Mario Perrotta ci racconta Ligabue, “Un bes”

perrotta el mat

di Gianni Ferraris

“Étrange (straniero, diverso) è una parola scomponibile: être-ange (essere-angelo). Dall’essere angeli ci mette in guardia l’alternativa dell’essere stupidi.” (J. Lacan, Seminario XX, p. 9)

 

La citazione di Lancan la rubo dall’amico Mimmo che su FB commentava l’ episodio a cui ha assistito:  un clochard costretto a consumare in una sala d’aspetto un piatto che non aveva, evidentemente, diritto di mangiare al tavolo della mensa accanto che glielo aveva fornito. Forse non poteva sedere a tavola in quanto clochard, senza casa, senza tetto. Senza dignità?

E quelle parole mi sono balzate in mente ieri sera, memorabile 10 dicembre 2014 in quel di Nardò. Il teatro Comunale non è grande, ed è stipato di spettatori, Mario Perrotta ci racconta Ligabue, “Un bes”.

L’attore (e autore) non recita il personaggio, lui è il personaggio. Solo in scena in questo crescendo carico di tensione emotiva, Ligabue che passa la vita dipingendo con rabbia la mancanza di “un bes”, un bacio, dell’affetto che nessuno ha mai saputo dargli. La Svizzera non sopporta i matti nel suo lindo territorio, allora approfitta del cognome e della nazionalità del suo padre acquisito per cacciarlo in Italia, il paese si chiama Gualtieri, in agro di Reggio Emilia. E come ogni paese sopporta “el mat” “el tudesc”, il matto, il tedesco. Quel bizzarro personaggio che girovaga per strade e boschi dipingendo e scambiando quadri con un piatto di minestra, che parla un misto di emiliano e tedesco, che guarda le donne e cerca solo, banalmente affetto. Ma l’è mat, neppure le puttane lo vogliono “sono sporco, mi ha detto”.

Avevo già incontrato Mario Perrotta quando presentava al pubblico per le prime volte il suo “Un bes”, in una lunga intervista si diceva fra l’altro: 

“Nella presentazione dici che Ligabue artista sapeva di meritarlo quel bacio, il pazzo invece doveva elemosinarlo”.

Certamente. Ligabue aveva una perfetta coscienza di sé e del suo valore artistico. Amava ripetere: “quando sarò morto i miei quadri varranno un sacco di soldi”. Non era assolutamente lo scemo del paese, come amavano pensare i suoi compaesani, semmai lo faceva perché gli tornava comodo. Sapeva che, in quanto artista, avrebbe meritato attenzione e sperava che quell’attenzione si concretizzasse anche in affetto da parte di qualcuno, in modo particolare di una donna. Ma questo, come detto, non avvenne mai neanche dopo quel poco di fama che arrivò negli ultimi anni della sua vita. Semmai, tentarono di sfruttarlo, anche le donne, ma lui questo lo sapeva e a volte si vendicava in modo feroce, facendosi pagare dei quadri in anticipo e poi realizzando delle opere brutte (a suo stesso dire!).

“Le ultime parole delle righe che hai messo nel tuo sito, parlando dello spettacolo, sono: “Voglio stare anch’io a guardare gli altri. E sempre sul confine, chiedermi qual è il dentro e quale il fuori”.

Mi ricorda un amico, Adriano Sofri, che capitò in una sventura giudiziaria e ci salutava dal carcere di Pisa dicendo: “Ciao da noi chiusi dentro a voi chiusi fuori”.  

Sicuramente lo “stare al margine” è una condizione che mi affascina molto, sin dal progetto dedicato ai nostri emigranti degli anni ’50 e ’60. E’ una condizione limite, appunto, che trova rispondenza ancora una volta in un’esperienza profondamente mia legata all’infanzia. Da figlio di genitori separati nel sud di 40 anni fa, il rischio di essere messo al margine per questa condizione era forte e ho dovuto sempre lottare per restare invece “all’interno della cerchia”, tanto che spesso, finivo per ritrovarmi al centro della stessa, troppo al centro, esattamente come se stessi in scena a teatro (ecco che non mi è stato difficile il passaggio da un “palcoscenico” all’altro).

Nel mio caso poi, questa paura di veleggiare sul limite si è andata dissolvendo con il passare del tempo ed è diventata solo un ricordo mentre, per quanto concerne la condizione di “malato di mente”, è connaturata ad essa anzi, è il suo superamento perché il limite sono i cancelli e le mura del manicomio o i muri invisibili che le persone ergono tra loro e te. E una volta che i muri sono saliti, tu malato di mente ti trovi oltre essi e quindi sei “fuori”. Fuori dal consesso umano che ti ha rigettato. Ma, al contempo, gli stessi uomini che si autodefiniscono “sani”, guardando le mura di un manicomio si definiscono “fuori”, mentre i malati sono “dentro”. E allora? Qual è il dentro e qual è il fuori? Esattamente come nella condizione carceraria e in qualunque condizione di diversità sancita da un confine: esso stesso determina un dentro e un fuori differente secondo il lato su cui ci si trova. Mi viene in mente una parola leccese – ‘ppoppeti – che i cittadini di Lecce usano per indicare in modo irriverente “quelli di provincia”. Il suo etimo è latino e cioè: post oppidum, oltre le mura della città.

Il guaio è che anche “quelli di provincia” usano la stessa espressione per indicare con la stessa irriverenza “quelli della città” perché, dal loro lato del confine, noi cittadini siamo effettivamente ‘ppoppeti, ossia oltre le mura. Ecco che, ancora una volta, un confine determina una discriminazione bilaterale e a furia di annotare situazioni del genere, mi viene da pensare che è il concetto stesso di confine ad essere sbagliato.

 

E in altra intervista pubblicata recentemente sulla rivista della Fondazione Terra d’Otranto “Il Delfino e la mezzaluna”, alle pagg. 216/223,  racconta dell’impellenza di parlare della diversità, di viverla:

Vorrei farti una domanda personale. Sei diventato padre, ne vuoi parlare?

il progetto Ligabue nasce per questo. sapevo che sarei diventato padre di un bimbo o una bimba che arrivava dal centro africa. Non sapevo da dove nè l’età, né il sesso, l’unica certezza era che sarebbe stato nero. Per qualcuno è un problema, per me una ricchezza. Gabriele è arrivato dall’Etiopia e un giorno vorrà riscoprire le sue tradizioni. So che qualcuno gli farà notare la sua differenza. Mi sono chiesto se saremo in grado di aiutarlo a superare questi scogli. Lo sapremo un tempo. Queste tensioni mi hanno fatto tirar fuori il progetto Ligabue. Un “diverso” era la figura che mi permetteva di parlare di me e delle mie tensioni.  Come vedi non è una domanda personale, è artistica. i miei testi sono le mie urgenze. Privato e scena si intrecciano.

 perrotta

Parole nella quali la parte “razionale” ha il sopravvento, è la logica dell’offrire una visione della diversità al pubblico, del dare un senso a quella che chiamiamo pazzia giusto per togliercela di torno e tornare alla nostra “normalità” mentre “el mat” crea, vede il mondo con occhi diversi, rivendica un bes, un abbraccio, comprensione non per il suo stato ma per il suo essere “umano”. Il paese lo deride ma acqusita i suoi quadri, i “normali” si fanno dipingere il furgoncino che poi rottameranno senza rendersi conto di quel che fanno, pur se legati a filo doppio al valore venale del denaro, neppure sanno di aver rottamato un’opera d’arte, lo capiranno solo quando l’artista morirà e i suoi quadri avranno l’onore di essere “opere d’arte”.

Non avevo mai avuto l’onore e il piacere di vedere lo spettacolo, ne avevo solo parlato con Mario. Arrivò in primavera a Lecce, è vero, ma per una sola sera e in un teatro piccolo per un artista così immenso, il Paisiello, non trovai il biglietto. Ora è tornato in un teatro altrettanto bello e altrettanto piccolo. Ancora una volta per una sola sera. L’ho visto ed ho capito di getto tutte le cose che Mario, in due interviste, non è stato capace di dirmi, non poteva farlo: l’impatto emotivo dello spettatore. Commuoversi di fronte ad una piece teatrale non è usuale per me, lasciarsi andare e passare dalla storia narrata a “oltre la storia” non è facile. Questa volta è successo, ed ho visto altre lacrime fra gli spettatori. Mi sono commosso e sono riuscito a trapassare la storia narrata, a veder nascere quadri (Mario in scena disegna anche bene con tratti di carboncino su fogli grandi). Ho visto la grandezza del diverso e l’immensità dell’artista. Ho visto, per dirla con Lacan, un Etrange, un angelo rabbiosamente fiero e senza l’affetto che lo renderebbe una persona altra, diversa.

E tornando a Lecce, nella notte limpida e senza luna, pensavo a come sono grette le città di provincia, a volte, quando disdegnano i loro geni, li emarginano, li snobbano. Lecce austera potrebbe, dovrebbe riabbracciare con serena calma e pacatezza i suoi “mat”, i guitti, quelli che scommettono e creano. Dovrebbe riconoscere gli artisti quando ancora hanno molto da dare.  Qui ed ora per favore!

 

 

 

Libri. Un romanzo storico in quel di Parabita

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di Paolo Vincenti

 

L’amore per la piccola patria può avere diverse sfaccettature e portare  uno storico a farsi romanziere. Così l’erudito Ortensio Seclì  lascia le ricerche e la saggistica e profonde la sua abilità scrittoria nell’invenzione narrativa.  E dopo “Il giardino grande” (2012), pubblica, sempre con l’editore Il Laboratorio di Parabita, “Per amore…solo per amore” (2014). A dire il vero,  la commistione dei generi non è trovata di poco momento e lo sanno bene gli appassionati lettori dei romanzi storici.

In questo genere letterario di gran successo infatti si colloca il libro di Seclì, che unisce alla piacevolezza della fiction, la precisione del dato storico,  in un impianto narrativo solido cui fa da basamento la pluridecennale esperienza letteraria dell’autore.

La complessa vita sociale, politica e religiosa  parabitana fa da sfondo alla narrazione e si intreccia alle varie love stories raccontate. Nell’ordine:  quella sfortunata e senza prole fra il duchino Giovanni e l’ aristocratica napoletana Olimpia, che monopolizza la prima parte del libro e la cui sfortuna viene attribuita da un lato alla fama da jettatore che il nobiluomo Della Valle, padre di Olimpia si porta dietro, e dall’altro alla “maledizione di Rosaria”, vale a dire la protagonista della storia d’amore del precedente libro di Seclì, la quale, a detta di Lucia la Greca, madre di Giovannino, dopo aver disonorato la famiglia dei Ferrari in vita, a causa del matrimonio fra lei, popolana, e l’altolocato Don Saverio, continuava a portar sfortuna anche dopo morta. Poi la storia d’amore, pure molto tormentata, fra Vincenzo Ferrari, figlio di quella stessa Rosaria Cataldo, e Lucia Nicolazzo, che occupa la parte centrale del libro;  l’amore di Andrea Giannelli, noto esponente liberale del risorgimento salentino, e Agnese, una dei tre figli di Vincenzo e Lucia; la storia d’amore, complice Giuseppe Ferrari, fra l’umile falegname Gaetano e la bella Concetta;  e infine la storia d’amore fra lo stesso Giuseppe, terzo figlio dei signori Vincenzo e Lucia, anche Sindaco di Parabita dal 1857 e il 1860, ed una esponente del popolo, tanto povera quanto onesta e timorata di Dio, Nunziata.

Il libro dunque si caratterizza come una saga famigliare, e a fare da trade union fra le vicende narrate è proprio l’amore che impasta le vite dei protagonisti, dà sale alla storia globale raccontata, a partire dal titolo del libro che richiama quello di un film del 1993, “Per amore solo per amore”, tratto dall’omonimo romanzo di Pasquale Festa Campanile, ed anche il refrain di una bellissima canzone di Roberto Vecchioni (“Per amore mio”).  Ma le biografie dei personaggi e l’orizzonte temporale dell’Ottocento parabitano preso in esame, si presentano complementari, in quanto le vicende personali sono sempre gravide di conseguenze che riguardano la collettività e le scelte individuali o famigliari degli aristocratici Ferrari si riflettono gioco forza sui destini della comunità, ancora all’epoca asservita ai ricchi feudatari. Una nota di merito alla scrittura di Seclì che scorre piana, limpida, adamantina per tutto il libro.  Molto bella la copertina opera del pittore-poeta Giuseppe, Pippi, Greco, mentre la progettazione grafica è di Sandra Greco.

Già recensendo suoi precedenti lavori, ho scritto che Ortensio Seclì è fedele metodologicamente  alla scuola storica degli Annales, quella dei vari Bloch, Lefebvre, Braduel, che cioè considerava la storia non solo, crocianamente, sotto il profilo etico-politico, ma anche nei suoi interessi  economici, sociali, antropologici, psicologici. Georges Lefebvre infatti affermava che “la storia non è scritta una volta per sempre, non è composta di una specie di materia morta e irrigidita per l’eternità, ma è in perpetua gestazione, si evolve con la civiltà degli uomini e con gli avvenimenti che segnano la loro esistenza”.

I ricercatori come Ortensio Seclì  non si accontentano di ricordare il passato ma lo reinterpretano, lo ricostruiscono sempre alla luce delle nuove acquisizioni che di volta in volta sgretolano parte di quelle che erano ritenute verità tradizionali. Il merito maggiore di questi due libri di Ortensio Seclì è quello di aver dato un volto, un cuore, sentimenti, a quei personaggi della storia parabitana che altrimenti sarebbero restati solo dei nomi incorniciati dalle due date di nascita e di morte. Seclì ha dialogato con l’Ottocento parabitano, ha animato i ritratti di questi dignitari del passato, gli ha dato colore, spessore, flatus vocis quasi, dalle righe intense dei suoi dialoghi.

Chiaro che l’autore abbia il culto della storia, il gusto di riportare all’attenzione dei contemporanei le vestigia del passato, e sebbene la sua ricostruzione sia  corretta filologicamente, essa è vivificata dall’invenzione letteraria, che sembra confermare l’assunto precedentemente svolto, ossia della storia intesa come continua ricerca. Senza mai perdere di vista l’alta funzione della storia. Significativo è a tal proposito quanto l’ autore fa dire a Don Giovannino, il quale parlando sul letto di morte, col frate Padre Damiano, sentenzia: “ La storia! La morte non ha alcun potere su di essa perché anche quando sembra che la storia sia stata cancellata, un bel giorno torna dal mondo dell’oblio nel quale sembrava fosse stata dimenticata e si impone prepotente agli uomini… è la memoria di noi, di ciò che abbiamo fatto, di come abbiamo saputo operare che viene conservata dalla storia e che ritorna anche dopo secoli a farci giudicare dal mondo”.

L’inclinazione di chi scrive si fa manifesta nelle ultime dieci pagine del libro dove il romanzo vira più decisamente verso il saggio storico, con le vicende relative alla nascita della Banca Popolare di Parabita. In questo cambio di passo sembra quasi che Seclì abbia voluto recuperare  la sua prima vocazione e con questa  suggellare la fortunata parentesi narrativa. Nel complesso, un buon libro, a cui dà lievito l’interesse della materia trattata e  dà sentimento, insufflata nell’impianto generale dell’opera, la passione di chi la muove.

 

Chiarimenti sull’attività estrattiva a Cutrofiano

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DA PROBLEMA AD OPPORTUNITA’… VEDI IL PARCO DEI FOSSILI DI CUTROFIANO

 TRASPARENZA E RISTORO PER LA NOSTRA COMUNITA’

 

L’Amministrazione Rolli ha approvato nel Consiglio Comunale del 4 Dicembre la nuova bozza di Convenzione con Colacem che, dopo la firma, sostituirà la vecchia Convenzione sottoscritta per il Comune di Cutrofiano dall’allora Sindaco Paolino Matteo nel 2005.

La Delibera di Consiglio arriva dopo che Colacem il 30 ottobre ha inviato una nota al Comune di Cutrofiano, con la quale l’Azienda manifestava la volontà di ritirare il ricorso pendente innanzi al TAR di Lecce contro il Comune di Cutrofiano, accollandosi tutte le spese legali, e di intraprendere un percorso di concertazione attraverso l’aggiornamento della Convenzione. Il motivo del ricorso è il mancato riconoscimento da parte di Colacem del vincolo da PUTT, oggi PPTR, rappresentato dal Canale Colaturo la cui fascia di pertinenza era interessata dal progetto di ampliamento della cava Don Paolo, presentato nel 2009 e con una superfice di scavo di circa 7 ettari.  Sul rispetto di questo vincolo l’Amministrazione Comunale non ha mai derogato tanto da indurre gli stessi Uffici Regionali a riconoscere la presenza del vincolo stesso, cosa prima negata.  Ora Colacem si dichiara disponibile a ridurre il progetto di ampliamento tenendo conto del vincolo, escludendo la fascia di territorio larga 150 metri dal Canale, sita a ridosso dell’area sud-ovest della cava, e soddisfacendo in questo modo l’interesse pubblico.

Sulla disponibilità ad aggiornare la Convenzione, l’Amministrazione ha rilanciato ottenendo l’impegno da parte di Colacem a concedere alla Comunita’ di Cutrofiano  € 200.000 per l’attività estrattiva del 2014, € 200.000 per l’attività estrattiva del 2015, € 150.000 per ogni ulteriore anno di attività estrattiva, rivalutabili annualmente secondo gli indici Istat; ulteriori 200.000 Euro dopo il rilascio del Decreto di proroga e di ampliamento da parte della Regione Puglia.

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Rimane a Colacem  l’impegno a caratterizzare i siti storicamente interessati dalle attività estrattive e a redigere i Piani di recupero collaborando con l’Amministrazione Comunale. Viene fatto salvo anche l’impegno alla realizzazione di una rotatoria sulla provinciale per Maglie, all’altezza dell’impianto dell’AQP (opere terminali), punto critico in cui negli anni si sono verificati vari incidenti, anche mortali. In cinque anni, dunque, la comunita’ di Cutrofiano potrà avere risorse pari ad 1.400.000 che potranno essere utilizzate, a titolo di esempio, per la sistemazione di strade urbane o  di campagna, per la riqualificazione di aree periferiche oppure per interventi sulla Pubblica Illuminazione  per il risparmio energetico, che avra’ ricadute positive immediate sul bilancio Comunale in termini di risparmio di bollette da pagare.

Il Sindaco Oriele Rolli, a nome di tutta l’Amministrazione Comunale, esprime soddisfazione per una azione di concertazione che vede riconosciuto un importante ristoro alla comunità di Cutrofiano da parte di Colacem per l’attivita’ estrattiva che l’Azienda svolge sulla base di legittime autorizzazioni, che la Regione Puglia rilascia nell’esercizio delle competenze che la legge le attribuisce.

        L’Assessore                                                                     Il Sindaco

Maria Rosaria Cesari                                                               Oriele Rolli

LE FOTO ALLEGATE SONO PRESE DAL SITO CHE TI INVITIAMO A VISITARE: http://www.lameta.net/blogsalento/?p=787

 

 

Ancora attività estrattive a Cutrofiano (Le), come se volessero penetrare le viscere della terra

Cava estrattiva

di Paolo Rausa

 

‘Costruivano come se non dovessero morire mai e mangiavano come se dovessero morire all’indomani’ – così Empedocle nel V secolo a.C. a proposito degli agrigentini. Qui, nel Salento invece, un massacro del territorio lo definiscono le associazione ambientaliste (Forum Amici del Territorio, Italia Nostra sez. Sud Salento, Consulta Ambiente C.S.V. Salento, Forum Ambiente e Salute), preoccupate che l’attività estrattiva minacci l’ambiente naturale e la salute dei cittadini.

L’area che si teme possa venire ulteriormente e irreparabilmente compromessa si trova nel cuore del Parco agro-naturale dei Paduli. Che cosa accade dunque in questa area agricola e ambientale di pregio?

‘L’Amministrazione di Cutrofiano si appresta a concludere un vergognoso accordo con la Colacem, in danno del territorio, dell’ambiente e di tutta la comunità locale, per un obolo di 50.000 euro l’anno, il classico piatto di lenticchie, denunciano le associazioni. Si tratta dell’ampliamento di ulteriori 5 ettari della cava “Don Paolo”, che si aggiunge ai 22 ettari (con profondità di 30 metri) già interessati all’attività estrattiva di argilla per confezionare cemento.

‘Un patto scellerato, – incalzano gli ambientalisti – reso possibile dalle connivenze della politica locale, che ha trasformato questo nostro paese, dalle spiccate vocazioni agricole, turistiche e artigianali in una colonia mineraria, il cui materiale di scavo viene esportato in tutto il mondo senza regole e senza limiti, per dare profitto ad una singola azienda privata.’ La quale mostra sicurezza tanto da dichiararsi tranquilla sui tempi lunghissimi di attività che si protrarranno fino ad esaurire la vena dei materiali estratti. Che fine hanno fatto le promesse elettorali dell’Amministrazione Rolli  che dichiarava avrebbe messo in atto “una politica di controllo, di contenimento e, se necessario, di contrasto nei confronti delle attività estrattive”?

Una situazione che non sembra preoccupare le Autorità, a fronte dei dati contenuti nel Registro Tumori del Comune e del comprensorio da cui risulta una mortalità per tumori polmonari nettamente superiore alle medie regionali e nazionali. In particolare il progetto di ampliamento interessa un’area a ridosso del Parco dei Paduli e nella fascia di rispetto del canale Colaturo (classificato tra le acque pubbliche), di elevato valore paesaggistico, già respinto una volta nel 2011 dalla procedura di Valutazione di Impatto Ambientale.

Che cosa chiedono i cittadini e gli ambientalisti con questa presa di posizione? ‘Una moratoria delle attività estrattive e una discussione pubblica sulla tutela del territorio che coinvolga i comuni vicini – incalza Gianfranco Pellegrino del Forum Ambiente Salute – Il grido di dolore per quest’ennesima ferita della terra giunga alle orecchie anche della Provincia e della Regione che impediscano ulteriori scempi del territorio, revocando l’autorizzazione all’allargamento delle attività estrattive! – conclude, con la speranza di trovare ascolto.

Ricette con le seppie (II)

Maccheroni con il sugo di seppie

Ingr. : 1 kg e ½ di seppie, 1 litro di passata di pomodoro, 500 grammi di maccheroni o pasta corta in genere, un trito preparato con mezza cipolla e 100 g di lardo, mezzo bicchiere di vino bianco secco, olio extravergine d’oliva, prezzemolo, pepe nero e sale.

Pulite le seppie spellandole, eliminando gli occhi, l’osso e gli organi interni, ma serbate le gonadi e la sostanza giallo brunastra (epatopancreas) contenuta nella sacca aderente al tronco e tagliatele a listelle. Versate l’olio in una casseruola, aggiungetevi il trito di lardo e cipolla; fatelo imbiondire, unite le seppie e saltatele a calore vivo, bagnatele con il vino, lasciatelo evaporare ed unite la passata di pomodoro. Portate ad ebollizione, condite con sale e pepe nero o se preferite peperoncino e continuate la cottura per circa mezz’ora. Qualche minuto prima di fermare la cottura unite l’epatopancreas messo da parte ed il prezzemolo tritato. Lessate i maccheroni, sgocciolateli al dente, conditeli con il sugo e serviteli subito cosparsi con altro prezzemolo tritato, le seppie potranno essere servite insieme alla pasta, oppure a parte come secondo piatto.

 

Pizzarieddhri al ragù di seppie

Ingr. : 1 lt e 1/2 di passata di pomodoro, 6 seppie di ca 250 g cad. ,  5-600 g di strascinati, 200 g di pecorino e parmigiano grattugiati, 2 uova, 100 g di pangrattato, 1 dl di olio extravergine d’oliva, 1 dl di vino bianco secco, aglio, prezzemolo, pepe nero macinato e sale.

Pulite le seppie liberandole delle interiora, dell’osso e degli occhi, ma lasciando possibilmente il tronco unito al mantello, per fare ciò, almeno per le prime volte sarà bene che vi facciate aiutare dal vostro pescivendolo. Preparate un composto amalgamando insieme i due tipi di formaggio grattugiati, il pangrattato, le uova, il pepe e il prezzemolo. Con il composto ottenuto riempite le sacche delle seppie e ricucitele con del filo di cotone bianco. Fate scaldare uno spicchio d’aglio nell’olio e appena accenna ad imbiondire eliminatelo. Fate rosolare nell’olio le seppie, quindi bagnatele con il vino e quando anche questo sarà evaporato ricopritele con la passata di pomodoro, portate ad ebollizione, quindi abbassate la fiamma e lasciate sobollire per almeno un’ora e mezza. Con il ragù ottenuto condite i pizzarieddhri cotti al dente e serviteli cosparsi di prezzemolo tritato e a piacere con formaggio canestrato pugliese o parmigiano grattugiato. Le seppie possono naturalmente essere servite come pietanza. Una variante consiste nel servire la pasta cosparsa con mollica di pane fritta in olio con pepe e sale e con il sugo delle seppie che in questo caso avrà una consistenza più blanda.

