Più una soluzione ambigua che una correzione parziale (Paesiello con un puntino ascritto sulla prima e) sembra la scrittura del cognome del nostro in una partitura manoscritta dell’aria Sodo sodo or vi favello appartenuta al De Talleyrand, come si evince dall’etichetta apposta sulla cartellina che lo contiene (https://archive.org/stream/sodosodoorvifave00pais#page/n0/mode/2up).
Dai Peloritani alle Prealpi Venete, via Brianza: piccole storie, visioni e suggestioni di un credente, già nomade per servizio, comune osservatore di strada
di Rocco Boccadamo
Nel 1975, in pieno svolgimento del mio lungo e articolato giro d’Italia lavorativo, feci, anzi rifeci tappa nella fascinosa e solare città di Messina (vi ero già stato dal 1966 al 1969), per assumere l’incarico di condirettore della locale filiale della banca in cui prestavo servizio, al posto di un collega d’origine palermitana, il quale, prossimo al pensionamento, andava contestualmente a rientrare a casa sua, nella magnifica capitale isolana.
Il predetto, aveva invero alle spalle altri trasferimenti, in sedi al di fuori della Sicilia, fra cui uno a Taranto e, in tale ultima località, aveva, a suo tempo, incontrato e trovato la fidanzata, poi divenuta sua moglie.
Qualche anno dopo, arrivò, per me, un ulteriore ennesimo spostamento, con un nuovo incarico; per la precisione, da Messina, passai a Monza, capoluogo della Brianza, che gode fama aggiuntiva per la Regina Teodolinda, la Corona Ferrea e il Gran Premio automobilistico di Formula 1.
Iniziò, in tal modo, l’ampia stagione della mia permanenza in Lombardia, sia pure con una circoscritta parentesi operativa a Roma, e, a un certo punto, i miei compiti furono estesi a funzioni di gestione e sovraintendenza su rapporti d’affari, di carattere fiduciario, intestati a grandi gruppi aziendali, aventi sede non solamente in Lombardia, ma anche nelle altre regioni del Nord Est.
Cosicché, di tanto in tanto, mi capitava di spostarmi, per uno o più giorni, al fine di avviare o sviluppare contatti e opportunità di lavoro con controparti che si trovavano, giustappunto, fuori piazza rispetto alla mia sede stanziale e, fra esse, ve n’erano alcune stabilite a Padova e dintorni.
In pratica, all’inizio per prevalenti motivi di servizio, la città del Santo divenne in certo qual modo familiare, mi ci recavo con una discreta frequenza.
Da subito, in quella sede della banca, ebbi modo di conoscere una giovane collaboratrice che, guarda caso, era soprattutto nipote del collega palermitano da me sostituito a Messina, un legame di parentela scaturito dal già ricordato matrimonio del medesimo con una pugliese della città dei due mari.
Nipote dell’amico a parte, con correlati scambi di cordialità fra corregionali, giunse presto a crearsi dentro di me, gradualmente ma decisamente, un sodalizio di ben differente genere, sotto forma di un’intensa consuetudine d’attrazione, fede e credo, nei confronti dell’autentico e prioritario simbolo della bella e dotta città veneta, ossia il suo Protettore, il Taumaturgo col giglio, noto e venerato, forse a livello di primo posto, in tutto il mondo cattolico.
° ° °
Calandomi nel luogo della mia presente residenza da pensionato, Lecce, rivedo le grandi decorazioni all’interno del cupolone della Chiesa di S. Antonio a Fulgenzio, raffiguranti i miracoli della genuflessione della mula e della predica di S. Antonio ai pesci. E, ancora, mi tornano alla memoria le seguenti strofe devozionali in dialetto salentino:
Sant’ Antoni, meu bitegnu, tuttu chinu te santità, tritici crazzie faci lu giurnu: fammene una pe’ carità.
Falla prestu e nnu tardare ca si santu e la poti fare; e cu la volontà te Ddiu tispenza crazzie, Sant’Antoni miu!
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Riprendendo il filo del discorso, mai che saltassi un’occasione di trasferta a Padova senza trovare lo spazio o una minuscola parentesi, qualunque fosse l’ora, per visitare la Basilica del Santo, per un passaggio, rapido ma sempre intenso, accanto al sito dove riposano le sue spoglie.
Un sussulto e una progressione in termini tanto naturali, spontanei e forti, da indurmi, al di là e in aggiunta rispetto alle circostanze di lavoro dianzi citate, a muovermi, in ordinarie mattinate di sabato o di domenica, dalla mia abitazione lombarda per sfrecciare sull’autostrada verso est, verso il mio speciale “Amico”, per un saluto, un semplice contatto con lui.
E, ogni volta, nel silenzio del viaggio di ritorno e del rientro domestico, mi sentivo, dentro, pienamente appagato; più precisamente, avevo quasi la sensazione che, prima, mi mancasse qualcosa e che, successivamente, grazie alla visita da pellegrino, la medesima carenza si tramutasse in presenza completa, viva e operante nella mia mente, nel mio animo e intorno a tutta la mia personale sfera di suggestione.
Pur trattandosi, chiaramente, di sentimenti individuali e riferibili all’interiorità esclusiva, il rapporto intenso stabilito con il Santo originario di Lisbona, ha gradualmente finito col propagarsi, coinvolgendo cioè mia moglie e i miei figli: tuttavia, di quest’ultimo aspetto e processo, lungi dal pensare di conferirmi alcun merito, ho attribuito la formazione e lo sviluppo sempre ed esclusivamente a Lui.
Col trascorrere degli anni, alla fase lavorativa, dapprima abbinate e poi in sostituzione, si sono susseguite a decine le sequenze annuali delle mie cure di fango terapia nel comprensorio dei Colli Euganei contermine a Padova, parimenti arrivate a porsi, indistintamente, alla stregua di puntuali occasioni per rinfocolare il particolare rapporto, morale e ideale, con Antonio.
Anche quest’anno, nell’attuale, purtroppo piovoso, periodo novembrino, sono atterrato sotto i Colli Euganei per le mie cure, ma, tra le prime azioni del ritorno in Veneto, ieri ho immancabilmente avvertito il bisogno di rivedere Lui.
Al solito, la discesa dal pullman a Prato della Valle, il grandioso largo cittadino per antonomasia, che, in quest’ultimo passaggio, ho potuto gustare, fra il pomeriggio e il crepuscolo, nelle sue peculiarità d’autentica bellezza e fascino, sgombro da baracche e banconi, dei più svariati generi, che, sovente e specie di sabato, purtroppo lo invadono e deturpano, per soddisfare cascate di smanie d’acquisto, dell’utile e soprattutto dell’inutile, per opera di foltissimi e forsennati nugoli di compratori.
Unica presenza, diciamo così, innaturale, una piccola giostrina con le sue luci multicolori, a beneficio di gruppetti di piccoli, che, ad ogni modo, non guastava la scena.
Un attimo avanti d’imboccare il breve rettilineo con i portici in direzione della basilica, ho istintivamente rivolto lo sguardo verso l’altra vicina grande chiesa dedicata a Santa Giustina, che copre tutto un lato del Prato e, muovendo appena gli occhi, non ho potuto fare a meno di cogliere, per un fugace intermezzo, le adiacenti palazzine ad uso residenziale – militare, al cui interno, almeno alcune decine d’anni fa, dimorava la predetta nipote del collega di Messina e Palermo, la quale aveva sposato un ufficiale dell’esercito. Un gesto, detto ultimo, assolutamente non pensato, estemporaneo, a testimoniare semplicemente la continuità di un ricordo lontano.
Digressione esauritasi, pochi giri del cronometro e, quindi, l’ingresso nella méta del mio “viaggio” dedicato, un ambiente tanto raccolto quanto, ormai, resosi familiare, la consueta sequenza di passi verso il preciso e determinato obiettivo della visita, una sintesi di raccoglimento giusto in un punto.
Tuttavia, nell’occasione appena vissuta, ha preso corpo un grande cambiamento, un assoluto inedito rispetto alle decine di similari circostanze pregresse.
Difatti, il fulcro del contatto da vicino era sin qui stato, sempre, il momento del posare brevemente la mano destra su quella parete di marmo bruno, mentre, durante l’ultima fresca visita, non una solamente, bensì entrambe le mani sono istintivamente andate a posarsi, restando ferme a percepire e vivere, attraverso palmi fiduciosi e speranzosi, quel contatto materiale, freddo nella mera apparenza, ma insieme caldo e rassicurante, con il lato del prezioso contenitore.
Non v’è dubbio, almeno così io sento, che l’improvviso cambiamento sia stato originato da una precisa ragione, connessa con un particolare stato d’animo. Però, in proposito, ritengo giusto chiudere qui.
Ritornando ai ritratti prima riprodotti, laddove la didascalia c’è si legge Paisiello, ma, come mi accingo a dimostrare, non sarà sempre così.
Attenzione particolare va riservata alla stampa che segue (http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84233544.r=paisiello.langEN), disegnata dalla Le Brun ed incisa da Fremy, per il Paesielloche si legge nella didascalia; con essa inizia la documentazione delle storpiature che il cognome dell’illustre compositore dovette subire.
Nel secondo, a prescindere dal vicina per vicino, s’impone all’attenzione Paesiello che, paradossalmente, finirebbe per rendere preziosi questo manoscritto e la stampa appena prima riprodotta, come succede di regola nel caso degli errori numismatici o filatelici, per cui le monete e i francobolli difettosi, messi in circolazione prima che ci si accorgesse dell’errore, hanno quotazioni stratosferiche.
Ingr. : 400 g di fagioli, 700 g di cipollotti, olio di frantoio, 5-6 pomodori maturi, una costa di sedano, 2-3 foglie di alloro, sale.
Tenete i fagioli a bagno in acqua salata per almeno sette-otto ore, quindi lavateli e metteteli a cuocere in una pignatta di terra cotta con abbondante acqua. Quando l’acqua inizia a bollire si schiuma si elimina un po’ d’acqua e si aggiungono un cipollotto, la costa di sedano, i pomodori spellati e privati dei semi e le foglie di alloro, si aggiunge dell’altra acqua calda sino a superare di un paio di dita il livello dei fagioli e si pone a cuocere, preferibilmente alla fiamma del fuoco di legna, tenendo la pignatta ad una distanza tale che il liquidi sobbolliscano adagio senza disfarsi. Mentre i fagioli cuociono, pulite gli sponzali, tagliateli a pezzetti e soffriggeteli in ottimo olio di frantoio sino a caramellizzarli, ovvero sino a quando non avranno acquisito un’invitante colorazione dorata. Unite gli sponzali ai fagioli e servite.
Pasùli cu le rape
Cuocete i fagioli in pignatta, seguendo il procedimento riportato nella ricetta precedente, uniteli ad un quantitativo più o meno uguale di broccoli di rape stufati (vedi ricetta: rape ‘nfucate), scaldate il tutto in una casseruola, unendo a piacere un po’ di peperoncino e servite.
Pasùli cu la ricotta schianta
Cuocete i fagioli in pignatta, con i classici odori e una volta scodellati conditeteli con della ricotta forte, stemperata con un po’ del liquido di cottura dei fagioli.
Pasùli cull’uecchiu cu la pasta ‘mbiscata
Ingr. : 300 g di fagioli con l’occhio, 400 g di pasta mista, 1 dl d’olio di frantoio 5-6 pomodori maturi, un cipollotto, una costa di sedano, 2-3 foglie di alloro, sale.
Lasciate i fagioli con l’occhio a mollo per una notte. Il giorno seguente metteteli a cuocere in una pignatta di terra cotta o in una pentola di adeguate dimensioni con sola acqua. Quando l’acqua inizia a bollire schiumate eliminate un po’ d’acqua e aggiungete un cipollotto, la costa di sedano, i pomodori spellati e privati dei semi e le foglie di alloro, aggiungete dell’altra acqua calda sino a superare di un paio di dita il livello dei fagioli e si ponete nuovamente a cuocere. Quando saranno cotti, lessate molto al dente la pasta mista, scolatela e unitela ai fagioli, insaporite il tutto con un soffritto realizzato facendo colorire 2-3 spicchi d’aglio in olio di frantoio, mescolate diligentemente, riportate di nuovo il tutto a calore onde amalgamare meglio il tutto e servite. Allo stesso modo potete preparare la pasta con le lenticchie o la pasta con la cicerchia.
Pizzarieddhri con i fagiolini dall’occhio
Questa ricetta ha origini molto datate, infatti, oltre a questa versione, chiaramente rimaneggiata in tempi più recenti, in alcuni paesi del Salento ricadenti nella provincia di Taranto resistono alcune versioni che potrebbero certamente risalire ad epoca “precolombiana”, in quanto non contemplano l’uso del pomodoro.
Per prepararla occorrono dei fagiolini teneri e freschi che dovete lavare e privare di ambedue le estremità, quindi lessarli in abbondante acqua salata; quando questi sono quasi cotti unitevi i pizzarieddhri, ovvero i tipici maccheroncini di farina di grano duro cavati, e quando anche questi saranno cotti, scolate il tutto, disponete nei singoli piatti e condite con sugo fresco di pomodorini locali a fiaschetto aromatizzato al basilico e abbondante cacioricotta del Salento appena grattugiato. Un piatto genuino nel quale risalta tutta la freschezza della cucina salentina.
Fagiolini dall’occhio con i pomodori
Ingr. : 700 g di fagiolini dall’occhio, 10-12 pomodori maturi, olio dei frantoi salentini, 2-3 spicchi d’aglio, basilico, sale.
Eliminate le estremità ai fagiolini e lessateli in acqua salata badando che rimangano ben sodi. Fate imbiondire in una casseruola gli spicchi d’aglio in un filo d’ottimo olio di frantoio, eliminateli e unite i pomodori, preferibilmente dei fiaschetti salentini, tagliati in quattro parti, salateli e lasciateli cuocere a fuoco lento, appena si saranno disfatti, unite i fagiolini precedentemente lessati, rimestate e completate la cottura aggiungendo all’ultimo momento una manciatina di foglie di basilico fresco grossolanamente tagliuzzate.
Fagiolini dall’occhio al sugo
Ingr. : 7-800 g di fagiolini dall’occhio, 7 dl di passata di pomodori freschi, cacio ricotta, basilico, sale
Nettate i fagiolini eliminando le estremità, lavateli e poneteli a lessare in acqua bollente salata. Scolateli bene al dente e sistemateli in un tegame di terra cotta, intervallandoli a strati con sugo di pomodoro fresco, foglie di basilico e abbondante cacioricotta. Coprite il tegame e completate la cottura a fuoco moderato.
Fagiolini dall’occhio con la frittata
Ingr. : 1 kg di fagiolini dall’occhio, 10-12 pomodori freschi, cacio ricotta, basilico, sale. Per la frittata: 6-7 uova, 200 g di formaggio pecorino dolce grattugiato, 150 g di fagiolini lessati.
Nettate i fagiolini eliminando le estremità, lavateli e poneteli a lessare in acqua bollente salata. Scolateli bene al dente e poneteli a completare la cottura in una casseruola con un filo d’olio sul fondo aromatizzato facendo imbiondire due spicchi d’aglio, insieme ai pomodori privati dei semi e tagliati a pezzetti. A parte, con le uova, il formaggio e i fagiolini lessati preparate una classica frittata, a cottura ponetela su di un foglio di carta assorbente a cedere l’unto in eccesso. Una volta fredda, tagliatela a quadratini e unitela ai fagiolini, aggiungete delle foglie di basilico fresco, mescolate il tutto, spolverizzate di formaggio e servite.
Molti, conoscono il fagiolo come un prodotto arrivato dal Nuovo Mondo, ma come mai allora i fagioli costituivano un cibo abituale anche per gli antichi Greci e i Romani? In effetti, con il termine fagiolo si indicano genericamente i semi di piante appartenenti a due diversi generi, il Phaseolus e il Vigna, il primo dei quali è originario del Centro e Sud America e quindi è arrivato nel Vecchio Continente solo dopo la scoperta dell’America, mentre l’altro è originario dell’Africa subsahariana ed è stato coltivato e consumato sin da epoca remota in tutti i paesi del Mediterraneo.
I cosiddetti fagiolini dall’occhio o fagiolini pinti, quindi, altro non sono che i baccelli teneri di alcune specie appartenenti al genere Vigna, la più diffusa delle quali, almeno da noi, è la Vigna unguiculata, di cui si conoscono diverse cultivar che si differenziano per piccole sfumature nella colorazione dei semi, lunghezza e diametro dei baccelli, ma derivanti tutti dalla summenzionata specie botanica. Spesso, questi sono immediatamente distinguibili per la presenza di una tipica areola nerastra che di norma caratterizza i semi in corrispondenza dell’ileo, ossia, nel punto d’attacco al baccello, ma che, per il resto risultano molto simili ai fagioli comuni, o per meglio dire ai fagioli americani.
Nel mondo, oggi vengono prodotte circa 16 milioni di tonnellate di fagioli del genere Phaseolus, contro i circa 3 milioni di tonnellate del genere Vigna, 2 milioni dei quali vengono coltivati in Nigeria. Da ciò si evince la residualità economica di questi ultimi. Il motivo è presto detto, i fagioli americani hanno una resa quasi doppia rispetto a quelli del genere vigna e sono più facili da coltivare.
Nel Salento, seppure in quantitativi non ponderalmente rilevanti, vengono attivamente coltivate entrambe le specie botaniche. Dal fagiolo del genere Phaseolus, sono stati selezionati diversi pregiati ecotipi, molti dei quali con seme bianco di piccole dimensioni e aventi quindi le caratteristiche del fagiolo cannellino, vengono localmente comunemente appellati, pasuli napulitani, e un tempo venivano estensivamente coltivati nei cosiddetti uerti te chiusura, come erano denominati gli orti organizzati in campi aperti, allo scopo di interrompere ti tanto in tanto, con una coltura miglioratrice o da rinnovo, l’irrazionale successione di un cereale su di un cereale. Esistevano anche delle varietà più pregiate che venivano coltivate in coltura irrigua nelle ciardine, ossia nei fertili orti suburbani. Queste presentavano seme più grande e caratteristiche organolettiche ritenute superiori e comunque notevolmente differenti da quelle dei cosiddetti fagioli napoletani. Di questa tipologia di pregiate cultivar oggi ne sono sopravvissute molto poche e solo due di queste: il fagiolo Rosso di Pulsano e il fagiolo Bianco della Signora, tradizionalmente coltivate nel territorio dei comuni di Pulsano e Leporano della Provincia di Taranto; riscuotono ancora un certo interesse commerciale, in quanto molto ricercati dai gourmet locali.
I semi del fagiolo Rosso di Pulsano, si presentano di colore castagna scuro, oblunghi e della lunghezza media di 12-13 mm. Di grandezza e forma simile, talvolta leggermente più grandi, quelli del fagiolo Bianco della Signora, che si presentano di colore bianco e recano una macchia rossastra frastagliata che contorna l’ileo.
Della tipologia fagiolo napoletano, i buongustai locali si contendono invece quelli degli ecotipi tradizionali coltivati soprattutto a Nardò e nell’interland di Galatina, in particolare nell’agro di Soleto ove si produce un eccellente antico ecotipo di fagiolo napoletano recentemente ribattezzato: fagiolo Bianco di Soleto.
Come premesso i fagioli dall’occhio, localmente noti come: pasuli piccicchi, pasuli pinti e pasuli cu l’uecchiu, godono di un’antica tradizione, ma vengono maggiormente utilizzati allo stadio verde, ovvero quando presentano il baccello tenerissimo con i semi interni appena formati; questi, durante la stagione estiva divengono interpreti di vari, apprezzati piatti tradizionali.
di Armando Polito Giovanni Paisiello (Taranto, 1740-Napoli, 1816) fu, com’è noto, uno dei più importanti compositori d’opera del suo tempo. La prima immagine è il ritratto eseguito nel 1791 da Louise Élisabeth Vigée Le Brun e custodito al Louvre (http://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Paisiello#mediaviewer/File:PaiselloVigeeLeBrun.jpg), la seconda una stampa (incisore Etienne Beisson, disegnatore Lefort), dello stesso anno, dal ritratto derivata (da http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84233529/f1.zoom.r=giovanni%20paisiello%20Vig%C3%A9e-Lebrun.langEN). Il ritratto della Le Brun fu il modello per un numero incredibile di stampe che si succedettero e che presento in un collage di immagini tratte tutte dal sito della Biblioteca Nazionale di Francia (http://gallica.bnf.fr/) L’immagine che segue (si trova nell’antiporta de Il barbiere di Siviglia ovvero la precauzione inutile, G. Ricordi & C., Milano, 1784 (https://archive.org/stream/imslp-barbiere-di-siviglia-r-164-paisiello-giovanni/SIBLEY1802.17763.2206-39087011151869score#page/n0/mode/2up) è particolarmente importante perché reca l’autografo del nostro compositore.* * nota apposta da me successivamente alla pubblicazione in seguito alla segnalazione della signora Sarah Etta M. Iacono (vedi in calce nei commenti): “1784” è da sostituire con “s. d.” (senza data) e “reca l’autografo del nostro compositore” con “è una stampa da incisione con il ritratto e la firma dell’artista”. Una piccola pausa architettonica. L’immagine successiva, tratta ed adattata da Google Maps, si riferisce al Teatro Paisiello di Lecce, per la cui storia vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/01/05/per-una-storia-del-teatro-a-lecce-quarta-e-ultima-parte-i-teatri-paisiello-e-politeama. Nel foyer in due nicchie sono ospitati i busti di Giovanni Paisiello e Leonardo Leo (quest’ultimo nativo di S. Vito dei Normanni ma appartenente alla generazione precedente), opera del leccese Antonio Bortone. Sarò grato a chiunque mi consentirà di integrare iconograficamente anche questa informazione con delle foto appropriate.
“Nel terzo millennio si avverte l’assenza del poeta, del sognatore, del pazzo ispirato. La poesia è stata estirpata, non attrae più nessuno, se non nei casi di commemorazione. Non un canto riesce a sconvolgere un’alba: si odono voci rauche».È a partire da queste considerazioni che Elio Ria ha inteso ricomporre un affresco del «poeta maledetto” che lo libera da quel tratto malinconico dominante, restituendoci un’immagine finalmente diversa di Arthur Rimbaud. Attraverso una narrazione emozionale della sua vita, dei suoi viaggi, dei suoi incontri e della sua poetica, riscopriamo un «ragazzo dalla faccia pulita» che non può smettere di appassionare e ispirare nuove generazioni di poeti e di amanti della parola.
Sono d’accordo con Valerio Elia, con la sua analisi sulla situazione economica del Salento pubblicata da Quotidiano venerdì scorso.
Ha ragione. La politica dei beni culturali, per esempio, si prefigge di trovare soldi per restaurare pregevoli edifici ma poi non si riesce a trovare il modo di utilizzarli, di valorizzarli. Ci sono i contenitori ma mancano i contenuti. La tattica del restauro di tutto quanto è pregevole nel nostro territorio non può essere perseguita senza una strategia di utilizzazione. Non si può avere come obiettivo l’ottenimento dei fondi per il restauro, ma poi non sapere che fare di quel che si è restaurato. Nei bandi, forse, bisognerebbe chiedere anche questo. Ve lo restauriamo, ma poi che ne fate? Una sorta di piano industriale. Veramente, anche se ho detto che sono d’accordo, poi qualche disaccordo ce l’ho.
L’industria ha devastato il nostro territorio e la nostra salute (non credo ci sia bisogno di spiegarlo) e ci sono state anche diverse avventure finite male (con fondi pubblici) per incrementare lo sviluppo tecnologico. Vogliamo parlare del Pastis di Brindisi?
Alla base di tutto, comunque, deve stare la salute e il benessere degli umani e degli ecosistemi. Le due cose vanno assieme. Se si programmano industrie e non si tiene conto dei costi ambientali e umani, non si fa buona industria. Guadagna qualcuno ma ci perdono tutti. E se cerchiamo di riparare i danni ci accorgiamo che i guadagni dell’industria non bastano per riparare i danni che ha fatto.
L’innovazione deve essere il caposaldo del nostro agire. Il modo con cui abbiamo concepito l’industria sino ad ora è semplicemente sbagliato. Si guadagna a breve termine e si perde a lungo termine. Il lungo termine è arrivato, e vediamo che il nostro sistema industriale è in crisi. Anche perché conviene chiudere le industrie qui e portarle dove la salute umana e l’ambiente sono tenuti in zero considerazione. Per me innovazione significa progettare industria inserita in modo armonico nell’ambiente, significa che accanto agli ingegneri e gli economisti devono lavorare gli ecologi e i medici. Lo so, se si fa così non si è competitivi, e conviene andare in Cina, dove i costi ambientali non sono contabilizzati (ma stanno iniziando a farlo, perché sono diventati insostenibili).
Se al PIL si contrapponesse la valutazione del degrado ambientale e umano vedremmo che i valori cambiano radicalmente. Questi costi vanno internalizzati.
La mia paura, per quel che riguarda l’occupazione derivante dal turismo, è che molti di quei posti di lavoro sono in nero, e non finiscono nelle statistiche. Ma non ho le prove per dirlo. D’altronde tutte le analisi di qualunque istituto economico ci dicono che la percentuale del sommerso è enorme, in Italia. E che l’evasione fiscale ci vede quasi primi al mondo. Assieme alla corruzione. In qualcosa primeggiamo!
L’analisi di Elia, mi pare, trascura poi l’agroalimentare o, comunque, lo considera poco. Ho visto recentemente un documentario d’epoca dove si faceva vedere, in tono trionfalistico, lo sradicamento degli olivi nel tarantino, lo smantellamento dei muretti a secco, e la costruzione della più grande acciaieria d’Europa. I braccianti diventano operai! E poi, assieme alle loro famiglie, si beccano il cancro. E anche quelli che non fanno gli operai o i tecnici, subiscono lo stesso rischio.
