1587. Ricostruzione di un tratto delle mura di Nardò

di Marcello Gaballo

Il 16 marzo 1587 i sindaci Domizio Boncore ed Antonio Manieri, rispettivamente dei Nobili e del Popolo, concordano con i mastri Tommaso Rizzo, Carlo e Marco Antonio Bruno la ricostruzione da parte di essi della cortina muraria della città dovè la torre del cantone de li paraporti di Santa Lucia verso l’ ecclesia della Carità, in pratica le mura un tempo poste sull’ attuale Via Grassi, a ragione di grane tridici la canna e di grane vintinove li quatrelli dolati, inclusi li pezzi de li cordoni. I mastri devono pure sterrare, scarrare et annettare le pedamenta, quale fabrica ha da essere opra netta fora la facciata di palmi sei a bascio et che venga a finire di palmi quattro sopra e per quanto remanerà con li cordoni, conforme all’ altre principiate nove, quale fabbrica ha d’ essere perfetta.

L’ università dovrà fornire ai mastri solamente la calce, i “quatrielli” e le pietre, mentre essi si preoccuperanno di ponerci tutti afici necessari, maestranza, manipoli e tutte altre cose necessarie.

Otto giorni dopo, con atto dello stesso notaio Cornelio Tollemeto, l’ università stipula un’ altra convenzione col mastro Cornelio Carrieri di Montescaglioso per la ricostruzione del tratto di muraglia sull’ attuale Corso Galliano, vicino alla strada che porta al convento di S. Chiara, visto che era “cascata”.

Un ulteriore tratto di mura verrà commissionato il 13 aprile dello stesso anno ai mastri suddetti, Rizzo e Carrieri, nella zona del fossato del castello.

Santa Croce in Lecce, emblema del barocco

di Teodoro De Cesare

Santa Croce è il monumento simbolo del barocco leccese, è l’edificio che incarna lo spirito artistico dell’architettura nel Salento. La chiesa è famosa per la decorazione ricca e sfarzosa della sua facciata, in particolar modo nella parte superiore.

Non è una chiesa barocca edificata ex novo, essa è stata infatti edificata in epoche precedenti. Si pensa che la sua origine possa risalire addirittura al XIV secolo: i gigli intorno al rosone centrale dovrebbero rappresentare i gigli donati dalla corona di Francia alla popolazione e alla prosperità dei celestini. Quei gigli, dunque, sarebbero un richiamo alla prima fondazione, all’epoca in cui Gualtieri VI di Brienne era conte di Lecce, il quale richiese al vescovo, per conto dei padri celestini, di lasciar ad essi una chiesa di proprietà del vescovo stesso. Il conte volle che la chiesa fosse intitolata a “Santa Maria Annuntiata” e a “San Leonardo confessore”, ma poiché la chiesa era già conosciuta con il nome di Santa Croce, a livello popolare rimase questa titolazione . Gualtieri morì nel 1356 e i lavori furono interrotti; i documenti scarseggiano su una possibile prosecuzione del’opera.

È certo che la chiesa fu nuovamente sottoposta a lavori di costruzione a partire dal 1549 su sollecitazione dei padri celestini. Qui comincia la storia della chiesa che arriverà agli anni della conclusione barocca nella facciata. La ricostruzione della chiesa di santa Croce, dunque, ebbe luogo a partire dal 1549 grazie all’architetto Gabriele Riccardi che ne predispose il progetto. Egli creò la struttura della basilica e compì anche la parte inferiore della facciata, di equilibrio classico e con richiami all’architettura romanica nella cornice ad archetti ciechi. La parete è divisa da sei colonne con capitelli zoomorfi ed è sormontata da un fregio di ispirazione classica. Nel 1606, per opera di Francesco Antonio Zimbalo, si aggiunsero una sorta di protiro a colonne binate su plinti e i due portali laterali. La parte superiore fu eseguita da Cesare Penna e Giuseppe Zimbalo intorno al 1646. Essa si poggia su una balconata sostenuta da cariatidi zoomorfe o simboliche, la balaustra è composta da 13 putti recanti emblemi. Il grande rosone centrale risente della tradizione romanica ed è circondato da una ricchissima cornice; quattro colonne hanno una decorazione fantasiosa; a queste si affianca il fregio, le cui lettere infrascate caratterizzano il nome dell’abate committente, don Matteo Napolitano ; due colonne sorreggono le statue di san Pietro Celestino e san Benedetto. Tutto è unito da una resa plastica di sfrenata fantasia e libertà inventiva, senza per questo risultare troppo ridondante ed eccessivamente abbondante, infatti la struttura risulta, nella sua ricchezza, semplice e chiara. Questa leggerezza nella ricchezza è dovuta sicuramente alla pietra leccese, facile da lavorare, di un colore chiaro che rende vivace la composizione. Queste brevi notizie ci fanno comprendere che solo la vicenda costruttiva della facciata occupa uno spazio temporale di circa cento anni.

 

(continua…)

L’articolo è stato pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°6. Verrà riproposto su Spigolature Salentina in più fasi.