 

 

Da Soleto, un accorato “no” ai bioputrefattori

SOLETO: UN ACCESISSIMO CONVEGNO DOVE IN MASSA I CITTADINI HANNO DETTO NO AL “BIOPUTREFATTORE”

E DOVE SI SON POSTE LE BASI PER LA NASCITA DI UN COMITATO CIVICO PER LA TUTELA DEL TERRITORIO

 

“NO AI NUOVI BIOPUTREFATTORI NE’ QUI, NE’ ALTROVE !”

 

SI AI BUONI PRINCIPI DEL MICRO-COMPOSTAGGIO DIFFUSO E QUINDI DILUITO SUL TERRITORIO E ALLA RICONVERSIONE E UTILIZZO DEI BIOSTABILIZZATORI GIA’ ESISTENTI PER PRODURRE COMPOST E NON DANNOSO BIOSTABILIZZATO COME OGGI!

a cura del Forum Ambiente e Salute

 

Impianto biogas da rifiuti di Salerno, le medesime cementificazioni e impatti che a Soleto-Galatina si devono impedire
Impianto biogas da rifiuti di Salerno, le medesime cementificazioni e impatti che a Soleto-Galatina si devono impedire

A seguito del partecipatissimo convegno tenutosi a Soleto nei giorni scorsi, sul preoccupante tema di un progetto per un megaimpianto di compostaggio-biogas, i cittadini qui scriventi informano che da quella grande mobilitazione si stanno ponendo le basi per la nascita di un comitato aperto e trasversale mirato a fermare la costruzione di quelli che oramai sono stati ribattezzati eloquentemente “bioputrefattori”, gli immensi impianti costruiti ex-novo di compostaggio-biogas; un comitato a difesa del paesaggio, della salute e dell’agricoltura che deve essere e continuare ad essere nel Salento un’ agricoltura della salubrità e della tradizione alimentare di qualità ed eccellenza, e che quindi non deve essere assolutamente corrotta ed asservita alla produzione immorale di speculativo biogas; una speculazione anche denunciata dalla trasmissione di inchiesta giornalistica “Report” su Rai 3 (link: http://www.report.rai.it/dl/Report/puntata/ContentItem-c8210399-a212-4753-a2b7-e36b663c52cc.html ).

Cogliamo l’occasione per ringraziare i tantissimi cittadini che hanno preso parte all’accesissimo convegno tenutosi a Soleto nei giorni scorsi e che in massa e accoratamente hanno ribadito, con esemplare educazione e solidi argomenti, ormai patrimonio comune di tutti, i tanti motivi del NO forte al mega-impianto. Il convegno ha visto tra i relatori anche la partecipazione del famoso oncologo dott. Giuseppe Serravezza, presidente della LILT (Lega Italiana per la Lotta ai Tumori) della provincia di Lecce, che nel suo mirabile intervento applauditissimo ha ribadito con grandissima forza la sua contrarietà a questo tipo di impattanti impianti che taluni volevano costruire ex-novo tra Soleto e Galatina, come in altre aree del territorio salentino!

Ulteriore preoccupazione nei cittadini ha provocato la diffusione sui social network delle foto del premiato impianto di biogas-compostaggio di Salerno presso il quale si sono recati nei giorni successivi al convegno alcuni amministratori e cittadini di Soleto, tra i quali, erroneamente a quanto ha dichiarato sulla stampa il sindaco di Soleto, che ha lamentato l’assenza di rappresentanti di associazioni ambientaliste critiche al progetto, era anche presente Giuseppe Spagnolo facente parte sia dell’associazione socio-culturale Nuova Messapia, quanto attivista del Movimento 5 Stelle Soleto, associazione e movimento anche loro fortemente contrari nei confronti dell’ipotesi prospettata dall’amministrazione di realizzare un simile impianto nel feudo cittadino.

Le foto del megaimpianto di Salerno mostrano le immense cementificazioni che un simile opificio ex novo implicherebbe, con immense strutture e vaste superfici per il trattamento di grandi volumi di rifiuti e di percolato, nonché grandi capannoni industriali in cemento in tutto e per tutto identici a quelli già presenti nel territorio salentino negli impianti, chiamati biostabilizzatori, per il trattamento dei rifiuti.

Cogliamo l’occasione per stigmatizzare la responsabilità politica delle amministrazioni locali di Soleto e Galatina i cui rappresentanti durante il sopracitato convegno hanno espressamente affermato di aver operato per inceppare il virtuoso processo di riconversione, che è in corso, degli impianti di biostabilizzazione, che son già esistenti,  in impianti di compostaggio, al fine di rendere necessaria la costruzione di impianti ex novo con la conseguente compromissione, come nel caso di Soleto e non solo, di aree ad oggi del tutto vergini all’industria e al cemento.

Impianto biogas da rifiuti di Salerno, le medesime cementificazioni e impatti che a Soleto-Galatina si devono impedire
Impianto biogas da rifiuti di Salerno, le medesime cementificazioni e impatti che a Soleto-Galatina si devono impedire

In un quadro nazionale che vede la nascita di innumerevoli comitati contro le centrali a biogas e i grandi impianti di compostaggio forieri di innumerevoli danni alla salubrità ambientale suscitano perplessità i criteri non ben chiari con i quali l’amministrazione di Soleto ha scelto di far visita proprio all’impianto di Salerno, in un contesto di fortissime contraddizioni che sono emerse a tal proposito, ad esempio:

-) inizialmente per l’impianto di Soleto si parlava di un opificio per la produzione di energia elettrica da combustione di biogas, mentre gli amministratori nella sede del convegno hanno poi parlato di  un impianto diverso che avrebbe immesso il gas prodotto nella rete di distribuzione nazionale del gas, salvo poi promuovere la visita all’impianto di Salerno che, come anche ribadito lì dall’ ingegnere capo responsabile della struttura, è invece un opificio per la combustione del biogas lì prodotto, finalizzato alla produzione di energia elettrica, e con conseguente immissione dei fumi di combustione in atmosfera. Non si capisce, pertanto, se tale confusione sia nella mente dei proponenti della “gita” a Salerno, o se la si voglia inculcare nei cittadini.

-) Si è assistito, qui tra Soleto e Galatina, all’uso di una serie di termini mistificatori atti a sminuire l’impatto ambientale dell’impianto di Salerno chiamato talvolta impropriamente come semplice impianto di compostaggio, e a volte persino, cosa a dir poco ridicola “compattatore”. Non si è comunicato poi che quell’ impianto di Salerno, per produrre lucroco biogas, non usa solo rifiuti umidi urbani. Qualcuno, fuorviando le parole dell’ingegnere, ha creduto trattarsi di un impianto per l’immissione del gas nella rete del gas, quando invece bene il tecnico ha spiegato, come ben si ascolta in un video, (ma si può leggere questo ovunque in merito a quell’opificio campano), che lì il gas prodotto viene bruciato in loco per produrre energia!

 

Impianto biogas da rifiuti di Salerno, le medesime cementificazioni e impatti che a Soleto-Galatina si devono impedire
Impianto biogas da rifiuti di Salerno, le medesime cementificazioni e impatti che a Soleto-Galatina si devono impedire

Ci facciamo qui portavoce delle lamentele di tanti cittadini per la quasi del tutto assente ed inadeguata pubblicità e comunicazione data dall’amministrazione circa la visita organizzata a Salerno. Visita nella quale, hanno comunque informato i rappresentanti delle associazioni che vi hanno partecipato, non son mancati i persistenti mefitici odori nauseabondi e vomitevoli, che i locali tecnici attribuivano ad altre strutture(?), dei depuratori adiacenti. E guarda il caso, anche per Soleto, si vorrebbe legare la filiera del simile impianto immaginato nel feudo comunale, e in parte in quello della confinate Galatina, a quello del prossimo depuratore mal funzionate nell’area industriale di Galatina!

Impianto biogas da rifiuti di Salerno, le medesime cementificazioni e impatti che a Soleto-Galatina si devono impedire (2)
Impianto biogas da rifiuti di Salerno, le medesime cementificazioni e impatti che a Soleto-Galatina si devono impedire

 

Legati a quella filosofia di ambientalismo scientifico fortemente affermatasi nel Salento che studia fin nei minimi termini non solo gli impianti in sé, ma anche i rapporti ecologici tra ambiente naturale e dinamiche umane socio-culturali, politiche, economiche e storiche, dinamiche che anche nel recente passato hanno portato a disastri e hanno trasformato idee positive in strumenti di speculazione e devastazione, come nel caso del fotovoltaico, dell’eolico e delle biomasse, (di cui il biogas fa parte), già avevamo ben sottolineato, anche in sede del convegno, i grandi rischi sottesi alla creazione di un simile impianto.” – dice Oreste Caroppo del Forum Ambiente e Salute, – “per questo non possiamo che giudicare positivamente la prudenza esposta dallo stesso sindaco di Soleto, all’indomani della visita a Salerno, sui giornali locali”. Sindaco che, come riportato e titolato dalla stampa, ha affermato: “Ancora dubbi” “Non abbiamo ancora deciso, dobbiamo sciogliere alcuni dubbi perché, pure in presenza di innegabili ritorni economici, la salute dei cittadini viene prima di tutto“.

 

In questa brutta vicenda si sta assistendo da parte di taluni ad un uso strumentale di un falso ambientalismo piegato e asservito ad interessi ben lontani dal Bene Comune; un brutto uso distorto ed incoerente dell’ecologia che già il territorio ha conosciuto, (ed ha imparato ormai a riconoscere), nella dannosa speculazione della Green Economy Industriale, i cui mezzi imbonitori già ben conosciamo, come ad esempio i premi preconfezionati con i quali si cercava di mielare e legittimare agli occhi dei cittadini tutta una serie di progetti di nocive centrali a biomasse, (e il biogas è una di queste), altamente impattanti. Centrali nella stragrande maggioranza dei casi fermate sul nascere nel Salento grazie alla grande sensibilità civica del territorio sollevatosi in massa contro, a tutela dei diritti delle future generazioni e non solo.

Allacciandoci alle perplessità evidenziate dallo stesso sindaco, chiediamo di operare tutti assieme per porre un punto fermo consistente nell’affermazione di un pieno NO al progetto che sta togliendo il sonno ai cittadini di Soleto, di Galatina e di tutto il territorio circostante, e chiediamo che:

se da un lato è giusto riconvertire, a zero consumo di nuovo suolo, gli enormi impianti già esistenti ed operanti di biostabilizzazione in impianti di mero compostaggio aerobico, (possibilità incontrovertibile dal punto di vista tecnico-ingegneristico contro ogni insostenibile e strumentale bugia, e che basterebbero di gran lunga per il trattamento dell’intera frazione umida dei rifiuti urbani della provincia di Lecce; possibilità che già di per sé svuota le vane tesi di coloro che tentano di avallare nuovi impianti paventando l’ “emergenza” rifiuti; riconversione che risponde ad ogni buon principio di economicità), dall’altro occorre operare anche per ridurre le frazioni umide lì destinate, favorendo piccoli impianti di compostaggio a dimensione comunale, (che, trattando minori quantità di frazione organica a sistema aerobico, le possono ben trattare direttamente su suolo agricolo a km zero, eventualmente con rotazione dei terreni), e favorendo il compostaggio domestico familiare, (ed in merito a questi punti già esiste una avanzata pianificazione a dimensione comunale redatta dai virtuosi cittadini di Soleto e disponibile); in tal modo la stessa frazione umida dei rifiuti da conferire agli impianti di compostaggio, (ottenuti dagli ex-biostabilizzatori nei loro medesimi siti), verrebbe infinitesimamente ridotta, se non anche annullata, secondo la virtuosa filosofia, che qui nei fatti si stava per calpestare e strumentalizzare, del ciclo Rifiuti Zero.

Infine riportiamo a conclusione le sagge parole di Oreste Caroppo del Forum Ambiente e Salute: “occorre rivedere l’intera pianificazione del nostro territorio nel verso della contrazione delle aree ad oggi nei piani urbanistici destinate, in maniera quasi sempre eccessiva e ridondante, ad opifici industriali, facendole ritornare agricole, favorendo anche opere di decementificazione, rinaturalizzazione, restauro paesaggistico e rimboschimento con piante autoctone. Così, cosa molto grave che, a fronte della visita fatta all’impianto di Salerno, non sia stata organizzata una visita ai suoli nei fatti agricoli e naturali, e quindi preziosi, che oggi rischiavano a Soleto di essere distrutti in questa irresponsabile ipotesi progettuale che si stava avallando. Pertanto, opportuna invece, nell’affermazione del principio virtuoso di Stop al Consumo del Territorio, operare per realizzare lì invece un Bosco, ad affermazione simbolica di una ripristinata virtuosità amministrativa nel verso della tutela vera del Bene Comune e della corretta pianificazione territoriale.”

L’avvocato mancato di Nardò

di Armando Polito

 

Tavola tratta da Le vite de’ letterati salentini di Domenico De Angelis, parte I, s. n.., Napoli, 1710
Tavola tratta da Le vite de’ letterati salentini di Domenico De Angelis, parte I, s. n.., Napoli, 1710

Non perdo tempo né lo faccio perdere al lettore e dico subito che il protagonista della storia di oggi  è  Antonio Caraccio (Nardò, 1630-Roma, 1702), letterato prestigioso quanto immeritatamente poco noto dell’età barocca, al quale ho già dedicato non molto tempo fa un post (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/06/antonio-caraccio-nardo-1630-roma-1702-note-iconografiche/) ed un lavoro meno settoriale che, un po’ di autopubblicità non guasta, dovrebbe vedere la luce fra qualche mese.

Il testo che segue fa parte della sua opera maggiore, un poema epico il cui titolo è L’imperio vendicato, uscito in una prima edizione di venti canti a Roma nel 1679 per i tipi di Bussotti e in quella definitiva con l’aggiunta di altri venti nel 1690 sempre a Roma ma per i tipi di Tinassi. I versi che seguono sono le ottave 74-77, 1-4 del canto XXXIII, alle quali mi sono permesso di aggiungere di mio qualche nota o, laddove mi sembrava necessario, la parafrasi in italiano corrente.

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Se il Caraccio non fosse diventato un letterato, come oggi si dice, di successo e non avesse dimostrato, comunque, di possedere un cervello al di fuori del comune, probabilmente qualche avvocato (io credo però, che il fallimento della giustizia sia da imputare in generale più all’insipienza ed alla malafede del potere legislativo/esecutivo che all’inabilità professionale, in buona o in malafede, di giudici e avvocati …) a questo punto scomoderebbe il famoso aneddoto della volpe e dell’uva.

Io, più diplomatico, nel titolo ho applicato solo una parte della metafora del bicchiere, pensando a quello mezzo vuoto.

Al di là della visione, quanto meno discutibile, che il neretino aveva della professione forense (qualche tempo dopo pure il Manzoni farà dire al suo Azzeccagarbugli All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi imbrogliarle) resta l’importanza di autonomia nelle scelte personali  e il diritto di seguire e coltivare, quando c’è, il proprio talento.

La carne che ho, con l’aiuto del Caraccio, messo al fuoco è parecchia e rispecchia problemi attualissimi e gravissimi. Lascio a genitori,  avvocati e a chiunque ne abbia voglia il compito di sorvegliare, con i loro commenti, i tempi di cottura della razione di oggi …

Un’opinione natalizia

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di Rocco Boccadamo

 

Tanto più che, ormai da lunga pezza, si sta attraversando, una fase di seria se non durissima crisi economica, finanziaria e occupazionale, non mi piace per niente il rito della corsa agli acquisti nell’imminenza del Natale e di Capodanno, con folle che si accalcano nelle strade dei negozi o si stordiscono nell’aria forzata dei centri commerciali.

Per come si sono messe le cose, altro che rito, sembra trattarsi di vera e propria mania, di dipendenza, schiavitù e di condizionamenti, che hanno preso corpo sotto l’azione di vuoti richiami all’indirizzo di consumi il più delle volte voluttuari e superflui.

Addirittura, la situazione determinatasi si rivela talmente perniciosa da riuscire a intaccare la serietà e il rigore di taluni interventi delle istituzioni a tutela della salute pubblica: è il caso di amministratori comunali che, in questi giorni, dicono e ribadiscono di essere consapevoli di un livello d’inquinamento dell’atmosfera cittadina di gran lunga sopra la soglia tollerabile, ma di soprassedere scientemente ad intervenire con provvedimenti  particolarmente restrittivi del traffico, al fine di non danneggiare le attività commerciali.

Chi scrive, desidera semplicemente osservare che, eccettuati i panettoni propriamente legati al Natale e l’occorrente per un buon pranzo, tutti gli altri articoli (maglioni, scarpe, sciarpe, pigiama, camicette, profumi, collanine, cellulari e via dicendo) possono essere benissimo acquistati nel corso dell’anno, senza ingorghi ed eccessi straordinari di domanda che generano solo confusione e, inevitabilmente, aumenti dei prezzi.

Senza trascurare che a breve arriveranno anche i “mitici” saldi, da cui pure è il caso di guardarsi, giacché costituiscono spesso un ulteriore furbo stimolo a concentrare gli acquisti in un determinato periodo.

Il mio pensiero è che il Bambinello che si accinge a ripresentarsi nella semplicità e nella povertà della grotta sia triste, parecchio triste, per l’attuale andazzo.

Perché non ritorniamo agli auguri basati su umili, semplici e però assai indicativi simboli, un’arancia, un ramoscello di vischio, un pensierino scritto a mano per esprimere affetto o amicizia?

Perché non rivolgiamo la mente al “clima” e ai “regali” del Natale e di Capodanno di tanti che versano in condizioni di nera miseria?

Chissà che, così operando, non otteniamo il risultato di sentirci più leggeri e di respirare, dentro e fuori, un’aria migliore, anche senza il blocco della circolazione automobilistica.

Ricette con le seppie (I)

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Seppie gratellate

Per questa semplicissima preparazione dovete procurarvi delle belle seppie, freschissime e grosse , come quelle che si pescano nei mesi di marzo e aprile. Privatele dell’osso, evisceratele e spellate loro il mantello, quindi risciacquatele e ponetele in una terrina a marinare con olio extravergine d’oliva, un pizzico di sale e poco aceto. Infine, rivoltatele  in del pangrattato insaporito con sale, pepe nero e prezzemolo tritato finemente e dopo averle alloggiate in una doppia graticola, arrostitele su braci vive.

 

Seppie alla crudele

Le seppie di taglia minuta, come quelle che si pescano in genere nei mesi estivi sottocosta con i tramagli o con la fiocina sono le più adatte per questa preparazione. La conoscenza del sistema di pesca è importante poiché sono da escludere le seppie pescate con le reti a strascico, in quanto potrebbero avere il mantello ripieno di sabbia o di fango, condizione che le renderebbe immangiabili in questa preparazione. Le seppie vanno semplicemente risciacquate, rigirate semplicemente in una terrina contenente olio e aceto e poste tal quali;  senza essere né aperte né eviscerate sulla graticola e portate a cottura su braci di carbone. Vanno servite ancora calde, senza alcun condimento, sarebbe superfluo, infatti, assolvono in modo eccezionale a tale funzione i liquidi posti nei vari organi interni della seppia, in particolare l’epatopancreas e lo squisito “nero”.

 

Spaghetti al sugo di seppia

Ingr. : 1 kg e ½  di seppie, 1 litro di passata di pomodoro, 500 grammi di spaghetti, olio extravergine d’oliva, mezzo bicchiere di vino bianco secco, tre-quattro spicchi d’aglio, prezzemolo, pepe nero, sale.

Pulite le seppie eliminando le interiora e l’osso, ma lasciando le prelibate gonadi. Spellate e tagliate a listarelle il mantello. In una casseruola versate l’olio e fate leggermente rosolare gli spicchi d’aglio e lo spicchio d’aglio, unite la seppia e mescolate tenendo sul fuoco sino a che la seppia non abbia finito di cacciare i suoi liquidi. A questo punto bagnate con il vino, lasciate evaporare la frazione alcolica e aggiungete la passata, quindi salate e pepate. Lasciate cuocere per circa mezz’ora, in ultimo aggiungete una manciatina di prezzemolo tritato e condite gli spaghetti cotti al dente, servite la seppia come secondo piatto.

Una variante in voga in molte località della Puglia prevede l’aggiunta, un attimo prima di bagnare con il vino, di tre-quattro filetti d’acciuga triturati

 

 

Il delfino e la mezzaluna. Si presenta oggi il terzo numero

Il  delfino e la mezzaluna

Sarà presentato oggi, alle ore 10.30, presso la chiesa di San Domenico a Nardò, il terzo numero della rivista della Fondazione Terra d’Otranto “Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto“.

Saranno gli stessi Autori a presentare il proprio saggio, coordinati dal direttore della rivista Pier Paolo Tarsi.

Particolarmente ricco questo numero, che si sviluppa in 256 pagine,  tutte dedicate alla Terra d’Otranto, dalla preistoria ai nostri giorni. In formato A/4, con copertina cartonata, offre al lettore anche alcune selezioni fotografiche di alcuni validi collaboratori: Fabrizio Arati, Maurizio Biasco, Stefano Cretì, Ivan Lazzari e Mauro Minutello.

Come per i precedenti numeri, la rivista non è in commercio, essendo riservata ai soci e simpatizzanti della Fondazione, che potranno ritirarla in questa occasione. Chi non potrà intervenire può richiederla a info@fondazioneterradotranto.it, versando un contributo volontario tramite conto corrente postale o tramite bonifico. Per i soli soci è previsto anche il dono di una delle pubblicazioni finora edite dalla Fondazione.

Iscritta con numero 17 al Registro della Stampa del Tribunale di Lecce, la rivista è inserita nel catalogo delle pubblicazioni periodiche con codice ISSN 2200-1847. E’ premura della Fondazione, come già successo per i precedenti numeri, di depositarne copia, oltre quelle legali previste per legge, presso le principali biblioteche italiane.

Questi i saggi pubblicati, oltre l’Editoriale del Direttore:

Mariangela Sammarco, Sul santuario rupestre di Santa Maria della Rutta ad Acquarica del Capo (Lecce) : epigrafi, segni e simboli devozionali

Domenico Salamino, Il capitello dell’aquila leporaria nella cattedrale di Taranto: l’itinerario contemplativo dell’anima

Francesco G. Giannachi, Classificazione delle forme verbali perifrastiche del perfetto e del piuccheperfetto usate dagli ellenofoni di Terra d’Otranto

Giovanna Falco, Mario de Raho, cavaliere leccese della Militia Christiana dell’Immacolata Concettione

Domenico L. Giacovelli, Vulnerasti cor meum in uno oculorum tuorum. Riflessioni su un devoto dipinto francescano

Stefano Tanisi, Nuove acquisizioni pittoriche per fra’ Angelo da Copertino (1609-1685 ca.). La Comunione di san Girolamo nella cattedrale di Nardò

Elio Ria, L’arciprete di Lucugnano

Marino Caringella, Un Sellitto misconosciuto tra i “Capolavori dei Girolamini a Lecce”

Ugo Di Furia, Opere inedite in terra salentina di Antonia e Teresa Palomba, sorelle pittrici

Gian Paolo Papi, Dal Salento alla Valnerina: una vicenda, un pittore, due tele

Rosario Quaranta, Francesco De Geronimo e la rapida diffusione della fama di santità e delle gesta meravigliose nei paesi del Nord Europa

Luciano Antonazzo, La cappella ed il dipinto dell’Immacolata coi santi apostoli Pietro e Paolo dell’antica parrocchiale della Trasfigurazione di Taurisano

Maurizio Nocera, Dal mito di Aracne al rito del tarantismo

Marcello Gaballo – Armando Polito, L’obelisco di Porta Napoli a Lecce

Rocco Boccadamo, A Giorgio Cretì: ciao, fratello cantastorie!

Cosimo Barbaro, La fondazione dello spazio funebre nell’Ottocento in Terra d’Otranto

Francesco Tarantino, Maglie “città di giardini”

Gianni Ferraris, A colloquio con Mario Perrotta, per parlare di teatro e di Salento

Restauri. Lavori di restauro di due dipinti su tela della chiesa matrice di Muro Leccese (Alessandra Coppola – Francesca Romana Melodia)

Epigraphica in Terra d’Otranto. L’antico orgoglio di Minervino di Lecce (Armando Polito)

Araldica in Terra d’Otranto. Uno stemma carmelitano a Lecce (Lucia Lopriore)

Segnalazioni. Eugenio Maccagnani e due statue di san Pietro e san Paolo (Valentina Pagano)

Miscellanea. Sei francobolli per ricordare il sesto centenario della Cattedrale di Nardò e della Civitas Neritonensis (Marcello Gaballo)

Edizioni della Fondazione Terra d’Otranto

 

Elio RiaE’ sempre meriggio nel Sud

 

Il giardino del poeta. Ancora un piccolo omaggio a Girolamo Comi

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Il giardino di Palazzo Comi, ph Gloria Fuortes Biblioteca G. Comi Lucugnano Lecce

 

di Maria Grazia Presicce

C’era una volta… ma,  c’è ancora  c’è ancora! un giardino in cui sorge  un palazzo…un magnifico palazzo abitato tanto tempo fa da un poeta.  Palme, melagrani, oleandri, cipressi  proteggevano allora come guerrieri  i cespugli di rose che ne inghirlandavano  muri e   vialetti.