Certo, quei braccianti non devono restare tali. Ma ora sono sostituiti dagli schiavi neri, nessun problema! Il bene primario, quello che non può essere rimpiazzato da nulla, è quello che mangiamo e beviamo. Produrre buoni alimenti ha un interesse strategico superiore a quello di produrre buoni aeroplani. Senza aerei viviamo, ma senza mangiare si muore. Bisogna innovare anche in questo campo, come abbiamo fatto passando dal vinaccio da taglio a vini sublimi. Ma poi non possiamo avvelenare le falde, o riempire l’ambiente di pesticidi. Innovazione, oggi, significa prima di tutto armonia con la natura, qualunque sia l’impresa che si vuol portare avanti. Per una città che si candida, assieme a Brindisi (e io ci vorrei vedere anche Taranto), a Capitale Europea della Cultura questa evoluzione culturale dovrebbe essere un obiettivo strategico. Nel Bid Book c’è, ma siamo pronti a perseguire queste visioni? Temo di no. Ma questo è il bello della sfida, no? Magari lo diventeremo. Il potenziale c’è. Ma dobbiamo eliminare una palla al piede della nostra cultura: la furbizia. Accaparrarsi i fondi europei per opere che poi saranno abbandonate è frutto di furbizia, ma significa anche mancanza di visione.
Prima o poi queste mancanze si pagano. E i furbi si rivelano essere dei fessi. O meglio, i furbi fanno i soldi, ma poi il territorio ne esce impoverito. Sono arrivati tantissimi soldi, qui. Eppure ci lamentiamo della povertà (poveri ma belli, dice il Bid Book di Lecce). Dove sono andati a finire? In tasca ai furbi. E i fessi non se ne accorgono, oppure sperano di poter essere a loro volta furbi. Non si va lontano con questa cultura. I risultati si vedono.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 30 settembre 2013]
Più che una raccolta di poesie, un racconto in versi. Il racconto di una storia d’amore difficile e tormentata, fatta di alti e bassi, andate e ritorni, armonie e disarmonie. Una storia d’amore fra due donne, scritta in versi liberi, è alla base di questa silloge partorita dalla composita e raffinata creatività di Alessandra Nicita, scrittrice, musicista e psicoterapeuta originaria di Nardò ma trapiantata da anni in quel di Bologna.
Dopo “Sono stata molto delusa dai mirtilli” (Besa Editore 2006), pubblica “Arrivò l’amore e non fu colpa mia” (Besa 2014), a cui è allegato il cd musicale “Spegni la luna” con canzoni scritte dalla stessa Alessandra. Il libro presenta una Prefazione di Edoardo Winspeare e una Postfazione di Maksim Cristian.
Un lungo viaggio interiore, dell’innamoramento o delle perdute illusioni, dell’inizio e della fine, della benedizione di un amore ovvero della dannazione che questo porta con sé. Un percorso al contrario, in cui ci si trova e poi ci si perde, e dopo i fantastici giorni del sentimento, lo sprofondo della disgregazione, il baratro dell’abbandono, della dissoluzione. E dopo l’incanto del farsi di una passione, dell’essere insieme, il disincanto del tornare soli, degli occhi disseccati, della voce rotta, lo strappo del disinganno, e amara la consapevolezza delle fragili fondamenta di quella costruzione creduta indistruttibile.
L’autrice utilizza un linguaggio diretto, quasi scarno, il lirismo non è nelle parole ma nella storia raccontata, nelle atmosfere del libro. Questo linguaggio, dalla forte concentrazione, quasi fotografico, è più vicino a quello delle canzoni ai cui stilemi l’autrice è avvezza per via della sua seconda ( o prima) attività artistica, cioè quella di cantautrice. Sono canti dell’inquietudine, e la protagonista della raccolta, proprio come Saffo, ritrova così “l’immortale Afrodite tessitrice d’inganni” . Una sintassi concentrata ma come sospesa, dove i legami logici fra le proposizioni sono lasciati all’intuizione del lettore e che attinge alla lingua parlata. Sono versi intensi, ricchi di immagini nitide che si dispiegano fra le brevi pagine del libro. Il dialogismo delle liriche si poggia sul confronto io-tu, dualità paradigmatica, trattandosi di tematica amorosa.
Versi quasi scolpiti, epigrammatici, fra il bianco e nero delle pagine. il percorso interiore di Alessandra si intreccia inevitabilmente con la sua esperienza artistica e diventa viluppo, inestricabile groviglio, ché non sai dove finisca la sua vita vera e cominci la finzione letteraria, dove l’una approdi e dove salpi l’altra, e dei risultati estetici di questa raccolta raccoglie il testimone la sua arte sfaccettata, polimorfa, come sfaccettata, poliedrica, deve essere la personalità dell’autrice. E un percorso di vita dunque viene scandagliato e segnato dalle poesie di questa raccolta, tappe fondamentali di una crescita che non porta altresì ad un punto d’arrivo, ad una ancoraggio stabile. Ché la vita è nomade, come Alessandra Nicita, che percorre avanti e indietro la nostra penisola nel lungo tour di presentazioni del suo lavoro. L’arte è nomade e così pure il pensiero è sempre in movimento, dinamico, in progresso. E l’amore poi ritorna, senza nessun rimorso perché senza nessuna colpa.
I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma anche del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi. Renzo era un giovane pacifico e alieno dal sangue, un giovane schietto e nemico di ogni insidia; ma in quei momenti, il suo cuore non batteva che per l’omicidio, la sua mente non era occupata che a fantasticare un tradimento. (Alessandro Manzoni, I promessi sposi, capitolo II).
La situazione cui allude il Manzoni può sembrare ben diversa da quella alla quale intendo riferirmi e che illustrerò fra poco e, se certamente non si sono da una parte provocatori o soverchiatori e dall’altra potenziali omicidi o traditori, tuttavia il soggetto attivo può benissimo rientrare nella categoria di coloro che in qualunque modo fanno torto altrui (o, meglio, alla corretta conoscenza) e quello passivo in quella degli offesi, sia pure, nella fattispecie, inconsapevoli, ingenui, creduloni e forse anche un po’ ignoranti.
Quando da una parte c’è l’eccessiva sicurezza del competente e dall’altra la credulità, l’ingenuità e il basso livello culturale dell’incompetente si crea una miscela esplosiva da cui la conoscenza rischia di uscire a pezzi.
Credo che la maggior parte degli italiani (non mi meraviglierei se da questa mancassero proprio i salentini …) sappia cos’è la Grotta dei cervi e come fior di studiosi si siano affannati senza risultati convincenti e definitivi sull’interpretazione di alcune pitture (manca solo l’ipotesi della loro origine extraterrestre, ma forse sono io a non essere sufficientemente aggiornato …). Ho detto di alcune perché compaiono raffigurazioni che non porrebbero (questo e gli altri condizionali non sono casuali …) alcun problema di lettura e costringerebbero anche il più schifiltoso a riconoscere al preistorico artista capacità che talora potrebbero far invidia ad un designer dei nostri tempi. Ecco, per esempio, come con una sintesi grafica per me di strabiliante efficacia il nostro antenato cavernicolo ha immortalato il rapporto uomo-animale in quella che doveva essere la sua attività primaria: la caccia.
L’uomo sembra congelato nel momento in cui, con l’arco armato, tenta di avvicinarsi all’animale con un fare quasi disinvolto per non farlo fuggire anzitempo, cui fa da contraltare la postura del cervo che non sembra essersi reso perfettamente conto delle intenzioni dell’uomo, anche se mi sarebbe piaciuto dire che sembra bramire all’uomo: – Ma che cazzo vuoi da me? – e immaginare che in quel lontanissimo giorno si sia subito dopo dato alla fuga salvando la pelle e suscitando la collerica reazione del cacciatore che avrà detto nel salentino dell’epoca quello che oggi suonerebbe – Li corne tua! – …
Ho tratto il dettaglio, come quello che seguirà, da Pagine di pietra a Badisco, foto-racconto di Pino Salamina (con la collaborazione del figlio Stefano), Edizione a cura del Gruppo Speleologico leccese ‘NDRONICO, AGM (Arti Grafiche Marino), Lecce, 2009, pubblicazione fuori commercio della quale posseggo una copia, prezioso dono degli autori.
Se la scena appena proposta, che fa parte del gruppo 18, non sembra porre problemi di lettura ma differenze di interpretazione per così dire sentimentale, non credo che lo stesso si possa dire di un altro dettaglio appartenente al gruppo 39 così descritto da Maria Laura Leone, La fosfenica Grotta dei cervi. Arte, Mitologia e Religione dei Pittori di Porto Badisco, Pensiero preistorico, s. l., 2009, p. 16: Una mensola naturale simile ad un altarino è quella aggettante sotto il gruppo 39, con le pitture inserite al centro di una nicchia calcarea dove un uomo e una donna si uniscono in un bacio preistorico.
Circa il bacio preistorico non ho nulla da eccepire sulla lettura del dettaglio (e, dettaglio nel dettaglio, mi chiedo se quel tratto sporgente agli occhi dell’autrice sia sembrato un pene in erezione …) ma sul modo in cui tale lettura viene proposta. Se l’indicativo (si uniscono) è il modo della certezza, l’aggiunta di un forse, secondo me, avrebbe fatto bene a tutti, impedendo che in rete (facebook in primis) tale lettura passasse, senza, fra l’altro, ombra di citazione del testo da cui è stata tratta, come quella ufficiale e che poi, proliferasse come verità assoluta nelle condivisioni d’obbligo e suscitasse acritici gridolini di soddisfazione e, nei casi più preoccupanti, elucubrazioni di ogni tipo.
Ora il lettore comprenderà il titolo e la citazione iniziale, forse …
Il Comune di Andrano mi ha invitato a un incontro sulle trivellazioni. Speriamo che ci siano persone che hanno voglia di ragionare, e non dei fondamentalisti. Le trivellazioni in basso Adriatico sono molto pericolose. Vi spiego perché.
In Mediterraneo l’acqua si rinnova, attraverso Gibilterra, solo nei primi 500 m di profondità. Sotto i 500 m dopo un po’ l’ossigeno verrebbe a mancare, e la vita si ridurrebbe a pochi organismi a metabolismo anaerobico (senza ossigeno).
Ci sono… due posti chiave, in Mediterraneo, si chiamano “motori freddi”. Lì l’acqua diventa fredda e densa, e scende in profondità, portando l’ossigeno dove altrimenti verrebbe a mancare. Il Nord Adriatico è il motore freddo del Mediterraneo Orientale. L’acqua densa e ricca di ossigeno scorre lungo le coste italiane e si approfonda a livello del Canale D’Otranto, per andare a vivificare tutto il Mediterraneo Orientale. Davanti a Leuca ci sono formazioni coralline a centinaia di metri di profondità, sostenute proprio da questa corrente.
Un incidente durante l’estrazione di petrolio non avrebbe conseguenze localizzate, perché il posto dove si vuole trivellare è un distributore di acqua ricca di ossigeno per tutto il bacino orientale. I rischi di catastrofe sono grandi. E abbiamo visto che le catastrofi avvengono. E poi dobbiamo abbandonare la combustione, non cercare altro combustibile. Ci sono tutti gli argomenti per dibattere in modo pacato e deciso. E se mai dovessero venire i rappresentanti delle compagnie petrolifere, devono essere lasciati parlare. Interromperli con urla, come ho visto fare in altri casi, non serve a gran che.
Non parliamo poi dei sindaci che sono ambientalisti a corrente alternata. Tollerano la speculazione edilizia, lo spargimento di rifiuti tossici, e poi all’improvviso diventano crociati contro una sola azione. Gente che ha devastato il proprio territorio, poi diventa fervente ambientalista. Non mi piace accompagnarmi a queste persone. Non mi piace questo ambientalismo. Speriamo di trovare persone serie. Qualche sindaco lo conosco e so che ci sono persone serie. Ma bastano cinque scalmanati per mandare tutto all’aria. E sappiamo che i provocatori spesso sono mandati da chi vuole intorbidire le acque.
Loro si chiamano Giuseppe Roi e Qamil Hyraj. Roi è salentino, la sua azienda ovicola si trova a Torre Lapillo, Qamil era albanese, lavorava dal Roi come pastore.
Roi aveva una sfrenata passione per il guadagno e per le armi, aveva in casa pistole e fucili, anche un caricatore per Kalashnikov.
Qamil forse collezionava speranze.
Roi ha una trentina d’anni, Qamil di anni ne aveva 23.
Amava tirare al bersaglio, Roi, e si allenava prendendo di mira un vecchio frigorifero. Quel giorno d’aprile, tirava e tirava ancora, “lui sapeva benissimo che Qamil era lì vicino e che avrebbe potuto colpirlo, per questo l’accusa è di omicidio volontario e non colposo” dice il giudice Cataldo Motta. Lui sapeva ma proseguiva a tirare, un colpo, un altro, un altro ancora, finchè Qamil, forse tentando di difendersi, di nascondersi, viene colpito in fronte e muore così, perché il suo datore di lavoro amava tirare con la pistola. Perché stava giocando, Giuseppe Roi.
Qamil era partito dall’Albania per venire qui a fare il pastore, magari sottopagato, sicuramente aveva in mente una vita migliore, l’Italia, si sa, è ricca, c’è pure la TV. Ricordiamo i primi che giungevano con in mente la Carrà e le luci della ribalta, ricordiamo la Kater I Rades anche. Ricordiamo i discorsi di chi dice che gli stranieri vengono a rubare il lavoro agli italiani, ricordiamo… Già, ricordiamo. Troppi ricordi, troppo di tutto in questo mondo così bizzarro. Perché mai un pastore colleziona armi invece di francobolli? Perché il cinismo ignobile lo spinge a sparare sapendo che può colpire un essere umano? Meglio forse chiedersi se chi ha un’arma e la utilizza così considera esseri umani gli altri. In fondo era solo un albanese, in fondo ci sono personaggi pubblici che ci insegnano il disprezzo per chi non è come noi. Per chi si chiama Qamil, per chi è troppo “abbronzato” come recitava un avanzo di galera già presidente del consiglio. Qamil aveva una faccia sbagliata, genitori sbagliati, nazionalità sbagliata. Se poi lavorava per pochi euro peggio per lui.
Non ci siamo mossi quando trovarono Qamil, era solo un morto fra molti, assassinato chissà da chi “forse era nel giro della droga” si sarà detto qualcuno. Macchè, Qamil era solo nel giro dei pastori, quelli che curano le bestie d’altri, non aveva neppure una pecorella, Qamil.
A voler essere pignoli va fatta preliminarmente una distinzione tra la tartaruga propriamente detta (l’animale acquatico, che è onnivoro) e la testuggine (quello terrestre, che è erbivoro).
Tartaruga è dal greco tardo ταρταροῦχος (leggi tartarùchos), sorta di governatore dell’Inferno, composto da Τάρταρος (leggi Tàrtaros)=Tartaro e ἔχω (leggi echo)=avere, abitare.
L’attestazione letteraria più antica che conosco è in un frammento della Commentatio in Danielem di Ippolito Romano (II-III secolo) tramandataci da Eustrazio (XI-XII secolo) nel cap. XIX di Adversus Psychopannychitas: Λέγει τοίνυν Ἰππόλυτος ὁ μάρτυς καὶ Ἐπίσκοπος Ῥώμης ἐν τῷ δευτέρῷ λόγῳ τῷ εἰς τὸν Δανιἠλ τοιαῦτα·… ἔπειτα τὰ καταχθώνια ὠνόμασαν πνεύματα ταρταρούχων ἀγγέλων … (Ippolito martire e vescovo di Roma nel secondo libro [del commento] a Daniele dice questo: … poi diedero il nome agli spiriti degli angeli signori del Tartaro …).
La voce fa la sua comparsa epigrafica più antica, sempre a quanto ne so, in un’iscrizione bilingue (greco e latino), probabilmente del III secolo, rinvenuta a Byzacena, nell’attuale Tunisia e pubblicata da August Audollent, Defixionum tabellae quotquot innotuerunt tam in Graecis Orientis quam in totius Occidentis partibus praeter Atticas in Corpore inscriptionum Atticarum editas, Fontemoing, Parigi, 1904, tab. 295, p. 409 (il volume è interamente leggibile e scaricabile in https://archive.org/details/defixionumtabel00audogoog). Ne riproduco di seguito la parte iniziale, in cui ho evidenziato in rosso la voce che ci interessa.
Il volume prima appena citato contiene insieme con la nostra molte altre defixiones, cioè formule magiche, spesso di maledizione. Alla stessa sfera appartengono anche due inni, (dei quali riporto solo il verso/i versi che ci interessa/interessano). Il primo inno, nel quale la nostra voce compare due volte, dedicato ad Ecate (divinità psicopompa, cioè in grado di condurre anche i vivi nel regno dei morti; per questo è raffigurata spesso con delle torce in mano; veniva anche associata ai cicli lunari a simboleggiare insieme con Artemide la luna crescente e con Selene quella calante) fu pubblicato in PGM (Papiri Graecae Magicae), Leipzig-Berlino, 1928-1932; ecco le due ricorrenze: (IV, 2242): Χαῖρε, ἱερὸν φῶς, ταρταροῦχε, φωτοπλήξ (Salve, luce sacra, signora del Tartaro, tu che colpisci con la tua luce); (IV, 2332-2333): σημεῖον ἐρῶ· χάλκεον τὸ σάνδαλον/τῆς ταρταρούχου (amo come un simbolo il sandalo di bronzo della signora del Tartaro). Del secondo inno abbiamo solo un frammento (830 Af) da una lamina bronzea trovata forse ad Ossirinco (datata al II-III secolo d. C.) e pubblicato da A. Bernabé, Poetae epici Graeci. Testimonia et fragmenta, parte II, fasc. II, Saur, Monaco e Lipsia, 2005, p. 351: κύων, δράκαινα, κλείς, κηρύκιον,/τῆς Ταρταρούχου χάλκεον τὸ σάνδαλον (il cane, il serpente, la chiave, il caduceo, il sandalo di bronzo della signora del Tartaro).
Più tarda, invece, attribuita al VI secolo per la forma delle lettere, l’iscrizione (CIL, III, p. 961) rinvenuta nel 1869 presso Tragurio (odierna Traù, in Croazia) su una tavola di piombo (per questo comunemente nota col nome di Tabula plumbea Traguriensis), la cui scheda è visibile all’indirizzo http://arachne.uni-koeln.de/arachne/index.php?view%5blayout%5d=buchseite_item&search%5bconstraints%5d%5bbuchseite%5d%5bbuch.origFile%5d=BOOK-ZID875009.xml&view%5bpage%5d=0 (non direttamente, bisogna prima digitare nell’apposita finestra in alto a sinistra il numero di pagina che, però, nella schedatura digitale non risulta essere 961 ma 380). La riporto, comunque nella parte che ci interessa: la lamina è iscritta su entrambe le facce ed è come se il testo fosse distribuito su due pagine, delle quali riporterò solo la prima con gli adattamenti necessari per un’agevole lettura e anche per evidenziare, sottolineandola in rosso, la parola-chiave e per aggiungere la mia traduzione.
È evidente, al di là delle lacune dovute a lettere abrase, che il testo è in linea con i precedenti: lì un’esaltazione ancora pagana di Ecate/Selene, qui una sorta di diffida-maledizione già cristiana al signore del Tartaro, cioè al demonio. Nel simbolismo cristiano primitivo la tartaruga simboleggiava lo spirito del male. Per esempio nella cattedrale di Aquileia due rappresentazioni musive risalenti al IV secolo raffigurano la lotta tra un gallo (in progressione concettuale simbolo del giorno, della luce, del bene, di Cristo) e una tartaruga (nella stessa progressione simbolo delle tenebre, del male, del demonio). È evidente il collegamento con le abitudini sotterranee della testuggine (dovute al letargo) e, forse, pure con la veneranda età che certi esemplari possono raggiungere: un profumo di immortalità e, dunque, quasi una prerogativa divina, anche se di valenza negativa.
La nostra voce ricorre due volte nel vangelo apocrifo di Bartolomeo (i brani che riproduco sono dall’edizione N. Bonwetsch, Die apokryphen Fragen des Bartholomäus, Nachrichten von der Gesellschaft der Wissenschaften zu Göttingen, Philol.-hist. Kl. (1897) 9- 29) risalente al III-IV secolo, una prova in più che ταρταροῦχος nasce indipendentemente dal nome dell’animale (che, come abbiamo visto, era diverso) e che solo successivamente tartaruga acquista la valenza zoonomastica.
Καὶ κατ〈ήγαγετο〉αὐτοὺς ἀπὸ τοῦ ὄρους τῶν ἐλαιῶν, καὶ ἐμβριμησάμενος τοῖς ταρταρούχοις ἀγγέλοις, ἔνευσε δὲ τὸν Μιχαὴλ σαλπίσαι ἐν τῷ ὕψει τῶν οὐρανῶν, καὶ ἐσείσθη ἡ γῆ, καὶ ἀπῆλθεν ὁ Βελίαρ κατεχόμενος ὑπὸ ἑξακοσίων ἑξήκοντα [τριῶν] 〈ἀγγέλων〉πυρίνοις ἀλύσεσιν δεδεμένος (E li condusse giù dal monte degli Ulivi e, dopo aver rimproverato gli angeli signori del Tartaro, fece cenno a Michele di suonare la tromba nell’alto dei cieli e la terra tremò e salì Beliar tenuto da seicentosessantatré angeli e incatenato con catene di fuoco).
Κριθεὶς δὲ ὁ Βελίαρ λέγει· Εἰ θέλεις μαθεῖν τὸ ὄνομά μου, πρῶτον ἐλεγόμην Σαταναήλ, ὃ ἑρμηνεύεται ἐξάγγελος θεοῦ· ὅτε δὲ ἀπέγνων ἀντίτυπον τοῦ θεοῦ [καὶ] ἐκλήθη τὸ ὄνομα μου Σατανᾶς, ὅ ἐστιν ἄγγελος ταρταροῦχος (Interrogato Beliar dice: – Se vuoi sapere il mio nome, prima mi chiamavo Satanaèl, che viene interpretato come angelo di Dio; quando rinnegai la figura di Dio anche il mio nome divenne Satana, il che significa angelo signore del Tartaro -).
Che, poi, le origini negative del simbolo potrebbero essere molto antiche lo mostra, per esempio, il mito di Driope come appare in Antonino Liberale (II secolo d. C.), Metamorfosi, XXXII, in cui la metamorfosi Apollo>tartaruga>serpente costituisce un’impalcatura che ha quasi dei punti di contatto con il racconto biblico della perdita dell’Eden : Ἱστορεῖ Νίκανδρος Ετεροιουμένων α’
Δρύωψ ἐγένετο Σπερχειοῦ παῖς τοῦ ποταμοῦ καὶ Πολυδὠρης μιᾶς τῶν Δαναῶν θυγατέρων. Οὗτος ἐβασίλευσε ἐν τᾕ Οἴτῃ καὶ θυγάτηρ αὐτῷ μονογενὴς ἐγένετο Δρυόπη καὶ ἐποίμαινεν αὐτᾔ τὰ πρόβατα τοῦ πατρός· ἐπεὶ δὲ αὐτὴν ἠγάπησαν ὑπερφυῶς Ἁμαδρυάδες νύμφαι καὶ ἐποιήσαντο ουμπαίκτριαν ἑαυτῶν, ἐδίδαξαν ὑμνεῖν θεοὺς καὶ χορεύειν. Ταύτην ἰδὼν Ἀπόλλων χορεύουσαν ἐπεθύμησε μιχθῆναι. Καὶ ἐγένετο πρῶτα μὲν κλεμμύς· ἐπεὶ δ’ἡ Δρυόπη γέλωτα μετὰ τῶν νυμφῶν καὶ παίγνιον ἐποιήσατο τὴν κλεμμὺν καὶ αὐτὴν ἐνέθετο εἰς τοὺς κὁλπους, μεταβαλὼν ἀντὶ τῆς κλεμμὺος ἐγένετο δράκων. Καὶ αὐτὴν κατέλειπον αἱ νύμφαι πτοηθεῖσαι· Ἀπόλλων δὲ Δρυόπῃ μίγνυται· ἡ δὲ ᾤχετο φεύγουσα περίφοβος εἰς τὰ οἰκία τοῦ πατρός καὶ οὐδὲν ἓφρασε πρὸς τοὺς γονεῖς (Racconta Nicandro nel primo libro delle Metamorfosi: Driope era figlia del fiume Spercheio e di Polidora, una delle figlie di Danao. Spercheio regnava ad Eta, Driope fu la sua unica figlia e da lei erano condotte al pascolo le greggi del padre. Poiché le ninfe Amadriadi la amavano oltre ogni misura ed avevano stabilito con essa un rapporto di complicità, le insegnarono a celebrare con inni gli dei ed a danzare. Apollo dopo averla vista mentre danzava desiderò di possederla. E divenne prima una tartaruga; dopo che Driope ebbe scherzato con le ninfe ed ebbe trasformato la tartaruga in trastullo e l’ebbe posta in seno, si trasformò da tartaruga in serpente. E le ninfe in preda al terrore la lasciarono sola. Apollo si congiunge con Driope e lei se ne andò fuggendo in preda alla paura alle case del padre e nulla disse ai genitori).
Il mito, come ci informa lo stesso Antonino, è tratto da Nicandro (II secolo a. C.) ed è interessante notare come l’animale è indicato con il nome di κλεμμύς (leggi clemmiùs), composto da χέλυς (leggi chelus), del quale parlerò a breve, ed ἐμύς (leggi emiùs)=tartaruga d’acqua. Sia tale voce di Nicandro o, meglio ancora, di Antonino, è chiaro che bisognerà aspettare l’avvento del Cristianesimo per la nascita di ταρταροῦχος=angelo signore del Tartaro, da cui poi il nome dell’animale dopo che esso ne era stato assunto come simbolo.
