Fra le mura di un antico palazzo a Copertino

QUANTE COSE NASCONDE QUESTO SALENTO!

FRA LE MURA DI UN ANTICO PALAZZO, LA RIPRODUZIONE IN MINIATURA DELL’ALTARE MAGGIORE DELLA CHIESA MATRICE DI COPERTINO

di Nino Pensabene

Chi ha avuto modo di leggere il libro di Giovanni Greco sul pittore copertinese Gianserio Strafella* avrà notato – se ricorderà – che fra le opere attribuibili al grande manierista del Cinquecento c’è la cosiddetta “Madonna della Cappellina”, a proposito della quale così ha formulato il suo giudizio: “…se l’attribuzione allo Strafella è probabile, il dipinto si potrebbe datare di poco dopo la “DEPOSIZIONE”, quando cioè il pittore acquisisce appieno l’ideale della bellezza raffaelliana”.

Un giudizio che, data la sconvolgente e raffinata bellezza dell’opera (olio su pergamena, cm. 28,5 x 37,5) avvalora altra tesi, secondo la quale, se non dovesse appartenere alla mano dello Strafella (e se lo fosse, in effetti rappresenterebbe l’apice della sua ascesa pittorica), potrebbe essere attribuita a colui che fu il suo maestro, lo stesso Raffaello, appunto.

Certo, Strafella o Raffaello, non va dimenticato che “…perentoria è l’affermazione di Luigi Tasselli, padre cappuccino di Casarano, il quale dice: “discepolo di Rafaele d’Urbino riuscì così eccellente pittore che avanzò il maestro””.*

Che la paternità dell’opera fosse, anzi sia, dello Strafella è stata sempre suffragata dal fatto che il possessore che l’ha portata a palazzo Verdesca Zain, sposando, appunto, una donzella della nobile famiglia, fosse un pronipote del nostro artista, un tal Vincenzo Strafella, dal quale – generazione dietro generazione – è giunto fino a noi che Gianserio amasse particolarmente questo dipinto da tenerlo gelosamente a capo del letto.

Il tema raffigurato, la Vergine Maria (di una soavità raffaelliana), ha fatto sempre da scudo sulle probabili recondite ragioni che hanno accompagnato il dipinto: lo Strafella, lo amava così tanto per il fattore devozionale o perché era stato eseguito dal suo maestro Raffaello, a ricordo del quale gli era stato donato lasciando la bottega per tornare a Copertino?

E i Verdesca Zain hanno costruito la cappellina barocca in rapporto al culto mariano – coprendosi, appunto, dal fatto che ne erano appassionati – o per proteggere dai ladri il dipinto del quale avevano consapevolezza del grande valore?

Va detto infatti che l’opera pittorica, pur creando delle sproporzioni prospettiche, era stata posta come pala d’altare, peraltro non come quadro appeso ma incastonandola in un gioco di tavole inchiodate e ricoperte – a mo’ di intonaco – da una lavorazione in cartapesta.

Se il lettore guarderà una delle foto relative a quando il dipinto faceva ancora corpo unitario con la costruzione barocca, si accorgerà che il volto della Vergine è grande quasi quanto tutto l’altare, mentre per essere visto dal basso, ad occhio dei fedeli, dovrebbe essere più piccolo di quello del celebrante o del loro stesso volto, cioè di quello delle altre statuine che li rappresentano. In verità questo mio contributo non nasce con lo scopo preciso di parlare dell’opera pittorica dello Strafella quanto per mettere in luce, attraverso qualche immagine, il prezioso gioiellino d’arte barocca che l’ha ospitata fino al 1968, quando – mentre noi abitavamo a Roma, e quasi per miracolo lasciando indenne il dipinto – un’umidità perniciosa ha danneggiato la parte frontale della cappellina unitamente a quanto fungeva da abside sopra l’altare.

In pietra leccese scolpita e legno lavorato, la chiesetta in miniatura è stata realizzata in uno spazio ricavato all’interno di una muraglia, da poter chiudere con una porta, anticamente tutta in legno, così da sembrare – in simmetria con un’altra porta – un varco d’ingresso.

Datata fine Settecento-primi Ottocento, riproduce l’altare maggiore che si trovava nella chiesa matrice di Copertino fino all’avvento del Concilio Vaticano II, quando in moltissime chiese di tutto il mondo sono stati compiuti crimini d’arte.

Rientrati da Roma e completato il restauro della casa, nel 1975 la cappellina non ha più avuto sull’altare il suo antico quadro dello Strafella: al di là dei motivi di ordine artistico-prospettico che ci ha visto riottosi nel ricollocarlo, non erano più i tempi quando, se il denaro si nascondeva sotto i materassi, le opere d’arte di grande valore – quelle cioè che si volevano proteggere – si dovevano quasi murare alle pareti. Altri sono oggi i sistemi o i luoghi di sicurezza.

Per una diecina d’anni, sull’altare ha trovato posto un antico quadro avente sotto vetro una preziosissima seta riproducente “La Pentecoste”, mentre dal 1987, a sistemazione definitiva, c’è “La Vergine della Rivelazione”, un manufatto della Giulietta realizzato per un oratorio pubblico in un seminterrato e a chiusura del quale io, per motivi affettivi, ho voluto associare alla storica cappella in miniatura. Storica nel vero senso della parola, perché al di là dei valori artistici riguardanti la costruzione monumentale appartenente a un’epoca ben precisa, ancora più storica è divenuta oggi per dei particolari antropologici che al momento della realizzazione gli autori hanno eseguito in perfetta semplicità d’intenti, rispettando cioè la realtà socio-ambientale in cui vivevano.

Mi riferisco alla parte animata del piccolo tempio: al di là del motivo religioso attraverso il quale i giovani possono scoprire la dinamica della celebrazione eucaristica (la Messa in latino) prima della recentissima riforma liturgica del Concilio Vaticano II, ciò che più è interessante – e che oggi sconvolge o sconcerta – è la visione dell’assemblea che vi partecipa, formata dalle tre categorie socialmente più rappresentative dell’epoca: i nobili e quindi latifondisti, gli artigiani e i contadini.

L’etno-antropologia illustrata nel nostro saggio “Tre Santi e una Campagna” trova le sue basi proprio guardando queste affascinanti figure in cartapesta e stoffa, rudimentalmente realizzate in casa dagli antenati Verdesca Zain.