La chiesa di S. Antonio da Padova in Nardò

di Donato Giancarlo De Pascalis

 

Le origini sulla fondazione della chiesa e del convento di S. Antonio da Padova sono strettamente connesse con le vicende della comunità ebraica della città, insediatasi in Nardò fin dall’XI secolo d.C.

Gli Ebrei esercitavano in Nardò l’attività conciaria della lavorazione delle pelli, nonché quello del prestito e dell’usura, e risiedevano nella Giudecca, localizzata all’interno del Pittagio San Paolo, sin quando nel 1495, a causa delle agitazioni antisemite, furono costretti a fuggire ed a riparare nella vicina Gallipoli. L’abbandonata Sinagoga neritina fu affidata all’ordine conventuale dei Francescani Osservanti per essere trasformata in complesso conventuale. Il convento e la chiesa furono edificati ex novo sotto l’auspicio del nuovo duca di Nardò, Belisario Acquaviva, la cui politica a favore della regola francescana era strettamente in linea con quella dei re aragonesi.

Mostra sulle Seicentine di Giuseppe Battista da Grottaglie

di Cosimo Luccarelli

Nelle sale adiacenti all’ingresso della Casa natale di San Francesco de
Geronimo in Via Spirito Santo(le vecchie  scalelle)- Centro Storico
Grottaglie – una Mostra sulle “Seicentine” del poeta grottagliese
Giuseppe  Battista
.
A Giuseppe Battista, poeta barocco, di cui ricorre il quarto centenario
della nascita, è dedicata una mostra bibliografica che raccoglie testi
pregiati in originale risalenti al 1600 e in anastatica oltre ad alcuni
libri di autori che hanno scritto e antologizzato le opere di Giuseppe
Battista. L’iniziativa è organizzata dal Centro Studi e Ricerche
Francesco Grisi e dai Padri Gesuiti di Grottaglie. Si tratta di una mostra
originale che pone in essere un preciso percorso che è quello non solo definito già nelle ricerche strutturate nel Progetto del Centro Studi “Francesco  Grisi” ma si enuclea in un modello di partecipazione sia dal punto di vista di una metodologia educativa che in una proposta rivolta alla conoscenza del poeta e della poesia del Seicento.

All’inaugurazione della mostra, fissata per Martedì 30 marzo 2010 – ore 19.00,  nelle sale adiacenti all’ingresso della casa natale del Santo Gesuita, via Santo Spirito 54 (stradina che costeggia il Santuario), interverranno Padre Salvatore Discepolo S.I. , Arcangelo Fornaro, Roberto Burano, Ciro De Roma, don Cosimo Occhibianco. La testimonianza critico – letteraria è affidata a Pierfranco Bruni mentre i lavori saranno coordinati dal giornalista della Rai Salvatore Catapano.

La mostra ha lo scopo, appunto” di “mostrare” visivamente i libri del
Battista in un itinerario di bibliografia ragionata con lo scopo di avvicinare il
pubblico a prendere contatto con il materiale.

Alcune seicentine, oltre a illustrarsi con il loro reale valore, definiscono la struttura del testo poetico, con la loro forma e la loro legatura, adottato dall’editoria “battistiana”. Importante la collaborazione, in questo senso, tra il Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi” e i Padri Gesuiti di Grottaglie, le
cui sinergie non solo hanno permesso questa manifestazione ma sancisce
l’avvio per ulteriori attività culturali. Una mostra, questa di Grottaglie, che
legge il percorso editoriale di Giuseppe Battista (1610 – 1675)
attraverso alcuni originali, le “seicentine”, che penetrano il tessuto editoriale di un Seicento che si racconta non attraverso una visione ideologica ma grazie ad una interpretazione estetica dentro la quale Giuseppe Battista
costituisce un riferimento non solo per il barocco italiano ma per il barocco tra Spagna e Francia. Nel corso della serata si potranno ascoltare musiche barocche con particolari illustrazioni di filmati oltre a trasmettere il video
realizzato dal Centro Studi “Francesco Grisi” dedicato completamente a Giuseppe Battista e il Barocco, andato in onda su RAI UNO.  In allegato la
locandina che vale come invito.

Si ringrazia la Biblioteca Comunale di Tuglie per questa ed altre segnalazioni.

1605. Una società a fini commerciali

di Marcello Gaballo

Tra gli atti del notaio neritino Nociglia del 1605 il barone di Serrano Napoli de Prezzo da Dipignano (Cosenza), ma residente in Nardò, e l’ artigiano Marco Serenico compaiono innanzi al notaio per stipulare un accordo, articolato in più punti, che prevede l’ istituzione di una vera e propria società di persone, detta per l’ appunto, dal notaio, “societas”.

Napoli de Prezzo dichiara di mettere a disposizione, per la sua parte, cinquecento monete di suoi propri denari, mentre l’ altro, Marco Serenico, la sua persona et il magazeno, posto nella città di Nardò, per tenere et vendere la marcanzia de tavole et legname.

Un personale ricordo correlato alla Liberazione del 1945

di Rocco Boccadamo

24 marzo 1944 – 24 marzo 2010. Non una semplice scansione temporale combaciata, ma la rievocazione della terribile strage delle Fosse Ardeatine, consumatasi a Roma per opera degli occupanti nazisti con la folle motivazione di rappresaglia, spietata rappresaglia.