Testuggine è dal latino testùdine(m), accusativo di testùdo, a sua volta derivato da testa=tegola, guscio, cranio. La tecnica di formazione di testùdo, cioè test- (tema di testa)+un suffisso significante insieme è simile a quella di habitudo [dal cui accusativo [habitùdine(m)] è l’italiano abitudine], a sua volta composto da habit– (tema di hàbitus, a sua volta da habère=avere) + il suffisso già ricordato. Testudo significava testuggine, tartaruga, guscio di tartaruga, guscio del riccio, guscio dell’uovo, lira, cetra, costruzione a volta, volta, e nel linguaggio militare aveva il significato di macchina da guerra consistente in una baracca a tettoia montata su ruote che serviva da riparo ai soldati mentre spingevano l’ariete contro le mura e di formazione d’attacco dei soldati che si accostavano alle mura congiungendo gli scudi sulla testa, a m’ di tetto inclinato.
Il dialettale salentino cilònaè dal greco χελὠνη (leggi chelòne), derivato da χέλυς (leggi chèlius). La voce primitiva designa la testuggine, la derivata sia la testuggine che la tartaruga. Sempre la primitiva assume anche i significati traslati di lira fatta col guscio di testuggine2, Lira (costellazione)3, petto, torace (per la somiglianza di forma)4. Nel dialetto salentino cilòna, oltre la testuggine, designa pure il lipoma (un tumore, di natura assolutamente benigna, costituito sostanzialmente da grasso) e la voce è usata anche in senso spregiativo per indicare una donna dalle forme tozze.
La derivata assume pure i significati traslati di lira (già visto per la precedente)5, scudo per proteggere gli assedianti6, scudo per proteggere i minatori7, una moneta8.
Oggi l’uso metonimico continua nei significati, che tartaruga assume, indicando una locomotiva elettrica delle ferrovie italiane in uso negli anni ‘70 (si tratta della E444; il riferimento nativo è alla forma, quello effettivo alla velocità massima, teoricamente 200 km/h, irraggiungibile e mai raggiunta a causa delle condizioni degli altri componenti delle linee, binari e carrozze in primis),
una plafoniera ovale protetta da una rete metallica,
e addominali che solo l’abbonamento ad una palestra ti può consentire di esibire …; di seguito un bell’esempio nel rispetto della par condicio, partendo dall’animale.
Per le amenità annunziate nel titolo, che non sono queste di cui ho appena finito di parlare, rinvio il lettore al link http://www.iltaccoditalia.info/sito/index-a.asp?id=24253. I commenti registrano ben sei interventi di Giuseppe Barbera (tutti restati desolatamente senza replica) che, dopo aver consigliato all’autrice dell’obbrobrio la lettura di alcuni testi di natura metodologica, puntualmente smonta, con esibizione di prove inoppugnabili, la sua esilarante ipotesi, una delle tante dei suoi lavori (?), in cui il delirio è l’unica coerenza ravvisabile; non mi meraviglierei se nel prossimo capolavoro si dovesse leggere l’individuazione di un collegamento tra l’onnipresente Gran Madre e un escremento umano, magari fresco fresco …
Perché il lettore possa rendersi conto di quanto simili insane suggestioni possano fare proseliti sarà sufficiente leggere i tre successivi commenti, dopo i quali, giustamente, perché sarebbe stata un’inutile perdita di tempo, Giuseppe ha desistito dall’intervenire ulteriormente; così l’ignoranza e la presunzione hanno potuto celebrare il loro trionfo, ma solo agli occhi degli incompetenti e, cosa ancor più grave, miserevolmente ingenui, nonché a scapito della credibilità dello stesso sito che li ospita.
2 Omero, Inni, IV, 25 e 153; Saffo, 118, 1; Euripide, Alcesti, 448.
Lira ottenuta dal carapace di una tartaruga. Da Rudie (Museo Sigismondo Castromediano, Lecce). Il carapace funge da cassa di risonanza [ἠχεῖον (leggi echèion), da ἠχή (leggi echè)=eco]. Dalla cassa partono due bracci [πήχεις (leggi pècheis) o κέρατα (leggi kèrata: alla lettera corna)] che hanno il compito di reggere il sostegno trasversale [ζυγόν (leggi ziugòn)=giogo] delle corde. Si tratta di un vero e proprio strumento musicale, non di un oggetto avente alcuna funzione evocativa o sacrale.
3 Arato, Fenomeni, 268.
4 Ippocrate, De anatome. I; Euripide, Elettra, 837.
5 Plutarco, 68 (Sulla procreazione dell’anima nel Timeo), 1030b.
6 Senofonte, Ellenikà, III, 1, 7; Cassio Dione, Storia romana, IL, 29, 2 e 30, 1
7 Polibio, Storie, IX, 41, 1 e X, 31, 8.
8 Polluce, Onomastikòn, IX, 74: Καὶ μὴν τὸ Πελοποννησίων νόμισμα χελώνην τινὲς ἠξίουν καλεῖν ἀπὸ τοῦ τυπώματος, ὅθεν ἡ μὲν παροιμία· τὰν ἀρητὰν καὶ τὰν σοφἱαν νικᾱντι χελῶναι. Ἐν δὲ τοῖς Εὐπόλιδος Εἵλωσιν εἴρηται ὀβὸλὸν τὸν καλλιχέλωνον (E alcuni pensarono bene di chiamare tartaruga una moneta del Peloponneso dall’immagine, da cui il proverbio: le tartarughe vincono la virtù e la saggezza. Ne I prigionieri di Eupoli un obolo è chiamato bella tartaruga).
Dopo aver sottolineato l’amara verità contenuta nel proverbio, mi rimane da aggiungere che la tartaruga sia marina che terrestre è una costante nelle monete di Egina e il simbolo molto probabilmente ha un significato più politico-economico che religioso. Nelle immagini seguenti (tratte da http://www.wildwinds.com/coins/greece/aigina/i.html una sintetica e parziale carrellata cronologica con alcuni esemplari. Mi pare particolarmente interessante perché in esso il profilo della tartaruga sembra essersi scisso fino a dar vita a due delfini. Se non è casuale si tratterebbe di un’operazione grafica che farebbe rabbia al migliore designer dei nostri tempi; ma in questo caso farebbe ancor più rabbia la difficoltà di cogliere il messaggio contenuto e le immancabili allusioni a fatti storici.
Per il taglio dato al titolo sono costretto ad omettere altre notizie1 che sul letterato neretino il lettore potrà agevolmente trovare nella scheda relativa del Dizionario biografico degli Italiani dell’Enciclopedia Treccani on line (http://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-caraccio_(Dizionario-Biografico)/), da cui apprenderà, fra l’altro, se già non lo sapesse, che le sue opere principali furono un poema epico (L’imperio vendicato) e una tragedia (Il Corradino).
La serie di immagini inizia proprio dai loro frontespizi.
Nell’immagine che segue e che mostra i due frontespizi a confronto il lettore potrà agevolmente notare le minime differenze che intercorrono e che riguardano solo i righi 3-5 del primo (POEMA EROICO/D’ANTONIO CARACCIO/BARONE DI CORANO) e 3-4 del secondo (DEL/BARONE ANTONIO CARACCIO) e quelle che sembrano essere le marche tipografiche, dettaglio su cui vale la pena spendere qualche parola in più.
Anzitutto va detto che in tutte le opere uscite per i due editori che ho potuto controllare neppure una volta appare il disegno della marca. I due leoni, pertanto, ribadiscono solo l’omaggio a Venezia già espresso nel titolo. In particolare in quello della seconda edizione compare sul libro PAX TIBI MARCE (Pace a te, o Marco) e probabilmente quest’aggiunta è legata al titolo di cavaliere di S. Marco di cui ho detto prima. Coincidenze obbligate o calcolata operazione di marketing ante litteram in omaggio al detto squadra vincente non si cambia (editore a parte, per motivi che ignoro)?
Mi piace far notare anche l’impegno editoriale in senso strettamente grafico (un ingrediente, credo anche allora, non secondario del successo che l’opera, al di là del suo quanto meno discutibile valore intrinseco, ebbe, tant’è che gli valse il titolo di cavaliere di S. Marco) come mostra la tavola, presente in entrambe le edizioni, un’incisione di Pietro Santi Bartoli (Perugia, 1635-1700) su disegno di Carlo Maratti (Camerano, 1625-Roma, 1713), una coppia costituita da due delle firme più prestigiose del tempo nei loro rispettivi campi.
Ecco ora il frontespizio de ll Corradino uscito per i tipi di Buagni a Roma nel 1694.
A differenza della pubblicazione precedente, la figura che appare in basso è la marca editoriale.
Non mi rimane ora che presentare i ritratti a me noti dell’illustre concittadino. Di seguito le tavole presenti, rispettivamente, nella prima e nella seconda edizione de L’imperio vendicato.
Unica differenza, nel secondo ritratto, la presenza della croce di cavaliere di S. Marco. Entrambi recano la firma di Franςois Spierre (come si legge distribuito agli angoli sinistro e destro che ho evidenziato in rosso e che di seguito riproduco una sola volta in dettaglio).
Ecco la scheda che su di lui è presente in Jean-Baptistre Ladvocat, Dictionnaire historique portatif, Vedova Didot, Parigi, 1760, v. II, pp. 778-779: Dessinateur & Graveur, natif de la Lorraine, dont les Ouvrages sont rares & estimés. La Vierge, qu’il a gravée d’apres le Correge, passe pour son chef d’ouvre (Disegnatore ed incisore, nativo della Lorena, le cui opere sono rare ed apprezzate. La Vergine che ha inciso dopo il Correggio, passa per il suo capolavoro).
Autore della tavola è l’incisore napoletano Francesco De Gradis, come si legge negli angoli, evidenziati questa volta in bianco, che riporto di seguito in dettaglio.
Franc(iscus) de Gradi(s) Sculp(tor) Neap(olitanus)=Francesco De Gradis incisore napoletano. La s finale di Gradis la si ricava dal dettaglio evidenziato in rosso nelll’incisione del frontespizio (di altra opera di altro autore) di seguito riprodotta.
Tornando al ritratto, singolare appare il fatto che esso è l’unico a recare la firma dell’autore tra tutti quelli che accompagnano le biografie del De Angelis. Sul De Gradis non son riuscito a trovare nessuna notizia ma nel nostro caso mi pare abbastanza evidente che il modello anche qui è quello della seconda edizione con l’ovale contenente il ritratto vero e proprio invertito orizzontalmente (operazione che ho fatto in basso); appare riprodotta pedissequamente perfino l’ombra dell’originale nel suo contorno.
In basso nel dettaglio che di seguito ho ingrandito si legge:
Antonio Caraccio Neritonensi/S. Marci Equiti/nat(o) MDCXXX, OBI(TO) MDCCII/Dominicus de Angelis Lycien(sis) D(onum) D(edit)
(Ad Antonio Caraccio di Nardò, cavaliere di S. Marco, nato nel 1630, morto nel 1702, Domenico De Angelis di Lecce diede in dono)
L’ultimo ritratto che prenderò in considerazione (immagine tratta da http://www.portraitindex.de/documents/obj/33405773) è anch’esso una stampa custodita a Munster nel LWL-Landesmuseum für Kunst und Kulturgeschichte.
Per l’iscrizione che si legge in basso (CVC/LACONI CROMITIO P. A. DF./POETAE LOGISTUS NEMEAEUS/P. A. AMICO B. M. F. C. OLYMP. DCXXI/AN. I. A. B. A. I. OLYMP. IV ANN. III C. L. A.) cedo la parola al De Angelis (op. cit. p. 192).
Fornisco ora la traduzione quanto più possibile letterale dell’iscrizione le cui abbreviazioni, almeno per me, senza la testimonianza del De Angelis sarebbe stato non arduo ma impossibile sciogliere2:
Per decisione dell’intera assemblea/a Lacone Cromizio pastore arcade defunto/poeta, Logisto Nemeo,/pastore arcade all’amico benemerente che fosse fatto/curò/nella 621a Olimpiade nel primo anno3, dalla fondazione dell’Arcadia nella 4a Olimpiade nel terzo anno4/svolgendosi i giochi.
Nella parte inferiore sinistra della cornice la stampa reca un monogramma di seguito nel dettaglio ingrandito.
Ecco la scheda di catalogazione della stampa , nella parte che ci interessa, con la mia traduzione a fronte:
1686/1725 mi pare un range cronologico troppo esteso per riferirsi alla data di realizzazione e d’altra parte nel 1686 il Caraccio era ancora vivo e, come abbiamo visto, l’Arcadia gli dedicò l’epitaffio nel 1705; non può nemmeno riferirsi alla data di nascita e di morte di un artista che non risulta identificato e per lo stesso motivo al periodo di attività. Può darsi, invece, che 1686/1725 si riferisca all’intervallo di date in cui la marca risulta rilevata e credo, addirittura, che lo stesso monogramma vada letto non C. P. R. (non registrato nei repertori specializzati) ma C. P. L. sulla scorta di quanto riportato in Dictionnaire des monogrammes, chiffres, lettres initiales, logogryphes …, Lambert, Parigi, 1754, s. p.:
(Un C, un P e un L, carattere italico, come si trovano su incisioni moderne in rame impresse ad Ausbourg, sono la marca di Cristiano Filippo Lindemann).
I repertori successivi, pur nella differenza, aggiunta o mancanza di qualche dettaglio, confermano l’essenza della notizia.
Roland le Virloys, Dictionnaire d’architecture, civile, militaire, et navale …, Libraires associés, Parigi, 1770
(Incisore in rame di questo secolo ad Augsbourg. La sua marca è C.P.L. e l’anno 1725 al di sotto).
Notices sur les graveurs qui nous ont laissé des estampes marquées, v. II, Taulin-Dessirier, Besanςon, 1808
François Brulliot, Dictionnaire des monogrammes, marques, figurées, lettres initiales …, Monaco, s. n., 1833:
(LINDEMAN, Cristiano Filippo, incisore di Augsbourg, tra gli anni 1725 e 1750. Si trovano di lui copie su stampe di C. W. E. Dietrich, parecchie vignette e parecchie tavole per libri, che recano o il suo nome o le lettere qui riportate).
Chiunque sia, l’autore si è ispirato anche lui al secondo dei ritratti prima esaminati, nonostante cambi, come al solito, qualche dettaglio secondario come la corona circolare anziché ovale che contorna il ritratto vero e proprio. E termina qui questa carrellata in cui ho presentato in ordine cronologico la rappresentazione della parte per così dire più effimera di ognuno di noi, quella che oggi ha tanto successo, cioè l’immagine delle nostre fattezze (magari rifatte …), piuttosto che quella ben più importante e duratura (ammesso che ci sia …) del nostro cervello e del nostro spirito. E non è detto che, dopo aver soddisfatto questa curiosità, non torni a dar conto di quel quanto meno discutibile valore intrinseco che a proposito degli scritti del Caraccio ho usato all’inizio.
Il mio giudizio collima, una volta tanto, con quello della critica ufficiale, ma, se mi occuperò dell’argomento, non potrò vantarmi neppure di essere stato il primo neretino ad averlo fatto, essendo stato in questo bruciato sul tempo e da tempo da Francesco Castrignanò con il saggio Antonio Caraccio: cenno biografico critico, Tipografia Garibaldi, Lecce, 1895.
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1 Nella biografia del Caraccio, che fa parte di Le vite de’ letterati salentini, op. cit., alle pp. 196-197 c’è l’elenco completo delle opere stampate e manoscritte:
Ecco, comunque, l’elenco delle opere registrate nell’OPAC:
L’assemblea de’ fiumi, Moneta, Roma, 1656
La pace pronuba, Moneta, Roma, 1660
L’imperio vendicato, Bussotti, Roma, 1679 e Tinassi, Roma, 1690
Poesie liriche, Tinassi, Roma, 1689
Il giardino, Buagni, Roma, 1694
Il Corradino, Buagni, Roma, 1694
Nardò possiede solo un esemplare della prima edizione (Bussotti, Roma, 1679) de L’imperio vendicato, custodito nella Biblioteca Comunale Achille Vergari.
2 Un solo esempio per tutti: D. F. abbreviazione di una sola parola, DEFUNCTO, normalmente abbreviata in DEF.
3 Corrisponde al 1705. I primi giochi olimpici si svolsero nel 776 a. C., per cui all’anno 0 si erano svolte già 194 olimpiadi. In 1705 anni se ne sono svolte convenzionalmente (perché, come si sa, prima di essere di nuovo istituite nel 1896, erano state soppresse nel 393 d. C. dall’imperatore Teodosio I) 426 (1710/4), che sommate alle 194 e considerando nel computo anno di partenza e di arrivo (cioè, in pratica, aggiungendo 1) danno un totale di 621, la cifra indicata nell’iscrizione.
4 L’Arcadia era stata fondata nel 1690. La terza olimpiade dalla sua fondazione (gara letteraria tra gli iscritti) va dall’anno 1703 al 1706.Il terzo anno di questa quarta olimpiade è, appunto il 1705 che coincide con la data precedente.
5 Con la rabbia di chi sa che una cosa esiste in un determinato posto e che ancora oggi, nonostante le sbandierate banda larga ed agenda digitale, per poterla vedere (riprendere, chissà …) deve andare in quel posto, segnalo una stampa a firma dell’incisore napoletano Raffaele Pastena (morì nel 1825) custodita nella Biblioteca Vittorio Emanuele a Napoli, così descritta nell’OPAC: Ritratto a mezzo busto di tre quarti verso destra in cornice rotonda del poeta Antonio Caraccio, originario di Nardò (Puglia). Se qualche amico napoletano può aiutarmi, me lo faccia sapere con un messaggio inserito nei commenti; poi, eventualmente, prenderemo accordi.
L’associazione DnaDonna col patrocinio del Comune di Soleto è lieta di invitarvi il 7 novembre alla presentazione de “L’ulivo e la Mezzaluna” di Mimmo Ciccarese.Un viaggio nel Salento, che vede protagonisti i suoi ulivi secolari, la terra, il mare, la Storia e la gente di un luogo magico e affascinante, da sempre considerata la porta che collega l’Oriente e la Cultura araba all’Occidente. Un itinerario cui affidarsi grazie anche alle mappe e ai percorsi forniti, con l’ausilio della tecnologia digitale, per chi volesse ripercorrere la via indicata dall’autore.
Saluti:
Davide Cafaro. assessore alla cultura del comune di Soleto.
Emanuela Mangione,presidente associazione DnaDonna.
interverranno:
Mario Spedicato,ordinario Università del Salento.
Giuseppe Pascali, giornalista e scrittore.
Sergio Macrì, agronomo.
Gianni Proto, avvocato.
modera:
Fabio Lettere, agronomo.
* Il titolo è stato dato dalla redazione al testo fatto pervenire da Armando Polito che dell’argomento aveva avuto occasione di trattare in
https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/08/19/la-pittura-subacquea-e-stata-inventata-da-un-leccese/. Questa preziosa memoria è il risultato finale di un provvidenziale contatto telefonico avvenuto tra Lucio ed Armando, che non poteva certo lasciarsi sfuggire simile occasione. Le immagini, aggiunte dalla redazione, sono fotogrammi tratti dal filmato dell’Istituto Luce, della cui immissione in rete il lettore saprà solo alla fine a chi è dovuta ulteriore gratitudine …
Mario Palumbo è stato un pittore leccese, figlio del più noto Michele Palumbo.
Nella primavera del 1953 a Mario venne un’idea piuttosto originale. Ci riflettè su, rimuginò sulla cosa, poi si mise all’opera cominciando a fare alcuni esperimenti. Lo strano entusiasmo contagiò anche i suoi fratelli Lucio e Franco, che lo incoraggiarono e cominciarono ad aiutarlo nell’impresa. Come prima cosa Mario provò ad usare dentro l’acqua i vari colori ad olio, in una vasca per l’irrigazione nella sua villa. I primi tentativi furono fatti su supporti trattati per un normale quadro “en plain air”. I colori si stendevano senza alcun problema, salvo alcune bollicine che si formavano tra le setole dei pennelli. Furono esclusi, naturalmente, supporti come tela e cartone. Io non so dire se, in seguito, fu deciso di impiegare qualche prodotto impermeabilizzante, ma lo escluderei.
I tre fratelli passarono poi alla progettazione e quindi alla realizzazione dell’attrezzatura per il “palombaro”. Come si può facilmente immaginare, si trattava di soluzioni empiriche e casarecce.
Nessuna particolare difficoltà per un seggiolino metallico che restasse sul fondo. E neanche per zavorrare il cavalletto.
Lo scafandro fu progettato seguendo questa idea: se viene immessa aria nella parte superiore, l’acqua verrà respinta verso il basso (dove lo scafandro è aperto) permettendo al sub di respirare tranquillamente. L’aria sarebbe arrivata attraverso un tubo, azionando una di quelle grosse pompe per bicicletta che venivano tenute ferme con i piedi.
Al termine della “costruzione”, lo scafandro riportava un po’ alla mente l’Armata Brancaleone. Bisogna però ricordare che in quegli anni facevano la loro comparsa le prime, semplici maschere da sub.
Si passò allora alle prove in mare. E ci fu subito un incidente di percorso! Non avendo valutato correttamente l’afflusso dell’aria, questa risultò insufficiente e il livello dell’acqua superò la bocca di Mario. Dato il notevole peso dello scafandro (che avrebbe dovuto esser tirato su dalla barca) il pittore dovette lottare per liberarsene e alla fine raggiunse la superficie “a palla” e con gli occhi fuori dalle orbite.
Si accelerò allora il pompaggio per un maggiore afflusso d’aria. Ad un primo tentativo l’aria era però in eccesso e lo scafandro tendeva a risalire in superficie sfilandosi dalla testa di Mario, che doveva quindi tirarlo giù e trattenerlo.
Apportate le necessarie correzioni e migliorati coordinamento e comunicazione fra l’imbarcazione e il fondo, si raggiunsero le condizioni per poter operare. Sulla barca Franco alla pompa e Lucio ad uno scandaglio visivo per controllare. Sul fondo Mario che, indossato un buon maglione di lana, si mise all’opera.
Ancora un piccolo contrattempo fu causato dai pennelli che ogni tanto, data la particolare situazione, sfuggivano dalle mani del pittore e tornavano a galla. Mario allora cominciò ad applicare in coda ai pennelli un po’ di piombo e, nella vasca di cui si è già parlato, vennero fatte le prove per calibrare i pesi. Con pazienza le prove furono ripetute in mare per correggere le calibrature data la differente densità dell’acqua.
Alla fine tutto fu pronto e Mario Palumbo lavorò sui fondali di Otranto e dintorni, seduto davanti al cavalletto, contornato dai pennelli (ormai idrostatici) che gli fluttuavano accanto e a lui bastava allungare una mano per prenderli.
A parte l’originalità delle opere, i risultati furono eccellenti. Fu allestita una mostra a Bari e le opere esposte furono tutte vendute.
Nell’agosto di quel 1953 lo Stabilimento della Incom inviò una troupe a Otranto a realizzare un servizio per il proprio cinegiornale “La Settimana Incom” e fu così documentato il lavoro di quel “primo” pittore subacqueo. Quel servizio è stato rintracciato da mia figlia e da me nell’archivio dell’Istituto Luce e messo in rete qualche anno fa.
Quel giorno a Otranto c’ero anch’io, ma siccome il regista non voleva ragazzi fra i piedi, dovetti acquattarmi sotto la barca e sbirciare senza farmi vedere. Ma, con mia grande delusione, gli operatori non scesero in acqua e le riprese vennero effettuate dalla superficie attraverso uno scandaglio.
Il “set” era stato organizzato su di un fondale a pochi metri da una specie di piccolo faraglione che tutti chiamavano ” il Fascio”, una gioia per i tuffi di noi ragazzi.
Il “Fascio” (di cui credo affiori ancora una parte) era poco distante dalla scogliera che si prolunga verso il faro e vicino a quella che veniva chiamata “la grotta dei Marati” (che praticamente non esiste più) perché sopra si trovava la villa della famiglia Marati che in quella grotta poco profonda vi ormeggiava le barche.
Quanto all’osservazione fatta da qualcuno a proposito del quadro tenuto fermo dall’ancora, fu una (geniale!) trovata del regista per chiudere il servizio. Sott’acqua Mario aveva dato solo poche pennellate a beneficio delle riprese. Quindi nessuna opera veniva rovinata dall’ancora.
Infine, a distanza di tanti anni trovo ancora il testo di quel servizio semplicemente terrificante!
Non so se i “quadri dei gorghi” di Mario Palumbo siano stati i primi. Io non ho notizie che qualcuno abbia dipinto sott’acqua prima di lui. Ma di certo DOPO il 1953 ho letto e sentito di tanti PRIMI pittori subacquei!
Dedico queste semplici (ma autentiche) notizie a chi può essere interessato a leggerle e, magari, a ricordarle. E per dirla con Armando Polito: Si, è molto probabile che la pittura subacquea sia stata inventata proprio da un leccese. Da zio Mario!
‘Amiche sian le voci a lui d’intorno/e prodighe le piogge dell’estate;/sia tenera la sera e dolce il giorno,/sia pieno il cielo in le nottate.’ Gli siano, al libro o allo stelo? Per quanto il poeta si precipiti a s/congiurare che trattasi della sua opera e non dello strano oggetto del desiderio femminile, il dubbio resta e anche l’ambiguità, che per la verità non si sciolgono mai anzi sono costitutivi di questa brillante disamina sui prodotti che dalla terra giungono sul desco. Per la verità noi abbiamo ereditato descrizioni e allusioni che datano dai tempi dei tempi, contenute nella Bibbia, il Vecchio e il Nuovo Testamento, provenienti dalla cultura occidentale della poesia epica – Omero e l’episodio di Polifemo reso ebbro e poi beffato da Ulisse/Nessuno -, dalla lirica greca monodica e corale, Alcmane e Stesìcoro (Musa, lascia le guerre, e canta tu con me/le nozze degli dèi, canta i conviti/degli uomini, le feste dei beati.) e poi dai latini, dai poeti dalla lingua locale, i romani Gioacchino Belli e Trilussa, fino all’indimenticabile e popolarissimo Aldo Fabrizi, che già nella stazza denunciava, come dice il poeta Gianni Seviroli, la sua indole di buongustaio, accanto all’altro mito del cinema transteverino, Alberto Sordi, di cui ricordiamo la celebre frase rivolta agli spaghetti: ‘Maccarone, m’hai provocato e io ti distruggo adesso, maccarone! Io me te magno…!’