Ogni categoria è rappresentata nel più rigoroso rispetto ai dettami gerarchici, inquadrati non solo in ciò che viene palesato nell’assunto esteriore attraverso segni inequivocabili di appartenenza ma anche nell’atteggiamento interiore che conferma – con le sue sfumature etico-comportamentali – lo stato sociale che il personaggio rappresenta.

Pur nella dignità cristiana che li accomuna, vediamo la contadina e il contadino eccellere per la loro umiltà, frutto della nobiltà della terra; l’artigiana e l’artigiano per il contegno dovuto alla consapevolezza della maestria nel loro lavoro; i signori per la cosciente affermazione di uno stato di superiorità a carattere non economico-volgare ma educativo-sapienziale.

Da un punto di vista esteriore, nel rispetto ad un protocollo classista, le differenze sono più marcate, ma nella loro palpabile visibilità si fanno un tutt’uno con i moti interiori del vissuto spirituale: la contadina con il facciulittòne e llu mantile, l’artigiana, di ceto già superiore, non col facciulittòne ma con la scialla (sciarpa) e senza grembiule, mentre la signora con il velo di pizzo, e così come l’artigiana si permette la corona del rosario, lei ha il messalino in mano con la custodia poggiata sulla sedia, fonte anche quest’ultima di dichiarazione classista nella raffinatezza della sua impagliatura.

Il contadino, inginocchiato, con il copricapo di foggia diversa e qualità inferiore a quello dell’artigiano, che già, nel rispetto dei momenti liturgici, si sente autorizzato a stare in piedi. Anche le due popolane, a marcatura simbolica della gerarchia sociale, le vediamo inginocchiate, in contrasto alla signora che si può permettere invece di stare seduta, come il signore d’altra parte, entrambi elegantemente abbigliati, con una nota di galateo religioso che vede la signora, in chiesa, priva di borsetta, cappello e ventaglio.

A proposito di abbigliamento e accessori mi piace far notare come l’epoca privilegiava in assoluto gli uomini: al gentiluomo, infatti, non è stato negato nulla: la bombetta e il bastone con l’impugnatura d’argento, il fermacravatta con il rubino come pietra preziosa, e l’orologio nel taschino del gilet con la sua bella catena d’argento.

Tutti particolari che al di là delle dissonanze e discrepanze sociali, al di là delle vanità e sovrastrutture umane, tornano a vantaggio di coloro che, per realizzare l’opera, hanno pazientemente trascorso le loro serate lavorando alla fioca luce dei petroli o delle lucerne ad olio, chi con l’ago in mano ricamando i paramenti sacri; chi con una pinza per torcere il filo di ferro e infilare perline al fine di creare i lampadari o le ampolline per l’acqua e per il vino; chi con le mani impiastricciate di colla per realizzare li pupi in cartapesta; chi con lo scalpello in mano per trasformare la pietra in armonia attinta dal creato.

E nella nota dei particolari in miniatura, nell’esecuzione di questo lavoro a conduzione familiare, da non sottovalutare calici e cartegloria, candelieri, croci e crocette, messali e messalini vari.

Dovrei dire sacrifici? No, in quel tempo i sacrifici erano quelli di chi zappava la terra! Direi piuttosto appagamenti devozionali e realizzazioni o soddisfazioni artistiche, pacatezze familiari e gioie lavorative in un tessuto esistenziale vissuto – come obby aristocratico – dalla classe per così dire evoluta di quel tempo, uomini sicuramente non emancipati come noi ma, nella saggezza, forse, superiori a noi… a noi che, a dispetto della loro paziente operosità, possiamo lavorare con lampadine accese che ci offrono una luce più che a giorno… a noi che non soltanto abbiamo la macchina da cucire e l’automobile e l’aereo e il treno, ma anche il telefono fisso e il cellulare, il PC e la posta elettronica, una facilità di vita, insomma, inimmaginabile all’epoca (e se immaginata, dai contadini sicuramente giudicata opera del diavolo), avviata con la conquista dell’energia elettrica e giunta a noi con tutti i confort che la tecnologia ci offre su un vassoio d’argento, tentando (ahinoi) di trasformarci in uomini robot.

* Giovanni Greco, “GIANSERIO STRAFELLA, (XVI SEC.), PITTORE COPERTINESE”, Edizioni Pro Loco, Copertino, 1990.

Lecce è una delle città più belle d’Italia…

di Gianni Ferraris

“Lecce è una delle città più belle d’Italia, ora ha un polo fieristico in più che porterà turismo anche fuori stagione…” Così è stato detto durante la presentazione del nuovo padiglione fieristico in piazza Palio.

Da non leccese sono due anni che vedo quella tristissima piazza abbandonata a sé stessa. Un catino che, mi si dice, doveva ospitare il palio di Lecce. Meravigliosa trovata. Di chi? Non lo so, sicuramente era qualcuno che passò per caso da Siena o da  Asti e disse “anch’io voglio il palio…”.  Quasi quasi proverei a proporre al sindaco della mia città  la creazione un quartiere della grecìa alessandrina. Ovviamente con tanto di lingua grica e tutti i connessi.

La piazza, dicevo, era già tristanzuola. Un catino invaso, mi dice un’amica che insegna in una delle scuole che si affacciano su quella meraviglia, dalle acque quando piove troppo. Un’opera inutile insomma, quasi dannosa. Però ormai c’era, ed erano possibili alcune opzioni. Riqualificare il tutto creando un’oasi di verde, panchine, giochi per bimbi, un luogo dove le persone potessero andare le sere d’estate, pieno di alberi e di erba. Oppure creare un improbabile polo fieristico. Improbabile perché un ente fiere che si rispetti deve predisporre tutto quanto per accogliere espositori e visitatori. Parliamo di ampi parcheggi per mezzi grandi e per auto. Parliamo di non congestionare il traffico cittadino. Se quando c’è il normale mercato del lunedi le strade attorno a quella piazza sono rallentate e spesso ferme, se ci sono parcheggi in seconda fila per lasciare o prendere i ragazzi delle scuole, immaginiamo cosa sarà il tutto durante un fiera che funzioni. Nella quale arrivano visitatori dalle prime ore del mattino fino a sera.

Inoltre sarebbe interessante capire come una fiera di settore possa portare “turismo”. Diciamo che porterebbe a Lecce operatori dei settori interessati e privati che vengono per la fiera e se ne vanno. Diciamo che è un’opportunità per le aziende locali. Un’ottima cosa per loro, se fosse fatta in luoghi accessibili, se chi arriva può lasciare l’auto senza doversi fare chilometri a piedi.

