naturale dei Paduli e della sua antica e magica Foresta Belvedere, è giunto il tempo di seminare nei cuori e nelle menti di noi tutti quei semi di speranza e di impegno per la rinascita e la massima valorizzazione, tutela e innanzitutto massimo restauro paesaggistico e di biodiversità, del nostro più grande fiume Salentino e della sua intera valle, il Fiume Asso!
Fiume che nasce proprio nei Paduli, tra Collepasso e Cutrofiano, due città del Parco della foresta Belvedere, e da lì si snoda verso settentrione attraversando i feudi di Galatina, Galatone e Nardò, dirigendosi in direzione di Leverano e Copertino, per affossarsi nel sottosuolo, prima di questi paesi, in una grande voragine, chiamata la Vora del Parlatano, in agro di Nardò, dove le sue acque, come alcuni dei più sacri fiumi endoreici dell’antica Grecia, si inabissano nelle viscere della terra, scorrendo nella falda freatica profonda, per poi riaffiorare, sostengono alcuni, nelle polle sorgive nelle “spunnulate” della Palude del Capitano sulla costa neretina prossima a Sant’Isidoro, nel Golfo di Taranto, e da qui sfociando in mare!
Nei suoi tratti iniziali il fiume attraverserebbe anche delle profonde caratteristiche gole, mi dicono alcuni dei locali, ma io non l’ho ancora completamente esplorato questo nostro fiume lungo tutto il suo corso, e credo che sarà un’ avventura emozionante percorrerlo, scoprendone la ricchezza di natura, storia e suggestioni, e sognando ad ogni passo quali interventi dolci e aggiuntivi dobbiamo noi tutti realizzare per ridare a lui e a noi massima dignità!
Un fiume da riscoprire, Sacro, come sacro era ogni fiume per gli antichi, ma cancellatoci dalla memoria da indefinibili consorzi di bonifica, che continuano a farne vilipendio speculativo da fermare assolutamente invertendone il logorante andazzo!

Lungo il suo corso dobbiamo aggiungere vegetazione alla vegetazione esistente, specie autoctone e originarie a specie, non depauperarlo di quanto di naturale già accoglie e conserva come in uno scrigno del tempo, come in un’ Arca di Noe!

Dobbiamo pulirlo da ogni rifiuto antropico che lo inquina lungo il suo corso e sui suoi margini! Come oggi lungo i 200m di corso in feudo di di Galatina, da una stupidissima rete plastica, più una soffocante pellicola plastica, che andrebbe se non rimossa oggi subito, ad inquinare tutto il corso del fiume, non solo il tratto oggi così palesemente e orribilmente vilipeso, quando iniziarà a sfaldarsi. E’ stata
lì deposta dopo aver tagliato irresponsabilmente i canneti, sugli argini a soffocamento biocida della vegetazione. Va rimossa subito o rischia di assassinare anche le preziose presenze dei narcisi che decorano gli argini del fiume! Interventi speculativi e deliranti, definiti “sperimentali”, in un tratto persino tutelato paesaggisticamente nel nuovo PPTR (il virtuoso Piano Paesaggistico Territoriale della Regione Puglia)! Ed invece con quella plastica nera si è reso quel tratto di fiume, nell’aspetto, quello di un canale da fogna o da stabilimento industriale!
A quell’ orrore che è sotto gli occhi di tutti da alcune settimane, han dato il mistificatorio nome di “geostuoia”! Era un esperimento!? Ok, è fallito rimuovetela subito la vostra geostuoia sacrilega perché l’argine terroso torni e vivere, verdeggiare e respirare! Non pensate di estendere con altra speculazioine altrove il fallimentare esperimento!
Dobbiamo decementificarlo quel nostro fiume nei suoi tratti più belli, i margini terrosi devono esser trattenuti dalla flora, e dalle radici degli alberi igrofili da piantarvi massimamente! Decementificazione che includa la voragine in cui sfocia nel suo corso endoreico, voragine da valorizzare invece massimamente con muretti (e massicciate al più) in pietra a secco, non certo con il cemento e con oscene reti metalliche!
Interventi di ingegneria naturalistica vera, e non obbrobri e cementificazione di argini ed inghiottitoi carsici con la scusa speculativa della prevenzione del dissesto idrogeologico, per la quale dei folli avevano tentato strumentalmente di proporre, persino, in Italia, di piantare mostruose brevettate piante, alberi anche, ogm mutate artificialmente con ingegneria genetica! Siamo al delirio da conoscere e fermare!

Dobbiamo fare nascere invece progetti virtuosi e scientifici di reitroduzione e ripiatumazione, in collaborazione con l’Univesità del Salento (Orto Botanico, Disteba Dipartimento Scienze e Tecnologie Biologiche ed Ambientali), il Museo di Storia Naturale di Calimera, cooperative di giovani laureati volenterosi e ispirati che coinvolgano altri giovani ed i territori, ecc. ecc.
Era il fiume che congiungeva la Foresta Belvedere del cuore del basso Salento, con le aree paludose e macchiose dell’ Arneo, e da qui, attraverso queste con le foresta lucane ripariali e costiere delle valli alluvionali, e con quella oritana e quindi con le aree naturali murgiane delle gravine e quindi appenniniche!
Dobbiamo guardare alla flora e alla fauna di queste aree prossime per ricostruire la flora e la fauna, e dunque il paesaggio del nostro Fiume Asso! Far sì che nelle sue acque tornino i Granchi di fiume (Potamon fluviatile, che ancora vivono nelle gravine delle Murge tarantine), che vi siano introdotti sperimentalmente i Gamberi di fiume italici (Austropotamobius pallipes, e non invasive specie aliene!), la permanenza delle acque lì tutto l’anno, lungo il suo corso, è un fiume perenne, permette questi interventi ricostruttivi fluviali seri!
Dobbiamo immaginare la creazione di laghetti naturali lungo il suo corso dove la natura geologica e orografica lo permette, per la massima diversificazione della biodiversità, per creare aree rifugio per la fauna e flora acquatica nel caso di periodi di estiva siccità. Aree di naturale impaludamento lungo il suo corso!
Ricostruire la fauna malacologica, studiando quella già esistente.
Introdurre i mitili, cozze d’acqua dolce, come l’ Anodonta cygnea, già ritrovabili nei più vicini fiumi lucani, e che svolgono un’ importante azione di filtraggio delle acque, importante insieme a quella fitodepurativa delle tife (Typha latifolia, Typha angustifolia) e di altre piante palustri.
Diversi paesi nel corso dell’ Asso sversano in esso le loro acque pluviali, che si aggiungi ungono alle acque del suo bacino idrografico naturale, più quelle del depuratore consortile di Maglie che convoglia innumerevoli paesi del basso Salento. Fermo restando che i depuratori dovrebbero funzionare sempre al meglio, è proprio la presenza della vegetazione spontanea che garantisce una azione di importantissima fitodepurazione, motivo per cui questa va massimamente conservata e gestita con massima oculatezza!

Reintrodurre la Castagna d’Acqua (Trapa natans, dai siti europei più prossimi in cui vegeta, segnalata nel recente passato nel Salento, nel Canale dei Samari a Gallipoli)

Reintrodurre l’ Ululone dal ventre giallo appenninico (Bombina pachypus, che ancora vive nelle gravine delle Murge tarantine, ed in passato segnalato nelle aree umide di Ugento), ad arricchimento della fauna anfibia, insieme al Tritone italico (Triturus italicus, forse già presente, poichè presente nei rivi dei Paduli), e al Tritone crestato (Triturus cristatus carnifex, segnalato nel salentino Parco naturale umido costiero delle Cesine); progetti virtuosi di incremento della biodiversità e rinaturalizzazione che vedono simili interventi già avviati con succeso nella zona di Matera, ma che stentano ad essere avviati anche nel basso Salento! E quale luogo migliore del rinascente Fiume Asso, volgarizzato in canale, da rivo, fiume che era e che deve ornare ad essere!

La permanenza delle acque tutto l’anno e la natura perenne di questo corso d’acqua fanno si che vi si peschino pesci d’acqua dolce, non so se vi siano pesci rossi e carpe, come in molti bacini del Salento, (e data la loro origine asiatica nel nostro continente euro-asiatico, e data la loro ampia diffusione in natura in Italia da tantissimo tempo, ritengo che non dovremmo ormai tacciarli quali specie alloctone da combattere, ma anzi, specie da apprezzare massimamente)!
Ma c’è anche chi mi ha giurato d’aver pescato lì dei cavedani alcuni anni fa, (una specie d’acqua dolce italica), e chi mi ha confermato comunque come sia un fiume pescoso ancora oggi, tanto più grazie ai continui apporti di acqua dei depuratori!

Ed immagino che vi vivano anche le anguille, che percorrono anche le cavità carsiche, e che da questo fiume, anche, forse raggiungevano le aree umide dei Paduli in passato, ed il grande Lago Sombrino di Supersano (che attende di rinascere anch’esso nel Parco dei Paduli, e dall’ ‘800, quando dall’ uomo fu prosciugato!), come dal mare sempre le anguille raggiungono attraverso corsi d’acque, paludi, prati umidi e forse anche percorsi d’acqua sotterranei il Lago Trasimento in Umbria, pur non avendo questo grande lago interno continentale, del centro italia, fiumi emissari superficiali!

Importante pertanto in un fiume con pesci, la paludi sui margini, da straripamento del corso d’acqua per la biodiversità dei crostacei e degli anfibi.

Ecc. ecc. per le reintroduzioni di piante ed animali guardando alla fauna e alla flora del Salento, della intera Puglia e della Lucania. E guardando ai progetti già di Rinascita della umida in parte antica Foresta Belvedere, dove erano le sue sorgenti!

E’ un fiume vivo, con presenza di aironi, cavalieri d’Italia, cicogne nere persino pare, bianche, ecc. ecc. ecc. in merito alle ricchezze avifaunistiche!
Un Fiume e la sua valle dalle grandi potenzialità, anche per la introduzione di pesci fluviali tipici del sud e centro Italia, e comunque europei!

Lungo le sue sponde dobbiamo farvi tornare una foresta igrofila a galleria, con piantumazione di Salici bianchi (Salix alba), Pioppi bianchi (Populus alba), (e neri, Populus nigra, ma in purezza! Non ibridi!), Farnie ed altre querce, Ontani neri (Alnus glutinosa, come presenti lungo il corso del fiume Sinni nella vicina Policoro, nel Bosco Pantano), e poi Platani orientali (Platanus orientalis, in purezza! Non ibridi! Come presenti lungo le fiumare del Bruzio e delle prossime terre Greche ed Albanesi). Tutti alberi del sud Italia, amanti dell’ acqua dolce, tipici delle foreste planiziali e igrofile!

Basta assolutamente a piante ibride commerciali diffuse da vivai ed enti di falsa ricerca a fini speculativi!

Immagino il restauro dei vecchi ponti in pietra lungo il suo percorso, nella filosofia dov’erano e com’erano! Il rivestimento in pietra di quelli in cemento, se non sostituibili, la costruzione di ponti in legno di valenza paesaggistica, ma anche funzionale, staccionate in legno lungo alcuni tratti!
Tutto nella filosofia di un Parco fluviale, da collegare a fondere al Parco dei Paduli, sua propaggine settentrionale, corridoio ecologico importantissimo!

E lì, lungo una valle talmente rinata, tutto riassumerebbe dalla bellezza del paesaggio, massima e nuova luce!
Lì, un’ Agricoltura delle tipicità, anche riscoperte, e fondata sulla massima filosofia della salubrità agroecologica, che acquista marchio e valore aggiunto dal luogo pittoresco!

Il restauro delle masserie e degli abituri rurali, dov’erano e com’erano, e mi raccontano persino di un villaggio rupestre in una gravina attraversata dal nostro fiume!

Tutto senza cemento, senza altro asfalto, senza architontiche trovate offensive di land art, tutto nella riscoperta e massima esaltazione del “Genius Loci”, senza hi-tech interventi di illuminazione offensiva.

Tutto questo meraviglioso e comune sogno territoriale del Salento attraversato dall’ Asso, il suo più lungo fiume, i salentini lo possono fare materializzare! C’è l’acqua, e l’acqua è vita; se la sappiamo gestire bene, trattare e rispettare, questo sogno diventerà presto virtuosa rilassante piacevole realtà da cui lasciarsi fieri pervadere!

 

Nota foto:
Fiume Asso, da una foto diffusa su facebook di Maurizio Calò il 20 ott. 2013, un tratto in feudo di Galatina

Lu Nanniuèrcu

di Armando Polito

Mi meraviglio che tra le tante giornate celebrative non sia stata istituita anche quella dedicata al ladro, al truffatore, all’ipocrita, etc. etc. Perché, per fare più presto, non ho detto al politico? Se è il lettore a chiedermelo (per l’Europa rimango in attesa …) non ho nulla in contrario, anche perché ormai il proverbio non fare di ogni erba un fascio mi sembra inapplicabile nella fattispecie e, oltretutto, la festa proposta non sarebbe dissimile nei risultati  da quella appena celebrata nei riguardi del nonno, con la differenza che il politico continua a far festa (cioè a rubare, mentire etc. etc.) e al nonno si continua a fare la festa, visto che ormai con la sua pensione (chissà se la percepirà, magari parzialmente, fino alla morte …) è stato costretto a sfamare figli e nipoti.

Da sempre, purtroppo, l’economia è stata il faro predominante dell’umanità e man mano che essa è passata da uno stato di salute accettabile a quello di una malattia che sembra non lasciar scampo (ai più deboli …) la figura del nonno è stata rivalutata, sia pur, forse, solo materialmente. Non più quel vecchio rincoglionito e bavoso della cui presenza ingombrante disfarsi, da  ghettizzare (la separazione dagli affetti è una ghettizzazione finché uno non se ne costruisce, faticosamente, di nuovi; ma nel nostro caso il tempo stringe per poterlo fare con possibilità di successo) collocandolo in qualche ospizio, ma un essere da amare e, soprattutto, curare perché la sua morte significherebbe, probabilmente, quella, pure per fame, del figlio idiota e, per mancata ricarica del telefonino, del nipote, ancora più idiota di suo padre.

Ci saranno pure delle eccezioni ma è triste pensare che esse, se ci sono, rappresentano la regola di un passato anche non molto lontano in cui il nonno, pur divorato dalla demenza senile o da qualche altra malattia degenerativa delle capacità cerebrali o fisiche, era considerato, comunque, un simbolo da rispettare concretamente.

Ma, da dove deriva nonno? Per fare giustizia delle imprecisioni che già sono presenti in alcuni vocabolari cartacei1 e, a cascata, in rete, riporto la scheda tratta dal glossario2 del Du Cange con la mia traduzione a fronte e le  note esplicative in calce.

 

Tra tutte le etimologie proposte nella scheda, a parte la voce egizia che viene messa in campo ma non riportata, a parte le difficoltà fonetiche poste da domnus>nonnus, l’unica convincente è proprio la finale, ascritta al Fleetwood ed alla quale sembra aderire pure il Du Cange.  Mostra di essersene accorto a suo tempo il Pianigiani dal cui dizionario on line (http://www.etimo.it/?term=nonno&find=Cerca) riporto la scheda relativa.

Conclusione: nonno è dal latino medioevale nonnu(m)=monaco anziano, a sua volta dall’analoga voce del latino tardo che in S. Girolamo (IV-V secolo) significa monaco, così come nonna nello stesso autore significa monaca. Il corrispondente greco è  νάννας (leggi nannas) o νέννας=zio materno o paterno. E il collegamento tra la voce greca e la latina è proprio nella voce salentina nanni e nel suo composto nanniuèrcu (=nonno orco), per il quale, come contraltare della figura del nonno esaltata all’inizio, rinvio il lettore a https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/07/10/spauracchi-di-ieri-e-di-oggi/.

_____________

1 Un esempio per tutti: Dizionario italiano De Mauro (2000): “latino tardo nŏnnu(m)=balio, di origine espressiva, cfr. greco nónnos=padre”. Nonnos sarebbe la trascrizione di νόννος; peccato che tale parola in greco non esiste.

2 Glossarium mediae et infimae Latinitatis, Favre, Niort, tomo V, p. 606.

 

Giuggiole alias scèsciule, per pochi intenditori!

giuggiolo con i frutti (ph Júlio Reis, da Wikipedia)

di Massimo Vaglio

Le giuggiole, sono i frutti dello giuggiolo (Zizyphus jujuba Miller), albero di media statura della famiglia delle Ramnacee. E’ uno dei principali fruttiferi coltivati in Cina, mentre in Italia, benché presente fin da epoca romana è coltivato sporadicamente e in esemplari spesso isolati. I frutti sono piccole drupe rotonde o ovali simili a grosse olive che a maturazione presentano una colorazione marrone rossastro. La polpa è biancastra e di sapore acidulo.

Oltre che essere consumati allo stato fresco, i frutti vengono traformati in confetture; essiccati, onde renderli più conservabili (datteri cinesi), oppure sciroppati.

Nel Salento, il giuggiolo è oggi rinvenibile in esemplari isolati o più spesso in siepi semi inselvatichite nei pressi di masserie e vecchi casali abbandonati, ma un tempo era un albero piuttosto diffuso in diversi comprensori e in particolare nel territorio di Leverano i cui abitanti andavano commercializzando per tutti i mercati i suoi frutti.

Oggi, nel Salento, oltre che sporadicamente presenti nei mercati allo stato fresco, le si ritrova in vendita anche sciroppate in occasione di alcune fiere e in particolare in quella di Sant’Ippazio a Tiggiano, in quanto, insieme alle carote, costituiscono un cibo rituale.

Giuggiole sciroppate

Ingr. : 1kg di giuggiole, 750 gr di zucchero, 7 dl d’acqua.

Calate nell’acqua bollente le giuggiole, tenetecele per quattro-cinque minuti, quindi scolatele. Ponete lo zucchero in una casseruola, versatevi sopra l’acqua e ponete sul fuoco, fate sciogliere lo zucchero mescolando di continuo e calate le giggiole, quando lo zucchero comincia a cadere a goccia, levatele con una schiumarola a fori larghi e conservatele in vasi di vetro.

 

C’è chi va e c’è chi viene…

emigrati

di Gianni Ferraris

E’ stato pubblicato il rapporto sull’emigrazione all’estero di italiani relativo al 2013. La fondazione Migrantes della Caritas ha fatto un impietoso quadro della drammatica situazione in cui la crisi economica ha ridotto l’Italia e l’Europa intera. Aggiungerei che una mano l’ha offerta la politica miope degli ultimi governi e dell’Europa che hanno incentrato tutto e solo sui sacrifici, quando premi nobel ed esperti internazionali dicono che il momento di lanciare investimenti in infrastrutture e creare un volano per l’economia è proprio evitare eccessivo rigore. Ma tant’è.

Nel 2013 sono partite dal bel paese 94.126 persone (78.941 nel 2012 con un incremento pari al 16,1%). A questo punto gli stranieri (esclusi gli irregolari) che arrivano da noi sono 43 mila ( dato 2010), abbondantemente inferiore a quello degli emigrati.

Gli italiani residenti all’estero risulterebbero essere 4.482.115.

A partire negli ultimi anni sono stati in prevalenza gli uomini (56% circa) di cui il 60% single. Fascia d’età più rappresentata dai 18 ai 34 anni (36,42%). Segue con il 26,8% la fascia 35/49 anni.

Fra le donne si legge delle città di Macerata e Trieste che ne hanno visto partire molte per l’Argentina, seguite da Fermo e Pordenone. Queste sono le provincie dove la migrazione femminile è superiore a quella maschile. A livello regionale invece il primato spetta al Friuli che ha visto fra i migranti il 50,3% di donne. Un primato.

Il Regno Unito è la meta preferita con una crescita di arrivi, rispetto all’anno precedente, del 71%, seguono Germania,  Svizzera e Francia.

Sono dati interessanti, tristemente interessanti, che denunciano una situazione di recessione non solo economica, ma politica, etica e sociale, l’Italia torna ad essere paese di migranti, e non occorre essere raffinati economisti o sociologi per comprendere quanto distanti siano le scelte e i discorsi della (misera) politica dalle reali situazioni. L’Italia sta per essere deindustrializzata, la ricerca vede punte d’eccellenza a livello mondiale e non viene finanziata, consentendo a moltissime menti eccellenti, preparate e laureatesi in Italia di venire richieste all’estero dove si fanno loro ponti d’oro.

Gli estensori della ricerca sottolineano come questa nuova emigrazione “ponga nuovi interrogativi e nuovi impegni… alla luce degli ultimi sviluppi e dell’incremento numerico degli spostamenti che riguardano migliaia di giovani, mediamente preparati ed altamente qualificati a livello medio alto, oppure del tutto privi di titoli di studio”. E pongono l’accento anche sulla mancanza dello Stato nell’assistere questi migranti,

«Per oltre un secolo l’associazionismo ita­liano all’estero ha sup­plito all’assenza dello Stato e sovente ancora oggi è rin­trac­cia­bile que­sta pecu­lia­rità di mutuo soc­corso tra i mem­bri, una tra­di­zione di soli­da­rietà reci­proca che è entrata a far parte di un modo di essere e di ope­rare dell’italiano fuori dei con­fini nazionali»

In sostanza si tratta di un fallimento dello Stato italiano da ogni punto di vista.

Giornata ecologica a Maglie

bosco

SABATO 11 OTTOBRE 2014: Giornata ecologica a Maglie

Il Coordinamento “Tutela del territorio magliese” e l’Associazione ARCI-Biblioteca di Sarajevo organizzano per sabato 11 ottobre 2014 dalle ore 15,00 un momento di coinvolgimento e di sensibilizzazione ambientale dei cittadini tramite la ripiantumazione di essenze tipiche della macchia mediterranea nell’area prospiciente il pattinodromo in via Francesco Negro a Maglie.

Numerose sono state negli anni, ed in particolare negli ultimi mesi, le iniziative  svolte nella zona in questione da parte dei proponenti. ARCI-Biblioteca di Sarajevo è intervenuta più volte sull’area  con le sue iniziative di “guerrilla gardening”, sviluppate  anche su altri spazi in città (vedi  Piazza Ettore Negro e Comparto Ciancole con le “Feste dell’albero” proposte alle scuole cittadine). Il Coordinamento si è impegnato negli ultimi mesi a denunciare il totale stato di abbandono in cui versava un luogo che, se rivalutato opportunamente, può rappresentare un piccolo polmone verde in un quartiere molto popolato, privo di spazi aperti fruibili dai cittadini e che ha subito nel corso di questi ultimi venti anni la costruzione di un pattinodromo mai entrato in funzione e  diventato, suo malgrado, un monumento allo spreco delle risorse pubbliche.

Gli appelli e le denunce di questi mesi hanno finalmente sortito l’intervento di una ditta incaricata alla pulizia dell’area verde che nelle scorse settimane ha sfalciato i rovi esistenti da numerosi anni. In tale circostanza, però, le piante messe lì a dimora dai volontari hanno subito lo stesso trattamento delle erbacce.

Per questo il Coordinamento e l’Associazione, nella continuità e nello spirito di operazioni come “Pulizie di primavera” e “Pulizie di autunno” che hanno visto la partecipazione di molti magliesi, ripropongono una giornata ecologica per ripiantare essenze caratteristiche della macchia mediterranea oltre che per coinvolgere e sensibilizzare i residenti della zona che più volte hanno lamentato l’incuria di uno spazio che può essere, con semplici interventi, recuperato e destinato alla fruizione pubblica.

L’auspicio delle due organizzazioni è  che iniziative di questo genere si moltiplichino per spingere ad una maggiore sensibilizzazione pubblica verso il rispetto dell’ambiente e del decoro urbano perché ritengono che sia indispensabile sviluppare nella cittadinanza il senso di appartenenza ad una comunità e la responsabile riappropriazione dei valori insiti nel rispetto dei beni comuni.

 

Per il Coordinamento “Tutela del territorio magliese”

Roberto Aloisio – Roberta Culiersi

Per ARCI-Biblioteca di Sarajevo

Lucio Montinaro

Sta devastando migliaia di ulivi sparsi su oltre 25mila ettari del Leccese

ph Marco Cavalera
ph Marco Cavalera

di Francesco Greco

 

“La poltiglia bordolese? Una panacea, una suggestione, un modo di illudersi di contrastare la xylella fastidiosa e i suoi vettori…” (per il prof. Francesco Porcelli “pannaturismo cosmico”). E dunque, citando il Sommo Poeta: lasciate ogni speranza voi ch’entrate. La scienza gela il rimedio antico, naturale, proposto in un convegno ben riuscito ad agosto a Castiglione d’Otranto (ma non sottoposto a test), contro il micidiale batterio sconosciuto in Europa (in Brasile attacca agrumi e caffè) che occlude i vasi xilematici provocando (in 4-5 anni) la morte della pianta, che da un anno (15 ottobre 2013, ma l’incubazione, asintomatica, data almeno a 5-6 anni prima) sta devastando migliaia di ulivi sparsi su oltre 25mila ha del Leccese, concentrati nella zona di Gallipoli, Alezio, Taviano, Alliste, Parabita, Nardò e che avanza: è allarme pure nel Capo di Leuca.

DSC_1261

Pare però che la qualità “leccino” sia più resistente di “cellina” e “ogliarola” (gli impianti giovani). A rischio anche mandorli, ciliegi, oleandri, acacie, ginestre, ecc. Incluse molte piante da giardino. Primo sintomo: foglie rosso mattone. Il virus avanza di 20 cm. al mese. Se si mette mano con la motosega, si consiglia di tagliare mezzo metro oltre il ramo malato.

D’altronde, non si possono fare le nozze coi fichi secchi: se gli Usa (il microclima della California e Gallipoli sono assimilabili), che da 130 anni sono alle prese con lo stesso virus che attacca la vite, per contrastarlo finanzia la ricerca con 4-5 milioni di $ annui (e ci sono voluti 6 anni per testare la malattia di Pierce), qui siamo nell’ordine di 8mila €: la spending review che tollera l’evasione fiscale e i fatturati dei poteri criminale poi lesina i denari per le emergenze ambientali. Bella Italia, amate sponde…

DSC_1301

Sott’accusa anche l’Europa: non controlla efficacemente le frontiere. Così forse è penetrata da piante sospette e ci si espone alle epidemie. Per la xylella, indice puntato sulle piante ornamentali (42 milioni, giunte pare nel 2012, via Rotterdam) dal Costarica (lì attacca mango e noce, ulivi non ce ne sono), entrate clandestinamente.

Sullo sfondo è appena nato il Comitato Scientifico allargato a una componente internazionale, mentre a Gallipoli è previsto un convegno di esperti. Lo si è appreso a un convegno sul “complesso disseccamento rapido dell’ulivo” a Morciano di Leuca, indetto dalla Pro-Loco, moderato dall’avv. Antonio Coppola, con una folla di coltivatori preoccupati, che hanno incalzato gli studiosi con domande pertinenti. Dopo i saluti del presidente Antonio Cacciatore, del presidente dell’Unione delle Pro Loco del Capo di Leuca Antonio Renzo e l’assessore Maria Rosaria Ottobre, le relazioni di Antonio Pizzileo, agronomo e i ricercatori Donato Boscia (Istituto Virologia Vegetale Cnr di Bari: “E’ una malattia nuova, non c’è memoria…”) e Porcelli. Amaro un vecchio contadino: “Dopo secoli siamo riusciti a uccidere pure gli ulivi…”. E un altro: “Abbiamo dimostrato quello di cui siamo capaci e adesso la natura impazzisce e si vendica…”. Un terzo: “Provo a pensare come sarà la nostra terra senza ulivi e mi vien da piangere…”.

La bontà della poltiglia bordolese, rimedio antichissimo (rame e calce viva) a Castiglione era stata però dimostrata, slide alla mano, da Ivano Gioffreda, portavoce dell’Associazione “Spazi Popolari Agricoltura Organica Rigenerativa” (sue le foto), a cui rivolgiamo alcune domande.

 

ph Marco Cavalera
ph Marco Cavalera

Domanda: Poltiglia bordolese, suggestione o via percorribile?

Risposta. Noi non interveniamo sul batterio, rafforziamo le autodifese della pianta con rimedi naturali.Non è affatto una suggestione, io curo ancora molte patologie dell’apparato respiratorio con i rimedi della nonna a base di erbe. Abbiamo solo utilizzato vecchie pratiche agronomiche, il solfato di rame è un antibatterico e un antifungino, l’idrossido di calcio (calce) è un disinfettante naturale usato da secoli. La vecchia poltiglia bordolese autoprodotta non porta ricchezza alle casse delle multinazionali dell’agrochimica. Successivamente siamo intervenuti alla radice, con un prodotto naturale a base di aglio, che alcuni ricercatori spagnoli venuti fin qui ci hanno gratuitamente consegnato per la nostra sperimentazione empirica. Ci siamo accertati che fosse un prodotto naturale e registrato e lo abbiamo usato alla base della pianta, intervenendo sulle radici.

 

D. Quali i sintomi della malattia?

La sintomatologia si nota dall’alto della chioma per poi diffondersi su tutta la branca, sino al basso della pianta. Proprio come una verticillosi.

 

D. Che fare appena si sospetta che l’uliveto potrebbe essere stato contaminato?

R. Noi non ci sostituiamo agli organi preposti, di certo non ci atterremo a quelle norme scellerate previste dalla quarantena che prevedono l’uso massiccio di diserbanti e insetticidi per uccidere i fantomatici insetti “vettori”.