Tralci di rose s’ inerpicavano sulle facciate e parevano voler raggiungere la camera di chi tanto le amava per  fargli godere   dei  loro effluvi anche di notte quando percepivano il bagliore filtrare dai vetri delle imposte socchiuse  e incuriosite si spingevano su, sempre più su per spiare il suo tacito fare.

Si chiamava Girolamo il proprietario di questo giardino e lui riusciva   davvero  a captare nel silenzio notturno i fruscii di quei  boccioli se, spesso inatteso, scendeva tra loro e con loro si confondeva nella quiete e nell’oscurità ovattata e s’ inebriava  delle loro fragranze aggirandosi lento tra i vialetti scolorati dal tenue chiarore della luna che, smaltato, colava tra i rami degli alberi e lo avvolgeva. Lo stupore di tanta armonia penetrava  il poeta  nell’intimo e tacita dava  poi parole e senso ai suoi versi.

Girolamo adorava quel mondo balsamico e armonico pregno di assoluta purezza. Qui trovava ristoro e confidava alle piante  alla luna e alle stelle i suoi più cupi pensieri, le sue angosce e da loro sollecitava preghiera e consiglio sfiorandone gli umidi petali, roridi, colorati di luna la notte e dai bagliori di sole al mattino. Non avvertiva la solitudine  tra quei boccioli che s’inchinavano placidi al suo passo e lo invitavano a   sostare e ritemprarsi tra loro e con loro.

– Ti racconto una storia  se resti – sussurrò una sera una rosa rossa impigliandosi  con una spina alla sua giacca.

–  Fermati, non andare ! –  bisbigliò ancora – non vuole graffiarti la  spina! –

Girolamo si bloccò.

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” Una rosa che parla? Forse sogno” si disse, guardandosi intorno stranito.

– Son qui, son qui – sussurrò ancora la rosa, trattenendolo e quasi lacerandogli la maglia.

Si volse  Girolamo poi, lentamente, districò la maglia dalla spina. Dondolò la rosa e s’inchinò. Girolamo la sfiorò, si piegò  e ne  aspirò il  suo intenso profumo. S’intenerì   la rosa e continuò: “ Resta! Ti racconterò la storia del tuo giardino. Ti piacerebbe conoscerla vero?

S’arrestò il poeta, trattenne il fiato, continuò a sfiorare la rosa che dolcemente cominciò a narrare “ In questo luogo, che ora ti appartiene, tanti, ma tanti anni fa  c’era  un grande bosco incantato dove, rigogliose, crescevano piante spontanee di ogni genere:  alberi di carrube, cespugli  di mortelle, di lentisco, di corbezzoli, di timo, di cisti, di olivastri e roselline selvatiche.

– E… tu come lo sai? –   Intervenne incuriosito Girolamo.

“Non interrompermi per favore, altrimenti perdo il filo – riprese la rosa. – Ebbene, tra queste selvatiche e odorose piante, gironzolavano indisturbate bestiole di ogni genere e taglia: lupi, cinghiali, volpi, lepri, ricci di macchia, talpe, bisce e svolazzavano,  riempiendo l’aria di trilli, uccelli  di tutte le specie che in primavera, coi loro nidi, adornavano rami e cespugli.

– Meraviglia! Davvero qui c’era un bosco con tutte queste magnifiche creature? –   Girolamo  s’accomodò   al suo basamento per meglio ascoltare.

La rosa rossa proseguì – Già, è proprio così. A quel tempo, noi, aristocratiche piante di rose non facevamo parte di questo paradiso, non ne immaginavamo nemmeno l’esistenza, né saremmo potute  attecchire  su quell’arido suolo.

– Ecco che ho ragione. – intercalò attento il poeta – Se neppure esistevi, come puoi conoscere la storia di questo posto ? –

– Hai ragione, hai ragione. Devi sapere, però, che sono stata una rosa fortunata perché,  quando sono  giunta in questo giardino, ho conosciuto  un’antica pianta di mortella che aveva fatto parte di  quel bosco incantato e, per puro caso, si era salvata. Cresceva proprio lì, dove ora tu poggi i piedi. –

Girolamo si scostò repentino e  guardò  ai  suoi piedi senza nulla vedere se non  terra battuta – Che storia è questa? Non c’è traccia di piante sotto i miei piedi . Dove sarebbe andata a finire la tua amica mortella? –   Continuò a osservare,  scostandosi  per evitare, semmai, di calpestarla nel buio.

– Tranquillo, tranquillo! –  Tremò mesta la rosa – non puoi pestarla. Ormai non c’è più, manca da tanto: è stata divelta un mattino di tanti anni fa  e, purtroppo, la colpa fu  mia.-

– Tua? Come puoi dire che la colpa fu tua?-

– Fu mia davvero. Mi sento colpevole di quello che accadde quel giorno. –  Addolorato al ricordo, il bocciolo s’ inclinò e un  gocciolo di rugiada scivolò ai piedi di Girolamo.

Il poeta  dolcemente  rialzò  la rosa – non posso credere che, tu così soave e leggiadra sia stata  motivo di tanto dolore. Dai, non avvilirti così,  raccontami  dall’inizio la storia.-

La rosa rossa, sollevò il bocciolo e  – Ti ho appena detto che il bosco  si estendeva anche sul tuo giardino. Un bel giorno, anzi un brutto giorno, mi disse Calliope, si chiamava così la mia amica mortella, il bosco incantato fu divelto completamente per fare spazio alle case che ora vedi qui intorno ed anche al meraviglioso palazzo dove tu  vivi.

– Mi spiace. Ne sei proprio sicura?-

– Sì, è stato proprio così. Me lo ha  confermato la mia amica mortella. Di certo tu  non puoi ricordarlo, eri un bimbo innocente allora o forse non eri neppure nato a quei tempi. Ora però, che sei   grande,  intelligente e sapiente,  puoi scoprire  da te quando tutto questo che ti sto raccontando è avvenuto.

Non farmi tergiversare però, altrimenti giunge l’alba prima che finisca di raccontarti la mia storia e, con la luce, tu sai, la magia della notte svanisce e cominciano altre magie. Dunque:  quando la tua mamma, che tanto amava le rose, decise di interrare me qui dove sono, io ero un tralcio, un piccolo germoglio giunto da molto lontano. Arrivai in treno riposta in un pacco insieme ad altre sorelle. Alcune sono ancora sparse qua e là in questo giardino, altre, purtroppo, non esistono più.

Tra tutte mi ritenni la più felice poiché fui sistemata  proprio  vicino al cespuglio della mortella. Ero in buona compagnia, non sarei stata sola, ne gioì così tanto che già dopo poco avevo stretto amicizia con lei.  Mi sentivo protetta  dalla sua verde chioma e anche se ancora non capivo il suo modo di esprimersi,  parlava solo in dialetto Calliope, bastava che le sue foglioline mi sfiorassero per avvertire il suo affetto e non sentirmi mai triste ed esclusa. Ci siamo tenute compagnia per anni, lei mi aiutava ad affrontare serena le mutevoli stagioni  riparandomi anche dalle intemperie. Era forte, rigoglioso il suo aspetto, io invece crescevo a stento  più gracile e debole. Non me ne dolevo comunque, anche se  m’accorgevo che non ero florida e in fiore come le mie sorelle  che, ammiccanti e superbe,  sculettavano  poco più in là. A me, andava bene così, m’ appagava l’amicizia di Calliope e la sua vicinanza.

Tua mamma, che di tanto in tanto scendeva tra noi, ci curava con dedizione; ad  ogni pianta  aveva dato un nome speciale, io sono venere, c’era  poi diana, selene, aurora  e quel cespuglio di rose piccole e bianche che s’inerpica sul muro  laggiù, sono le ninfe. Ci chiamava per nome tua mamma ogni volta che s’avvicinava!

Un mattino umido e fresco  d’autunno, venne un  nuovo giardiniere  per organizzare i vialetti, potare gli alberi e sistemare i tralci di noi rose che confusamente si sporgevano qua e là. Alcuni  dei miei ramoscelli cingevano i verdi rametti di calliope imperlati di brune e lucenti mortelle e mentre le mie sorelle traboccavano  ancora di boccioli e di rosse bacche,  i miei lunghi tralci erano solo coperti di foglie e di qualche boccio che stentava a schiudersi all’ombra della mia amica.

Quando quell’ omaccione   mi si avvicinò, esaminò attentamente l’intero mio ceppo, scrutò in lungo e in largo lo spazio occupato da calliope e da me poi, senza nemmeno fiatare, si mise a zappare, zappare e tagliare estirpando in un fiat la mia cara amica.   Vedevo cadere sotto i suoi colpi malefici la dolce mortella con tutti i suoi rami e nulla potevamo contro di lui nemmeno le mie aguzze spine. Fitte tremende mi trapassavano, ogni colpo  percuoteva  il mio stelo  fin nelle radici e per quanto stendessi i miei tralci spinosi e provassi a bloccarlo, niente potetti contro quella furia impetuosa  che continuava a svellere svellere ed annientare fin nelle budella la mia  compagna che, inerme, giaceva infranta per terra. Desiderai tanto morire con lei invece  eccomi  ancora qua solitaria ed afflitta.

Son trascorsi degli anni da quel fatidico giorno,  son tanto cresciuta d’allora, son sfarzosi ora i miei tralci di rossi boccioli abbigliati che effondono al cielo e alla terra il loro profumo, ma soffre il mio cuore, mi sento rea,  monca  e rimpiango  Calliope e la sua amicizia. Troppo mi mancano le sue antiche storie, i suoi abbracci, il nostro dondolarci e sfiorarci nel vento. Ho nostalgia dei suoi candidi fiori, del suo intenso aroma e delle sue brune bacche che come gemme preziose, incastonate tra le foglioline, ciondolavano gioconde sui  molli  rametti.

Tremò e sospirò assolto il bocciolo di rosa, i suoi petali si dischiusero  in un abbraccio infinito “ Ti sono grata stasera per avermi dedicato un po’ del  tuo tempo prezioso. Era da tanto che volevo, a qualcuno, raccontare la storia della mia amica e liberare il mio cuore dal suo struggimento. Spero di non averti annoiato.  Ti prego dai voce e vita al mio sfogo, al mio ricordo, al dolore per la perdita della mia adorata  amica mortella che ha fatto parte del mio cuore e del tuo giardino. Tu solo puoi, con la tua sensibilità, continuare a narrare ai bimbi la storia dell’amicizia tra Venere, una pianta di rosa, e Calliope una pianta di mirto. E’ autentica la storia, te lo giuro. Autentica come un’amicizia   vera pura  sincera. L’amicizia vera  può nascere e crescere in qualunque luogo, tra le essenze più disparate, nelle situazioni più tragiche e inverosimili. Questo sentimento tenero e devoto non ha bisogno di tanto spazio, di molte parole, vive e si nutre anche di intimi silenzi, d’ intesa, solidarietà e tanto tanto affetto. Buona notte Girolamo e grazie ancora! “

Girolamo ormai non c’è più, son rimasti per noi  i suoi versi,  il suo palazzo e traccia ancora del suo giardino poetico.

Sta ancora lì un po’solitario, celato e lasciato all’incuria,  eppure il poeta ogni notte, zitto zitto, continua a tornare, ad affacciarsi al balcone e godere degli  effluvi scampati poi, scende, s’aggira silente e spande i suoi versi  su quell’oasi di pace ed insiste  esortando, bramando il risveglio del suo favoloso cantuccio e prega  Girolamo per una società più retta, trasparente, sommessa, per una natura difesa rispettata  amata che possa continuare a dare senso e fervore all’ esistenza,  in modo che ogni essere possa continuare a stupirsi del suo miracolo, dei suoi incommensurabili doni e riesca a percepirne il valore in ogni frammento  cogliendo e trasmettendo, ancora ed ancora, l’essenza della vita e le sue  fondamentali virtù.

 

Riflessioni in margine ad un contratto di mezzadria del 5 agosto1931

di Armando Polito

Sono sicuro che Ezio Sanapo, autore del recentissimo post Il giardino degli aranci (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/12/04/il-giardino-degli-aranci/), non me ne vorrà se alle sue pertinentissime osservazioni sul documento pubblicato aggiungo oggi le mie; e con questo non credo certo di aver detto l’ultima parola al riguardo. Mi è parso opportuno, per facilitare a qualsiasi lettore la comprensione di quanto dirò e per evitare, cosa che odio, di essere creduto sulla fiducia, esibire la trascrizione del testo a fronte del documento originale. Prima di iniziare, credendo di aver giustificato ampiamente questa “intrusione” (felice o infelice, bisogna aspettare per dirlo e perché io lo sappia …) non richiesta con quanto fin qui detto, ricordo a chiunque che vale, naturalmente, il contrario, che, cioè, le “intrusioni” altrui nei miei lavori saranno graditissime; dirò di più: vivo per loro, perché l’orticello della conoscenza è l’unico in cui la coltivazione e il raccolto reciproci possono dare i  frutti migliori, per quantità e qualità.

Cedendo alla deformazione professionale, pur non rimpiangendo la correzione dei compiti, che fossero di italiano, latino o greco, dei miei allievi (unicamente perché ho sempre avuto classi numerose …), non posso fare a meno di dire che lo stile, pur nell’aridità obbligata (ma da chi o da che cosa?) del contenuto giuridico-burocratico è perfetto, a parte il presente contratto e stato letto (ma, per converso ricorrono le forme letterarie ha l’obligo e si obliga). Ciò che, però, più mi preme far notare è l’assoluta corrispondenza tra le parole ed il loro significato, senza che mai, dico mai, il velo dell’ambiguità aleggi tra loro: anche un bambino sarebbe capace di capire cosa i contraenti hanno voluto stabilire. Qualcuno dirà che manca la penale, elemento fondamentale di ogni contratto, così come la sanzione dovrebbe esserlo di ogni legge. E, invece, c’è: la conservazione del posto di lavoro subordinata all’avvenuto rispetto degli impegni presi. E, signori, da una parte c’è un’analfabeta (non un responsabile del governo; sento qualcuno dire: dove sta la differenza? …), dall’altra un contadino, non il megadirigente di un carrozzone più o meno (e in quel meno si nasconde chissà che cosa …) pubblico.

Sorprende poi, ma non può farmi che piacere (anche se qualcuno che non ha capito un tubo di me mi appiopperà l’etichetta di comunista … ) il fatto che l’usufruttuaria Vita Aquila Garzya firma con il segno della croce e il contadino Pasquale Canoci1appone il suo nome, corredato di paternità, con una grafia che non definirei insicura e nella quale perfino Pasguale per Pasquale diventa un peccato venialissimo, al pari del cognome che precede il nome (ordine che potrebbe anche, al di là delle consuetudini del tempo, essergli stato suggerito dall’estensore del documento …).

 

Sulla nostra Vita Aquila mi soffermo brevemente per ricordare che Garzya3, il cognome del marito, è un nobiliare di origine spagnola, ma mi pare inutile e irrispettoso fantasticare (perché potrebbe trattarsi del discendente di famiglia nobile sì ma da tempo decaduta) su un amore tra un nobile ed una popolana, anche se tracce di questa nobiltà potrebbero ravvisarsi in quel giardino Capanidi cui sono proprietari Bonaventura e Wera Garzya di Emanuele.

So che questo tipo di indagini, discutibile già in passato, lo è diventato ancor più con la progressiva riduzione delle utenze telefoniche domestiche e con l’avvento del cellulare. Tuttavia riporto i dati che seguono nella speranza che qualcuno abbia la possibilità e la voglia di fornire, magari, precisazioni o ragguagli sul tema.

Nell’elenco telefonico di Tuglie 2013/2014 il cognome Canoci ricorre tre volte. Più ampio il territorio coinvolto da Garzya (nella grafia Garzia), visto che della signora Vita non è indicato nell’atto il luogo di nascita ed il domicilio: ricorre, infatti, una sola volta a Tuglie, due ad Alezio, diciannove a Matino e ben ventiquattro a Parabita.

Interessante mi pare, poi, far notare come nel 1931 nella pratica della concimazione lo stallatico occupa il primo posto e seguono a pari merito il concime chimico e la pratica del sovescio. Oggi, dopo aver avvelenato la terra con i pesticidi ed averla resa sterile con i concimi chimici, torna in auge l’agricoltura del tempo che fu con la pomposa etichetta di biologica, mentre le multinazionali continuano imperterrite a produrre e a commercializzare veleni …

Obsoleta pure, e da tempo, l’abitudine di coltivare verdura negli interspazi tra albero ed albero (soprattutto negli uliveti), poco compatibile con le attuali tecniche di coltivazione e di raccolta del prodotto principale.

E chiudo il mio post con il verso originale di Garcia Lorca con la cui traduzione italiana, su cui ho qualcosa da ridire, Ezio Sanapo ha chiuso il suo:

La luna llorando dice:/yo quiero ser una naranja

(La luna piangendo dice/voglio essere un’arancia)

Non chiedetemi, però, se tra il Garzya del documento e il poeta spagnolo ci sia un collegamento; non sarebbe l’unico caso in cui onestamente dovrei riconoscere di non essere in grado di rispondere.

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1 Facente parte, sembra di capire, della Casina Capani, in cui l’atto viene sottoscritto. Non è chiaro, poi, se questa casina corrisponda alla villetta che il mezzadro si impegna a coltivare e il rapporto dell’una e dell’altra con l’attuale Masseria Capani (nell’immagine che segue tratta da http://www.salento.it/agriturismo-capani-alezio).

e con la Villa Elia o Casino Capani (nell’immagine che segue tratta da http://www.ilmiosalento.com/?p=7561).

 

Carta revolving o revolution: comu la uèti uèti sempre rrobba cu tti spari ete (comunque tu la metta, sempre roba da spararti è)!

carta

di Armando Polito

Tra i tanti strumenti finanziari offerti dalle banche ci sono pure le carte di credito e tra queste quelle denominate revolving e revolution. Il lettore che non le abbia sperimentate sulla sua pelle e che arda dalla voglia di sapere di più sulle differenze tra i due tipi può farlo con una semplicissima ricerca in rete, anche se rischia di trovarsi il giorno dopo la sua casella di posta elettronica sommersa da una caterva di offerte di carte di ogni tipo, compresa quella igienica …. La rete è anche questo.

Per il resto … ci sono io a ricordare a chi non lo sa e magari, possedendone una, si sciacqua pure la bocca con revolving e revolution pensando di fare un figurone, che revolving e revolution (quest’ultima testimonia l’avvenuta pacificazione, ammesso che ci sia mai stata guerra ai vertici …, tra capitalismo e comunismo …) sono due dei tanti termini inglesi che non esisterebbero se non fosse esistito il latino. Entrambi sono derivati da (to) revolve=girare, che, a sua volta, è dal latino revòlvere, composto dal prefisso re- indicante ripetizione e da vòlvere=volgere. In particolare: revolution è dal latino revolutione(m), a sua volta da vòlvere. Il concetto, chiarissimo, è quello della restituzione della somma avuta in prestito, con interessi che spesso rasentano l’usura (quando così non sarà, nel mondo di Papalla …, carte come questa si chiameranno devolution …) o, conteggiando operazioni furbesche consentite da una legislazione approssimativa se non complice, la superano abbondantemente.

Spesso parole aventi la stessa radice hanno, non per colpa loro ma di chi le ha inventate, qualcosa di presago; nel nostro caso, purtroppo, la valenza premonitrice è negativa, anzi infausta. Sarebbe, infatti, interessante sapere quanti, non essendo in grado di restituire quanto loro prestato, disperati per aver perso anche le mutande (si fa per dire …) impegnate come garanzia alla sottoscrizione del contratto, si sono suicidati liberandosi della carta revolving o revolution con un colpo di revolver. E così, visto che pure revolver deriva da (to) revolve, hanno pensato bene di interrompere il giramento di coglioni (magari solo di quelli!) provocato dalla carta con quello del tamburo di una pistola …

Per farla completa, a beneficio di chi salentino non è, dico che il nesso del titolo comu la ueti ueti trascritto fedelmente in italiano suonerebbe come la volti volti e, a chiusura del cerchio, che l’italiano voltare è dal latino volutare, forma intensiva del citato vòlvere sviluppatasi dal suo supino (volùtum).

E, giunti fin qui, non mi meraviglierei se qualche difensore dei poteri forti per (s)qualificare questo mio post usasse l’aggettivo (nativamente è un participio presente) rivoltante

Il giardino degli aranci

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di Ezio Sanapo

 

L’albero di agrumi è stato sempre considerato una pianta di esclusiva pertinenza delle famiglie nobili e benestanti. Queste erano a conoscenza delle proprietà terapeutiche e benefiche del frutto e ne fecero  il simbolo sempreverde del loro benessere e della loro supremazia.

La padrona a cui si riferisce un documento d’epoca, era rimasta vedova e non potendo permettersi di avere in casa un servitore, (sarebbe stato sconveniente per la sua moralità), ha sottoscritto con un contadino, un contratto di mezzadria per la cura delle piante del suo giardino e la raccolta delle arance, riservandosi tutti per se i  mandarini come gesto estremo di distinzione sociale.

I nobili, avendo frequentato le scuole superiori e università, appartenevano all’universo della civiltà e cultura classica di origine greco-romana.

Già la mitologia greca descriveva le arance come “mele d’oro” del giardino delle Esperidi. Al confine  occidentale della terra dove il giorno si incontra con la notte, in un isola al centro del mare, fioriva un giardino dove le Esperidi dall’amabile canto, custodivano i “pomi d’oro ” con l’aiuto di un drago. L’albero era stato generato in occasione delle nozze tra Zeus ed Era per farne loro un dono e i suoi frutti diventarono così  simbolo della fecondità e dell’amore.

Nel Rinascimento, con la riscoperta di quella civiltà, gli agrumi assunsero un posto preminente nell’arredo a verde di ville e palazzi con i loro parchi e giardini  e divennero così monopolio del ceto nobiliare  assumendo di fatto il significato del loro “status- symbol”.

Gli agrumi, oltretutto, vennero utilizzati anche per insaporire gli arrosti, confetture, dolci, medicinali e olii essenziali per la preparazione di profumi.

“Il giardino degli aranci”, soprattutto nel Salento, è ubicato in un’area scavata a una profondità di circa tre metri nel parco alle spalle del  palazzo. Così  riparato dai venti, dalle intemperie e nascosti sotto i rami  delle piante, il proprietario e la sua consorte o le sue amanti potevano intrattenersi indisturbati nei loro rapporti amorosi convinti che il profumo di quei frutti e dei fiori d’arancio fossero afrodisiaci. Questo spiegherebbe l’usanza, tramandata fino a noi, del rito propiziatorio di ornare, con fiori d’arancio, la sposa il giorno delle sue nozze.

Oggi le arance le consumiamo spremute, ieri mangiavamo ad uno  ad uno i suoi spicchi dopo averle scrupolosamente sbucciate. I mandarini erano un lusso soltanto per i giorni di festa come Natale. Arance e mandarini erano oggetto di regalo che i padri o padrini facevano ai figli e figliocci il giorno della loro Cresima o prima comunione.

Cinquant’anni fa, in pieno sviluppo economico, l’acquisizione di un certo benessere ha rimescolato tra loro  i ceti sociali di origine: quello Borghese è sceso più in basso, quello Popolare è salito un po’ più in alto e quelle che erano sempre state due classi distinte, sono diventate una sola e indistinta. I nobili invece, sempre in guerra tra loro, erano scomparsi  già molto tempo prima.

Quel benessere economico ha fatto si che quanti erano stati, per origine e discendenza, mezzadri, coloni e servitori, hanno potuto costruirsi una propria casa e dietro la casa, accuratamente recintato, il loro sospirato giardino  decorato a verde con alberi di agrumi, come un chiaro ed estremo messaggio di un proprio riscatto per un possibile  benessere economico e sociale.

 

“ …e la luna piangendo disse: vorrei essere un’arancia”

(Federico Garcia Lorca)

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269 “mi piace”

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di Gianni Ferraris

269 “mi piace”, 354 condivisioni. Sono gli esiti di un post pubblicato su facebook. Il testo della frase che tanto piace e tant osi condivide era: “sei morta troia”, l’aveva messa la persona che poco prima aveva ammazzato l’ex moglie. Mille domande si possono fare, probabilmente si avranno mille risposte, l’anonimato della rete consente a chiunque di dire qualunque cosa, senza ritegno, senza remore, senza regole. Le regole sociali che si perdono come si perde il linguaggio, la capacità di parlare guardandosi negli occhi. 