D’accordo con lo scanzonato e con quel senso di leggerezza, di invettiva velata, di doppio senso dove il ventre erotico e il ventre gastrico a volte si confondono e si sovrappongono, ma in queste composizioni di ricette e sonetti mangerecci – come li chiama l’autore – c’è un utilizzo sorvegliatissimo e ricercato del verso, le terzine alternate a rime chiuse e aperte (o incrociate), a rime incrociate, le quartine, le sestine, lo strambotto, ottave a rime, insomma tutte le possibilità che gli offre la tradizione letteraria italiana dalla Commedia dantesca ai poemi cavallereschi rinascimentali, piegati ad un contenuto leggero che passa in rassegna tutti gli strumenti e tutti i prodotti alimentari che la nostra terra salentina e quella friulana (a Gorizia ha trascorso un ventennio della sua vita) possono offrire.
La pasta innanzitutto e i sughi, qui sovviene l’origine campana della compagna Tania che costituisce il pezzo forte – la splendida vocalità della sua voce viene accompagnata dai mandolini e dagli strumenti musicali della tradizione suonati da Gianni e dai figli Andrea e Albina nel complesso ‘Napolinaria’ – quando intona le canzoni strazianti d’amore e di passione.
E poi i prodotti semplici della terra, il pane, i pomodori che colorano i nostri piatti e la nostra vita, le verdure, melanzane, peperoni, ecc. la carne poca, il pesce accompagnato dalle linguine o preferibilmente dagli spaghetti. Intorno alle ricette minuziosamente descritte in rima e poi spiegate dettagliatamente negli ingredienti e nel procedimento, si costruisce una storia attinta dalla tradizione o dal repertorio classico, mescolando i ricordi familiari, le leggende popolari e i miti del mondo antico (Polifemo e Ulisse).
E dalla storia antica che Gianni Seviroli inizia il suo percorso culinario nelle pietanze che già si vedono fumare sul nostro desco, salvo dimenticare – come fa Nerone – l’abbacchio nel forno e provocando così l’incendio di Roma, attribuito poi per comodità ai cristiani. Non poteva certo dire che era colpa del suo forno! Fino alla resurrezione di Cristo dovuta oltre che alla sua santità, come Figlio del Padre, anche ad una briciola della pastiera che la madre aveva portato come dono funebre ai piedi della sua tomba da consumare secondo le usanze del tempo. Ironia e ambiguità delle parole e dei significati, Seviroli innesta su un retroterra dotto e fantastico la sua pruriginosa visione della vita, ridendo di tutto come sanno fare i veri poeti e cantastorie del mondo.
Gianni Seviroli, Il Poeta Buongustaio, 30 storie e ricette tradizionali in rime 20 sonetti mangerecci, Edizioni Panico, Galatina (Le) 2012, pp. 174, € 16,00.
Il titolo è ricalcato su Parigi val bene una messa ma, se questa locuzione risale alla fine del XV secolo, quella riguarda un episodio che sarebbe (uso il condizionale per parziale, si capirà dopo perché uso quest’aggettivo, prudenza) avvenuto quasi duemila anni prima.
Si tratta di un viaggio fatto in Egitto da Platone (V-IV secolo a. C.), viaggio (peraltro era abbastanza comune per il mondo greco e, fra gli altri, fu compiuto pure da Solone secondo la testimonianza di Erodoto1) sulla cui autenticità alcuni studiosi manifestano, con motivazioni generiche, dubbi, nonostante le fonti, di seguito riportate, parlino secondo me chiaramente e, quel che più conta, concordemente.
Valerio Massimo (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Fatti e detti memorabili, VIII, 7 (ext)3: Platon autem patriam Athenas, praeceptorem Socratem sortitus, et locum et hominem doctrinae fertilissimum, ingenii quoque divina instructus abundantia, cum omnium iam mortalium sapientissimus haberetur, eo quidem usque, ut, si ipse Iuppiter caelo descendisset, nec elegantiore nec beatiore facundia usurus videretur, Aegyptum peragrauit, dum a sacerdotibus eius gentis geometriae multiplices numeros et caelestium observationum rationem percipit (Platone poi avendo avuto in sorte Atene come patria e Socrate come maestro, luogo e uomo ricchissimi di dottrina, fornito anche di ingegno dalla divina provvidenza, essendo ritenuto il più sapiente ormai tra tutti gli uomini a tal punto che, se lo stesso Giove fosse sceso dal cielo, non si sarebbe potuto servire di una facondia più elegante e più bella, viaggiò per l’Egitto mentre apprendeva dai sacerdoti di quella gente la geometria e l’astronomia).
Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Geographia, XVII, 1, 29:
Ἐκεῖ δ᾽ οὖν ἐδείκνυντο οἵ τε τῶν ἱερέων οἶκοι καὶ Πλάτωνος καὶ Εὐδόξου διατριβαί. Συνανέβη γὰρ δὴ τῷ Πλάτωνι ὁ Εὔδοξος δεῦρο, καὶ συνδιέτριψαν τοῖς ἱερεῦσιν ἐνταῦθα ἐκεῖνοι τρισκαίδεκα ἔτη, ὡς εἴρηταί τισι (Lì [ad Eliopoli] furono mostrate le abitazioni dei sacerdoti e le dimore di Platone e di Eudosso. Infatti Eudosso era andato lì insieme con Platone ed essi vissero, come si dice, con alcuni sacerdoti tredici anni)
Plutarco (I-II secolo d. C.) Vite parallele, vita di Solone, II, 5: Καὶ Θαλῆν δέ φασιν ἐμπορίᾳ χρήσασθαι καὶ Ἱπποκράτη τὸν μαθηματικὸν καὶ Πλάτωνι τῆς ἀποδημίας ἐφόδιον ἐλαίου τινός ἐν Αἰγύπτῳ διάθεσιν γενέσθαι (Dicono che pure Talete e il matematico Ippocrate esercitarono il commercio e che per Platone la disponibilità alla vendita in Egitto di un certo olio fu il prezzo del viaggio).
Diogene Laerzio, III (II-III secolo d. C.), Vite dei filosofi, III, 6: Ἔπειτα εἰς Κυρήνην ἀπῆλθε πρὸς Θεόδωρον τὸν μαθηματικόν κἀκεῖθεν εἰς Ἰταλίαν πρὸς τοὺς Πυθαγορικοὺς Φιλόλαον καὶ Εὔρυτον. Ἔνθεν τε εἰς Αἴγυπτον παρὰ τοὺς προφήτας (In seguito si recò a Cirene presso il matematico Teodoro e da lì in Italia presso i pitagorici Filolao e Eurito. Da lì in Egitto presso gli indovini).
Se le firme di Valerio Massimo, Strabone e Diogene Laerzio contano qualcosa, che il viaggio sia effettivamente avvenuto non si discute. Si può discutere, invece, il pagamento del biglietto, per via dell’estrema genericità di quel φασιν (dicono) che rende quella di Plutarco una testimonianza indiretta, di seconda mano e, per giunta, anonima.
Corretto, perciò, mi appare quanto leggo in Abel Jannière, Platon, Seuil, Parigi,1994, p. 30: Le voyage en Ègypte est un voyage classique, facile, peux coûteux, qui est le rêve facilement réalisable de beaucoup de Grecs. Platon aurait payé son premier voyage en négociant un cargaison d’huile produite par ses oliveraies (Quello in Egitto è un viaggio classico, facile, poco costoso, che è il sogno facilmente realizzabile da molti dei Greci. Platone avrebbe pagato il suo primo viaggio vendendo una partita di olio prodotto dai suoi oliveti).
Faccio notare come l’aurait payé (l’avrebbe pagato) ricalca fedelmente l’originale φασιν (dicono). Ora mostrerò pure come il condizionale correttamente usato dal professore è diventato indicativo tra le scimmie (non, una volta tanto, copia-incollatori) della rete. Un solo esempio per tutti: Se Eudosso si era rivolto ai suoi amici per finanziare il suo viaggio in Egitto, Plutarco ci informa che Platone aveva dovuto trasformarsi in mercante: “Platone sostenne le sue spese di viaggio vendendo olio in Egitto”. Infatti, come evidenzia il professor Abel Jeannière (Cfr. Platon, édition Seuil), egli ha dovuto negoziare dei carghi d’olio prodotti dai suoi oliveti. Il brano riportato fa parte di un testo più ampio, dall’accattivante titolo Platone: uno studente greco in Africa nera! integralmente leggibile in http://storiasoppressa.over-blog.it/article-culture-soppresse-platone-uno-studente-greco-in-africa-nera-da-africamaat-33372875.html).
Alla fine del link appena indicato si legge Jean-Philippe Ometunde (Traduzione di Ario Libert). Credo che il testo sia tratto dal saggio L’origine négro-africaine du savoir grec, Yaoundé, Menaibuc, 2000. Non avendo potuto fare un controllo del testo originale, non so se i travasamenti-travisamenti rilevati siano da imputare all’autore o al traduttore ma è certo che l’improvvisazione, in un campo o nell’altro, come in tutti, è deleteria e non coerente con il principio sbandierato nel penultimo periodo: La verità storica è lì, implacabile e resta valida per tutti, come se il certo (non il vero, che non è di questo mondo …) storico possa essere sganciato dalla corretta non dico interpretazione ma semplice lettura delle fonti.
E poi Abel Jannière (non è un filologo ma un filosofo; tuttavia questo non lo esime dalla citazione delle fonti …) dovrebbe spiegarmi in base a che cosa o a quale autore definisce l’olio venduto produite par ses oliveraies (prodotto dai suoi oliveti), come se il commercio dell’olio presupponesse necessariamente la proprietà di uno o più oliveti.
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1 1 Storie, I, 30, 1: Αὐτῶν δὴ ὦν τούτων καὶ τῆς θεωρίης ἐκδημήσας ὁ Σόλων εἵνεκεν ἐς Αἴγυπτον ἀπίκετο παρὰ Ἄμασιν καὶ δὴ καὶ ἐς Σάρδις παρὰ Κροῖσον ([Solone] dopo aver lasciato la patria per queste ragioni e per osservare giunse in Egitto presso Amasi e, appunto, a Sardi presso Creso).
Ingr.: 1 kg di patate dolci, 500 gr. di zucchero semolato, 500 gr. di ricotta di pecora, 2 uova, 100 gr. di cioccolato fondente, 1 limone non trattato, cannella in polvere.
Lessate le patate dolci, pelatele e passatele al passa verdure. Unite, alla purea ottenuta, 200 grammi di zucchero, le uova, la scorza grattugiata del limone e un cucchiaino di cannella. Stendete una metà dell’impasto ottenuto, in una teglia foderata con della carta da forno unta di burro. Unite, alla ricotta, i restanti 300 grammi di zucchero, il cioccolato fondente sbriciolato, amalgamate il tutto diligentemente e spalmatelo uniformemente sull’impasto steso nella teglia. Ricoprite con il rimanente impasto, lisciate uniformemente la superficie e infornate a 180 °C per una ventina di minuti.
Torta di patate dolci 2
Ingr. : 1 kg di patate dolci, 500 gr. di zucchero semolato, 8 uova, 100 g. di cioccolato fondente a pezzettini, 50 gr. di canditi, cannella in polvere.
Lessate le patate dolci, pelatele e passatele al passa verdure. Sbattete gli otto tuorli d’uovo con lo zucchero e un po’ di cannella, unite la purea di patate e lavorate diligentemente il tutto fino ad ottenere una crema liscia ed omogenea. Montate a neve ferma gli otto albumi, incorporateli alla crema di patate precedentemente ottenuta e unite i pezzettini di cioccolata fondente e i canditi. Versate il tutto in una teglia da forno imburrata, infornate subito in forno caldo e fate cuocere a 200°C per circa una ventina di minuti badando bene a non aprire il forno durante la cottura.
Pitta di patate dolci
Ingr. : 1 kg di patate dolci, 100 grammi di zucchero, 1 uovo, “perata” q.b. , 1 limone non trattato.
Passate al passa verdura le patate dolci lessate o ancora meglio cotte in forno, unite lo zucchero e amalgamate il tutto con l’uovo. Dividete in due parti l’impasto ottenuto, stendetene una parte in una teglia foderata con carta da forno e distribuite sopra uno strato sottile di “perata”, ossia di confettura di pere salentine e grattugiatevi sopra la buccia del limone. Ricoprite con il restante impasto, lisciate la superficie e bucherellatela con i rebbi di una forchetta e ponete in forno a 200 gradi per una ventina di minuti.
La batata (Convolvulus batatas L.), meglio nota come patata dolce o patata zuccherina, è una Convolvulacea coltivata estesamente in tutte le regioni del mondo a clima caldo, è diffusissima in Estremo Oriente e in America.
La sua coltivazione in Italia è limitata a modestissime superfici del basso Veneto, del Comasco, della provincia di Brindisi, e della parte nord-orientale della Provincia di Lecce.
E’ una pianta con radici abbondanti, ramificate, che s’ingrossano producendo formazioni tuberiformi anche molto voluminose, di forma irregolare, spesso piriformi, bianche, gialle, rosso-brune, o rosee, ricche di fecola e di zucchero, lattiginose, poco conservabili. Le foglie, di forma e colorazione varia, sono portate da steli striscianti e volubili.
Il clima congeniale alla batata è quello caldo-umido, per cui, il ciclo vegetativo di questa coltura in Italia va dalla primavera all’autunno.
L’antica varietà coltivata in Puglia, è una varietà molto rustica, vigorosa, quasi invadente, forma piante striscianti molto estese dall’elegante fogliame cuoriforme dalla bella colorazione rosso-violacea.
I tuberi sono solitamente di forma allungata con le due estremità sottili, ma anche globosi, di colorazione rosso-ocra. La polpa è giallastra e molto zuccherina.
La coltivazione inizia nel mese di febbraio-marzo mettendo a germogliare in vivaio, i tuberi raccolti nella campagna precedente e quando i germogli hanno raggiunto una lunghezza di 15-20 centimetri vengono messi a dimora.
La raccolta si esegue in settembre-ottobre, la resa per ettaro varia da 200 ai 400 quintali. La varietà coltivata in Puglia, si distingue per l’ottimo aspetto estetico, l’uniformità di colore, l’alta concentrazione di zuccheri e soprattutto, qualità più unica che rara, la prolungata serbevolezza, infatti si conservano perfettamente sino alla primavera successiva, tanto che, in diversi paesi è tradizione consumarle nel pic nic di pasquetta.
Le batate, anche se la loro produzione e di conseguenza il loro consumo sono molto calati negli ultimi decenni, continuano ad avere pur sempre molti estimatori. Oggi la loro destinazione primaria è in frittura; servite caldissime cosparse di zucchero semolato, si mangiano anche semplicemente lessate oppure cotte in forno a legna o sotto la cenere calda; e forse, sono proprio queste ultime due, le preparazioni preferibili poiché, a causa della concentrazione degli zuccheri, divengono particolarmente dolci e mielate.
Vengono pure impiegate per la preparazione di frittelle e di altri originali dolci, mentre è andata quasi completamente perduta la consuetudine di prepararle in umido, stufate, oppure in preparazioni che prevedevano l’accompagnamento con la carne e addirittura con il baccalà.
In principio c’era l’hortus, in italiano orto, cioè quel piccolo o medio appezzamento di terreno, spesso adiacente alla casa, recintato da muro o da siepe e destinato alla coltivazione di erbaggi e piante da frutto.
L’aspirazione iniziale in hortus denunzia la sua parentela con il greco χόρτος (leggi chortos)=recinto per il pascolo, terreno da pascolo, erba, nutrimento.
Poi in latino quel concetto di adiacenza, di compagnia presente nella precedente definizione di orto trovò espressione nel composto cohors=coorte, formato da cum=con e da hortus. La coorte [da cohòrte(m), accusativo di cohors), infatti, era l’unità della legione romana formata da tre manipoli e sei centurie.
E da cors, variante di cohors [anzi dal suo accusativo corte(m)] nacque corte che, recuperando il significato pacifico dell’antenato greco χόρτος, designò lo spazio attiguo alle case coloniche, cinto da siepe o muro, da cui si accede alla stalla. La voce dialettale salentina è maschile plurale (li curti) e forte sarebbe la tentazione di ipotizzare che il genere sia un ricordo di quello della voce greca (che è maschile) se non fosse quasi certo che è un adattamento dall’italiano le corti indotto da quella desinenza -i apparentemente maschile (in realtà è dal latino plurale cohortes).
Sbaglieremmo se considerassimo la corte strettamente legata al mondo contadino. Ne è riprova il modello abitativo condominiale che in passato era particolarmente diffuso tra le classi meno abbienti: la cosiddetta casa a corte, oggi considerata come un esempio di archeologia urbana, ove il cortile interno ospitava di norma i servizi comuni (il pozzo, la pila e l’eventuale fossa destinata al travaso dei rifiuti organici provvisoriamente depositati nel water dell’epoca, lu càntaru).
Bisogna riconoscere, però, (magra consolazione!) la democraticità della parola che, nata contadina, indica pure la residenza di un sovrano e più spesso, in senso collettivo, la sua famiglia e tutto il seguito; e poi una sfilza di titoli di alcune magistrature giudicanti, come, per citare solo quelle che mi vengono lì per lì in mente, corte d’appello, corte costituzionale, corte marziale. Nemmeno la sfera del divino si salva con la corte celeste.
Stavo per dimenticare, poi, la corte, cioè quell’insieme di atteggiamenti gentili (sinceri se frutto di innamoramento, ipocriti se dovuti al calcolo), considerati tipici, se non esclusivi, degli uomini di corte, cortesi appunto, messi in atto per conquistare (sentimentalmente e non solo) qualcuno.
E poi, come non ricordare,, dato che il fenomeno è tutt’altro che obsoleto …, la cour des miracles (corte dei miracoli) che nellaParigi medievale designava la zona popolata da gente equivoca e da mendicanti, i quali durante il giorno si fingevano ciechi, storpi e chi più ne ha più ne metta, disfacendosi “per miracolo” di notte delle loro mentite infermità?
In questo continuo slittamento dalle stalle alle stelle poteva la voce mancare nell’inno nazionale (… stringiamoci a coorte …)? Benigni tempo fa stigmatizzò la tendenza a sostituire il corretto coorte con corte, che, come abbiamo visto, ne è la forma contratta. Però da lui, che si considera o è considerato di sinistra, mi sarei aspettato ben altro e, cioè che, dopo aver chiarito che la monarchia (corte) con l’inno non ha (o non dovrebbe avere …) nulla a che fare e che coorte vuole esprimere la compattezza di un popolo deciso a far valere i suoi ideali, primo fra tutti la libertà, da lui, dicevo, mi sarei aspettato una noterella filologica sui natali contadini di questa parola …
La festività di Tutti i Santi è occasione utile per ricordare una eccezionale donazione dell’abate Domenico Roccamora, allora rettore del Seminario della Compagnia del Gesù di Roma, alla Cattedrale di Nardò effettuata nei primi decenni del ‘600.
Il prelato, con lettera accompagnatoria del 10 febbraio 1612, difatti, aveva fatto dono all’ università neritina dei corpi, con le loro teste, di S. Vittore martire e di S. Teodora vergine, ed altre reliquie di santi contenute in due grandi reliquiari che oggi sono esposti alla venerazione dei fedeli nella chiesa madre neritina. Tra le varie disposizioni del presule si legge nell’atto notarile che le reliquie sarebbero state conservate in apposita cappella in Cattedrale, di patronato dell’ università, ancora esistente e serrata da due grandi ante, aperte solo in questa giornata ed in particolari festività. Si tratta de “lu stipu ti li Santi”, nella cappella della navata sinistra, abbellita e definitivamente sistemata sotto l’episcopato di Mons Ricciardi, sul finire del secolo XIX. Lo stemma del vescovo difatti è finemente scolpito sulle due grandi ante.
Oltre la donazione è bene anche notare la particolare e poco nota richiesta del prelato. Nell’atto del marzo 1612, per notar Palemonio da Castellaneta rogante in Nardò, si legge infatti che le reliquie donate alla Cattedrale
Il teatrino dei guitti che col carrozzone, di tanto in tanto, allietavano i pomeriggi domenicali, si basava su delle figure statiche (i santi, interpretati dagli stessi guitti) che – a tende abbassate , nel segreto di cinque cabine – andavano indovinate solo attraverso suoni o rumori alludenti a una particolarità episodica o iconografica del santo.
GUSTO DELLA SCOMMESSA
ED OSTENTAZIONE DELLA CONOSCENZA SACRO-CULTURALE
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
Fra gli spettacoli piazzaioli che di quando in quando interrompevano la monotonia delle domeniche paesane offrendo ai contadini un gradito diversivo al loro abitudinario incontrarsi, bere un quarto di vino assieme e parlare di lavoro, il più elettrizzante era “Lu tiatrìnu ti li santi a ‘ndiniéddhru” (“Il teatrino dei santi da indovinare”). E questo non perché offrisse un maggiore divertimento, che anzi, al confronto delle spericolate esibizioni dei funamboli, delle clownesche uscite dei saltimbanchi o delle lunghe tessiture dei cantastorie, poteva dirsi misero – basato com’era su delle figurazioni statiche e prive di un qualsiasi commento verbale -, ma per la capacità di coinvolgimento che esercitava. Una forza dovuta unicamente alla formula d’impianto, studiata in modo di garantire agli spettatori, oltre al godimento della fruizione – comune a tutti gli spettacoli -, la possibilità di una partecipazione nonché esibizione personale, con ciò venendo a centrare quelli che – al riguardo – erano i due punti sensibili della psiche contadina: il gusto della scommessa sostenuto dalla speranza di una vincita, e la soddisfazione di potere pubblicamente ostentare la personale conoscenza sacro-culturale acquisita attraverso li cunti ti li santi patriarchi (i racconti dei santi patriarchi), al cui tramando orale scrupolosamente attendevano gli anziani ritenendolo inescludibile patrimonio del sapere familiare.
Era infatti sulla rappresentazione di personaggi arcaico-biblici o neotestamentari che il suddetto spettacolo si imperniava, ovviamente
E’ una spezia tipica dell’ Europa meridionale e del Medio Oriente! Una pianta da rivalorizzare massimamente nel nostro Salento! …
Finalmente ho scoperto il nome di questa specie di pianta che da tempo ho osservato nel Salento e che persino son riuscito a ripropagare con grande successo. Tutto questo grazie all’ amico facebook Gabriele Maiorano, che mi ha chiesto in questi giorni se fossi a conoscenza della presenza di questa specie nel Salento! Cercando in internet foto della specie da lui indicatami finalmente ho scoperto il nome tassonomico da me tanto cercato. (Per lo meno, la coincidenza di tutte le caratteristiche è massima!)Ne ho trovato sin ora due stazioni nel basso Salento.Una, osservata nel luglio 2012 alla periferia sud del paese di Melpignano (Lecce) con anche esemplari maggiori lungo i margini di un campo e tantissimi esemplari piccoli, una distesa. il tutto purtroppo in un’area di espansione edilizia.L’altra, osservata diversi anni prima, e da cui ho prelevato dei virgulti con radice, ben più piccola, l’ ho osservata lungo l’attuale vecchia strada SS 275, lungo, se non erro, il tratto Alessano-Gagliano del Capo (Lecce), nei pressi di un semaforo, cresciuta sul margine strada entro un muretto a secco.
E quindi la terza stazione quella che ho fatto nascere io stesso, in un giardino non di mia proprietà, in contrada Luci in agro di Scorrano (Lecce)!
Foto di Oreste Caroppo: Melpignano (Lecce) periferia sud del paese, nei pressi del convento degli Agostiniani noto per il grande concertone della Taranta, formazione estesa di Rhus coriaria, il Sommacco siciliano. Data dello scatto: un pomeriggio del luglio 2012
Tradizione e innovazione nella coltura “mediterranea”.
Venerdì 7 novembre h. 8:30 – 18:30
Tenuta Malcandrino, Prov.le Lecce – Monteroni
di Giancarlo Leuzzi
Il programma si articola in un incontro informativo e in un workshop.
Il workshop, in particolare, è volto a fornire sia spunti teorici, attraverso l’intervento tecnico di comprovate professionalità attive nell’ambito della ricerca scientifica, sia di tipo pratico, con l’esperienza diretta di esperti, di produttori e di esponenti del tessuto associativo e aziendale.
INCONTRO INFORMATIVO
Giovedì 30 ottobre h. 18:30
Palazzo Baronale, Monteroni di Lecce
PROGRAMMA
SALUTI
Dr. Pasquale Giorgio Guido
Sindaco di Monteroni
On. Avv. Giuseppe Taurino
Presidente GAL Valle della Cupa
Dr. Cosimo Valzano
Presidente Consorzio Comuni Nord Salento Valle della Cupa
Dr. Alessandro Capodieci
Direttore Marketing GAL Valle della Cupa
INTERVENTI
Prof. Antonio Costantini
Studioso del paesaggio salentino
Dr. Pierfederico La Notte
CNR – Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante – UOS Bari
COORDINA
Dr. Agronomo Giancarlo Leuzzi
Nell’ambito dell’incontro saranno illustrate le finalità e il programma del workshop.