Altro capitolo è l’impatto visivo che si ha arrivando nei pressi del “polo fieristico”. Ci sono passato stamattina. L’impressione era di una colata di plastica dentro il catino. Capannoni da zona industriale coperti di teli bianchi.

Già, Lecce è una delle più belle città italiane. E mi spingo oltre, secondo una mia classifica personale sta nei primi quattro posti. Assieme a Venezia, Firenze e Genova. Perché si fanno sforzi così importanti per abbassarne il livello?

Poesie/ Tata

Tata

di Antonio Bruno

 

Furnu te petra,

lu pane te ranu coce,

nna ndore forte tuce, tuce,

me porta a mmienzu alla campagna toa.

La luna te ddha ssubbra picca luce,

notte ca me nturtiji alla palora toa

notte te suspiri contruluce

nnu picca te rienu caticiatu

sutta alla scarpa s’ha feccatu,

me sècuta agnaciu spiritu ncantatu.

Terra amata, terra te turmientu,

ieu sacciu a ddhu stau e bbe nnu jentu

la vita spìccia e tie terra, mamma e tata,

resti quai pe ccinca n’àura fiata

tenta cu càngia tuttu,

prima cu capisca ca è perfettu cussì,

è propiu nna delizia.

Comu sirma ca se nne scìu l’annu passatu

e me lassau sulu e scunsulatu

ca ìa ulutu cu me lu cotu ‘ncora

magari pe nnu discorsu, ppe nna parola sula.

L’aggiu lassare puru ieu la terra mia,

sana come l’aggiu truata la lassu alla stria

ca quannu sente lu profumu te murteddha

pote pensare a mmie,

comu jeu pensu a iddha,

comu moi ca sta pensu a iddhu

lu sire miu e crìsciu

ca stae felice a nnanzi a Ddiu.

Anche Topolino mangia orecchiette

Le orecchiette con le cime di rape nei ristoranti di Disneyland, e persino un viaggio ideale tra i vini pugliesi con tanto di passaporto sulle specialita’ assaggiate. Sono tra i principali ingredienti della presenza della Regione Puglia al ”California Food and Wine Festival”, promosso da Disney, la piu’ grande Societa’ nel campo dell’entertainment a livello mondiale. Così, sino al prossimo 31 maggio, gli ospiti del Disneyland di Anaheim (a pochi chilometri da Los Angeles), uno dei parchi divertimenti piu’ visitati al mondo, potranno degustare l’strascinat’ con l’cim di rap.

Il piu’ tradizionale piatto della cucina pugliese e’ stato inserito nei menu’ dei ristoranti dello storico parco divertimenti californiano grazie alla decisione della Regione Puglia di sponsorizzare l’edizione 2010 del ”Disney’s California Food and Wine Festival”, l’evento dedicato alla promozione delle eccellenze agroalimentari ed enogastronomiche tipiche provenienti da tutto il mondo che lo scorso anno ha visto la partecipazione di oltre 800 mila persone.

da http://www.giornaledipuglia.com/2010/05/anche-topolino-mangia-le-orecchiette.html

Se non è plagio ditemi voi cos’é…

di Armando Polito

Nel post a firma di Fabrizio Suppressa dal titolo Il Marciano e la “Fata Morgana” si dava particolare rilievo al razionalismo con cui il leveranese Girolamo Marciano (1571-1628) in un suo scritto pubblicato postumo per la prima volta a Napoli nel 1855 affrontava il fenomeno del miraggio che va sotto il nome di Fata Morgana.

Il mio intervento non è ispirato da una sorta di campanilismo dovuto al fatto che, essendo di Nardò, sono terrritorialmente più vicino a Galatone che a Leverano, ma solo dalla doverosa necessità di dare a Cesare quel che è di Cesare.

Il brano che riproduco in basso è del galatonese Antonio De Ferrariis detto, proprio per il luogo di nascita, il Galateo; esso fa parte del De situ Japigiae scritto tra il 1506 e il 1511 e pubblicato per la prima volta a Basilea nel 1558. Lascio al lettore trarre le conclusioni dopo la lettura comparata del suo brano (la traduzione, in corsivo, dall’originale latino è mia) e di quello del Marciano citato nel post all’inizio ricordato, non trascurando, naturalmente, la scarna cronologia che dei due autori ho riportato:

Neritini agri paludes noxiae non sunt; nullas enim, aut paucas, et innoxias tollunt auras. Aestate omnia sicca sunt, nihil limosi et gravis, aut palustris humoris relinquitur; sed tantum, quantum campos reddat pinguiores. in his paludibus, ut et in campis Mandurii, et Galesi, et Cupertini phasmata quaedam videntur, quas mutationes, aut mutata dicunt vulgus, nescio, quas striges, aut lamias, aut, ut Neapoli, Ianarias, et (ut Graeci dicunt) Nereides, fabulantur. Mirum est, totum orbem invasit, et in miseras erravit fabula gentes; nullo certo auctore, nulla ratione, nullo experimento unusquisque credit quae neque vidit, neque vera sunt, stamus alienis, et indoctissimorum hominum testimoniis; puerilibus larvis, anilibus credimus commentis, et plus fidei auribus, quam oculis adhibemus; nemo oculatus testis est, omnes ab aliis se audisse fatentur. Quantis tenebris involvitur humanum genus ad mendacia natum, cui semper invisa est veritas! Quanta caligo detinet humanos animos, alioqui rationales, et divinos, ut non ab re quis credere possit, omnia humana simillima esse, his quae dicemus phantasmatis! Sunt qui credunt mulieres quasdam maleficas, seu potius veneficas medicamentis delibutas, noctu in varias animalium formas verti, et vagari, seu potius volare per longinquas regiones, ac nuntiare quae ibi agantur, choreas per paludes ducere, et daemonibus congredi; ingredi, et egredi per clausa ostia, et foramina, pueros necare, et nescio, quae alia deliramenta, et quod maxime mireris sunt in hac re gravissimae Pontificum censurae. Similis est Brocolarum fabula, quae totum Orientem cepit. Aiunt eorum, qui scelestem vitam egerunt, animas, tamquam flammarum globos noctu e sepulcris evolare solitas, notis, et amicis apparere, animalibus vesci, pueros sugere, ac necare, deinde in sepulcra reverti. Superstitiosa gens sepulcra effodit, ac scisso cadavere, detractum cor exurit, atque in quatuor ventos, hoc est in quatuor mundi plagas cinerem projicit; sic cessare pestem credit; et si fabula ea sit, exemplum tamen praebet nobis, quam invisi sint, et execrabiles omnibus ii, qui male vixerunt, et viventes, et mortui. Similis est et Hermontini Clazomenii apud Plinium fabula, et apud Senecam, de sepulcro incantato. Nec defuerunt antiquis temporibus hae vanitates, et illusiones sensuum humanorum; cum semel mens decepta fuerit, et mendaciis persuasa, sensus quoque falli necesse est; quibus deceptis, mens quoque delirat. Magna est inter sensus, mentemque affinitas; quandoque ipsa sola mens, seu (ut dicunt) solae virtutes interiores operibus exteriorum sensuum funguntur. Exemplum est somniantium, qui opera exercent vigilantium. Et Galeno teste, delirus quidam tibicinas videbat in angulo domus; et baculus in aqua videtur fractus, et cancellatis digitis et elevato altero oculo una res, duae apparent, et duae lineae parallelae videntur sensui concurrere, cum nunquam concurrant. Ipse etiam Lactantius, qui plus elocutioni, quam eruditioni studuit, negavit terram ubique posse habitari. Hunc vulgaris et Lactantium error apparentia decepit. Sicut negare sensum propter rationem, rationis est indigere; sic et ratione non persuaderi propter aliquam apparentiam stultum est. Tunc enim res bene cedit, cum ratio apparentibus attestatur, et apparentia ratione; cum haec duo sibi invicem non consentiunt, omnia falsa, omnia erronea sunt. Sed nos ad eadem Phantasmata revertamur. Videbis quandoque urbes, et castella, et turres, quandoque pecudes, et boves versicolores, et aliarum rerum species, seu idola, ubi nulla est urbs, nullum pecus, ne dumi quidem. Mihi voluptati interdum fuit videre haec ludicra, hos lusus naturae. Haec non diu permanent sed ut vapores, in quibus apparent, de uno in alim locum, et de una forma in aliam permutantur, unde fortasse mutata nominantur; aut quoniam his apparentibus, caelum de serenitate in pluviam mutari solet. Hoc accidit mane, coelo silente, incipiente ac leviter spirante (ut solet) Austro. Nam ut in fine est vehementissimus Auster, sic in principio levissimus, et cum calidus sit, elevat tenues nebulas, quae, ut speculum, referunt imagines urbium, pecorum, et aliarum rerum; et ut vapores, sic et species illae moventur: ut est videre in speculis motis, atque agitatis, in quibus, res ipsae moveri videntur. Et quoniam res recte occurrunt vaporibus, recte videntur, ut et umbra, quae opponitur corpori luminoso. Quae vero transverse, ac reflexe rerum species suscipiunt, in his res quoque ipsas reflexas videmus. Sic et in aqua videmus culmina montium, et tectorum in inferiori parte; fit enim ut quae aquae suoperficiei propinquiora sunt, ut fundamenta a nostris visibus sint longinqua; culminum vero tectorum, quae ab aqua sunt remotiora, imagines ad nos magis accedunt; ideo, et inferiora videntur. Sic etiam et nobis in clausa domo existentibus, parvo per rimulas ingrediente lumine, omnia transverse videntur, ut hominum capita deorsum, pedes sursum; lineae enim umbrarum non recte procedunt, sed transponuntur, atque in medio intersecantur. Hoc idem in speculis concavis accidit ut superior pars speculi infimam partem rei visae, inferior superiorem reddat. Haec, quae dixi, phasmata deludunt saepe obtutum viatorum, qui dum se prope urbemesse existimant, longissime absunt. Visae sunt etiam in hoc tractu in aere species hominum equis insidentium, et pedibus ambulantium. Sic et Scriptores litteris mandavere, visas fuisse in caelo armatas acies, et hae, ut puto, species erant earum rerum, quae longe aberant, atque ab eo loco, in quo species visae sunt, videri minime poterant. Sic et denarium in fundo vasis non videmus, at si idem vas aqua impleatur, videmus non denarium, sed illius imaginem in summo aquae, quod aeri contiguum est; superficies enim aquae, superficiei aeris proportionatur. Sed an illa imagines subiectae sint in speculo, an in aeris extrema parte, alia quaestio est. Ait Aristoteles: color est extremitas perspicui in corpore terminato. Quandoque figurae nubium sunt quae navium, et velorum simulacra reddunt, ubi nulla est classis. Haec phantasmata non solum inexpertos fefellerunt. Non diu est quo tota ora, quae est ab Hydrunto ad Garganum montem, una et eadem hora ante ortum solis vidit classem ab Orientis parte velificantem; creditum est Turcarum illam fuisse, et antequam phasma, seu illa delusio albicante aurora detegeretur, variae huc atque illuc literae scriptae sunt, ac missi nuntii de adventuingentis classis. Hoc fortasse modo, aut altero, quem diximus, ut credo, a Lilybaeo vidit, nescio quis, classem e portu Carthaginis exeuntem.