Quanti “mi piace” circolano in rete? Quanti sconosciuti si prodigano a solidarizzare con non si sa cosa o chi? E’ appena passata la giornata contro la violenza sulle donne, subito un padrone ritiene di poterne massacrare una e di postare la sua virilità su facebook.

E’ ancora vivo l’orrore per il bimbo ammazzato negli USA e in Italia un bimbo di otto anni viene trovato strangolato e gettato in un canale, una violenza che è stillicidio, goccia a goccia, i morti per fame e morbillo sono lontani, troppo. Non li contiamo neppure, macchè, noi contiamo i nostri morti, quello della donna uccisa da un ex marito con il quale ha condiviso attimi, anni, giorni, esperienze. Con il quale ha fatto un figlio, e subito davanti ad una tastiera 354 complici dell’omicida condividono, come fosse festa.  

Subito 269 mettono “mi piace”, con gioia forse, sicuramente senza coscienza, senza etica, senza messaggi diversi da quelli dell’orrore. Queste sono persone che domani andranno a votare, che forse, al bar sport, commentano la partita del milan (o della juventus, per par condicio) e che certamente non conoscono grammatica e sintassi. Nessun’altra diversa da quella dell’inciviltà. Intanto noi ci chiediamo in quale maledetto mondo stiamo vivendo, soprattutto quali mostri ha creato la nostra (in)civiltà. Nessuno, penso, si può sentire non coinvolto, come diceva De Andrè un tempo.

 

 

Incontrarsi

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di Paolo Vincenti

Siamo tutti soli, siamo quelli abbandonati,  siamo stati accantonati, forse usati poi lasciati.  Siamo tutti soli coi ventricoli spezzati.  Noi ci siamo organizzati, consultati, confortati...”  (“Cuori solitari”- Enrico Ruggeri)

 

Meetic. E-date, Parship.it, E-darling, Be2, Dammisesso.it: la rete è piena di siti di incontri. Incontri di tutti i tipi, per tutti i caratteri e per tutte le tasche. Incontri per i belli e per i brutti. C’è Ashley Madison per gli incontri extra coniugali. Alcuni siti sono gratuiti (e forse per questo poco attendibili), altri a pagamento. In alcuni casi, è libero solo un primo livello e poi è necessario sottoscrivere un abbonamento per procedere oltre, come per i siti pornografici (di cui pure la rete trabocca dacché per la tv il porno è divenuto off limits).

Insomma, se ci si vuole incontrare, ci si incontra in maniera veloce e discreta, se si è alla ricerca dell’anima gemella si può esser certi che nello spazio di un byte, Internet ce la farà trovare. Bisogna abbonarsi ad una di queste reti, creare un proprio profilo, inserire il maggior numero di informazioni possibili e magari una bella foto e “ i contatti inizieranno a fioccare!” assicura il web.

Succede però che anche su facebook e sugli altri social network, diciamo tradizionali (cioè non dedicati), si offra saltuariamente la possibilità di fare degli incontri. In questo caso, dipende dalla discrezionalità dell’utente che si è imbattuto nel profilo camuffato di qualche maitresse, cogliere l’opportunità (quasi sempre a pagamento) oppure no. Una volta, non era così. Prima dell’avvento di internet, intendo. All’inizio c’era “M’ama non mama”.

Correvano i ridenti anni Ottanta. Io ero un adolescente vivace ed entusiasta e quando, dopo svariati richiami di mia madre, rientravo a casa dalle scorribande pomeridiane insieme ai compagni di brigata, trovavo già il resto della famiglia (mamma, sorella e nonna) sintonizzato su Rete 4, e alle 19.30 iniziava lo storico programma televisivo. Dopo la prima stagione, accanto a Marco Predolin, Sabina Ciuffini venne sostituita con la salentina Ramona Dell’Abate. Due concorrenti cacciatori si contendevano quattro prede rispondendo “vero o falso” ad una serie di domande intorno ad una enorme margherita elettronica che costituiva il centro scenografico della trasmissione. Nel 1987 la trasmissione venne ripresa da una televisione locale, Odeon tv, e condotta da Sebastiano Somma e Simona Tagli.

A sfogliare i petali della margherita elettronica, anche concorrenti che poi sarebbero diventati personaggi famosi come Francesca Dellera, Corrado Tedeschi, Giorgio Mastrota e addirittura Rocco Siffredi. Ricordo che quell’anno dell’exploit di “M’ama non m’ama”, – doveva essere l’85 o l’86, d’estate al mare con la mia famiglia a Marina Serra, ospiti di alcuni parenti di Tricase, incontrammo proprio Ramona Dell’Abate, reduce dal grande successo in tv. Allora mia madre si fece ardita e le chiese se gli incontri nella trasmissione da lei condotta fossero veri oppure, come noi sospettavamo, costruiti, preorganizzati. Ricordo che ella rivolse alla mia sfacciata genitrice uno sguardo sdegnoso e si tuffò nelle azzurre acque del mare adriatico.

Erano gli opulenti anni Ottanta, gli anni di plastica, come sono stati definiti. Gli anni dell’imperante edonismo reaganiano, del trionfo del made in italy nel mondo, dei grandi concerti musicali e delle televisioni commerciali. Dopo “M’ama non m’ama”, fu la volta de “Il gioco delle coppie”, a partire dal 1985, condotto per alcune stagioni dallo stesso Marco Predolin. Una trasmissione di grandissimo successo, poi condotta da Corrado Tedeschi, che annoverò fra le vallette anche Linda Lorenzi e Federica Panicucci. Della Lorenzi, in particolare, che nei primi anni Ottanta era stata anche valletta di Corrado nel quiz per famiglie “Il pranzo è servito”, ricordo la sua partecipazione, in vesti molto più discinte, al sexi game “Colpo grosso”, condotto da uno spumeggiante Umberto Smaila. Mi colpiva il fatto che la Lorenzi, presente sulle televisioni Fininvest in versione acqua e sapone, ragazza della porta accanto, di giorno, potesse trasformarsi poi di notte in femme fatale e mi chiedevo, nella mia ingenuità adolescenziale, quale delle due versioni, se quella di educanda oppure di panterona, corrispondesse alla sua vera natura. A maggior ragione quando scoprì che la Lorenzi (il cui vero nome è Anna Chetta, originaria di Squinzano) aveva posato nuda su diverse riviste per adulti ed era stata la prima prestigiatrice donna, e sexi, d’italia. “Il gioco delle coppie” da Italia 1 venne trasferito poi su Canale 5, dato il grande successo di pubblico, e insieme al conduttore Corrado Tedeschi era presente, come valletta, Elena Guarnieri, oggi compunta giornalista Mediaset. Molto semplice ma anche accattivante il meccanismo del gioco. Un cacciatore uomo doveva scegliere fra le tre prede donne, separate da un muro che gli impediva di guardarle in viso e poi, successivamente, a parti inverse, era una cacciatrice donna che doveva scegliere fra tre bellimbusti dietro il separé. Tra le altre vallette del gioco, Karim Nimatallah, Elvira Zenga (allora moglie del portiere dell’Inter Walter), Ketty Mrazova. Nel 1993 la conduzione del gioco passò a Giorgio Mastrota e Natalia Estrada, all’epoca marito e moglie, ed ebbe tanto successo che venne riproposto anche in versione estiva, “Il gioco delle coppie estate”, sempre con gli stessi conduttori e, l’anno successivo, “Il gioco delle coppie beach”, con lo scassato gruppo comico napoletano Trettrè e la giunonica Wendy Windham.

Dopo fu la volta di “Agenzia matrimoniale”, condotta da Marta Flavi all’epoca consorte di Maurizio Costanzo, che poi sarebbe diventato il “signor Maria De Filippi”. Questo programma perdeva l’elemento ludico e divertente del quiz per essere più una trasmissione di servizio e, soprattutto, ospitava non solo giovani in cerca dell’anima gemella ma anche gente matura e attempata. In diretta continuità con “Agenzia matrimoniale” oggi è la trasmissione “Uomini e donne”, condotta da Maria De Filippi, specchio, attraverso la cafoneria cialtrona dei suoi ospiti, della deriva culturale che ha intrapreso la nostra “Italietta”.

Comunque ormai, fuori dalla finzione della tv, l’anima gemella si incontra in rete, come conferma l’agenzia Eliana Monti, la più grande organizzazione Italiana che si occupa di Single, ma occorre prendere le dovute precauzioni. E a consigliare prudenza è lo stesso web, ché la filmografia thriller sugli appuntamenti al buio che si trasformano in trappole mortali certo è molto nutrita. Io personalmente, vuoi per mancanza di esperienza diretta, vuoi per una congenita diffidenza, sarei molto inquieto se dovessi affidarmi alla rete: avrei una concreta paura di ritrovarmi rapinato o peggio picchiato e accoltellato. E mi vedo, come in un incubo, steso in un letto d’ospedale, a lottare tra la vita e la morte, con la faccia buona ma anche severa e di rimprovero della fatina Marta Flavi o del sensale Marco Predolin a darmi conforto. Ma certo questi sono scherzi della mia troppo fervida fantasia, poiché milioni di persone, colpite dal Cupido elettronico, hanno trovato la persona giusta tramite il dating on line. Ché , se “la vita è l’arte dell’incontro” come titolava un vecchio album di Vinicius De Moraes, incontrare la vita è l’arte di questi nostri solitari tempi moderni.

 

in “S/pagine”,  30 novembre 2014

Un ritratto di Emilio Panarese

ritratto
quadro di Domenico Panarese
Ciao papà,
in un istante una settimana fa ho perso la speranza di poter passare con te forse l’ultimo Natale, giorno nel quale avresti compiuto novant’anni.
Ho nel cuore questo ritratto che ti fece zio Mimmo da cui traspare maggiormente il tuo sguardo mite dagli occhi dolci, quegli occhi con i quali alla fine solo ormai eri in grado di comunicarmi completamente tutto il tuo amore.
Ogni altra cosa di te ora vive non solo nella memoria delle persone che ti hanno voluto bene ma, soprattutto, nelle pagine che ci hai lasciato.
tuo figlio Roberto
Milano, 2 dicembre 2014

Salento a tavola. Le seppie

seppia

di Massimo Vaglio

 

La seppia (Sepia officinalis),è un mollusco Cefalopode con corpo ovoidale, a forma di scudo, depresso, lateralmente al quale si collocano due pinne nastriformi che contornano tutto il corpo e sono separate solo al vertice dello stesso. E’ munita di otto braccia brevi e di due tentacoli molto più lunghi muniti di ventose più grandi che le servono a ghermire le prede e che la seppia può completamente ritrarre nelle due sacche poste sotto agli occhi che sono piuttosto sporgenti con una pupilla molto sviluppata e dalla particolarissima forma che ricorda la lettera omega dell’alfabeto greco.

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Generalmente non supera i due anni di vita e di norma, raggiunge i 25 centimetri di lunghezza e il mezzo chilo di peso, anche se non sono rare le catture di esemplari di dimensioni notevolmente maggiori. La parte ventrale è biancastra, talora leggermente variegata, mentre il dorso è zebrato e di colore mutevolissimo. E’ dotata, infatti, di uno spiccatissimo potere mimetico per cui il suo colore grazie ai cromatofori può variare dal giallo, al bruno, al verde, e in un’infinità di sfumature, acquisendo con sorprendente rapidità il colore del fondale  su cui si trova.

Si può riconoscere il maschio dalla femmina per una riga bianca che questo reca lungo tutto le pinne. Altra caratteristica che la rende inconfondibile, è la presenza della conchiglia interna calcarea, a margini taglienti, biconvessa, detta osso di seppia e scientificamente meglio appellata: sepion, o sepiostario.

osso di seppia

Questa, è costituita dall’80-85% di carbonato di calcio, da fosfati e da una sostanza gelatinosa. Molto leggera, viene utilizzata dal mollusco per governare, attraverso il volume del gas racchiuso nelle camere, la spinta di Archimede. Possiede, una funzionale ghiandola del nero, che produce una secrezione ricca di particelle di melanina, questa raccolta in una vescica (tasca del nero), permette alla seppia, quando si sente minacciata, di emettere una densa nube che la occulta agli occhi dei nemici.

Dal nero di seppia, si ricava una sostanza colorante tecnicamente detta anch’essa seppia, che un tempo rientrava nella composizione dell’inchiostro di china. Le uova, sono nere, piriformi e vengono deposte a grappoli sopra le alghe e i corpi sommersi, per il loro singolare aspetto vengono popolarmente appellate,“uva di mare”.

Per quanto riguarda gli habitat, la seppia non presenta particolari esigenze, popola infatti tutte le tipologie di fondale, da quelli sabbiosi a quelli rocciosi, passando per le praterie di posidonia e la si ritrova indistintamente a  profondità che possono variare dalle poche spanne ai cento e più metri. Questa versatilità di adattamento, unita alla sua notevole intelligenza hanno fatto si che sua popolazione resistesse meglio di altre specie all’esagerato sforzo di pesca che ha caratterizzato questi ultimi decenni e che ha portato allo stremo molte altre specie ittiche, infatti, recenti studi indicano la seppia, che possiede un elevato rapporto tra cervello e massa corporea, come uno degli invertebrati più intelligenti, ovvero, spiccatamente dotato di quella che gli etologi definiscono, sapienza della specie.

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Pur essendo un mollusco, la seppia possiede valori nutrizionali molto simili a quelli dei cosiddetti “pesci magri” i suoi tessuti sono ricchissimi di vitamine soprattutto del tipo : B1, B2, PP; nonché di fosforo, ferro, potassio, calcio e di proteine. Le sue carni sono magre, quindi indicate nelle diete ipocaloriche e nonostante siano ricche di tessuto connettivo risultano facilmente digeribili. Per quanto riguarda la sua diffusione nei mari salentini, pare che la seppia sia una delle pochissime specie la cui consistenza numerica sia incrementata, godendo  del cosiddetto “effetto parco”. Ovvero, a qualche anno dall’istituzione delle aree marine protette di Porto Cesareo-Nardò e Torre Guaceto si è notato un buon ripopolamento del suo stock e nelle due ultime campagne primaverili di pesca, nelle marinerie più prossime a queste riserve si sono realizzati incrementi di catture davvero molto interessanti.

Nelle acque litoranee pugliesi, le seppie sono presenti tutto l’arco dell’anno, ma è nei mesi di marzo e aprile che le stesse, avvicinandosi in massa lungo le coste per riprodursi e deporre le uova, divengono appunto oggetto di pesca specifica che viene praticata prevalentemente con appositi tramagli a maglie piuttosto larghe o con nasse di giunco al cui interno viene posto un ramoscello di mirto (Myrtus communis) sul quale le seppie amano deporre le uova. Una volta rimaste intrappolate, le seppie femmina divengono a loro volta richiamo per i maschi. Per cui, quando i pescatori le salpano per recuperare le seppie catturate, vi lasciano sempre una seppia femmina. Da quanto sopra si evince come la seppie siano animali particolarmente inclini alla lussuria. Questa caratteristica è ben nota ai pescatori che hanno imparato a sfruttarla a loro vantaggio anche in un altro modo, infatti, nel periodo della riproduzione usano legare una seppia femmina viva ad una lenza che trascinano remando lentamente dalla barca; le seppie maschio accecate dalla libidine si lanciano su di esse finendo con lo smorzare i loro bollenti spiriti nel guadino del pescatore.

Le località pugliesi dove si pescano più seppie, sono quelle lungo la costa adriatica, ove gli ampi, pianeggianti, bassi fondali sabbiosi permettono la cattura anche con le reti a strascico, ma un po’ dappertutto sono praticate forme di pesca tradizionali come quella che utilizza la lampara e il guadino montato su un’asta di circa tre metri. Lungo la costa salentina, la pesca alle seppie viene anche esercitata con l’ausilio dei tradizionali piccoli gozzi di legno con due pescatori di equipaggio, uno ai remi e l’altro che scruta il fondale marino con lo specchio (che sarebbe un barilotto che ha fissata una lastra di vetro a tenuta stagna sul fondo), pronto ad arpionare con notevole abilità le seppie utilizzando una fiocina montata su di una lunga asta in pick pine.  Di notte, questa pesca si svolge con l’ausilio degli stessi attrezzi, con in più l’uso di una sorgente luminosa e prende, in questo caso, l’appellativo di Jacca, termine che deriva dalla corruzione dialettale di fiaccola. Quest’ultima, forma di pesca, sui bassi fondali e specie nelle zone lagunari, viene praticata proficuamente anche da pescatori a piedi. Altre specie di seppia diffuse nel Mediterraneo sono la Sepia elegans,  e la Sepia orbignyana, entrambe di dimensioni piuttosto piccole, vengono indistintamente appellate scarpette, non superano rispettivamente gli otto e i dodici centimetri di lunghezza e vivono a profondità maggiori generalmente su fondali melmosi oltre i cinquanta metri di profondità ove costituiscono una classica preda  delle reti a strascico.

In tutta la Puglia sono molto apprezzate e vengono ammannite in tutta una serie di ricette tradizionali. Il novellame di seppia e le scarpette prendono, soprattutto nel barese, la denominazione di allievi e costituiscono una leccornia, che, neanche a dirlo, viene gustata rigorosamente cruda.

 

1 dicembre. Sant’Eligio. Una tela di Donato Antonio d’Orlando a Nardò

 

di Marcello Gaballo

Le sorprese che riserva la chiesa della Vergine del Carmelo a Nardò, un tempo officiata dai carmelitani scalzi, che dimoravano nell’annesso convento, poi parrocchia, sono davvero tante. I preziosi arredi, i decori, gli stucchi e le opere pittoriche presenti, ne fanno una delle tappe che non possono mancare nell’itinerario del turista, sia esso il più frettoloso e poco attento.

Di impianto cinquecentesco, ampiamente rimaneggiata dopo il funesto terremoto del 20 febbraio 1743,  l’edificio ospita una bella tela raffigurante Sant’Eligio, opera del prolifico ma poco noto pittore Donato Antonio d’Orlando (Nardò, 1562 ca – Racale, 1636), la cui produzione è uniformemente distribuita in Terra d’Otranto (Muro Leccese, Copertino, Seclì, Uggiano La Chiesa, Ugento, Leverano, Martina Franca, ecc.).

Il Santo orefice (Chaptelan 588 ca. – 1 dicembre 669 d.C.) fu controllore dei metalli, maestro della zecca, poi grande argentiere sotto il regno di Clotario II, quindi tesoriere di Dagoberto I, prima di essere eletto vescovo di Noyon nel 641 (nella cui abbazia riposa il corpo). Fu assunto a patrono degli orefici, argentieri e gioiellieri, per la sua abilità di intagliatore.  Prima degli ordini sacri eseguì opere di oreficeria di altissimo livello e ne erano prova i bassorilievi della tomba di S. Germain, vescovo di Parigi e i due seggi intarsiati per Clotario, ancora visibili nel 1789. Delle sue opere oggi restano soltanto, oltre ad alcune monete, un frammento di croce incastonata, conservata nel Gabinet des Médailles a Parigi.

antica immaginetta devozionale del santo
Nardò, masseria Brusca, affresco di S. Eligio

Sant’Eligio è considerato anche patrono di quanti si servono di martelli, tra cui carpentieri,  incisori, orologiai, fabbri, meccanici, calderai, minatori, attrezzisti, doratori, ma anche dei trasportatori, autisti, veterinari, sellai,  produttori di finimenti, garagisti, carrozzieri, carrettieri, commercianti di cavalli, contadini, operai, braccianti.

Chiesa matrice di Casarano, statua di S. Eligio (XVII secolo)

Il dipinto di Nardò, ad olio su una tela di cm. 123×193, si ammira sul primo altare della navata a sinistra di chi entra; la presenza di questo santo collima con l’intitolazione dell’altare allo stesso.
Di aspetto giovanile,  è dipinto a figura intera, in piedi, vestito in abiti vescovili; con il braccio sinistro regge il pastorale argenteo e un prezioso volume profilato in oro, mentre benedice con la mano destra.

particolari della tela nel Carmine di Nadò

Sui due lati sono inginocchiati i donatori, con l’abito e la croce confraternale, e subito dietro di essi una folta compagine di cittadini e nobili, tutti con lo sguardo rivolto al santo. Lo sfondo è caratterizzato dal particolare architettonico di quella che potrebbe essere una delle porte urbiche, porta San Paolo, nelle cui immediate vicinanze sorge la nostra chiesa. La presenza dello stemma civico di Nardò nella parte inferiore della tela fa pensare che tra i committenti ci sia stata anche l’universitas locale o che abbia perlomeno concorso al pagamento delle spese per realizzare l’opera.

Ad esaltare la figura del santo contribuisce il drappo del baldacchino dietro le sue spalle, in broccato nero e oro, nella cui parte superiore si legge a lettere maiuscole e dorate Sa(nc)tus Elicius. Gli arabeschi, i racemi e i fiorellini sono ripresi sulla pianeta marrone che il santo indossa su un ampio camice in seta bianca. Rifulge ovunque il dorato, che è poi una delle caratteristiche salienti della pittura del nostro, particolarmente accentuato nelle ricche bordure e profili dell’indumento e del manutergio. Dorate sono pure le scarpe, le cui punte avanzano dal bell’appiombo delle pieghe del camice, comprendendo la sigla D.A.O.P. (Donatus Antonius Orlandi Pinxit) con cui si firma l’artista.

particolare della tela di Nardò con la firma del santo tra i due piedi

La ricchezza decorativa è ulteriormente manifestata dai guanti gemmati, dagli anelli al secondo e quarto dito della mano sinistra, dalle pietre preziose e dal profilo della mitra.

L’ultimo restauro (eseguito da Francesca Romana Melodia nel 1997) ha ridonato splendore ai colori e specialmente alla doratura, rendendo il dipinto molto apprezzabile. Ha anche evidenziato come la tela sia stata ridotta nelle sue dimensioni originarie (probabilmente in coincidenza con i lavori di risistemazione della chiesa dopo il terremoto del 1743), con la definitiva perdita di brani pittorici che potevano narrare episodi della vita del santo. Non si spiegherebbero diversamente le tre iscrizioni sopravvissute ed ancora ben leggibili sul bordo inferiore, che narrano di miracoli accaduti per l’intercessione di Eligio.

 

il santo in una immaginetta devozionale francese del XVIII secolo

Cutrofiano e un suo conte del XIX secolo

di Armando Polito

L’argomento di oggi mi consente di esordire nel modo a me più congeniale spendendo qualche parola sull’origine del toponimo. In ricerche di questo tipo la corretta metodologia impone anzitutto di passare al vaglio le ipotesi altrui che abbiano un minimo di fondatezza scientifica, senza, tuttavia, trascurare anche le più fantasiose ed improbabili, dovessero essere anche le proprie, perché sarà poi il confronto scevro da pregiudizi di ogni sorta ad emettere il verdetto ultimo ma, il più delle volte, non definitivo.

Viviamo nell’era di internet e, perciò, fedele alle vesti del comune utente della rete, parto da quella che, come ho più volte affermato e provato, è considerata avventatamente una sorta di vangelo.

In wikipedia (http://it.wikipedia.org/wiki/Cutrofiano) leggo: L’origine etimologica risale al nome di persona greco-latino: Oecotrophius; o osco: Octufrius. La toponomastica riporta anche una derivazione collegata all’antica attività di produrre oggetti di terracotta, i cutrubbi, tipici recipienti di argilla (dal greco kutra, che vuol dire vaso), da cui Cutrubbiano, e poi Cutrofiano. Gli abitanti si chiamano cutrofianesi.

Sorvolo sul contorsionismo verbale che, almeno io, ravviso in l’origine etimologica risale e la toponomastica riporta anche una derivazione per stigmatizzare, ancora una volta, l’assenza totale della citazione di uno straccio di fonte; il risale, poi, fa credere al lettore che la relativa ipotesi sia quanto meno quella più accreditata.

Per sintetizzare dico che le ipotesi proposte, almeno quelle da me conosciute, sono tre:

1) Il cutrofianese Vincenzo Maria Maselli, sacerdote e cantore della locale parrocchia, nel suo Menologium storiographicum synopticum Parochiarum Hydruntinae Archidiocesis, s. n., Lecce,1858 afferma, in assenza di qualsivoglia prova documentale, che Cutrofiano deriverebbe dalla locuzione latina cultus Jani (culto di Giano) perché in prossimità dell’abitato sarebbe esistita una selva in cui si praticava tale culto.

2) Gerard Rohlfs in Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976 (ma la prima edizione uscì a Monaco nel 1956-57) lo collega dubitativamente a cutrufu=vaso e rinvia a cutrubbu, senza fornire per l’uno e per l’altro etimo di sorta. Successivamente ritornerà sulla questione e più avanti ne esporrò gli esiti.