 

D. E in termini di prevenzione?

Curare la terra e gli olivi. Una buona potatura aiuta la pianta a rivegetare, ossigenare il terreno con un leggero coltivo, ritornare alle buone pratiche dell’innerbimento e del “sovescio”: così facendo si restituisce alla pianta sostanza organica a costo zero. Disinfettare la pianta con la solita poltiglia bordolese autoprodotta (grassello di calce e solfato di rame). All’occorrenza, disinfettare e nutrire i tronchi con solfato di ferro e calce alle dosi consigliate.

 

D. Come si trasmette il batterio?

R. Non capisco il perché alcuni soggetti si accaniscono sul batterio e non sulla moltitudine di funghi tracheomicosi  presenti sulla pianta e sulla radice. Credo che si stia facendo cattiva informazione: abbiamo perso il contatto con la realtà, e quindi dobbiamo tornare a essere più umili, prima con noi stessi e poi con madre Terra. Con la rivoluzione “verde” dettata dall’agrochimica sponsorizzata da alcune Università, abbiamo contribuito a distruggere la biodiversità e rotto quell’equilibrio biologico perfetto, frutto del creato. Io non uccido nessun essere vivente!

 

D. La falda inquinata, magari da rifiuti tossici, da percolato, può essere una spiegazione alla xylella?

R.  Una cosa è certa: la nostra Terra è martoriata.

 

D. L’uso scriteriato della chimica e la smania di far produrre ogni anno le piante può aver influito sulla diffusione del batterio?

R. L’altro giorno leggevo la retro etichetta di una nota multinazionale dei diserbanti, recita così: “Buona Pratica Agricola nel controllo delle malerbe, l’applicazione degli agrofarmaci non è corretta se viene realizzata con attrezzature inadeguate”. Come possiamo ben notare, le stesse  multinazionali dell’agrochimica, che prima ci avvelenano e poi ci “curano”, stravolgono il senso delle parole.

Domenica 5 Ottobre a Trani abbiamo concluso la 3 giorni del 2°meeting “Terra e Salute”, tra i relatori spiccavano alcuni nomi noti del mondo accademico, il prof. Cristos Xiloyannis e il prof. Pietro Perrino, ed erano entrambi a conoscenza della drammatica situazione in cui versano i nostri olivi, ne abbiamo parlato a lungo, sono concordi con le nostre analisi e con i nostri metodi naturali di intervento. La flora batterica è completamente assente, le sostanze nutritive di origine organica sono granelli di sabbia, la chimica non aiuta certo la pianta, anzi, contribuisce ad abbassare le autodifese.

 

D. L’eradicazione di cui si parla può fermare il batterio?

R. Che facciamo, applichiamo l’eutanasia agli olivi viventi ? Di olivi completamente morti non ce ne sono e l’eradicazione non è una via percorribile e non risolve il problema batterio. Con i batteri e altri patogeni dobbiamo convivere, Dio non ha creato animali per essere uccisi, dobbiamo cercare il giusto equilibrio. Gli olivi sono la bellezza del nostro paesaggio agro-culturale. I nostri olivi non si toccano!

 

D. Posto che si eradichi, il pollione che nascerà crescerà sano?

R. Nelle zone più interessate all’essiccamento, Li Sauli, Castellana, ecc., possiamo notare che l’arbusto olivo reagisce, ma non ha la forza per mantenere tutto il peso della chioma, perché mancano le sostanze nutrienti naturali. Quindi, è la pianta che lascia morire parte di se stessa. Quando viene potata e quindi alleggerita dal suo carico, l’olivo reagisce, perché concentra le proprie energie nutritive sui pochi rami rimasti.

 

D. Cosa pensa dell’ipotesi che la xylella sia stata portata per boicottare l’olio di Terra d’Otranto?

R.  Se sia stata importata o no, non sta a noi verificarlo, avevamo dei dubbi e per questo presentammo un esposto in Procura.  Una cosa è certa: questa nostra martoriata Terra è sotto attacco, e gli avvoltoi sono troppi, la nostra Terra fa gola a molti speculatori, fa gola pure alle mafie del cemento.

 

D. Che interessi si giocano sul nostro olio?

La nostra Regione era la terra più vitata d’Italia, poi ci convinsero a estirpare circa il 30-40% dei nostri vitigni, con punte del 50% nel Salento  in cambio di 10-12 milioni delle vecchie lire per ha, quote cedute alle Regioni del Nord.  Non vorrei che si praticasse lo stesso parassitismo per i nostri olivi: il Sud ha già dato troppo al Nord.

 

D. La raccolta 2014 è iniziata, la produzione calerà. Dall’estero arrivano disdette di ordini: può rassicurare il consumatore che nonostante il batterio l’olio prodotto è di ottima qualità?

R. L’attuale annata è scarsa in tutto il Bacino del Mediterraneo, e non a causa del batterio. La nostra preoccupazione è per le prossime annate, fin quando i nostri olivi non si riprenderanno. Quest’anno la produzione non sarà sufficiente a soddisfare tutte le richieste, e l’essiccamento non incide minimamente sulla qualità del prodotto. Siamo preoccupati dell’invasione di olio proveniente dagli impianti ultra-intensivi dell’Australia.

Vecchi ricordi

matera-111

di Domenico Carratta

 

Non sono di Nardò, mio padre lo era, anche se l’aveva abbandonata per cercare fortuna al Nord, cosa riuscita in minima parte.
Ciononostante, ci obbligava ogni estate a trascorrere un intero mese nel suo paese natale.
Abitavamo vicino a Porta Falsa, nel centro storico, in una casa veramente antica in cui al piano terreno c’era la stalla con l’asino e di sopra l’abitazione con un gigantesco focolare in cui mia nonna cuoceva cose deliziose e mai più eguagliate, nonostante i miei sforzi. Usava pentole spesse un dito perché le lavava sempre e solo dall’interno, ma le sue polpette di carne con le foglie di menta, le sue friselle, le sue pettole o la sua trippa comprata cruda e pazientemente pulita con l’acqua bollente sono un ricordo incancellabile. Era analfabeta, e non sapeva leggere l’orologio, per cui ci diceva che ora era guardando l’ombra del sole sullo stipite della porta. Una meridiana vivente, oltre che una donna dolcissima. Mio nonno era stato un Ardito durante la prima guerra mondiale, cioè uno di quelli che combattevano davanti alla prima linea. I più coraggiosi e i più feroci di tutti. Era stato compagno di trincea di Benito Mussolini, e a distanza di tanti anni conservava il passo spavaldo del giovane bersagliere che era stato. Di fianco a casa nostra c’era uno stagnino che riparava gigantesche pentole in rame, ma ogni tanto si sentiva ululare un venditore che con un’Ape portava la grande novità: le vasche di Moplen per lavare i panni. Stava arrivando la plastica. La mattina mio nonno, dopo avere fatto colazione con fichi d’India e peperoncino fresco, attaccava l’asino al calesse, poi faceva un rumore impercettibile con la bocca, e l’asino partiva e, senza ulteriori istruzioni, arrivava alla sua campagna, a Sant’Angelo o San Belluccio. Quando era ancora buio si sentivano scampanellare le biciclette, e file interminabili di donne si avviavano verso la campagna perché era la stagione della vendemmia. Abitavamo vicino al cimitero e non di rado si sentiva suonare la banda che accompagnava il defunto alla sua estrema dimora. Suonavano sempre lo stesso pezzo, ma non ricordo quale. La piazza del paese era animata soltanto da uomini, che parlavano animatamente. Verso le sei della sera veniva invasa da un delizioso profumo: erano i pezzetti, deliziose salsicce di cavallo, che venivano comperate a numero e portate bollenti a casa avvolte in una spessa carta gialla. Se il paradiso esiste da mangiare danno i pezzetti. La mattina si andava al mercato, che era poco oltre la piazza, ed era costituito dal mercato generico, il mercato della frutta e verdura e il mercato del pesce che fra tutti era di gran lunga il più affascinante. C’erano due cinema, dove ho visto tutti i film di Franco e Ciccio e di Sergio Leone, anche più di una volta. Quando stavamo per partire, c’era la grande festa di Cosma e Damiano che a noi pareva la festa più grande del mondo, soprattutto paragonata alle magre feste religiose del Nord. Andavamo al mare all’Addu, che poi non so perché si è chiamato Porto Selvaggio, portandoci da bere l’acqua nell’unbile, un recipiente di terracotta che trasudando la teneva meravigliosamente fresca. Ma a mezzogiorno tutti a casa a mangiare le friselle impastate dalla nonna e che il fornaio aveva cotto nel forno a legna senza farsi pagare, ma trattenendo una frisella ogni dieci, in modo da alimentare la vendita del suo piccolo negozio.
Ti amo Nardo’, amo la tua meravigliosa lingua che non parlo ma comprendo perfettamente e che leggo con grande piacere nei vostri interventi.
Saluti da Genova.

La Terra d’Otranto in un documentario di sessant’anni fa

di Armando Polito

Ignoro totalmente le regole burocratiche che oggi presiedono alla distribuzione di un filmato ma, comunque, voglio immaginarmele fortunatamente lontane anni luce dalle asfissianti disposizioni ministeriali in vigore nel 1954, anno cui si riferisce il nullaosta di seguito riprodotto da http://www.italiataglia.it/files/visti21000_wm_pdf/17921.pdf

 

 

Il documento, rilasciato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, Direzione generale spettacolo, autorizza la distribuzione di un filmato a colori,  prodotto da Dario Rossini e Giuseppe Giraldo Spitom1 per la regia di Enrico Moscatelli, così descritto: Il documentario descrive tutta la Terra d’Otranto attraverso i ricordi storici e le bellezze naturali. Mi pare un miracolo che l’annotata discrepanza, per quanto riguarda il metraggio, fra quanto dichiarato (270) e quanto accertato (288) non abbia prodotto alcuna conseguenza, considerando che in calce si legge: Si rilascia il presente nullaosta … sotto l’osservanza delle seguenti prescrizioni: 1) di non modificare in guisa alcuna il titolo, i sottotitoli e le scritture della pellicola, di non sostituire i quadri e le scene relative, di non aggiungerne altri e di non alterarne, in qualsiasi modo, l’ordine senza autorizzazione del Ministero …

Meno male che la successiva nota 2 non contiene nessun’altra ulteriore prescrizione2, anche se, nonostante tutta la mia fantasia, non riesco ad immaginarmi cosa si potesse aggiungere …

E pensare che giuridicamente, proprio a causa di Spitom per Spitoni, l’autorizzazione sarebbe nata nulla e che oggi, d’altra parte, pur volendo, non si potrebbe far nulla non solo perché, fortunatamente, il documentario fu distribuito, ma anche perché la stessa nullità è andata, e da tempo, in prescrizione …

Il lettore che lo desidera può visionare il documentario, che dura poco meno di 8 minuti, al link

http://www.archivioluce.com/archivio/jsp/schede/videoPlayer.jsp?tipologia=&id=&physDoc=3543&db=cinematograficoDOCUMENTARI&findIt=false&section=/, dal quale ho tratto tutti i fotogrammi qui riprodotti.

___________

1 Per Spitoni, come si legge correttamente nei titoli di testa (primo fotogramma della serie più avanti riprodotta).

2 Nel senso di ordine, disposizione di un’autorità, significato ben noto ad ogni cittadino onesto. Per gli altri, invece, la parola ha il significato di estinzione di un’imposizione (teoricamente dovrebbe indicare anche quella di un diritto, ma, nel paese della difesa dei diritti acquisiti non certo col sudore della fronte, per i furbi non vale), parola che include in sé anche il concetto di condanna. Insomma, la stessa parola ed un’unica etimologia (in latino praescriptio può significare imposizione ma anche eccezione giuridica, opposizione, cavillo, scusa)   per indicare due istituti non solo moralmente ma anche concretamente in contraddizione. E abbiamo la spudoratezza di definire ancora la nostra come la patria del diritto!

Santa Vittoria Vergine e Martire: storia di una devozione a Spongano

 

Santa Vittoria, da  http://www.comune.ficulle.tr.it/it/senza_titolo_1.html
Santa Vittoria, da
http://www.comune.ficulle.tr.it/it/senza_titolo_1.html

di Giuseppe Corvaglia

(dall’intervento del 22 dicembre 2006 ai bambini della scuola elementare di Spongano)

 

La devozione verso Santa Vittoria degli Sponganesi non è presente alle origini del paese.

E’ nel ‘600 in seguito alla Controriforma e soprattutto sotto l’influenza di Vescovi, come il vescovo di Castro Francesco Antonio De Marco che dona alla comunità una reliquia della Santa, che si cerca di far radicare il culto di Santi romani rispetto al culto di Santi di origine greca molto diffuso nel Salento per ragioni storiche e politiche.

A Spongano, a parte il culto mariano, erano oggetto di culto diversi Santi di origine greca: San Giorgio, titolare della parrocchia, Santa Marina, San Teodoro.

Nel XVII secolo viene introdotto a Spongano il culto di Santa Vittoria vergine e martire,fanciulla della nobiltà romana tesa verso una vita felice, promessa sposa ad un giovane nobile e brillante la quale si avvicina però alla buona novella cristiana grazie agli insegnamenti della cugina Anatolia. La fanciulla rinuncerà alle liete prospettive di una vita agiata e desiderabile e si donerà completamente a Cristo e alla carità verso i fratelli affrontando con fortezza e fede salda il martirio.

Gli Sponganesi provarono grande simpatia e devozione per questa giovane donna che rinuncia a una esistenza lieta, spensierata per insegnare l’amore senza paura di affrontare la morte e il 20 luglio 1766 con riunione del Capitolo parrocchiale e  un’adunanza del parlamento cittadino,  acclamano Santa Vittoria “special Protettrice e Padrona di questa terra di Spongano” ufficializzando una devozione sincera e sempre più crescente. Il parroco dell’epoca era don Crispino Bacile.

La Sacra Congregazione dei riti, sotto il papa Urbano VIII, il 21 febbraio 1767 concede di festeggiare la Santa nella seconda domenica di agosto.

La devozione è davvero sentita e così lo stesso anno il clero e il popolo chiedono il permesso di cantare il responsorio, scritto da un anonimo devoto sponganese, Salve Christi sponsa electa, un canto suggestivo giunto fino ai giorni nostri con intatta capacità di evocare intensa devozione. Il testo canta la storia e le virtù della santa giocando molto sul nome Vittoria e sul suo significato.

Negli anni successivi viene anche avanzata la richiesta di poter festeggiare la Santa anche il 23 dicembre data del suo martirio, secondo il martirologio romano, e il 3 agosto 1785 il Vescovo di Castro Agostino Gorgoni acconsente alla richiesta.

A Spongano, Santa Vittoria viene invocata contro il terremoto, la grandine, il maltempo e i fulmini. Probabilmente questo è da porre in relazione con alcuni episodi accaduti uno dei quali il 2 settembre 1779 e un altro il 13 agosto 1884 entrambe nella Chiesa Madre.

Un altro prodigio viene riferito, con aura di leggenda, durante la celebrazione per la festa patronale quando un fulmine entrò dal finestrone centrale della facciata con grande strepito, attraversò tutta la navata centrale piena di gente, come il resto della Chiesa, e andò a schiantarsi sul braccio del simulacro della Santa. Si dice che alcuni dei presenti videro il braccio della statua lignea protendersi verso la saetta quasi a proteggere la gente radunata in quel luogo sacro.

I tempi cambiano e nel 1951, in occasione del XVII centenario del martirio della Santa, il parroco dell’epoca, don Antonio Ligori, scrive un inno alla Santa in italiano con il quale si invoca la sua protezione sulle persone più deboli come i malati (la sofferente età), gli anziani (la declinante età) e su l’umanità intera. ma anche sui giovani (la giovanile età) bisognosi di sostegno e di guida. Santa Vittoria è ricordata infatti per l’opera di apostolato rivolta soprattutto ai fanciulli e ai bambini mentre era prigioniera a Trebula nell’agro romano; anche per questo la Santa è protettrice della gioventù femminile di Azione Cattolica.

Questo inno resta attuale anche se da alcuni anni è in auge un pregevole inno, composto dal Prof. Antonio Rizzello, più moderno, orecchiabile e coinvolgente ma non per questo meno autorevole.

Il testo evoca la storia della Santa e invoca la sua protezione sugli sponganesi e, nel ritornello, assume il nome, Vittoria, con il suo proprio significato. (Vittoria avrà chi crede in Te e dona a dio la sua libertà).

Come si può vedere ancora oggi la devozione verso questa Santa a Spongano non si è per nulla attenuata e non solo per la sontuosità dei festeggiamenti in suo onore, ma soprattutto per la sentita partecipazione del popolo di Spongano alle funzioni e alla affollata processione.

Pubblicato su Villaggio Salento Agosto 2007

 

RESPONSORIO IN ONORE DI SANTA VITTORIA v. m.

(anonimo sponganese  1767)

 

Salve Christi sponsa electa

Coeli sedibus invecta

Thriumphans Victoria

                                             Rit.      Deum pro nobis deprecare

                                                         Ut possimus reportare

                                                         De mundo victoria

Forti pectore expulisti

Et insaniam repressisti

In tui amore Eugenii.

                                              Rit.       Deum pro nobis deprecare……

Te fortiorem admiramur

Dum constantem contemplamur

In tormentis Decii

                                               Rit.      Deum pro nobis deprecare

Duplex hostis debellatur         

Duplex tibi preparatur

Palma in coelis gloriae.

                                              Rit.      Deum pro nobis deprecare

Gloria Patri et filio                                                         

Et Spirito Sancto

Traduzione

 

Salve, o eletta sposa di Cristo,

Vittoria,

condotta in cielo in trionfo.

                                                          Rit.      Intercedi per noi presso Dio

                                                                     affinché possiamo essere                     

                                                                     vittoriosi sulle malvagità

                                                                    e le avversità del mondo

                                                                    

Esprimesti un cuore saldo

E vincesti l’insensatezza

dell’amore per il tuo Eugenio.         

                                                                  Rit.

 Ti Ammiriamo fortemente

 e ti  contempliamo sicura

 nei tormenti  subiti per ordine di Decio

                                                                                               Rit.     

 Hai vinto un doppio nemico

 E per questo ti è stato preparata

Una duplice gloria  nei cieli.

                                                                                               Rit.    

Gloria al Padre e al Figlio

E allo Spirito Santo

                                                                                               Rit.     

 

INNO A SANTA VITTORIA NEL XVII CENTENARIO DEL MARTIRIO

                                                               (1951)

Scritto da Mons. Antonio Ligori

Musica di Padre Raffaele Letizia

Santa Vittoria Martire che il cor sacrasti a Dio

E nella fede intrepida sprezzasti il mondo rio

Salve o Vittoria Vergine; dal ciel di tua beltà

Mira con occhio tenero la giovanile età. (2 volte)

 

Il petto tuo virgineo offristi con ardore

Al duro acciar che celere ti trapassava il core;

fecondo allor spandevasi tuo fior di castità;

mira con occhio tenero la sofferente età. (2 volte)

 

Tuo nome ognor rivelasi presagio di vittoria

E col passar dei secoli assurge a nuova gloria .

I figli erranti e trepidi invocan tua pietà

Mira con occhio tenero la declinante età (2 volte)

 

Da questa terra turgida d’odio, di sangue ed onta,

guida nostr’alme misere al Ben che non tramonta;

fa che seguiamo docili le vie dell’amistà;

mira con occhio tenero tutta l’umanità. (2 volte)

 

Del dolce Cristo inebriaci Vita dell’alme e Via,

forti ci renda e impavidi la Santa Eucaristia;

Del cieco invano cercasi del Ciel la chiarità,

deh, Tu ci appresta vigile tua tenera bontà. (2 volte)

 

Spongano fedelissima dei Padri alle memorie

Nel centenar con giubilo inneggia alle tue glorie.

Tu a Cristo questo popolo tua dolce eredità

Consacra e un dì festevole Vittoria canterà (2 volte)

 

 

Inno a Santa Vittoria 

parole e musica del Prof Antonio Rizzello

Martire della fede,

O vergine Vittoria,

Cantando la tua gloria

Ci rivolgiamo a Te.

 

Tu consacrasti a Dio

Il fior degli anni tuoi

Vigila su di noi

Dall’alto della tua santità

 

Rit.      Vittoria avrà

Chi come Te

Consacra a Dio la sua libertà

Esempio Tu di fedeltà

di sacrificio e di carità.

 

Andasti al tuo martirio

Col tuo Signore in cuore

Il tuo terreno amore

Donasti al tuo Gesù.

 

L’esempio tuo risplenda

In tutti noi tuoi figli

La tua virtù consigli

A non tradire la verità.

 

Rit.      Vittoria avrà

Chi come Te

Consacra a Dio la sua libertà

Esempio Tu di fedeltà

di sacrificio e di carità.

Palmariggi. Lu Paniri te e site

a cura di Luigi Panico

 

 

“Lu Paniri te e site” coincide con il tramonto del secondo venerdì del mese di ottobre. E’ la festa dell’autunno, dei suoi sapori, dei suoi colori in una cornice che riporta indietro, alla civiltà contadina e pastorale. “Paniri te e site” è fiera-mercato la mattina della domenica (che rappresenta l’aspetto originario di questo appuntamento annuale), mentre è sagra contadina e del maiale la sera del venerdì, del sabato e della domenica.

Proprio con le prime nebbie d’autunno, tra le ultime vendemmie ed il maturare del cotogno e del corbezzolo, apre la sua ruvida scorza la rossa melagrana lasciando vedere i suoi meravigliosi frutti. E la melagrana, cui è titolatala Fiera, è la signora della festa. Una grande festa che celebra il vino, la buona antica cucina, il canto popolare: musica folk, liscio e pizzica, la possibilità di degustare carne di maiale cotta in vari modi – alla brace, “lessa” o “fervuta”, “cicore creste te campagna culla carne te porcu”, “pittule”, pezzetti di cavallo, pane di grano con ricotta forte e alici, lacci caldarroste e “pipirussi” (peperoni), mbruscatizzi (involtini di interiore d’agnello), tanto vino gratis. Stand gastronomici coperti.

L’organizzazione della Sagra viene curata dall’Associazione “Lu paniri te e site”che composta da oltre cento soci ed è stata costituita appositamente per questa manifestazione; non ha scopi di lucro ma devolve gli utili in beneficenza e per servizi utili alla collettività.

In occasione della fiera viene stampato poi un giornale locale a numero unico, tendente ad illustrare quanto di meglio si è fatto e s’intende fare oltre che curiosità, detti popolari, informazione, satira, cultura, poesia dialettale, articoli vari. Giornale questo atteso impazientemente da tutta la gente del luogo, viene distribuito nella mattina della domenica.

 

La foto è di Luigi Panico

Una biblioteca per lo sviluppo della comunità. A Gagliano del Capo

libri digitali

di Paolo Vincenti

Non è facile descrivere un anno e mezzo di attività culturale svolta dalla Biblioteca Comunale di Gagliano del Capo senza che questo si trasformi in una mero elenco di date, autori e titoli, insomma in una fredda nomenclatura. Non è facile, ma lo diventa se si considera il fatto che dietro ad un Ente, ad una qualsiasi istituzione, ci sono uomini e donne con il loro portato di entusiasmo, senso del dovere, dedizione. Se si considera il fatto che nessun successo, alcun traguardo,  è possibile senza che delle persone abbiano lavorato al loro raggiungimento. È il caso appunto della Biblioteca Comunale di Gagliano, intitolata a Vincenzo Ciardo (1894-1970), pittore e maggior gloria del paese, e della sua responsabile, dott.ssa Luigina Paradiso, alacre promoter culturale e autrice anche di un libro di storia locale “Don Ferdinando Coppola Parroco di Gagliano dal 1859 al 1918” edito da Congedo.

Il nostro resoconto di un anno e mezzo di attività della Biblioteca Comunale di Gagliano, inizia Il 2 marzo 2013, con la prima edizione della “Festa del Poeta” organizzata da Luigina Paradiso e dall’assessore alla Cultura Riccardo Monteduro.   Presentati da Mauro Ciardo e Maria Maggio, i poeti: Antonella Sergi, Antonio Ceddia, Imma Melcarne, Francesco Moncullo, Luigi Cazzato, Mario Battagliero, Cesare Piscopo, Salvatore Sergi. Musiche al pianoforte del maestro Maria Fino.

Si prosegue poi con il progetto“Vivere narrando storie”, ideato  e  curato  dalla  dott.ssa  Luigina  Paradiso. Nell’ambito dei“Giovedì d’Autore”, vengono ospitati mensilmente degli autori salentini con i loro libri, presentati in un contesto di cura e raffinatezza da parte degli organizzatori, grande interesse e partecipazione da parte del pubblico. L’atmosfera che si respira durante questi incontri è quella di una calorosa convivialità, di un operare cultura partecipato, democratico diremmo, allargato, arricchente.

La prima presentazione è del 4 aprile 2013, con il libro “Immagina la gioia” di Vittoria Coppola, relatore il giornalista Mauro Ciardo.

 

Il 14 maggio 2013 è la volta di Maria Pia Romano con “La cura dell’attesa”, relatore il giornalista Mauro Longo.  intermezzi musicali a cura della pianista Maria Fino e Letture a cura di Teresa Scappaviva.

 

Il 24 Maggio 2013, Luisa Ruggio con “Afra”.  Relatore il giornalista Mauro Ciardo. Letture a cura di Teresa Scappaviva e intermezzi musicali a cura della pianista Maria Fino.

 

Giovedi 6 giugno 2013, Fabio Calenda con “Rosso totale”. Relatore il professor Pasquale Rosafio. Letture a cura dell’attrice Santo Ciardo. Intermezzi musicali a cura della pianista Maria Fino. Tutte le serate sono introdotte da Luigina Paradiso, bravissima padrona di casa, la quale, a proposito del libro“ Rosso Totale”dice:  “Rosso come il drappo che il torero nel suo gioco d’illusione fa comparire e scomparire dagli occhi del toro impazzito, alla ricerca forsennata della sua chimera. Totale come  sono le passioni, totalizzanti nell’annullare la ragione. Questi erano all’incirca i ragazzi tra i venti e trenta anni, che nel decennio degli anni 70 decisero di fare esplodere la loro rabbia,spesso generazionale, tra figli e padri, contro quell’ordine primo costituito dalla famiglia, che la borghesia e il benessere derivanti stavano frantumando  , in un attacco ad un ordine costituito ben più grande,  lo Stato. In questo teatro inutile e tragico di protagonisti e comparse, di storie di singoli in primo piano, e di Eventi grandi sullo sfondo, dal golpe in Cile, agli Stati Uniti, alla Russia comunista negli anni 70, si esprime l’estetica di Fabio Calenda nel suo romanzo Rosso Totale”.

 

L’8 settembre 2013, Piero Borrello con il suo libro “Memorie di guerra”. Prestigiosi relatori i professori Antonio Cataldi Mario Spedicato Giuseppe Caramuscio. Scrive Luigina Paradiso: “Settanta anni dall’armistizio 8 settembre 1943 dall’inizio della catastrofe e contemporaneamente della resurrezione delle coscienze che finalmente si liberavano da una ideologia che teneva stretta in una morsa la libertà delle menti. La presentazione del libro di Borrello figlio” Diario di guerra” che dopo aver con cura e dedizione raccolto le lettere di suo padre combattente nella seconda guerra mondiale, le pubblica e stasera le dona a noi presenti.  Ogni lettera e ogni immagine fotografica pubblicata in questo volume sa esprimere per intero l’atmosfera del periodo così travagliato, intenso e sofferente per tanti e tanti uomini che la guerra la vissero in terra straniera,lontani dai loro cari e con l’angoscia del non rientro. Le lettere di Francesco Borrello rappresentano, come perle rare, la testimonianza diretta della sofferenza e tracciano in modo quasi metodico, come a non voler tralasciare nulla, ciò che accadde intorno a sé nel periodo che va dal 1939 al 1945 e nonostante gli impedimenti riescono, come  uccelli migratori, a raggiungere la destinazione anche dopo mesi o intere stagioni”.

Il 17 ottobre 2013, relatore l’ottimo Mauro Ciardo, viene presentato il libro di Mario Carparelli “ Il più bello e il più maligno spirito che io abbia mai conosciuto (Giulio Cesare Vanini nei documenti e nelle testimonianze)”. Introduce Luigina Paradiso. Letture a cura dell’attore Antonio D’Aprile e intermezzi musicali a cura della pianista Maria Fino. Al violoncello Tiziana Di Giuseppe. “Vanini in questo breve dissertazione vuol convincere dell’esistenza di Dio, ma più che per intima convinzione lo fa forse per timore o per ostentazione di dottrina. Qualunque sia stato il motivo le parole sono le più convincenti, le più armoniose , le più delicate per dimostrare che  la natura,la meravigliosa “De Admirandis è figlia di Dio. Mentre lui in verità come naturalista credeva in una  “religione della natura” che non nega Dio, ma lo considera un suo spirito-forza.”.

Il 26 ottobre 2013, Giovanna Bandini  presenta “Serial Lover”, con la giornalista Mariella Piscopo. Scrive Luigina Paradiso “Percorriamo  i meandri del cuore , dell’irrequietezza  di una giovane donna, Viola che affronta situazioni più grandi di lei, imprevedibili , arrampicandosi ogni volta alla speranza  di aver trovato l’amore vero, quello che ti fa sentire importante. Percorre, sbaglia e si nasconde al  mondo, delusa affoga nei cibi mentre   si lascia avvolgere da  nostalgici ricordi di infanzia. Ascolta suoni del passato come ad illudersi che tutto è immutabile nella vita, dal negoziante all’angolo della strada che non c’ è più e al cielo che a volte azzurro non le appare in quell’angolo   di casa, uno scantinato con un orlo di giardino.  Inizia il viaggio di riscoperta di sé proprio facendo suo quel piccolo pezzo di terra  pieno di sterpaglie. Si accorge,che esse  nascondono le rose , piantate forse  in un altro tempo e da altre persone. Le mette alla luce le porta a profumare ancora quell’angolo privo di vita,  ed esso diviene il suo segreto, che le  consola il cuore. Si nasconde come fosse una ladra, o forse da sé stessa ladra di illusioni e quando costretta deve uscire ,guarda  per strada ,come fossero reliquie  le case che l’hanno vista ospite con altri amori. Rivede  in esse  la sua vita fino a provare  tenerezza per i suoi proprietari, forse come a perdonarsi di errori commessi per desiderio d’amore.”