Le paludi dell’agro neritino sono innocue; infatti non emanano esalazioni se non poche e non dannose. In estate tutto è asciutto, nulla resta di limaccioso, di fastidioso, di palustre, ma solo quel poco che basta a rendere più fertili i campi. In queste paludi, come nei campi di Manduria, di galeso e di Copertino si vedono certi fantasmi che il popolo chiama mutazioni o mutate; non so di quali streghe parli o lamie o, come a Napoli, scianare, e (come dicono i Greci) Nereidi. È strano, la favola ha invaso tutto il mondo e si è diffusa tra le povere popolazioni. Senza alcun autore, senza nessun motivo,  senza averlo sperimentato ciascuno crede a ciò che non ha visto e che non è vero, restiamo ancorati alle testimonianze di estranei e di persone ignorantissime, crediamo a larve puerili, a storie da vecchie, e diamo più fiducia agli orecchi che agli occhi. Nessuno è testimone oculare, tutti dicono di averlo sentito da altri. Da quante tenebre è avviluppato il genere umano, nato per la menzogna, al quale la verità è sempre odiosa! Quanta nebbia opprime gli animi umani, pur dotati di ragione e divini, sicché non partendo dalla realtà qualcuno potrebbe credere che tutti i fatti umani sono molto simili a questi fantasmi dei quali parleremo! C’è chi crede che certe donne malefiche, o, piuttosto, venefiche, untesi di certi medicamenti, di notte assumono vari aspetti di animali e vagano, o, piuttosto, volano per regioni lontane, e riferiscono ciò che si fa e che improvvisano danze per le paludi e si accoppiano con i demoni; entrano ed escono attraverso le porte chiuse e i pertugi, ammazzano bambini e non so quali altre follie; e parrà strano che questo accada nonostante le pesantissime censure dei Pontefici. Simile è la favola dei vampiri, che invase tutto l’Oriente. Dicono che le anime di coloro che condussero una vita scellerata sono solite di notte volar via dai sepolcri come globi di fiamme, appaiono a persone conoscioute e ad amici, si cibano di animali, succhiano il sangue dei fanciulli e li uccidono, poi ritornano nei sepolcri. La gente superstiziosa scava le sepolture e dopo aver squarciato il cadavere ne estrae il cuore, lo bruciae ne getta la cenere ai quattro venti, cioè alle quattro regioni del mondo. Crede che in questo modo cessi quel flagello; e se quella è una favola, ci dà tuttavia un esempio di come siano a tutti odiosi ed esecrabili coloro che hanno vissuto male, da vivi e da morti. Simile è presso Plinio e Seneca la favola del sepolcro incantato di Ermotino di Clazomene. Nè mancarono in tempi antichi questi vaneggiamenti e illusioni dei sensi umani. Quando una sola volta la mente sia stata ingannata e persusa dalle menzogne, è fatale che anche i sensi siano ingannati; dopo che essi sono stati ingannati anche la mente delira. Grande è l’affinità tra i sensi e la mente; talora la sola mente o (come dicono) le sole virtà interiori assolvono alle funzioni dei sensi esterni. Un esempio è quello dei sonnambuli che compiono le azioni degli svegli. E secondo la testimonianza di Galeno uno in delirio vedeva delle flautiste in un angolo della casa; e un bastone in acqua sembra spezzato e, disposte le dita a grata, sollevato un occhio, appaiono due cose invece di una e due linee parallele sembrano alla vista convergere pur non incontrandosi mai. Lo stesso Lattanzio che si imprgnò più nell’elocuzione che nell’erudizione negò che la terra potesse essere abitata ovunque. Un errore comune e da lattanti lo ingannò con l’apparenza. Come negare l’esperieza sensoriale a causa della ragione è mancare di ragione, così è da stolti non credere alla ragione a causa di un’apparenza.  Allora le cose vanno bene, quando la ragione è comprovata dalle cose che appaiono e l’apparenza dalla ragione; quando loro due non vanno reciprocamente d’accordo tutto è erroneo. Ma torniamo ai medesimi fantasmi. Vedai talora città e castelli e torri, talora armenti e buoi variopinti, e parvenze di altre cose, o immagini, dove non c’è nessuna città, nessun armento, neppure cespugli. Per me fu un divertimento vedere talora questi spettacoli, questi giochi della natura. Essi non durano a lungo e, come i vapori nei quali appaiono, mutano da un posto all’altro, da una forma all’altra, perciò forse sono detti mutate, oppure poiché quando essi appaiono il cielo da sereno suole mutare in piovoso. Ciò succede di mattina, quando l’aria è calma, mentre inizia a spirare leggermente  (come suole) l’Austro. Infatti esso come alla fine è violentissimo così all’inizio è leggerisiimo,  ed essendo caldo solleva tenui nubi che, come uno specchio, riproducono le immagini di città, di animali e di altre cose; e come i vapori così anche quelle immagini si muovono come è possibile vedere  in specchi mossi e agitati, nei quali le stesse cose sembrano muoversi. E poiché gli oggetti si presentano diritti ai vapori, appaiono diritti, come pure l’ombra che si oppone ad un corpo luminoso. Quelli che di traverso e di riflesso assumono l’aspetto delle cose, in essi vediamo pure le stesse cose riflesse. Così anche in acqua vediamo le cime dei monti e dei tetti nella parte inferiore: succede infatti che quelle cose che sono più vicine alla superficie dell’acqua, come le fodamenta, sono lontanre alla nostra vista. Le immagini delle cime dei tetti, che sono più lontani dall’acqua, si avvicinano di più a noi, sicché appaiono come più basse. Così pure le cose ci appaiono di traversi quando ci troviamo in una casa chiusa con una piccola luce che entra attraverso le fessure, come le teste deglu uomini in giù, i piedi in sù; infatti le linee delle ombre non procedono diritte ma deviano e s’intersecano in mezzo. La stessa cosa succede negli specchi concavi, sicché la parte superiore dello specchio riproduce la parte più bassa della cosa vista, l’inferiore quella più bassa. I fantasmi di cui ho detto spesso ingannano la vista dei viandanti, i quali mentre credono di esssere vicino alla città ne sono lontanissimi. Furono visti anche in questo tratto in aria immagini di uomini a cavallo e procedenti a piedi. Così anche gli scrittori tramandarono che si videro in cielo schiere armate e queste, come credo, erano immagini di quelle cose che erano molto distanti e che non potevano minimamente essere scorte da quel luogo in cui le loro parvenze furono viste. Così anche non vediamo una moneta sul fondo di un vaso, ma se riempiamo lo stesso vaso di acqua vediamo non la moneta ma la sua immagine sulla superficie dell’acqua che è vicina all’aria; infatti la superficie dell’acqua si equilibria con quella dell’aria.  Ma se quelle immagini abbiano origine in uno specchio o nella parte estrema dell’aria è un’altra questione. Dice Aristotele: il colore è l’estremità di ciò che si vede in un corpo che abbia dei confini. Talora forme di nubi sono quelle che mostrano sembianze di navi e di vele dove non c’è nessuna flotta. Questi fantasmi non hanno ingannato solo gli inesperti. Non è da molto tempo che tutta la costa che va da Otranto fino al monte Gargano vide nella sola e medesima ora prima del sorgere del sole una flotta che procedeva a vele spiegate dalla parte dell’Oriente; si credette che fosse una di quelle turche e prima che il fantasma o quell’illusione si dileguasse sul far dell’aurora furono scritte qua e là varie lettere e furono mandati messaggeri per annunziare l’arrivo di una grande flotta. Forse in questo modo o nell’altro che abbiamo detto, come credo, non so chi vide dal Lilibeo una flotta che usciva dal porto di Cartagine.

E, dopo aver parafrasato (per usare un eufemismo…) il testo del Galateo, il nostro filosofo leveranese ha pure la spudoratezza di citarlo (riporto da pag. 202 dell’edizione citata in testa): “Onde Antonio Galateo nel suo libretto De situ Japygiae dice che nel suo tempo in una medesima ora si vede qui ed in Levante, o per tutto quel tratto c’è tra Otranto ed il monte Gargano, velificare un’armata che fu creduta del Turco”.