3) Il glottologo Giovanni Alessio in Problemi di toponomastica pugliese, Cressati, Taranto, 1955 respinge l’ipotesi, sia pure dubbia e parziale del Rohlfs e, sulla scorta di un Uttrofianum che compare in un documento del 1269 (in Testi e documenti di storia napoletana, I registri  della Cancelleria angioina ricostruiti da Riccardo Filangieri, I, 296, Accademia Pontiana, Napoli, 1950), peraltro citato dallo studioso tedesco nel terzo volume della sua opera1, ipotizza che Cutrofiano sia derivato da un personale latino-greco *Oecotrophius/*Οἰκοτρόφιος (leggi Oicotròfios)=(schiavo) nato in casa, come sarebbe successo per Vernole dal latino vèrnula, diminutivo di verna con lo stesso significato. Se fosse attestato, aggiungo per ora io, Οἰκοτρόφιος sarebbe derivato da οἰκότροφος (leggi oicòtrofos), composto da οἶκος (leggi òicos)=casa+τρέφω (leggi trefo)=; tuttavia va detto che lo stesso οἰκότροφος registra una sola attestazione, peraltro dubbia, in Dione Crisostomo, VI, 11.

Esprimo nell’ordine le mie osservazioni:

1) Il passaggio da cultus Jani a Cutrofiani dovrebbe comportare la seguente trafila fonetica: cultus Jani>curtus Jani>cutrus Jani>Cutrofiano. Se i primi due passaggi sono plausibili, non si comprende in base a quale principio fonetico (o a quale caso simile  attestato) sia avvenuto il passaggio -j->-f-. E poi, anche se fosse stato Cutrogiano, resterebbe da attendere il fortunato ritrovamento di qualche reperto archeologico che attesti il fantomatico culto.

2) Per quanto riguarda cutrùfu/cutrùbbu mi meraviglio che al Rohlfs sia sfuggito il latino tardo chytròpus/chytròpodos, trascrizione del greco χυτρόπους/χυτρόποδος (leggi chiutròpus/chiutròpodos)=pentola con i piedi, composto da χύτρα (leggi chiutra)=pentola+πούς/ποδός (leggi pus/podòs)=piede (vedi a tal proposito https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/03/07/il-furone-ovvero-quando-un-deposito-di-risparmio-non-costava-nulla/?preview=true&preview_id=21639&preview_nonce=66affce056). Cutrufu/Cutrubbu potrebbe essere deformazione del nominativo chýtropus inteso come appartenente alla seconda declinazione e non alla terza. Per lo spostamento dell’accento vedi il link segnalato. Lo stesso Uttrofianum (se la lettura è corretta, ammesso che lo sia anche la scrittura),per il quale il Rohlfs in Toponomastica greca nel Salento, Schena, Fasano, 1970, nota 33, p. 18 propone, sia pure dubitativamente l’origine da un *Octufrius gentilizio greco o indigeno o messapico, potrebbe essere, così, un ulteriore suo adattamento con lenizione fino alla scomparsa del ch– latino corrispondente all’aspirata greca χ– e con raddoppiamento, per compensazione, di –t-.

3) L’Alessio sostanzialmente ritiene che Cutrofiano sia un prediale, in linea con la regola in base alla quale i toponimi terminanti in –anus sono legati al nome di colui al quale in epoca romana con la centuriazione venne assegnato il territorio. Nulla impedisce che questo possa essere successo al discendente di uno schiavo nato in casa, ma l’onomastico ricostruito Oecotrophius non risulta attestato da nessuna iscrizione e neppure per Vernole è certo l’etimo proposto. Inoltre, considerando la questione sul piano strettamente fonetico, si dovrebbe ipotizzare la seguente trafila: Οἰκοτρόφιος>*Oecotrophius>*Oectrophianum (sincope di –o– e assunzione di suffisso aggettivale)>Uttrofiano (esito Oe->U- e assimilazione -ct->-tt-). Andrebbe tutto bene se si potesse in qualche modo giustificare l’esito Oe->U-, operazione che a me sembra disperata poiché il greco οι in latino è [per brevità due soli esempi: οἶνος (leggi òinos)=vino>vinum e, per restare in casa …, οἶκος=casa>vicus=gruppo di case, quartiere. Insomma, l’etimo proposto da Alessio sarebbe andato bene, al più, se avessimo incontrato Ittrofiano e non Uttrofiano. Per quanto riguarda il suffisso –anus, infine, va aggiunto che esso non riguarda solo il possesso ma anche altre caratteristiche, geografiche, economiche o di altra natura, legate al nome primitivo; il che significa che Uttrofianum, tenendo conto di quanto ho detto alla fine del precedente n. 2, potrebbe alludere alla produzione fittile ancora fiorente e per l’epoca antica attestata dai numerosi banchi di argilla ancora affioranti dal terreno e ancor più dalla fornace di epoca imperiale venuta alla luce in località Scacciato nel 2005, nonché da analoghi ritrovamenti in siti limitrofi.

Credo che da quanto fin qui detto il lettore si sia fatto un’idea sufficiente dell’ipotesi per me più attendibile.

Qualcosa di più concreto, invece, posso fornire sul duca, del quale riporto di seguito l’immagine reperita in http://bvpb.mcu.es/es/consulta/registro.cmd?control=UNAV20090006218

con la relativa scheda

La data (1860-1880) si riferisce al range temporale supposto in cui il ritratto fu eseguito. Il personaggio rappresentato è il generale Raffaele Fitou (non Fiton, come si legge nella scheda) d’Aragon (1802-1868), figlio di Pietro e di Maria Anna Filomarino duchessa di Cutrofiano suo iure2. Raffaele fu maresciallo di campo e aiutante generale del re di Napoli. Quanto al titolo, acquisito per parte di madre, a parte il fatto che il nostro è più comunemente noto come generale Cutrofiano, non so dire quali vantaggi concreti esso comportasse, se non diritti trasmessi per via ereditaria, nonostante, teoricamente, un duca di Cutrofiano non possa certamente competere con un duca di Lecce o di Otranto …

Noblesse oblige … ad accontentarsi, a volte, anche di poco (anche se molto probabilmente il nostro generale non vide mai Cutrofiano, nemmeno col binocolo …) e d’altra parte, per guardare in casa, il letterato neretino Antonio Caraccio (1630-1702) potè esibire il titolo di barone di Corano, un territorio di Nardò all’epoca presumibilmente pressoché deserto e in cui oggi dell’antico sopravvive solo una masseria in abbandono. Si sa, sic transit gloria mundi

_____________

1 Per Uttrofianum il Rohlfs in Toponomastica greca nel Salento, Schena, Fasano, 1970, nota 33, p. 18 propone, sia pure dubitativamente l’origine da un *Octufrius gentilizio greco o indigeno o messapico; successivamente in Nuovi scavi linguistici nell’antica Magna Grecia, s. n., Palermo, 1972, p. 39 sembra aggiustare il tiro affermando: *OCTUFRIUS (dall’osco *OCTUFRI ‘ottobre’, che sopravvive nel campano ottrùfe ‘ottobre’.

2 A beneficio di chi voglia approfondire riporto in formato immagine tratta da https://archive.org/stream/alessandropoeri00poergoog#page/n399/mode/2up le notizie biografiche contenute in Alessandro Poerio a Venezia. Lettere e documenti del 1848 illustrati da Vittorio Imbriani, Morano, Napoli, 1884, nota 96, pp. 384-386:

 

L’Arte come strumento per smuovere le coscienze. Intervista a Luigi Latino

 Latino (2)

di Gianluca Fedele

Se mi chiedessero di descrivere Luigi Latino direi: è una di quelle persone che dicono quello che pensano e pensano quello che dicono. Schietto, coerente, intransigente.

Pur incontrandolo per la prima volta si ha la sensazione di conoscerlo da tempo o come un parente che non si vede da tanto. Proprio così è capitato a me quando un amico comune ci ha presentati.

Il suo laboratorio/galleria si trova di fronte alla celebre basilica di Santa Caterina d’Alessandria, una piazza in cui l’Arte regna sovrana; qui si possono ammirare le opere più recenti. Quelle che ho visionato personalmente le ho trovate suggestive e rabbiose. Racchiudono in esse l’impotenza del singolo al cospetto della crudeltà della guerra e della massificazione; frugano nell’emotività del recettore cercando di innescare reazioni di sgomento e di indignazione.

Col tempo ci ha legati un’affettuosa amicizia e qualche progetto. Mi ha promesso di prestarsi per un’intervista e oggi siamo qui a chiacchierare.

latino (1)

D.:

Luigi, dove nasce e come matura la tua creatività?

R.:

Dalla scuola media!

Mi spiego: ho frequentato la scuola media inferiore annessa all’Istituto Statale d’Arte, non il corso di studi ordinario.

In un’età nella quale si è maggiormente predisposti alla creatività, in cui l’estro è libero da schemi e da convenzioni, capirai bene che le materie pratiche, supplementari a quelle teoriche – ossia i laboratori di disegno, di pittura e di scultura – mi diedero la possibilità di intercettare meglio, comprendere e seguire successivamente la mia predisposizione artistica innata.

Come molti adolescenti feci anch’io delle scelte di studio non pertinenti alla mia indole e mi ritrovai così iscritto all’Istituto Professionale. Lì mi resi conto quasi subito di non appartenere in nessun modo al rigido mondo dell’elettronica e della meccanica.

Dopo essere rientrato dal militare, a ventisei anni, l’Arte continuava a bussarmi alla porta e io la lasciavo entrare ben volentieri. Dipingevo sempre con una certa regolarità, per me stesso soprattutto, ma cercavo comunque un’occupazione più stabile e redditizia. Fu così che mi misi a commerciare in abbigliamento e lo feci per diverso tempo.

Dieci anni fa capii di non poter più reprimere con diversivi la mia vera natura: chiusi la mia attività e investii ogni risorsa su quello che oggi è il mio modesto atelier.

latino

D.:

È suggestivo ascoltare il racconto di una persona che abbandona tutto, come una vera vocazione francescana, per seguire questa altrettanto mistica “chiamata”.

Ci sono stati artisti che ti hanno segnato durante questo individuale percorso?

R.:

Sono stato innamorato fin da ragazzo, e lo sono ancora, dei pittori Mirò, Kandinsky e di Picasso.

Li ho studiati con curiosità e intesa benché nella mia produzione non si ritrovi traccia di questa influenza seminata dai maestri anzidetti.

Alcuni critici hanno intercettato invece dei parallelismi stilistici, legati alla ricerca sulla materia, con l’artista del novecento Alberto Burri.

latino2

D.:

A proposito di sperimentazione materica, che ruolo hanno quelle cortecce legnose che applichi sulle tele?

R.:

In realtà le “cortecce” alle quali ti riferisci non sono altro che foglie di agave. Sono stato incuriosito da questa pianta quando ho scoperto e ammirato per la prima volta la scenografica fioritura di una pianta che abbelliva il mio giardino: maturando, a una certa età e durante una determinata stagione, dal centro del cespuglio faceva ergere un tronco fiorito alto circa tre metri. Seccando, quest’ultimo, rilasciava la semenza per le nuove vegetazioni.

Le domande che mi sono posto sono state: ne sarà cosciente? E un essere umano, sia uomo o donna, sceglierebbe di dare spazio alle nuove generazioni sapendo poi di dover morire?

Per questa riflessione che mi ha donato ho voluto nobilitare l’agave ridandole “vita” a mezzo delle mie opere.

 

D.:

Non conoscevo questo aspetto. Ho notato inoltre che nella tua produzione contemporanea fai spesso utilizzo anche di ritagli di giornale, quasi che la tela diventi essa stessa un’estensione degli strumenti d’informazione. È così?

R.:

Durante il mio personale viaggio nel mondo dell’arte mi sono soffermato a lungo sull’astrattismo.

Per inciso non amo le etichette (in qualsiasi ambito) come non amo dovermi inserire all’interno di un filone stilistico: l’Arte è tale senza la necessità di doverla classificare.

Dipinsi astrattismo puro finché non avvertii la mancanza in esso di qualcosa, come se la comunicazione con destinatario, tramite quello strumento, fosse interrotta da fattori a me estranei. L’osservazione della problematica mi ha così  indotto ad adoperare frammenti di notizie, di immagini d’effetto, di citazioni applicate in découpage.

Immaginiamo per un attimo che il quadro sia un’urgente rassegna stampa: c’è l’esigenza di arrivare al concetto senza troppi preamboli e in maniera cruda, se necessario.

Mi rendo conto che inserendo la figura, seppure fotografica, dovrei essere tirato fuori dal concetto dell’astrattismo, ma non è così. Semplicemente do un megafono al quadro, punto il riflettore sull’immagine e a quel punto il messaggio che ne risulterà sarà un pugno assestato nello stomaco per chi lo coglierà.

Infatti oggi c’è bisogno proprio di pugni nello stomaco perché i cervelli si sveglino dal letargo all’interno del quale sono stati spinti.

Questa nuova tecnica che sto sperimentando mi ritorna molto utile allo scopo.

 latino3

D.:

Quali sono le tematiche alle quali ti senti più sensibile ?

R.:

È evidente che le questioni sociali persistono in tutte le mie opere attuali. Cerco di dare voce alla sofferenza degli ultimi, al divario che si costruisce tra ceti e infine, ma non certamente per importanza, al dolore che infligge la sempre rigogliosa guerra, un cancro apparentemente inestinguibile poiché non esiste periodo storico, nel mondo, durante il quale essa non sia stata protagonista.

Proprio al tema ho dedicato la serie “il gioco preferito dall’uomo” dove consegno a dei comuni soldatini di plastica il gravoso ruolo incriminante e allo stesso tempo catartico.

latino6

D.:

So che collabori con associazioni di volontariato. La solidarietà aiuta l’Arte?

R.:

Attingo moltissimo da queste esperienze. Senza dubbio alcuno ricevo più di quanto riesca a dare, per il semplice motivo che ogni esperienza, ogni contatto matura il nostro modo di guardare il mondo e nel mio caso muta diventando un quadro.

Quando sostengo il prossimo lo faccio come fosse una sorta di umano investimento, nell’attesa che qualcun altro aiuti me.

latino7

D.:

Mi parlavi della tua tendenza a escluderti da ogni tipo di etichetta ma ami definirti anarchico. Non è essa stessa un marcatura?

R.:

Per me l’anarchia non è una fazione come possono essere il comunismo e il fascismo, non è uno stile, non è una corrente. Anarchia, per me, è il luogo etereo nel quale ogni artista si ritira – chi consciamente e chi meno – per evadere dal mondo reale ed esprimersi come meglio si confà al proprio spirito libero.

 

D.:

Comprendo benissimo il concetto ma noi sottostiamo ogni giorno a delle regole, soprattutto economiche, non credi?

R.:

Ciò è fuori discussione, purtroppo! Lo spirito artistico, da millenni, si foraggia proprio da chi acquista e commissiona opere. Siano esse pittoriche, scultoree, letterarie. Questo comunque non compromette l’esistenza dell’Arte in mancanza di denaro dal momento che la creatività fluttuerebbe nella mente dell’uomo libero a prescindere e troverebbe certamente altri sistemi per evadere e palesarsi. L’anarchia e l’Arte, in questi termini, per me sono spazi affini.

 

D.:

C’è forse una connessione tra il concetto da te appena espresso e i colori predominanti all’interno delle tue opere?

R.:

Ultimamente temo che il grigio – che rappresenta l’appiattimento sociale e il sistema incancrenito che combatto – si espanda in maniera incontrollabile sulle mie tele. Sopprime e domina persino il rosso, tonalità passionale per definizione. Alla neutralità di queste cromie cineree probabilmente preferirei una predominanza di nero che, seppure nefasto, certamente esalta meglio gli abbinamenti cromatici e soprattutto crea “contrasto”.

latino4

D.:

Potremmo tranquillamente dire che la tua è “arte di denuncia” e, come accennavi pocanzi, in Italia si fatica a smuovere le coscienze. Viene captata meglio, la contestazione, se ha questa forma?

R.:

Se in Italia si fatica, al sud è quasi impossibile fare contestazione. E poi c’è troppo individualismo, soprattutto tra gli artisti. I cambiamenti si fanno singolarmente ma le rivoluzione si fanno in massa.

Per fortuna ho degli acquirenti in Europa che afferrano e apprezzano l’espressione artistica che creo molto più che nel mio paese.

 

D.:

Dove hai esposto?

R.:

Grazie ad alcune organizzazioni sono stato selezionato e ho eseguito mostre in Uruguay, in Brasile, in Germania. In Albania i miei quadri sono esposti in rilevanti pinacoteche e ornano le sale di importanti palazzi.

Mi piacerebbe che anche qui ci fosse la stessa attenzione da parte delle gallerie ma pare siano diventate più delle “affittacamere” per pochi.

 

D.:

Però oggi si ha l’impressione che in tanti facciano “arte”; c’è una sovrapproduzione secondo te?

R.:

Non mi preoccupa la sovrapproduzione di arte. Mi spaventa molto di più quella di bombe.

latino5

Chiacchierata con Ferdinando Boero

boero

di Gianni Ferraris

Chiacchierata con Ferdinando Boero, docente di biologia marina all’Unisalento di Lecce, collabora con alcuni quotidiani (La Stampa, Il Secolo XIX, Nuovo Quotidiano di Lecce) e altre testate scientifiche e non. Personaggio eclettico, scienziato che è difficilissimo trovare a casa perché chiamato in ogni parte del mondo a parlare della sua specializzazione.

Oltre che lo studio delle meduse, delle quali è uno dei massimi esperti a livello mondiale, e della biologia marina in genere, uno dei suoi amori più grandi è stato da sempre Frank Zappa, e una medusa da lui scoperta ne porta il nome.

Genovese trapiantato in Salento, ogni tanto ci si incontra, si scambiano otto parole e quattro battute e battutacce sulla vita, il lavoro, la politica, il succo di melograno ed altre amenità.  Siccome il prof. Boero ha un curriculum esageratamente impegnativo da riportare, rimando alla sua scheda nel sito unisalento .

 

“Per iniziare  in leggerezza, due parole su Frank Zappa”

Il primo concerto è stato The Beatles, nel 1965. Avevo 14 anni. L’anno dopo The Rolling Stones. Stava cambiando il mondo, e ho avuto la fortuna di essere lì, di vederlo cambiare. All’inizio dei 70 un mio amico mi fa sentire un disco di Zappa e resto fulminato. Cominciavo a capire l’inglese e quel tale parlava di cose “strane”, la sua musica era “strana” e in quella stranezza, diversa da tutti gli altri, mi trovavo a mio agio. Nessuno come lui. Così, nel 1983, durante un soggiorno di studio in California, gli scrissi che avevo scoperto nuove specie di meduse, e che avrei voluto dedicargliene una. Mi rispose “non c’è niente al mondo che mi piacerebbe di più che avere una medusa col mio nome”. Lo andai a trovare a casa sua, a Los Angeles, e diventammo amici. Un’amicizia che durò dieci anni, fino alla sua morte, nel 1993. Un privilegio raro, conoscere gente di quel calibro.

 

“A Lecce sei arrivato nel 1987, l’intenzione era di stabilirti qui o doveva essere un passaggio?”

Non sapevo. Ci fu un concorso nazionale ad associato. Io ero ricercatore. Partecipai. Non c’erano posti a Genova. Vinsero i pupilli dei membri della commissione ma avanzò qualche posto, e fui promosso anche io. I pupilli restarono nell’Università di provenienza mentre io, che non avevo un posto a casa, fui mandato nel posto dove non voleva andare nessuno: Lecce. Feci armi e bagagli e quando arrivai qui non sapevo quanto ci sarei restato, ma cominciai a lavorare come se avessi dovuto restarci per sempre. E in effetti, dopo 27 anni, sono ancora qui. Sono stato molto fortunato, e sono molto contento che Lecce fosse percepita come un posto “di scarto”. Ora sanno cosa si sono persi.

 

“Qui in Salento c’è uno dei mari più belli, l’ecosistema marino è rispettato come dovrebbe o molto è lasciato al caso e all’incuria?”

Appena arrivato qui mi accorsi che tutti, ma proprio tutti, mangiavano le linguine con i datteri di mare. I fondali rocciosi erano devastati. E non importava a nessuno. Le coste sabbiose erano anch’esse devastate dall’abusivismo edilizio. Un disastro. Piano piano, con l’aiuto di molti amici e colleghi, lavorammo per aumentare la percezione dell’importanza del mare. Quando arrivò il decreto che istituiva l’Area Marina Protetta di Porto Cesareo mi volevano linciare, assieme a Cosimo Durante. Un “locale” che capì al volo e che mi restò vicino sempre. Oggi i sindaci mi chiamano per sapere come istituire Aree Marine Protette dove ancora non ce ne sono. Il Salento è un paradiso per chi ama il mare. Ma siamo ancora a un bivio. Per qualcuno il mare è migliaia di persone accalcate su una spiaggia a ballare danze tribali sotto l’influsso di alcolici e di musiche martellanti, per altri il mare è natura e paesaggio, fuori e dentro l’acqua. Dobbiamo riuscire a far capire che il modello Rimini è fallimentare, se si ha a disposizione la bellezza del Salento. A Porto Cesareo, per promuovere il territorio, hanno fatto un monumento a Manuela Arcuri, e hanno un parco nazionale…

 

“Facciamo il punto della situazione, si parla moltissimo di TAP[1] si e TAP no, molti ti additano come complice di TAP nonostante tu difenda l’ambiente, non è una contraddizione in termini la tua?”

Non mi piace l’ambientalismo a corrente alternata. Non mi piacciono i sindaci che contestano i piani paesaggistici, che frenano lo sviluppo, e che hanno contribuito a cementificare e asfaltare tutto, e che poi si svegliano all’improvviso con la fregola ambientalista a senso unico. Non mi piace che un territorio sia devastato da tutto questo, che si lasci avvelenare dai rifiuti sepolti sotto gli occhi di tutti, e che poi si individui in una sola cosa il male assoluto. Ho denunciato questo falso ambientalismo e, ovviamente, mi hanno detto di essere un venduto. Ho dato vita al primo spinoff universitario dell’Università del Salento. Serve per fornire consulenze ambientali. Se TAP ci chiedesse di fare uno studio per valutare lo stato dell’ambiente prima e dopo il suo passaggio, ovviamente lo faremmo. E diremmo quel che risulterà dagli studi. Questi studi sono pagati, è ovvio, e vanno fatti. Ma il fatto che siano pagati significa che chi li commissiona ha comprato il parere di chi li ha fatti? Chi pensa così forse pensa che tutti si comportino come si comporterebbe lui.

Mi sorprende anche che nessuno si sia mobilitato per un altro gasdotto che dovrebbe approdare a Otranto. Mi pare stranissimo che persone senza una storia di militanza ambientalista, all’improvviso, su un solo argomento, diventino delle Giovanne D’Arco. TAP è un tubo di 90 cm di diametro e porta il gas in Italia. Se il governo lo ritiene strategico, come pare, è giusto valutarne l’impatto. Tutt’altro discorso le trivellazioni. Anche se il governo le ritiene strategiche per me il prezzo da pagare, a fronte dei vantaggi, è troppo alto. Lì sono in prima fila. Ma spero di non trovarmi circondato da ambientalisti a corrente alternata.