 

Il 12 dicembre 2013 è la volta di Ada Fiore col suo fortunato libro “Vota Socrate”. Relatore il Sindaco di Gagliano del Capo, Antonio Buccarello. Letture a cura dell’attore Antonio D’Aprile e intermezzi musicali a cura della pianista Maria Fino.

Il 2 gennaio 2014, Matteo Greco presenta “ Giorni fatti a mano”, relatori: Elena Tagliaferro, Gianni Pellizzari e Luigina Paradiso che così lo introduce:“Non so cucire le ore che seguono e che precedono,non so tenerle in tasca” dice Matteo, il poeta  che  parla con la magia della parola . La sua poesia  narra con i versi la fatica del vivere, che si lasca accarezzare dal vento, che benedice il gatto equilibrista e il suo puro vagabondare in una strada di paese,che guarda il mondo dandogli un nome che non arrugginisce con l’uso del tempo. Matteo  porta nel cuore di tutti un’immagine nuova, fresca come i suoi anni e intensa come la sua lirica. Recita l’amore senza fare rumore, con fiato di carezze mentre si traducono “ le mie mani in vento e ti sento”. Così  volge alla sua amata, bagnata di stelle filanti, all’amore che “ scosta liane nel caldo ed è arte e cucito” e fa nascere  la parola magica. Scopre il segreto della felicità e chiamerà l’amore: Mare e quanta dolcezza “vedere che partiamo uomini e torniamo a onde e cavalloni”. A lui  i versi che gli escono come fiume che scorre e plasma statue di fango sulla riva della vita. Ecco dove stasera ci porterà Matteo in mondo profondo come il mare, di chi sa come fare di ogni momento della vita,poesia ,pianto e sorriso”. Gli intermezzi musicali sono di Davide Sergi e Daniele Vitali.

 

Prezioso è stato per l’organizzatrice Paradiso il valido aiuto dei collaboratori volontari della Biblioteca fra i quali in primis Mimmo Russo, il fotografo Orazio Coclite e l’operatore Michele Ferilli che ha ripreso e trasmesso tutte le serate sulla web tv www.radiodelcapo.it

Il 31 gennaio 2014 è la volta di Paolo Vincenti che presenta“Nero Notte. Romanza di amore e morte”, con Luigina Paradiso, Mauro Ciardo, Letture di Vittorio Mangiullo e Ilaria Romano, Interventi musicali di Maria Fino. Scrive Luigina Paradiso: “In queste pagine si legge l’interiorità dell’Uomo di oggi ,con note disarmoniche dell’animo irrequieto che lotta ogni giorno col cuore e la  mente in cerca di qualcosa che forse ha già ,ma che continua a non vedere. Molti suggeriscono di essere felice con le piccole cose, ma ci sono uomini come  il protagonista Ermanno non si accontenta, per una sorte di impagabile desiderio di altro. Lo cerca in ogni sfaccettatura del suo mondo, trasgredisce di proposito come a provocare ed essere provocato, mentre il subbuglio del suo animo va per mondi diversi. Finisce per perdere il lavoro, continua a collezionare delusioni, continua a scrivere e a dipingere quadri, convinto che mai sarà né pittore né scrittore. Una giostra di delusioni e sbadigli dell’anima sofferente . La lettura di questo libro porta con sé la traduzione del cuore in tristezza, ma che sa risorgere se solo lo vuole. Ecco alla fine di questa lettura si ha come la sensazione di essere guidati, consigliati ad apprezzare  la felicita quotidiana, verso un mondo che ci vuole partecipi, perchè ognuno di noi ha da dare e non può farsi vincere da forze nichiliste e abbiette della mente confusa. Vi invito a leggerlo perché il dono chiuso in queste pagine è davvero unico e se Nero Notte può sembrare un titolo cupo io dico che si vede la Luce quella bianca dell’anima ,che si vuol bene e soprattutto guida a voler bene alla Vita.”

 

Venerdi 14 febbraio2014,si svolge l’iniziativa “Un mondo di fiaba”. Lettura fra gli scaffali della biblioteca” con i bambini della scuola elementare e la partecipazione della scrittrice Tiziana Cazzato col suo libro “Matisse a quattro zampe”. Come sempre, Luigina Paradiso a fare gli onori di casa. Con lei, l’Assessore alla Cultura di Gagliano, dott. Riccardo, la Dirigente Scolastica dell’Istituto Comprensivo di Gagliano, Dott.ssa Pamela Licchelli e la straordinaria pianista M°Maria Fino.

Sabato 15 Marzo 2014, fortemente voluta e tenacemente organizzata da Luigina Paradiso, si tiene a Gagliano del Capo presso l’Auditorium Comunale, la “Festa del poeta”, con mostra dei quadri degli artisti: Laura Petracca,Cesare Piscopo e Rosa Savarelli. Dopo gli interventi  del Sindaco Dr. Antonio Buccarello e dell’Assessore alla Cultura Dr. Riccardo Monteduro, presentati da Mauro Ciardo, gli interventi di Valentina Bodini, figlia del grande poeta Vittorio, e di Luigina Paradiso e poi dei poeti “festeggiati”: Giuseppe Greco, Pina Petracca, Lara Savoia, Matteo Greco, Elena Tagliaferro, Lara Carrozzo. Interventi musicali di Maria Fino e Giuseppe Calignano, performance teatrali di Marco Romano e Mino Profico e danze della Compagnia Arabesque.

Dichiara Luigina Paradiso nel suo discorso introduttivo alla festa : “Leggo Bodini, poeta e fratello di questa nostra terra che ha suoni per mani e  canti del cuore per sconfiggere l’amarezza che da sempre accompagna il vivere.  Una terra nostra fiorente di poesia,eco di malinconiche approvazioni di cuori in duello e tumulto di anime che sanno percepire il dolore e la gioia e colorarla di parole. Quanto poetare! quanti nobili sentimenti si scorgono all’orizzonte tra lune calanti e stelle lucenti, come se questo nostro cantare in versi ci porti a far compagnia all’universo per capire meglio ciò che all’uomo è dato di avere, è dato di sapere e sperare. Questa nostra terra che sembra voler nascondere dietro i suoi muretti a secco il mistero della vita e lascia parlare i suoi ulivi secolari, pronti a lasciarsi baciare come donzelle innamorate appoggiando la testa sul grembo dell’amato. Il poeta continua a rincorrere il sogno di felicità e si accorge di essere a volte vicino all’ebbrezza, ma a caro prezzo di rotture d’insofferenze e molti sono gli uomini condannati al coraggio. Uomini condannati ad dover affrontare il loro pensiero ingombrante, si rannicchiano nel cuore dei loro versi e lì si fanno forti, si corazzano dal mondo ostile e urlano, invano a volte il loro pensiero. E stasera qui festeggiamo questi uomini che più di  altri attingono colore e forza dal loro cuore e portano da esso alla bocca sollievo con versi lucenti come acque di torrenti in piena. E tu natura che rendi i cuori molli, porta a cavallo sulla luna, uomini e donne, che rincorrono il loro sogno di carta con dita di angelo e furia di vento e lascia che sia coraggio e forza il loro urlo e che sia musica e canto il loro messaggio”. Una serata di grande successo, più di 200 persone ad assistere in mistico silenzio nell’auditorium comunale, e con loro tutti quanti hanno voluto questo evento che si ripeterà negli anni a venire, a testimonianza che questa terra nei suoi lembi di zolle rosse nasconde poeti ed artisti, come afferma orgogliosamente l’organizzatrice.

 

Venerdi 28 marzo 2014, Alberto Diso con “Mariemma”. Relatore la giornalista Giuliana Coppola Letture a cura di Sara Ercolani e interventi musicali della maestro Maria Fino. Intervento di Luigina Paradiso: “E non sono anche sogni questi nostri momenti insieme per raccontare e raccontarci con gli autori che ogni volta invitiamo? Siamo alla nona presentazione riguardante questo progetto e in modo fiero dico che ogni volta abbiamo avuto la possibilità di narrare ciò che scorre nelle pagine della vita che gli scrittori riescono a fermare sulla carta. La nostra vita che come quella di Moris si incanta sul molo di un porticciolo che potrà essere in Grecia o forse in altro luogo. Moris il protagonista che in età matura, quando ormai si è sicuri che il cuore non batte più per le emozioni,inceppa il suo e dico inceppa tra i ricordi di un amore fresco di gioventù. La donna incontrata dopo averla molte volte forse immaginata in un angolo nascosto della mente, quello che non fa rumore che tiene tutto in riserva come ad accucciarci quando fuori piove o tira il vento. La bella Mariemma con il cappottino giallo canarino a quadri bianchi è stata sempre lì nascosta tra le pieghe del suo cuore e il ricordo diventa realtà per Moris che la rincontra per caso tra i viottoli colorati da fucsia buganville e odorosi di mare azzurro di una aspra e affascinante Grecia. Il caso, anche questo è il mistero della vita che conduce dove il cuore vuole. Ti porta per mano Morris dove hai sempre voluto esserci e non ti turba la tua ragazzina divenuta donna che nel tenerti abbracciato fa sognare ancora il tuo corpo, la tua energia e la voglia di vivere. Ma molto ancora come la stessa magica e turbolenta vita ti riserveranno le traversie. Morris e tu vorresti saper contenere la gioia e spartire il dolore che attanaglia  lei e l’ancora vivo ricordo del suo passato. Esso non ti appartiene, ma dove tu ci vuoi entrare  per quasi rubarla al tempo e riportare la tua Mariemma nell’eden riserva della tua memoria. Saperla sofferente ti strazia e la disperazione per la tua amata è immensa come il mare. Il mare, il compagno che vive con te nella solitudine delle notti di luna che ti offre il verde degli occhi di Mariemma,che decora di stelline lo scintillio della vita che ritorna!”

Il 30 aprile 2014, Lara Savoia presenta “I versi della polvere”. Introdotti da Luigina Paradiso, relatori la giornalista e scrittrice Giuliana Coppola e il critico letterario Antonio Imbò .Letture a cura di Marco Romano e interventi musicali del maestro Maria Fino.

Scrive Luigina Paradiso: “Poema che taglia con lame di parole, la poetessa le mette in fila una dietro l’altra con la forza del vento, con l’impeto di Orione e lascia che esse diventino frecce di un arco teso, capaci di raffigurare “i sibili crolli che attraversarono inganno e volontà ampliandosi tra il cemento”. Nel sonno , l’uomo dormiva e “le Stelle tolte ad Alba regnarono un’aurora fissa cosicché Male divenne Non buio”.Le parole , i versi della polvere o la polvere che diventa verso, che non si perde, ma lascia testimonianza di sé, che riesce a scalfire e rimbombare nell’anima di chi legge. La poetessa porta con sé in uno strascico di stelle, la Terra che scrolla dal suo grembo l’Uomo e ascolta,mentre Sonno  dice “Tu sei viva , non – visione, sii fedele ti renderò le braccia per la seconda volta e non cancellerò il tuo nome dai Viventi-. Intanto impietosa essa  trema e lascia che i suoi figli corrano e allora “divenni musa posi dei fiori, simboleggiai altari di rese e mirtilli per chi li ama o ne odia il profumo penetrante. Tra i crolli non volli vedere, ma l’alba arrivò e il grido più forte mi portò la realtà”e qui che la parola sa di avere ancora forza e nasce dal dentro,dal divino, dalla magia dell’essere poesia e fotografa il nulla del dopo.”

Il 17 maggio 2014, viene ospitato Mario Desiati con “ Il libro dell’amore proibito”. Relatrice la giornalista Mariella Piscopo e intermezzi musicali a cura degli alunni della Scuola Media di Gagliano del Capo. Letture a cura di Teresa Scappaviva . “Un libro che parla degli amori impossibili. La storia d’amore di Veleno il giovane che lotta affinché il suo di amore sia capito La tenera storia di speranza del ritorno  dell’amato marito e il disperato amore di Walter  vittima nel corpo ,dopo un incidente che  rifugge da esso  ritenendolo ormai impossibile da vivere. Tre storie di amori  proibiti da eventi estranei al proprio cuore. La guerra, la malattia, i pregiudizi sociali.”

 

Venerdi 6 giugno 2014, Anna Laura Giannelli con “Di terra e d’anima”. Relatori: l’avvocato Silvia Russo e il critico letterario Francesco Greco.  Letture a cura dell’attrice Giustina De Iaco e intermezzi musicali a cura del maestro Luigi Ferilli

Alla presentazione Luigina Paradiso dice: “La vita ha i suoi segreti ,li tiene lontani dalla luce del sole, dall’indiscrezione per poi apparire per sempre in una pagina di scritto, in una lettera lasciata apposta tra cassetti impolverati dal tempo. Un viaggio nell’amore più vero ,nel cammino travagliato di cuori che si lasciano andare e soffocare da paure recondite. Pagine timbrate a fuoco come il sentimento che giace da anni che si specchia in Catullo ancora innamorato della sua Lesbia, tra profumo di vento e di more mature nelle albe del Salento- Terra abituata alle rinunce che partorisce donne che per secoli hanno rinunciato a loro stesse.”
Venerdi 27 giugno 2014, Alberto Colangiulo con “Il tesoro di Sant’Ippazio” . Relatrici la dirigente scolastica Pamela Licchelli e la docente Maria Angela Cosi. Letture a cura dell’attore Marco Antonio Romano con gli intermezzi musicali a cura degli alunni della Scuola Media di Gagliano del Capo. “Nella prima metà anni degli anni ’80, la tranquillità di un piccolo paesino del Basso Salento viene stravolta da un terribile fatto di cronaca nera. La notte fra il 14 e il 15 agosto, durante la festa patronale, qualcuno attenta alla vita di Don Gino, parroco della piccola comunità salentina. Due arzilli quattordicenni – Fischio e Vasco – diventano loro malgrado testimoni oculari dell’orribile misfatto. Turbati dalla sconvolgente tragedia, gli abitanti del posto sembrano avere una certa reticenza nei confronti delle indagini condotte da Gerardi. Ad aiutare il giovane e razionale Maresciallo – che dovrà districarsi fra riti, superstizioni e antiche credenze – ci saranno due appuntati alquanto singolari: il taciturno Nardi e il gioviale Verzin. Pochi indizi: un leggendario tesoro di cui tutti parlano, ma che nessuno ha mai visto, e una chiesa aperta che però sarebbe dovuta restare chiusa per qualche giorno.  Risolvere l’intricato giallo non sarà facile.Con uno stile semplice e scorrevole, Colangiulo riesce a creare la giusta atmosfera, un misto fra suspense e curiosità, che porta il lettore a restare col fiato sospeso fino all’ultima pagina.”

Nei mesi di giugno luglio, sempre presso la Biblioteca Comunale, realizzato con grande passione e dedizione,si tiene il Corso di Pittura con bambini e adulti che vi partecipano ogni mercoledi e venerdi. Il 31 luglio 2014, organizzato dall’Associazione Auser RisorsAnziani e dalla Biblioteca Comunale si tiene l’ultimo incontro del “Corso di pizzica salentina e canti popolari”.

Venerdì 1 agosto 2014, nel chiostro della Biblioteca Vincenzo Ciardo di Gagliano del Capo, le Associazioni Auser RisorsAnziani e Avo con il patrocinio del Comune e con la collaborazione dell’ Assessorato alla Cultura e della Biblioteca Comunale tengono l’evento: “L’Officina dei ricordi: balli,canti,mestieri e giochi di una volta sotto le stelle di agosto” con musica, canto e raffigurazioni fotografiche, un’immersione nel passato per rivivere,ricordare e rivalorizzare il nostro Salento.

Il 3 agosto 2014, Andrea Settembrini presenta “L’alba d’inverno”. Relatori il dott. Carlo Franza e Luigina Paradiso, che dice del libro: “Questa alba d’inverno ha la luce che merita, l’alba che si apre, diversa come dici tu da quella che si vive nell’estate, magari seduti sulla spiaggia ad aspettarla. Diversa nel suo tentativo di esprimersi gradualmente. Nasce timida e infreddolita chiede spazio alla stagione che a volte la nasconde dietro nubi di acqua. Ma quando noi la vediamo, che gioia, ci offre una speranza diversa, di fede alla natura di speranza al domani. E tu Andrea con il tuo romanzo nato dopo tanto riflettere come succede alle cose belle, che vuoi che siano sempre migliori ,  finalmente date alle stampe. Stasera siamo tutti qui come a battezzarti scrittore e sceneggiatore di queste pagine di interiorità. Hai saputo entrare nell’animo umano nelle  sue titubanze con  maestria . si sente l’odore delle spighe d’orzo e il profumo delle more selvatiche e ci possiamo sedere sui muretti a secco mentre con te ci incamminiamo nell’animo umano. Sempre costellato da dubbi e verità nascoste, tra gridi di dolore,tra incertezze e approdi di felicità e narri del tempo  quello delle due stanghette dell’orologio  che segnano le ore  fino al consumo  della batteria   e  racconti la tua storia di giovane capace di guardare oltre che non accetta che si faccia sacrilegio di povertà di animo che si possa fare in tempo per non ingoiare  ogni cosa dei nostri padri riuscendo a trasformare il nostro eden in un supermercato dei desideri facili. Ci manca l’ingenuità della pazzia che pazzia non è, ma solo grido di una umanità che vuole tornare se stessa. Tu Andrea l’hai impersonata questa umanità nel giovane Manuel che con il suo disperato grido chiede e cerca ciò che gli altri non vogliono neppure sentire. I suoi mille perché, la sua  tempesta di domande per i una libertà che si intrinseca di dolore ma sempre e comunque di sincera Umanità”.

Il 24 agosto 2014, presso il Palazzo Ciardo, si tiene la chiusura della mostra itinerante “Vittorio Bodini Un uomo condannato al coraggio.1914-2014”, con la presentazione del libro di Bodini “Il fiore dell’amicizia” a cura del professor Antonio Lucio Giannone dell’Università del Salento. Coordinati dalla giornalista Luisa Ruggio e con il saluto dell’organizzatrice Luigina Paradiso, intervengono il Sindaco di Gagliano Buccarello e l’Assessore alla cultura Monteduro, la figlia di Bodini, Valentina,  e le attrici Carla Guido e Michela Leopizzi che leggono alcuni brani del libro“Il fiore dell’amicizia”. Viene inoltre proiettato il cortometraggio “Viviamo in un incantesimo” a cura di Giuliano Capani.

Determinante il ruolo di una biblioteca pubblica ( se essa funziona a dovere) nell’ambito di un organico sviluppo di una comunità, fondamentale l’impulso dato dagli operatori culturali nella crescita della coscienza critica di una popolazione. Determinante, il ruolo di un ente territoriale come la biblioteca comunale, anche quando (o forse a maggior ragione) in un Comune vi sia carenza strutturale, inefficienza generale, notevole o pressoché totale mancanza di servizi. In tal caso, un presidio come questo diventa suo malgrado un avamposto, una sorta di Fortezza Bastiani come nel “Deserto dei Tartari” di Buzzati, e si trova a svolgere una funzione di avanguardia nella mancanza di punti di riferimento e nel disordine generale intorno (ma questo non è il caso di un comune virtuoso come Gagliano, che rappresenta un’eccellenza, nel Capo di Leuca, dal punto di vista dell’impegno amministrativo e della promozione culturale). Quale è la narrazione culturale svolta dalla Biblioteca Comunale di Gagliano? Certamente la più importante lezione che viene dall’operare di chi l’ha voluta e la gestisce è la ricerca di una partecipazione attiva del territorio, non solo allo svolgimento delle sue iniziative ma nel momento stesso della loro elaborazione, nella loro fase ideativa. A Gagliano del Capo sembra cioè chiaro  che la biblioteca non debba essere un luogo chiuso, hortus conclusus, dove i libri stanziano come oggetti da museo, ma invece un luogo dinamico, aperto, in cui i libri viaggiano; un luogo in cui, oltre a fruirne, si produca cultura,  una biblioteca insomma che diventi un punto nodale per la crescita del territorio, con un proficuo interscambio fra tutti coloro che vi transitano.

Un’Annunciazione salentina: sarà pure una crosta, ma fino ad un certo punto …

di Armando Polito

Sull’affresco e sulla fabbrica rinvio al pregevolissimo, anche per la documentazione, post di Massimo Negro  (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/21/lecce-masseria-papaleo-li-ove-dimorano-le-fate/), del quale mi son permesso di utilizzare due foto (a cominciare da quella di testa) per qualche riflessione che mi piace esternare e del cui spessore chiedo anticipatamente scusa a chi per preparazione specifica e sensibilità artistica (altro che separazione delle due culture!…) sarebbe più autorizzato di me a dire la sua.

Quello dell’Annunciazione è certamente uno dei temi religiosi più trattati in pittura e, proprio per questo, molto pericoloso, nel senso che è difficile per qualsiasi artista inventarsi qualcosa di nuovo e resistere all’influsso, magari inconscio, dei predecessori. Qui l’anonimo autore ha dribblato secondo me brillantemente l’ostacolo e, pur senza essere un Raffaello, è riuscito a trasmettere un messaggio di speranza (cos’è in fondo l’Annunciazione se non questo?) sfruttando un tema antico con un linguaggio che certamente è legato, come vedremo, alla visione del mondo predominante nei suoi tempi; ma proprio da questa mediazione nasce quel palpito di sentire universale che accomuna espressioni artistiche lontane nel tempo e nello spazio. Insomma, non c’è futuro trascurando il passato ed il presente; altro che con la cultura non si mangia!, affermazione blasfema, oltre che idiota, in nome della quale si tenta di giustificare tutto, cementificazione, cattedrali nel deserto ed opere incompiute comprese!

Riporto l’episodio biblico nella narrazione di Luca (I, 26-38):

Al sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te». A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo.

L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?».

Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

Ho volutamente immesso nel testo tre spazi perché chi legge comprenda più facilmente come le battute presenti nelle tre sezioni così create si adattino perfettamente ed indifferentemente, singolarmente prese, a ciò che si vede nell’affresco, anche se quelle della terza sezione sembrano, direi volutamente, più calzanti (in realtà è l’inverso: è l’artista che le ha rese più calzanti al testo e non credo che ci sia casualità in questa sottolineatura definitiva). Che sotto questo punto di vista il nostro anonimo pittore abbia superato l’esame a pieni voti mi pare evidente dando una rapida scorsa a termini di confronto famosi.

Giotto (1267 c.-1337), Cappella degli Scrovegni, Padova
Giotto (1267 c.-1337), Cappella degli Scrovegni, Padova
Beato Angelico (1395 c.-1455), Museo del Prado, Madrid (dettaglio)
Beato Angelico (1395 c.-1455), Museo del Prado, Madrid (dettaglio)
Pinturicchio (1452 c-1513) Cappella Baglioni in Santa Maria Maggiore, Spello
Pinturicchio (1452 c-1513) Cappella Baglioni in Santa Maria Maggiore, Spello
Lorenzo Lotto (1480/1557), Pinacoteca comunale, Recanati
Lorenzo Lotto (1480/1557), Pinacoteca comunale, Recanati
Carracci (1555-1619), Chiesa di S. Domenico, Bologna
Carracci (1555-1619), Chiesa di S. Domenico, Bologna

In estrema sintesi possiamo dire che il tema attraverso tre secoli di pittura presenta un progressivo affievolirsi di alcuni dettagli legati al concetto del divino (secondo me l’acme di tale processo è raggiunto dal Lotto con la presenza del gatto il cui  dinamismo non è da meno di quello degli altri due protagonisti), sicché in Carracci, rispetto al quale il nostro anonimo, come vedremo, è contemporaneo, la tonalità scura  fa quasi confondere le ali dell’Angelo con le nuvole, mentre l’aureola è assente in lui e nella Vergine, anche se in quest’ultima sembra sfumare e confondersi con il cappuccio del manto.

Il nostro anonimo si spinge oltre: la Vergine che appare è di fatto una dama rinascimentale e l’Angelo (in cui la tonalità scura delle ali ha la stessa funzione già vista nel Lotto e nel Carracci ma l’esito appare poco felice perché troppo contrastante col chiaro dello sfondo) è quasi un paggio, cui non manca neppure la nota “sexy” dello spacco che scopre una gamba, mentre entrambi i piedi, di rozza fattura come la mano sinistra della Vergine, appaiono congelati in una posizione che forse nelle intenzioni dell’autore doveva evocare una sorta di atterraggio. Da notare ancora che l’Angelo impugna il giglio non con la sinistra ma con la destra, scelta obbligata a causa della conformazione della porzione di parete a disposizione. La colomba è nella stessa posizione della tela del Carracci, al quale per la composizione della scena l’anonimo potrebbe essersi ispirato.

Ne vien fuori, al di là dei limiti formali evidenziati (… forma non s’accorda/molte fiate all’intenzion de l’arte…), una rappresentazione tutta laica (stavo per dire pagana) del tema ma, secondo me, l’essenza universale del messaggio rimane intatta, anche se  questa rappresentazione, agli occhi di chi si attiene ai canoni consueti, potrebbe sembrare blasfema e dissacrante.

Una conferma a questa lettura mi pare che la dia il contesto: l’affresco lì dove si trova (non credo la collocazione sia stata casuale) è come una pala d’altare; solo  che per guardarla bisogna levare lo sguardo più in alto del solito. Ed ecco entrare in scena un secondo componente del contesto: la scala.

Essa nel suo duplice percorso diventa metafora dell’uomo composto di corpo e animo (anche anima, per chi ci crede) sospeso, perciò, tra terra e cielo (anche in senso metaforico, sempre per chi ci crede): salendo è improbabile che ci sia una sosta su qualche gradino e che ci si giri a contemplare l’affresco, mentre una volta giunti in vetta è naturale che lo sguardo vi si posi e  che la retta immaginaria che unisce ortogonalmente lo sguardo all’affresco rappresenti il frutto dell’avvenuta ascesa.

Nel percorso inverso lo sguardo può in qualsiasi momento (attenzione a non cadere! …) rivolgersi all’affresco ma quella linea da ortogonale diventerà sempre più obliqua finché, giunti sugli ultimi gradini tornerà perpendicolare … alla porta: siamo tornati, in tutti i sensi, a terra e il cielo metaforico è lontano, anzi non è più visibile, mentre basta varcare la soglia per contemplare quello reale …

Molto probabilmente al di sotto della lunetta contenente l’affresco vi era un’apertura, in seguito murata, con la funzione di illuminarlo dal basso,  oppure un secondo affresco trafugato chissà quando.

Che gli affreschi fossero due (il mancante di sapore più terreno rispetto al superstite?) o uno, è certo che il committente doveva avere una cultura raffinata e che l’anonimo pittore eseguì fedelmente le sue direttive che, senza rinnegare il passato, erano perfettamente in linea con la temperie del tardo Cinquecento.

E, a proposito di date, quella che appare in basso a destra e che di seguito riproduco in dettaglio mi pare essere il 1585 e non il 1518, come altri (http://www.salogentis.it/2012/05/23/il-ninfeo-delle-fate-nella-masseria-papaleo/) ha creduto di leggere.

Per concludere: anche una presunta (fra l’altro da me!) crosta del passato può avere un valore incommensurabile.

Un timelapse per Lecce Capitale della Cultura 2019

Lecce360 è lieta di presentare un originale  TIMELAPSE di Lecce ideato e realizzato da Roberto Leone con la collaborazione di  Marco Spedicato. Un piacevole tributo alla nostra bellissima città che concorre  a diventare Capitale della Cultura 2019.

http://www.lecce360.com/lecce-2019-citta-candidata-capitale-europea-della-cultura

Roberto Caracciolo di Lecce e Peppino di Capri

di Armando Polito

Immagini tratte, rispettivamente, da Domenico De Angelis, Le vite de’ letterati salentini, s. n., Firenze, 1710 e da Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, tomo V, Gervasi, Napoli, 1818
Immagini tratte, rispettivamente, da Domenico De Angelis, Le vite de’ letterati salentini, s. n., Firenze, 1710 e da Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, tomo V, Gervasi, Napoli, 1818

Di seguito la copertina e l’incipit di Quadragesimale de peccatis, pubblicato a Venezia nel 1488; immagini tratte da http://dfg-viewer.de/show/?tx_dlf%5Bid%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00072135_mets.xml&tx_dlf%5Bpage%5D=3&tx_dlf%5Bdouble%5D=0&cHash=5ede6ca18a035b56c9b2dff90edf0f74

2

 

I due personaggi del titolo di oggi, soprattutto il primo, sono, traendo il termine da un noto spot pubblicitario di una marca di caffè,  piuttosto “antichi”. Lo dico a beneficio dei più giovani, che probabilmente avranno sentito solo nominare il cantante napoletano ma che, annoverando tra i loro amici un omonimo del primo, si precipiteranno, magari, a digitare qualche messaggio diretto al presunto interessato, per la gioia delle compagnie telefoniche ma non per la cultura che dovrebbe spingere a non cedere così facilmente ai titoli-civetta e, sempre, a diffidare di ciò che appare e di sottoporlo, comunque, ad un serrato, preventivo controllo.