Come sempre, nella ricorrenza, si è svolta sul luogo una solenne celebrazione alla presenza del Capo dello Stato. Il sacrificio di quelle centinaia di vite umane innocenti, si può considerare come un grande offertorio morale e civile alla liberazione dell’Italia che arrivò a realizzarsi

1576. Armi e munizioni per la città di Nardò

NOTE DI STORIA CITTADINA. LA SANTABARBARA DELLA CITTÀ DI NARDÒ NEL 1576

 

di Marcello Gaballo

In un atto notarile conservato presso l’ Archivio di Stato di Lecce, rogato dal notaio Tollemeto in data 3 aprile 1576, si riporta dettagliatamente la consistenza degli armamenti e delle munizioni a disposizione della città di Nardò  in tale anno, che mi è piaciuto proporre all’ attenzione del lettore non altro per la singolarità dell’ argomento, a parte la curiosità che può destare.

In presenza del Magnificus Giovan Bernardino Macedo, Sindaco dei Nobili, di Giovanni Manieri, Sindaco del Popolo, del Magnificus Gio. Tommaso Pisinati, auditore dei Nobili, di Angelo Manieri e Matteo Sellenico, auditori del Popolo, del Magnificus Lupantonio Sambiasi, Cornelio Cantone e Gio. Tommaso Manieri, ordinati dei Nobili, di Girolamo Burdo, Antonio Manieri, Tommaso Musachio, Bernorio Gaballone e Pietro Falconieri, ordinati del Popolo, ed in presenza degli ispettori regii (“gispani regis“) Antonio de Morales, Francesco Vasquez e Matteo Palmi, si redige l’ elenco delle armi e munizioni che vengono consegnate da questi ultimi ai primi:

– un “sacro” (1) di bronzo del peso di cantare sette e rotoli (2) settanta; “tira balle” (moschetto) del peso di libbre (3) sei circa, con lo stemma di Sua Maestà in rilievo;

– un altro “sacro” simile con lo stemma di Sua Maestà del peso di cantare otto e rotoli cinque;

– un “falconetto” (4) di bronzo del peso di cantare due e rotoli settantaquattro; “tira balle” del peso di libbre due circa;

– un altro “falconetto” di bronzo simile del peso di cantare due e rotoli settantasei; “tira palla” del peso di libbre due circa;

-un altro simile del peso di cantare due e rotoli ottantuno; “tira palla” del peso di libbre due circa;

 un altro “falconetto” di bronzo simile del peso di cantare due e rotoli settantadue; “tira palla” del peso di libbre due circa;

 un altro “falconetto” più piccolo di bronzo del peso di cantare una e rotoli sessanta; “tira palla” del peso di libbre una circa;

sette paia di “rote di artilliaria fra piccole e grandi, ferrate” (5);

– sette “assi di dette rote con i di loro siculi”;

– sette “cascie di detti pezzi fra piccole e grandi, ferrate”; ad una mancano due maniglie ed alcuni “chiovetti”;

– sette “cucchiare” di rame con le rispettive aste;

– dieci “resultatori”;

– sette “scrufuli” con le rispettive sette aste;

– duecento palle di ferro del peso di libbre sei circa ognuna;

– trecento palle di ferro del peso di libbre due circa ognuna;

– altre cento palle di ferro del peso di libbre una.

Per tali armamenti i rappresentanti della città pagano mille ducati al predetto Magnifico Matteo Palmi, in presenza dei testimoni Orfeo Manfredi, giudice regio, dei Magnifici Gio. Donato de Castelli e Domizio di Sambasilio, di Scipione Bonvino, tutti cittadini di Nardò.

(1) è il sagro, sorta di cannoncino molto simile al falconetto indicato alla nota 4.

(2) un rotolo nel regno di Napoli corrispondeva agli attuali 891 grammi.

(3) antica unità di misura corrispondente a 12 once. La libbra del regno di Napoli corrispondeva agli attuali 320 grammi.

(4) il più piccolo tra i cannoni che portava palle di ferro del peso di 5 o 6 libbre. Un altro cannoncino era la “bombarda”, indicata per i tiri curvi, che però non è menzionata nel documento.

(5) tali ruote sostenevano e spostavano il falconetto o il sagro.

1581. Accordi per la sorveglianza del territorio di Nardò

di Marcello Gaballo

Nel 1581 Marco Antonio Bello di Galatone ed Annibale Causularo, residente a Nardò, stipulano una convenzione con il sindaco dei Nobili dell’ epoca, Filippo Sambiasi, ed il sindaco del popolo Girolamo Burdo per il servizio della scorta a cavallo in la marina di detta città per un anno continuo, dal 15 ottobre in poi.

In primis si conclude che se i due guardiani omettessero di saltare un turno di giorno o di notte, come prevedeva l’ ordine regio, i sindaci avrebbero potuto nominare al loro posto “dui altre persone a cavallo per fare detta scorta”, a loro spese.

Il compenso pattuito è di quattro ducati ciascuno per ogni mese.