 

“Tu sei genovese ultimamente c’è stata l’ennesima gravissima alluvione, è saltato il Bisagno con un solo morto per fortuna. I conti non tornano però, da decenni Genova ha questo problema e da decenni nessuno ha fatto nulla. Non è che la politica sia latitante in attesa dei prossimi morti?  Soprattutto, secondo te esiste una “cura” per Genova o i genovesi debbono rassegnarsi? Si dice da più parti che la prevenzione sia molto meno costosa della riparazione dei danni”

Negli anni 50 e 60 Genova ha abbandonato il suo magnifico centro storico, una parte è stata addirittura demolita perché “fatiscente”, e si è costruito sulle colline attorno. Una immane colata di cemento, senza alberi, con case una sopra l’altra, arrampicate sulle colline. Sotto il fascismo Mussolini immaginò la Grande Genova, e promosse la copertura del Bisagno, il torrente che attraversa Genova, e fece costruire grandi palazzi, e viali e una grande piazza: Piazza della Vittoria. Certamente molto meglio del disastro del dopoguerra, ma comunque un disastro. Le alluvioni vengono da queste scelte. Allora non si sapeva che “tombare” i torrenti, coprendoli di cemento e incanalandoli in grandi tubi, avrebbe portato ai disastri che oggi ci martoriano. Ma l’Italia intera è stata devastata. Le “bonifiche” hanno eradicato le zone paludose e hanno causato il dissesto idrogeologico che flagella l’intero paese. Tutte le periferie sono orrende. Tutte. Io sono radicale in questo. Per me bisogna dare impulso all’edilizia con un piano di demolizioni che riporti alla normalità la Natura compressa dalla follia umana. Come bisogna demolire gli scempi sulle dune del Salento, così bisogna demolire le case di Genova, quelle costruite dove non si deve. In una di quelle case sono nato, e ho passato un’infanzia e un’adolescenza che non cambierei con niente altro al mondo, lì ci sono le mie radici. Mi piangerà il cuore quando, se sarò ancora vivo, vedrò buttar giù casa mia. La casa dove mio padre è morto nel suo letto e dove ancora vive mia madre, che guarda il mare e la Lanterna, e il porto dal suo terrazzino. Ma non ci sono alternative. O le buttiamo giù noi, quelle case, o sarà la Natura a farlo. Genova negli anni 70 arrivò a un milione di abitanti. Ora sono seicentomila. Va bene così. Il centro storico di Genova è il più grande d’Europa, ed è bellissimo. I genovesi devono ritornare a vivere lì. La cura dimagrante delle città, che devono tornare a stringersi nei loro centri storici, è la sfida architettonica del futuro. Gli architetti devono realizzarla. Gli ecologi dovranno guidare la rinaturalizzazione di quello che le città hanno distrutto. E gli agronomi dovranno promuovere un’agricoltura meno inquinante e di migliore qualità. Abbiamo tutte le carte in regola per farlo, ma ci vuole una “visione” che ancora stenta a venire. Nel mio piccolissimo cerco di remare in questa direzione. Contro la visione dei più, in modo ostinato. In direzione ostinata e contraria, diceva De Andrè. E Zappa diceva: senza deviazione dalla norma il progresso non è possibile.

Non mi illudo di avere successo, è una missione impossibile nell’arco della mia vita. Ma non mi importa. C’è sempre più gente che “capisce” e un giorno saranno la maggioranza. Sarà la Natura a convincerci, con le sue sventole mortali. E se invece non capiremo, ci spazzerà via.

E dopo questa ventata di ottimismo (tranquilli, non riusciremo a rovinare la Natura, soccomberemo prima di averlo fatto in modo irreparabile) torniamo alle cose di tutti i giorni.

Ci vediamo da Povero[2].

 

[1] TAP: Trans Adriatic Pipeline è un consorzio per la costruzione di un Gasdotto Trans-Adriatico   che connetterà Italia e Grecia attraverso l’Albania permettendo l’afflusso di gas naturale proveniente dalla  zona del Caucaso, (Azerbaigian) . Gli azionisti attuali del progetto sono la norvegese Statoil, (20%), l’inglese BP  (20%) l’azera Socar (20%), la belga Fluxys(16%), la francese Total 10%), la svizzera Axpo Holding  (5%) e la tedesca EON Ruhrgas (9%).  Il gasdott odovrebbe approdare a San Foca, uno dei tratti di costa più suggestivi del Salento ed ha incontrato l’opposizione de icomitati e dei sindaci locali.

[2] Povero: enogastronomia di Marco Povero, ritrovo, covo, ottimo vino ed ottimo cibo. (www.enogastgronomiapovero.blogspot.com)

Pietro Marti, cultura e giornalismo in Terra D’Otranto

Marti frontespizio1

di Oronzo Russo

Chi ha letto le “Memorie di un cane giallo” dell’americano O. Henry non dimenticherà l’istrionesca figura di Judson Tate, viaggiatore di commercio e frivolo banditore dalla eletta faringe, che semina al suo passaggio storie arabescate di umanissima povertà, di amori, di improbabili fantasie e di più manifeste assurdità, al solo scopo di vendere una scatoletta di pastiglie medicamentose per il mal di gola. Al prezzo neppure tanto simbolico di mezzo dollaro.

Tanto per dire quanto lontano sia Ermanno Inguscio da simile espediente  che, con caparbietà, ci consegna, in “Pietro Marti, cultura e giornalismo in Terra D’Otranto”, una sorta di prontuario della post-unità, frantumato in “certezze”, senza  pretesti narrativi.

Vasta e vertiginosa è, infatti, l’area di scavo, un enorme buco nero, dove il salentino Pietro Marti si muove disposto a parlare e ad ascoltare, perchè forte di una cultura immensa e spregiudicata, per nulla prigioniero di inferiorità meridionale. Sa calarsi, infatti, fra tutti, che siano angeli custodi o eccelsi inquisitori, contrabbandieri o bracconieri per fame, viandanti, assassini o callidi adulatori, i personaggi che incontra e tratta agiscono a ridosso di una normalità in perenne affanno, problematica e lunare, portata alla ribalta, nello spazio scenico e nel verbo teatrale, quasi da un Carmelo Bene del pensiero “dispensato”.

Ed Ermanno s’è saputo calare tra tante corse e diversità con una inusitata sagacia che sorprende. Si ritrova a meraviglia dietro “quell’uomo che nella cultura costruì il suo riscatto economico-sociale con strumenti come istruzione, attività editoriale e giornalistica, puntando alla riscoperta della civiltà della Puglia e del Salento”.

Le vicende della vita di Pietro Marti appaiono così appendici di un romanzo unico ed incompleto; capitoli, pur frammentari, di una vicenda che segue la prima, appena abbozzata, stesura della storia post-unitaria. I personaggi s’incarnano in una narrazione a puntale, che si meteorizza nel “feuilleton” di un quotidiano sociale che mai si presta alla convenzionale oleografia delle rivisitazioni. Pietro Marti, giornalista, editore e scrittore, studioso di Terra d’Otranto non è, comunque, solo una cerniera fra più persone, o più situazioni: rappresenta anche, e soprattutto, il punto di ritrovo concettuale di idee, di aspirazioni, di fallimenti e di successi individuali. Se la confessione è la “psicanalisi dei poveri”, il Marti si evidenzia nel ruolo dell’amico, confidente e complice, presenza discreta, alla ribalta di un illuminismo culturale proiettato, ormai, nel secolo delle certezze. Il novecento si materializza già nelle ultime pagine della storia precedente, da rileggere con il rimorso di chi non è stato protagonista e, forse, neppure comparsa. Gli interventi di Marti risentono di questa frattura, al di là delle singole aderenze culturali e politiche. Sono interventi esistenzialisti, qualcuno anche romantico, e persino byroniano. Che sono poi la denuncia di una crisi personale che sfocia nel campo pubblico, coniugandosi con le poche verità assicurate dall’Italia ottocentesca. Da qui la scoperta di Inguscio che capisce che ogni argomento che Marti tratta nasconde, dietro di sé, un “male” oscuro e imprecisato che emerge, di volta in volta, da una tensione, non solo espressiva, che recita, nel teatro sotterraneo dell’inconscio, un conflitto sociale e gli interrogativi della novità.

Sono interventi che denunciano una profonda solitudine alla quale non cede, con l'”escamotage” di una prova d’appello sempre rinviata ed, alla fine, inevitabile. E non è un caso che il terminale dell’intero carteggio sia l’uomo di un Meridione disaggregato e frenato socialmente, nonostante i suoi numerosi apporti culturali. In questo senso, ogni azione del Marti accetta la precarietà dell’immediatezza e della contiguità fisica, o geografica, per divenire romanzo e racconto: un passo ancora, ed è già storia.

Dicevamo di meriti, veramente tanti. Ma diciamo dell’abilità di Inguscio di incastonare le conoscenze dei luoghi e delle tradizioni, delle credenze popolari e delle sensazioni emotive che solo chi conosce questa terra può descrivere quasi fosse una storia “contenitore”, inventata sul filo di narrazioni fantastiche e leggende popolari per avvicinare tanto lavoro al gradimento.

Un notevole sforzo. Non era facile coniugare la cartapesta con Liborio Romano, i ruderi con la fine arte di Bodini.

Ed invece è venuto tutto così naturale che il libro si legge tutto d’un fiato, a riprova che Inguscio ha saputo presentare Pietro Marti come il campione meridionale capace di evidenziare la metafora esatta del tempo macinato e disintegrato, altrimenti perso, ma anche dell’amicizia, della complicità e del tradimento, della colpa e del rimorso, della fuga e del ritorno, sintesi di una riappacificazione che passa attraverso il filtro della parola e di un’onestà ruvida e incondizionata. Per codici e patti cavallereschi, sempre leale. Il tempo era sempre quello dell’immediato passato e permetteva di osservare ancora moduli ottocenteschi, pur se in fase evanescente.

“Pietro Marti, cultura e giornalismo in terra d’Otranto”, infatti, non è una provocazione, ma un atto d’amore,  una malia,  un incantamento. E un giuramento di lealtà. Incantamento per il giornalismo, innanzitutto, del quale sia Marti e, conseguentemente, Inguscio sono innamorati perduti. Non altrimenti saprei definire questa passione per la parola.

Fare il giornalista, a tutti i costi,  è la dichiarazione di intenti, di un apprendistato erratico e avventuroso che incalzerà Marti per tutta la vita. In ordine sparso, ogni volta un nuovo approdo, rimettendosi in gioco,  in una categoria disastrata da quanti, giornalisti, si credono anche scrittori.

Il resto , in questo libro, è funzionale a questo amore per la scrittura, a questo tacito patto di lealtà con se stesso. E la chiave di lettura del libro segue questo intreccio, si sdoppia, perché è sì la storia di un giornalista, ma è anche la storia speculare di un uomo, Ermanno Inguscio,  dalla caparbia ansia di apprendere, di leggere per apprendere, con l’umiltà di chi ha voglia di cultura., senza ricorrere alle pastiglie medicamentose per il mal di gola da propagandare tra la povera gente.

Non tutto il facebook vien per nuocere …

di Armando Polito

Le due foto di testa sono tratte da https://www.facebook.com/groups/fralescrasce/828684087155136/?comment_id=829172297106315&notif_t=like, dove la didascalia dell’autore degli scatti, Federico Rame, recita: Probabile osteria, isolata nelle campagne a diversi km dal centro abitato, sulla strada vecchia Vernole-Calimera.

Mi sono permesso di evidenziare nella prima l’iscrizione ben rappresentata nella seconda perché è su di essa che voglio spendere qualche parola.

La trascrizione esatta è:

SI SEGETES SATA TERRA DEDI DABO VINEA VINUM

ET MERITO PRIUS EST EDERE POST BIBERE AN(N)O D(OMI)NI 1715

Traduzione: Se (io) terra seminata ho dato le messi, (io) vigna darò il vino.

E giustamente prima c’è il mangiare, poi il bere. Nell’anno del Signore 1715

Si tratta di quella che in gergo tecnico si definisce iscrizione parlante, perché è come se essa in prima persona si rivolgesse al lettore che nel nostro caso, condividendo quanto ipotizzato nella didascalia, potrebbe essere un viandante.

Siamo in presenza di un distico elegiaco di pregevole fattura (l’indicazione della data non ne fa parte), la cui scansione fornirò a breve. Mi preme, infatti, sottolineare nel primo verso la doppia allitterazione, cioè la frequenza di s che coinvolge all’inizio SI SEGETES SATA e  alla fine, questa volta di vVINEA VINUM;  in quest’ultimo nesso ricorre anche la figura etimologica, cioè l’uso di due voci legate fra loro dall’etimo; e la costruzione sarebbe perfettamente simmetrica se potessimo affermare (io non ne sono capace senza ombra di dubbio) che SEGETES ha lo stesso etimo di SATA, che è participio passato di sèrere=seminare. Da notare ancora la posizione chiastica di SEGETES (complemento oggetto) SATA TERRA (soggetto con participio congiunto) DEDI (verbo) da una parte e  DABO (verbo) VINEA (soggetto) VINUM (complemento oggetto) dall’altra.

Nel secondo verso, invece, spicca per contrasto la simmetria tra PRIUS (avverbio) EDERE (verbo) da una parte e POST (avverbio) BIBERE (verbo) dall’altra. Non è da escludere, pur nell’età illuministica in cui ci troviamo, un riferimento all’Eucaristia, per cui l’iscrizione vivrebbe di un momento tutto umano (il lavoro della terra) confortato dalla fede e dall’occhio vigile del divino; così il il pane e il vino, il mangiare e il bere,  travalicherebbero gli angusti e materialistici confini del loro significato letterale (e a questo punto sarebbe opportuna una ricognizione all’interno della fabbrica alla ricerca di qualche indizio che possa avvalorare in qualche modo un suo utilizzo religioso, il che indurrebbe a cambiare l’originaria ipotesi sulla sua destinazione d’uso come una sorta di posto di ristoro).

Ecco la scansione promessa, che mi auguro possa significare qualcosa, almeno per qualche studente del classico …

Sī sĕgě|tēs || sătă| tērră dě|dī || dăbŏ| vīněă| vīnūm

Ēt mĕrĭ|tō prĭŭs| ēst || ēdĕrĕ| pōst bĭbĕ|rě

Per quanto riguarda le cesure (in rosso) nel primo verso ho adottato la tritemimera+l’eftemimera perché in questo modo la separazione tra gli elementi del verso è traumatica (stavo per dire illogica) solo per il primo complemento oggetto (segetes), conservando la loro unione grammaticale da una parte sata terra dedi  (soggetto con participio congiunto+verbo) e dall’altra, più compiutamente,  dabo vinea vinum (verbo+soggetto+complemento oggetto).

L’adozione della pentemimera

Sī sĕgě|tēs sătă| tērră || dě|dī dăbŏ| vīněă| vīnūm

avrebbe, infatti, comportato la separazione del soggetto (sata terra) dal suo verbo (dedi) ed avrebbe conferito alla lettura un ritmo più rapido. La lettura con due cesure, oltretutto, si adatta meglio, creando un ritmo più rotto, a ricordare che dietro il prodotto della terra, per quanto generosa, c’è sempre la fatica dell’uomo.

Lascio ora confessare al lettore quale delle due insegne lo ispira di più …

immagine tratta da http://www.newslavoro360.it/wp-content/uploads/2013/10/mcdonalds.jpg
immagine tratta da http://www.newslavoro360.it/wp-content/uploads/2013/10/mcdonalds.jpg

E, forse, lo studente di liceo di prima farebbe bene, da solo o accompagnato, a fare incontri ravvicinati di questo tipo piuttosto che partecipare a viaggi-distruzione; se poi portasse con sé anche un panino o, meglio ancora, una frisa col pomodoro, sicuramente ne guadagnerebbe non solo in cultura concretamente sperimentata sul campo ma anche in salute …

Due giorni dopo la pubblicazione di questo post Angelo De Pascali in https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10202992033709829&set=pcb.830219627001582&type=1&theater  ha pubblicato la foto della parte posteriore della fabbrica, la quale sembrerebbe confermare i miei sospetti sulla sua destinazione d’uso di natura non propriamente o esclusivamente laica.

A questo punto, avrebbe detto Lubrano, la domanda sorge spontanea: e gli interni?

 

Ai tempi del futuro

telenorba

di Paolo Vincenti

 

Da qualche giorno compaiono nei nostri paesi dei manifesti giganti firmati Telenorba nei quali  la nota emittente televisiva pugliese pubblicizza il nuovo palinsesto e l’offerta dei  programmi. Pur essendo molto conosciuta, nel nostro territorio salentino, questa televisione non è stata mai troppo popolare per via della sua vera o presunta “baricentricità”. Occorre dire che da qualche anno la televisione, che ha sede a Conversano, ha superato questo gap con la nascita delle redazioni giornalistiche locali nelle varie città dell’ampio territorio sovra regionale in cui trasmette. Ma molti anni fa non era così. Ricordo, ai tempi del Liceo, in una classe in cui tutti i miei amici facevano il tifo per la squadra del Lecce (c’era stata la prima storica promozione della squadra in serie A, nel 1985), gli strali lanciati dai miei compagni all’indirizzo della suddetta televisione, accusata di partigianeria e faziosità a favore della squadra barese. Io, che grande appassionato di calcio non sono mai stato e che per spirito di contraddizione non ho mai amato cantare nel coro, accoglievo quelle rimostranze con finta partecipazione ma tiepida adesione.

Per me infatti, Telenorba significava ben altro. Prima di tutto, i cartoni animati: quei meravigliosi manga giapponesi, come Geeg robot d’acciaio, Gundam, Jetta Robot, Kyashan, che, fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta (le tv della Fininvest lanciavano ancora soltanto i primi vagiti), Telenorba trasmetteva nei caldi e assolati pomeriggi estivi della mia infanzia.  Io allora ero del tutto immune ( e lo sono  rimasto)  da quel sopore che intorpidisce le membra di chi lavora fin dalla mattina presto e ama concedersi un rilassante sonnellino pomeridiano, che per l’italiano medio rappresenta un must, come il caffè che viene dopo. Venivo però costretto a coricarmi nel letto matrimoniale insieme a mio padre, onde facilitarmi il negletto assopimento  e sbarrarmi nel contempo eventuali vie di fuga, così come a mia sorella toccava coricarsi insieme a mia madre. Ma io, fingendo di cadere presto fra le braccia di Morfeo, in realtà detestato come il peggior villain dei fumetti dell’ Uomo Ragno, attendevo che mio padre si appisolasse e, al suo primo ronfare, sgattaiolavo via dalla camera da letto, mi portavo nel soggiorno e accendevo la tv  col volume al minimo per non farmi scoprire. E così seguivo le avventure dei miei robot umanoidi.

Andando ancora più indietro nel tempo, ricordo che, durante l’inverno – frequentavo la quarta o la quinta elementare-, mi alzavo la mattina presto, quando il resto della famiglia era immerso nell’ultimo sonno e in casa regnava una calma assoluta, accendevo la tv (manualmente, ché il telecomando doveva ancora venire), e mi sintonizzavo proprio su Telenorba.

Alle 6.30 cominciava la programmazione con il segnale di inizio trasmissioni. Poi, il jingle della concessionaria di pubblicità Fono.Vi.Pi.  Bellissimo il filmato in cui, nel mezzo di un paesaggio a colori un po’ naif, in un vallone verde con poche casette simili a quelle delle fiabe, un corso di fiume e un bel cielo blu nel quale splendeva un simpatico sole, spuntavano dal nulla tante altre case che riempivano all’inverosimile il locus amoenus rendendolo una giungla di cemento, prefigurazione, credo, nei sogni a più cifre del patron della tv, Ingegner Montrone, dei lauti proventi che sarebbero derivati dalla speculazione edilizia a cui guardavano  i nostrani palazzinari, emuli del più grande e intraprendente palazzinaro d’italia, ovvero il Cavalier B. Nel filmato, una voce fuori campo recitava: “Questo è quanto succede ancora in molte zone della Puglia e della Basilicata (e qui il sole si oscurava e  giù scrosci di pioggia torrenziale): niente. La mancanza di occupazione per tutti è un problema che Telenorba sta affrontando  con successo.  Se vuoi andare avanti anche tu (e a questo punto ritornava il sereno), scegli Telenorba, è un investimento vincente”.

Dopo questo filmato veniva trasmesso uno dei miei telefilm preferiti: Buch Rogers,  serie di fantascienza che trasportava la mia fantasia bambina fra astronavi e pianeti sconosciuti, galassie e asteroidi, in cerca del Futuro.  Che il futuro poi, quello con la f minuscola, sarebbe stato meno “fantastico” non potevo sapere allora, ma questa è un’altra storia. Telenorba per me è stato anche altro. Qualche anno più tardi, quando vivevo i pruriti della pubertà, la tv trasmetteva a notte inoltrata ( in terza serata, come si direbbe oggi) i primi filmetti pornografici (dei porno soft o degli erotici più spinti), antesignana di tutte le altre televisioni locali private che di lì a poco avrebbero trasmesso filmati pornografici, porno televendite  e hot lines a go gò, animando le libidinose notti del maschio italico. In seguito,  una direttiva dell’Autority del 2007 avrebbe vietato 24 ore su 24 ogni forma di pornografia nelle televisioni in chiaro.

E come dimenticare, sempre in terza serata, la mitica trasmissione “Colpo grosso”,  sexi game condotto da Umberto Smaila, con le procaci “ragazze cin cin”? Un profluvio di sederi, gambe e seni in bella evidenza fra i lustrini e le paillettes di una scenografia trionfo di un kitsh tutto anni Ottanta. Telenorba è stato questo ed anche altro. Pensiamo ai primi Toti e Tata che esprimevano il loro talento comico nella trasmissione satirica “Il Polpo”.

Ed è su Telenorba che hanno mosso i primi passi tanti comici, come il campione d’incassi Checco Zalone, presentatori, giornalisti, oggi alla ribalta nazionale. Questa tv era anche il regno delle telenovelas argentine e brasiliane e nel primo pomeriggio di quegli anni si trasformava per l’occasione in una valle di lacrime : quelle versate dalle massaie come mia madre che a quell’ora, fra l’acciottolio dei piatti e il rumore delle prime aspirapolveri, seguivano le svenevoli  avventure sentimentali di “Cuore Selvaggio”, “Anche i ricchi piangono”, ecc. Il gruppo Norba dunque aveva capito fin da allora l’importanza delle cosiddette “casalinghe di Voghera” (anche se si è in Puglia), definizione infelice e sciovinista con cui oggi i massmediologi  indicano il pubblico medio delle tv commerciali.

Delle altre televisioni locali, fiorite fra gli anni Ottanta e i Novanta, non conservo molti ricordi, se non dei loro nomi: oltre a Teledue , che è poi entrata nel gruppo di Telenorba, potrei citare Tele Salento(poi passata a Telerama), la racalina Top Video, L’Atv di Cavallino, Tele Terra D’Otranto (poi Canale 8), la ostunese Teleradiocittàbianca, la casaranese TeleSud (vera meteora nell’etere salentino), Tele Libera Maglie, e naturalmente Tele Lecce Barbano, la prima emittente privata salentina nata nel 1975. Molto spesso queste non erano visibili nel mio paese Ruffano, per via di una cattiva ricezione del segnale (“c’è riso” diceva mia madre riferendosi a quella nebbiolina, simile appunto ad un riso fino, o a ghiaietta, che compariva sullo schermo in mancanza di segnale).

Eppure proprio negli anni Ottanta venne potenziato il segnale con l’installazione di un enorme ripetitore televisivo sulla collina di Parabita. Come scordare, a questo proposito, le battaglie portate avanti dai primi sparuti drappelli di ambientalisti salentini e fra questi il mio docente di storia e filosofia del Liceo, Giovanni Seclì?  Il professor Seclì, all’epoca anche esponente politico del partito della Democrazia Proletaria (che si sarebbe poi sciolta nel PCI) inscenava plateali manifestazioni di protesta a vantaggio della salubrità dell’aria salentina messa così duramente a repentaglio da Bim Bum Bam , Telemike e La ruota della Fortuna.

Non potevo immaginare allora che, mutatis mutandis, oggi,per i suddetti ambientalisti,  nemici della salubrità dell’aria e della nostra salute, al posto dei ripetitori televisivi o telefonici, sarebbero stati  le centrali a biomasse e gli impianti eolici. E magari domani lo diventeranno i voli spaziali! Di Telelecce Barbano, dicevo, che poi sarebbe confluita nel circuito di Rete A, non ho una esperienza diretta da spettatore,  ma so di questa emittente e del suo fondatore Adriano Barbano, dalle informazioni prese in rete o dalla lettura di qualche saggio.

Ritornando a Telenorba che oggi comprende oltre alle due tv generaliste Tn7 e Tn8, anche una tv all news (tg norba 24) e una radio, il video promozionale della concessionaria di pubblicità Fono Vi.Pi., trasmesso  in quei lontani anni della mia infanzia adolescenza, aveva una musichetta molto orecchiabile che ricordo ancora. E al di là delle riflessioni sociologiche, specie sulla deriva culturale che questo paese avrebbe intrapreso a causa delle televisioni commerciali, al di là delle visioni obbligatoriamente politiche o peggio ideologiche sull’argomento (che noia, amici bacchettoni e moralizzatori di destra e di sinistra!), quando io dico Telenorba, penso ancora a quella musichetta sedimentata nella memoria.

 

in “S/pagine”,  23 novembre 2014

 

Il paesaggio per tutti

Link Udu Lecce, in collaborazione con il Consiglio degli Studenti e l’associazione culturale Archès, la Società Geografica Italiana ed Uniscape organizza:

  • EUROLANDSCAPE, il paesaggio per tutti.

  • Tre giorni di incontri per avviare una riflessione e una discussione sul paesaggio a quasi quindici anni dalla Convenzione di Firenze: risorsa di lungo periodo, bene comune, affettosfera, aggregato, luogo oggetto di percezione e partecipazione.
    Si parlerà di paesaggio di ieri, di paesaggio di domani; di un paesaggio che diventa bios e pre-testo di una comunità “narrante” ma anche di un paesaggio modellato dalle scelte, dall’agire “politico”.
    Alle voci degli esperti del territorio, professionisti e studiosi, si uniranno quelle provenienti da altri territori, sia italiani che europei.
    In un contesto in cui molto spesso le scelte territoriali sono effettuate senza considerare il paesaggio così come percepito dalle popolazioni locali, senza processi partecipativi, avviare una riflessione su questi temi dopo la svendita del territorio salentino, con TAP e il nuovo tracciato della SS.275, è davvero importante.