Con particolare piacere noto, perciò, che Pompeo Sarnelli, già al seguito del cardinale Orsini (poi papa col nome di Benedetto XIII), vescovo di Bisceglie dal 1692 al 1724, nell’epistola 9 (in Lettere ecclesiastiche di Monsignor Pompeo Sarnelli vescovo di Biseglia, tomo VIII, Bortoli, Venezia, 1716, pagg. 19-21) indirizzata ad un interlocutore certamente importante ma di difficile identificazione, dal momento che tutte le lettere sono indirizzate ad una S. V. senza altra indicazione, per metterlo al corrente di certe credenze popolari riporta per intero, correttamente citandone l’autore, il brano del Galateo.

Il fenomeno che ho stigmatizzato è, come si vede, antico. La mia speranza è che esso, frequentissimo anche ai giorni nostri, venga ridimensionato dalle fantastiche possibilità, che la rete offre, di un controllo relativamente rapido. Certo, bisogna avere tempo e, soprattutto, voglia; ma questa è un’altra questione…

C’è anche la fica mandorlata di San Michele Salentino

SAN MICHELE SALENTINO – 36.000 bustine di zucchero per promuovere la nona edizione della Fiera del Fico Mandorlato con la scritta “I Love La Fica Mandorlata di San Michele Salentino”. Dopo la maglietta che ha diviso mezza Italia, questa è la nuova trovata promozionale del Comune di San Michele Salentino in collaborazione con uno storico Bar del centro e che, nei prossimi giorni, sarà estesa agli altri locali.

La bustina, da un lato riprende il “famoso” logo “I Love la Fica Mandorlata di San Michele Salentino” e dall’altro la scritta, “Fiera del Fico mandorlato e dei Prodotti Tipici: 27 – 28 – 29 agosto, Piazza Marconi e Centro Storico”.
“L’obiettivo anche quest’anno è quello di far conoscere il nostro paese attraverso l’unicità del Fico Secco Mandorlato, recentemente inserito dal Ministero delle Politiche Agricole nell’elenco dei prodotti tipici tradizionali. Per questo ho accolto con piacere l’iniziativa del Central Bar e che presto sarà estesa agli altri Bar di San Michele Salentino”, spiega il sindaco Alessandro Torroni.

La tradizionale “Festa del Fico” per l’edizione 2010 avrà come ospiti
delegazioni provenienti dall’isola di Malta e dalla Toscana e si avvarrà
della collaborazione tecnica e scientifica dell’Orto Botanico
dell’Università del Salento, dell’Associazione Nazionale per la Biodiversità
“Pomona” e del coordinamento di Ficusnet, la Rete Meditteranea delle Città
del Fico.

“Una bustina di zucchero con quella scritta, ne sono sicuro, renderà più dolce ogni caffè”, aggiunge divertito, il primo cittadino.

La notizie è stata pubblicata dalla Gazzetta del Mezzogiorno.

http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/GdM_dallapuglia_NOTIZIA_01.php?IDNotizia=333868&IDCategoria=11

L’Orto botanico della Città di Lecce

 

di Antonio Bruno

bacche di mirto

 

Quante volte mi sono trovato a scrivere una relazione durante la mia attività? Innumerevoli volte, ma mai mi sono reso conto di quanto possano essere preziose le informazioni che sono contenute in questi atti dovuti scritti, per la maggior parte delle volte, di malavoglia e solo per non incorrere in spiacevoli richiami per l’eventuale omissione.
Il 30 giugno del 1905 si tenne a Lecce l’Assemblea dei Soci del Comizio Agrario e in quell’occasione il Prof. Ferdinando Vallese relazionò sull’Orto e grazie a questo atto dovuto sono venuto a conoscenza di come fosse strutturato.
Condizioni generali dell’Orto del Comizio Agrario di Lecce.
L’orto era esteso per una superficie do 5 tomoli e 3 stoppelli ovvero la sua estensione era di circa 3 ettari. Aveva una configurazione accidentata derivata dal riempimento e dall’interro di vecchie cave di pietra ottenuto in gran parte con materiali di demolizione raccolti in città. Quindi il terreno era profondo in alcuni punti e roccioso in altri comunque dappertutto molto incoerente e sabbioso, di facile lavorazione e di conseguenza molto soggetto alla siccità per la facilità con cui si disseccava durante i lunghi periodi di siccità estivi.
Dalle esperienze di coltivazione della Società economica nell’orto vivevano bene alcune colture legnose e quelle erbacee invernali e primaverili mentre era quasi impossibile praticare la coltivazione delle colture estive e di quelle estivo autunnali.
Il Prof . Ferdinando Vallese fa presente che la difficoltà era dovuta alla mancanza dell’irrigazione e faceva presente che il Comizio aveva speso somme rilevanti per la costruzione di vasche di raccolta delle acque e per il restauro di vecchie cisterne in maniera tale da accumulare e raccogliere sia le acque delle piogge che quelle sorgive dei pozzi.
Inoltre per le stesse ragioni era stata restaurata la bella noria situata sulla bocca di un grande cisternone, solo che alla data del 30 giugno 1905 non era ancora utilizzabile perché non si era potuto allargare il rosario dei secchi in modo da portarlo ad attingere a qualche metro sotto il livello dell’acqua. La noria è una ruota idraulica che ha la funzione di sollevare acqua sfruttando la corrente di un corso idrico. Il nome è spagnolo, a sua volta derivato dall’arabo , vociare, zampillare.
L’origine della noria sembra essere collocabile in Mesopotamia in un periodo databile intorno al 200 a.C. ed è stata molto diffusa e migliorata nel mondo islamico dagli ingegneri meccanici.
 