Degustazione di prodotti tipici delle aziende: DONNA OLERIA – AZIENDA VINICOLA VERGALLO – MOCAVERO SRLS
WORKSHOP – DALL’ARIDITÀ ALLA BIODIVERSITÀ
Venerdì 7 novembre h. 8:30 – 18:30
Tenuta Malcandrino, Prov.le Lecce – Monteroni
PROGRAMMA
h. 8,30
REGISTRAZIONE PARTECIPANTI
SALUTI
On. Avv. Giuseppe Taurino
Presidente GAL Valle della Cupa
Dr. Cosimo Valzano
Presidente Consorzio Comuni Nord Salento – Valle della Cupa
h. 9.30
WORKSHOP – PRIMA PARTE
INTERVENTI
Dr. Piero Medagli
Botanico presso Università del Salento
“ASPETTI NATURALISTICI E AMBIENTALI DELLA VALLE DELLA CUPA”
Dr. Mino Specolizzi
Presidente Associazione Culturale L’Orto dei Turat
“I PROCESSI DI PRECIPITAZIONI OCCULTE”
Dr. Agronomo Giancarlo Leuzzi
“ARIDOCOLTURA E BIODIVERSITÀ NEL PANIERE DEI PRODOTTI AGROALIMENTARI DEL SALENTO”
Sig. Luciano Erroi
Presidente Associazione Albicocca di Galatone
“L’ALBICOCCA DI GALATONE”
Sig.ra Barbara De Matteis
Bar Cotognata Leccese
“UN PRODOTTO DI ECCELLENZA SALENTINO:LA COTOGNATA LECCESE”
COFFEE BREAK
Dr. Francesco Barba
Azienda Agricola Donna Oleria
“ESPERIENZE AZIENDALI DI PRODUZIONE DI OLI EXTRAVERGINI DA OLIVA DI ALTA QUALITÀ”
PAUSA PRANZO
h. 14.30
WORKSHOP SECONDA PARTE
PROIEZIONE DEL DOCUMENTARIO:
“NEL GIARDINO DI TUTTI: COME CONSERVARE LA BIODIVERSITÀ VEGETALE”
A cura dell’Orto Botanico del’Università del Salento, introduce Piero Medagli
INTERVENTI
Dott.ssa Laura D’Andrea
Ricercatrice CRA-SCA – Unità di ricerca per i sistemi colturali degli ambienti caldo aridi
“PRINCIPALI RISULTATI OTTENUTI SULLA CANAPICOLTURA IN AMBIENTI CARATTERIZZATI DA CLIMA CALDO ARIDO”
Sig. Edoardo Trentini
Titolare dell’Azienda Agricola “I Contadini”
“LA COLTIVAZIONE DEL CAPPERO DEL SALENTO”
Dr. Francesco Minonne
Ricercatore scientifico, esperto di biodiversità e fruttiferi minori
“IL SUCCESSO DEL FICO NELL’AGROBIODIVERSITÀ SALENTINA: IMPIANTI PRODUTTIVI E COLLEZIONI VARIETALI”
ALTRI CONTRIBUTI
Sig. Ernesto Malerba
Collezionista di gelsi
Dr. Agronomo Antonio De Santis
Produttore di legumi a rischio erosione genetica del Salento
Sig. Fabrizio Buttazzo
Collezionista e produttore di Capsicum annuum
Cooperativa ‘Nuova Contadina’
Produttori di pomodori d’inverno e conserve alimentari
h. 18,30
CHIUSURA LAVORI
Coordinamento scientifico, programma e organizzazione sessioni: dott. Agronomo Giancarlo Leuzzi
Un vecchio proverbio recita: “ci sparti ricchezza te rimane povertà” (Se dividi la ricchezza resta la povertà).
Famiglie contadine che possedevano un qualche fazzoletto di terra hanno sempre generato cospicua prole. Ai figli quella terra s’è divisa. Ciò che era abbastanza per tutti diventa, di colpo, insufficiente per ciascuno.
Per fortuna che i figli “si prendono le scuole”, si apre la via della professione e la campagna resta li, inutile e incolta. Testimone del passato, problema del presente e facile preda di razziatori futuri.
Ogni tanto a contrastare questa evoluzione (sic!) c’è di mezzo l’amore. Non quello bucolico, eroico o romantico. L’amore normale, quello che fa incontrare due persone che si trovano attraenti, si comprendono, condividono un progetto di vita e se la giocano insieme. L’amore normale che non ammette repliche, che ti incontri a luglio, ti frequenti qualche mese, ti piaci, ti capisci in ottobre e l’aprile successivo ti sposi.
Come a chiunque si ama dovrebbe esser permesso. Perché l’amore è la potenza più grande che l’umanità ha a sua disposizione per salvare se stessa da se stessa.
Grazia e Francesco hanno “le scuole”, un bel lavoro “cittadino”, una eccellente carriera di fronte che, per amore, diventa un luminoso futuro alle spalle.
Ci si può amare davvero vivendo in grandi città, in Italia ed in Svizzera, trattando “grandi clienti finanziari” o compagnie di comunicazione di “grandi clienti”?
Si, forse è possibile, magari lo fanno in tanti ma i Barba (cognome comune ad entrambi) piantano tutto. E scoprono che piantare è la loro passione. Piantare ulivi.
In verità ne hanno ereditati qualche decina di ettari e la scelta che si prospetta è: coltivarli per hobby o dedicarsi a loro.
Scelgono la seconda. Impavidi e/o incoscienti.
Una laurea in Scienze Bancarie e una in Economia e Commercio che prospettiva possono avere in agricoltura? Eccelsa.
Perché prima della Laurea conseguita nelle Università c’è una expertice imparata sul campo da ambedue. Una bella villa in contrada Saetta e, a qualche chilometro, queste stupende campagne immerse nella “conca aurea” posta tra Monteroni e Copertino: una distesa di terre fertilissime.
Alberi di Celina di Nardò, di Ogliarola e di Leccino curati fino alla paranoia, non una foglia di secco a pagarla a peso d’oro, una squadra di maestranze che conoscono quelle campagne e quegli alberi palmo a palmo.
Francesco ha una fissazione: la qualità delle olive. Nulla è lasciato al caso o trascurato, dalla potatura “a piani” eseguita ogni anno, alla raccolta con pettinatura distinta per cultivar e rispettando, ovviamente, i differenti tempi di maturazione.
E mentre passeggia tra gli alberi, alcuni giganti di sette-otto secoli, mostra con fierezza ed emozione il frutto del suo lavoro, delle terre che ha comprato e alle quali dedica ogni ora della sua felice esistenza.
Grazia invece “ci mette il naso”. A parte la comunicazione che era il suo mestiere, ha studiato da sommelier dell’olio e ha abbinato delle indubbie doti personali con l’amore per la campagna trasmesso dal padre, medico di fama che continua, imperterrito, a seguire la terra da sempre.
I Barba e gli ulivi sono una cosa sola, forse derivata dalla comune radice, una trisavola di entrambi, lontanissima nel tempo che si chiamava Oleria, assai probabilmente dal nome di una bellissima farfalla.
Ma a lei è intitolata l’azienda: Donna Oleria (non Olearia) di Monteroni. I prodotti (due monovarietali, celina e ogliarola, e una Dop Terra d’Otranto insignito delle Tre Foglie dal Gambero Rosso) sono orientati alla altissima qualità e sono il “segreto” di molti Chef nazionali le cui stelle rifulgono nel firmamento della cucina.
Grande prodotto dei campi dunque, raccolta pettinata e molitura immediata a … 25 Km di distanza. Vernole, cooperativa Sant’Anna.
Urge vedere, sentire, scrutare. Un opificio che trasforma olive un tempo si chiamava “trappeto”, noto comunemente come “frantoio” assai diffuso nel Salento soprattutto in forma ipogea. Un tempo, le mamme chiamavano “trappitari” i figlioli che tornavano a casa sporchi e inzaccherati, perché nel frantoio imperava il grasso, la cenere e, diciamolo, la sporcizia per le particolari modalità di lavorazione e di commistione fra uomini e animali che convivevano, spesso, per l’intera “campagna” sotto il comando di un capo, il “nagghiro”, versione dialettale del “nocchiero”.
Cooperativa Sant’Anna, tre linee di produzione completamente automatizzate, l’unico odore che si sente è quello delle olive appena frante, il rumore è abbastanza forte e gli operai, sotto l’abile guida del Sig. Gianni, moderno “nagghiro”, si muovono lesti e silenti: hanno abiti da lavoro eleganti, lindi e personalizzati. Anche guardando le fughe del pavimento non si trova una striscia di unto o di umido a pagarla in contanti.
Un signore con il volto segnato da rughe profonde che sanno d’antico, dalle mani forti di chi ha conosciuto ogni tipo di fatica ma ha ancora energia per conoscerne altrettanta, si presenta come Michele.
È l’ammiraglio di questa cooperativa che, in sette anni, ha virato profondamente affidandosi a energie giovani guidate saggiamente e con determinazione da un sessantacinquenne dagli occhi che trasudano cultura e coraggio.
Eccellenze che si uniscono e che, in pochi anni, cambiano l’età media dei produttori di olio e la qualità dell’olio medesimo.
Quanta cultura da presentare abbiamo e non dobbiamo nemmeno aspettare il 2019, se solo torneremo a coltivarlo, il futuro, ci darà frutti dolcissimi.
Dovrei dire di Jack e di mamma Giovanna, ma è la prima pagina sull’olio e mi sia concesso di pensare ad una spremitura di leccina e ad una giovanetta che mi piace immaginare come Miss Marianne di Sherwood che se la gode con il buonissimo pane del Salento.
Nome: Terra d’Otranto
Tipo: Olio Extra Vergine di Oliva DOP Composizione: 60% Ogliarola, 30% Celina di Nardò, 10% Leccino
Note organolettiche:
Colore: Giallo brillante con riflessi verdi. Naso: vegetali freschi, erbaceo floreali (carciofo) e frutta appena colta Gusto: richiama il naso e prosegue, lungo con una giusta nota di amaricante e pungente
Acidità: 0,3 Oleologo: Carmelo (Nino) Buttazzo
Nome: Tra due mari
Tipo: Olio Extra Vergine di Oliva Composizione: 100% Celina di Nardò
Note organolettiche:
Colore: Verde brillante con riflessi giallo oro Naso: Tipico della varietà, media intensità di frutta rossa e gialla appena matura. Gusto: Armonico al palato, richiama la frutta rossa e finale amaro e pungente tipico della varietà.
Acidità: 0,3 Oleologo: Carmelo (Nino) Buttazzo
Nome: Tra due mari
Tipo: Olio Extra Vergine di Oliva Composizione: 100% Ogliarola Salentina
Note organolettiche:
Colore: Verde brillante con riflessi giallo oro Naso: Note erbacee, foglie di pomodoro e mandorla di media intensità, Gusto: Buona armonia, dolcezza e rotondità. Suadente e Armonico al palato, ha note gustolfattive dolci e profumate.
Acidità: 0,3 Oleologo: Carmelo (Nino) Buttazzo
Alcuni studiosi ritengono, che le cosiddette “specchie” cioè i grandi cumuli di pietre sparsi nel grande Salento e databili fino al Neolitico, possano essere considerati come dei condensatori di umidità. Sfruttando infatti il fenomeno della condensa, dovuto alla differenza di temperatura tra il giorno e la notte, permettono tal modo l’accumulo di acqua. Tale tecnica, ideata a causa della scarsa piovosità del territorio e dell’esigua circolazione superficiale di acque sul terreno calcareo, avrebbe esempi di epoca preistorica in varie parti del mondo ma è priva di riscontri scientifici.
Tuttavia, nel passaggio dalla caccia all’agricoltura, l’uomo ha fatto enormi progressi posando l’esperienza su pochi ma incontrovertibili dati, con i quali è sopraggiunto il suo successo. Nel Salento, come in ogni altro luogo dove andavano affermandosi le prime tecniche agricole, le relazioni tra uomo, piante ed aspetti pedoclimatici ne costituivano di certo le prime empiriche basi. Di qui, la ricerca e la selezione di specie locali distintesi per capacità di adattamento a condizioni sfavorevoli unita alle prime tecniche di sfruttamento del suolo e di quanto sovrabbondava, la pietra.
La resistenza alla siccità delle piante è stata certamente un fattore discriminante che, nel tempo, ha determinato un’ampia biodiversità, oggi ricercata e riproposta nell’ambito di scelte, a carattere cogente, di sostenibilità ambientale e ritorno a tradizioni e sapori quasi del tutto perduti. Di fatto, si tratta di un vero e proprio insieme, dove le relazioni tra l’uomo, le piante e il terreno con la pietra calcarea che è cavata, costituiscono ancor oggi un “sistema di paesaggio” nel quale l’opera dell’uomo è sempre stata presente, modificando nel tempo i tratti distintivi, siano essi materiali o immateriali, come nel caso delle tradizioni e della cultura.
Con la crisi economica si è riacceso l’interesse verso la cultura contadina e la sua economia di sussistenza. Di qui la riscoperta di specie e sapori e di tutto un mondo che dev’essere considerato come unico e indivisibile, oltre che meritevole di maggiore rispetto e tutela. Ma se l’olivo e la pietra ne costituiscono i tratti salienti, anche le specie eduli spontanee arricchiscono, nella biodiversità, questo complesso di fattori. Seminari e pubblicazioni di libri su piante spontanee e tradizioni gastronomiche salentine spopolano un interesse diffuso e partecipato.
I miei amici storni: a Lecce, in questi giorni e a Roma, nel ricordo di una storica nevicata e di un giuramento con stellette
di Rocco Boccadamo
Nel volgere lo sguardo verso l’alto, in direzione della distesa turchina, può talvolta capitare, specialmente durante le frequenti giornate terse e serene del corrente periodo autunnale, di cogliere uno spettacolo non consueto, che, almeno secondo il mio sentire, affascina in modo profondo.
Il riferimento attiene alle immense macchie, color grigio scuro, di storni in movimento, una serie di rapidissimi ghirigori, dalle forme più svariate, autentici ricami, mutevoli negli schemi e nei contorni, da un attimo all’altro.
Dalle piroette dei minuscoli alati, sembra quasi trasparire un senso di gioia e di divertimento.
V’è inoltre, che chiunque alzi e tenga l’attenzione fissa lassù, non può fare a meno di pensare che nessuna umana maestria pittorica o di cesello sarebbe in grado di dar vita, con getto talmente istantaneo, ad analoghi, mirabili e versatili disegni sul palcoscenico azzurro.
Personalmente, devo aggiungere, non senza chiedere venia agli scettici che dovessero leggere le mie note, che la visione in discorso m’ingenera, dentro, anche autentici moti ed effetti suggestivi, per un attimo sembrandomi, inspiegabilmente, di scorgere due volti affacciati da altrettanti piccoli squarci nello scenario pullulante lassù. Volti, che ho sempre vivi e stagliati indelebili negli occhi e non solo lì: il primo, di mia madre, il secondo, invece, d’una Madonna, esattamente della Madonna Bruna, così sono solito appellarla per via della tonalità dell’incarnato, effigiata in un antico e venerato quadro esistente nella Basilica Santuario De Finibus Terrae, in Leuca, sulla punta del Tacco d’Italia.
Ritornando al concreto, si tratta di foltissime tribù di piccoli volatili, giustappunto gli storni, della famiglia dei passeracei, intente a compiere processi migratori, soprattutto per proprie esigenze d’ambientamento climatico che stimolano la comprensibile ricerca dell’habitat maggiormente congeniale.
Nel corso di tali spostamenti, che possono coprire distanze notevoli, accade, anche, che gli uccelli si concedano brevi soste, sempre e immancabilmente a livello di schieramento complessivo.
Alla luce del sopraggiungere, ancorché di passaggio, di simili moltitudini viventi, se il transito e la presenza sono coincidenti con fasi di raccolto dei frutti della terra – ad esempio, adesso, le olive, che, come noto, man mano che maturano, cadono, in parte, spontaneamente e gradualmente sul terreno oppure restano a posare per un certo lasso di tempo su appositi teli a rete sistemati ai piedi delle piante – viene a montare, qua e là, qualche complicazione o perplessità o timore.
In altri termini, gli “ospiti” in discorso non sono visti propriamente di buon occhio da taluni proprietari di campi e/o agricoltori, paventando, quest’ultimi, che gli storni, per il loro nutrimento, facciano man bassa dei frutti.
A questo punto, però, scaturisce spontanea un’osservazione: ma, il fenomeno, non dovrebbe rientrare e inquadrarsi nell’ambito dei millenari processi della natura, delle stagioni e degli equilibri tra vegetazioni e fauna?
Si diceva prima, di fermate intermedie delle nuvole di pennuti e, al riguardo, v’è la peculiarità che, sovente, gli stazionamenti hanno luogo all’interno dei centri abitati, scegliendo, le creature del cielo, di prendere fiato standosene per un po’ appoggiate, o appollaiate, sulle chiome e fra i rami delle piante e/o alberi che svettano, conferendo salutare verde, nei quartieri cittadini.
Gradita e piacevole riprova di ciò, mi è stato dato di avere in un recente pomeriggio, passeggiando a Lecce nei dintorni di Piazza Mazzini, per la precisione lungo via Zanardelli, impreziosita da una bella infilata di giovani ma già svettanti alberi del genere “ficus”.
E si trovavano concentrati, a tratti saltellanti e a tratti semicelati fra quelle chiome, gli amici storni, venuti a salutare la capitale del barocco, protagonisti di un rumorosissimo concerto a base di svelti e reiterati cinguettii, senza limiti, infiniti.
Al che, ha decisamente arrestato i suoi passi il comune osservatore di strada, con l’intento di vivere da vicino la presenza degli uccellini, idealmente rivedendo ancora una volta, in alto, anche i loro assembramenti, nel caratteristico formato variabilissimo e geometricamente incontrollabile.
Molti i passanti che si sono fermati come me, fra stupore e allegria per il bizzarro concerto fuori programma: così, l’incontro a tu per tu con gli storni, nella città dove attualmente risiedo.
Tuttavia, il freschissimo spettacolo non l’ho registrato e assimilato alla stregua d’episodio isolato e localmente circoscritto. Mi ha, bensì, richiamato alla mente un’identica e ancor più grande esibizione, tra gli alberi che abbelliscono, a Roma, la piazza antistante alla stazione Termini.
Ricorreva la festività dell’Epifania del 1965, sulla capitale, la sera e la notte precedenti, era caduta un’eccezionale nevicata, si circolava esclusivamente a piedi, affondando sul morbido manto bianco, e io, che abitavo lì per ragioni di lavoro, dovevo recarmi a Rieti, ad assistere al giuramento del mio primogenito, da poco partito per il servizio militare.
Avanti di salire sul pullman di linea che, con una certa fatica mi avrebbe poi consentito di raggiungere la cittadina della Sabina, fui inaspettatamente gratificato dal buongiorno per opera di una foltissima tribù di storni, che, contrariamente alle persone, davano a vedere d’essere completamente indifferenti all’eccezionale precipitazione.
Storni, dunque, nell’attualità del ragazzo di ieri e storni correlati a stagioni lontane, quando andavo veleggiando intorno ai quaranta.
Adesso come allora, ad accompagnarmi, una sorta di personale marcata simpatia nei confronti di tali simpatici volatili.
Siamo tutti dispiaciuti per la mancata elezione di Lecce a Capitale europea della cultura 2019, ma qualche sia pur minima riflessione su questo verdetto, al di là della retorica e delle frasi fatte, bisogna pur farla. Vivendo parte della settimana a Roma, ho avuto modo – per mia fortuna? per mia sfortuna? – di assistere alla penultima audizione della delegazione leccese nella sede del MAXXI alla presenza della commissione esaminatrice (29 settembre). Confesso il mio imbarazzo nel vedere sul palco una rappresentanza all’insegna di “questa è la Lecce che conta”, “questa è la Lecce che ci piace” e nella quale io, cittadino salentino, ho faticato a riconoscermi. L’impressione era di avere di fronte non una rappresentanza cittadina, ma una delle tante “lobby” leccesi che con la cultura hanno poco a che fare; insomma un “consorzio” che – qualora fosse passata la candidatura – avrebbe gestito, secondo certe logiche, le abbondanti risorse.
Ma andiamo oltre. L’esposizione è stata a dir poco epocale, quando l’abitato di Lecce è stato genialmente paragonato a un uovo al tegamino (proiettato sul maxischermo!); o quando è apparsa la scritta “Sine putimu” che non è frase in latino maccheronico, ma la traduzione un po’ pasticciata dell’obamiano “Yes we can”.
Mentre si succedevano gli interventi, un dirigente del Ministero mi ha chiesto: “Ma chi sono questi? e di cosa stanno parlando?”; e poi un imprenditore salentino: “Ma perché mai non c’è al tavolo dei relatori qualcuno che parli di cultura, e soprattutto di Lecce?”.
Si, perché le cose dette potevano valere per qualsiasi altra città italiana, senza alcun richiamo alle peculiarità di questa città, famosa nel mondo per essere una Capitale del Barocco. Quest’ultimo termine l’ho sentito pronunciare raramente e a volte anche a sproposito. E lo spazio dato al Barocco nel “bid book” si limita, risibilmente, a poche righe.
Uno degli errori più clamorosi è stato di non costruire una candidatura seria partendo dall’identità di questa città, dal Barocco in primis. Invece l’assurdo slogan è stato: “Oltre il Barocco, la culla di un sogno nuovo”. E così il sogno si è infranto di fronte a una città come Matera che non ha provato vergogna alcuna a presentarsi per come è.
Agli inizi di questa avventura, sull’onda dell’entusiasmo, mi ero permesso di avanzare alcune proposte relative al Barocco ma anche al paesaggio salentino, temi a cui ho dedicato gran parte dei miei studi. Non essendone stata accolta alcuna, ho pensato bene di farmi da parte.
Passeggiando giorni fa per piazza S. Oronzo ho visto alcuni blocchi di tufo gettati in terra alla rinfusa, come in una discarica. Leggo la didascalia: “Barock ‘nd roll”. Ecco la fine che ha fatto il Barocco! “Ma cosa c’entrano questi massi erratici con il Barocco” si saranno chiesti i commissari passeggiando per le vie di una Lecce improbabile, con i negozi e i monumenti aperti a tutte le ore, con gli studenti invitati a disertare le lezioni per dare l’immagine di una città viva? Un po’ come quando, ai tempi delle visite di Mussolini, si allestivano facciate posticce e si spostavano le popolazioni.
Durante la preparazione del primo “dossier” avevo offerto la mia disponibilità per redigere una lista di “testimonials” eccellenti, che avrebbero potuto dare forza alla candidatura: studiosi del Barocco di fama internazionale ai quali siamo collegati grazie a una “rete” di Centri di Studio, dall’Europa all’America Latina, ideata dal prof. Marcello Fagiolo. Avere l’adesione di membri dell’Accademia dei Lincei e di professori emeriti di tante università sparse nel mondo avrebbe sicuramente costituito una carta vincente. Mi è stato risposto: “Abbiamo i nostri canali e le nostre idee”. Può darsi, ma se le idee sono quelle poste in atto, uno slogan di Al Bano a favore di Lecce vale quanto quello di Gianna Nannini a favore di Siena: cioè zero. A proposito di Centri Studi sul Barocco, della “rete” faceva parte un tempo anche il Centro Studi di Lecce,ma pare sia stato deciso di metterlo “in sonno”: un altro brutto segnale.
È stata quella di Lecce una candidatura fondata sul nulla, cioè su slogan di significato poco comprensibile. Avranno capito i commissari il significato di parole come “profitopia”, “artopia”, “ecotopia”, “esperientopia”, “democratopia”, “polistopia”, “talentopia”, “edutopia”? La leggerezza va bene, i manifesti con persone saltellanti anche, ma poi ci vogliono i contenuti. Se i commissari in una fase iniziale hanno chiuso un occhio su questa operazione “di facciata”, con la regia di un bravo animatore culturale quale Airan Berg, non lo hanno fatto una seconda volta.
Peggio ancora, Lecce è città dove non si fa più cultura. Mancano le sedi, soprattutto dopo la situazione di “stand-by” del Museo Castromediano; è vero, dimenticavo, c’è il Must che avrebbe però dovuto in primo luogo ospitare un Museo sulla storia della città il cui fantasma si aggira ancora per le sue stanze.
Manca una visione lungimirante, una volontà di aprirsi a nuove idee. Ci si continua ancora a dibattere sull’area della Caserma Massa (inserita persino nel “bid book”!) avendo davanti un progetto indecente sotto il profilo architettonico e urbanistico, indegno della nostra città.
A Lecce le istituzioni non dialogano: Comune, Provincia, Soprintendenza (mai invitata al tavolo di Lecce 2019!), Università. Lecce non ha un buon rapporto con la sua Università: le sedi universitarie sono distribuite secondo logiche che nulla hanno a che vedere con le reali esigenze degli studenti.
Ho citato l’Università, la mia Università. Anche l’Università ha le sue responsabilità su “Lecce 2019”, avendo privilegiato una visione fondata prevalentemente sulla progettazione dei processi culturali, sull’economia del turismo, sul management delle aziende culturali con la conseguente esclusione, di fatto, di non poche forze che avrebbero dato un forte contributo (mentre dietro tante scelte di Matera c’è stato l’apporto ben leggibile di Università e uomini di cultura).
Per anni, insegnando Storia dell’architettura, mi sono battuto – unico docente del settore – per far comprendere l’importanza di questa disciplina in una città che possiede un patrimonio storico-artistico inestimabile. Anche dall’interno di questa istituzione è partita una campagna ambigua per demonizzarel’identità prevalente di Lecce.