Se, però, tutti quelli della mia età sanno chi è Peppino e magari, come il sottoscritto, ne sono rimasti fedeli ammiratori, tra di loro certamente pochi o pochissimi, e per giunta, addetti ai lavori, sapranno chi è stato Roberto.

Per tutti gli altri (tra i quali fino a qualche anno fa c’ero pure io …) basterà leggere la relativa scheda nella Treccani on line (http://www.treccani.it/enciclopedia/roberto-caracciolo_(Dizionario-Biografico)/).

Qui intendo solo provare con fatti concreti l’affermazione che vi si legge e che riassume la brillantissima carriera di questo frate predicatore: La misura del successo oratorio del C. (soprannominato generalmente “trombetta di Dio”, “novello Paolo”) a livello della masse risulta ampiamente dalle notazioni così dei cronisti come dei reportatores dei suoi sermoni, e questa larga popolarità è altresì attestata dal fiorire di un’ampia aneddotica.

L’autore della scheda usa la voce del latino medioevale reportatores in un significato ambiguo che abbraccia l’attività dell’attuale reporter (stesso etimo della voce latina …) ma non esclude quella che fino a pochi anni fa era detta trascrizione stenografica e che ora è stata soppiantata dalla registrazione digitale.

Se la fama del frate leccese poteva dare adito alla proliferazione di questi reportatores e, magari, alla diffusione, per così dire di contrabbando, delle sue prediche, la prova inconfutabile del suo prestigio è data dallo stupefacente numero delle sue pubblicazioni  (oltre al fatto che, nei casi in cui esse ospitano scritti di altri autori come Niccolò Marcello o Domenico Bollano, quelli del nostro sono collocati puntualmente all’inizio; si direbbe un’operazione di marketing editoriale ante litteram), tanto più stupefacente perché la diffusione della stampa era appena iniziata. Come di seguito si vedrà il nostro Roberto sfornava pubblicazioni ogni anno come Peppino di Capri nei primi anni ’60 sfornava dischi ogni settimana (anche per questo può vantare un repertorio di oltre 500 canzoni; credo sia un record mondiale). La parte civettuola del titolo finisce qui e non mi illudo certo che tutti coloro che fin qui hanno letto continueranno a farlo …

Del frate per i pochi rimasti riporto per brevità solo gli esemplari antichi presenti a Lecce (dati tratti dall’OPAC):

Prima pars sermonum de laudibus sanctorum, 1489 (Biblioteca Roberto Caracciolo)

Prediche de frate Roberto vulgare nouamente hystoriate et corepte secundo li Evangeli, 1509 (Biblioteca Roberto Caracciolo)

Spechio de la fede vulgare, 1517 (Biblioteca Roberto Caracciolo)

Spechio della christiana fede, in lingua volgare, 1536 (Biblioteca Roberto Caracciolo)

Specchio della fede Christiana volgare, 1555 (Biblioteca Nicola Bernardini)

 

Trovo stupefacente, ma questa volta in senso negativo, che i titoli che seguono appartengono tutti a istituzioni straniere (tedesche in primis) e, in aggiunta, scandaloso il fatto che sono gli unici interamente digitalizzati, non da oggi, e ognuno fruibile al rispettivo link che ho aggiunto. Ancora una volta, per concludere, un caso, ripetuto nel tempo, di nemo propheta in patria; altro che agende digitali e capitali della cultura! …

BAVARIAN STATE LIBRARY

Sermones quadragesimales de poenitentia, 1472

http://dfg-viewer.de/show/?tx_dlf%5Bid%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00049482_mets.xml&tx_dlf%5Bpage%5D=2&tx_dlf%5Bdouble%5D=0&cHash=884a6fa24f56ae390bb751c92fca3149

 

Sermones quadragesimales de poenitentia. Sermo II in festo annuntiationis BMV. -Sermones de praedestinato numero damnatorum. Sermones de catenis, 1473

http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00049486_mets.xml

 

Sermones de divina caritate, 1473

http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00050378_mets.xml

 

Sermones quadragesimales de poenitentia. Daran: Sermo in festo annuntiationis virginis Mariae ‘Ne timeas Maria…’ ; Sermo de praedestinatorum numero et damnatorum; Sermo de catenis peccatorum; Sermo de spe bona; Sermo de miseria conditionis humanae, 1476

http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00049487_mets.xml

 

Sermones de adventu / Dominicus Bollanus: De conceptione BMV, 1477

http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00049465_mets.xml

 

Sermones de adventu, 1477

http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00049464_mets.xml

 

Opus quadragesimale perutilissimum quod de penitentia dictum est, 1479

http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00072110_mets.xml

 

Sermones clarissimi in sacra theologia Magistri Fratris Roberti Caraczoli de Litio ordinis minorum de timore iudiciorum dei/Daran: Sermo de morte, 1479

http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00036487_mets.xml

 

Sermones de adventu. Daran: Sermo de sancto Joseph. -Bollanus, Dominicus, De conceptione virginis Mariae, 1479

http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00072060_mets.xml

 

Sermones de timore divinorum iudiciorum, 1479

http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00055978_mets.xml

 

Sermones. Quadragesimale perutilissimum quod de poenitentia dictum est, 1479

http://daten.digitale-sammlungen.de/~zend-bsb/metsexport/index.html?zendid=bsb00055976 (Bavarian State Library)

 

Sermones quadragesimales de poenitentia, 1480

http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00080132_mets.xml

 

Sermones de adventu/Nicolaus Marcellus. Daran: Sermo de sancto Joseph; Sermo de beatitudine; Sermones de divina caritate; Sermones de immortalitate animae. – Bollanus, Dominicus: De conceptione virginis Mariae, 1484

http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00036485_mets.xml

 

Sermones quadragesimali perutilissimi, 1485

http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00036489_mets.xml

 

Sermones. Sermones quadragesimales de poenitentia; Sermo in festo annuntiationis virginis Mariae ‘Ne timeas Maria… ‘; Sermo de praedestinatorum numero et damnatorum; Sermo de catenis peccatorum; Sermo de spe bona; Sermo de virginitate, 1485

http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00049458_mets.xml

 

Quadragesimale de peccatis. Daran: Sermo de sancto Bonaventura; Sermo de sancto Bernardino; Sermo in festo annuntiationis virginis Mariae ‘Ingressus angelus…’ ; Sermones de laudibus sanctorum, 1488

http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00049475_mets.xml

 

Sermones de laudibus sanctorum. Daran: Sermo de sancto Bernardino, 1489

http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00041704_mets.xml

 

Sermones de laudibus sanctorum. Sermo de sancto Bernardino, 1490

http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00026494_mets.xml

 

Sermones fratris Roberti d[e] peccatis. Daran: Sermo de sancto Bonaventura; Sermo de sancto Bernardino; Sermo in festo annuntiationis virginis Mariae ‘Ingressus angelus…’ ; Sermones de laudibus sanctorum, 1490

http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00049479_mets.xml

 

Sermones. Sermones quadragesimales de poenitentia; Sermo in festo annuntiationis virginis Mariae ‘Ne timeas Maria… ‘; Sermo de praedestinatorum numero et damnatorum; Sermo de catenis peccatorum; Sermo de spe bona; Sermo de virginitate, 1490

http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00049462_mets.xml

 

Specchio della fede, 1495

http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00049488_mets.xml

 

Sermones quadragesimales de caritate, 1496

http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00050378_mets.xml

 

Sermones de timore divinorum iudiciorum, 1496

http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00050377_mets.xml

 

Sermones quadragesimales de adventu, 1513

http://reader.digitale-sammlungen.de/resolve/display/bsb10165298.html

 

Spechio della fede christiana volgare, 1537

http://reader.digitale-sammlungen.de/resolve/display/bsb10165299.html

 

TECNICHE UNIVERSITAT DARMSTADT

Sermones quadragesimales de poenitentia, 1479

http://tudigit.ulb.tu-darmstadt.de/show/inc-iv-519

 

Collecta magistralia per adventum domini de formatione hominis moralis. Sermones de timore judiciorum. Sermo de morte, 1479

http://tudigit.ulb.tu-darmstadt.de/show/inc-iv-520

 

Sermones quadragesimales de peccatis, 1490

http://tudigit.ulb.tu-darmstadt.de/show/inc-i-83

 

WURTTEMBERGISCHE LANDESBIBLIOTEK STUTTGART

Sermones de laudibus sanctorum, 1489

http://digital.wlb-stuttgart.de/digitale-sammlungen/seitenansicht/?no_cache=1&tx_dlf%5Bid%5D=511&tx_dlf%5Bpage%5D=1

 

BIBLIOTECA DE CATALUNYA

Opera, 1479

http://mdc.cbuc.cat/cdm/ref/collection/incunableBC/id/83602

 

Opera, 1482

http://mdc.cbuc.cat/cdm/ref/collection/incunableBC/id/130117

 

Sermones quadragesimales de peccatis, 1488

http://mdc.cbuc.cat/cdm/ref/collection/incunableBC/id/90099

 

Sermones de laudibus sanctorum. Daran: Sermo de sancto Bernardino, 1489

http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00036486_mets.xml

 

Specchio della fede, 1495

http://mdc.cbuc.cat/cdm/ref/collection/incunableBC/id/124074


BIBLIOTECA DIGITAL DE LA REGIÒN DE MURCIA

Specchio della fede christiana, 1537

http://reader.digitale-sammlungen.de/de/fs1/object/display/bsb10161788_00007.html

 

Sermones de adventu. Sermo de S. Josepho. Sermo de beatitudine. Sermones de divina caritate. Sermones de immortalitate animae / Dominicus Bollanus, De conceptione Beatae Mariae Virginis, 1487

http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00049462_mets.xml

 

BIBLIOTECA DIGITAL REAL ACADEMIA DE LA HISTORIA

Sermones de laudibus sanctorum, 1489 http://bibliotecadigital.rah.es/dgbrah/i18n/catalogo_imagenes/grupo.cmd?path=1023108

 

Studiosi a convegno per presentare l’ultimo libro sulla Cattedrale di Nardò

Locandina

di Marcello Gaballo

Verrà presentato domenica 5 ottobre 2014, alle ore 19.30 presso la Cattedrale di Nardò, l’ultima fatica sul sesto centenario della Cattedrale di Nardò,dal titolo Neritinae Sedis. Atti del convegno di studio in occasione del VI centenario  della Cattedrale (31 maggio-1 giugno 2013).

Il volume, edito dalla Diocesi di Nardò-Gallipoli con Mario Congedo Editore, è inserito nella Collana dei Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò-Gallipoli, con il n° 7,  ed è stato curato da Giuliano Santantonio e Mario Spedicato.

L’opera, presentata ai lettori dal vescovo della Diocesi di Nardò-Gallipoli, Mons. Fernando Filograna, offre al lettore un dignitoso e completo excursus storico sulla Cattedrale neritina, grazie al contributo di docenti, studiosi e ricercatori di varia provenienza ed estrazione, molti dei quali ben noti nel panorama della storiografia salentina e pugliese.

320 pagine in cui si analizzato le diverse fasi storiche, a partire dai monaci benedettini, con approfonditi studi delle fonti documentarie, tra le quali la Bolla dell’11 gennaio 1413, oltre a numerosi contributi che spaziano in diversi campi del sapere e comunque attinenti l’Ecclesia Mater neritina, assurta a chiesa regia con decreto del 12 ottobre 1803, poi dichiarata monumento nazionale il 20 agosto 1879, ed infine elevata dalla Santa Sede a dignità di Basilica minore il 2 giugno 1980.

Il volume apre con i saluti del Presidente della Provincia Antonio Gabellone, del Sindaco di Nardò Marcello Risi, facendo seguito un corposo Incipit del parroco    Giuliano Santantonio, che è stato anche curatore. Mario Spedicato, dell’Università del Salento e co-curatore, offre la Prefazione.

Questi i saggi, nell’ordine:

Benedetto Vetere, La Cattedra vescovile e le Bolle di Clemente VII e Giovanni XXIII.

Rosario Jurlaro, La presunta bolla di papa Paolo I dell’anno 761 nel giudizio di Annibale De Leo e la dipendenza della Chiesa di Nardò da quella metropolita di Brindisi.

Pietro De Leo, Nardò da abbazia a diocesi: una tortuosa procedura con vescovi paesani e forestieri tra XIV e XV secolo.

Giancarlo Vallone, Biografia in breve di Stefano Agricoli e non Pendinelli.

Vittorio Zacchino, A Nardò e diocesi prima e dopo Antonio Galateo.

Pasquale Corsi, Comunità ellenofone di Terra d’Otranto: un sondaggio tra le testimonianze d’archivio.

André Jacob, Nardò e Gallipoli tra greci e latini.

Anna Gaspari, Greci e francescani nel Salento tardomedievale e rinascimentale (con particolare riferimento alla diocesi di Nardò).

Roberta Durante, La Cripta di S. Antonio Abate nell’agro di Nardò.

Maria Domenica Muci, Il copista Giovanni di Nardò e la tradizione dei «Tria Syntagmata» di Nicola Nettario di Casole.

Patrizia Durante, Gaudeat ecclesia. Tradizione musicale francescana in diocesi di Nardò tra Medioevo ed Età Moderna.

Paolo Agostino Vetrugno, “Classicità e classicismo” nella scultura cinquecentesca neretina.

Francesco Danieli, Catechesi tridentine a Nardò nella pittura di Donato Antonio D’Orlando.

Donato Giancarlo De Pascalis, La Cattedrale nel tessuto urbano di Nardò: orientamento, modelli e confronti.

Giovanni Giangreco, Il futuro della Cattedrale di Nardò. La conservazione della fabbrica: manutenzione o restauro?

fronte

Giuggiole alias scèsciule, per pochi intenditori!

giuggiolo con i frutti (ph Júlio Reis, da Wikipedia)

di Massimo Vaglio

Le giuggiole, sono i frutti dello giuggiolo (Zizyphus jujuba Miller), albero di media statura della famiglia delle Ramnacee. E’ uno dei principali fruttiferi coltivati in Cina, mentre in Italia, benché presente fin da epoca romana è coltivato sporadicamente e in esemplari spesso isolati. I frutti sono piccole drupe rotonde o ovali simili a grosse olive che a maturazione presentano una colorazione marrone rossastro. La polpa è biancastra e di sapore acidulo.

Oltre che essere consumati allo stato fresco, i frutti vengono traformati in confetture; essiccati, onde renderli più conservabili (datteri cinesi), oppure sciroppati.

Nel Salento, il giuggiolo è oggi rinvenibile in esemplari isolati o più spesso in siepi semi inselvatichite nei pressi di masserie e vecchi casali abbandonati, ma un tempo era un albero piuttosto diffuso in diversi comprensori e in particolare nel territorio di Leverano i cui abitanti andavano commercializzando per tutti i mercati i suoi frutti.

Oggi, nel Salento, oltre che sporadicamente presenti nei mercati allo stato fresco, le si ritrova in vendita anche sciroppate in occasione di alcune fiere e in particolare in quella di Sant’Ippazio a Tiggiano, in quanto, insieme alle carote, costituiscono un cibo rituale.

Giuggiole sciroppate

Ingr. : 1kg di giuggiole, 750 gr di zucchero, 7 dl d’acqua.

Calate nell’acqua bollente le giuggiole, tenetecele per quattro-cinque minuti, quindi scolatele. Ponete lo zucchero in una casseruola, versatevi sopra l’acqua e ponete sul fuoco, fate sciogliere lo zucchero mescolando di continuo e calate le giggiole, quando lo zucchero comincia a cadere a goccia, levatele con una schiumarola a fori larghi e conservatele in vasi di vetro.

 

Un’opera dello scultore Patrizio Quarta in mostra al Fondo Verri

scultura

di Mauro Marino

“La tensione dell’arco” e il titolo dell’opera dello scultore Patrizio Quarta in mostra al Fondo Verri da martedì 30 settembre sino a venerdì 17 ottobre dedicata a Lecce 2019.

L’atto dell’attesa nelle mani di un Messapo. Le volute del barocco, il ramarro sul braccio sinistro che tiene il centro della tensione dell’arco, la fune legata alla cinta del vestito, le frecce tante da scagliare… Un’opera profondamente spirituale, augurale per questi giorni che chiudono il processo della candidatura con la visita della giuria – lunedì 6 ottobre – che dovrà scegliere quale sarà la Capitale della Cultura Europea nel 2019.

L’“utopia” tagliata in una pietra di calcarenite miocenica scelta nelle ricognizioni che caratterizzano il lavoro di Patrizio Quarta, una pietra ricca di licheni, di tracce… Una cesellatura che scrive il racconto della nostra terra spinta ad immaginare il suo futuro.

***

Patrizio Quarta è nato a Novoli nel 1961. Avvicinatosi nel 1987 al mondo dell’arte guidato da autentica passione creativa, ha al suo attivo numerose ed importanti mostre. Uno scalpellino che con passione e abilità realizza il suo particolare immaginario utilizzando la pietra lecceseper un’avventura creativa che gli ha donato numerose gratificazioni. E’ emozionante vedere gli attrezzi con cui lavora, gli stessi con cui gli artigiani dei secoli scorsi ricamavano la pietra. Sul bancone di lavoro si vedono sgorbie in ferro battuto, pialle convesse o lisce, mazzuoli e tanti altri strumenti atti a cesellare. Ma lo strumento preferito dall’artista, col quale riesce ad ottenere il massimo della precisione, è il bisturi del chirurgo. Ciò che colpisce il visitatore entrando nel laboratorio di Quarta è il rispetto che questi ha per la pietra. Ad essa, infatti, non si dedica soltanto con l’intento di dare un “divenire”, ma la studia nelle sue più recondite pieghe per poi portarla allo stadio conclusivo di opera.

I “pezzi” di Patrizio Quarta hanno sia della retorica sia del contemporaneo e come ha scritto la rivista fiorentina “Eco d’arte moderna”, l’artista ha con la pietra della sua terra un legame così profondo da lavorarla con la forza del vento che leviga e smussa la superfice di una pietra antica. Da qualche tempo Quarta ha iniziato studi sull’alabastro toscano grazie ai quali ha ricevuto riconoscimenti significativi a livello nazionale. La pietra sia che venga levigata o smussata dalle sue abili mani non è mai violentata dalla luce, ma è sempre accarezzata e valorizzata. Peculiarità dell’arte di Patrizio Quarta è la pazienza certosina con cui elabora le proprie opere trattandole con muffe secche antichizzando in tal modo i pezzi e facendo pensare che gli stessi siano stati creati in tempi non più tanto vicini a noi.

 

Particolarmente attivo e presente nella vita culturale del suo paese d’adozione San Giorgio Jonico è tra i fautori della nascita del Circolo Culturale “L. Agnini” di cui sarà socio fondatore. Nel 1997, l’Amministrazione Comunale di San Giorgio J. dà incarico all’artista, in collaborazione con lo scultore L. Agnini di realizzare il “Monumento ai caduti e alla pace” – Villa Parabita. Tra le sue mostre più importanti ricordiamo: Rassegna di Noti maestri scalpellini salentini, Lecce; Beato Angelico – Premio Italia, Firenze; Biennale Internazionale di Pittura Scultura e Grafica Città di Lecce, Lecce. 1a Biennale Internazionale Arte di Palermo, Palermo.

L’orrenda superfetazione del tempo che fu del Palazzo ducale di San Cesario di Lecce …

di Armando Polito

san cesario di lecce

 

La prima immagine (tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/San_Cesario_di_Lecce#mediaviewer/File:San_Cesario_di_Lecce_Palazzo_Ducale.jpg) mostra lo stato attuale della facciata.
Nella seconda (tratta da http://www.alinariarchives.it/en/inventary/ACA-F-035452-0000), datata 1920-1930 circa, ho evidenziato nel riquadro in rosso la superfetazione opportunamente eliminata, credo perché comprometteva il simmetrico equilibrio della facciata, nonostante l’apertura della parte aggiunta ricalcasse la forma delle finestre limitrofe. Qualcuno sa dirmi la data precisa dell’aggiunta prima e della sua eliminazione poi?
Speriamo che in questa balorda Italia di oggi, dove si distruggono le testimonianze originali (non le loro superfetazioni!) del passato, anche quando sono bellissime, per insediarvi a futura memoria nostra gli sgorbi del presente, non venga in mente a qualcuno, nella fattispecie, di ripristinarne uno del passato …

 

 

Gianluca Virgilio. Le cose stanno così come egli sostiene

bimba_libro_1__800_800

di Paolo Vincenti

 

L’uscita di ben due libri, in questa estate 2014, dimostra la vitalità creativa del loro autore e conferma l’ottimo stato di salute del settore letterario galatinese. Ad essere precisi, non si tratta di due libri del tutto nuovi, essendo, il  primo uscito, uno zibaldone, una raccolta di articoli già pubblicati su alcune riviste locali, e il secondo,  la traduzione in francese di estratti di alcuni libri precedenti.  Fatto sta che Gianluca Virgilio, classe 1963, docente di materie letterarie presso il Liceo Scientifico “Antonio Vallone” di Galatina e Presidente dell’Università Popolare “Aldo Vallone” di Galatina, ritorna al pubblico dei lettori e, sebbene in sordina, come sua abitudine, pubblica, con Edit Santoro, “Così stanno le cose” (luglio 2014) e “Resonances salentines”, a cura di Walter e Annie Gamet (settembre 2014). Quest’ultimo libro, come detto, è la traduzione in francese ad opera dei due studiosi curatori, di alcune precedenti prove letterarie di Virgilio, ed è destinato al mercato francese.

Come stanno le cose, dunque? Dal titolo del suo libriccino, l’amico Gianluca Virgilio sembra non avere dubbi: le cose stanno appunto così come egli sostiene.  Una affermazione perentoria, potrebbe sembrare, un fatto senza mezzi termini asseverato da Virgilio, con l’autorità dell’ ipse dixit.  Invece,  l’asserzione del titolo  è tratta dal linguaggio comune, dal nostro linguaggio dell’uso in cui è insito un certo fatalismo, ed  è sottilmente ambigua, potendo contenere una accezione positiva, ottimistica, quanto negativa, pessimistica. È la solita vecchia storia del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Come lo vede l’autore? E soprattutto, come lo vedono i lettori?  “Così stanno le cose” è anche il titolo di una rubrica tenuta da Gianluca Virgilio sul periodico galatinese “Il Galatino”, da cui è tolta buona parte di questi scritti.

Con una “Maternità”, opera di Carmelo Caroppo (1988) in copertina, il libro ( in continuità, nella grafica scarna ed essenziale, nel cartonato di copertina e retrocopertina e nell’agile formato tascabile, con i precedenti libri del Nostro)si compone di quattro sezioni e precisamente: la prima parte, intitolata “Nuove passeggiate”, rappresenta la naturale prosecuzione del libro “Vie traverse”, dello stesso autore, del 2007; la seconda parte, “Nuovi scritti cittadini”, focalizza l’attenzione sulle problematiche del vivere consociato, in una città come Galatina, già al centro dell’analisi di “Scritti cittadini”, libro del 2008; la terza parte, “Frammenti scolastici”, si occupa di temi inerenti la scuola e l’insegnamento, rappresentando la naturale prosecuzione di “ L’età dell’apprendimento e dello studio” del 2008; la quarta parte, “Esercizi di saggezza”, si compone di una serie di riflessioni sulla società contemporanea, sui moderni mezzi di comunicazione, sul rapporto padri e figli e sulla pratica della pazienza, alla ricerca di quell’aurea misura che l’autore sembra aver trovato. In quest’ultima sezione, compare anche un ritratto a tinte forti dell’ambiente letterario salentino in cui Virgilio lancia i suoi strali (e quanto acuminati!) nei confronti di una certa sedicente  intellettualità vacua e presenzialista di casa nella nostra penisola culturale. In apertura del libro, dedicato  “ a Giulia e Sofia, adolescenti inquiete”, una Premessa e poi un Preambolo dello stesso autore, il quale spiega l’importanza che per lui rivestono il sostare e il raccontare, propedeutici,  pur senza scomodare la filosofia zen, ad un sicuro miglioramento della qualità della vita.

Alla fine del libro, troviamo una Nota bibliografica con l’elenco delle pubblicazioni locali dove sono apparsi gli articoli di cui consta il volume. Gianluca Virgilio ci insegna il valore della sosta (hic manebimus optime appunto, come, secondo l’uso degli antichi romani, titola un suo intervento su “Il Galatino” del 2014): una sosta creativa cioè, non fine a sé stessa, che ci porti l’arricchimento del coltivar pensiero, ci sottragga alla frenesia di questi tempi moderni , ci riporti a dialogare con noi stessi e ad apprezzare il valore delle piccole cose – come stare sulla terrazza a guardare il cielo e le stelle in una notte d’estate- dimenticate o trascurate nel corri corri generale. Un elogio della lentezza, apologia del dolce far nulla, che ci riporti a godere del tempo che passa, a curare gli affetti e i nostri interessi, le amicizie, stando in pace, comodi con poco, lontani dal chiassoso baraccone della multimediale e supertecnologica fiera delle vanità che è l’odierna società.

Un libro di valori, di edificazione morale, direi, che comunica in maniera semplice e diretta quello che ha da comunicare,  fuori dalle mode e lontano dagli “ismi” che l’autore sembra tanto detestare.

 

Non ho avuto libri da bambino

bimba_libro_1__800_800

di Alfredo Romano

Non ho avuto libri da bambino, non c’erano i libri. La carta era quella paglierina del pizzicagnolo che ti incartava un’aringa o cento grammi di ricotta forte, detta schianta. La pagina era quella di un vecchio giornale che trovavi dal barbiere, tagliata fino a ricavarne un mazzo di quadratini sui quali sfregare il rasoio con la schiuma da barba. Per non dire di quella scritta in latino quando si andava a servire messa a don Salvatore. A fare i bravi si guadagnava anche un Ordo missae, l’annuario delle messe che portavo a casa raggiante: era pur sempre un libro.
Non c’erano libri da bambino, ma è stata una fortuna non avere libri da bambino, ci sarebbe stato tempo per i libri.
Non ho avuto libri… ma ho avuto in casa dei narratori che ricordo come altrettanti libri parlanti, le cui voci mi giungono ora, nel tempo, misteriose, inafferrabili. Quei vecchi narratori che quando muoiono si portano nella tomba una biblioteca orale intera, unica, senza speranza di riedizioni.
L’arte del raccontare è stata una prerogativa della mia famiglia. I miei nonni materni, come i miei genitori, erano depositari di una sconfinata tradizione orale fatta di storie vere e fantastiche, satire e lazzi tipici dell’astuzia contadina. E poi canti d’amore e di dispetto, poesie religiose e d’occasione, proverbi, modi di dire, indovinelli, filastrocche, conte ecc.
Erano i tempi dell’ozio, inteso come tempo necessario da dedicare allo spirito, allo svuotamento dei pensieri, al comunicare, al tramandare. Era questo il ‘perder tempo’ a raccontare. Il momento magico arrivava di sera, quando il buio scatenava le paure sopite, quando il latrare dei cani sembrava provenire dagli abissi infernali. La morte era in agguato, i morti non erano morti: tornavano invece a solleticare i vivi. C’erano strane donne vestite di nero che salivano il sagrato della chiesa per la funzione serale, poi, a rito finito, di loro nessuna traccia. C’era un cane sconosciuto, enorme, vestito di una lanugine bianca, che di notte girava il paese e scompariva all’alba: era l’uomo pugnalato per sbaglio davanti all’osteria in una sera di lampi e di tuoni, e la moglie, a cercarlo, era inciampata sul corpo nel buio.
Al mio paese nessun morto è mai morto, i sogni erano sempre tempestati di anime, di anime in pena che invocavano i suffragi così come gli eroi greci rimasti insepolti invocavano una degna sepoltura. Le anime erano i rami degli ulivi, pronti a ghermirti, che pendevano al chiaro di luna, disegnando strane ombre sulle strade bianche e polverose. Le anime bussavano alla finestra annunciate dal lugubre verso della civetta, oppure camminavano decise sui cornicioni delle case vestite di lunghissimi camici bianchi, o battevano i talloni al di sopra delle lamie per spaventare i dormienti. A questi stessi non esitavano magari a tirare i piedi, per rimproverarli di non aver posto nella bara tutti gli oggetti dovuti, o per essere trapassate senza le dovute scarpe nuove.
Perfino a tavola, nell’atto di mangiare un cocomero fresco o qualche altra delizia, bisognava augurarsi che allo stesso modo si ‘refrigerassero’ i morti: ddefriscu a lli morti (refrigerio ai morti) era l’immancabile ritornello.
È in questo clima che si raccontava, trasfigurati da una lampada a petrolio, in un gioco di lampi e di ombre che si rincorrevano per la stanza con i mezzibusti degli avi, severi, alle pareti.
Mio nonno Pasqualino aveva l’abitudine, d’estate, di recarsi a Rimini. Trascorreva 15 giorni da suo figlio Luigi, che si era sposato colà durante la seconda guerra. Così mia nonna Maria Neve restava sola, ed era abitudine, ogni volta, che un nipote le facesse compagnia durante la notte. Questo privilegio toccava a me, perché ero il più grande di quattro fratellini. Bene, si trattava di un’occasione unica. Prima di addormentarmi nel letto matrimoniale, mia nonna si trasformava in un’intera compagnia di teatro. Delle volte, per drammatizzare meglio i suoi racconti, si levava in piedi sul letto e gridava e gesticolava a più non posso. Io ero lì come incantato, spettatore ignaro di eventi irripetibili, catapultato in storie che prendevano corpo nei suoi cicì-cicì dei tanti passeri, nei suoi bum-bum del Nanni Orco, nelle bucce di noci di Giovannino; oppure nelle battaglie intorno a Guerrin Meschino, a Genoveffa di Parigi con la sua capretta e al possente Fioravante.
E poi lei, sempre così religiosa, a dirmi di preti e monaci che si volevano fottere le donne pie (Il fatto dei tre preti, di San Giorgio ecc.), ma che alla fine, per quante essi stessi ne subivano, risultavano più degni di commiserazione delle loro vittime.
Mio padre Giovannino e mia madre Lucia, questa voglia di raccontare l’hanno esercitata fino all’ultimo, anche sul letto di morte durante la lunga malattia. Papà, a dire il vero, nella circostanza ci dava come l’illusione che stesse per migliorare. Si usava a Collemeto, quando si veniva a sapere di uno che stava per morire, fargli visita “per vederlo un’ultima volta” si diceva. Generalmente l’ora era quella pomeridiana. Mio padre avvertiva, già dal brusio, la gente approssimarsi alla porta di casa. Come per incanto sgranava gli occhi, si liberava del copricapo di lana e, con un certo sforzo, riusciva a porsi seduto sul letto; chiedeva perfino un pettine per darsi una sistemata. Bene, i nuovi arrivati si mettevano seduti tutt’intorno al letto in un’atmosfera mesta, come per una veglia funebre. A mio padre invece non sembrava vero trovarsi intorno un pubblico tutto per lui, come lo aveva avuto in tante altre felici occasioni, quando aveva narrato e sedotto accompagnandosi con grandi gesti. E attaccava: il suo preferito era Don Tonino. Incredibile! La gente crepava dal ridere e se ne tornava a casa non certo con l’impressione di aver fatto visita a un morente. Ma, usciti che erano tutti, ecco che mio padre tornava a morire: forse, in cambio di un ultimo sorso di vita, aveva combinato qualche scellerato patto con sorella Morte. E noi a illuderci ogni volta.
E mia madre. Alcuni dei racconti li ho scritti quasi sotto dettatura. Nel suo letto d’ospedale, in alcune pause del dolore, al fine di distrarla, le chiedevo di raccontare. Li conoscevo già quei racconti, ma avevo voglia di tornare su passi ormai caduti nell’oblio, su alcuni ritmi, su dei toni di voce, delle sfumature, perfino su dei gesti e smorfie facciali essenziali al racconto. Avevo voglia, questo sì, di far restare mia madre nelle parole, di portarmela via in un quaderno di appunti, magico, che poi avrei sfregato come la lampada di Aladino. Ma questo, lei, lo aveva capito bene.
Verbum caro factum est, la parola si è fatta carne. Mai detto evangelico fu più vero.

mamma-lucia-11

Non esiste per me fascino più grande della parola. Posso scrivere, posso bearmi con una pittura, un paesaggio, un film, una sonata di Chopin, per ricondurre poi tutto alla parola. La parola da sola è musica, è poesia. La parola non ha bisogno di supporti per essere bella. Ci sono canzoni che preferisco, proprio così, cantare senza chitarra. Lo strumento ti obbliga in qualche modo a una misura già definita, mentre l’animo ha bisogno di librarsi all’infinito senza catene, come avveniva nel canto gregoriano.
Tutto questo sento di non averlo appreso soltanto a scuola, sono convinto di averlo anche ereditato. E quando a scuola è arrivato il mio primo libro di lettura, ho scoperto che era fatto di parole, parole da declamare ad alta voce, per dare anima e corpo a pagine e a segni di per sé morti. Forse è per questo che amo così tanto il libro, questo scrigno che basta scardinare per imbattersi in parole che viaggiano per mari e mondi sconosciuti, parole che concertano suoni e visioni che preludono all’unico paradiso che possiamo sognare su questa bellissima terra.