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E’ il momento di lasciarlo, questo Salento

salento

di Paolo Vincenti

 

Outremer era il nome che i primi Crociati diedero al regno di Gerusalemme, la Terra Santa: destinazione finale, agognata mèta per tanti e tanti giovani che, dalle nostre coste, si imbarcavano non già o non solo alla volta di un luogo fisico, ma più che altro alla ricerca del proprio destino, della propria fortuna. Con questo nome venivano indicate nel Medioevo quelle terre del vicino Oriente che rappresentavano, nella fantasia degli artisti e dei sognatori, nella brama di ricchezza dei mercanti e degli affaristi, un favoloso altrove, un “oltre”, di là dal mare, dove tutto era possibile, realizzabile, una nuova terra promessa vagheggiata da cavalieri, religiosi, derelitti, ciarlatani, filosofi e poeti.

Outremer è dunque il sogno, il desiderio di fuga, l’ansia, l’aspirazione. Oltremare, “overseas”,  è l’anelito di libertà che agita i cuori tormentati, che scioglie il torpore , che smuove quell’inerzia in cui a volte si è precipitati  dalla noia, dalla disperazione, da un incidente dei tanti che la vita può riservare.  Oltremare è un colore: un blu intenso che prende il nome proprio da quei territori del vicino Oriente da cui venivano importate le pietre preziose come il lapislazzulo, dal quale deriva questa gradazione di blu. Oltremare è l’anelito, il desiderio di partire per rotte che nessun comandante ha tracciato, per traguardi che nessun equipaggio sa indicare o soltanto immaginare.

Noi sappiamo solo,  come il protagonista de “La linea d’Ombra” di Conrad, che bisogna salpare, che, quando è il momento, zaino in spalla e coraggio nel cuore, non si può indugiare, ma bisogna partire, “perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno; “ dice George Gray, uno dei morti sulla collina di Spoon River, “l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti./E adesso so che bisogna alzare le vele /e prendere i venti del destino, /dovunque spingano la barca./ Dare un senso alla vita può condurre a follia / ma una vita senza senso è la tortura /dell’inquietudine e del vano desiderio/ è una barca che anela al mare eppure lo teme”.

Ché, da sempre, viaggiare  non è solo andar per mare, esplorare il mondo, ma è soprattutto esplorare il proprio animo, conoscere sé stessi. Come dice Kavafis in “Itaca”, “I Lestrigoni e i Ciclopi /o la furia di Nettuno non temere, non sarà questo il genere d’incontri /se il pensiero resta alto e il sentimento /fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.”: Itaca non è solo la mèta del viaggio ma è il viaggio stesso, è il pensiero che cammina e si perfeziona strada facendo.

Il viaggio è ragione di vita per Ulisse che attraverso le insidie tese da Nettuno cerca la sua isola pietrosa e materna e compie così un percorso di purificazione attraverso le mille prove che deve affrontare. Ma l’eroe omerico diviene per Dante uomo astuto e intraprendente, il simbolo stesso dell’uomo moderno, mosso da inestinguibile curiosità verso il mondo e le cose, riscatto dalla condizione di brutalità e spinta verso la virtù e la conoscenza. Dal prode Odisseo fino a noi, quella spinta è forte in colui che “al largo sospinge ancora il non domato spirito” come dice Saba nella poesia intitolata proprio “Ulisse”.

Varcare i limiti, insomma, superare quella fatidica soglia delle Colonne D’Ercole, per sapere cosa c’è al di là del mare, nell’oltremare. E non farsi vincere dalle tempeste, non farsi abbattere dalle avversità che certamente si incontreranno nel viaggio ma anzi, dopo un naufragio, trovare la forza di ripartire, proprio come nella poesia di Ungaretti: “E subito riprende / il viaggio / come / dopo il naufragio / un superstite / lupo di mare.”

Il mare è inconscio, arcano mistero, Il mare è sintesi perfetta fra quiete e movimento, stasi e azione, desiderio e paura, ragione e sentimento. Il mare è traversia, spirito di avventura, sfida con sé stessi prima ancora che con la sua eminenza blu.  Non sappiamo cosa ci aspetta domani, quali sorprese ci riserva il nostro cammino, ma la bellezza della vita è proprio questa, è questa la seduzione del nostro misterioso destino.

Partire, lasciare questo Salento è decisione sofferta, dolorosa, è un salto nel vuoto, spina nel fianco, dubbio tormentoso, notte dell’Innominato, travaglio di pene. Ma è scelta da farsi, urgente, improcrastinabile, inevitabile. Perché troppo si è scritto, troppo si è detto, e chi è abituato a cantare solo, alla lunga prova disagio, non ce la fa più, a cantare nel coro.

Oltre il mare, forse, c’è soltanto il mare, ma l’importante è viaggiare. E’ venuto il momento di lasciarlo, questo Salento. Buon viaggio a tutti!

 

Le acque cristalline dei ricordi

coperta compare per blog

“Le acque cristalline dei ricordi”. Un tuffo con Rocco Boccadamo

 

di Raffaella Verdesca-

Nell’opera letteraria di Rocco Boccadamo dal titolo “Compare, mi vendi una scarpa?” è entusiasmante per il lettore saltare a piedi nudi da una storia all’altra.

Si tratta di sentieri che partono dal presente e ripercorrono il passato senza incertezze, mappe tracciate con cura da una scrittura elegante, tanto semplice nei contenuti quanto ricercata nella tessitura della forma.

Inutile in questo cammino la discriminante delle calzature allo stesso modo di quella delle classi sociali e dei luoghi comuni, visto che lo scrittore offre a tutti i presenti un emozionante viaggio di ritorno alle origini attraverso la riscoperta di un Salento puro nei legami, mentre agli assenti regala un biglietto di andata, a bordo della memoria, verso il Salento di oggi. Splendida azione di marketing a beneficio della nostalgia di chi scrive, della conoscenza di chi legge e dell’onore di chi manca.

Sfilano nelle pagine suggestivi episodi di vita filtrati dalla testimonianza diretta di Boccadamo, ed è singolare vederli associati ai nomi appuntati e ai soprannomi per intero di personaggi antichi, spesso parenti e amici, che della dignità e dell’ingegno fecero baluardo utile a non identificare più la società contadina nello stallo di ogni individualità fattiva, ma a riscoprirla come individualità armonica e sociale.

‘Il ragazzo di ieri’, come ama definirsi il nostro autore, ritorna più volte col pensiero alla culla del suo divenire, il paesino natio di Marittima con le sue scogliere degradanti verso il mare, i Serriti, la vicina Castro con via Frasciule, Largo Campurra e l’amato rione dell’Ariacorte, luogo votato all’incontro e al confronto, per inclinazione naturale, di ogni generazione: “Si conosceva tutto di tutti”, scrive Rocco, e non certo per semplice gossip ma per interesse dettato dal sentimento.

Chiaro l’intento di Boccadamo: niente deve passare nel dimenticatoio, a cominciare dagli antichi mestieri e attività tradizionali per finire ai riti religiosi dei piccoli borghi del Salento del Sud.

Ed è favola, ed è vita.

Chi è costretto alla lontananza dalla propria terra per lavoro o per qualsivoglia motivo sa bene come l’affinamento dei ricordi sia uno dei pochi rimedi efficaci contro il dolore dell’assenza, la sola consolazione allo strappo dagli affetti più cari.

Tutto si ricompone e torna a vivere nella potente magia della memoria, tutto si trasfigura nella delicatezza della poesia che nasce da colori e profumi familiari.

Esistono terre che non sai e terre che ti porti dentro come cellule dell’anima.

Non occorre un testo di ‘Anatomia umana’ per andare a scovarle, né un brevetto da sub per scendere in profondità e recuperarne la memoria, basta solo lasciarsi guidare da chi è diventato uomo grazie all’esempio delle persone, ovvero attraverso il massimo livello della scala dei valori, a detta di Boccadamo stesso, il ‘ragazzo di ieri’ e il gentiluomo di oggi.

La nobiltà d’animo del nostro autore e quella sua ironia macchiata di malinconia rendono cristallini i ricordi allo stesso modo del suo mare, mare amato di Castro, mare dei Serriti, dei Porticelli, mare che perfino l’imponente carrubo nel giardino di casa riconosce amico e fratello.

Compare Rocco, ci concedi un tuffo?

Con la morte di Emilio Panarese il Salento perde un punto di riferimento

 

E’ morto Emilio Panarese, intellettuale schivo, coltissimo e versatile, autore di numerosissime opere importanti e preziose per la Storia salentina e non solo. L’eredità che tramanda non è limitata solo al grande patrimonio culturale che ha lasciato, ma riguarda l’insegnamento di una vita dedicata totalmente allo studio, guidato sempre da rigore  e scrupolosità grandi.

La Sezione di Storia Patria per la Puglia del Basso Salento con la sua scomparsa perde una delle voci più significative ed autorevoli dell’Associazione.

 

Dario Massimiliano Vincenti

Presidente Sezione del Basso Salento della Società di Storia Patria per la Puglia

 

Emilio Panarese

La ricerca ossessiva del nesso salentino negli affari dell’universo

salento

di Pier Paolo Tarsi

 

Dall’Alpi alle Piramidi,

Dal Manzanarre al Reno,

Di quel securo il fulmine

Tenea dietro al baleno;

Scoppiò da Scilla al Tanai,

Dall’uno all’altro mar.

Se un tempo questi famosi versi manzoniani identificavano per tutti lo spirito a cavallo dell’epoca che fu al secolo Napoleone alle prese con la conquista del mondo, oggi sarebbero di gran lunga più adatti a qualificare un qualunque anonimo salentino. Se storicamente i nostri conterranei, come tutte le genti meridionali, si sono sempre spostati dalla propria terra d’origine per ogni dove del pianeta alla ricerca di lavoro o possibilità negate in casa propria, oggi sono presenti ovunque e in qualunque circostanza per qualunque ragione. Non trovereste infatti praticamente nessun angolo del globo, nemmeno una qualche zona interna dell’Amazzonia non ancora antropizzata o deforestata, in cui possiate esimervi dall’incontrare qualcuno che, sollazzandosi, non vi passi accanto indossando l’immancabile e pacchiana maglietta con annessa scritta dialettale che funge ormai da carta d’identità salentina esibita con orgoglio. Insomma, all’onnipresenza di noialtri, crediamo che ogni abitante del pianeta terra sia ormai lautamente assuefatto.

Dalla pizzica propinata ai cinesi, al pasticciotto speciale per il presidente degli Stati Uniti d’America, fino ai cori da ultrà del Lecce impartiti ai bambini del Sudan in Africa (http://www.youtube.com/watch?v=4lBfpFv-k4s), crediamo non sia rimasto più nessuno da salentinizzare a questo mondo. Ma qui è il punto, a questo mondo abbiamo detto! Non siamo forse nel XXI secolo avanzato? Non siamo nell’epoca della conquista della via lattea e dei suoi corpi, siano questi comete o pianeti? E volete che questo non solletichi il nostro bisogno compulsivo e ossessivo di presenzialismo ubiquitario?

Allora, come soddisfare queste impellenti e irresistibili necessità di salentinizzare il cosmo quando la terra intera è ormai colma in ogni dove di ritornelli dei Sud Sound System, di tamburelli di Torre Paduli e di ogni altra nostra specialità? Come potremo salentinizzare Marte, Saturno o Plutone date le oggettive difficoltà per ogni forma di vita di organizzare laggiù una Notte della Taranta?

Non è il caso di scoraggiarsi, fratelli e sorelle, non c’è problema la cui soluzione non si possa trovare con un po’ di ingegno, di spirito di adattamento e di creatività, virtù che ad esempio i giornalisti nostrani hanno saputo ereditare dai propri avi e di cui sanno dare prova praticamente ogni giorno, scovando e disseppellendo dalle brume della dimenticanza il nesso salentino nei fatti tutti della storia e dell’universo oggi conosciuto. Allora, come Buzz Lightyear prima di spiccare il volo nel cartone di Toy Story, non ci resta che lanciarci con entusiasmo e determinazione “verso l’infinito…e oltre”: basta trovare l’appiglio, la leva con cui sollevare l’universo, il trampolino per la conquista salentina di ogni remoto anfratto del cosmo, lo spunto per appagare il nostro affamato protagonismo.

Ed allora procediamo: l’Agenzia Spaziale Europa nella recente missione Rosetta ci dona il primo accometaggio della storia? Ebbene, sapendo cercare nelle pieghe degli eventi come solo i nostri giornalisti sanno fare, qualcosa di salentino ci sarà da evidenziare in questa impresa storica. Infatti, ci fa notare il “Quotidiano” in prima pagina, una delle ricercatrici che avranno l’onore di analizzare le polveri che saranno riportate sul nostro pianeta è nata nel Salento. Embè, sono soddisfazioni no? Ecco, ad ogni modo, servito il nesso salentino, ecco soddisfatto il nostro bisogno di presenziare: noi ci siamo sempre tra i piedi degli eventi, ed è bene che lo si evidenzi!  O ancora: per la prima volta nella storia una donna italiana parte per lo spazio? Si, è vero, è una donna milanese ahinoi, eppure, eppure…a ben guardare, una volta, nel 2007 precisamente, costei è passata proprio dal Salento per svolgere un addestramento nell’aeroporto militare di Galatina!

A svelarci il prezioso nesso ci ha pensato stavolta Leccesette (http://www.leccesette.it/dettaglio.asp?id_dett=23405&id_rub=68), giornale online che ci ricorda come il vezzo del nesso nascosto non interessi solo la vecchia carta stampata ma anche la rete e i nuovi media! Eccoci, sollevati e appagati anche stavolta dunque. Insomma, se non fosse ancora chiaro a qualcuno il Salento c’è, ovunque, in ogni circostanza, in ogni piega del cosmo, in ogni evento della storia umana, in ogni fatto rilevante o meno, eccome se c’è!

A latere di questa spasmodica ricerca di un nesso che sveli in ogni modo concepibile la traccia salentina in qualunque circostanza – anche a costo di esporsi al ridicolo – una domanda tuttavia (e forse qualcuna in più) sorge spontanea, come un invito a pensare: che senso ha questa puntuale esibizione di una qualche prestazione salentina in tutte le vicende umane? Quale è la ragione di un così puntuale e pervasivo bisogno di riconoscimento di sé tipico di noti disturbi della personalità qui elevati alla dimensione corale e collettiva?

Il Salento c’è,  ebbene, forse troppo è il caso di dire? C’è anche quando è veramente fuori luogo il nesso con la sua esistenza, c’è anche quando è francamente ridicolo il modo di esserci: abbiamo davvero bisogno di simili continue prove ontologiche della nostra esistenza da offrire agli altri e noi stessi? Un tempo tali prove ontologiche le si riservavano al Padreterno, ed erano a dirla tutta assai più profonde di quelle che emergono dal dibattito tra eminenti scienziati come Zichichi o Veronesi di questi tempi.

Ma noi, noi salentini, da queste testimonianze di presenza a tutti i costi non potremmo serenamente esimerci? A meno che non è di una teologia salentina che sentiamo veramente il bisogno- che so, di una qualche prova che Dio avesse un cugino che usava villeggiare nel Salento, o della prova che Cristo non si sia fermato veramente a Eboli ma sia giunto fino a Leuca per assaggiare un pasticciotto – non possiamo semplicemente limitarci ad essere talvolta dei meri spettatori dei fatti del mondo, come capita a tutte le genti?

 

 

Fotografia/ Le puteche di Angelo Mangione

‘U barbieri (ph Angelo Mangione)(riproduzione vietata)

ANGELO MANGIONE

“PUTECHE”

di Valentina Morello

Angelo Mangione nasce a Galatina il 14-04-1975 e a due anni si trasferisce con la famiglia a San Cassiano,  piccolo centro del leccese.Da sempre appassionato di fotografia, già a sei anni effettua il suo primo “servizio matrimoniale” con una Kodak  Istamatic, mentre a undici frequenta un corso gratuito che gli farà conoscere la magia dello sviluppo e della stampa in bianconero  che consoliderà definitivamente la sua passione. Continua ininterrottamente a fotografare avvicinandosi a tutte le diverse tecniche e alle nuove tecnologie che col passare degli anni rivoluzioneranno la fotografia.
E proprio grazie a internet, in particolare a  Flickr.com (il portale  mondiale di Yahoo dedicato alla  fotografia) conoscerà un gruppo di amici con i quali fonda nel 2008 l’Associazione fotografica “OBIETTIVI”  intraprendendo così una nuova avventura fatta di passione, ricerca e voglia d’imparare e migliorarsi sempre di più, come singolo ed in gruppo.

Ama soprattutto i ritratti e la fotografia di strada. Attento osservatore del mondo che lo circonda cerca di rubare attimi di vita quotidiana, semplici momenti che raccontano una storia, che sappiano suscitare emozione ed

La “putèca” e l’Apoteca Natura, ovvero a volte le parole tornano; ma in che modo?

ph Angelo Mangione
ph Angelo Mangione

di Armando Polito

Da pochissimo va in onda uno spot contraddistinto dal logo APOTECA NATURA. Questa volta evito di riprodurne l’immagine per non fare pubblicità a titolo gratuito ma chiunque lo voglia potrà attingere ulteriori informazioni al link http://www.apotecanatura.it/. Qui basta dire che lo spot in questione promuove per il mese di novembre (proprio il mese di una certa commemorazione …, non poteva esserne scelto uno legato alla stagione degli amori o lo spazio era già occupato dalla concorrenza?) una Campagna Nazionale di Prevenzione Cardiovascolare. Vista l’abbondanza di maiuscole usate (mai vista, nemmeno nel periodo della dominazione spagnola …) bisogna prepararsi alla nascita di un nuovo acronimo, CNPC, appunto …

Le osservazioni fin qui fatte sono di natura esclusivamente formale, perché non ho nulla contro simili iniziative, tanto più quando viene messa in campo la parola prevenzione, anche se spesso con essa ci si sciacqua la bocca e nulla viene fatto, per esempio, perché chi ne ha il dovere (il potere politico, e chi sennò?) prenda gli opportuni provvedimenti per evitare il vergognoso fenomeno delle liste d’attesa … disattesa.

L’unica mia riserva sostanziale  è il pericolo che queste iniziative, di per sé meritorie, finiscano per assumere, magari a causa di fattori esterni non preventivabili, un mero valore pubblicitario e che, dunque, restino vittime, loro malgrado, della logica del profitto o, quanto meno, del ritorno d’immagine che, in un mondo basato sull’apparenza, significa quanto meno recupero dell’investimento eventualmente impegnato sulla scorta di dati statistici che prospettano un fattore-rischio nullo o quasi.

Continuando, perciò, l’esame formale debbo confessare che la prima cosa che mi è venuta in mente è che qualche persona anziana e ancora abbastanza sveglia (insomma, più o meno uno, scusate l’immodestia per sveglia, come chi scrive) che vive in Salento probabilmente avrà pensato, indotto dalla somiglianza fonetica, alla putèca e avrà stigmatizzato il presunto errore di scrittura confortato dal fatto che l’unico nipote con una conoscenza passabile della lingua italiana spesso gli ha fatto notare qualche errore di ortografia presente nei sottotitoli …

Ecco come stanno le cose. Il salentino putèca e la sua variante putèa, nonché i corrispondenti italiano bottega e francese boutique, derivano dal latino apothèca(m) che in Cicerone ed altri assume il significato di cella per conservare il vino in anfore esposte al fumo e in Vitruvio quello più generico di magazzino delle provviste.  La parola latina, a sua volta, è trascrizione del greco ἀποθήκη (leggi apothèke)=deposito (anche di libri e di cadaveri), composto da ἀπό=lontano da + θήκη (leggi theke)=cassa, scrigno, tomba, deposito di fiaccole, fodero di spada. Quest’ultima voce [derivata dalla radice θη– (leggi the-) di τίθημι (leggi tìthemi)=porre] dalla quale è l’italiano teca, entra come secondo componente di molte parole già presenti in greco, come βιβλιοθήκη [(leggi bibliothèke) composto da βίβλιον (leggi bìblion)=libro + θήκη],  da cui il latino bibliotheca(m) e da questo l’italiano biblioteca] e ὑποθήκη [(leggi iupothèke) composto da ὑπό (leggi iupò)=sotto + θήκη]=consiglio, avvertimento, pegno, da cui il latino hypotheca(m) e da questo l’italiano ipoteca.  Ma θήκη entra anche in molte parole di formazione moderna (con il primo componente sempre derivato dal greco) come emeroteca [da ἡμέρα (leggi emèra)=giorno+ θήκη], enoteca [da οἶνος /leggi òinos)=vino + θήκη], emoteca [da αἷμα (leggi àima)=sangue + θήκη], etc. etc.

Nel diagramma che segue i passaggi che hanno scandito la nascita di putèca.

 

* L’attestazione letteraria più antica della voce italiana che son riuscito a trovare è in Antonio Fileremo Fregoso (XVI secolo), Silve, LXXIV:  Eran suoi servi i tre sodali e mai/la presenza com’or non avean vista,/qual de la fama le cresceva assai:/però con reverenza a timor mista,/sapendo lor con quanti stenti e guai/la grazia e il favor da lei s’acquista,/in la magna  apoteca  tutti introrno,/ivi posando insino al novo giorno.

Nella variante putèa si è aggiunta la lenizione (con successiva scomparsa) di –c-.

E così, mentre putèca ormai fa parte dell’archeologia linguistica (essendo scomparso il negozietto dietro l’angolo, che avvinceva a sé il cliente in un rapporto quasi affettivo, con l’avvento degli asettici, purtroppo anche in senso metaforico …, supermercati e centri commerciali), apoteca, che nel frattempo si era ridotta a voce tecnico-specialistica dell’archeologia, torna in vita con la buona intenzione, forse, di instaurare tra il farmacista ed il paziente (o chi per lui)-cliente quello stesso rapporto umano che un tempo c’era tra lu puticàru e nostra nonna. Con in più, nel nostro caso, una parola, Natura, con la quale spesso, al pari di prevenzione, ci si sciacqua la bocca solo per poter declinare meglio, e con conseguenze questa volta concrete, ben altri vocaboli e locuzioni come inquinamento, cattedrali nel deserto, impianti di vario tipo (magari obsoleti prima ancora di nascere), saggi petroliferi in territori di spiccate qualità paesaggistiche, etc. etc. …

Chi la riconosce? l’appello di una nostra lettrice

FOTO MARRA

Non lo abbiamo mai fatto, ma la disperazione e la sofferta richiesta di una nostra fedele lettrice ci ha spinti a pubblicare questa foto, sperando che qualcuno dei nostri possa riconoscerla.

Non è semplice curiosità, ma desiderio di risalire ad origini poco chiare da parte dell’interessata e della sua famiglia. La foto è stata rinvenuta tra la biancheria conservata in un baule, trasmessa da una generazione all’altra senza alcuna informazione che consentisse di individuare la bella fanciulla salentina.

Qualunque indizio può essere segnalato con un commento all’articolo, così che possiamo fornire privatamente i contatti con la lettrice.

Grazie per la collaborazione

Il delfino e la mezzaluna. Ecco il terzo numero

Il delfino e la mezzaluna

Sarà presentato domenica 7 dicembre, alle ore 10.30, presso la chiesa di San Domenico a Nardò, il terzo numero della rivista della Fondazione Terra d’Otranto “Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto“.

Saranno gli stessi Autori a presentare il proprio saggio, coordinati dal direttore della rivista Pier Paolo Tarsi.

Particolarmente ricco questo numero, che si sviluppa in 256 pagine,  tutte dedicate alla Terra d’Otranto, dalla preistoria ai nostri giorni. In formato A/4, con copertina cartonata, offre al lettore anche alcune selezioni fotografiche di alcuni validi collaboratori: Fabrizio Arati, Maurizio Biasco, Stefano Cretì, Ivan Lazzari e Mauro Minutello.

Come per i precedenti numeri, la rivista non è in commercio, essendo riservata ai soci e simpatizzanti della Fondazione, che potranno ritirarla in questa occasione. Chi non potrà intervenire può richiederla a info@fondazioneterradotranto.it, versando un contributo volontario tramite conto corrente postale o tramite bonifico. Per i soli soci è previsto anche il dono di una delle pubblicazioni finora edite dalla Fondazione.

Iscritta con numero 17 al Registro della Stampa del Tribunale di Lecce, la rivista è inserita nel catalogo delle pubblicazioni periodiche con codice ISSN 2200-1847. E’ premura della Fondazione, come già successo per i precedenti numeri, di depositarne copia, oltre quelle legali previste per legge, presso le principali biblioteche italiane.