A conclusione di questa memoria, il mio pensiero va ai tanti giovani che per mesi hanno sposato con entusiasmo questa causa e hanno messo a disposizione le proprie competenze e le proprie idee, sognando un traguardo al quale non si è purtroppo arrivati. Sono questi giovani la vera risorsa e la faccia più bella di “Lecce 2019”.
*Professore ordinario di Storia dell’Architettura. Università del Salento
Pubblicato su “Nuovo Quotidiano di Puglia”, 21 ottobre 2014, p. 1.
Quando i cretini utilizzano i social network il pericolo può diventare reale. Ricordo il caso emblematico di Erika e Omar a Novi Ligure. I ragazzi dissero di aver visto fuggire “un marocchino” dalla casa di lei nella quale erano stati massacrati il suo fratellino e la madre, subito alcuni xenofobi (che ora sappiamo anche fascisti) della lega nord avviarono ronde e la caccia all’immigrato, per i poveri stranieri furono giorni di tragedia, barricati in casa, con il rischio de linciaggio per strada. La fine della storia la conosciamo, i ragazzi erano i colpevoli, però il vulnus era fatto, la pax sociale rotta prima dall’efferato sgozzamento, poi dallo stile Ku Klux Klan delle ronde leghiste.
Surbo, venerdi 24 ottobre 2014, una bimba di 11 anni dice di aver subito in tentativo di rapimento. Immediatamente i social intervengono in modo massiccio, inviando dettagliatissime descrizioni del furgone giallo dei presunti rapitori, qualcuno mette addirittura le foto di due ragazzi. Whatsapp fa si che la notizia arrivi immediatamente in ogni angolo del Salento con la scritta: fate girare! Non si sa bene perchè poi. I carabinieri di Surbo, che sono inquirenti capaci di distinguere il falso dal vero, in poche ore fanno si che la ragazzina dica la verità: “mi sono inventata tutto”. Non ci interessano i motivi per cui l’ha fatto, il problema riguarda la famiglia o eventuali assistenti sociali. Quello che importa è che qualcuno, sostenendo che la fonte della notizia erano i carabinieri, ha osato mettere in moto la più orrenda macchina da guerra: la caccia all’uomo in stile KKK.
I messaggi sono tracciati, la speranza è che qualcuno indaghi su chi ha osato tanto e agisca di conseguenza denunciando e possibilmente con la condanna al massimo della pena possibile. Di madri isteriche che hanno girato il messaggio senza porsi alcun problema e di personaggi che utilizzano comportamenti criminali nei fatti purtroppo è pieno il web.
Occorrono leggi severissime in materia di diffusione di notizie che hanno come unico scopo la creazione di tensioni, razzismo, violenza gratuita. Soprattutto occorre un ripensamento globale. Penso che siano volati SMS a Latina fra le mamme belline, pulitine, carucce che hanno costretto una bimba fuori dalla scuola materna perché in via squisitamente teorica avrebbe potuto avere l’ebola. Se si utilizzasse lo stesso criterio con i bimbi che hanno la “colpa” di avere madri cretine quella scuola sarebbe d’elite, pochi ma ottimi.
Direte, è un “ingenuo”, ma io amo Candido, quello ottimista di Voltaire e anche il Candido Munafò di Sciascia e con Candido dico che il problema non è di qualità o meno del Bid Book, o colpa della pioggia che ha rovinato il giorno dell’Eutopia o di Airan Berg o di chissà chi. No, candidamente penso che ciò che è mancata a Lecce 2019 è la spinta della politica, quella dei Big.
C’era per Lecce 2019 uno come l’europarlamentare di lungo corso Gianni Pittella, lucano, fratello del presidente della Regione Basilicata Marcello Pittella, che sogna la Capitale della Cultura Europea per Matera da quando è giunto a Bruxelles nel 1999? No, noi non lo abbiamo avuto! E allora, è andata come è andata. E ancora, se si è potuto sperare nell’autonomia di giudizio della giurati europei, la speranza (la mia), s’è stinta quando, a quelli, si sono aggiunti gli altri di nomina governativa. Poi, mi son tornate all’orecchio le trasmissioni dedicate a Matera da Radio Rai Tre, la voce saputa di Marino Sinibaldi e tutto l’ambaradan che ne consegue e, come Candido, ho pensato: certo, Matera merita di fare la Capitale Europea della Cultura nel 2019, ma anche Lecce e il Salento l’avrebbero degnamente e magnificamente meritato, soprattutto per il grande movimento creativo qui originalmente nato che la Basilicata tutta, certo, non esprime.
Ha vinto comunque il Sud, ma c’è Sud e Sud e noi certo siamo più Sud: quello dei visionari e dei Santi, quello di Candido, degli sciocchi, dell’illusione e della festa. Ma questo, forse, è un altro discorso.
Allora, lasciamo acquietare i clamori, il “giorno dopo” pare sia lungo. Molta l’amarezza per chi ci ha creduto molta anche l’acrimonia di chi non conosce l’esercizio della critica e gode della “sconfitta” affilando “parole” in un autocompiacimento mai propositivo, mai volto al fare… Ma consumare parole non è solo di costoro c’è anche altro da tenere in conto. A questo punto, potremmo pensare di farci invece che Capitale solo e semplicemente “città europea nel Mediterraneo”.
Sedimentare l’esperienza è la chiave di ogni buon progetto, pratica non molto amata da chi è abituato al tutto e subito, al consumare idee sul mercato del “marketing culturale” che immagina i territori come merce da sfruttare per il massimo guadagno senza mai voltare gli occhi per un bilancio, per guardare lo scempio compiuto o la risorsa messa a frutto. Questa volta speriamo che accada: il Salento, Lecce ha necessità di far pausa per prendere le misure del suo “progresso” e per tracciare una mappa dei suoi reali bisogni. Ancora una volta siamo chiamati ad interrogarci sul futuro e lo stop (lo schiaffo) venuto con il “no” per il 2019 è un’opportunità per frenare, per una salutare “revisione” di un processo che, senza soste è in atto dai primi anni Novanta. Credo ce ne sia bisogno, non si può proseguire nel proporre tutto e il contrario di tutto. Armonizzare il paesaggio, la sua natura di Parco, sarebbe il compito di una politica culturale (se abbiamo considerato la cultura traino di sviluppo) che fa politica partendo dalla risorsa territoriale. Mare, campagna, centri storici, risorse creative, queste le qualità da eleggere a guida dell’espansione urbana e delle opere con cui si interviene per dare servizi e per migliorare la nostra vocazione e l’appeal geografico.
Questo non accade. La politica (ma anche le persone) spesso (sempre) son distratte, si appassionano ad un’idea ma dimenticando la coerenza, elemento fondante di qualsiasi atto creativo. Coerenza e costanza operativa occorre per proteggere ciò che oggi è a rischio, ciò che oggi si deprime forzando il futuro. Credete che la lezione (lo schiaffo) servirà per trasformate Lecce e il Salento in ciò che spera di essere? Non serve chiederselo c’è solo da lavorare.
Su La Gazzetta del Mezzogiorno di venerdì 24 ottobre 2014
Il barbiere di Soleto, DNAdonna, La Porta Antica a Sternatìa e Tenuta Mezzana nei pressi di Aradeo, un tour nella Grecìa Salentina fra arte, impegno sociale e piacere del gusto
di Paolo Rausa
Le scoperte in Salento sono affidate al caso o meglio al fiuto. Certo, sono il frutto di frequentazioni, di storie, di passioni per la propria attività e di amore per la propria terra, questo Salento proteso verso il mare che con il suo capoluogo ha sfiorato il titolo di capitale della Cultura Europea, ma che sicuramente avrebbe conquistato se fosse stato tutto il territorio ad esprimere la sua vocazione di terra protesa verso il Mediterraneo, così come è stato nei secoli passati.
‘Questa terra è il sud d’Italia, la Porta dell’Oriente. Noi accogliamo tutti, siamo ospitali. Ne son passati tanti dalle nostre marine e non sempre con intenzioni amichevoli… I greci, i romani, gli arabi, i normanni, i saraceni, che hanno messo a ferro e fuoco Otranto e la costa, le crociate e poi gli spagnoli, i tedeschi e infine voi. Noi siamo così, dividiamo il poco che abbiamo. Guarda che bella questa terra! Ti dà e ti toglie tutto, devi saperla sedurre!’ – dice Immacolata ad Efrem, nello spettacolo teatrale ‘Volti delle donne di un tempo’, tratto dai racconti di Raffaella Verdesca ‘Volti di carta. Storie di donne del Salento che fu’, che verrà rappresentato a Soleto il 27 dicembre per le attività sociali dell’Associazione DNAdonna e di sostegno alle donne che subiscono violenza e sopraffazione.
Un incontro non programmato con Emanuela mi ha portato a percorrere altre strade incognite, che ora vi narrerò.
Non prima di avervi segnalato la Rassegna cinematografica sull’identità di genere ‘Altre Visioni’, ideata dall’Associazione DNAdonna, che parte domenica 26 ottobre alle ore 16.00 con il film Tomboy della regista Céline Sciamma in via Risorgimento 30/a (angolo viale Italia), a Soleto, con ingresso gratuito.
Da un mancato appuntamento all’incontro straordinario con un artista del capello, che ha decorato la sua piccola bottega artigiana di opere d’arte di grande levatura, sculture, pitture, sbalzi, ceselli, ceramiche, ecc. soprattutto dei fratelli Antonio e Paolo Lani. Ma la sua specialità è professionale con l’invenzione di una forbice ‘magica e portentosa’ che ha sostituito i vecchi attrezzi del mestiere: il rasoio, la forbice a denti e a taglio netto. Un meccanismo che consente in pochi minuti di sfoltire i capelli dalle fibre morte e inutili in modo da restituire nuovo gonfiore e lucentezza. In pochi minuti, sissignori! Sperimentato con successo da me. E’ impossibile non provare empatia umana con Elio Toma che adatta ai capelli la metafora della rimonda degli ulivi, della potatura delle piante e soprattutto per la sua visione ottimistica della vita, contagiante, come si propone di fare nei confronti dei suoi colleghi.
E’ lui a fine servizio, di cui mi ha fatto dono, a indirizzarci al ristorante La Porta Antica di Sternatia, parte di una vecchia masseria riadattata, che ci accoglie con un caloroso ‘Kalòs ìrtate’ di benvenuto e con pietanze di qualità giunte integre dalla tradizione. Buon prezzo finale: 20 €!
Il nostro tour salentino continua in direzione Galatina, Aradeo, via per Collepasso, dove ha aperto la cucina e le stanze ospitali la castellana Maria Casto, che ci accoglie con molta simpatia e ci offre the con frutta di stagione: mele cotogne e melograni. In altre sere cene speciali a base di peperoncino piccantissimo (il più terribile e allo stesso tempo il più piacevole è il Caroline) a cura del Club Amici del Peperoncino in Terra d’Otranto.
Si rientra finalmente soddisfatti, non primo di aver fatto visita alla cappella dei Santi Vito e Marina a Ortelle, dove è in corso la fiera del maiale, per ringraziarli – da agnostico – dei doni che hanno profuso a questa terra meravigliosa.
Info: DNAdonna, Ass. di volontariato per il contrasto alla violenza sulle donne, Via Risorgimento ang. viale Italia, Soleto (Le), tel. 347/12.33.700 (Centro d’ascolto), tel. 329/81.20.306 (Segreteria associativa); tenuta.mezzana@libero.it, tel. 339/4608631.
Come certamente a molti di noi accade, ci si ritrova a conoscere un determinato artista per mezzo delle opere che realizza. Di coloro i quali mi appassionano le creazioni, da qualche tempo, mi capita sempre più spesso di domandare informazioni biografiche, se non altro per cercare di comprenderne i celati aspetti che si mescolano con le tinte delle tele esposte. Con Salvatore De Magistris è accaduto esattamente questo e la personale curiosità mi è valsa l’intervista che segue.
Mi sono ritrovato nello studio grafico di un amico che possiede – alcune in bella mostra, altre gelosamente custodite – varie opere del popolare pittore. Approfittando della conoscenza mi faccio raccontare brevi cenni sul profilo personale e artistico del maestro per poi, sfacciatamente, chiedere se possa intercedere al fine di una conversazione privata con l’autore.
Ci siamo incontrati la settimana successiva. Lui è in clamoroso ritardo rispetto all’orario pattuito, ma non glielo faremo pesare, è giusto che si faccia attendere. La giornata è piacevolmente soleggiata e insisto per un caffè al bar, tanto per metterci comodi e presentarmi. Salvatore dà subito uno stampo informale alla chiacchierata partendo immediatamente col raccontarmi di come sia difficile fare arte in un paese meridionale e della scelta di dividersi tra la sua città natale, Nardò, e Düsseldorf (Germania).
D.:
In che modo ha inizio il tuo percorso artistico?
R.:
Devi sapere che già da ragazzino ero molto dotato: capii di saper disegnare quando, frequentando le scuole medie, mi capitava di scambiare i compiti di educazione artistica con temi di italiano o traduzioni di inglese. Per quanto riguarda invece la matematica me la cavavo benissimo da me.
Erano, quelle di allora, delle raffigurazioni ancora acerbe, ma tuttavia fu così che mi feci qualche soldino extra. Vendevo i miei bozzetti soprattutto a qualche vicino di casa, per avere la possibilità di acquistare altre tele e altri pennelli. In quello stesso periodo realizzai il primo studio di pittura sopra la mia abitazione.
Col tempo mi trasferii a Milano e da lì prese il via la mia vera e propria esperienza artistica.
D.:
Quali sentimenti hanno dato forma alle tue prime opere?
R.:
Iniziai credendo, abbastanza ingenuamente, che bastasse imitare, copiare i grandi maestri del passato come De Chirico, Mirò, Rembrandt o Kandinsky per ottenere qualcosa di simile alla notorietà, ma mi resi conto subito di quanto lontano fossi dalla realtà.
Durante un incontro con un famoso gallerista, per esempio, mi presentati portando una mia riproduzione del famoso dipinto di Dalì “Metamorfosi di Narciso” – al quale personalmente attribuivo notevole importanza data l’alta qualità e l’impegno che avevo profuso nella realizzazione – ma l’uomo, senza usare mezzi termini, fece crollare subito ogni mio castello constatando, a giusta ragione, che una copia resta pur sempre tale e priva di valore a prescindere da quando sia stata fedelmente riprodotta. Comunque non rinnego quelle opere, e sarebbe stupido farlo, poiché fanno pur sempre parte della mia formazione.
D.:
Tra gli artisti celebri che hanno condizionato le tue scelte artistiche quali ricordi?
R.:
Sicuramente Pablo Picasso e Amedeo Modigliani, Con la loro pittura, che definirei “gestuale”, hanno scalfito più efficacemente rispetto ad altri nelle aspirazioni di quel trasognato fanciullo che fui.
D.:
E la svolta quando è arrivata?
R.:
Quasi per caso trovai, sulla rivista mensile “Arte” della Mondadori, un concorso di pittura indetto dalla stessa Casa Editrice il cui risultato era dato dall’esito di un’asta pubblica. Io forse vi partecipai per noia, certo di addentrarmi in questa esperienza come ci si può imbattere nell’inferno di Dante: senza speranza di morte. Bèh, tu non ci crederai, fui premiato. E non ci credevo neppure io!
Quelle tele, che erano il frutto di tecniche per me del tutto sperimentali, rappresentavano ciò che il mercato pretendeva da me. Quella fu la tecnica che feci mia e che tutt’ora adopero per la stragrande maggioranza della produzione.
Grazie al concorso sopra menzionato già dall’anno 1993 le mie opere sono contenute all’interno dei cataloghi degli artisti contemporanei quotati.
D.:
Mi parlavi di Milano: cos’altro è accaduto lì?
R.:
Mi fu di grande aiuto la parentesi milanese per migliorare, per affinare la tecnica e per comprendere meglio le meccaniche, talvolta perverse, che muovono il Sacro Olimpo dell’Arte. Per circa venticinque anni stetti sotto l’ala di un importante mercante d’arte, che naturalmente lucrava sui miei dipinti e per questa ragione dovevo necessariamente produrre “a macchinetta”. Il meccanismo era semplice: per ottenere pezzi importanti da rivendere ai suoi clienti arrivava a scambiare diverse decine di miei dipinti per un Guttuso, o un’opera di Salvatore Fiume, molto commerciali già all’epoca.
Sicuramente la mia produzione durante quella lunga fase fu altissima e il valore fisiologicamente più infimo ma, ciò nonostante, non sarei quello che sono oggi se non avessi fatto quell’esperienza.
D.:
In Germania come ti ci sei ritrovato?
R.:
In quel periodo ero rientrato a Nardò per seguire mia madre durante la malattia durata tre lunghi anni, che la portò poi alla morte, e a Milano non mi erano rimasti più contatti, poiché anche il mercante di cui sopra era venuto a mancare. Ero solo e coi soldi contati, ma la voglia di rimettermi in gioco non mi mancava affatto.
Scelsi la Germania come banco di prova, per la sua rigidità e la serietà con la quale il suo popolo proverbialmente opera. Volevo capire se ero degno di continuare a dipingere o, viceversa, avessi dovuto abbandonare l’arte per dedicarmi ad altri mestieri.
Arrivato a Düsseldorf trovai un grande locale di circa 250 mq il quale si prestava perfettamente alle mie esigenze; facendo due conti in tasca calcolai che le mie forze mi avrebbero permesso di prenderlo in affitto per sei mesi al massimo; ciò vuol dire che se malauguratamente qualcosa fosse andata storta e si fosse volta al peggio io mi sarei ritrovato ad aver dato fondo ad ogni risparmio accumulato sino a quel momento.
D.:
Deduco che i tedeschi abbiano apprezzato il tuo modo di dipingere.
R.:
I tedeschi rappresentano un modello da questo punto di vista: non entra nessuno nella mia galleria se non si è prima informato su chi io sia, sono scientifici. Quando vengono non tergiversano, arrivano subito al sodo senza perdere tempo e sono dei pagatori impareggiabili. A questo proposito ricordo un aneddoto che ancora mi diverte raccontare al fine di qualche facile paragone: proprio agli esordi ero seduto alla scrivania del mio atelier quando entrò una donna molto distinta. Ella fece un giro veloce all’interno soffermandosi su un’opera 20 x 30 che evidentemente l’aveva attratta. Stette a meditare per pochi secondi e uscì. Non sarà passata un’ora da quando era andata via che la vidi rientrare in compagnia di un uomo. I due mi manifestarono immediatamente l’intenzione di voler acquistare il quadro – del quale conoscevano il costo perché lì le quotazioni sono esposte pubblicamente – porgendomi una busta contenente l’intera somma.
Nel mentre che lo confezionavo feci mettere comodi i signori offrendo un caffè e poi, come segno di cordialità, mi presi la libertà di applicare un sottile sconto restituendo una banconota dalla busta che mi era stata consegnata. Evidentemente l’azione dovette apparire come un grave sgarbo perché l’accompagnatore si indignò non poco del gesto e mi fece capire che, accettando il denaro, avrebbero dovuto screditare il valore dell’opera stessa. A quel punto cercai di spiegare che noi meridionali siamo fatti così e che “offrire un caffè” fa parte della nostra cultura. La donna sorrise e disse che le bastava quello nella tazza.
D.:
Veramente divertente e significativo questo aneddoto. Qualche altra esperienza a Düsseldorf?
R.:
Forse è doveroso che io dica grazie alla Germania per avermi fatto incontrare la mia compagna, Heike Waltraud Ruske, con la quale ci siamo conosciuti proprio per mezzo della mia arte. Heike aveva bisogno di un grande dipinto da inserire all’interno della sua abitazione. Voleva qualcosa di specifico da contestualizzare in un grande salone e io, non avendo nulla di pronto da adattare alle sue esigenze, mi proposi di fare un sopralluogo e constatare personalmente quali tematiche e quali colori si prestassero meglio a quell’ambiente. Mi misi all’opera e finiti i lavori le telefonai per la consegna. La sua reazione di manifesta soddisfazione mi stupì non poco perché personalmente non dò molta importanza a ciò che realizzo su commissione. Accettai quindi molto volentieri l’invito a trattenermi e parlammo di molte cose. Tantissime furono le domande che mi rivolse: era sinceramente stupita dal fatto che un artista, un pittore per giunta italiano si trovasse in un paese rigoroso come la Germania. Si appassionò talmente alla mia storia che decise di mettermi a disposizione gli innumerevoli contatti che aveva, oltre che tutte le risorse che credeva mi potessero tornare utili.
A seguito di quanto raccontato non posso dire quindi che l’attuale notorietà di cui beneficiano i miei dipinti all’estero siano frutto esclusivo del mio operato; senza il suo aiuto, la sua tenacia e il suo amore sarei tornato a casa molto prima. Le sono, per questo, estremamente riconoscente.
D.:
Ora potremmo dire che hai raggiunto un equilibrio nella tecnica. Sapresti collocarti in una corrente artistica? Se si, quale?
R.:
Francamente trovo riduttivo dovermi circoscrivere all’interno di una sola categoria di artisti perché i miei quadri sono frutto della mia confusione. Qualcuno erroneamente mi definisce un impressionista ma onestamente non mi calza affatto. Io mi sento più vicino alla Pop art di Mario Schifano, con la sua pittura materica fatta di colori abbondanti e pennellate decise.
Ora non sto asserendo di riuscire a collocarmi tra gli artisti Pop. La mia è un’arte concettuale veramente troppo caotica da riuscire a identificarla.
D.:
E oggi quali sono le fonti di ispirazioni che fecondano le tue tele?
R.:
Quando dipingo mi lascio influenzare da ciò che non si vede, soprattutto da certe espressioni che si nascondono – forse per vergogna – sotto le maschere della quotidianità; quegli sguardi che vengono in superficie quando poi restiamo soli. Ed ecco spiegati i volti apparentemente femminili, dai tratti androgini, spigolosi, quasi asessuati e volutamente asimmetrici che si ripropongono come fantasmi a bucare la tela. “Espressioni senza presenza” li chiamo.
D.:
Vi è uno studio a ridosso di questa delicata tematica o solo una spiccata sensibilità?
R.:
Per risponderti devo fare una digressione verso quella Milano che anche in questo caso favorì i miei “studi pratici”, quelli che nessun insegnante mi avrebbe saputo esporre bene come la vita ha fatto.
In quegli anni intrattenevo amicizie con ragazze – molte del sud Italia – giunte nella metropoli per necessità e che si erano ritrovate costrette a vendere il proprio corpo per sopravvivere. Di quelle anime mi incaricai di scrutarne ogni aspetto e le singole storie, quasi a immedesimarmi in una prostituta che in fondo prostituta non è.
Da quel lungo e per certi versi complicato studio partorii le figure che ora individuo nel tema “sola ma mai triste”: ragazze seminude, con la schiena curvata, chine su se stesse e coi capelli rigorosamente a coprire il volto quasi in atto di vergogna.
Poi, nel 1997, fui sconvolto dalle tragedie legate a Gianni Versace prima e Lady Diana dopo. Della seconda fui un grande ammiratore per via della vita intricata di scandali che condusse e quell’aria spesso malinconica; di Versace invece mi incuriosivano più i ragazzi che sceglieva come modelli: fisionomie quasi finte, ambigue, al limite della bellezza maschile ma con delle marcate note di femminilità. Dipinsi giustappunto un quadro dal titolo “Modelli di Versace” a cui tengo molto e che è esposto a Düsseldorf.
D.:
Vediamo ora gli aspetti che interessano artisti e possibilità di continuare a produrre. Vorrei sapere, per esempio, come le gallerie d’arte gestiscono le produzioni di chi espone.
R.:
Forse preferirei non rispondere ma sarò schietto finché posso: nella realtà dei fatti, per la maggior parte di chi produce arte, è come se non esistesse affatto alcun mercato. E quando compare la possibilità di esporre o vendere è solo perché a muoversi sono gli interessi di un mercante o di qualche altro mediatore. Chi opera in questa maniera, sfruttando un artista – che sia pure il madonnaro della festa – non comprende che così si ottiene solo l’annientamento fisiologico dell’estro artistico.
Per ciò che concerne le gallerie (parlo ovviamente delle mie esperienze), non hanno certamente la funzione che uno s’immagina, almeno per gli addetti ai lavori. Per un gallerista l’artista è null’altro che merce, “usa e getta” oltretutto.
D.:
Da questa risposta posso trarre che il territorio ti abbia deluso?
R.:
Io sono profondamente legato al territorio, alla nostra Nardò in particolar modo, che per me è sempre grande fonte di ispirazione, però c’è altro obbiettivamente, oltre ai paesaggi e alla “vegetazione umana”. Non vorrei utilizzare sempre un solo termine di paragone ma la Germania è il paese che conosco: lì gli artisti ricevono dei sovvenzionamenti, espongono gratuitamente e sono valorizzati; io posso affermare, senza il timore di essere smentito, di non aver mai coinvolto alcuna autorità a Düsseldorf. Eppure durante le mie esposizioni pubbliche ho appurato la partecipazione di personalità rilevanti e perfino le testate nazionali mi hanno dedicato fiumi di parole, spontaneamente.
Sono amareggiato per gli amici artisti che stimo, questo si, perché restando qui, tra i luoghi che amiamo, sono costretti giocoforza a prostituire il loro estro, svilendolo.
D.:
Quali sono gli artisti contemporanei locali che guardi con maggiore interesse?
R.:
Sicuramente non si può dimenticare il maestro Ercole Pignatelli, un nome ormai echeggiante sul palcoscenico artistico internazionale. Tra i pittori emergenti, invece, credo sia degno di nota Marcello Malandugno, un concittadino che si sta muovendo bene e nelle cui raffigurazioni mi lascia intravedere ragguardevoli potenzialità.
D.:
E del passato?
R.:
Ricordo con affetto Arturo Santo pittore semi-impressionista che seguivo molto da ragazzo e il delicato scultore Lilì De Benedittis recentemente scomparso.