Pietro Cannizzaro esploratore di paesaggi dell’anima e delle pieghe del reale

piero_cannizzaro_1

di Ciro de Rosa

In “Ossigeno” (2012), film girato nell’arco di tredici anni, il protagonista Agrippino Costa, con un passato di furti d’arte e rapine, carcere ed evasioni, avvicinatosi dietro le sbarre al brigatismo e al nappismo, diventato pittore e poeta, si racconta davanti alla macchina da presa di Piero Cannizzaro. Parliamo di un documentarista sensibile alle pieghe della realtà sociale, che cuce storie pulsanti e vitali di quotidianità, ma anche di esistenze marginali, restituendo una visione intima, che al contempo è inattesa, coinvolge lo spettatore, fa saltare le convenzioni e non resta intrappolata negli stereotipi. Un regista propenso a mettere l’accento sul senso dell’appartenenza ai territori, sui rapporti dell’uomo con i luoghi, incline a tratteggiare paesaggi dell’anima. In questo periodo Cannizzaro sta ultimando quattro documentari sul tema dell’acqua e dell’identità nei micro-territori, con riprese nel Cilento, nella Valle Pellice, sul fiume Volturno e in Umbria.

Con un’ampia filmografia alle spalle, tra le principali figure del rinnovamento del documentario italiano su cui ha pubblicato anche diversi saggi, già direttore artistico a Capalbio della rassegna “Il Glocale nel Documentario” (2005”), Cannizzaro è stato tra i primi ad affondare il suo sguardo di cineasta nel rinnovato interesse rivolto alle musiche di tradizione orale. Un autore, viaggiatore ed esploratore, che ha portato la sua macchina a latitudini diverse: dall’Artico al subcontinente indiano, dall’Africa australe al Golfo Persico. Apprezzati in numerosi festival italiani ed esteri, i suoi lavori hanno ricevuto premi e riconoscimenti italiani ed internazionali. Questa intervista si è snodata in un ampio arco temporale: realizzata in larga parte al Mediterraneo Video Festival 2013, dove il regista ha presentato “Tradinnovazione.

Una musica Glocal”, un viaggio musicale in tre tappe (Salento, Sardegna e Piemonte occitano), si è poi nutrita di successivi scambi di opinioni, materiali video e aggiornamenti sui suoi lavori.
Tutto ha avuto inizio in una mattinata settembrina, seduti al tavolo di Casa Rubini, accogliente B&B all’ombra dei grandi templi di Paestum. Con Cannizzaro si entra subito nell’argomento musica, perché il suo rapporto con le sette note ben precede l’attività di regista. Procediamo sul filo dei ricordi: «Se vogliamo prenderla alla lontana» – esordisce il regista – «A casa mia madre ci incoraggiava: da piccolo andavo a lezione di chitarra. A sedici ani c’è stato il solito gruppo musicale studentesco con cui guadagnare la paghetta. Poi negli anni universitari ho lavorato in una sala di incisione. Erano altri anni: c’era un altro concetto di fare produzione». Si snodano brandelli del passato del regista lodigiano di nascita, con studi alla Statale di Milano in anni di grande fermento creativo, rimossi o affossati dalla vulgata massmediatica istituzionale ma anche dalla malafede storici di regime sotto la pesante coltre del piombo estremista. Siamo in pieno ’77, quando Piero partecipa all’opera rock “L’Eliogabalo” di Emilio Locurcio, in veste di produttore di un disco a cui parteciparono Lucio Dalla, Claudio Lolli, Rosalino Cellamare e Teresa De Sio. Un lavoro dimenticato o quasi, fatto di composizioni dove confluivano screziature progressive e psichedeliche, temi folk, stilemi rock e sperimentazione su testi visionari.
Continua il nostro interlocutore: «A 21 anni avevo prodotto con l’etichetta discografica Dischi del Sole, collaborato con le etichette milanesi alternative di musiche d’avanguardia, contribuito a fare cambiare a Claudio Lolli l’etichetta, dalla EMI alla Ultima spiaggia di Nanni Ricordi, pubblicato un libretto per Lato Side proprio su Claudio Lolli (1982). C’era stata la collaborazione con l’etichetta L’ascolto di Caterina Caselli. Anni creativi, con scritti e recensioni discografiche sul “Quotidiano dei Lavoratori” e con i movimenti dell’area di “Re Nudo”. La musica era il viatico per stare nella società! Ho organizzato concerti di De Gregori e Venditti, che collaboravano ancora, a casa ho ancora il manifesto: si pagava “lire 1500”. Poi sono arrivate le prime edizioni del Club Tenco a Sanremo con Amilcare Rambaldi. La partecipazione alle registrazione di un l’album di Francesco Guccini e quello della collaborazione tra De Gregori e De André. Dopo di che, a 25 anni, ho capito che non mi interessava fare il professionista della musica: non era nelle mie corde, discografico era qualcosa di più e di meno, in linea con un pensiero e un movimento; ero appassionato di fotografia e mi piaceva scrivere. Ho iniziato a fare i primi programmi radiofonici con “Un certo discorso” per Radio 3. Mi interessava la scrittura, ho capito che mi interessava realizzare un film. Ho scritto un soggetto che la Rai mi ha comprato. A quel punto, era il 1980, sono arrivato a Roma. Però il film non si è fatto… si doveva chiamare “Verso e Attraverso”: era una storia musicale, un viaggio che partiva da Milano e arrivava alle isole Eolie. Negli anni del riflusso, la storia di una persona, che lascia Milano – in realtà, era molto autobiografico – ad un certo punto, mentre è a Filicudi, dalla radio scopre la musica classica. C’era un mixaggio tra musica di Erik Satie e Neil Young, come a dire: “L’importante non è la musica che tu ascolti, ma la tua percezione della musica a cui dai significato».
Il tema del viaggio e della musica iniziano ad essere il denominatore comune dell’estetica di Cannizzaro, che collabora ad Audiobox di Pinotto Fava – a lungo una delle trasmissioni radiofoniche più innovative ed influenti del palinsesto di Radio Rai – con “Verso l’Isola”. «Come un Ulisse moderno che raccoglieva riflessioni e suoni. Ricordo un incontro con Sciascia a Lipari, e poi i pescatori di Favignana, un fisarmonicista delle Eolie. Con il mio Nagra registravo i rumori del mare. Misi i microfoni dentro la catena della nave per farne sentire l’attracco… A Milano avevo visto un concerto di John Cage al Lirico che mi aveva impressionato».
La vocazione di regista-narratore prende il sopravvento. «Mi ha sempre interessato il cinema nella sua globalità, anche inconsciamente, non facevo una grande distinzione tra documentario e finzione, anche se allora il dibattito era meno aperto. Frequentavo i festival: Venezia, Pesaro, Salsomaggiore, Soletta in Svizzera ed altri ancora. I festival sono stati la mia formazione, mi interessavano i documentari dei tedeschi: Herzog, il Wenders di “Nel corso del tempo”. Qualcuno ha avvicinati i miei documentari all’antropologia, ma è più qualcosa di istintivo, è l’interesse per il percorso umano, il rapporto con il paesaggio, con il cibo, con il territorio, con la spiritualità, che rivelano una chiave antropologica. Come ebbi modo di dire in un dibattito anni fa: “Non sono un antropologo”. Non mi sono formato con i documentari italiani classici di matrice demartiniana, ho conosciuto e frequentato Gianfranco Mingozzi, ho conosciuto Luigi Di Gianni, così come ho incontrato più avanti De Seta, di cui già conoscevo naturalmente i lavori, ma la mia formazione è più di cinema, come dicevo, autori che mi hanno segnato sono Herzog, Wenders, Truffaut, e se vogliamo andare più indietro, Max Ophuls, quest’ultimo soprattutto per il modo di muovere la macchina)».
L’inizio televisivo di Cannizzaro è con il DSE (Dipartimento Scuola Educazione della RAI), ricorda il regista: «Mi sono sempre mosso, e lo faccio ancora oggi, con il low budget, lontano dalle grandi operazioni economiche, perché permette di non avere controllo. È stato il mio percorso, la mia fortuna. Ho visto amici inseguire le mode, che hanno fatto un po’ di soldini e poi non è rimasto molto».
Tiene insieme ancora viaggio e musica in un suo documentario prodotto per la televisione, che attraversa la Penisola, facendo tappa in tre città: la prima è la Milano di Dick Dick, Mauro Pagani e Cecilia Chailly, la seconda Bologna con Francesco Guccini, Freak Antoni, Luca Carboni e Claudio Lolli. Per finire a Napoli, terra di mare e di passaggio con Almamegretta, Raiz, Maria Nazionale, Bisca e Gigi D’Alessio. Si rafforza, dunque, la poetica documentaristica del regista, in cui il paesaggio si interseca con musica e cultura, ma soprattutto è ricerca di personaggi lontani dalle vie principali.
Cannizzaro ha attraversato le stagioni della televisione dalla Rai dei tre canali alla nascita della tivù commerciale fino ai canali satellitari. Negli anni ’80 realizza anche “Nello spazio di Clarke”, un ritratto dello scrittore autore di “2001. Odissea nello Spazio”, girato in Sri Lanka, su testi di Giorgio Manganelli e musica dei Beatles. «Ha avuto otto milioni di ascolti su Rai 1, erano tempi in cui non c’era ancora la televisione commerciale, che all’inizio ha aperto spazi al documentario. Ora non è più come agli inizi». È vero, però, come il regista ha scritto in un suo saggio, che «quegli spazi marginali […] con molte possibilità creative, sono sostanzialmente sostituiti dai canali satellitari» (“La luce in galleria”, in Marco Bertozzi, “L’Idea Documentaria. Altri sguardi dal cinema italiano”, Torino, Lindau, 2007, p.359). Nondimeno, è ancora Cannizzaro a sottolinearlo, budget sono troppo contenuti, spesso insufficienti per produrre progetti di più vasto respiro.

«Registi e produttori sono costretti a sforzi di fantasia pazzeschi per trovare le coproduzioni» (ibidem)». Pochi giorni prima dello scoppio della Prima Guerra del Golfo, il regista gira un documentario proprio nello scenario del Golfo Persico (“Natale ’90 nel Golfo”).
Sul finire degli anni ’90, Cannizzaro approda in Salento, ben prima che il turbine musical-turistico salentino avvolga il resto d’Italia. “Terra di Pietra e di Tarante” (2000) è il suo primo ritratto dalla terra dei muri a secco, delle corti, degli ulivi secolari, del griko e della rinascenza musicale popolare, che dà voce al Canzoniere Grecanico Salentino, guidato ancora da uno dei fondatori, Daniele Durante, a Pino Zimba, ad Anna Cinzia Villani, oggi stella di prima grandezza del nuovo folk.
Salento, terra di confine e di migrazioni, lette anche attraverso la musica del trombettista Cesare dell’Anna, che guarda all’altra sponda dell’Adriatico. «Dopo questo lavoro, era il secondo anno delle febbre della taranta, produco il primo documentario intitolato “La Notte della Taranta e dintorni”(2001), con Piero Milesi maestro concertatore ed orchestratore della “pizzica sinfonica”, ma anche con Officina Zoè, Ghetonia, il Canzoniere, i fratelli De Santis, Uccio Aloisi, Cesare Dell’Anna e l’antropologo Eugenio Imbriani. In tredici anni è un film che ha girato tantissimo, è diventato, tra virgolette, un cult movie». Molti lo hanno dimenticato, o fatto finta di dimenticarlo, ma prima che La Notte della Taranta diventasse un evento mass mediatico con forti valenze politiche, c’era in Salento un dibattito furente sul rapporto tra musica tradizionale e innovazione, «Mazzate proprio! Ti levavano il saluto appena… uscivi dalla “tradizione”», ricorda Piero.
Il Salento è ancora protagonista di un’altra pellicola che raccoglie consensi: parliamo di “Ritorno a Kurumuny” (2003).
Quel Primo Maggio del 2003, Cannizzaro partecipa, inizialmente da spettatore, al rinnovato rituale di reimpianto degli ulivi in un’antica tenuta nella campagna leccese, ideato da Luigi Chiriatti, musicista e demologo: un primo maggio alternativo, non passatista, non nostalgico, ma nel segno della riappropriazione di spazi di (r)esistenza, a cui Cannizzaro non resta indifferente, tale è il vortice di suoni, di paesaggi, di antichi saperi e antichi sapori, di personaggi unici, ma anche di attenzione e devozione dei giovani nei loro confronti.
Un incontro intergenerazionale che si carica di significato nel tempo della festa – Cannizzaro lo filma con la telecamera che aveva portato con sé. Ritratti di giovani cantanti, come Enza Pagliara e Cinzia Villani, di alberi di canto, quali Niceta Petrachi (La Simpatichina) e Lucia De Pascalis, Cosimino Chiriatti, studiosi come Rina Durante e Maurizio Nocera e tanti altri ancora.
Premiato all’Ischia Festival, “Ritorno a Kurumuny”, edito dall’omonima casa editrice diretta da Luigi Chiriatti, porta un’introduzione della scrittrice e ricercatrice Rina Durante, che ne espone con chiarezza gli intenti: «”Ritorno a Kurumuny” contiene l’invito a recuperare l’attualità che non risiede tanto in una serie di topoi consolidati e stereotipi anacronistici quanto in un esercizio dell’immaginazione dei sensi, un modo di attraversare un territorio, una città, un paesaggio e di indovinare il senso attraverso prospettive multiformi, suggerite da modi di percepire e raccontare il paesaggio diversi da quello abituale».
Cannizzaro non lascia il Salento, producendo l’anno successivo “Ritratti dal Salento. Storie di Canti” (2004), «con Uccio Aloisi, un carattere burbero, difficile da mettere insieme ad Anna Cinzia Villani, ma ne è uscito un bel profilo.     
Dopo l’esperienza salentina, terra in cui ritornerà per “Tradinnovazione”, Cannizzaro è attratto da un’altra antica terra del Sud. In me c’è sempre la volontà di un minimo di ricerca, di cercare qualcosa di meno sfruttato… la terra del Cilento sembrava da esplorare. Avevo fatto un documentario sulle “Città Slow” (2010), che aderiscono all’associazione Slow Food, dove c’è l’attenzione al buon vivere, alla qualità della vita, attenzione alla cultura, al territorio. Lì ho conosciuto il sindaco di Pollica, Angelo Vassallo». “Città Slow” porta la dedica al sindaco-pescatore cilentano, assassinato il 5 settembre 2010 da esecutori e mandanti ancora impunti. Pollica era diventata “città slow” e proprio Vassallo in occasione di una proiezione ad Orvieto, quartier generale del movimento delle città slow, lo fa avvicinare al mondo del network delle città a misura d’uomo, che cercano un rapporto diverso tra i cittadini, una branca dello slow-food «più puntata sulla qualità della vita, artigiani, arte, musei anche cibo a chilometro zero». Il documentario racconta di Orvieto, Bra, Amelia, Pollica, Massa Marittima, Levanto, Greve in Chianti, Cisternino. Immancabile la musica anche in quest’opera. Tra i tanti personaggi che caratterizzano il luogo, a Cisternino c’è stato l’incontro con Massimiliano Morabito, organettista di fama, come ben sanno i lettori di “Blogfoolk”. Quella per il Cilento non è passione effimera, Cannizzaro da anni gira in molte aree del territorio del salernitano. «Ho registrato la musica di alcuni musicisti locali: I Briganti, Gianfranco Marra, Paola Salurso. Inoltre, ho conosciuto il mondo degli zampognari: la famiglia Cortazzo, sopra Vallo della Lucania.» 
Arrivano così “Cilento. Storie di Pane e di Grano” (2008) e “Ritratti dal Cilento. Storia di Chitarre e di Zampogne”, quest’ultimo con protagonisti i fratelli Domenico e Luigi Campitiello, costruttori di chitarre battenti in Stio, e la famiglia Cortazzo di Campolongo (padre, madre e figlio), girato nel 2005, ma uscito nel 2011. Quella di “Storia di Chitarre e Zampogne” è un racconto di riappropriazione di un suono e di uno strumento identitario come la battente, da parte di artigiani locali, ma è anche il profilo di una tradizione come quella del canto e degli aerofoni popolari che si trasmette di generazione in generazione. Carmine Antonio Cortazzo è il suonatore di ciaramella negli ottimi Kiepò. Naturalmente, la musica è il perno su cui ruota “Tradinnovazione. Una Musica Glocal” (2011). Ancora il binomio viaggio-musica porta il regista freelance, che grazie al budget limitato, sottolinea di essere libero da pressioni esterne, se non il limite di lunghezza di un’ora del prodotto, a ritrarre un’Italia diversa. Spiega Cannizzaro: «Il viaggio è come un fil rouge, che lega le tradizioni etniche nella contaminazione; qualcosa che vive non è museificato, ma sempre in rapporto al paesaggio».
Sono tre le tappe di “Tradinnovazione”, dal Salento dei Mascarimirì alla Sardegna e alla provincia di Cuneo. Cannizzaro lascia parlare i protagonisti, le musiche i suoni diventano segnali di presenza, di volontà di rapportarsi al territorio, ad un luogo, alla contemporaneità, ma senza fare a meno della memoria, anzi, inducendo un processo di attivazione della memoria (che non è mai innocente o scevro da ideologie).
«In Sardegna ho scoperto che ci sono ottimi gruppi, che mi viene da dire contaminati, che hanno che si mischiano con i cantori popolari, anche con le sonorità delle launeddas. Penso a Massimo Loriga dei Nur. Poi il Piemonte occitano, con Lou Dalfin, Abnoba e Simone Bottasso, che ha studiato al conservatori, giovani che hanno una consapevolezza forte della tradizione ma anche della contemporaneità. Poi ho continuato il viaggio, che è ancora in corso… con il Veneto di Gualtiero Bertelli e di Calicanto (“Un Viaggio nella Musica Etnica: Veneto. Calicanto e Gualtiero Bertelli”, 2012) e la Sicilia di Alfio Antico e Unavantaluna. Ad un certo punto il progetto si è interrotto: i miei lavori risentono delle committenze. Essendo interessato alla televisione, per prima la Rai, avverto il problema determinato dall’andamento socio-economico».
L’accompagnarci alla ricerca del senso di farsi comunità si delinea con efficacia anche ne “Il cibo dell’anima” (2008), realizzato per Rai 3 in otto puntate, e ambientato in alcune comunità religiose italiane, incentrato sul tema del cibo, delle regole, delle prescrizioni e della spiritualità. Un’entrata in punta di piedi, da laico, com’è nello stile del regista, che ha girato per un anno immagini nel ghetto ebraico di Roma, a Torino per parlare delle comunità dell’Islam, nell’enclave valdese della Val Pellice, tra la comunità sikh, che ha un grande tempio a Novellara (RE), tra i benedettini del convento di Valleombrosa (FI), tra le suore di clausura a San Martino al Monte in provincia di Macerata, tra i buddisti nell’istituto Lama Tzong Khapa di Pomaia (Pisa), tra i seguaci di Osho a Miasto in provincia di Siena.
«Sono entrato attraverso il cibo, discutendo di come si alimentano, e attraverso l’alimentazione, esce la regola. Anche lì, è venuto fuori l’aspetto musicale… Qualcuno lo ha letto anche come un film sull’integrazione. Ho scoperto cose che non conoscevo, persone fantastiche, che il cibo può anche unire: per esempio cuochi ebrei che vivono tranquillamente con palestinesi». “Il Cibo dell’Anima, in una versione radiofonica, è andato in onda anche su Radio 3 Rai, all’interno del programma “Tre Soldi”.
Per lo stesso ciclo, a novembre, potremo ascoltare anche una trasposizione radiofonica di “Città Slow”. Musica e musicisti intimamente radicati al territorio toccano le corde del regista lodigiano. Proviamo a chiedergli, un po’ per gioco, un po’ per tastare i suoi gusti, una playlist. Piero non si sottrae alla richiesta, precisando: «Nella mia playlist assoluta compaiono dai Beatles ai Sigur Ros, da Antony and the Johnsons al primo Battiato e al primo De Gregori, dal Banco Mutuo Soccorso al primo Claudio Rocchi, da Van De Sfros a De Andrè, da Björk a Max Gazzè, dai Genesis a Philip Glass. Estrapolare dei pezzi sarebbe per me troppo difficile, però vorrei segnalare alcuni brani che ho avuto modo di inserire nei miei documentari “etnici” in questi anni. Eccoli: “L’alba del Mulino” di Gianfranco Marra con la voce di Paola Tozzi, Unavantaluna con “Pi Soprammari”, Gualtiero Bertelli con “E Mi so Andao”, Officina Zoè, “Lu Rusciu te lu Mare”, Canzoniere Grecanico Salentino, “Beddha Ci Dormi”, Duo Bottasso con “Scottish à Funambals”, Van De Sfros & Balentes con “Ninna nanna del contrabbandiere”, Enza Pagliara con “Quanto si Beddha”, Nur con “A Domusdemaria”…».
Insomma, potrebbe essere una playlist di “Blogfoolk”, bella e pronta! In conclusione, inevitabile interrogarci, a distanza di un anno, della portata del Leone D’oro vinto dal “documentario” di Gianfranco Rosi alla settantesima Mostra di Venezia nel 2013. Cannizzaro, protagonista quest’anno, sempre alla kermesse cinematografica della città lagunare, di un dibattito sul documentario, osserva che il successo di “Sacro GRA” «ha portato visibilità, allargando il cuneo nella percezione della gente sulla concezione del film e del documentario: la distinzione tra film e documentario è obsoleta. Il fatto che il Leone d’Oro sia stato vinto da un documentario lo scorso anno, può far sì che non lo si releghi in una specie di ghetto. Spero che sia così! Anche quest’anno alla settantunesima edizione il Premio Speciale della Critica è stato assegnato ad un documentario che si è occupato delle stragi di comunisti da parte degli squadroni della morte protetti dal governo nell’Indonesia del 1965 (“The Look of Silence” di Joshua Oppenheimer, ndr). Comincia a manifestarsi più attenzione verso i documentari nei festival e nei Premi, si assiste ad una maggiore sensibilità comune, che permette di superare l’idea del documentario ricondotta solo a natura e animali. Il mio è un cauto ottimismo, ma non mi aspetto di trovare porte spalancate, bisognerà vedere nel tempo. Credo che tutte le cose abbiano bisogno di tempo, soprattutto in Italia, dove ancora si produce con cifre ridicole, se confrontate con il resto d’Europa».

Giovanni Presta, ovvero quando eravamo noi a chiedere all’Europa …

di Armando Polito

Anonimo. Ritratto di Giovanni Presta custodito nel Museo Civico Emanuele Barba a Gallipoli; immagine tratta da  http://www.culturaitalia.it/ms/viewer.php?id=oai%253Aculturaitalia.it%253Amuseiditalia-work_4495
Anonimo. Ritratto di Giovanni Presta custodito nel Museo Civico Emanuele Barba a Gallipoli; immagine tratta da http://www.culturaitalia.it/ms/viewer.php?id=oai%253Aculturaitalia.it%253Amuseiditalia-work_4495
Incisione tratta daLprimo volume della Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, Gervasi, Napoli, 1814
Incisione tratta daLprimo volume della Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, Gervasi, Napoli, 1814

Ad integrazione del bel post recente di Mimmo Ciccarese sul grande scienziato di Gallipoli (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/26/un-grande-medico-al-servizio-degli-ulivi-secolari/ ) mi preme anzitutto segnalare a chi ne ha interesse le edizioni delle sue opere reperibili in rete e integralmente scaricabili:

Degli ulivi, delle ulive e della maniera di cavar l’olio, Tipografia editrice salentina, Lecce, 1871 (http://books.google.it/books?id=Ixc8sRR-F9sC&pg=PA561&dq=giovanni+presta&hl=it&sa=X&ei=YOYjVOqeCcOf7gaDtYDoCg&ved=0CCUQ6AEwAQ#v=onepage&q=giovanni%20presta&f=false).

Memoria su i saggi diversi di olio, e su della ragia di ulivo della penisola salentina, Romano, Lecce, 1855 (http://books.google.it/books?id=KHVEU4x7Z0EC&pg=PA5&dq=giovanni+presta&hl=it&sa=X&ei=YOYjVOqeCcOf7gaDtYDoCg&ved=0CCAQ6AEwAA#v=onepage&q=giovanni%20presta&f=false).

Per quanto riguarda la biografia, poi, segnalo che  Bartolomeo Ravenna in Memorie storiche della città di Gallipoli, Miranda, Napoli, 1855, p. 555 a proposito di Giuseppe Presta scrive: Di questo letterato, che illustrò il secolo scorso, e che fu mio stretto amico, ne abbiamo una memoria lasciataci dal Prevosto di questa Cattedrale D. Leonardo Franza1, che mi è servita di guida in queste memorie, scrivendo del Presta.

In nota 1 si legge: Serie di fatti relativi alla vita di D. Giovanni Presta scritta da D. Lionardo Franza Prevosto della cattedrale di Gallipoli, in segno di grata e sincera amicizia. In Lecce nella publica stamperia di Vincenzo Marino e fratelli in 8. Da questa memoria istessa si è tratto l’elogio del Presta stampato nella Biografia Napoletana. Il Franza fu un nostro benemerito concittadino. Era in nota tra i soggetti destinati Vescovi del Regno, ma le vicende dei tempi, e la morte che lo prevenne, resero vane queste speranze.