L’ anno successivo gli stessi Sindaci stipulano un’ altra convenzione con Camillo Gaballo e Paolo Russo alias Calabrese, entrambi di Nardò, i quali si impegnano a guardare et custodire tutto il territorio di detta città di Nardò per dui miglia intorno alla città a patto che non si faccia danno alcuno alle seminate et possessioni fruttifere et soi cittadini o abitanti, pena il pagamento da parte degli stessi guardiani a eventuali danni causati.

Dalla custodia sono escluse le masserie del territorio, tanto che se i due si renderanno conto di danni a tali strutture, non abbiano obblighi di denuncia al proprietario delle stesse.

Il compenso pattuito è di 7 ducati ognuno per ciascun mese di guardiania, a cominciare dall’ 11 gennaio e per un anno.

Giuliano Giunchi. Un amico perduto…

Nel pomeriggio di oggi, 12 marzo 2010, ci ha lasciati l’amico Giuliano.

Trovare parole per esprimere la sua poliedricità, la cultura, l’amore per la scrittura, è difficilissimo. Lo ricordiamo con commozione anche per il sostegno dimostratoci  e l’incoraggiamento offerto nel continuare a redigere la nostra Rivista. Grazie Giuliano!

Giuliano Giunchi nasce a Bagnacavallo (RA) l’8 luglio 1944. Trascorsa l’infanzia a Ravenna si sposta a Forlì, dove segue l’intero corso di studi diplomandosi Perito Chimico Industriale. Dopo essere diventato gommologo per caso, girovaga per trent’anni nei laboratori di ricerca (di base e applicata) di mezza Padania. Avendo infine raggiunto il, per lui, congeniale stato di pensionato si ritira a Piovera (AL), comune piccolissimo ma sagacemente amministrato. Qui si dedica ai suoi hobby preferiti: letteratura odeporica, scrittura demenziale, statistica e giochi di parole. Nel 2001 ha pubblicato un romanzo, Finale di partita, il cui protagonista gioca a scacchi come l’Autore, cioè malissimo.

Noterelle di metereologia salentina

di Marcello Gaballo

 

Le grandi piogge di questo periodo, inusuali per la stagione e per i nostri luoghi (ma ricordate che in altri anni avevamo già cominciato a fare il bagno al mare?), dal nostro popolo erano considerate una vera manna dal cielo.

L’acqua avrebbe giovato alle piante del grano in piena maturazione, agli ortaggi, agli ulivi, oltre a riempire le cisterne e rifornire le falde da cui attingere l’acqua tramite i pozzi.

Accadevano raramente e per questi graditi eventi il nostro popolo pensò di coniare due bellissimi proverbi, che propongo in vernacolo e con la traduzione più vicina in lingua italiana:

‘ale cchiù ‘n’acqua ti marzu e ddoi ti ‘bbrile cca ‘na carrozza cu totte li tire
(vale tanto una pioggia in marzo e ancor più due in aprile, più del valore di una carrozza con tutti i suoi armamenti).

Ci ‘uei cu bbiti la massara pumposa, Natale ‘ssuttu e Pasca muttulosa
(l’autentica felicità della contadina la vedrai quando piove poco d’inverno e molto in primavera. Troppa acqua in inverno farebbe imputridire le sementi, che invece se ne giovano con le piogge di primavera).

Saggezza popolare forse desueta, ma sempre saggia… o no? a patto che Giove pluvio non esageri!

A Santa Maria di Leuca, una Madonna dalla carnagione bruna

di Rocco Boccadamo

 

Di S. Maria di Leuca, per le sue peculiari connotazioni di incomparabile attrattiva paesaggistica all’estrema punta dell’italico tacco, esiste una diffusa conoscenza ormai a tutto campo, non solo in Italia, ma anche all’estero. Dell’ascesa qualitativa di detta località, da sempre particolarmente cara ed amata come poche altre, i salentini non possono che sentirsi orgogliosi, anzi felici. Nello stesso tempo, si rende però opportuno che, da parte di tutti, vengano «difese» con sano spirito di gelosia le naturali e preziose bellezze del piccolo centro e dei relativi dintorni: l’accostamento di un sito della propria terra e delle proprie radici ai più rinomati posti del turismo di élite deve costituire senza dubbio motivo di soddisfazione e di gratificazione, ma non indurre a trascurare eventuali eccessi e spinte all’iperattivismo di qualche operatore senza scrupoli (col rischio di deturpazioni e scempi ambientali), allettato dal miraggio di speculazioni a portata di mano e di facili profitti. Ad ogni modo, a parte la doverosa cornice di approccio, qui si vorrebbe soprattutto porre in evidenza una particolare inquadratura di osservazione, che, forse, ai più sfugge. All’interno dell’antico Santuario di S. Maria de Finibus Terrae, ora elevato al rango di Basilica, dominante un ampissimo orizzonte a fianco dell’imponente faro che svetta sul promontorio a punta e terminale della penisola salentina, alla sommità dell’altare trovasi collocato un quadro, assai venerato, con l’effige della Vergine. Il volto della Madonna, difformemente dalle sfumature di colori cui si è tradizionalmente abituati osservando analoghe riproduzioni classiche o attuali, in questo caso reca un colorito non chiaro o roseo, ma decisamente bruno. Al che, viene da pensare che l’estro e il pennello dell’autore si siano con precisa volontà ispirati fedelmente all’incarnato tipico delle donne del sud in genere, e delle donne di queste plaghe in particolare, incarnato che si presenta spesso bruno o olivastro: dunque, la Madre di Dio che si pone allo sguardo della gente giustappunto con l’identico volto di molte, di tutte le madri comuni. Quanta profonda espressività in tale volto e in tali tratti! Quanta aderenza alla vita e ai suoi travagli, turbamenti e sogni! In chi scrive, l’effige della Madonna di Leuca ha determinato un’emozione forte e intensa sin da epoca lontana, a partire cioè dalla prima opportunità di ammirarla in occasione del pellegrinaggio itinerante del quadro per tutti i paesi del Capo, svoltosi nell’anno 1949, e dalla visita di devozione al Santuario, effettuata insieme con la famiglia, nel maggio del medesimo anno.Nel gruppo, era presente anche una giovane mamma di trentadue anni (la quale portava in grembo il sesto figlio), una mamma che, ancora giovane, nell’estate 1966 se ne è volata lassù a raggiungere la sua Madonna bruna.