Colture legnose dell’Orto del Comizio Agrario di Lecce
Il Prof. Ferdinando Vallese scrive che l’Orto del Comizio Agrario di Lecce meritava il nome di Orto botanico perché la Società economica che l’aveva gestito lo aveva arricchito di una grande quantità di specie vegetali. Naturalmente aveva limitato la quantità ad un piccolo numero di esemplari quelle che avevano soltanto importanza scientifica ed aumentando il numero degli esemplari a quelle che oltre all’importanza scientifica avevano anche una importanza industriale ed economica.
Il Prof. Ferdinando Vallese precisa che benché la composizione delle essenze vegetali contenute nell’Orto abbia subito modificazioni profonde dal tempo in cui era gestito dalla Società economica si può affermare che ciò che è rimasto è una predominanza dei gelsi e delle piante fruttifere, mentre c’era un piccolo appezzamento a boschetto di elci (Quercus ilex, leccio o elce. ) e le piante di quercia vallonea che costeggiavano qualche viale. Il Comizio agrario del 1905 a detta del Prof. Vallese pur adattandosi alle esigenze dell’agricoltura di quegli anni seguì le orme definite “gloriose” della Società economica.
Infatti tra le colture legnose, alle quali si era prestato e si prestava anche nel 1905 il terreno dell’Orto agrario, primeggiava il gelso i cui esemplari allietavano con il loro verde brillante l’angolo definito “delizioso” della città di Lecce occupato dall’Orto.
Il Prof. Vallese era meravigliato dall’ottimo stato in cui si trovavano i gelsi pur essendo rimasti incolti per più lustri e per la potatura affidati alla scure di persone definite più vandali che esperti.
Comunque i monconi lasciati dalle mani dei vandali non furono sradicati e ne furono piantati di nuovi. Inoltre dopo il successo dell’allevamento di bachi da seta a Pulsano del Conte Roberto d’Ayala Valva con 1.200 piante di gelso e dopo di quelle dell’on. De Viti De Marco in quel di Cellino l’Orto aveva formato un semenzaio per la moltiplicazione del gelso.
L’allevamento del baco da seta era stato effettuato dall’Orto e ne aveva relazionato il Direttore della Regia Scuola Pratica di Agricoltura Prof. Toscano. Nel 1903 e 1904 gli allevamenti di baco da seta avevano occupato una vecchia casa colonica ma nel 1905 si intendeva restaurare una vecchia brigattiera ovvero un locale che era stato specificamente usato per l’allevamento dei bachi da seta per ricavarne un piccolo allevamento sperimentale.

L’Orto Botanico di Lecce
La nascita dell’Orto Botanico di Terra d’Otranto è legata in qualche modo alle novità introdotte dalle riforme napoleoniche nel Regno di Napoli. Tra queste novità, un posto di rilievo occupa l’istituzione, in ogni capoluogo del Regno, delle “Società di Agricoltura” che diventeranno, uno degli elementi catalizzatori più importanti per la divulgazione e la ricerca scientifica nelle diverse province. A Lecce, la “Società di Agricoltura di Terra d’Otranto”, ebbe come sede l’ex convento dei Cappuccini dell’Alto con annesso il giardino per la realizzazione di un “orto agrario” nei pressi
della stazione ferroviaria (1810). Alla sua direzione come “segretario perpetuo” si susseguirono Cosimo Moschettini (1747-1820) e dal 1835 Gaetano Stella (1787–1862) fino alla sua morte. Lo Stella diede notevole impulso alle iniziative della Società, tra cui l’istruzione, l’“addestramento” e la didattica considerate attività molto importanti. Altre personalità di rilievo che animarono la vita dell’Orto furono Pasquale Manni (1745-1841) e Oronzo Gabriele Costa (1787-1867). Dopo la scomparsa dello Stella, l’Orto Botanico, che era stato ampliato fino a raggiungere la superficie di circa tre ettari e arricchito di molte collezioni botaniche, cominciò un lento ma inesorabile declino, tanto che nel 1872 faceva parlare uno dei più illustri scienziati salentini, Cosimo De Giorgi (1842-1922), di “decadenza” e di “splendore antico”. Uno dei motivi che compromisero la vita e le prospettive dell’Orto fu proprio lo scarso interesse che la cultura del tempo accordava ai problemi ambientali e alle tematiche naturaliste legate al territorio extraurbano, come ripeteva spesso il compianto professor Sergio Sabato (1941-1991) dell’Università di Lecce che diversi anni fa, aveva molto perorato la causa per la ricostituzione dell’Orto Botanico a Lecce.
La sua definitiva distruzione si completò nel primo dopoguerra (1929) con la costruzione della Casa Littoria (attuale Intendenza di Finanza), del Consiglio Provinciale delle Corporazioni (attuale Camera di Commercio), del Consorzio Agrario e della Casa del Latte. La testimonianza storica dell’Orto Botanico di Lecce, almeno per la parte tangibile delle tracce e dei segni del suo antico retaggio, è costituita dalla “Casa Agraria” (denominato in passato anche come “Comizio Agrario” per il fatto che vi svolgevano incontri, adunanze, lezioni, ecc.), oggi restaurata e adibita ad un Laboratorio (“Multilab”) per analisi ambientali e merceologiche della Camera di Commercio, il “fondo librario” custodito dallo stesso ente, e da alcune essenze arboree ubicate in aree destinate a parcheggio o a verde, intorno agli Uffici Finanziari in Viale Gallipoli.
Il caso ha voluto che dei dieci esemplari arborei rimasti, cinque siano di quercia Vallonea (di cui uno in ottime condizioni vegetative e di grandi dimensioni, ubicato nel cortile interno dell’edificio dell’Intendenza di Finanza) e gli altri quattro situati su un’area a parcheggio di proprietà demaniale che versavano in uno stato di relativo degrado.

La nemesi

di Pietro Gigante

Se “Parigi tenesse il mare…[1] con quel che segue, però anche noi, qui, avevamo in-sedicesimo la “corte dei miracoli”.

Tutti notavano che Brusario[2] si era fatto i soldi[3]. Specialmente quando faceva caldo[4], partiva e mancava per tanto tempo. I più informati sostenevano che andava alla montagna, che tradotto in termini geografici significa che si recava in Lucania ed in Calabria, certamente non in villeggiatura sul Pollino o in Sila o in Aspromonte, ma in quei paesi che, arroccati su cocuzzoli, sembrano paesaggi quasi inaccessibili, la cui peculiare caratteristica è sempre riprodotta nei presepi. Ma cosa facesse Brusario in quei reconditi luoghi, non era dato sapere. L’unica diceria che

Dialetti salentini/ cutreu

di Armando Polito

 

CUTREU resistente alla cottura.

Non conosco corrispondente italiano. Etimologia: da un latino *crudìvu(m)=piuttosto crudo (dal classico crudus=crudo, connesso con cruor=sangue), con metatesi di -r- [*cudrìvu(m)], passaggio -d->-t- [*cutrìvu(m)], sincope di -v- [*cutrìu(m)] e passaggio -i->-e-.