La Serie di fatti …, pubblicata (aggiungo io) nel 1797 è introvabile ma la biografia napoletana nominata è la Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, dal cui tomo V uscito per i tipi di Gervasi a Napoli nel 1818 riproduco (visto che la memoria originale è introvabile) la scheda a firma di Lionardo Franza:

Mi piace ora riportare la dedica a Caterina II di Russia che il Presta premise alla Memoria su i saggi diversi di olio, e su della ragia di ulivo della penisola salentina:

 

Prima di commentare lapidariamente quanto appena letto, debbo confessare che lì per lì non sono riuscito a capire che cosa fosse esattamente la Ragia odorosa, timiamo eletto, che qui l’olivo suole produrre, ed altrove no. Ora ragia designa un tipo di resina di alcune conifere e metaforicamente assume il significato di raggiro, imbroglio, stratagemma. Per comprendere entrambe le sfere semantiche basta pensare al rapporto di somiglianza tra chi rimane invischiato nella pece e chi è vittima di un raggiro. Non credo che il Presta abbia usato ragia in quest’ultimo senso …

Timiamo è voce dotta, adattamento all’italiano del latino medioevale thymìama che è trascrizione del greco θυμίαμα (leggi thiumìama)=incenso, aroma in genere, da θυμίαω (leggi thiumiào)=bruciare. La forma italiana più antica fedele alla greca (timìama) che io conosca compare in una Bibbia istoriata padovana della fine del XIV secolo : … de domane un turibolo in man cum el fogo e cum la  timiama (… questa timiama  è la cossa odorifera più cha incenso) e debiè stare denanço dal tabernacolo de mesier Domenedio…

Quanto riportato fino ad ora induce a pensare che sia una sostanza resinosa emessa dall’albero e non ricavata dal frutto.

Senonché, nonostante io non l’abbia mai vista nell’ulivo, ci viene in soccorso lo stesso autore che all’argomento dedica un passo della sua opera:

8

Di lì a qualche anno tornerà sull’argomento (il che ribadisce, ove ce ne fosse stato bisogno, la mia ignoranza) Domenico  Moricchini in Sopra la gomma di ulivo, Mainardi, Verona, 1815 (http://books.google.it/books?id=BMQaAAAAYAAJ&pg=PA6&lpg=PA6&dq=ragia+di+ulivo&source=bl&ots=s_H71-jyzV&sig=8O9IltztSNYqNzlxehWPMp_0uF8&hl=it&sa=X&ei=iVslVKnHK6vnygOruYJg&ved=0CEwQ6AEwCA#v=onepage&q=ragia%20di%20ulivo&f=false).

Inutile dire che a maggio dell’anno prossimo, se Dio vorrà, andrò ad ispezionare, non certo per mancanza di fiducia, uno per uno i miei ulivi e se l’esito sarà positivo farò anch’io un dono a Caterina, mia figlia …

Ora è tempo di passare al commento promesso: un salentino, pur col dovuto rispetto, si rivolge da pari a pari ad uno dei personaggi più potenti, forse il più potente, dell’epoca e contemporaneamente la manda a dire anche al re Ferdinando IV, non solo per quel dilettante pur anco in materia di Olj eccellenti … ! E, per capire meglio, riporto quanto scrive il Ravenna nell’opera citata:

Che il nostro conterraneo, poi, fosse di fama internazionale (nesso oggi abusato pure per le mezze calzette a stento conosciute dagli stessi familiari …) lo dimostra, a parte la citazione dei suoi scritti in autori stranieri contemporanei e nelle pubblicazioni specializzate dell’epoca (per brevità non riporto né gli uni né le altre), quanto si legge (la traduzione è mia) in Voyage de Henry Swinburne dans leus deux Siciles, en 1777, 1789 e 1780 traduit de l’Anglois par un voyageur français, Didot, Parigi, 1785, tomo I, pp. 368-370:

Mi ha colpito dell’osservatore straniero più che la contrapposizione tra corona e baroni (e non voglio a questo punto aggravare la situazione mettendo in campo la querelle dell’unificazione del nostro paese …) quel ma mi dispiace di essere obbligato a dire che tutti i suoi sforzi si sono limitati finora a semplici esperimenti, per non essere stato assecondato da coloro che sono nella condizione di dare qualche sviluppo al bene pubblico.

Vecchio vizietto della politica intesa non come servizio ma come attività clientelare, che oggi rivive nell’inefficace azione di difesa dei nostri prodotti nei confronti della globalizzazione europea e mondiale, nella mortificazione della ricerca e del merito col risultato suicida di regalare quest’ultimo al resto del mondo, mentre, nella fattispecie, la pur deprecabile inerzia di allora è stata criminalmente sostituita (al peggio non c’è limite …) dalla cementificazione del territorio in nome di un’idea perversa, e a lungo andare perfino autolesionista, di sviluppo in cui l’occupazione (non si sa nemmeno per quanto tempo) di pochi e lo sfacelo del paesaggio vengono spudoratamente sbandierati come bene pubblico.

 

Un grande medico al servizio degli ulivi secolari

presta3

di Mimmo Ciccarese

 

Il 24 giugno del 1720 nacque a Gallipoli, Giovanni Presta, uno degli studiosi più noti che il Salento possa annoverare tra i suoi annali. Già a sedici anni si recò a Napoli per frequentare medicina e in altri momenti per approfondire gli studi di matematica e astronomia. Le sue doti di letterato e raffinato poeta lo aggiunsero con merito tra le accademie e le società più colte del suo tempo.

Appena laureato in medicina ritornò nella sua città natale, per esercitare la professione ma nel mondo divenne più noto per i suoi studi agronomici e in particolare sulla tabacchicoltura e sull’olivicoltura.

Furono saggi così notevoli che la provincia di Lecce non esitò ad onorarlo con la scuola agraria a ridosso dell’antica città messapica di Rudiae. Per questo l’istituto per periti agrari, forte del suo retaggio e per le sue egregie attività formative e sperimentali, acquisì fascino e valore in tutta la Puglia.

Presta si concentrò molto sulla specie dell’ulivo, aveva ben compreso la sua importanza sul territorio, era per lui una certezza da offrire con la Memoria su i saggi diversi di olio e su della ragia di ulivo della penisola salentina messe come in offerta a Sua Maestà Imperiale Caterina II, la Pallade delle Russie (1786), con Memoria intorno ai sessantadue saggi diversi di olio presentati alla Maestà di Ferdinando IV, Re delle due Sicilie, ed esame critico dell’antico frantoio trovato a Stabia (1788); Degli ulivi, delle ulive e della maniera di cavar l’olio (1794).

 

presta2

Presta analizzò con scrupolo la produzione agricola nel Salento, le condizioni del suo territorio, indagando sulle cause storiche che le avevano determinate, a risolvere i problemi di un meridione orientato al degrado e alla povertà. Per qualcuno quell’impegno sarebbe stato visto come un vero e proprio mandato morale da eseguire ad ogni costo.

Nella prima parte dell’opera Degli ulivi, delle ulive e della maniera di cavar l’olio (1794) Presta avvia il trattato con un’esposizione di questa pianta accreditandone utilità e bellezza: “Di quanti mai vi son’alberi finor noti sopra la terra, se si ha riguardo all’utilità, che ciascun arreca, si può dire senza fallo, che l’Ulivo è il migliore tra tutti, l’Ulivo è il primo tra tutti, l’Ulivo è il Re”. In questo primo ritaglio si riscontra il riferimento ai tempi dell’antica Grecia, del modo con cui questi popoli divinizzavano questa essenza.

Nel Regno delle due Sicilie, il mercato dell’olio era fiorente. In quel tempo proprio nella città portuale di Gallipoli, Presta osservava la partenza dei bastimenti fiamminghi carichi d’olio lampante e già pensava di descrivere con la dovuta professionalità la fonte di quella produzione per ricavarne altra utilità.

A distanza di secoli da tali studi Presta, purtroppo, l’ulivo monumentale è oggi rapportato da qualcuno come “una pianta come tante”, una coltura da far produrre in regime intensivo, come strumento economico o perfino solo come un mezzo per accedere ai finanziamenti comunitari.

Allora ecco gli aiuti alla produzione che ravvivano l’olivicoltura pugliese che creano associazioni di categoria, cooperative, centri di assistenza agricola per far diventare l’olio il Re degli alimenti, un buon condimento ideale per nutrire la politica e la società.

Dai tempi dell’olio lampante a quello del miglioramento qualitativo, l’olio di oliva guadagna sempre più potere, diviene un andirivieni economico sempre più intenso, una materia preziosa da stoccare gelosamente, un’energia in grado di alimentare centinaia di migliaia di famiglie.

ulivo6

Il dottor G. Presta ha compiuto una grande opera, con i suoi trattati è riconosciuto dal mondo accademico come il primo grande tecnico dell’olivicoltura e non solo. Chi mette in dubbio il suo impegno e l’efficacia della sua molteplice conoscenza e sensibilità?

Le abili capacità del luminare G.Presta di comunicare la vita e la forma delle piante d’ulivo risiedeva anche in quegli studi astronomici e matematici, della biologia e forse anche della filosofia tra l’ammirazione e lo stupore dei suoi colleghi.

Il tecnico agrario dovrebbe animare talento e passione con il coraggio e la lealtà così come fece il grande ricercatore salentino. In ogni caso un tecnico non rimane indifferente alle problematiche agricole, anzi, sostiene, propone e condivide le sue conoscenze al servizio della gente che reclama risposte.

L’esperto serve i cicli della natura, rende voce alla biodiversità e la difende, acquisisce così giudizio oltre che dignità per essere ben voluto dai suoi residenti. Chi allontana o disapprova questa valutazione tradisce i suoi apprendimenti e non può dire d’amare e dimorare la sua terra.

Chi pensa, invece, che il tecnico agrario non sia altro che uno scrivano sciupato tra i fogli e i corridoi di un ufficio si sbaglia in pieno perché il suo mondo è molto più variegato e per niente standardizzato.

Il competente, però, non deve esaudire i comandi di una sola voce, deve anche arricciarsi un po’, tra le riflessioni e gli studi che gli altri suggeriscono, proponendosi a sua volta con razionalità e rispetto, deve rendere operativa l’efficienza del suo sapere o almeno stimolare la sua curiosità e quella del suo prossimo.

Un tecnico dovrebbe dimostrare la volontà di respirare umilmente i valori che insegnano le molteplici civiltà rurali affinché esso non smarrisca la sua identità, senza mai nascondersi dietro misere bautte di qualsiasi tipo ed essere in grado di ascoltare con umiltà senza mai umiliarsi.

Per questi motivi i delegati al settore dovrebbero essere ispirati dal gran valore di Giovanni Presta, dalla sua umanità che ha reso tantissimo alla nostra agricoltura; lo studioso è stato un modello di benessere morale, un’intelligenza con cui poter conversare apertamente di tesi e dottrine.

Un uomo che ha dedicato un’esistenza a classificare ed esporre la produzione dei suoi tempi per rendere conoscenza ai suoi posteri non può che ispirare unità, comprensione e gratitudine.

Seguire la generosità di questi uomini, sarebbe il piccolo gesto che potrebbe fare un tecnico agrario come quello di supportare proprio quegli ulivi che il famoso studioso gallipolino ci aveva descritto qualche secolo prima.

Gli stessi ulivi secolari descritti, oggi, forse ci/si stanno abbandonando all’incuria, nei viluppi del disinteresse o in chissà quale altro tipo di speranza. Ecco un altro valido motivo per difenderli con risolutezza.

Il melograno in due oli di Palizzi

di Armando Polito

Le recenti piogge hanno anticipato quest’anno di qualche settimana un fenomeno normale. Le melagrane si spaccano e, con un po’ di fantasia da parte nostra, assumono l’aspetto di contenitori aperti che fanno bella mostra dei loro commestibili rubini. Non è per rovinare l’immagine più o meno poetica, ma ci sono anche quelle che evocano l’aspetto di una vecchia bocca sdentata …

Dell’albero e del frutto ho avuto già l’occasione di parlare e per chi se l’è perso o non sa che si è perso (purtroppo potrà saperlo solo dopo averlo letto; altro che mi piace di facebook o, meglio ancora il condividi obbligatorio se vuoi vedere un certo filmato che promette chissà che! …) segnalo il link https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/18/la-seta-il-melogranola-melagrana-16/.

Oggi non voglio affaticarmi troppo e me la caverò con le immagini di tre pitture ad olio sul tema, opere di Filippo Palizzi.

 

Autoritratto di Filippo Palizzi, Palazzo d'Avalos, Vasto (immagine tratta da http://www.culturaitalia.it/opencms/it/temi/viewItem.jsp?language=it&id=oai%3Aculturaitalia.it%3Amuseiditalia-work_86981)
Autoritratto di Filippo Palizzi, Palazzo d’Avalos, Vasto (immagine tratta da http://www.culturaitalia.it/opencms/it/temi/viewItem.jsp?language=it&id=oai%3Aculturaitalia.it%3Amuseiditalia-work_86981)

Prima di farmi da parte, ecco su di lui una breve nota: nato a Vasto nel 1818  riprese la vena realistica tipica dei pittori della Scuola di Posillipo, la quale celebrò i suoi fasti nel terzo decennio del XIX secolo, conferendo alla sua pittura dei connotati quasi fotografici; non a caso il Palizzi fu uno dei primi pittori che si interessarono di fotografia.  Rispetto al soggetto la sua sconfinata produzione si può schematicamente dividere in tre filoni in cui la prospettiva gioca un ruolo determinante: scorci rurali con figure umane o animali, figure umane o animali che occupano quasi tutta la scena; primi piani totali; un po’, per tornare alla tecnica fotografica, come se oggi si usassero, più o meno per la stessa inquadratura un grandangolo,  un tele non troppo spinto e uno spinto oppure, in alternativa, le posizioni opportune dello zoom.

Le tre immagini che seguono vogliono essere la dimostrazione sintetica dello schema appena proposto.

La primavera. Milano, Gallerie di Piazza Scala immagine tratta da http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Artgate_Fondazione_Cariplo_-_Palizzi_Filippo,_La_primavera.jpg
La primavera. Milano, Gallerie di Piazza Scala
immagine tratta da http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Artgate_Fondazione_Cariplo_-_Palizzi_Filippo,_La_primavera.jpg
Ragazza sulla roccia a Sorrento. Milano, Fondazione internazionale Balzan immagine tratta da http://www.artribune.com/2012/03/lottocento-italiano-in-tutte-le-sue-versioni/7-168/
Ragazza sulla roccia a Sorrento. Milano, Fondazione internazionale Balzan
immagine tratta da http://www.artribune.com/2012/03/lottocento-italiano-in-tutte-le-sue-versioni/7-168/

Questo soggetto fu particolarmente caro al Palizzi, tanto che lo replicò diverse volte cambiando solo qualche dettaglio. Sarà un caso, ma tra tutte le sue opere che ho potuto vedere (sia pure solo in foto), proprio questa è quella che, per parlare in stile facebookiano, mi piace di più.

Giovinetta alla sorgente. Roma, Galleria d’arte moderna e contemporanea immagine tratta da http://catalogo.archividelnovecento.it/html/immagine.htm?IMM=../GNAM/fotografico/opere%20P/File1116%20Palizzi-%20Giovinetta%20alla%20sorgente.jpg&INFO=Palizzi%20Filippo,%20Giovinetta%20alla%20sorgente%20(NA)
Giovinetta alla sorgente. Roma, Galleria d’arte moderna e contemporanea
immagine tratta da http://catalogo.archividelnovecento.it/html/immagine.htm?IMM=../GNAM/fotografico/opere%20P/File1116%20Palizzi-%20Giovinetta%20alla%20sorgente.jpg&INFO=Palizzi%20Filippo,%20Giovinetta%20alla%20sorgente%20(NA)

Le sue innumerevoli opere sono conservate in varie gallerie e una parte cospicua, costituita da 300 dipinti donati dallo stesso artista nel 1891, è custodita a Roma nella Galleria d’arte moderna e contemporanea,

È tempo di chiudere con le immagini promesse, anche se la loro definizione (proprio la loro! …) è inferiore a quella delle precedenti.

 Albero di melograno e donna che ne raccoglie i frutti (1864), Roma, Galleria d’arte moderna e contemporanea

Albero di melograno e donna che ne raccoglie i frutti (1864), Roma, Galleria d’arte moderna e contemporanea
Albero di melograno, donna con bambina (1864), Museo Rivoltella, Trieste
Albero di melograno, donna con bambina (1864), Museo Rivoltella, Trieste

 

Ucci festival. Ricordando i cantori autentici del Salento

concerti Ucci festival 2014

di Giuseppe Cesari

Nella gran parte del Sud Italia il sistema economico e sociale fino a pochi decenni fa era quello tipico di una civiltà contadina.

Tutta l’economia ruotava intorno alle produzioni agricole e il lavoro in campagna coinvolgeva interi nuclei familiari, dal più anziano al più piccolo, ognuno con compiti ben precisi in base alle proprie capacità.

Era così anche a Cutrofiano, dove quel mondo trovava la sua sintesi di rabbia e d’amore, di disperazione e di fede, di lotta e di speranza nelle canzoni che erano il commento sonoro, a volte anche gioioso ed ironico, di quel lavoro duro e di quella vita scandita dal ritorno ciclico delle stagioni.

Spesso a Cutrofiano ai passanti capitava di sentire provenire dai campi, oltre ai suggestivi suoni naturali, delle voci umane cantare; si sentivano cori, canti e controcanti, che intonavano melodie che come un’eco andavano e tornavano da vari punti della campagna…

È nella nostra campagna, è esattamente lì che è nata l’ispirazione al canto di tanti Cutrofianesi.

In quelle campagne, tra le rughe dei nostri ulivi secolari, nei profumi di rugiada mattutina, nella dolcezza del primo acino d’uva maturo, tra muretti a secco e furneddhri, nella freschezza dell’acqua dei pozzi superficiali che a Cutrofiano offrivano generosamente acqua in quantità per la coltivazione dei campi e per la sete di piante e uomini, i lavoratori stagionali venuti dai paesi limitrofi ascoltavano le voci dei nostri cantori e ne davano testimonianza con i loro racconti.

Già da bambini Uccio Aloisi, Uccio Bandello, Narduccio Vergaro e tanti altri cantavano, cantavano sempre, cantavano per passione, per gioia, per amore, cantavano…

cardisanti - Ucci festival 2012

Per i nostri contadini cantori la campagna e il paese rimasero la dimensione del loro canto fino alla fine degli anni   60. Solo la collaborazione con il coro parrocchiale per cantare la domenica alla Santa Messa offriva ulteriori palcoscenici, soprattutto a Uccio Bandello, per soddisfare la sua insaziabile fame di canto; anche Narduccio Vergaro era vicino al coro parrocchiale, del quale faceva parte suo fratello Carminuccio, appassionato di musiche sacre.

La loro passione per il canto era tanto forte che quando si incontravano in piazza o in qualsiasi altro posto c’era qualcuno, Uccio Aloisi in particolare, che intonava qualcosa che diventava irresistibile per gli altri due al punto da trasformare l’incontro, più o meno casuale, in una occasione per un improvvisato concerto spontaneo, che richiamava l’attenzione di tanta gente.

Ormai erano maturi i tempi per salire sul palco. Cominciarono a farsi notare nelle manifestazioni organizzate a Cutrofiano, poi a suonare alle feste dell’Unità che all’inizio degli anni 70 si organizzavano in vari paesi ed erano molto partecipate.

Le loro voci, i suoni, l’insieme dello spettacolo con il vasto repertorio che spaziava dai canti napoletani ai canti nazionalpopolari, dai canti in dialetto salentino alla pizzica tamburo e voce lasciavano al pubblico un retrogusto gradevole, particolare, e la consapevolezza d’aver assistito a qualcosa di unico, di importante, di autentico.

Agli inizi degli anni 70 su di loro cominciò a concentrarsi l’interesse del mondo accademico e di ricercatori, studiosi, etnomusicologi che venivano a Cutrofiano per incontrarli, conoscerli, parlare con loro e poi registrare le loro canzoni. Proprio nel 1972 Giorgio di Lecce incontrò Uccio Bandello e Uccio Aloisi.

Questo incontro segnò una svolta importante per i cantori di Cutrofiano che, suggellando la collaborazione con Giorgio di Lecce, cominciarono ad andare dapprima in giro per la Puglia fino a Monte Sant’Angelo, in provincia di Foggia, con uno spettacolo di musica e danza popolare e l’anno successivo in tournee per l’Italia con memorabili concerti a Faenza, Ravenna, Napoli.

Grazie a Giorgio di Lecce i cantori di Cutrofiano ebbero l’opportunità di conoscere e di collaborare con Uccio Casarano, organettista di Sogliano, con Luigi Stifani, il barbiere violinista di Nardò e con la famiglia Zimba di Aradeo con un giovanissimo Pino diventato poi il grande personaggio della musica popolare salentina.

Dopo la metà degli anni Settanta, quando ci fu il grande boom delle radio e tv libere, il gruppo dei cantori di Cutrofiano, ormai conosciuto molto bene in provincia e non solo, partecipò ad una serie di fortunatissime trasmissioni televisive sulla musica popolare del Salento mandate in onda da “Telelecce Barbano”, emittente all’epoca seguitissima in tutta la provincia.

li Ucci - Uccio Aloisi, Uccio Bandello, Narduccio Vergaro
li Ucci – Uccio Aloisi, Uccio Bandello, Narduccio Vergaro

Ormai era nato un vero gruppo, che aveva spontaneamente preso il nome “li Ucci”, il cui nucleo storico era costituito da Uccio Vergaro, Uccio Bandello e Uccio Aloisi con tanti artisti che ruotavano intorno a loro.

Essi erano un punto di riferimento per tutti coloro che amavano la musica tradizionale salentina autentica. Nonostante il successo, che li aveva loro malgrado investiti, il loro carattere, la loro semplicità, la loro spontaneità, la loro ispirazione era rimasta intatta. La vita di tutti i giorni era sempre la stessa, non assumevano atteggiamenti da star, anzi portavano sul palco la loro spontaneità tanto da non rispettare il galateo del palco e suonavano come se stessero nei campi. Alcuni pensavano fosse trasgressione, invece era semplicemente il loro modo di essere e di suonare, era amore puro per la musica che per loro aveva solo un senso: dare voce e canto alla nostra terra.

Il gruppo crebbe notevolmente in notorietà e ormai si muoveva in maniera autonoma; gli organizzatori delle feste contattavano loro direttamente e quindi ci fu l’esigenza di trovare musicisti che li supportassero nelle loro innumerevoli serate. Lo stile era sempre lo stesso. Le prove si facevano d’estate nella campagna di Narduccio Vergaro; si trattava di raduni che attiravano folle di contadini da tutta la “cavallerizza” , mentre la moglie di Narduccio cuoceva pentoloni di pitteddhre alla pizzaiola già dal pomeriggio per sfamare tutti i presenti. D’inverno, invece, quando a causa della pioggia e del freddo il lavoro nei campi era meno intenso, il raduno quotidiano era dal barbiere, in Via Don Giuseppe Villani, nel centro storico del paese.

Lì si radunavano; chitarra, mandolino e tamburello stavano sempre nel salone, mentre ognuno dei tanti musicisti che accorreva portava il proprio strumento e a quel punto cominciava la festa. Ognuno aveva un approccio personale e dava il proprio contributo per rendere sempre originale e unico il suono.

Uccio Casarano – ex organettista degli Ucci

I musicisti che ruotando suonavano con “li Ucci” erano, oltre a Uccio Casarano, Pino Zimba e Luigi Stifani, i Cutrofianesi Antonio Melissano – mandolino, Giuseppe Luceri – chitarra, Ugo Gorgoni – mandolinista chitarrista e forse l’unico che leggeva il pentagramma, Luigi Gemma – Fisarmonica, Giovanni Vantaggiato di Corigliano, Uccio Malerba; c’erano poi alcuni musicisti che non andavano a suonare sul palco, ma che erano sempre presenti nei loro raduni spontanei, lu Ninu e lu Pippi Perrone.

All’inizio degli anni Ottanta Leonardo Vergaro rinunciò a partecipare a molte serate estive per non lasciare la famiglia, moglie e tre figlie in campagna sole di notte, però era sempre presente ai raduni spontanei e la sua casa rimase il posto preferito per le prove. Da giovane Narduccio aveva anche tentato di frequentare una scuola di musica, spinto dal fratello Donato che era un bravo sassofonista e clarinettista, ma a causa del carattere irrequieto aveva rinunciato a studiare.

Gli anni Ottanta furono anni di intensa attività e furono anche gli anni in cui cominciarono ad arrivare da più parti importanti riconoscimenti. Nel 1986 Uccio Aloisi, Uccio Casarano e Luigi Stifani parteciparono a “Domenica in”, invitati da Pippo Baudo per cantare e far ascoltare la musica del Salento. Questo significava che la loro popolarità era ad altissimi livelli, di cui “li Ucci” non ebbero mai piena consapevolezza e soprattutto rimasero sempre inconsapevoli dei meccanismi e delle opportunità che il loro successo offriva. Con la semplicità che li rendeva unici ed inimitabili negli anni Novanta suonavano in giro per l’Italia, con formazioni diverse a seconda della situazione.

Con la morte nel 1998 di Uccio Bandello e con l’età che inesorabilmente lasciava il segno su tutti gli altri il gruppo pian piano si sciolse.

Il 1998 fu l’anno della prima edizione della Notte della Taranta che fu dedicata a Uccio Bandello. La voce di Uccio Aloisi che intonava “Quandu te lavi la facce la matina” fece venire la pelle d’oca a mezza Italia, rese tutti noi giovani consapevoli che da quel momento cominciava un’altra storia, una storia innestata su un ceppo forte dalle radici indissolubilmente piantate nella nostra terra, storia in cui si raccoglievano i frutti di quelle piante fatte crescere da chi c’era prima di noi.

“Li Ucci” hanno scritto pagine inedite nel mondo della musica popolare, hanno creato uno stile originale, unico, hanno inventato un inedito approccio col pubblico e non hanno temuto di confrontarsi e dialogare musicalmente con star internazionali della musica, come ha fatto Uccio Aloisi con Stewart Copeland dei Police o con l’italiana Gianna Nannini.

Divertendosi e divertendo hanno esportato fuori dal Salento e dall’Italia la musica e la cultura ad essa sottesa, contribuendo a farla conoscere ed apprezzare e rendendola nello stesso tempo indimenticabile.

In questo modo i contadini cantori di Cutrofiano si sono resi essi stessi protagonisti inconsapevoli di una grande operazione culturale se è vero che, come diceva un anonimo,:“Cultura è ciò che resta quando tutto il resto è dimenticato”

Da quattro anni a Cutrofiano l’associazione sud etnic organizza “li ucci festival” una manifestazione in onore di Uccio Aloisi, Uccio Bandello, Narduccio Vergaro e di tutti i musicisti che ruotavano intorno a questo trio (li ucci). la manifestazione ha l’obiettivo di far conoscere e valorizzare il loro stile unico, di autentici cantori, che hanno fatto dell’amore per il canto e per la musica una ragione di vita facendo giungere fino alla nostra generazione melodie nate chissà in quale campagna e che se non fossero stato per loro oggi sarebbero scomparse. Quest’anno la manifestazione dal 15 al 20 settembre ha coinvolto oltre cento artisti che si sono esibiti ricordando i cantori cutrofianesi… inoltre ogni giorno a Cutrofiano ci sono state mostre, incontri, dibattiti. Al concertone finale di sabato 20 settembre c’è stata la partecipazione di oltre 10.000 persone che hanno cantato e ballato per tutta la notte insieme all’orchestra “ucci festival” composta tutta da musicisti salentini provenienti da vari gruppi e generi musicali. Oltre a far rivivere le nostre tradizioni musicali, “ucci festival” ha centrato l’obiettivo di destagionalizzare il turismo considerando che per la settimana del festival nei B&B della zone c’è stato il tutto esaurito.

La Casa del Sale. Il Salento in termini essenzialmente lirici di Wilma Vedruccio

wilma

 di Elio Ria

 

Viviamo nel tempo dell’affievolirsi della luce in un luogo che era un incanto, un lembo di terra dove non vi era urgenza del fare, vigeva l’orologio della lentezza delle tradizioni, con un sole pacato, un mare azzurro congiunto al cielo, una campagna di alberi d’ulivo, fichi d’india, grano e vitigni, muri a secco, orti e ortolani, sinfonia d’autunno, contadini temprati nell’acciaio della fatica. Questa è la narrazione del Salento, della memoria della gente e del luogo, trascritta da Wilma Vedruccio nel suo libro La casa del sale. Storie di un altro Salento (Kurumuny edizioni).

Un altro Salento. Quello che non è mercificato e riesce a mantenersi nella tradizione orale, svincolato da false ideologie moderniste che fanno perdere il senso di ciò che siamo stati. Che cosa dobbiamo dunque chiederci e fare a questo proposito per evitare il pericolo dell’ovvio? Partire dall’evidenza di tutto quanto è ancora a disposizione dei nostri occhi e della nostra memoria. Non è una questione di verità, né un tentativo di ricerca di un qualunque fondamento veritativo, ma una riaffermazione di un canto corale che nel corso dei secoli si è trasformato in sapienziale esistenza di una gente che non ha mai perso di vista il sacrifico e ha saputo riscattare il dolore dalla brutalità del suo accadere. Gente forte in un luogo che era un incanto. Era. Non lo è più. Il messaggio è fin troppo chiaro: Storie di un altro Salento. Vedruccio nelle sue storie sembra avvertire il sentimento, sempre più acuto, della mancanza di tempo, la fretta che uccide presente e futuro, condensando nella nudità dell’accelerazione l’indifferenza, o peggio la scomposizione di misteri di bellezza naturali in fragili emotività che depauperano la quotidianità di significato.

La Casa del Sale è la casa di un tempo andato, consumato, che potrebbe vivere nella memoria. Era così chiamata in paese, e si diceva un po’ questo e un po’ quello sul suo passato, storie di contrabbandieri, leggende d’amore e di coltelli… Brrr, brividi di paura, che quelle incrostazioni, quelle pietre sgretolate certo non facevano svanire.