I dispetti del folletto domestico salentino

di Marcello Gaballo

Il nostro folletto domestico, assai simile al brownie britannico e agli elfi della nota letteratura europea, viveva tra le mura di alcune case di campagna, negli anfratti di cavità naturali, in angoli nascosti di masserie, con particolare predilezione delle stalle, talvolta nelle dimore cittadine, qui scegliendo la “rimesa” o lo “stanzino” (deposito a pianterreno), tra le poche masserizie qui raccolte. Raramente alloggiava nella “casscia” (cassapanca), tra le coltri e la dote femminile accumulata nel corso dei decenni.

Tanti anni fa, ancora universitario, la leggenda del “munaceddhu”, variamente denominato (lauru o laurieddhu, scazzamurieddhui, sciacuddhuzzu), mi ispirò due atti che rappresentai con un certo successo con il gruppo teatrale di “Nardò Nostra”.

Avevo raccolto le ultime testimonianze dei nonni e di quanti erano stati “visitati” dallo straordinario personaggio, comprendendo appieno la sua importanza nella cultura e nell’immaginario salentino. 50 centimetri, esile, brutto, imberbe, vestito con tonacella marrò, cappellino rosso porpora, saccoccia appesa alla cintola, scalzo. Così lo ha descritto un mia lontana parente, giovane, circa vent’anni fa, conformemente con quanto aveva scritto un secolo prima un nostro sociologo salentino, L.G. De Simone, ne La vita nella terra d’Otranto (1876): “piccoletti alti tre spanne, bruttini, foschi, pelosi, vestiti di panni color tabacco, con cappellini in testa e d’ordinario scalzi”.

disegno di Daniele Bianco

Notoriamente dispettoso, era solito disturbare nelle ore notturne rompendo coperchi, battendo sulle pentole, rovesciando “capase”, fino a saltellare sul torace dei dormienti, tanto da rendergli difficoltoso il respiro. Le sue attenzioni erano particolarmente rivolte alle fanciulle, alle quali era solito fare il solletico, tirargli i capelli, più spesso premendogli sul ventre, manifestandosi in particolare poco prima del ciclo mestruale.

Non risparmiava neppure i cani, sul dorso dei quali spesso sedeva fino a farli “scunucchiare” per il peso, evocando strazianti guaiti. Particolarmente “antipatici” dovevano stargli i cavalli, cui spesso svuotava le mangiatoie per farli morir di fame, strigliandoli o intrecciandogli la coda e la criniera.

Migranti dalla Puglia

di Gianni Ferraris

Il treno merci è sul binario. Lunga la strada che deve percorrere. Lecce, Brindisi, Taranto, Bari, Foggia, Torino. Il percorso che era dei migranti che dalla Puglia partivano con le loro valigie di cartone, con arance e formaggi e pane. Sicuramente senza gioia, certamente con l’angoscia per quel che si lasciavano alle spalle e la speranza in un futuro che fosse rassicurante, che portasse la certezza della sopravvivenza. La mostra “Migranti”, è organizzata dalla Regione Puglia. Simbolicamente proprio su un treno.

Si entra con curiosità, piano piano scende la malinconia che si trasforma in angoscia e rabbia nel vedere quelle fotografie,  ascoltando la colonna sonora che accompagna i visitatori. Non è musica, non solo. Sono le voci narranti di Michele Placido (Foggiano), di Mario Perrotta (leccese), di Sergio Rubini (da Grumo di Puglia – BA) di Cosimo Cinieri (tarantino) che leggono e narrano storie di migrazione, di lacerazioni, di uomini e donne. E sono spezzoni di film sull’emigrazione. Quelli che hanno fatto la storia del cinema italiano. Passano fotogrammi di “Così ridevano”, di “Rocco e i suoi fratelli”, di “Pane e cioccolata” e si termina con “Lamerica”.