D.:
Chiudiamo questa intervista filosofando: vorrei sapere qual è, secondo te, la maniera con la quale l’Arte può veicolare il cambiamento della società.
R.:
Innanzitutto credo che non ci sia nessuno esente dalla sensibilità nei confronti dell’arte ma tutti dovremmo imparare ad ascoltare ed esaltare quelle note emotive che essa provoca. Questo esercizio consentirebbe alla società di valorizzare chi l’arte la produce con convinzione, giorno dopo giorno, sperimentando principalmente su se stesso tutto ciò che consegue una vita alla ricerca di stimoli e ispirazioni.
Lucugnano – Palazzo Comi, sabato 25 ottobre 2014, ore 18.30
di Melissa Calò
Sarà presentato sabato 25 ottobre, presso la sala conferenze di Palazzo Comi a Lucugnano, il libro di Marco Cavalera “Lucugnano e il suo Territorio. Storia, architetture, archeologia e paesaggio di un paese del Capo di Leuca”, pubblicato dal Centro Culturale Ricreativo Sportivo Lucugnanese, associazione da sempre impegnata in un lavoro di ricerca storica e antropologica su Lucugnano.
Nel corso della serata di presentazione sono previsti gli interventi di Antonio Coppola, Sindaco di Tricase, Luciano Schirinzi – presidente del C.C.R.S.L. – e una relazione dell’autore Marco Cavalera, che illustrerà monumenti e siti menzionati nel libro.
Coordina la giornalista Giuliana Coppola. A seguire un dibattito con il pubblico.
L’evento è organizzato in collaborazione con l’Associazione Culturale Archès, la Biblioteca Provinciale G. Comi e la Città di Tricase.
Inizio ore 18.30 – Info: 340 5897632
“Lucugnano e il suo territorio. Storia, architetture, archeologia e paesaggio di un paese del Capo di Leuca” di Marco Cavalera, è una pubblicazione essenzialmente necessaria, di questi tempi.
All’indomani della bocciatura di Lecce a capitale europea della cultura nel 2019, ci si ritrova a dover ripensare ai modelli di sviluppo e al ruolo della cultura nel nostro territorio. Una riflessione necessaria, basata sull’analisi dei motivi per cui questo modello, così come pensato e proposto, sia stato scartato. Di fronte all’idea di rafforzamento di alcuni ideotipi mainstream, occorre rimodulare il rapporto tra il cittadino e il proprio territorio, verificare come esso viene visto e vissuto e quale posto occupi in un’ideale geografia interiore.
Di fronte al radicamento della crisi economica e valoriale, intesa proprio come scelta e adozione di strategie economiche ed esistenziali per i tempi a venire, di fronte all’emorragia di posti di lavoro e alla piena di nuovi flussi emigratori sulla rotta di quelli vecchi tracciati nel secolo scorso, quest’opera si rivela uno strumento in grado di ripopolare di simboli, figure, personaggi e speranze un orizzonte che nell’immaginario collettivo appare deserto, dove sembra non esserci “niente”.
Attraverso la descrizione di quei punti di aggregazione della storia di una collettività che diventa paese, come le chiese, le cappelle, i palazzi, il misterioso e austero Palazzo Baronale ma soprattutto di Palazzo Comi, punto di riferimento della cultura artistica e letteraria a livello nazionale del secondo novecento, “il presepe disabitato” di Lucugnano “dove sembra non esserci niente” inizia ad affollarsi di voci e volti di carta e di pietra in grado di contrastare una vera e propria fenomenologia della sparizione/rimozione.
Stilato con rigore scientifico ma con uno stile semplice e divulgativo, il lavoro proposto che è arricchito inoltre da un apprezzabile contributo fotografico e cartografico, prova a tracciare un ipotetico itinerario in grado non solo di rendere protagonista il tessuto urbano, ma di metterlo in connessione con lo spazio rurale, in uno scambio incessante: sarebbero – o più correttamente sarebbero potute – esistere le figure dei maestri vasai e delle botteghe artigiane senza le vicine cave da cui estrarre la materia prima? Il racconto di alcune evidenze del tutto dimenticate o addirittura sconosciute ai più, come la Casa dei Pellegrini in località Matine, suggerisce lo scenario di una Lucugnano che un tempo non era solo un paese “alla fine delle terre”, ma una tappa in rete con altre lungo l’itinerario verso il santuario di Leuca, in una sorta di turismo religioso ante litteram che la rendeva una meta conosciuta dai pellegrini di tutta Europa.
Il mal di Salento s’insinua anche in chi salentino non è. «Dopo di noi c’è solo l’Albania», scherzano con una battuta gli autoctoni, enunciando più o meno consapevolmente un manifesto di insularità. Una concezione alta di sé che qui coltivavano quando il resto d’Italia confondeva il Salento con il Cilento (la fascia costiera a sud di Salerno), quando pure i bollettini meteorologici indicavano come Puglia meridionale. Ora è, per tutti, il Salento, terra della Taranta, la summa di un’antropologia consegnata al mondo dal saggio “La terra del rimorso”, in cui Ernesto De Martino – quasi a sancire un legame ombelicale con Matera e la Lucania – narrava la singolare mescolanza tra razionalità e magia, l’unione della fascinazione stregonesca con lo spirito religioso da cui è nata la civiltà moderna. Lecce è costruita per stupire. I ricami della natura e quelli del barocco si rincorrono come in un esercizio di stile offerto dai Borboni e da Dio. Due poteri che scelsero di essere rappresentati da un’architettura che ammutolisce.
La penisola salentina è un oceano di luce, la successione di uliveti piantati sulla terra rossa che precipita nelle acque cristalline dello Jonio e dell’Adriatico. Una terra estrema sempre in cerca di una relazione tra misura e dismisura, miseria e nobiltà, alba e tramonto, che qui distano meno di una giornata di cammino. «Questa è la terra dell’ospitalità» arringa Luciano Barbetta, imprenditore di Nardò con laurea in Sociologia alla guida di un’azienda che confeziona capi per le grandi griffe della moda, da Gucci a Cucinelli.
Alfredo Foresta, architetto, erede di una famiglia di costruttori e inventore con il direttore artistico della candidatura, Airan Berg, della galleria di Eutopia, si spinge più in là e traccia su un foglio di carta le distanze che separano Lecce da Bari, Milano, Istanbul, Atene. Una sorta di rosa dei venti geopolitica dalla quale è nato un oggetto di design, un tavolo di ferro e cristallo, che ribadisce anche ai più distratti il ruolo di una città piantata tra i balcani, il levante e il Mezzogiorno. Racconta Foresta: «Di fronte alle ondate di stranieri che nel corso dei secoli occupavano le nostre terre, avevamo solo due armi di difesa: sorridere o scappare». Foresta è un affabulatore e attinge a piene mani dalla scuola retorica greca e dalla critica serrata a tutte le convenzioni, quelle linguistiche in primis, di cui Carmelo Bene, leccese di Campi Salentina, fu interprete geniale: «Noi non siamo capitale della cultura, ma terra di cultura. Gente che non inventa nulla ma reinventa tutto».
Non è un caso che reinventare Eutopia sia lo slagan di Lecce e Brindisi 2019, un’altra alleanza per nulla scontata, dopo quella di Perugia-Assisi, con l’incantevole città-hub adriatica che vanta un porto e un aeroporto strategico eletto dalle Nazioni Uniti base operativa per le operazioni in Africa e Medioriente.
Le otto utopie di Lecce si declinano nei laboratori urbani gestiti da gruppi locali sul modello di quello creato da Foresta, popolato di start up e giovani designer che lo frequentano alle ore più impensate del giorno e della notte. Raffaele Parlangeli, capo del dipartimento programmazione strategica del Comune e coordinatore del comitato Lecce 2019, ha ideato un progetto a orologeria che ruota attorno alla smart city e ai fondi europei per il periodo 2014-2020. «La pianificazione marcia secondo i tempi previsti e può contare sulla partecipazione diffusa: cultura e innovazione sono i motori del cambiamento».
Quando si parla di cultura a Lecce è impossibile non imbattersi in Tito Schipa, il tenore dei due mondi al quale è intitolato il conservatorio. Il pianista Francesco Libetta, tra i più raffinati esecutori di Chopin e concertista giramondo, è un cultore della memoria musicale salentina. La sua piccola casa discografica, Nireo, è un catalogo delle voci e dei suoni del novecento: tra le ultime pubblicazioni un cd sui cantanti salentini del ‘900 e sulla tradizione musicale di Nardò. Lecce e il Salento sono l’incubatore di una scuola musicale che occupa un posto di primo piano in Europa, una storia lastricata di successi costretta a fare i conti con la cura dimagrante delle tre orchestre cittadine. L’unica sopravvissuta, precisa Libetta, è «a rischio chiusura». Anche il festival per pianoforte, gemellato con quello di Miami grazie alle relazioni internazionali del maestro leccese, è stato sospeso nel 2009 per mancanza di fondi. «C’è un impoverimento che colpisce i giovani», spiega Libetta.
Crisi o non crisi, di musica si nutre persino l’anfiteatro romano di piazza Sant’Oronzo, sormontato da palazzotti novecenteschi e razionalisti, una costruzione metafisica simile a un quadro di De Chirico. Su questo sfondo alle 12 di ogni giorno invece dei soliti rintocchi di campane si libera nell’aria la voce possente di Tito Schipa. Un’idea dell’ex sindaco Adriana Poli Bortone, tenuta giustamente in vita dal suo delfino e primo cittadino fittiano, Paolo Perrone, che meriterebbe una replica in molte città italiane. L’architetto Foresta interpreta l’ingresso di Lecce nella short list come un calcio di rigore concesso all’ultimo minuto. L’architetto sa già come andrà calciato. E mima con naturalezza un tiro “a cucchiaio” del celeberrimo repertorio di Francesco Totti.
(per gentile concessione dell’Autore)
di M.Mau. – Il Sole 24 Ore – leggi su http://24o.it/SBuuWX
Con N2Y4MD (Never too Young for Mediterranean Diet)
i giovani insegnano ai giovanissimi
Un progetto del GAL Capo S. Maria di Leuca insieme ai giovani di
Pro_Salento per sensibilizzare i giovanissimi sullo stile di vita più sano del mondo
Se l’obiettivo è sensibilizzare i ragazzi delle scuole elementari e delle medie verso uno stile di vita più sano, verso le buone abitudini alimentari e comportamentali della Dieta Mediterranea, è più efficace se lo fa un esperto (un biologo nutrizionista o un medico) o un gruppo di quattro studenti di poco più grandi? E’ più d’impatto se le diapositive illustrative utilizzano una grafica “scientifica” o se adottano un linguaggio visivo e comunicativo creato con l’immaginario fresco di 18enni? E’ più attraente e coinvolgente la piramide alimentare classica o le nuove “Piramidi giovani dell’alimentazione e dell’attività fisica” inventate dai ragazzi che operano con il brand “Dieta Med-Italiana”? Sono le tre domande che si sono posti i responsabili del GAL (Gruppo di Azione Locale) Capo S. Maria di Leuca nell’organizzare una serie di incontri rivolti alle scolaresche del territorio presso i padiglioni di EXPO 2000 a Miggiano (Le). E sabato scorso, 18 ottobre, gli stessi responsabili hanno toccato con mano quanto sia stata saggia e performante la coraggiosa scelta di optare per la risposta “B” a tutte e tre le domande.
Antonio Monaco, Jurika Nuzzo, Azzurra Quaranta e Lella Tafuri sono i quattro ragazzi (in media, 17 anni) appartenenti al movimento Pro Salento a cui il GAL Capo S. Maria di Leuca ha affidato due compiti: tenere in successione tre edizioni di un mini seminario rivolto ognuno a circa 80 giovani alunni delle scuole elementari e medie dei comuni appartenenti al GAL, e ideare, redigere e pubblicare un opuscoletto di 16 pagine da distribuire alle scolaresche partecipanti, così che potessero portare a casa e far conoscere anche ai genitori i temi, i consigli e le raccomandazioni ricevute nella mattinata. Le scuole partecipanti agli incontri formativi sono state le seguenti: Istituto Comprensivo di Miggiano e Montesano Salentino, Istituto Comprensivo “Don L. Sturzo” di Specchia e gli Istituti Comprensivi “Via Apulia” e “G. Pascoli” di Tricase.
I quattro ragazzi salentini, con il loro progetto “N2Y4MD – Never too Young for Mediterranean Diet” (mai troppo giovane per la Dieta Mediterranea), non solo si sono dimostrati all’altezza del compito, ma sono riusciti a tenere sempre alta l’attenzione della giovane platea grazie all’utilizzo di slide dinamiche e molto colorate e alla continua interattività con i partecipanti attraverso l’intrigante gioco di domande e risposte. Non solo, ogni mini seminario ha avuto inizio con la compilazione, da parte dei partecipanti, di un piccolo questionario anonimo, utile a raccogliere dati sui loro comportamenti (alimentari e relativi all’attività fisica) e sulla conoscenza di prodotti e alimenti locali, ed è terminato con la distribuzione di simpatiche e succose “mele premio”.
I contenuti di ogni seminario sono stati i seguenti: significato esatto della parola “dieta”; enfasi sul binomio “qualità, varietà, quantità di cibo” e “qualità, quantità di attività fisica”; cosa mangiare tutti i giorni, cosa 2-3 volte a settimana e cosa 1 volta sola a settimana; i 12 consigli d’oro in tema di alimentazione e attività fisica; cosa sono e come funzionano le Piramidi giovani della Dieta Med-Italiana; la Dieta Mediterranea ed i prodotti e le pietanze tipiche del Salento e, nello specifico, delle terre del Capo di Leuca, con la pestanaca ed il pomodoro di Morciano.
A sostenere scientificamente le tesi dei ragazzi e per intervenire in caso di bisogno, vi era la preziosa presenza e collaborazione del dott. Martino Martellotta, presidente dell’A.Bi.Sa. – Associazione dei Biologi nutrizionisti del Salento.
Un’esperienza da ripetere? A dire degli oltre 250 giovanissimi partecipanti, dei loro docenti e dei responsabili del GAL parrebbe proprio di sì, perché non si è …mai troppo giovani per la Dieta Mediterranea!
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L’esperienza “N2Y4MD” è una molecola del progetto più ampio “N2Y4”, con il quale i giovani di Pro_Salento intendono stimolare e premiare l’impegno giovanile nelle seguenti otto aree: N2Y4M (Never too Young for Music & Arts); N2Y4S (Never too Young fo Sports); N2Y4P (Never too Young for Peace & Inclusion); N2Y4H (Never too Young for Healthy living); N2Y4B (Never too Young for Business & Innovation); N2Y4T (Never too Young for Technology & Science); N2Y4E (Never too Young for Ecology & Sustainability); N2Y4L (Never too Young for Languages & Foreign Culture).
I tanti dibattiti previsti sulla tutela degli ulivi e dell’olio d’oliva sono davvero così utili? Quale sarà la prossima questione? Si parlerà ancora del rinnovo del settore, dell’atteso arrivo della nuova politica agricola comunitaria (Pac), del miglioramento della qualità o degli aiuti previsti per le organizzazioni professionali? Sempre la stessa tiritera, dirà qualcuno, ma questi dibattiti, servono proprio a mantener vive le relazioni tra i produttori, i trasformatori, le associazioni agricole, i consorzi.
Quando ci si vuol barcamenare tra questi quesiti e quando i simposi non sono per pochi eletti, probabilmente conviene partecipare, ascoltare con passione per poi trarne delle dovute e adeguate valutazioni.
I dibattiti non sono solo passeggiate mediatiche, si comprende da subito cosa essi ti serbano, ti fanno comprendere e giustificare gli eventi e le persone con un minimo di riflessione o puoi addirittura capire se un dibattito è sincero o maschera ad esempio possibili atti speculativi. Con essi associ e intendi il motivo che ci spinge all’unione all’espressione e al commento libero.
Nel frattempo abbiamo facoltà di arguirci un po’ sopra e chiederci magari se i suggerimenti proposti per la difesa degli ulivi e del Made in Italy non siano poi così efficaci come ci si dovrebbe aspettare. Dopo un lungo dibattito ci si può tornare appagati, delusi o del tutto indifferenti; si può carpire facilmente lo stato del pubblico dalla sua manifestazione.
Qualche solito ignoto partirà in quarta magari con la sua impostata polemica o critica banale da luogo comune e qualcun altro, invece, con la sua valida proposta con la speranza che questa volta sia meglio ascoltata.
I relatori tornerebbero più paghi dopo il loro “quarto d’ora di popolarità”, sguainando le loro tesi, criticabili o meno, non importa; sono sempre lesti ad abbozzarne di nuove specialmente se sono sostenute dai loro tutor preferiti.
Ormai si sa, in questo settore, non sempre otteniamo certezze e verità, lo dice anche un proverbio salentino: “l’ulia è niura e te face niuru” (l’oliva è nera e ti fa nero) così come per dire che di certo possiamo confidare nella percezione e nell’intuito ma con le dovute cautele perché i cambiamenti possono sempre essere repentini.
Con la nostra fatale intuizione potremmo perfino supporre che fra la civiltà rurale Salentina si avranno dei mutamenti. Quali fossero, come avvenissero e se fossero buoni o negativi non è dato saperlo. Di certo non saremo degli indovini ma neanche cattivi osservatori.
Chissà, forse un giorno, ci accorgeremmo che molti impegni per la salvaguardia di un comparto così importante sia stato tempo, lavoro e denaro sprecato. Gli eventi e i dibattiti pubblici servono a questo, a generare movimenti, formare gruppi e condividere le idee, cambiare eventualmente rotta se sbagliata.
Ben vengano gli eventi quindi per valorizzare il settore agricolo e le misure da adottare per difenderlo e che giungano con serenità senza creare tante esitazioni sul suo futuro.
Se i risultati per l’olio d’oliva non soddisfano, se ci sono state o ci saranno decisioni, irrazionali, affrettate o sofferte per qualcuno, avremo tutto il tempo necessario e la possibilità di riparare, recuperare e ripartire.
Continuiamo pure ad aver fiducia nel buon operato degli addetti ai lavori. Valutiamo il grado della loro esperienza, valutiamo i termini con cui essi si proferiscono senza però trascurare la voce dei produttori che sono i primi a incassare i colpi.
Se in questi dibattiti registrate troppi dubbi, allora si può chiedere e proporre in modo costruttivo. E anche se vi guarderanno con altri occhi, continuate ad approfondire l’argomento senza tante preoccupazioni con il coraggio e l’umiltà che avete ereditato.
I produttori avranno pure la facoltà e il diritto di ascoltare altre voci. La ricerca scientifica ed economica è davvero disciplina quando diventa certezza. Di certo quello che gli ulivi e i produttori ci dicono e ci insegnano vale molto di più.
Nell’olivicoltura il ritornello si ripete metodicamente sempre prima dell’arrivo di contributi comunitari che giustamente supportano i produttori. Senza quegli aiuti come si farebbe a sostenere i costi di produzione?
Tra una Pac e l’altra si parlerà d’olio d’oliva, quasi una sequenza di eventi. Uno dei più interessanti è l’Expo 2015, senza dubbio una bella vetrina per le eccellenze italiane. Si tratta di grandi spazi per ogni prodotto, ma per il nostro olio d’oliva? È possibile che sia finito tra i padiglioni dei condimenti come l’aceto? Il grande e piccolo Salento con i suoi milioni di ulivi monumentali terra produttrice d’intingoli, quindi?
Gli eventi sono dibattiti ma anche spazi di slogan da acquistare. Gli ulivi secolari sono il nostro biglietto da visita. C’è un mondo che ci guarda e ci compra attraverso il social network, c’è un mondo preoccupato per le sorti di un patrimonio arboreo e si chiede come mai i salentini non si siano ancora accorti di navigare su un fiume dorato.
Il Salento potrebbe cambiare davvero direzione se solo fosse interessato. I suoi residenti potrebbero rivendicare saperi e sapori con la dovuta energia sull’intero territorio nazionale, non vogliono svendere la loro produzione a marchi esteri e ne passare in secondo piano.
Le istituzioni e le associazioni di copertina devono capire che la griffe Salento con i suoi olivi non può passare inosservata perché rappresenta un lato importante di quella dieta mediterranea che lo Stato volle indicare nel 2010 come patrimonio dell’Unesco.
Chi avrebbe quella grande forza di render voce e certezze alla nostra olivicoltura? Si propongano pure gli eventi e i dibattiti all’uopo ma per cortesia che non siano sempre gli stessi barbosi modi di argomentare.
L’Euforbia characias L. e l’Euphorbia dendroides L. (immagini tratte, rispettivamente, da http://www.actaplantarum.org/floraitaliae/viewtopic.php?t=9656 e da http://www.actaplantarum.org/floraitaliae/download/file.php?id=22808.
Col nome generico di titimalo si indica in italiano un numero notevole di essenze appartenenti alla famiglia delle Euforbiaceee. Le due presentate nella foto di testa probabilmente sono le più diffuse sul nostro territorio.
Parto dal nome italiano che presenta anche le varianti titìmalo, titimaglio, totomaglio, tortomaglio. Titimalo è il capostipite di tutte le altre varianti che ne sono deformazione, come spesso succede con i fitonimi, di origine popolare e poi italianizzata. Titimàlo o titìmalo (a seconda che prevalga l’accento latino o quello originario greco) è dal latino tithymàllu(m), accusativo di tithymàllus, trascrizione del greco τιϑύμαλλος (leggi tithiùmallos); nella traduzione dei brani latini conserverò l’originaria doppia l e userò, perciò, titimallo. La voce è troppo lunga per essere semplice ma l’individuazione delle componenti non risulta facile, almeno per me; direi che in una ipotetica prima parte (τιϑυ-) è ravvisabile τιϑήνη (leggi tithene)=nutrice, che a sua volta è da θῆσθαι (leggi thestai)=allattare e che il secondo componente potrebbe essere μαλλός (leggi mallòs)=bioccolo di lana, vello, gregge, ciocca di capelli, chioma. Tutto ciò evoca il concetto del lattice che, come vedremo, di questa essenza è la caratteristica principale, ma il suo uso nel trattamento della lana è, purtroppo, assente in letteratura. Sulla improbabile la commestibilità di questa essenza per gli animali tornerò dopo. Per il momento basta ricordare il significato di gregge che μαλλός può assumere e, quando sarà il momento (cioè quando nel testo ci sarà il rinvio), andare a nota 2.
Dalle nostre parti il titimalo è tutumàgghiu (tutumàju nel Leccese a S. Cesarea Terme, Corsano, Castro, Gallipoli, Leuca, Montesano, Parabita, Ruffano, Tricase, Vitigliano e nel Tarantino ad Avetrana). Entrambe le voci sono evidenti deformazioni di quella italiana.
Passo ora ai nomi scientifici delle due essenze oggetto di questo post spendendo qualche parola solo per l’elemento che hanno in comune (L., come ognun sa, è abbreviazione di Linneo), cioè il nome del genere, Euphorbia. La voce è dal latino classico euphòrbia(m), la cui variante euphòrbium è dal greco εὐϕόρβιον (leggi eufòrbion), che oltre alla pianta designa anche il suo lattice e molto probabilmente a questo allude il fatto che εὐϕόρβιον (in cui –ιον è un suffisso diminutivo) è parola composta da εὖ (leggi eu)=bene e da φορβή (leggi forbè)=nutrimento, pascolo. Insomma, visto che il lattice, come vedremo, ha effetti non certo gradevoli, εὐϕόρβιον è, secondo me, da intendersi come piccola pianta ben pasciuta (ma sull’argomento tornerò a breve).
Dai rametti spezzati del titimalo gocciola un lattice biancastro irritante e velenoso; questa caratteristica in passato era sfruttata dai pescatori che ne sminuzzavano in acque ferme rami e foglie per catturare i pesci nei quali, evidentemente, procurava una reazione allergica fatale.
Al … pesce tornerò in chiusura; ora accingiamoci a fare un salto in un passato ancora più remoto con gli autori ai quali risalgono le prime testimonianze su quest’essenza.
Teofrasto (III-II secolo a. C.): Hanno lo stesso nome pure gli strucni e i titimalli. Tra gli strucni uno causa sonnolenza, l’altro pazzia. Il primo, con la radice rossa come sangue quando è bruciata, bianca quando è fresca e il frutto più rosso di quello della quercia scarlatta, ha la foglia simile a quella del titimallo o del melo dolce ed essa è pelosa e grande una spanna. Dopo aver pestato leggermente la sua radice ed averla immersa nel vino puro la danno da bere ed essa fa dormire. Cresce nei torrenti e sulle tombe. Quello che fa impazzire (alcuni lo chiamano truoro, altri peritto) ha la radice bianca e grossa un braccio e cava. Una dracma di dose di essa viene somministrata se uno vuole scherzare o sembrare a se stesso bellissimo; se vuole andar di più fuori di testa ed avere alcune fantasie, due dracme; se non vuole cessare da questo stato, tre e consigliano di mescolarvi il succo di centaurea; se si vuole ammazzarlo, quattro. Ha la foglia simile a quella della ruchetta ma più grande e piuttosto pelosa, il frutto somiglia a quello del platano. Tra i titimalli quello chiamato granello paralio ha la foglia rotonda, il gambo e la grossezza totale di una spanna, il frutto bianco. Viene raccolto precisamente quando l’uva diventa scura e il frutto seccato vien dato da bere pestato nella dose di un terzo di acetabolo. Quello chiamato maschile ha la foglia simile a quella dell’olivo ed è grande tutto un cubito. Lo raccolgono al tempo della vendemmia e, dopo averlo curato come si deve, lo utilizzano. Purifica soprattutto il basso ventre. Il titimallo bianco è chiamato mirtite, ha la foglia simile a quella del mirto ma spinosa in punta; emette germogli verso terra lunghi una spanna; questi producono il frutto non insieme ma ad anni alterni, uno quest’anno, l’altro il successivo, pur essendo nati dalla stessa radice. Predilige i luoghi montuosi. Il suo frutto è chiamato noce. Lo raccolgono quando le messi maturano seccandolo e pulendolo. Lavandolo in acqua lo stesso frutto e dopo averlo di nuovo seccato lo danno da bere mescolandovi due parti di papavero nero, il tutto nella dose di un acetabolo. Purifica i catarri intestinali; se somministrano la stessa noce lo fanno dopo averla pestata nel vino dolce o da mangiare col sesamo tostato. Le stesse proprietà hanno le foglie, il succo e i frutti.1
Le tavole che seguono sono tratte dell’edizione dell’Historia plantarum di Teofrasto a cura di Ioannes Bodaeus à Stapel, Lorenz, Amsterdam, 1644.