La Casa del Sale è il pretesto narrativo per intessere in un ricamo letterario di storie e di personaggi, ma anche di  luoghi mitici e irreali.

La scrittura segue con attenzione l’agire di una comunità intenta sempre alla costruzione di alti significati esistenziali. Altro Salento. Ma anche altre storie che non si ascoltano più, ma soprattutto non accadono, atteso che l’oggetto della tradizione è in continua mutazione per adattarlo ai canoni di una superficiale idea di modernismo.

Il Salento della Vedruccio è il Salento della nostalgia? No! È il Salento poetico di cui si può accertare il suo carattere incondizionato di inestimabile purezza. È il Salento che fa fatica a riemergere, a delineare le sue appartenenze alla tradizione, sconquassato da un turismo ossessivo e compulsivo, scosso dalle insidie delle multinazionali che intendono industrializzarlo e renderlo una ciminiera di fumi che devono soddisfare l’economia mondiale.

Vedruccio ha preso la parola, quella di una volta, per discorrere dell’ideale relazione tra uomo e natura, non per trarne un astratto modello logico-concettuale del Salento ma per tirarsi fuori dalle onnivore strategie e delle pretese consumistiche che vorrebbero il Salento un grande supermercato dove si può comprare il sole e il mare in barattoli. Non ha voluto raccontare idee o fantasmi, ma guardare, respirare, lasciarsi trasportare dal vero tempo, e percepire ancora il profumo dei fiori, l’odore della terra, vedere lo Ionio, i paesi con i campanili che comandano l’aria del tempo, le vie strette e labirintiche, i preti con la veste nera (pochi), le donne timorose di Dio, i rosari fra le mani, le preghiere, le suppliche a Dio e ai santi, le processioni, le bande, le piazze, le comari.

Il Salento e le sue opere irrinunciabili!

tap_no

di Gianni Ferraris

Leggendo l’Espresso di questa settimana (25 settembre 2014) c’è un interessantissimo articolo sulla famigerata TAP (Trans Adriatic Pipeline). A chi giova? Si diceva un tempo parlando di affari loschi.

Facciamo un piccolo riassunto della situazione leggendo sempre L’Espresso del 29/11/2013:

Tutto iniziò quando Gianpaolo Tarantini e Roberto De Santis (il primo fornitore privilegiato della real casa Berlusconi di merce che ben conosciamo, il secondo che si autodefiniva “fratellino minore di Massimo D’Alema”), parlarono di due gasdotti, il primo dalla Grecia a Otranto, il secondo (TAP) da definire, la cosa venne prontamente portata all’attenzione di Silvio da parte di Tarantini (probabilmente con una letterina infilata in qualche reggiseno, per stimolarne la curiosità). Berlusconi non esitò, al contrario di Prodi che sponsorizzava il primo progetto, a sostenere la TAP, lo seguirono a ruota Monti, Letta e il lavoro sporco lo vorrebbe terminare Renzi con tutto il nuovo PD, dicendo che si tratta di “opera strategica”.

TAP è una società svizzera, ha un capitale di 149 milioni di Franchi Svizzeri, partecipata da: Socar (società Azera) , Fluxys (Belgio), E.ON (Germania), AXPO (Svizzera).

Insomma, dietro TAP si muovono interessi internazionali e sicuramente volano mazzette a tonnellate.

 

Ma veniamo all’articolo odierno. Oggi (sabato 20 settembre) è programmata una manifestazione a San Foca, dove dovrebbe sbarcare il tubo che potrebbe distruggere uno dei tratti più belli della costa salentina e portare il gas in un appezzamento di terreno di 12 ettari poco dopo San Foca per lavorarlo. Questo lavoro comporterà: perforazione della roccia, trasformazione dell’ambiente sottomarino, colate di cemento nelle campagne al posto degli ulivi. Mentre i cittadini manifestano contro la TAV, Matteo Renzi sarà a Baku (Azerbaijan) a prostrarsi davanti al padrone del paese, Alyev, assicurandolo che TAP si farà e, cascasse il mondo, perforeremo San Foca e il Salento intero, secondo lui non saranno 4 pezzenti di sindaci e poche decine di migliaia di cittadini a impedirgli di portare a termine quel che il suo padrino politico di Arcore iniziò.

Per giustificare la fretta, Renzi prende spunto dalle minacce di Putin di chiudere i rubinetti per le note vicende, però TAP entrerà in funzione nel 2020, se Putin, a fronte delle minacce, agisse oggi, TAP non servirà ad un’emerita cippa.

Inoltre TAP fornirà all’Italia 8 miliardi di mc di gas, contro i 70 di fabbisogno (dati 2013), la sola Russia ne fornisce 25. Rimane un buco di non poco conto. Per giunta il governo Monti, oltre ad aver fondato la nuova classe sociale chiamata “gli esodati”, ha preso solenne impegno di rivendere parte di quel gas (la quasi totalità). A guadagnarci dovrebbe essere SNAM che gestisce le tratte italiane del gasdotto,  tuttavia deve portare il gas da San Foca alle Alpi, questa operazione costerà, secondo l’articolo, circa un miliardo di euro. Chi li paga? Colpo di genio: gli italiani tutti (ricordate il mantra “servono sacrifici?”). Un centesimo di euro per mc, inezie. “Ma il gas costerà meno” , dicono i sostenitori del buco, però come sostiene Luigi De Paoli docente alla Bocconi, i risparmi non ci potranno essere perché questo comporterebbe uno sforzo economico enorme di chi lo fornisce, per di più TAP è azienda privata e i prezzi li fa il mercato. Se ci sarà surplus di offerta i prezzi caleranno, altrimenti… indovinate un po’?

In buona sostanza a guadagnarci dal gioco perverso, oltre le mafie che sicuramente sposteranno terra e avranno appalti, potranno essere paesi terzi dell’Europa che si libereranno del fornitore Russia a costo zero. A rimetterci saranno gli italiani tutti e i cittadini di San Foca e del Salento in particolare.

A questo punto sarà interessantissimo ascoltare i candidati alla presidenza della Regione Puglia. Chi dice renzianamente (montianamente, berlusconianamente, dalemianamente, lettamente) che TAP è opera strategica ed irrinunciabile passasse anche nel centro storico di Lecce, e chi si porrà il problema di pretendere e proporre una crescita diversa, un diverso modo di produrre turismo e benessere. Ascolteremo chi vuole un’oasi alla Sarparea fatta di colate di cemento e chi dice che l’oasi c’è già ed è fatta di ulivi secolari. Ascolteremo anche chi vuole la 275 come autostrada a 4 corsie che servirà aree industriali dove gli unici stabilimenti attivi sono le Apecar dei contadini che vendono i loro prodotti e chi vuole una strada parco non distruttiva. Su questo, penso, si giocheranno i voti alle primarie e alle secondarie in Salento.

Un pensiero per : “Compare, mi vendi una scarpa?“

 coperta-compare-per-blog

di Giuliana Coppola

Così ho deciso; ritorno a Marittima ché mi è rimasto nell’anima il sapore forte d’un caffè, quello che Rocco Boccadamo m’ha offerto mentre sfogliavo già “COMPARE, MI VENDI UNA SCARPA?” raccolta di luoghi, vicende e volti d’un “cantastorie salentino” fresco fresco di stampa per Capone Editore, offertomi in dono da Rocco, accanto a tazzina di caffè, nella piazza di Marittima.

Sto qui ma è un’altra la Marittima che oggi osservo; c’è il lento passaggio di un gregge e c’è la voce del pastore e d’un tratto anche il rintocco della campana di S. Giuseppe; c’è la Campurra e son sicura che se volto strada, li ritrovo i miei artigiani del cuore.

Questo è il mistero-miracolo della scrittura che entra dentro, come un sorso di caffè e la dolcezza del ricordo che è immagine e visione, mai triste ma ironica e serena. Tanto si sa che è il presente a regnare ed è lui ad abbracciarci, oggi; il futuro incalza ed è voce d’acqua di fontana che mi riporta alla realtà e mi fa piacere che esista, che abbiano pensato allo scroscio dell’acqua quando s’è deciso di sacrificare cappella. Avrà perdonato S. Giuseppe.

Il “cantastorie” come Rocco sceglie di chiamarsi in questo momento del suo lavoro impareggiabile, il cantastorie racconta e il racconto diventa parte di me che rivivo vicende e rileggo i luoghi e riaccarezzo i volti; m’è compagno di viaggio il racconto e so già che dal momento in cui lettura mi assorbe, tutto avrà gusto diverso e ritornerò sui luoghi per accertarmi che almeno una briciola rimanga, che non siano state cancellate radici; da loro si rinasce e si ricomincia.

Rocco Boccadamo questo riesce a fare; guida i passi del lettore, un po’ come fa con il suo nipotino Andrea in “Note di diario da Marittima” e mentre il ricordo assale, il presente incalza e le immagini dei volti di generazioni diverse stabiliscono “un magnifico collegamento, un bel segno di continuità fra le realtà di ieri, il presente e il tempo a venire”. Così mi ritrovo a ripetere la filastrocca che sotto la cappa del mio compare c’era un vecchio che sapeva suonare e intanto raccolgo carrube che continuano ad esistere e mi perdo nell’infinito del mare e del cielo che s’abbracciano a Torre Lupo, a Castro “mio grande amore”, all’Acquaviva “un luogo dell’anima”;  seguo i passi di Rocco e mi convinco sempre di più che onore e merito va a tutti coloro che, come Rocco sottolinea, sanno innestare a tradizione antica “un virgulto vitale e interessante per l’attenzione dell’utenza del terzo millennio”.

Scelta coraggiosa di “Compare, mi vendi una scarpa?” che già nel titolo è tutto una sorpresa, un segreto da non rivelare; non solo s’abbracciano in questa nostra terra e nelle pagine che sfoglio, terra e cielo, ma anche passato e futuro a proteggere e coccolare presente; i cantastorie questo l’hanno capito bene; Rocco lo ha rivelato; egli ricorda e procede a vela sciolta con vento in poppa su barchetta-scrittura che ci accoglie come suoi ospiti-lettori ed è così allegra e scanzonata e giovane la traversata.

Grazie, Rocco, e al prossimo viaggio!!!

San Giuseppe da Copertino (1/2): San Giuseppe e Dante

di Armando Polito   Nella prima immagine (tratta da http://www.beniculturali.marche.it/Ricerca.aspx?ids=9675) un olio su tela custodito nell’Ospedale di Fabriano ed attribuito a Giuseppe Cades (1750-1799); nella seconda una tavola che fa parte della serie di illustrazioni della Divina Commedia realizzata da Gustavo Doré tra il 1861 e il 1868, riferita ai versi 54-57 del canto XXIX dell’Inferno. Certamente chi ha un’esatta nozione del tempo e, cosa che non guasta mai, un minimo di cultura avrà fatto un sobbalzo nel leggere il titolo che presenta un’accoppiata impossibile. Credo, infatti, con tutto il rispetto, che nemmeno il santo dei voli sarebbe in grado di compiere uno di quei miracoli che sono appannaggio solo del mondo televisivo, cioè intervistare Dante così come, per esempio, Socrate venne intervistato da Edoardo Sanguineti in una delle ottantadue puntate della serie radiofonica Le interviste impossibili, andata in onda tra il 1974 e il 1975. E allora? Si tratta solo di un’associazione di idee partita dalla cosiddetta legge del contrappasso. In un paese in cui le leggi godono il rispetto riservato a ciò che non esiste …, in cui Dante evoca in un gran numero di giovani un marchio di olio d’oliva e, quando non è scritto con l’iniziale maiuscola, crea, sempre in un altro buon numero di giovani che ne ignorano perfino  la differente funzione, seri problemi nell’individuare il modo e il tempo di questa voce del verbo dare, sempre che più di uno, ignorando la funzione dell’apostrofo e considerando dante come d’ante (roba da spaccargli in testa l’intero infisso …) , non sentenzi che si tratta di un complemento di specificazione, sentenza, fra l’altro, figlia di un colpo di culo e non certo di conoscenza in cui di logica non è rimasta nemmeno l’analisi, in un paese siffatto, dicevo, bisogna pure che qualche vecchio rimbambito si prenda la briga di dire, a coloro che probabilmente non lo sanno ed a coloro che, pur sapendolo l’hanno dimenticato, che la legge del contrappasso potrebbe essere chiamata pure legge del taglione o legge dell’occhio per occhio, dente per dente. Mi rendo conto che per un ex insegnante è indegno spiegare un concetto con una procedura sinonimica che, nella fattispecie, non facilita certo le cose, evocando gli scenari più disparati: così, per i giovani di cui sopra, taglione potrebbe essere inteso come una grossa taglia messa sulla testa di un delinquente altrettanto grosso e occhio per occhio, dente per dente potrebbe essere scambiato per una rara formula di pagamento con ricevuta fiscale estremamente dettagliata sulla prestazione fornita da un oculista e da un dentista che hanno deciso di metter su uno studio in comune a mo’ di centro commerciale parzialmente specializzato. Dopo aver detto che il contrappasso non è nemmeno un movimento di danza, i giovani sappiano che legge del contrappasso, secondo la definizione che riporto dal vocabolario De Mauro (bella conclusione dopo tanto predicare …!), è un criterio punitivo che consiste nell’infliggere una pena uguale o simile al delitto commesso. Tale criterio è rigorosamente seguito da Dante nella sua Commedia, con la variante che talora la pena può essere anche opposta alla colpa. Aborro la pena di morte, non auspico nemmeno l’applicazione della legge del taglione che era alla base delle Leggi delle XII tavole (prima codificazione scritta, risalente alla metà del V secolo a. C., del diritto romano) ma mi chiedo se veramente da allora la civiltà giuridica abbia fatto progressi, perché ho l’impressione che la pletora di leggi e l’ambiguità del loro testo, che può propiziare le interpretazioni più contrastanti, abbiano dato vita solo all’incertezza della pena, tutto  per la gioia di chi delinque. Paradossalmente a distanza di secoli si è sgretolata via via quella certezza, in un certo senso anche democratica, avviata col passaggio dalla legge non scritta (soggetta all’arbitrio non certo del più debole …) alla scritta e, forse, proprio l’eccesso di scrittura e soprattutto la sua ispirazione sovente capziosa, hanno di fatto legittimato la forma più perversa d’intelligenza che possa esistere: la furbizia. Dopo il riferimento a Dante, tocca a S. Giuseppe. Innumerevoli sono le biografie e lascio volutamente da parte Il frate volante, vita miracolosa di San Giuseppe da Copertino, Edizioni San Paolo, 1998, sceneggiatura scritta da Ennio De Concini per un film mai girato, in cui la storia, secondo il vezzo antico della rielaborazione artistica che nei nostri tempi ha lasciato il posto alla spettacolarizzazione travestita, nei casi peggiori, da divulgazione scientifica, è usata per darne libera interpretazione, che diventa arbitraria (e non disinteressata) manipolazione quando si inventano, come succede in questo caso, documenti inesistenti o alcuni passi di quelli autentici vengono criminalmente e consapevolmente alterati. Ora mostrerò, attraverso quattro brani tratti da altrettante biografie e che riporterò in ordine cronologico, come progressive superfetazioni (arbitrarie perché non documentate e neppure documentabili) trasformino agli occhi di chi legge in verità storica quella che già all’inizio potrebbe essere considerata una pura illazione (il rischio riguarda tutte le biografie ma in particolar modo le agiografie), per quanto plausibile. Benedetto Mazzara, Leggendario francescano, Lovisa, Venezia, 1721: tomo IX, p. 248, seconda colonna:   Domenico Bernino, Vita del Venerabile Padre Fr. Giuseppe da Copertino, Recurti, Venezia, 1726, p. 3:   p. 23   Paolo Antonio Agelli, Vita di San Giuseppe di Copertino, Stamperia Bonducciana, Firenze, 1768, p. 3 Angelo Pastrovicchi, Compendio della vita, virtù, morte e miracoli di San Giuseppe di Copertino, Quercetti, Osimo, 1804, p. 1 Giuseppe Ignazio Montanari, Vita e miracoli di San Giuseppe da Copertino, Tipografia Paccasassi, Fermo, 1851, p. 5 Dall’estasi iniziale descritta genericamente (restando fuora di sé) nel primo brano si passa nel secondo al dettaglio (colla bocca alquanto aperta) e alla sua metamorfosi onomastica (Boccaperta), nel terzo ricompare il solo dettaglio (colla bocca mezz’aperta), mentre nei rimanenti si afferma definitivamente la sua caratterizzazione onomastica (il chiamavano Bocca-aperta/gli misero sopranome Bocca aperta). Ancora oggi occapièrtu è a Nardò l’appellativo conferito ad una persona della cui intelligenza non si ha grande considerazione. Recentemente l’amico torinese Sergio Notario nel suo commento ad un mio post ha usato la voce piemontese badòla che è l’esatto sinonimo del salentino occapièrtu, ma questa volta il gemellaggio è solo di ordine semantico perché badòla è dal latino medioevale badare (da cui la voce italiana)=stare a bocca aperta, sbadigliare. Il lettore si starà già da tempo chiedendo quando arriverà l’ormai famigerata associazione d’idee che a mio dire  avrebbe dato vita a queste righe. Lo accontento subito dicendo com’è andata. Mi sono messo nei panni di Dante (calma, non è la mia migliore performance: più di una volta ho indossato quelli di Hitler …) e mi son chiesto come il divin poeta (se gli fosse stato possibile con una macchina del tempo compiere un viaggio nel futuro …) avrebbe immortalato, con l’applicazione della legge del contrappasso,  quei ragazzi di Copertino dopo averli posti, forse troppo severamente, tra i dannati della decima bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno (i falsari, nel nostro caso quelli della parola, dunque in compagnia della moglie di Putifarre e di Sinone1). E se San Giuseppe non reagì (essendo già in odore di santità?),  al nomignolo di occapièrtu, non abbiate paura a chiamare pàcciu (pazzo) me, anche se santità sta a me come onestà sta alla politica, dopo aver letto questa gionta al canto XXIX:

E ‘l maestro, placando il mio disio:                        

– Questi i figli son di Cupertino;                                

a Gioseppe fer torto, servo di Dio,                          

ché gli dier di leggier  dell’asinino.                           

A bocca ora stanno spalancata,                              

col sembiante crudel di fantolino                              

e la lor mente tutta avviluppata                            

del fraticello ai voli dispiegati,

per quel “Boccaperta” ognor crucciata -.  

 

Per la seconda partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/19/san-giuseppe-da-copertino-22-due-voli-offensivi/

__________

1 La prima, secondo il racconto biblico (Genesi, XXXIX), accusò ingiustamente Giuseppe (naturalmente non il nostro …) di violenza; il secondo, greco, (immortalato da Virgilio nei vv. 57-194 del II libro dell’Eneide, fattosi fare a bella posta prigioniero dei Troiani, li ingannò convincendoli ad introdurre nelle mura il famoso cavallo di legno da lui presentato come dono di espiazione e riconciliazione. Poi, porca Elena!, tutti (?) sanno come andò a finire …             

La Terra d’Otranto in un portolano del 1521, il progetto Sarparea e … Lino Banfi

di Armando Polito

Il documento è custodito a Modena nella Biblioteca estense universitaria, dal cui sito (http://bibliotecaestense.beniculturali.it/info/img/geo/i-mo-beu-alfa.o.3.15.html) ho tratto le immagini che seguono. Prima di cominciare mi pare doveroso mettere in risalto l’enorme merito, nello squallore quasi generale, che questa istituzione ha acquisito mettendo in linea la digitalizzazione del suo patrimonio, manoscritti, come nel nostro caso, compresi. Ma a me, abituato da tempo a pontificare (secondo chi non gradisce …) inutilmente su lacci, lacciuoli e laccetti che soffocano il settore, ha fatto particolarmente piacere leggere il seguente avviso: Condizioni di utilizzo. L’uso di testi e immagini presenti sul sito della biblioteca è libero – entro i termini della licenza CC – solo per scopo personale, privato e non commerciale. In caso di uso pubblico non commerciale è sufficiente indicare la provenienza con un collegamento alla homepage questo sito. Per qualsiasi altro scopo, o per ottenere immagini a risoluzione superiore, si prega di seguire le indicazioni nella pagina Riproduzioni e/o scrivere a b-este.urp@beniculturali.it.  

Parole illuminate? No, sono gli altri che neppure sanno cos’è la luce e, tra l’altro, il loro materiale è digitalizzato ad una risoluzione tanto ridicola da renderlo in pratica illegibile nei dettagli e, se vuoi immagini di risoluzione superiore (ma che, probabilmente non può competere con quella, già di ottimo livello, offerta, gratuitamente, da questa biblioteca), devi pagare.

Il manoscritto del quale esaminerò la parte che riguarda il nostro territorio è un portolano, tipo di documento al quale ho già dedicato qualche altro post1, del cartografo messinese Iacopo Russo. Si compone di 12 tavole pergamenacee rimontate su cartone, ognuna con un fregio vegetale ai lati esterni e in corrispondenza della cerniera con il disegno di un perno girevole.

La carta 1v si presenta così:

Passo al dettaglio elaborato.

ananso=Egnazia    brindisi=Brindisi   castro=Castro   cavo santa maria=capo di Santa Maria di Leuca   cavo ovo=Torre dell’Ovo o Torre Ovo4     flumi tara=fiume Taras  galipolli=Gallipoli  gaugito=Guaceto   huxento=Ugento  lalechi=Lecce   otranto=Otranto   petrolla=Petrolla  roca=Roca   taranto=Taranto    torri de mar=?    vilanova=Villanova

Per quanto riguarda torri de mar=? rinvio a https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/07/la-terra-dotranto-in-un-portolano-del-xvi-secolo/; comunque, la sua posizione sulla riva orientale del fiume rappresentato (che è il Vasento, anche se il suo nome non risulta scritto, a differenza del fiume Taras) conferma l’appartenenza del toponimo alla Terra d’Otranto e probabilmente il seppellimento suo (o di quelli che erano i suoi resti) sotto il cemento del Torreserena Club Village. Probabilmente qualche marcio e ottuso ambientalista dirà che si tratta di un delitto legalizzato, ma chi ancora conserva un barlume di lucidità e di buon senso riconoscerà che è molto meno grave non rispettare quattro pietre, per giunta in crollo, pur cariche di storia che un intero oliveto vivo (ogni riferimento al progetto Sarparea non è casuale ma causale).

E qualcuno si azzardi pure a dire che, sfruttando l’onda del momento, ho mescolato anche in questo post il profano con il sacro (da noi si dice cce centra lu culu cu li quattru tempore?) per avere qualche lettore in più, ma abbia almeno il coraggio di firmarsi per nome e cognome e gli darò piena soddisfazione …

Per quanto riguarda lalechi=Lecce avanzo questa identificazione sulla scorta del lechi che si legge nella carta 3r dello stesso portolano (toponimo evidenziato nel dettaglio in basso); sarebbe stata indicata la città invece del suo porto, S. Cataldo, che appare in altri portolani.

 

Quanto a lechi, a parte la terminazione in -i come in flumi di flumi tara e in turri di turri di mar (influsso del dialetto siciliano?), io non escluderei lo zampino, sia pur parziale, della pronuncia spagnola per cui, per esempio, leche=latte si pronuncia lecce (il che autorizzerebbe a supporre che Iacopo Rossi si sia avvalso del contributo di un collaboratore spagnolo).

Insomma, lo stesso equivoco che quasi cinque secoli dopo sarebbe stato immortalato (!) nel film  L’allenatore nel pallone, quando il procuratore Gigi  (faceva coppia con Andrea) millanta in un misto di spagnolo/portoghese/brasiliano che Socrates (attenzione, non ha nulla a che fare con il filosofo … !) è suo fratelo de lecce (fratello di latte), ma l’allenatore (Oronzo Canà) impersonato dal nostro corregionale Lino Banfi ribatte: – Lecce? Ma non è brasiliano Socrates? Lecce è Puglia, Puglia! – (https://www.youtube.com/watch?v=mfanlR_fCoE).

 

N. B. Per Petrolla vedi  la segnalazione del sig.Emilio Distratis nel suo commento leggibile, con la mia risposta, in https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/12/la-terra-dotranto-un-portolano-del-xiv-secolo/

____________

1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/07/la-terra-dotranto-in-un-portolano-del-xvi-secolo/

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/04/23/la-terra-dotranto-in-due-antiche-carte-nautiche/

3 https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/17/a-pesca-in-rotta-verso-punta-palascia-con-a-bordo-una-vecchia-carta-nautica-ma-la-rete-e-di-ultima-generazione/

4 Nel comune di Maruggio. Cavo, come già in cavo santa maria, sta per capo.

 

 

Sant’Isidoro di Nardò (Le), il sogno inglese di edificare nelle campagne di ulivi

area_sarparea_sant_isidoro

di Paolo Rausa

La signora Alison Deighton, ai più sconosciuta ma non ai neretini, ha tuonato nei giorni scorsi contro la malapianta della burocrazia regionale pugliese, inadempiente nei confronti del suo progetto di resort a 5 stelle, ecocompatibile a suo dire, definito addirittura ‘stellare’ da non meglio definiti ‘gruppi ambientalisti, a livello nazionale’. Non sappiamo molto di lei, se non che è moglie di lord Paul Deighton, sottosegretario al tesoro del Governo Inglese, ex top manager della Goldman Sachs e organizzatore delle Olimpiadi di Londra, e socia nel progetto del resort di un tale Ian Taylor, broker del petrolio. Uomini d’onore! Hanno messo sul tavolo come investimento 70 milioni di € nell’acquisto e nella realizzazione di questo immenso resort della portata di 150 mila mc. E non si spiegano come mai la rete della burocrazia abbia finora, dopo 6 lunghi anni, impedito la mega costruzione turistico-alberghiera con l’idea di attirare una ‘clientela alta, in modo da creare anche sviluppo’. Lamenta, a ragione, che non se ne sia parlato nelle sedi istituzionali, ma omette di dire che 4 anni fa la Soprintendenza aveva espresso parere negativo perché il progetto interessava un’area sottoposta a vincolo ambientale e che il Comune di Nardò è stato inadempiente perché non ha adeguato il suo piano regolatore al Piano di Tutela varato dalla Regione Puglia nel 2001. In qualsiasi parte del mondo e nella sua Inghilterra o negli Stati Uniti le leggi si rispettano, lei lo sa. Non basta disporre di denaro per pensare di poter sfidare il paesaggio naturale, che come ben sa è frutto di millenni di coesistenza di specie animali e vegetali. Quindi la prima regola, ancor prima delle leggi, è il rispetto dei luoghi. Non si comprende difatti in che cosa consista l’ecocompatibilità di un progetto che getta tonnellate di cemento su una delle più belle zone dell’Italia e del Mediterraneo. ‘Stop al consumo di suolo!’, la campagna per azzerare la continua occupazione di suolo agricolo sottratto alla coltivazione, ha individuato altre modalità di investimento, se così ritiene di fare la signora, a favore di un sud disastrato e sitibondo. Per esempio ritornando ad occuparsi del recupero dei centri storici che versano nel degrado e nell’abbandono: questa sì che sarebbe una campagna meritoria e riprenderebbe a dar vigore a quello spirito rinascimentale e illuministico di tanti viaggiatori inglesi nel sud Italia, ipotizzando modalità diverse di utilizzo del patrimonio edilizio, ridando vita a questi centri baroccheggianti ma dismessi, gloriandosi di aver riportato vita negli anfratti della suburra e di non aver ricoperto di cemento uno dei più bei litorali della nostra terra! Mi creda signora, cambi il suo progetto. Investa sull’esistente e utilizzi la campagna per continuare a produrre olio!

Le confessioni di un gatto ner(et)ino

di Nerino

* Approfittando di una delle rare assenze del mio padrone e sfruttando un programma di traduzione gattese-italiano da me stesso scritto (altro che il coding del ministro Giannini!) e che funziona meglio di tutti i  traduttori on line e di parecchi umani …, dopo avergli fregato l’indirizzo della redazione che teneva gelosamente nascosto (leggi paura della mia concorrenza), ho appena finito di inviare un mio lavoretto. Così tutti sapranno chi sono io; e me ne frega meno di una scatoletta di infima marca se dopo di me si sentiranno in diritto di fare altrettanto cani e porci …

Qualcuno (chi riesce ad individuarlo è veramente bravo,  visto che esistono decine di attribuzioni ad autori di tutte le epoche campate in aria, cioè senza citazione dell’opera-fonte) ha detto che quanto più conosce gli uomini tanto più ama le bestie. Potrei ribaltare la frase miagolando che quanto più conosco gli uomini tanto più amo i miei simili, ma non voglio essere ingeneroso nei confronti del mio padrone che non sarà certo uno stinco di santo ma mostra, a modo suo, di volermi bene.

Però, nonostante la cultura che tutti gli umani dicono di avere e che, forse, non manca neppure a lui, spesso incorre in incongruenze per me incomprensibili. Per esempio, da quando sto con lui, in pratica da quando (tre anni fa, non avevo più di un mese e mezzo) mi presentai al suo cancello, soprattutto in estate mi inonda di rimproveri ogni volta che gli porto in dono un animaletto. Le prime volte, pensando di fargli cosa gradita, glieli ho portati vivi seguendo quelle stessa logica umana che si esalta, senza un minimo di pietà per il povero malcapitato, quando nel comprare o nel ricevere in dono un pesce o un polpo lo senti esclamare (da ora in avanti riporterò in corsivo ogni sua espressione): – Cce bellezza, ggh’è ancora iu! – (- Che bellezza, è ancora vivo!-).