Il percorso nei vagoni si snoda in tre settori:

-L’emigrazione pugliese negli Stati Uniti,

-Quella in Europa e nel nord Italia,

-L’immigrazione.

Arrivando alla fine, al settore immigrazione, successiva alla caduta del muro di Berlino, si vedono immagini di navi stracariche all’inverosimile, in modo disumano, di Persone. E sono le stesse immagini dell’inizio della mostra, quando altre navi portavano altre Persone negli Stati uniti. Stipate nello stesso modo, con sguardi simili, rassegnazione mista e volontà di farcela.

Il catalogo, molto bello e ricco, cita Francesco Compagna e il suo “Terroni in città” (Laterza, 1959) dove dice “Certo, la strada dell’emigrazione è tanto dolorosa quanto antica, dura sempre, rischiosa spesso, qualche volta tragica; ma chi si incammina su di essa lo fa di propria deliberata volontà perché non vuole più restare sulla piazza del paese, intorno alla fontana”.

Così il sogno americano  fa imbarcare migliaia di Persone per il nuovo continente che li accoglie spesso con disprezzo. Già il viaggio era disumanizzante.

“La mortalità infantile, durante la traversata, a causa del morbillo, della scarlattina e della varicella, rappresentava la metà dei decessi… Per non soffrire il freddo e l’umidità, sui materassi si stava vestiti e con le scarpe, e in qualche modo il posto letto si riduceva ad una cuccia per cani. A viaggio compiuto, quando non veniva cambiato, era un sudiciume di insetti pronto a ricevere un nuovo emigrante…. Chi sfuggì al colera a Napoli nel 1911, rischiò la morte per colera durante il viaggio… A bordo si serviva solo un pasto al giorno, cibo appena accettabile, ma per molti era l’aspetto migliore del viaggio, abituati com’erano a patire la fame. La traversata per le americhe poteva durare anche un mese…”

E all’arrivo le visite mediche e le domande di rito:

“Come si chiama? Da dove viene? Perché viene negli USA? Quanti anni ha? Quanti soldi ha? Dove li tiene? Me li faccia vedere. Chi ha pagato la sua traversata? Ha firmato in Europa un contratto per venire a lavorare qui? Ha degli amici qui? Parenti? Qualcuno può garantire per lei? Che mestiere fa? Lei è anarchico?” 

Non pochi vennero rispediti indietro per sospetti sulla salute fisica, mentale, sulla politica. Quei respingimenti che causarono anche molti suicidi di chi non poteva rientrare sconfitto e decise di gettarsi in mare. La storia che si ripete. Gli ultimi ricacciati a mare da chi, senza ragione alcuna, si crede primo.

Per chi rimaneva iniziava una vita fatta di lavoro duro, di riscossa, di scontri con il razzismo e la xenofobia dilagante.

Gli italiani erano considerati “non white”, una via di mezzo fra la razza bianca e quella nera.

E solo pochi anni fa l’ex presidente guerrafondaio Richard Nixon arrivò a dire  : “Non sono come noi. La differenza sta nel fatto che hanno un odore diverso, un aspetto diverso, un comportamento diverso. Il guaio è che non se ne trova uno solo che sia onesto”

E un suo predecessore:

Abbiamo bisogno che ogni immigrato porti un corpo forte, un cuore robusto, una buona testa e una grande determinazione a compiere bene il proprio dovere. Non vogliamo e dovremmo rifiutare questi italiani, russi ed ebrei sporchi. Abbiamo già abbastanza sporcizia, miseria, crimine, malattie e morte per fatti nostri senza doverci accollare pure questi” (Franklin Delano Roosevelt, presidente USA dal 1933 al 1945).

Per gli americani, i nostri immigrati erano “BAT (pipistrello) perché considerati mezzi uomini e mezzi uccelli, Guinea con chiaro riferimento al fatto che erano visti come negri mezzi africani, WOP dal duplice significato di Guappo e come acronimo di Without Official Permission (senza permesso ufficiale)”.

Non andava meglio nell’America meridionale dove i contadini trovavano lavoro. Portavano con loro la voglia di tornare in Italia. Per questo venivano soprannominati “Golondrinas” (rondini).

E questa voglia di tornare dava diritto ai fazenderos di tenere gli italiani in vera e propria schiavitù. Spesso incatenati, bastonati, le donne violentate nelle piantagioni di caffè del Brasile e del Venezuela dove arrivavano con biglietto prepagato per il ritorno.

 La seconda parte della mostra riguarda l’emigrazione in Europa e nel nord Italia, anche qui Persone stipate in treni stracarichi diretti in Svizzera, Francia, Belgio, Torino, Milano, Genova. Nella sezione dedicata a Marcinelle campeggia il famigerato manifesto rosa e le fotografie di uomini e bambini neri di carbone, di donne che pregano mentre i soccorritori scendono nelle gallerie.  