Plinio (I secolo d. C.) enumera sette varietà: I nostri chiamano il titimallo erba lattaria, altri lattuga delle capre2e raccontano che se col suo latte si scrive sul corpo, una volta che sia disseccato, se si cosparge della cenere, compaiono le lettere e alcuni hanno preferito comunicare con le amanti in questo modo piuttosto che con messaggi scritti. Molte sono le sue varietà. La prima è chiamata characia3, si ritiene che sia il maschio, con i rami grossi un dito, rossi, succosi, cinque o sei, lunghi un braccio, con foglie (che spuntano) dalla radice quasi simili a quelle dell’olivo, con una chioma come di giundo in cima. Nasce nei luoghi marini rocciosi, il seme si raccoglie in autunno insieme con la chioma, si pesta dopo che è seccato al sole e lo si conserva. Quando i frutti cominciano a coprirsi di lanugine, Spezzati i rami, si lascia cadere il succo nella farina di pisello selvatico o sui fichi perché secchi insieme con loro. Da ogni ramo si estraggono non più di cinque gocce e dicono che assunto col fico altrettante volte si curano gli idropici. Bisogna fare attenzione, quando si raccoglie il succo, che non venga a contatto con gli occhi. Quello estratto dalle foglie pestate è meno efficace. Con i rami si fa anche il decotto. Si usa il seme cotto col miele per preparare pillole lassative. Il seme ancora si sigilla con la cera nelle cavità dei denti e come collutorio viene usato il decotto delle radici in vino o olio. Applicano in cataplasmo il succo contro l’impetigine e lo bevono per purificare col vomito e come lassativo, ma è inutile per lo stomaco. Bevuto col sale aggiunto in acqua risolve il catarro, col nitro africano l’eccesso di bile, se si vuole purificarsi andando di corpo in acqua e aceto, mediante il vomito col vino cotto o acqua e miele. La dose media da somministrare è di tre oboli4. È meglio assumere i fichi lontano dopo i pasti. Brucia leggermente la gola ed è di natura tanto ardente che da solo applicato all’esterno del corpo causa vesciche come se fosse fuoco e viene usato come sostanza caustica. Chiamano mirtite5un’altra varietà di titimalo, altri la chiamano cariite6, con foglie di mirto aguzze e pungenti ma più grandi e anch’esso nasce in luoghi rocciosi. Se ne raccolgono le chiome quando il granello dell’orzo comincia ad ingrossare e seccate all’ombra per nove giorni inaridiscono al sole. Il frutto non matura tutto insieme, ma una parte nell’anno successivo e si chiama noce. Per questo i Greci le diedero il nome (di cariite). Si miete quando maturano le messi, si lava, poi si secca e viene somministrato con due parti di papavero nero, in modo che la dose totale sia di un acetabolo7. Stimola il vomito meno del precedente e come tutti gli altri. Alcuni hanno somministrato così anche le foglie, ma la noce in vino col miele o cotto o col sesamo. Assorbe il catarro e la bile attraverso l’intestino, guarisce le ulcere della bocca. Contro le ulcere corrosive della bocca viene mangiato con miele. La terza specie di titimalo è chiamata paralio8o titimallide9, a foglia rotonda, gambo alto un palmo, rami rosseggianti, seme bianco, che viene raccolto quando l’uva comincia a svilupparsi e saccato viene petato e si assume come purgante nella dose di un acetabolo. Chiamano elioscopio10 la quarta varietà, con le foglie simili a quelle della portulaca, con quattro o cinque rosseggianti distanti dalla radice, alti mezzo piede, pieni di succo. Questo nasce nei pressi delle città, il seme è bianco e graditissimo ai colombi. Prende questo nome poiché ruota le teste insieme col sole. Assorbe la bile attraverso il bassoventre con ossimele11nella dose di mezzo acetabolo. Ha gli stessi usi della caracia. Chiamano la quinta specie ciparittia per la somiglianza delle foglie, col gambo doppio o triplice, che nasce nei campi. Ha la stessa efficacia dell’elioscopio e della caracia. Chiamano platifillo12la sesta varietà, altri corimbite13, altri ancora amigdalite14dalla somiglianza. Nessun’altra varietà ha foglie più larghe. Uccide i pesci. È lassativa con la radice, con le foglie o col succo in acqua e miele nella dose di quattro dracme15. È particolarmente efficace contro l’idropisia. Chiamano la settima varietà dendroide16, altri cobio17, altri leptofillo18, che nasce tra le pietre, con la chioma più folta fra tutte, dai piccoli steli rosseggianti e abbondantissimo di seme, il cui effetto è lo stesso di quello della caracia.19
Il lettore avrà notato che i due etimi rimasti in sospeso (charàcias e dendròides) li ho, credo esaurientemente, chiariti nelle note a commento del testo pliniano. Per correttezza, però, non posso omettere l’analoga scheda alla nostra essenza dedicata dal contemporaneo greco Dioscoride, che di seguito riporto:
Ci sono sette varietà di titimalo delle quali la maschile è chiamata characia, da alcuni chiomata o amigdaloide o cobio; un’altra è detta femminile o mirtite, che chiamano anche cariite o mirsinite; poi c’è il paralio che alcuni hanno chiamato titimalide, l’elioscopio, il ciparissio, il denfroide, il platifoglio. I gambi di quello che è chiamato caracia superano la lunghezza di un braccio, sono rosseggianti, pieni di succo acre e bianco. Le foglie intorno ai rami sono simili a quelli dell’ulivo, ma più grandi e più strette.La radice è ben sviluppata e legnosa, all’apice dei gambi c’è una chioma simile a steli di giunco e al loro apice ci sono foglie leggermente concave, simili a vaschette, nelle quali c’è il frutto. Nasce in luoghi aspri e montuosi. Il succo ha proprietà purificatrici del basso ventre spingendo il muco e la bile, assunto con acqua e vino nella dose di due oboli; con acqua e miele stimola anche il vomito. Viene estratto al tempo della vendemmia dopo che i rami sono stati raccolti e tagliati; bisogna poggiarli inclinati in un vaso. Alcuni aggiungendo farina di pisello selvatico confezionano pillole a forma di seme di veccia; altri instillano nei fichi da seccare tre o quattro gocce e dopo averli seccati li conservano. Da solo pestato in un mortaio viene pure confezionato in pillole e conservato. Nel raccoglierlo non bisogna mettersi sotto vento né portare le mani agli occhi ma prima di farlo deve anche ungere il corpo di grasso o di olio con vino e soprattutto il viso, il collo e lo scroto. Irrita pure la gola, perciò bisogna impastare le pillole con cera o miele cotto e così somministrarle. Due o tre fichi secchi assunti sono sufficienti a purgare. Il succo fresco unto con l’olio al sole fa cadere pure i capelli e rende biondi e sottili quelli che rispuntano e ala fine li elimina tutti. Viene applicato anche nelle cavità dei denti per calmare il dolore, ma bisogna spalmare i denti di cera affinché (il succo) fuoriuscendo non danneggi la gola o la lingua. Unto elimina pure i foruncoli, le verruche, i gonfiori e le eruzioni cutanee. Giova anche contro le escrescenze carnose sul naso, le pustole, òle ulcere cancrenose, le cancrene, le fistole. E il frutto raccolto in autunno, seccato al sole, leggermente pestato e bollito viene conservato in un luogo pulito; allo stesso modo le foglie secche. Il frutto e le foglie in decotto nella misura di mezzo acetabolo producono lo stesso effetto del succo; c’è anche chi li conserva in acqua salata mescolandoli per mezzo del latte con lepidio e formaggio spezzettato. E la radice poi, imbevuta nella misura di una dracma con acqua e miele e bevuta giova al basso ventre; cotta con aceto e utilizzata come collutorio placa il mal di denti. La varietà femminile, che alcuni hanno chiamato mirsinite o cariite, è simile alla laureola e bianca d’aspetto. Ha le foglie simili a quelle del mirto, più grandi e solide, in punta acute e spinose. Emette dalla radice germogli lunghi una spanna, produce ogni anno un frutto simile ad una noce, che punge leggermente la lingua. Anche questo nasce in luoghi aspri. Il succo, la radice, il frutto e le foglie hanno proprietà simili a quelle della varietà precedente ma questa essenza certamente è più efficace a stimolare il vomito. La varietà detta paralio, che alcuni hanno chiamato titimalide o mecona, nasce in luoghi vicini al mare. Ha rami lunghi una spanna, ritti, un po’ rossi, uscenti dalla radice in numero di cinque o sei, intorno ai quali ci sono in serie le foglie piccole, un po’ strette, allungate, somiglianti a quelle del lino. Ha ancora la chioma fitta, rotonda, nella quale c’è il frutto simile ad un pisello selvatico, variegato. I fiori sono bianchi. Tutta la pianta e la radice sono piene di succo bianco. Impiego e conservazione simili a quelli delle varietà citate prima. La varietà detta elioscopio ha foglie simili a quelle della portulaca, ma più sottili e più rotonde. Emette dalla radice rami lunghi una spanna in numero di quattro o cinque, sottili e rosseggianti, pieni di molto succo. La chioma è simile a quella dell’aneto e così il frutto tra le foglie. La sua chioma ruota seguendo il corso del sole e pe questo è chiamata pure elioscopio. Nasce soprattutto tra i ruderi e in prossimità delle città. Il succo e il frutto si raccolgono come per quelli degli altri, avendo le stesse proprietà delle essenze già citate ma non così efficaci. La varietà che è chiamata ciparissia o camepiti mostra un gambo di una spanna o più, rossiccio. Da esso germinano le foglie simili a quelle del pino, ma più molli e più sottili e nell’insieme somiglia al pino nato da poco. Da questo trae pure il nome. È piena anch’essa di succo bianco. Ha le stesse proprietà delle precedenti. Quella che nasce tra le pietre, chiamata dendroide, è fitta in cima e ha una grande chioma, pieno di succo, con i rami rossicci, intorno ai quali ci sono le foglie simili a quelle del mirto di piccola taglia. Il frutto è simile a quello della caracia. Anch’essa si raccoglie come le precedenti ed ha le stesse proprietà. Il platifollio somiglia al verbasco e la radice, il succo e le foglie sono efficaci contro l’idropisia. Uccide i pesci pestato e gettato nell’acqua, il che fanno pure le essenze prima citate.20 Le tavole che seguono sono tratte dall’edizione del De materia medica di Dioscoride a cura di Pietro Andrea Mattioli, Valgrisi, Venezia, 1557.
Ormai nessuno pesca col titimalo e il pesce, almeno sotto questo punto di vista, è salvo; auguriamoci che possa salvarsi (anzi, neppure contrarre questa terribile malattia che mi ha privato anzitempo di ben quattro dei miei amici più cari) presto anche il cane (e, naturalmente, anche i pochi umani che ne possono essere colpiti) dalla lehismaniosi, grave malattia trasmessa da una piccola zanzara abbastanza diffusa nelle nostre zone, la Phlebotomus papatasi, comunemente detta pappataci. La speranza è in una proteina isolata in alcune varietà di Euforbia, che negli esperimenti avrebbe inibito quasi totalmente la riproduzione del parassita responsabile21.
Per chiudere definitivamente la questione del pesce debbo ricorrere, come ho fin qui fatto largamente, all’aiuto altrui:
Leggo in rete (http://mazzanoromano.blogolandia.it/2009/04/16/lo-detomajo/): Raccontano che molti anni fa si presentò al medico condotto del nostro paese (che era un napoletano) un ragazzino intimidito, ma anche “specurito” per il gran dolore che accusava nelle parti basse.Il medico tutto premuroso, ma anche allarmato, domandò che cosa fosse accaduto. Il ragazzino, tra mille esitazioni, rosso per la vergogna, si calò i calzoni e al medico apparve uno spettacolo che aveva dell’incredibile, tanto che il primo commento fu testualmente (come lo riferiscono) “mamma mia, ‘na mazza così nu l’agge vista mai!” Era successo che il nostro (che poi ebbe ad ereditare un soprannome conseguente e confacente) era stato vittima di una di quelle burle a cui si veniva sottoposti da parte dei più grandi. Del tipo, “a rega’ si te voi fa’ cresce lo piscorello strofinece sopre lo detomaio”. Il detomaio ha la particolarità che, se spezzato, emette un lattice bianco e questo ha la proprietà, se applicato sulle mucose, o su epidermidi delicate di produrre gonfiori eccezionali. Il nostro aveva seguito quindi l’incitazione dei burloni di turno (anche perché non era infrequente la gara tra ragazzini sulle misure dei pistolini) e per dare maggior forza al miracolo della trasformazione aveva abbondato con la strofinatura così da raggiungere, in breve, dimensioni insperate salvo, come detto dover poi ricorrere alle cure mediche.
Tra i commenti il lettore troverà anche un inattendibile riferimento etimologico al maglio che, però, quanto a fantasia, fa degnamente concorrenza al mio pesce … Spero, però, di rifarmi con la vignetta che segue.
* Dopo la prossima spending review, anche perché ha meno lettere del vecchio PRONTO SOCCORSO …
Sia o non sia vero l’aneddoto, sia salvo dal titimalo il pesce reale oggi e, grazie alle cure del medico (ma credo che se non fosse intervenuto la reazione probabilmente sarebbe rientrata da sola), quello metaforico dell’aneddoto, quest’ultimo m’ispira la riflessione finale indotta dall’ultimo gravissimo fatto di cronaca definito spavaldamente come un gioco dalla madre del principale responsabile. Col passare del tempo pare che l’età dei giochi si sia spaventosamente innalzata nel tempo e che lo stesso gioco o scherzo abbia profondamente cambiato i suoi connotati vestendosi oscenamente di incapacità di valutare i rischi di un’azione, di non superare i limiti che presiedono al rispetto di ogni creatura vivente (può apparire strano e fuori luogo, ma ci voglio mettere pure l’ambiente e, più in particolare, il paesaggio …) e di una crudeltà senza limiti. E, mentre fino a qualche decennio fa sarebbe stato necessario sottrarre al linciaggio da parte del genitore il figlio responsabile di un’autentica e veniale marachella, oggi le madri soprattutto tendono a giustificare tutto e dal linciaggio si devono guardare le forze dell’ordine intervenute per mettere in condizioni di non fare altro danno, ahimé per poco tempo …, il criminale di turno. Insomma, un concentrato di “consapevole stupidità” tutta umana, un ossimoro che, se in un processo fossi l’accusa, farei scoppiare tra le mani dell’avvocato di turno che si è sobbarcato il compito immane di difendere individui siffatti. E il suo compito è immane dal punto di vista morale, non da quello tecnico, perché la leggi attuali per la loro scrittura, che è figlia di un’intenzione quando non lo è di difficoltà razionali ed espressive …, offrono mille appigli anche al più scalcinato degli avvocaticchi …
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1 Historia plantarum, IX, 11:
2 Questo rende probabile che sulle capre, famose per la loro selvatichezza, quest’essenza non abbia alcun effetto negativo.
3 Characias in latino può significare anche canna robusta ed è trascrizione del greco χαρακίαϛ (leggi charakìas)=tipo di canna atta come tutore; euforbia; la voce è da χάραξ (leggi charax)=palo, a sua volta da χαράσσω (leggi charasso)=affilare, lacerare, flagellare, incidere (da cui il salentino caràssa=fenditura).
4 Unità di peso corrispondente a 72 cg.
5 Trascrizione del greco μυρτίτην (leggi miurtiten), accusativo di μυρτίτηϛ (leggi miurtites), da μύρτος (leggi miùrtos)=mirto.
6 Trascrizione del greco καρυίτην (leggi cariuìten), accusativo di καρυίτηϛ (leggi cariuìtes), da κάρυον (leggi càriuon)=noce.
7 Ampollina per l’aceto.
8 Trascrizione del greco παράλιον (leggi paràlion), accusativo di παράλιος (leggi paràlios), composto da παρά (leggi parà)=vicino a e ἅλς (leggi als)=mare.
9 Come in greco ci sono il già visto τιϑύμαλλος e τιϑυμαλλίς (leggi tithumallìs; sua trascrizione è tithymallis) che sembrerebbero indicare due varietà di titimalo, così è pure in Plinio, che a brevissima distanza usa il già visto tithymallus (genitivo tithymalli) e tithymallis (genitivo tithymàllidis, accusativo tithymàlliden, da cui, nella traduzione, il mio titimàllide).
10 Trascrizione del greco ἡλιοσκόπιοv (leggi elioscòpion), composto da ἥλιος (leggi èlios)=sole e σκοπέω (leggi scopèo)=guardare.
11 Dal greco ὀξύμελι [leggi oxùmeli; genitivo ὀξυμέλιτος (leggi oxiumèlitos)] composto da ὀξύς (leggi oxùs=pungente) e μέλι (leggi meli)=miele
12 Trascrizione del greco πλατύφυλλον (leggi platiùfiullon), accusativo di πλατύφυλλος (leggi platiùfiullos)=dalle larghe foglie, composto da πλατύς (leggi platiùs) e φύλλον (leggi fiùllon)=foglia.
13 Trascrizione del greco κορυμβίτην (leggi coriumbìten), accusativo di κορυμβίτης (leggi coriumbìtes)=a grappoli, a sua volta da κόρυμβος (leggi còriumbos)=cima, acconciatura di capelli.
14 Trascrizione del greco ἀμυγδαλίτην (leggi amiugdaliten), accusativo di ἀμυγδαλίτης (leggi amiugdalites), da ἀμυγδάλη (leggi amiugdale)=mandorla.
15 Unità di peso corrispondente a 3,5 g. circa.
16 Trascrizione del greco δενδροειδές (leggi dendroidés)=simile ad albero, da δένδρον (leggi dendron)=albero e εἶδος (leggi èidos)=aspetto.
17 Trascrizione del greco κωβιόν (leggi cobiòn), nominativo di κωβιός (leggi cobiòs), nome di un pesce non identificato e di una varietà di euforbia.
18 Trascrizione del greco λεπτόφυλλον (leggi leptòfiullon), accusativo di λεπτόφυλλος (leggi leptòfiullos)=dalle foglie sottili, composto da λεπτός (leggi leptòs)=sottile e φύλλον (leggi fiùllon)=foglia.
19 Naturalis historia, XXVI, 32: Tithymallum nostri herbam lactariam vocant, alii lactucam caprinam, narrantque lacte eius inscripto corpore, cum inaruerit, si cinis inspergatur, apparere litteras, et ita quidam adulteras adloqui maluere quam codicillis. Genera eius multa. Primus cognominatur characias, qui et masculus existimatur, ramis digitali crassitudine, rubris, sucosis, V aut VI, cubitali longitudine, a radice foliis paene oleae, in cacuminibus coma iunci. Nascitur in asperis maritimis, legitur semen autumno cum coma, siccatum sole tunditur et reponitur. Sucus vero incipiente pomorum lanugine defractis ramis excipitur farina ervi aut ficis, ut cum iis arescat. Quinas autem guttas singulis excipi satis est, traduntque totiens purgari hydropicos fico sumpta, quot guttas ea lactis exceperit. Sucus cum colligitur, ne attingat oculos, cavendum est. Fit et e foliis tunsis priore minus efficax. Fit et decoctum e ramis. Est et semen in usu cum melle decoctum ad catapotia solvendae alvi gratia. Semen et dentium cavis cera includitur. Colluuntur et radicis decocto e vino aut oleo. Inlinunt et lichenas suco bibuntque eum, ut purget vomitione et alvo soluta, alias stomacho inutilem. Trahit pituitam sale addito in potu, bilem aphronitro, si per alvum purgari libeat, in posca, si vomitione, in passo aut aqua mulsa. Media potio III obolis datur. Ficos a cibo sumpsisse melius est. Fauces urit leniter, est enim tam ferventis naturae, ut per se extra corpori inpositus pusulas ignium modo faciat et pro caustico in usu sit. Alterum genus tithymalli myrtiten vocant, alii caryiten, foliis myrti acutis et pungentibus, sed maioribus, et ipsum in asperis nascens. Colliguntur comae eius hordeo turgescente siccataeque in umbra diebus IX in sole inarescunt. Fructus non pariter maturescit, sed pars anno sequente, et nux vocatur. Inde cognomen graeci dedere. Demetitur cum messium maturitate lavaturque, deinde siccatur et datur cum papaveris nigri II partibus ita, ut sit totum acetabuli modus. Minus hic vomitorius quam superior, ceteri item. Aliqui sic et folium eius dedere, nucem vero ipsam in mulso aut passo vel sesima. trahit pituitam et bilem per alvum, oris ulcera sanat. Ad nomas oris folium cum melle estur. Tertium genus tithymalli paralium vocatur sive tithymallis folio rotundo, caule palmum alto, ramis rubentibus, semine albo, quod colligitur incipiente uva et siccatum teritur sumiturque acetabuli mensura ad purgationes. Quartum genus helioscopion appellant, foliis porcillacae, ramulis stantibus a radice IV aut V rubentibus, semipedali altitudine, suci plenis. Hoc circa oppida nascitur, semine albo, columbis gratissimo. Nomen accepit, quoniam capita cum sole circumagit. Trahit bilem per inferna in oxymelite dimidio acetabulo. Ceteri usus qui characiae. Quintum cyparittian vocant propter foliorum similitudinem, caule gemino aut triplici, nascentem in campestribus. Eadem vis quae helioscopio aut characiae. Sextum platyphyllon vocant, alii corymbiten, alii amygdaliten a similitudine. Nec ullius latiora sunt folia. Pisces necat. Alvum solvit radice vel foliis vel suco in mulso aut aqua mulsa drachmis IV. Detrahit privatim aquas. Septimum dendroides cognominant, alii cobion, alii leptophyllon, in petris nascens, comosissimum ex omnibus, maximis cauliculis rubentibus et semine copiosissimum, eiusdem effectus cuius characian.
Ignoro il modo in cui sia stata presentata Lecce alla giuria, so solo che il clima meteorologico della visita in città era avverso e che il filmato ufficiale era infarcito di arcaici luoghi comuni: in primis “IL BAROCCO” e, soprattutto, QUEL BAROCCO quello dei testi scolastici anni ’60.
Quanto affermano tanti leccesi colti e saggi, in merito alle ragioni della “sconfitta” di Lecce, è certamente vero, ma, non è certamente tutto.
È riduttivo fino all’assurdo che Lecce sia letta e classificata quale città barocca, nella ‘classe’ delle città barocche ci sono almeno una trentina di altri centri urbani italiani più barocchi di Lecce; altrettanto, è riduttivo fino all’assurdo che il tasso di cultura di Lecce sia legato agli spettacoli circensi-parrocchiali che le sei città hanno inscenato davanti alla commissione; temo di essere incomprensibile, ma, è riduttivo fino all’assurdo anche misurare il tasso di “capacità di contaminazione culturale di una città” sugli investimenti delle sue amministrazioni in cultura, il numero di teatri istituzionali e posti entro le mura, idem per i cinema.
Tante città italiane possono essere lette e classificate in maniera a sé stante, Lecce è la testa di un insieme urbano diffuso (più o meno la sua provincia) capace di competere, in ogni aspetto culturale, con qualsiasi altra città italiana, di qualsiasi dimensione.
Conoscete le collocazioni geografiche dei giurati, parlo almeno degli italiani? Avete notato la composizione geografica di questo governo? Credete che Lecce, il Salento, la Puglia, in termini macro-economici, culturali, geo-politici, siano confrontabili con Matera? Matera: città incantevole, soprattutto dopo il terremoto dell’Irpinia. Conoscete Gravina? Credete che, nel loro genere, sia meno di Matera?
Non avete qualche dubbio sul senso economico, geopolitico, di un’eventuale scelta di Lecce?
Vittorio Bodini, sublime poeta e buon “pittore”, nella sua comprensione mono-prospettica di Lecce e dei salentini, nel sua ostinazione, tutta artistica, per una proiezione onirica delle sue emozioni sul suo territorio avito, è stato tanto leccese e salentino da non fare affatto una poesia locale, ma, esprimere i sentimenti internazionali di una classe sociale agonizzante: è riduttivo fino all’assurdo che Lecce e la penisola salentina vogliano trovare una propria iconografia di sé nei versi di Bodini, un luogo metaforico.
È in uscita in questi giorni un libro, curato dal mio amico Sergio Ortese, sulla pittura tardo-gotica nel leccese, chi sa che il Leccese è stato un territorio di grande e originale pittura tardo gotica (anche di là da Galatina)? Il nostro territorio ha una variegatura culturale insuperabile, “Lecce” comincerà a vincere quando si conoscerà-riconoscerà e cesserà di vestirsi di luoghi comuni: non tutta l’urbanità del territorio è a Lecce; non tutto il leccese è rurale; non tutto è contadino; non tutto è barocco; non tutto è arido; non tutto è ulivo e muri a secco; non tutto è greco; non tutto fave e cicorie; non tutto pietra a vista; c’è anche tutto il resto, quello “estromesso”.
A mio avviso, l’ultima popstar che aveva almeno intuito una comprensione tridimensionale del territorio leccese è stato Carmelo Bene, stop.
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