Questi i saggi pubblicati, oltre l’Editoriale del Direttore:

Mariangela Sammarco, Sul santuario rupestre di Santa Maria della Rutta ad Acquarica del Capo (Lecce) : epigrafi, segni e simboli devozionali

Domenico Salamino, Il capitello dell’aquila leporaria nella cattedrale di Taranto: l’itinerario contemplativo dell’anima

Francesco G. Giannachi, Classificazione delle forme verbali perifrastiche del perfetto e del piuccheperfetto usate dagli ellenofoni di Terra d’Otranto

Giovanna Falco, Mario de Raho, cavaliere leccese della Militia Christiana dell’Immacolata Concettione

Domenico L. Giacovelli, Vulnerasti cor meum in uno oculorum tuorum. Riflessioni su un devoto dipinto francescano

Stefano Tanisi, Nuove acquisizioni pittoriche per fra’ Angelo da Copertino (1609-1685 ca.). La Comunione di san Girolamo nella cattedrale di Nardò

Elio Ria, L’arciprete di Lucugnano

Marino Caringella, Un Sellitto misconosciuto tra i “Capolavori dei Girolamini a Lecce”

Ugo Di Furia, Opere inedite in terra salentina di Antonia e Teresa Palomba, sorelle pittrici

Gian Paolo Papi, Dal Salento alla Valnerina: una vicenda, un pittore, due tele

Rosario Quaranta, Francesco De Geronimo e la rapida diffusione della fama di santità e delle gesta meravigliose nei paesi del Nord Europa

Luciano Antonazzo, La cappella ed il dipinto dell’Immacolata coi santi apostoli Pietro e Paolo dell’antica parrocchiale della Trasfigurazione di Taurisano

Maurizio Nocera, Dal mito di Aracne al rito del tarantismo

Marcello Gaballo – Armando Polito, L’obelisco di Porta Napoli a Lecce

Rocco Boccadamo, A Giorgio Cretì: ciao, fratello cantastorie!

Cosimo Barbaro, La fondazione dello spazio funebre nell’Ottocento in Terra d’Otranto

Francesco Tarantino, Maglie “città di giardini”

Gianni Ferraris, A colloquio con Mario Perrotta, per parlare di teatro e di Salento

Restauri. Lavori di restauro di due dipinti su tela della chiesa matrice di Muro Leccese (Alessandra Coppola – Francesca Romana Melodia)

Epigraphica in Terra d’Otranto. L’antico orgoglio di Minervino di Lecce (Armando Polito)

Araldica in Terra d’Otranto. Uno stemma carmelitano a Lecce (Lucia Lopriore)

Segnalazioni. Eugenio Maccagnani e due statue di san Pietro e san Paolo (Valentina Pagano)

Miscellanea. Sei francobolli per ricordare il sesto centenario della Cattedrale di Nardò e della Civitas Neritonensis (Marcello Gaballo)

Edizioni della Fondazione Terra d’Otranto

 

Elio RiaE’ sempre meriggio nel Sud

 

Ricette all’Italiana. A Nardò, con tre piatti tipici

Davide Mengacci e Anna Falangone con un gruppo di cittadini durante la trasmessione odierna di Ricette all'Italiana (ph Paolo D'Addario)
Davide Mengacci e Anna Falangone con un gruppo di cittadini durante la trasmessione odierna di Ricette all’Italiana (ph Paolo D’Addario)

 

La troupe di Retequattro nella giornata di oggi ha effettuato le riprese per tre puntate che andranno in onda tra meno di una settimana. “Ricette all’italiana” è il noto programma di cucina che conterrà le riprese odierne effettuate a Nardò, illustrando alcune buone ricette della nostra cucina e le curiosità più suggestive della nostra città.

Il programma itinerante, che quotidianamente racconta segreti e tradizioni del territorio, è condotto da Davide Mengacci, che ha scelto di fare sosta nel Salento, alla scoperta delle unicità gastronomiche e culturali del Belpaese.

Nel contesto urbanistico della bella piazza Salandra di Nardò il noto giornalista ha illustrato tre ricette tipiche delle mense neritine: la pitta di patate, la carne a pignatu e le orecchiette con i pomodorini freschi e cacio ricotta, preparati in diretta e con gli esaustivi commenti di Anna Falangone. Per niente emozionata e molto fotogenica, la cuoca ha spiegato le diverse fasi di preparazione dei piatti, che la troupe avrà certamente consumato a fine riprese.

Ma non ci si è limitati all’aspetto culinario, perché hanno impreziosito l’evento, oltre l’abile conduzione dell’inossidabile Mengacci, i commenti storico-artistici di Paola e l’intervista al sindaco Marcello Risi, che ha creduto nell’iniziativa e l’ha fortemente voluta.

Davide Mengacci e Anna Falangone  durante la trasmissione odierna di Ricette all'Italiana (ph Paolo D'Addario)
Davide Mengacci e Anna Falangone durante la trasmissione odierna di Ricette all’Italiana (ph Paolo D’Addario)

Purtroppo si deve registrare una nota spiacevole, ovvero la mancanza di informazione dell’evento alla cittadinanza, alle testate giornalistiche, ai mass media, che sono rimasti all’oscuro dell’iniziativa, senza poterla divulgare attraverso i loro organi. Da ciò la scarsa presenza del pubblico nella piazza, che invece avrebbe dovuto fare da corona all’insolito evento, che poteva fornire un importante ritorno di immagine alla città che si sforza di lanciare la sua immagine turistica, avendone tutte le potenzialità.

Non dico che sarebbe stato utile far convergere nella piazza le scolaresche, o far esibire la banda locale, ma almeno far presenziare le associazioni cittadine, la pro loco, i tanti rappresentanti politici che seggono a Palazzo Personè.

A parte il Sindaco, l’assessore al Turismo Leuzzi e il consigliere provinciale Siciliano, non si è visto nessun altro, se non uno sparuto gruppo di cittadini che casualmente si son trovati a passare e hanno avuto piacere a fermarsi ed applaudire, come si fa in trasmissioni del genere.

ph Paolo D'Addario
ph Paolo D’Addario

Ancora un’occasione sprecata. E questa volta non per insensibilità dei cittadini, ai quali certamente avrebbe fatto piacere conoscere l’inusuale vetrina e assistervi di persona, ma per disinteresse o apatia o distrazione di chi doveva pubblicizzare l’evento, che da settimane era stato programmato, come si desume dalla delibera di giunta e dall’ordinanza.

 

Il sindaco di Nardò Marcello Risi durante la trasmessione odierna di Ricette all'Italiana (ph Paolo D'Addario)
Il sindaco di Nardò Marcello Risi durante la trasmessione odierna di Ricette all’Italiana (ph Paolo D’Addario)

 

Quando “Paisiello” diventava simpaticamente “Paesiello”, ma eravamo ancora un paese serio … (5/6)

di Armando Polito

Questa, poi, è una vera e propria chicca, che mostra come l’eravamo che nel titolo accompagna un paese serio andrebbe corredato di un bel forse … Appare indicativo il fatto che nel testo italiano di La modesta raggiratrice/La marchande de modes (https://archive.org/stream/lamarchandedemod00pais#page/n3/mode/2up) si legge PAESIELLO e nella traduzione in francese a fronte, correttamente, PAISIELLO.

 

Nel 2016 ricorrerà il duecentesimo anno dalla morte dell’illustre figlio di Taranto che nella stampa che segue (tratta da http://wellcomeimages.org/indexplus/image/L0047937.html), una litografia di Vincenzo Mollame1 datata 1842, ha l’onore di fare corona con altri a Michelangelo.

Celebrarne la memoria non sarebbe fuori luogo (lo faccio ora qui perché poi, quando ci sarà la scadenza, chi, per la sua carica pubblica, si occupa di queste cose ufficialmente non abbia a dire che non se ne sapeva nulla …) in modo semplice e partecipe (quello che solo la conoscenza può dare), senza enfasi retorica, quella che  è dato di cogliere, secondo me, nello stile tipico dell’epoca (solo quella? …), per esempio, nell’epicedio da Gabriele Rossetti recitato innanzi alla sua tomba in una solenne adunanza e che di seguito riporto in formato immagine da Versi di Gabriele Rossetti, Bonamici & C., Losanna, 1847, p. 186-191 (http://books.google.it/books?id=XsA-AAAAcAAJ&pg=PA283&dq=%22giovanni+paesiello%22&hl=it&sa=X&ei=q61PVOCTKeTnyQOHkoLQAw&ved=0CEsQ6AEwCDgK#v=).

Che, comunque, il numero di onori funebri resi ad un personaggio sia nell’immediato direttamente proporzionale alla sua importanza, lo mostra Giovanni Battista Gagliardo, Onori funebri renduti alla memoria di Giovanni Paisiello, Angelo Trani, Napoli, 1816 (http://books.google.it/books?id=GOM-AAAAYAAJ&pg=PA87&dq=arbace+pirro+paisiello&hl=it&sa=X&ei=x-lhVPWmJ5HKaI3GgbAC&ved=0CCAQ6AEwAA#v=onepage&q=arbace%20pirro%20paisiello&f=false). Il volume appena indicato contiene in coda alcune lettere che mostrano la familiarità del Paisiello con personaggi importanti come Ferdinando Galiani, Pietro Metastasio e, addirittura, Augusto Talleyrand2 e l’imperatrice d’Austria Teresa di Borbone. L’antiporta, poi, reca il ritratto, di seguito riprodotto, sul quale il Gagliardo nella prefazione così si esprime: … pensai di far subito ricavar la maschera, giacché la modestia del nostro Giovanni impedito mi avea non una volta ma mille di averne il ritratto. Con questa ha potuto il signor Giuseppe Camerano disegnarne uno che in tutto il somiglia. Ecco la stampa incisa dal Signor Guglielmo Morghen.

 

La stessa stampa apparve successivamente in antiporta in Giambattista Lorenzi, Il duello, commedia in un atto con musica rappresentata nel Teatro Nuovo sopra Toledo nella primavera dell’anno 1774, con musica del Signor D. Giovanni Paisiello, Stamperia Flautina, Napoli, 1820 (https://archive.org/stream/ilduellocommedia00pais#page/n3/mode/2up).

_____________

1 Autore di alcune tavole in F. Niccolini , A. Niccolini, Le case ed i monumenti di Pompei disegnati e descritti, Napoli, 1854 – 1896. Dal 1860 disegnatore litografo dell’Officio Topografico del Regno di Napoli.

2 Nella Biblioteca nazionale di Francia (http://gallica.bnf.fr/) sono custoditi molti altri libretti del nostro, oltre il ricordato Sodo sodo or vi favello, facenti parte della collezione posseduta dal De Talleyrand.

 

per la prima partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/14/quando-paisiello-diventava-simpaticamente-paesiello-e-non-solo-ma-eravamo-ancora-un-paese-serio-16/

per la seconda parte https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/17/quando-paisiello-diventava-simpaticamente-paesiello-ma-eravamo-ancora-un-paese-serio-26/

per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/18/quando-paisiello-diventava-simpaticamente-paesiello-ma-eravamo-ancora-un-paese-serio-36/

per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/19/quando-paisiello-diventava-simpaticamente-paesiello-ma-eravamo-ancora-un-paese-serio-46/

per la sesta partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/23/quando-paisiello-diventava-simpaticamente-paesiello-ma-eravamo-ancora-un-paese-serio-66/

 

Salento, americani vogliono trivellare per trovare petrolio. Con Sblocca Italia si può

trivellazioni-e-petrolio-in-italia-unintervis-L-nBsWu3

di Tiziana Colluto

 

Agli americani fa gola il petrolio di Santa Maria di Leuca. Anche il mare del Salento, la bomboniera delle vacanze italiane degli ultimi anni, finisce nelle richieste di ricerca di idrocarburi. Sono tra le ultime in ordine di tempo ad essere state presentate, lo scorso 22 ottobre. Il ministero dello Sviluppo Economico ha avviato l’istruttoria già due settimane fa. Una doccia gelida per i diciannove Comuni rivieraschi interessati, da Otranto a Gallipoli…

 

Leggi l’articolo:

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/11/15/salento-gli-americani-vogliono-trivellare-per-trovare-petrolio-sblocca-italia-permette/1211924/

Vacanze e spazzatura

Copia di torre

di Ferdinando Boero

 

Dopo un decennio a S. Isidoro, quest’anno la figlia diciottenne ci ha costretto a villeggiare a Torre dell’Orso, meta di vacanza di miriadi di adolescenti che, giustamente, se la spassano dopo le fatiche scolastiche. Devo dire che la spiaggia con un milione di persone, grossi altoparlanti che scaricano musica rimbombante, torme di corpi seminudi che si dimenano in acqua al comando di un kapò del divertimento, giocatori di tamburello sulla battigia, emuli di Maradona che tirano in porta nel bel mezzo della gente, madri urlanti e padri rassegnati… non sono proprio il mio massimo. Però, finita la spiaggia, inizia la scogliera. E la musica cambia. Anzi, per fortuna, la musica non c’è più. Si sente il mare e si sente il vento, e ci sono sentieri meravigliosi che seguono la falesia rocciosa, ogni tanto c’è un passaggio che porta giù al mare. Si può arrivare fino a Torre S. Andrea (dove c’è un signore che scolpisce il legno portato dal mare e fabbrica deliziosi cestini con i legni locali) e, da lì, si può proseguire fino agli Alimini. Un paradiso. Si può fare a piedi, ma si può fare anche in mountain bike. Ogni tanto si scende al mare, si fa un bagno, e poi si procede. Si può camminare per ore ammirando posti bellissimi.

Con faraglioni, grotte, archi, scogliere a picco e scogliere piane, con piccole piscine scavate dal mare in cui l’acqua è caldissima.  Ho già detto che per me, innamorato di questa terra, è un piacere immaginare come può vederla qualcuno che viene per la prima volta a visitarci. In modo da rivivere lo stupore di fronte a una bellezza alla quale siamo abituati, a cui non facciamo più caso. E quindi guardo queste meraviglie come se fosse la prima volta che le vedo. Non è tutto perfetto, però. Ogni volta che qualche strada porta le automobili verso la costa, invariabilmente ci sono cumuli di rifiuti, plastica, avanzi di pic nic, le immancabili bottiglie di birra, marroni. Alcuni rifiuti sono recenti, altri sono oramai di stagione. Non ce l’ho con le amministrazioni comunali. Non devono pulire quei luoghi, e non devono mettere cestini per la spazzatura. Chi va lì a mangiare deve riportare indietro la sua spazzatura, e la deve gettare nei bidoni una volta tornato a casa. I più sensibili appendono le buste di plastica piene di immondizia ai poveri pini, contribuendo a formare paesaggi inquietanti.

 

L’altra sera, però, ero a prendere il gelato in una famosa gelateria di Torre dell’Orso e un bimbo, evidentemente locale, aveva una manciata di fazzolettini di carta per non sporcarsi mentre maneggiava un enorme cono. Gli sono sfuggiti di mano e hanno cominciato a volare sulla piazzetta. E lui si è messo a rincorrerli e li ha recuperati uno per uno, e poi li ha gettati nel cestino delle cartacce. Chi gli avrà insegnato a comportarsi così? Forse la scuola, ma non credo. Cavalline storne e equivalenze sono irrinunciabili, mentre essere buoni cittadini è opzionale, nei nostri percorsi educativi. Probabilmente sono stati i genitori che, in effetti, lo guardavano compiaciuti.

Quel ragazzino mi ha rimesso in pace con chi vive in un posto bellissimo e lo tratta come un immondezzaio. Una cosa devo dire, ancora. La scogliera è molto friabile, il mare la scava e costruisce grandi grotte, e poi la volta della grotta crolla, come è avvenuto per la grotta della Poesia. E’ una cosa normale, naturale. E noi dove abbiamo costruito le case? Su una falesia che non dà nessuna garanzia di stabilità. E ora si stanno costruendo opere a mare per difenderla. Dureranno due o tre anni, faranno arricchire l’ingegnere che le ha realizzate e presto il problema si ripresenterà (con grande gioia dell’ingegnere). Stessa sorte alle case costruite sulle dune, in altri tratti di costa. Tutti i paesi lungo la costa sono “marine” di qualche paese nell’interno e sono stati costruiti in anni recenti (non ci sono centri storici, a parte Otranto e Gallipoli), in posti dove non si dovrebbe costruire, da cui i nostri antenati si guardavano bene dal costruire. Questo mi fa venire il mente il Giappone, dove i “vecchi” hanno eretto cippi in pietra dove hanno scritto: Le abitazioni in alto sono pace ed armonia per i nostri discendenti. Ricordate la calamità dei grandi tsunami. Non costruite nessuna casa al di sotto di questo punto. E invece di ascoltarli hanno costruito sulla costa le case e le centrali nucleari, confidando che la tecnologia avrebbe vinto la natura. Come è andata lo sappiamo, quel posto si chiama Fukushima. I nostri vecchi, costruendo solo nell’interno, ci hanno detto implicitamente che la costa va lasciata libera. Incuranti, abbiamo costruito dove non dovevamo, e poi diamo la colpa alla natura se qualcosa va storto. La colpa è solo nostra: spazzatura appesa agli alberi, case sulla sabbia o sul precipizio. Per fortuna che c’è quel bambino, quello che raccoglie i fazzolettini portati dal vento. Speriamo solo che ce ne siano tanti come lui e che prima o poi rimedino ai nostri errori. Per il momento sono destinati a subirli.

[Pubblicato nel “Nuovo Quotidiano di Puglia” del 28 luglio 2011]

per gentile concessione dell’Autore

Un caffè dal Salento colombiano

salento caffè

di Gianni Ferraris

Laggiù, nel “cortile di casa” degli USA, quel centro sud America diventato nei secoli meta, dominio, colonia, speranza, patria di immensi scrittori come Garcia Marquez, Sepulveda, Ignacio Paco Taibo 2, Isabel Allende e molti altri, là dove si coltiva caffè puoi sentirti improvvisamente a casa. Profuma di caffè il centro sud America, e di rivoluzionari epici, da Simon Bolivar a Inti Peredo, da Villa a Che Guevara. Un continente pieno di evocative presenze.

Eppure è sufficiente leggere quell’etichetta di un caffè che proviene dalla Colombia, immediatamente vedi aprirsi un mondo,  si chiama “Don Eliàs” e proviene dalla finca La Brisas,  in Colombia, più precisamente da Vereda Palestina Salento. Salento fa parte del dipartimento di Quindio, è nota dalle sue parti perché ospita una palma detta “della cera” che può raggiungere i 60 metri di altezza.

E’ nato su una strada che era il “camino del Quindio” che arrivava fino a Bogotà. Nel 1830 Simon Bolivar, il rivoluzionario, percorse quella strada e ne ordinò la ristrutturazione. E qui la storia si intreccia con quella italiana, per i ritardi, venne rifatta solo nel 1842. Per farla vennero utilizzati prigionieri politici di Panamà, Atioquia, Cauca. Diventato colonia penale, venne poi abitato da ex detenuti, si chiamava Boquia allora. Il censimento del 1865 dice di 581 abitanti. Diventato Comune autonomo nello stesso anno, prese il nome di Villa Nueva Salento.

Oggi ha una florida economia basata sul caffè. Anche questo è Salento, in fondo. E spunta pure la Palestina lì accanto, neppure uno straccio di Israele però.

 

Si sa che in quel della Campania, più precisamente in provincia di Salerno, il Comune un tempo si chiamasse Sala di Gioi, una località dipendente dal vicino Gioi. Solo nel 1811 diventò Comune autonomo, e solo dopo l’unità d’Italia ai cittadini evocava sudditanza, così pensarono a lungo ad un nuovo nome per scordare Gioi.

Sala poteva rimanere, in fondo, Gioi doveva sparire. Il Cilento è terra bella, da ricordare ed era lì, così fra Sala e Cilento si poteva fare fusione, il Comune si chiamò Salento.  Nell’antichità da lì passarono i monaci basiliani, anche questo è Salento, in fondo.

Quando “Paisiello” diventava simpaticamente “Paesiello”, ma eravamo ancora un paese serio … (4/6)

di Armando Polito

Che il lapsus sia abbastanza frequente nei testi manoscritti, lo conferma, a parte quel che fino ad ora ho riportato, Enrico Boggio, Il fondo musiche dell’Archivio Borromeo dell’Isola Bella, Libreria musicale italiana, Lucca, 2004 (http://books.google.it/books?id=1nrzYtvXnx0C&pg=PA47&dq=%22giovanni+Paesiello%22&hl=it&sa=X&ei=OpdPVNnMHaWCzAPgnIKYAg&ved=0CDAQ6AEwAg#v=onepage&q=%22giovanni%20Paesiello%22&f=false), in cui alle pp. 46-47 chi sia interessato troverà la trascrizione di alcune schede manoscritte relative al nostro, in cui compare  Paesiello, una volta Baisiello e un’altra, addirittura, Baibiello.

La carta stampata non riguardante direttamente le sue opere non è da meno e tra i tanti farò due soli esempi: Paesiello si legge costantemente in Memorie dei compositori di musica del Regno di Napoli raccolte dal marchese di Villarosa, Stamperia Reale, Napoli, 1840 (http://books.google.it/books?id=oecWAAAAYAAJ&pg=PA193&dq=%22giovanni+Paesiello%22&hl=it&sa=X&ei=OpdPVNnMHaWCzAPgnIKYAg&ved=0CDoQ6AEwBA#v=onepage&q=Paesiello&f=false), pp. 38, 40, 52, 81, 82, 94, 121, 122, 124, 125,  126, 128, 129, 130, 132, 134, 148 e 193.

In A. Nibby, Itinerario di Roma e delle sue vicinanze, Tipografia Aurelj, Roma, 1830, tomo I, p. 91 si legge: L’ultima [ottava] camera [della protomoteca del Campidoglio] contiene i ritratti de’ più illustri maestri di Musica, il busto di Cimarosa opera di Canova a spese del card. Consalvi; quello di Antonio Maria Sacchini scolpito a spese di Antonio Berto Desfebues Dannery; quello di Arcangelo Corelli da Fusignano posto a spese del card. Ottoboni e quello di Giovanni Paesiello Tarentino fatto a spese di sua sorella Maria Paesiello è scultura di Pietro Pierantoni.

Purtroppo in rete non son riuscito a reperire alcuna foto del busto e, quindi, non so se Paesiello compare anche sul manufatto, come appare, invece, nella foto che segue custodita nella Biblioteca Nazionale di Francia, facente parte di un fondo relativo al cantiere di costruzione dell’Opera Garnier a Parigi; il busto, di cui non resta traccia, molto probabilmente, faceva parte dell’apparato decorativo.

A parziale compensazione del lapsus presente in manoscritti ne presento ora uno particolarmente interessante. Si tratta di una lettera autografa che per ora mi limito a riprodurre da http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b53032523w.r=paisiello.langEN corredandola di trascrizione a fronte e di traduzione in calce.

Signorina, vi ringrazio della buona notizia che mi date. Ho visto la signora Viardot che, con la consueta grazia, accetta pure di cantare al nostro concerto. Ora, ammirate la mia indiscrezione, io vi prego di voler diligentemente scrivere con accompagnamento di piano il recitativo (io lo strumenterò successivamente) il recitativo del pezzo di Paisiello. Ho appena preso la partizione al conservatorio e il recitativo manca per intero. Vi prego anche di indicare a matita le divisioni che fate nella romanza perché il nostro copista scriva solo ciò che voi canterete. Allego alla mia lettera la partitura di Paisiello. Siate tanto gentile da rinviarmi il tutto il più presto possibile. Vostro devotissimo e riconoscente H. Berlioz Via di Boursault, 19 Lunedì sera.

A parte il corretto Paisiello che ricorre due volte, ne approfitto per dire che il mittente è Hector Berlioz (1803-1869), famoso compositore, critico e teorico musicale, e che la destinataria probabilmente è Sofia-Vera Larini (1815-1882) che fu prima apprezzata cantante, poi direttrice di teatri ed impresaria. Nella lettera ricorre anche il nome della signora Viardot. Si tratta di Michelle Ferdinande Pauline García (1821-1910), mezzosoprano, pianista e compositrice francese, di origini spagnole, moglie del critico e direttore del Théâtre des Italiens, Louis Viardot.

 

per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/14/quando-paisiello-diventava-simpaticamente-paesiello-e-non-solo-ma-eravamo-ancora-un-paese-serio-16/

per la seconda parte https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/17/quando-paisiello-diventava-simpaticamente-paesiello-ma-eravamo-ancora-un-paese-serio-26/

per la terza partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/18/quando-paisiello-diventava-simpaticamente-paesiello-ma-eravamo-ancora-un-paese-serio-36/

per la quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/21/quando-paisiello-diventava-simpaticamente-paesiello-ma-eravamo-ancora-un-paese-serio-56/ 

per la sesta partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/23/quando-paisiello-diventava-simpaticamente-paesiello-ma-eravamo-ancora-un-paese-serio-66/

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