E ancora la Germania e la Svizzera. Bambini nascosti nei bagagliai delle auto perché il lavoratore non poteva portare famiglia in territorio elvetico fino agli anni 70. Bimbi che non potevano uscire di casa. Che frequentarono scuole elementari e medie clandestine, sotto la protezione delle parrocchie e delle comunità religiose. Gli italiani soprannominati “Cincali” (zingari, dispregiativo) o “Macaroni”. In Germania vivevano in sobborghi. Veri e propri ghetti. Erano poveri, spesso analfabeti.

L’immigrazione è storia recente, attuale. Dopo la caduta del muro di Berlino, la Puglia si trovò ad accogliere navi stracariche di umanità. Il sogno dell’Italia paese libero, delle cinque reti televisive con una scintillante Raffaella Carrà e ballerine seminude, era la meta. La voglia di libertà sta in quella fotografia della ragazza albanese con un cartello  con scritto in pennarello:  “we whant tu be free” (vogliamo essere liberi). Conosceranno l’Italia, quella che accoglie e quella che respinge. Soprattutto conosceranno l’Italia che sta davanti allo schermo, non dietro le telecamere.

Il catalogo si chiude con una citazione dell’antropologo Levi Strauss sulla quale è bene riflettere:  “E’ necessario preservare la diversità delle culture in un mondo minacciato dalla monotonia e dall’uniformità. La tolleranza non è una posizione contemplativa, è un atteggiamento dinamico, che consiste nel prevedere, nel capire, nel promuovere gli sviluppi di ogni cultura. La diversità delle culture umane è dietro di noi, attorno a noi, davanti a noi.”

E’ una mostra da vedere, magari con le scuole. Chi, al nord, vorrà recarsi a Torino, potrebbe adottare per qualche ora un leghista, fargli vedere le sue radici (fra il 1900 e il 1940 il Piemonte era al secondo posto come immigrati con 1.413.589 persone, dopo la Sicilia con 1.624.517). Se capirà sarà una buona azione verso l’umanità intera, se non comprenderà il messaggio vuol dire che ha poche speranze di progredire, con buona pace per l’evoluzionismo.

 n.b. Le parti in grassetto sono citazioni del catalogo.

La visita alla mostra è gratuita. Il catalogo è in vendita a € 15.00.

Le date:

Lecce 20 – 24 febbraio – Brindisi 25 – 28 febbraio – Taranto 1 – 4 marzo – Bari 5-11 marzo

Foggia 12 – 15 marzo – Torino 18 – 21 marzo

Il sito : www.migrantipuglia.it

Santa Barbara su llu campu

di Gianni Ferraris

Santa Barbara su llu campu

ci nu time né troni né lampi,

stae unita cu lu Spiritu Santu.


Spiritu Santu nu durmire

ca sta bisciu tre vascelli vanire:

uno t’acqua, l’addu te ientu,

l’addu cu luntana Gesù Cristu lu maletiempu.


(Santa Barbara* sul campo** che non temi né tuoni né lampi, stai unita con lo Spirito santo. Spirito santo non dormire che ho visto tre vascelli venire, uno d’acqua, uno di vento, l’altro con Gesù Cristo che allontana il maltempo)

Questa è la preghiera, o la formula magica, che spezza le trombe marine. Se la tramandano i pescatori di padre in figlio. Per essere efficace deve essere insegnata la notte di Natale e recitata solo in caso di forte maltempo e, appunto, di trombe marine. Ha la facoltà di romperle prima che raggiungano la costa e, quindi, la città. Narrano di un vecchio che la recitava dal molo, con i capelli scompigliati  dal vento .

Città di pescatori dove solo la superstizione o la fede estrema possono contro le mareggiate improvvise che arrivano quando le barche sono in mare   minacciate e la paura di non veder tornare i pescatori è grande.

E le donne restano in casa a pregare, oppure si avvicinano al mare e gettano pezzetti di pane. Non un pane qualunque però.

Il giorno di Sant’Antonio le famiglie che hanno avuto benefici durante l’anno trascorso  fanno dei pani, li portano in chiesa perchè siano benedetti, e ne distribuiscono ai vicini, ai parenti e agli amici. Un po’ lo si mangia, ma una parte viene gelosamente custodita e verrà utilizzata quando arriva qualche mareggiata e le barche non si vedono ancora all’orizzonte. Solo allora le donne prendono il prezioso pane, vanno in riva al mare e ne gettano briciole. E’ un richiamo per i loro uomini perché rientrino, ed un modo per placare la forza della natura. Gettando tra i flutti il pane benedetto, come a voler benedire il mare, divengono sacerdotesse loro malgrado .

Il mio amico Fabio è comandante di nave, ha conosciuto tutti i mari del globo. Un giorno, davanti a una stupenda pasta con le cozze, si parlava della paura che il mare spesso suscita. Lui è riuscito a riassumere con un concetto  efficace il rapporto che bisogna avere con l’acqua: “non deve mai essere temuto, deve solo essere rispettato”.
Lui lo fa con tutti gli strumenti che la tecnologia e l’esperienza di anni di navigazione gli hanno insegnato. Le donne Gallipoline lo facevano con riti propiziatori come il pane benedetto. Dove il mare è fonte di vita, dove le radici e la vita stessa degli abitanti dipendono da lui, non può esistere sentimento diverso da  rispetto ed amore. In altri luoghi un maledetto temporale estivo può spazzar via il raccolto di un anno. Qui minaccia la vita delle persone che di mare vivono.
Sacro e profano a volte si mischiano.