Puntualmente mi ha strappato dalle fauci o dalle zampe ‘nnu ciddhuzzu (un uccellino) ‘nnu scursone1(uno scorzone),  ‘nnu suricìcchiu2 (un topolino), ‘nna  zòccula3 (grosso topo femmina), ‘nnu crucùddhu4 (una cavalletta), ‘nnu zzuzzuìu5 (una mantide religiosa), ‘nna lucerta fracitana6  (un geco), esclamando come un forsennato: – Nerinu, ‘sti cose no ssi fàcinu! –  (- Nerino, queste cose non si fanno! -).

E subito dopo, rivolto alla mia preda già nelle sue mani (vale solo per l’uccellino e la cavalletta, per gli altri, compresa la mantide religiosa di cui ha, stranamente un vero terrore, la procedura è molto più lunga e complicata …): – Beddhu/a mia, mo ti salvu iò! – (- Bello/a mio/mia, ora ti salvo io! -).  E, dopo avermi chiuso in casa, l’ho visto allontanarsi e liberare il frutto della mia caccia. Ho visto, così, vanificate in un attimo pericolose arrampicate sugli alberi, contatti con rovi e simili col rischio di rimetterci il pelo.

Parecchi esemplari quando hanno le stesse dimensioni sembrano uguali, sicché spesso non ha capito neppure che quello che dopo qualche ora o giorno gli stavo riportando era esattamente quello che aveva liberato qualche tempo prima. La scena descritta, però, si ripeteva puntualmente. A quel punto ho pensato che non gradisse il fatto che glieli portassi vivi e ho cominciato a portargli le stesse prede di prima agonizzanti o addirittura da me ammazzate qualche minuto prima. Àprite cielu e ‘nghiùttite li Massarei!7. Le mani nei capelli (lo può fare perché, nonostante l’età li ha tutti …), il viso atteggiato ad una tristezza indicibile, uno sforzo sovrumano per reprimere le lacrime, e poi:  – No,  quistu no mmi l’eri ffare! Osce no bbiessi cchiù e queddha scatoletta ca ti piace tantu scordàtila! -(No, questo non dovevi farmelo! Oggi non esci più e quella scatoletta che tanto ti piace scordatela!).

Nella sua incongruenza, però, il mio padrone che, per la storia, ammesso che non l’aveste capito, si chiama Armando, è coerente, cioè imparziale: l’altro giorno l’ho sentito fare una sfuriata tremenda al cane,  e tutto per un riccio di macchia che Billy (questo è il suo nome; non è che si sia sforzato a chiamarlo così ma credo che la sua fantasia abbia toccato il fondo quando ha deciso il nome da dare a me …) durante la notte aveva ammazzato, anzi, era una riccia, perché gli ho sentito farfugliare: –  Piccatu, a pparte tuttu era puru incinta!

Giacché ci sono, termino la carrellata ricordando gli altri con cui condivido il “padronaggio” (da intendersi in senso attivo sì, ma riferito a noi , perché in realtà i padroni siamo noi …): Molly e Tigre. Nel caso in cui Billy e io fumassimo, non so se Armando consentirebbe pure a noi di fare quello che delle due contesse è documentato nella foto che segue, oltretutto stragattate sul divano più pregiato.  E lui, invece, non fa in tempo ad estrarre dalla scatola il suo toscanello che senti sua moglie aggredirlo: Va ffùmatilu ddha ffore; no ggh’è ca m’ha ‘mpuzzunire totta la casa! (Vai a fumartelo fuori; non è che mi devi riempire di puzza tutta la casa!).

Stavo per dimenticarmi di Ugo, una tartarughina molto simpatica e discreta perché non esce mai dalla vaschetta che la ospita, nella quale mi piace ogni tanto abbeverarmi, nonostante nella mia scodella ci sia sempre dell’acqua (Fiuggi, dice Armando, ma ho dei dubbi e, poi,  a me piace di più quella di Ugo).

Per chiudere, torno alla spiacevole punizione seguita ai doni non compresi: a guisa di un umano, in queste circostanze mi dissocio ma fingo il pentimento e me ne sto in un angolo apparentemente abbacchiato. Non son passate nemmeno due ore e giunge puntuale una carezza e con il perdono, quasi io fossi un cannibale, una fetta di salame … di felino8. Vai a capire la logica degli umani! …   

___________

1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/20/due-specie-di-serpenti-piu-diffuse-nelle-campagne-salentine/

2 Diminutivo di sòrice, che è più fedele al latino sòrice(m) di quanto non lo sia l’italiano sorcio.

3 Forse da un latino *sòrcula(m) [da un precedente *sorìcula(m) a sua volta dal classico sorex/sòricis, il cui accusativo (sòricem) è stato citato nella nota precedente, probabilmente pure incrociato con zoccolo nel significato traslato di persona rozza.  

4 Deformazione, per influsso della seguente c, di vrucùddhu (in uso nel Leccese a Castrignano dei Greci e a Martano) che è da un *brucùllu(m), a sua volta da un *brùculu(m), diminutivo del latino medioevale brucus, che è dal tardo latino bruchus, a sua volta dal greco  βροῦχος (leggi Bruchos)=locusta, da βρούχω (leggi brucho) o βρύκω (leggi briùco). Inutile aggiungere che l’italiano bruco ha la stessa etimologia. 

5 Per il Rholfs dalla sua voce zzu-zzu. Concordando con il mio padrone, dubito che la voce abbia origine onomatopeica, anche perché non so chi mai abbia sentito questo zzu-zzu. Piuttosto, pensando alle varianti tuzzuvia (in uso nel Leccese ad Alessano, Andrano, Castro, Miggiano, Ruffano e Spongano) e tuzzuìa (in uso nel Leccese a Veglie e nel Tarantino a Manduria), zzuzzuìu potrebbe essere sua deformazione (con passaggio da t– a z– per lo stesso motivo per cui, come s’è detto nella nota precedente, da vrucùddhu si è avuto crucùddhu) e, perciò, da tuzzare=percuotere e iu=vivo, con allusione al fatto notorio che talora la femmina divora il maschio subito dopo l’accoppiamento o, in alternativa, al noto potere distruttivo delle locuste in genere. Se pensate che queste mie ipotesi siano troppo fantasiose, allora chissà quante ve ne saranno sfuggite del mio padrone!  

6 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/11/uno-strano-modo-per-selezionare-gli-amici/

7 Apriti cielo, e inghiottiti i Massarei (è il nome del quartiere periferico, in passato in aperta campagna, oggi molto meno meno, di Nardò dove vivo col mio padrone. Comunque, la frase (usata per stigmatizzare una situazione in cui la furia  di qualcuno, ma anche degli eventi naturali, fa da protagonista) originale è Àprite cielu e ‘nghiùttite Ggisaria! (Apriti cielo e inghiottiti Porto Cesareo!), a sua volta adattamento di Àpriti, celu, e aggiuttimi, terra!, un verso di un anonimo poemetto in ottave, La Barunissa di Carini, ispirato dalla sfortunata vicenda amorosa di questo personaggio e trasmesso oralmente a partire dalla seconda metà del XVI secolo, la cui prima registrazione scritta avvenne solo con Salomone Marino che pubblicò a Palermo nel 1870 La baronessa di Carini, leggenda storica popolare del sec. XVI in poesia siciliana.

8 Lui non sa che io so benissimo che Felino (per il gioco di parola l’ho dovuto scrivere con l’iniziale minuscola), riferito al salame, prende il nome da Felino in provincia di Parma. Perciò accetto di far pace, gli faccio capire che una fetta sola mi fa il solletico e, tutto sommato, per tutto il salame del mondo non cambierei i Masserei con Felino. E mi addormento felice come il gatto certamente più famoso ma non più felice di me, Felix, per il quale gli umani, credendo di mostrarsi intelligenti, hanno sostituito con  x che fa tanto esotico la s finale di felis (che in latino è il nome del gatto).  

La Montagna spaccata e la rabbia (2/2)

di Armando Polito

Foto di Stefano Daglio scattata nel marzo 2009 dalla costa adriatica del Salento (da http://www.naturamediterraneo.com/forum/topic.asp?TOPIC_ID=88626)
Foto di Stefano Daglio scattata nel marzo 2009 dalla costa adriatica del Salento (da http://www.naturamediterraneo.com/forum/topic.asp?TOPIC_ID=88626)

Se fossi un botanico, dopo essermi fatto una copia fotostatica del saggio di  Enrico Groves, Flora della costa meridionale della Terra d’Otranto, apparso in Nuovo giornale botanico italiano, v. XIX, N. 2, aprile 1887, pp. 110-219 e tavole fuori testo in appendice1, stilerei una tabella di marcia desunta dal saggio, in pratica un elenco di toponimi, ognuno accoppiato con l’essenza o le essenze rilevate quasi centotrenta anni fa. Ripercorrerei, insomma, gli stessi sentieri a suo tempo battuti dal Groves per un riscontro comparativo, analisi in cui, come chiunque può facilmente comprendere, non avrebbe certo una posizione defilata il fattore climatico e, ahimè, in misura più determinante, quello antropico. Non mi lascerei sfuggire le possibilità documentarie che la moderna tecnologia offre e non rinuncerei, quindi, a portarmi appresso una fotocamera digitale in grado di fare fotografie macro, sia pure con l’ausilio di un piccolo treppiedi se la mano dovesse traballare per l’emozione o altro.

Chi ha letto la prima parte di questo lavoro si starà chiedendo se non sarebbe stato più opportuno sostituire nel titolo rabbia con pazzia, sempre la mia.

Rispondo alla sua domanda più che legittima con una scheda tratta dalla p. 124 dell’erbario del Groves2, che è organizzato alfabeticamente per famiglie; l’essenza della quale fra poco parlerò (Alyssum Leucadeum Guss.) è registrata tra le Crucifere.

Mi rendo conto che la  lettura di Montagna Spaccata è insufficiente per far rientrare nel lettore o nella lettrice il dubbio precedente sulla mia sanità mentale. Se il portatore o la portatrice  (entrambi sani … e magari diffondessero a destra e a manca la loro salutare malattia!) di dubbio vivono da soli, possono anche abbandonare la lettura ma, se già hanno sentito riecheggiare nell’aria Caro/cara, dove sei?, penso che, nei casi peggiori (e con i tempi che corrono quale caso non lo è?), convenga loro continuare a leggere (magari assumendo agli occhi del partner, che nel frattempo, in assenza di risposta, è accorso, una posa da intellettuale), per sottrarsi a prestazioni che per motivi estetici (propri o altrui …) o ormonali (questi solo propri …) stenterebbero a fornire o, molto più semplicemente ma non meno fastidiosamente, ad una semplice commissione da sbrigare …

Ritorno, perciò, per un attimo all’assunto iniziale. Siccome non sono un botanico e, oltretutto, le mie capacità di deambulazione sono estremamente ridotte, mi limito solo a sperare che l’esperto ritenga la scheda degna di approfondimento e, magari, essa sia da stimolo per un lavoro sistematico fatto, questa volta, da un salentino e non da un inglese1 e per rimediare, dunque, all’analogo increscioso inconveniente che a suo tempo si verificò col Vocabolario dei dialetti salentini realizzato dal Rohlfs che era non salentino, nemmeno italiano ma tedesco. E non regge la giustificazione che la scienza oggi è globale perché, pur riconoscendo al vero ricercatore un talento di fondo che si può esprimere nello studio di qualsiasi fenomeno indipendentemente dalla sua collocazione geografica, non si può negare che spesso è determinante il vantaggio dato dall’esser nato, cresciuto in un certo territorio ed averne assorbito conoscenze, credenze, costumi, usi e pure abusi …

Nel frattempo inizio sfruttando la rete al servizio delle mie, pur limitate, competenze specifiche (ogni tanto mi chiedo se non sia il contrario …).

Crucifere: dal latino moderno cruciferae, composto dal classico crux=croce e dalla radice del, sempre classico, ferre=portare. Il nome è dovuto al fatto che il fiore ha quattro petali disposti a croce.

Alyssum richiederà un discorso più lungo e perciò lo lascio per ultimo.

Leucadeum: contrariamente a quanto si legge nel pur pregevole sito Acta plantarum (http://www.actaplantarum.org/acta/etimologia.php?p=1&o=1&n=l) e cioè da leucadeus, a, eum=del Capo di Leuca in Puglia, estremo sud-orientale d’Italia, debbo affermare, sopprimendo per correttezza anche intellettuale ogni debolezza campanilistica, che in realtà Leucadeum è sì aggettivo latino di formazione moderna, trascrizione del greco Λευκάδιον (leggi Leucàdion), il quale, però, deriva dal tema [Λευκαδ- (leggi Leucad-)] di Λευκάς/Λευκάδος (leggi Leucàs/Leucàdos)=Leucade, isola della Grecia tra Corfù e Cefalonia. Il che significa (l’importanza di un semplice dettaglio, nel nostro caso un δ …) che la nostra essenza fu chiamata così perché molto diffusa nell’isola di Leucade.

Una volta anche il più scadente studente di liceo classico sapeva che, secondo il mito tramandatoci dagli antichi commediografi greci e ripreso da Ovidio, buttandosi da una rupe di quell’isola si suicidò la poetessa Saffo a causa dell’amore non corrisposto da Faone; dubito che fra pochissimi anni il miglior professore di lettere, quelle residue, insegnante in quell’indirizzo di studi, lo sappia; la disgrazia è che insieme con Saffo non sarà in grado di sapere e, cosa ancora più disgraziata, di non essere in grado di scoprirne tante altre …).

Tornando all’essenza: essa fu chiamata così perché diffusa nell’isola di Leucade non nel Capo di Leuca, dove, d’altra parte, lo stesso Groves non ne registra la presenza e se il botanico italiano (vedi subito dopo) che le diede il nome, peraltro quasi contemporaneo del Groves, l’avesse trovata a Leuca, il collega inglese non avrebbe scritto negli ultimi anni questa specie è stata cercata invano (s’intende nel territorio di Terra d’Otranto) da diversi botanici. Nello stesso errore si incorre anche in http://luirig.altervista.org/flora/taxa/index1.php?scientific-name=alyssum+leucadeum, dove leggo Nome italiano: Alisso di Leuca.

Saffo a Leucade, olio su tela di Antoine-Jean Gros (1801), Museo Baron Gérard, Bayeux; immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/Saffo_a_Leucade#mediaviewer/File:Antoine-Jean_Gros_-_Sappho_at_Leucate_-_WGA10704.jpg
Saffo a Leucade, olio su tela di Antoine-Jean Gros (1801), Museo Baron Gérard, Bayeux; immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/Saffo_a_Leucade#mediaviewer/File:Antoine-Jean_Gros_-_Sappho_at_Leucate_-_WGA10704.jpg

Guss.: è abbreviazione di Giovanni Gussone (1787-1886), allievo di Michele Tenore (vedi nota 2), la cui Flora napolitana, pubblicata a fascicoli tra il 1810-1838, ancora oggi è opera di riferimento per chi si occupi delle essenze dell’Italia meridionale.

Continuo a rendermi rendo conto di aver abusato della pazienza di coloro che mi hanno fin qui seguito, ma sto per giocarmi l’ultima carta per dimostrare che non sono pazzo e per dare ragione di quell’ormai famigerato rabbia.

E l’ultima carta si chiama Alyssum.

Esso è la trascrizione latina del greco ἄλυσσον (leggi àliusson), neutro dell’aggettiνo ἄλυσσος/ἄλυσσον (leggi àliussos/àliusson)=antirabbico, composto da ἀ- privativo (=senza) e λύσσα (leggi liùssa)=furore, rabbia, pazzia. Ecco la voce nelle testimonianze degli autori antichi (la traduzione, al solito, è mia):

Dioscoride (I secolo d. C.): L’alisso (altri lo chiamano aspidio, altri aplofillo, altri ancora acciseto o adeseto) è un arbusto dallo stelo singolare, un po’ ruvido, dalle foglie rotonde, vicino alle quali il frutto ha l’aspetto di doppi scudi, in cui il seme è abbastanza piatto. Nasce nei luoghi montuosi e sassosi. Il suo decotto bevuto fa cessare il singhiozzo che si manifesta senza febbre ed è efficace anche se preso in mano o odorato. Tritato col miele schiarisce le voglie e le efelidi. Sembra che guarisca anche la rabbia (trasmessa dal morso) del cane se somministrato mescolato al cibo. Si dice che sospeso in casa sia salutare e che protegga gli uomini dai malefici; applicato al collo con un panno rosso tiene lontane le malattie degli animali.3

Plinio (I secolo d. C.): Differisce da esso (dall’eritrodamo, di cui ha parlato subito prima) solo nelle foglie e nei rami più piccoli quello che chiamano alisso. Ha avuto tale nome perché bevuto nell’aceto o legato addosso non  permette che quelli morsi da un cane sentano (gli effetti del)la rabbia. È portentoso ciò che si aggiunge, che solo a guardare l’arbusto l’umore corrotto viene da esso seccato.4

Plutarco (I-II secolo d. C.): Anche quelli che prendono solo in mano l’erba chiamata alisso ma anche coloro che la fissano si liberano del singhiozzo; si dice che è adatta anche al bestiame e alle greggi di capre se piantata presso le stalle.5

Pausania il Periegeta  (II secolo d. C.): Proprio lì (in Arcadia presso la popolazione dei Cinetaei) vi è una sorgente di acqua fredda, distante al più due stadi dalla città e su di essa è nato un platano. Chiunque subì da parte di un cane affetto da rabbia una ferita o in modo diverso un pericolo guarisce se ne beve l’acqua; e per questo chiamano Alisso la fonte.6

Come si è visto, già i testi antichi non consentono di capire se l’alisso in essi nominato è la stessa pianta. Tuttavia le ricorrenti presunte proprietà antirabbiche hanno propiziato da parte dei botanici moderni l’assunzione della voce ad indicare il genere, che ha finito per annoverare col tempo solo per l’Italia una quindicina di specie.

Non sapremo mai quanti grazie all’alisso sopravvissero alla rabbia (tutt’al più, io suppongo, ne leniva solo per qualche tempo i sintomi, mentre poteva avere efficacia contro il morso di un cane non rabbioso ma semplicemente incazzato … ) ma spero che qualche botanico frequentatore di questo sito ci dica almeno se quello classificato dal Gussone e citato dal Groves sia veramente quello che nella foto di testa è chiamato alyssum leucadeum.

Ho dimostrato, almeno credo, di non essere pazzo ma rimane la delusione (stavo per dire rabbia però devo chiudere con lei e quindi non è il caso di giocarmela ora) per i dubbi non fugati.

La rabbia, come malattia, almeno in Italia, è estinta da tempo; si diffonde sempre più, invece, il sentimento che con quella condivide il nome e l’etimo [dal latino tardo rabia(m), a accusativo di ràbia, a sua volta dal classico ràbies ]. Non vorrei che la disperazione spingesse parecchi in pellegrinaggio alla Montagna spaccata ed al suo circondario alla ricerca dell’alisso da appendere in casa per le sue proprietà apotropaiche ricordate da Dioscoride all’inizio del passo relativo. Se poi, mossi dalla voglia di profitto, cominceranno a muoversi pure maghi e fattucchiere il povero alisso subirà, e non solo da noi, l’estinzione a causa di quel sentimento che ha lo stesso nome della malattia che, a quanto si diceva tanti secoli fa, era in grado se non di guarire, quanto meno di curare …

PER LA PRIMA PARTEhttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/10/la-montagna-spaccata-e-la-rabbia-12/

_______________

1 Ho utilizzato il testo digitalizzato in https://ia600202.us.archive.org/9/items/floradellacostam00grov/floradellacostam00grov.pdf, ma, siccome il caricamento è esasperatamente lento, ho approntato per chi ha interesse il link saggio-di-Groves1.pdf. Avverto che, comunque, l’operazione avverrà in una ventina di secondi e che al suo completamento il testo potrà essere letto a schermo oppure memorizzato cliccandoci col tasto destro e scegliendo l’opzione salva con nome. 

2 Enrico Groves, nato a Weymouth nel 1835, conseguì a Londra nel 1856 il titolo di Farmacista.

Non è detto che colui il quale consegue un titolo di studio in ritardo rispetto alla normale durata del corso sia poi  professionalmente meno valido di chi lo consegue nel tempo minimo, anche perché il ritardo può essere stato causato da mille ragioni che nulla hanno a che fare con l’intelligenza non disgiunta da applicazione; tuttavia, chi non preferirebbe, dopo averli conosciuti entrambi, essere difeso da un avvocato diventato tale in quattro anni o poco più piuttosto che da uno che per ottenere lo stesso risultato ha impiegato il doppio del tempo, qualora l’incontro dovesse propiziare lo stesso giudizio? Tutto questo per dire che, pur ignorando io quale durata avessero a quell’epoca gli studi per diventare farmacista, il nostro Enrico, farmacista a ventuno anni, non doveva essere un cervello qualsiasi. Infatti acquistò ben presto fama nei circoli botanici per una comunicazione sulla flora di Portland. Ma nel suo destino c’era l’Italia. Vecchio fenomeno, quello del nemo propheta in patria, solo che l’Italia oggi non è la meta di giovani talenti stranieri ma il punto di fuga per quelli nazionali …

Il nostro Enrico si stabilì a Firenze e la maremma toscana, le Alpi Apuane, gli Abruzzi, la Sicilia e, appunto, la Terra d’Otranto, furono l’oggetto della sua curiosità di botanico. Egli raccolse nel suo erbario ricchi materiali provenienti da queste terre in parte inesplorate (nonostante le ricerche organizzate da Michele Tenore e confluite nella Flora napolitana uscita in fascicoli a partire dal 1810) pubblicò i risultati delle sue ricerche nel Giornale farmaceutico di Londra, nel Giornale botanico italiano e nel Bullettino della Società botanica italiana. Morì a Firenze il 1° marzo 1891 lasciando il suo erbario, ricco di 43000 esemplari in gran parte raccolti personalmente, all’Istituto botanico di Firenze.

3 De materia medica, III, 91: Ἄλυσσον (οἱ δὲ ἀσπίδιον, οἱ δὲ ἁπλόφυλλον, οἱ δὲ ἀκκύσητον, οἱ δὲ ἀδέσετον) φρυγάνιόν ἐστι μονόκαυλον, ὑπότραχυ, φύλλα ἔχον στρογγύλα· παρ’οἷς ὁ καρπὸς, ὡς ἀσπιδίσκια διάδιπλα, ἐν οἷς τὸ σπέρμα ὑπόπλατυ· φύεται ἐν ὀρεινοῖς καὶ τραχέσι τόποις. Ταύτης τὸ ἁφέψημα ποθὲν λυγμοὺς τοὺς δίχα πυρετοῦ λύει· καὶ κρατηθὲν δὲ ἢ ὀσφρανθὲν τὸ αὐτὸ δρᾷ· σὺν μέλιτι δὲ λεῖον φακοὺς καὶ ἔφηλιν ἀποκαθαίρει· δοκεῖ δὲ καὶ λύσσαν κυνὸς ἰᾶσθαι, συγκοπὲν ἐδέσματι καὶ δοθὲν· καὶ κρεμάμενον  δὲ ἐν οἰκίᾳ ὑγιεινὸν λέγεται εἶναι καὶ ἀνθρώποις ἀβάσκαντον· περιαφθὲν δὲ φοινικῷ ῥάκει, θρεμμάτων νόσους ἀπελαύνει.

4 Naturalis historia, XXIV, 51: Distat ab eo qui alysson vocatur foliis tantum et ramis minoribus. Nomen accepit, quod a cane morsos rabiem sentire non patitur ex aceto potus adalligatusque. Mirum est quod additur, saniem conspecto omnino frutice eo siccari.

5 XLVI, 648a: Τὴν δ᾽ ἄλυσσον καλουμένην βοτάνην καὶ λαβόντες εἰς τὴν χεῖρα μόνον, οἱ δὲ καὶ προσβλέψαντες, ἀπαλλάττονται λυγμοῦ·  λέγεται δὲ καὶ ποιμνίοις ἀγαθὴ καὶ αἰπολίοις, παραφυτευομένη ταῖς μάνδραις.

6 Graeciae descriptio, VIII, 19, 3: Πηγὴ δέ ἐστιν αὐτόθι ὕδατος ψυχροῦ, δύο μάλιστα ἀπὸ τοῦ ἄστεως ἀπωτέρω σταδίοις, καὶ ὑπὲρ αὐτῆς πλάτανος πεφυκυῖα.  Ὅς δ᾽ ἂν ὑπὸ κυνὸς κατασχέτου λύσσῃ ἤτοι ἕλκος ἢ καὶ ἄλλως κίνδυνον εὕρηται, τὸ ὕδωρ οἱ πίνοντι ἴαμαͭ καὶ Ἄλυσσον τοῦδε ἕνεκα ὀνομάζουσι τὴν πηγήν.

Attenti a wikipedia: quando è scritta con i piedi aprite gli occhi

panare

di Giuseppe Corvaglia

Wikipedia è una grande risorsa e il concetto che esprime di raccogliere più informazioni con una serie di informatori diffusi nel mondo per metterle a disposizione di tutti è rivoluzionario e altamente democratico, ma talvolta vengono scritte delle inesattezze quando non proprio delle baggianate.

C’è chi riesce ad accorgersene e a porre rimedio ma chi non si rende conto o non sa? Continuerà a perseverare nell’errore.

Mentre cercavo delle notizie su Santa Vittoria, protettrice del mio paese natio, ho letto che venivano fornite notizie sul culto di Santa Vittoria a Spongano. La cosa mi ha lusingato ma dopo averlo letto sono rimasto di stucco e poi mi sono indignato non poco.

Il testo diceva così: A Spongano la festa viene celebrata il 23 dicembre: in paese si mette in scena una rappresentazione e recita della storia della santa e si perpetua il rito della bruciatura delle panare (le foglie dell’albero della palma). La patrona si festeggia anche durante la stagione estiva, con la festa del paese dell’8 agosto in onore dei turisti.

Ora è vero che la festa patronale è la festa più importante , la festa in cui anche i paesani emigrati ritornano, la festa in cui si ritrova la comunità ma è sempre in onore della Santa. Si possono fare sagre della granita, della cunserva mara, della pirilla, dell’addio e dell’accoglienza in onore dei turisti ma la festa patronale è un’altra cosa.

Ma vediamo le inesattezze riportate.

Il 23 dicembre intanto non si mette in scena alcuna rappresentazione e recita. Negli anni passati la rappresentazione sulla passio della Santa  venivano fatta occasionalmente in estate per la festa grande ma mai a dicembre. E si perché la festa principale a Spongano è quella dell’estate dal 1767 altro che festa fatta in onore dei turisti.  Fu la Sacra Congregazione dei Riti, sotto il Papa Urbano VIII, il 21 febbraio 1767 che concesse di festeggiare la Santa nella seconda domenica di agosto festa che poi nei secoli si è stabilizzata all’8 di agosto quindi molto prima dell’avvento dei turisti.

Solo più di un secolo dopo la Cittadinanza chiese di festeggiare la Patrona il 23 dicembre perché la data della sua memoria indicata dal Martirologio cristiano   era appunto il 23 dicembre e nel 1785 l’arcivescovo di Castro Agostino Gorgoni acconsentirà a tale richiesta.

Sulle Panare poi le informazioni rasentano l’assurdo. Le panare sono cesti, grandi panieri che al posto di avere un unico manico che va da un bordo all’altro, hanno due manici sul bordo per prendere la stessa quando è piena e pesante in due.

Per cui le Panare non sono fatte di palme. Tutti i cesti e tutti panieri vengono fatti di giunchi o di canne.

Le palme nelle Panare di Spongano c’entrano come ornamento al pari di festoni di carta, di edera, di bandierine, di aranci e mandarini etc. etc.

Come farebbero le foglie di palme a sorreggere il peso della sansa che riempie le Panare?

Insomma un pasticcio che mette a nudo un problema  vero: l’affidabilità di uno strumento preziosissimo per tutti noi.

Da qualche giorno con la collaborazione di Antonio Andrea Pedone abbiamo corretto le informazioni così: Spongano la festa principale  viene celebrata l’8 agosto in ricordo di fatti prodigiosi avvenuti a Spongano (uno di questi accaduto proprio nella chiesa madre il 2 settembre 1779). Qui era invocata contro il terremoto, la grandine, il maltempo e i fulmini. La Sacra Congregazione dei Riti, sotto il Papa Urbano VIII, il 21 febbraio 1767 aveva già concesso di festeggiare la Santa nella seconda domenica di agosto. [3] [4]. il 23 dicembre: (……Negli anni successivi viene anche avanzata la richiesta di poter festeggiare la Santa anche il 23 dicembre data indicata dal martirologio cristiano, e il 3 agosto 1785 il Vescovo di Castro Agostino Gorgoni acconsentì a tale richiesta).

Alla vigilia, il 22 dicembre, si svolge una festa detta delle Panare (ceste di canna e virgulti di ulivo riempite di sansa e addobbate con palme, edera ed altri abbellimenti combustibili) che nasce come festa dei frantoi e non ha un riferimento con la patrona anche se sulla gran parte delle panare viene posto un ritratto della stessa [1][2].

 

Ora a questo errore è stato posto rimedio ma sarebbe opportuno che tutti noi, specie le nuove generazioni qualche volta allergiche a ricerche più approfondite e talvolta inclini alla comodità, e wikipedia è comoda, si faccia attenzione e anche che i volontari appassionati che sono preparati sorveglino e che chi non è informato o preparato eviti di scrivere commenti senza fondamento e senza costrutto.

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!