Il venerdì santo due sono le  processioni. Una inizia alle 18 per terminare alle 3 di mattino, accompagnata dalla banda e dalle confraternite. L’altra inizia alle 3 per terminare solo verso mezzogiorno. Processioni meste come la morte del Cristo richiede. Però esiste sempre la resurrezione. Solo allora la festa ha inizio. La mattina della domenica di Pasqua, dopo la solenne messa, viene bruciata la “Caremma”, il fantoccio di una vecchia appeso a vari angoli di strada. E’ una figura di fatta di pezze che viene issata 7 domeniche prima di Pasqua,  ha un’arancia dove vengono conficcate 7 piume di gabbiano, ogni domenica una viene tolta, quando rimane senza piume la Pasqua è arrivata e la vecchia viene bruciata.

La Caremma ( forse dal francese “careme”, quaresima) è una figura comune a tutto il Salento,e incarna  la miseria, la quaresima, appunto, che viene sacrificata per auspicare buona sorte. Per quanto riguarda Gallipoli la leggenda vuole che la Caremma fosse la mamma del Titoru (Teodoro). Tornato dalla guerra affamato il giorno di carnevale, il Titoru inghiottì una quantità talmente grande di polpette da rimanerne soffocato. Ogni carnevale si raffigura il suo funerale. La Caremma iniziò a inviare maledizioni a tutti i Gallipolini i quali, la domenica di Pasqua esasperati (o forse impauriti) la appesero e la bruciarono.

La Quaresima è finita. Cristo risorge e si festeggia. La vecchia con le sue maledizioni e i patimenti deve essere distrutta. E’ una sorta di resurrezione della speranza.

 

* Santa Barbara è la protettrice della marina militare.
**il campo è un isolotto di fronte a Gallipoli. Antico lazzaretto.

In viaggio da Avetrana a Nardò, tanti anni fa…

Fiera degli animali nel Salento (ph Giorgio Cretì)

di Giorgio Cretì

… Spensero la lucerna e uscirono sulla strada. Pioveva ancora molto forte e Antonio aprì il suo grosso ombrello. Rosa gli stette molto vicina fino alla piazza, poi si staccò lentamente. Antonio che scrutava l’espressione del suo volto, notò che si stava rabbuiando. Le strinse leggermente una spalla con la sua grossa mano per rassicurarla e lei lo ricambiò con un sorriso velato di tristezza.

Giunti che furono alla locanda, Rosa scomparve subito. Antonio andò dal suo cavallo che stava tranquillo nella stalla, poi sedette su una panchina di tufo sotto l’androne e si arrotolò una sigaretta.

Il tabacco era umido e la sigaretta ogni tanto si spegneva. L’acqua delle gronde gli scorreva vicino ai piedi portandosi via i fiammiferi bruciati e si riversava sulla via per unirsi ai ruscelli che correvano verso la campagna.

Antonio pensò a Rosa felice e sorrise contento, poi pensò ancora a lei triste e sorrise ancora, ma in modo diverso questa volta.

Buttò via il mozzicone spento e attese che l’acqua lo portasse via, poi si alzò.

Andò a mangiare, ma non vide Rosa, né la sentì dietro la tenda. Era contento e si rendeva conto di esserlo. Mentre mangiava pensò al tempo e al viaggio, percorrendo lentamente, com’era abituato a fare, la strada e traversando tanti paesi molto simili al suo e dove anche la gente era la stessa. Se li attraversava di domenica, trovava gli uomini in piazza a crocchi o li intravvedeva nelle botteghe affollate, se passava durante la settimana, trovava i paesi deserti. Vedeva poi la gente nelle campagne, curva sulla terra che lavorava. Lungo le strade alcuni lo conoscevano e quando passava si alzavano a salutarlo da lontano ed egli rispondeva sempre. Andava, andava sempre avanti, per un viaggio senza fine, assieme al cavallo che forse non poteva pensare, ma era sicuramente contento del suo padrone.

Finì di mangiare senza accorgersene e usci senza nemmeno guardare verso la cucina. Andò a sedersi ancora sotto l’androne e mentre fumava ripassò a memoria le commissioni che gli erano state affidate. Ricordò anche ciò che doveva dire a Pasquale Cozza e pensò che Concetta era proprio una brava donna.

Intanto aveva smesso di piovere. Si alzò e andò sulla via per guardare il cielo che, verso Brindisi, si era completamente schiarito; dalla parte di Lecce era ancora nero come la pece, ma era girata tramontana. Andò a consultare il cavallo che trovò d’accordo e poco dopo partirono, con il carro che sobbalzava sulla via scavata dalla pioggia.

I campi che la strada traversava erano allagati e Antonio pensò che al Cozza sarebbero sembrati risaie; egli invece li vedeva stendersi lontano, coperti d’acqua, come uno strano mare dal quale qua e là emergevano gli alberi. Stormi di anatre e folaghe erano subito immigrati nella zona in cerca di nuova

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