Se viene confermata, con lo stesso significato, la voce scutrèu quella s- non ha valore privativo (o estrattivo) ma, al contrario, rafforzativo (o intensivo). Essa deriva dal latino ex che vuol dire fuori da, lontano da ed ha dato vita: alla s- privativa con prevalenza dell’idea di allontanamento dal possesso, a quella rafforzativa con prevalenza dell’idea di superiorità rispetto alla norma (già presente nel latino extra e conservatasi nella stessa voce italiana).


Pagine di Antonio Leonardo Verri, a diciassette anni dalla scomparsa

per gentile concessione di Fernando Bevilacqua pubblichiamo un capitolo di Antonio Leonardo Verri, dal suo LA BETISSA. Un doveroso omaggio a diciassette anni dalla scomparsa del poeta-scrittore  salentino

  

Capitolo Quindicesimo

 

UN ADOLESCENTE CHE ABBRACCIA UNA FANCIULLA DI CUI SI È INVAGHITO,  MENTRE DUE UCCELLI GIUNONICI LOTTANO DAVANTI A LORO

 

Lettera di Alessandro

Cara madre,

sono da due mesi in questo posto, ho solo occhi per questo congegno, questo trabiccolo, come ormai lo chiamo (due grosse e belle ali, tenui e flessuose, ma nello stesso tempo compatte e senza cera) a cui lavoro anche di notte. Notti intere, notti che in altri tempi, se ci penso adesso, avrò sicuramente perduto dietro a cose stupide, ad abitudini e o rinuncie che hanno di certo minata il mio corpo. o parti di esso, inciso obiettivamente sul mio, diciamo, spirito, o, e questo mi sembra più appropriato, sul flusso di parole che da molto tempo servo e dal quale con molto probabilità, non sono servito.

Come già sai, anche se ti sei chiesta sempre il perché io continuo a scrivere, continuo a cercare parole che dicano, che facciano fede ai diversi e a volte strani momenti della mia vita, che molti dicono povera.

Coi risultati non ci siamo, ma questo non vuoi dire. Il più delle volte le parole che affibbio alle cose non reggono (che mi stia di nuovo assalendo quel solito tremore, quel solito magone?), pare, ti dicevo, non abbiano, le parole, appigli di nessun genere, e come niente come fosse la cosa più naturale del mondo mi restano in mano. Me le ritrovo a mucchio — pensa con quale mia sorpresa — nelle palme congiunte: Oddio, un tempo. col vigore che avevo, le buttavo in aria, aspettandomi, a terra toccata, di assistere e di gustare una di quelle meraviglie che salo il caso sa così bene tornire. Se il magico risultato non veniva, le ributtavo, e cosi via.

Un tempo tutto questa era possibile — e posso dirti che a tutta birra mi gloriavo di una spigolosità di linguaggio, di una sonorità che in molte occasioni vendevo come mia — oggi non più, oggi non più, oggi tutto questo non è più possibile dacché mi sono accorto che questa meraviglia sonora, guidata dal caso, non apporta un bel niente, nemmeno un effetto placebo, ai miei duri momenti, alle mie perdite e rinuncie, anzi una tendenziosità, uno sfinimento —  questo lo conosci, come conosci il mio troppo stupore l’ostinazione a leccare bruciature che non sono nate certo con me…

Comunque, alle parole condannato, parole uso. E devo confessare, registrare i vantaggi, nonostante il vuoto a volte di cui ti dicevo, che questo usar parole apporta al mio congegno. Dipende ormai da questi due quaderni (di parole, ma anche di segni e svolazzi) la costruzione del mio congegno, il portare a buon fine la mia impresa.

Cos’è questo congegno? Presto detto, non ho nessuna voglia di girarci intorno (sono già tanti i miei rovelli!), anche se quando te lo dirò, dapprima avrò quel tuo sorriso colmo di stupore, poi qualche frase preoccupata, mista a quell’accorata imprecazione che per il solito amore ti fai morire in gola…

Niente di grosso, madre, o qualcosa di grossissimo, nient’altro che un trabiccolo che in cielo dovrà portarmi, tutto qui, ecco, nient’altro…

Ecco, oggi non penso che a questo. A volte guardo con sgomento il trabiccolo: oddio, mi dico, ma gliela farò, è tempo adesso? poi quando qualcosa comincio ad andar bene, quando qualcosa di nuovo (qualche nota, qualche formuletta) c’è da appuntare sui miei quaderni, oh allora non so che cos’è lo sgomento, e tutto è furia, tutto brilla, e io sono vivo.

Ma a che serve poesia, dicevi un tempo: a che serve il ciel o puoi dire adesso, a che questo immensa voglia di alzarsi, volare?.. Colpa anche della vaghezza, madre, dello vaghezza e della stupidità della terra, della suo porosità…

Spero solo di non restare coi miei quaderni, col mio stupore, con queste svuotate parole, con i miei propositi di volo: non altro che gioco, ripetizione, bisticcio…

Ecco, tutto qui, madre, nient’altro, nient’altro se non il solito vecchio cuore tagliato a spicchi, non ancora del tutto sbrecciato, inesploso, il solito vicariante corpo squassato dai vecchi soliti colpi di tosse, il solito inverno (col solito lardo, con le solite coteche, col solito vino), il solito mattino che cola dall’argento dei cavoli e l’urgenza in ogni cosa…

E il correre stolto, e il correre continuo, con ali bianche, quasi senza corpo, verso il solito albero d’oro, verso il solito vecchio profumato eldorado.

Il Salento leccese è una pista d’atterraggio immersa nel Mediterraneo

di Antonio Bruno

Il Mediterraneo è un sistema complesso sia per le sue caratteristiche fisiche ma soprattutto per la struttura delle società che lo compongono, è ricco sia di flora che di fauna con le sue più di 100 specie forestali mentre solo 30 originano nel resto dell’Europa e circa 500 specie foraggere, un patrimonio immenso di biodiversità per tutto il pianeta.
La coesistenza tra grande proprietà fondiaria e proprietà polverizzata è un’altra delle caratteristiche dell’agricoltura del Mediterraneo. Allo stesso modo vi sono diversi sistemi di allevamento del bestiame che va dal nomadismo o transumanza dell’allevamento alla stato brado a quello nelle stalle di tipo sedentario.
Per quanto riguarda gli assetti produttivi dei territori dei Paesi che si affacciano al Bacino del Mediterraneo, sono tutti incardinati sulla triade Olivo – Vite – Grano e sull’allevamento soprattutto nomade e transumante.

Oggi nel Salento leccese viviamo il dramma dell’espansione degli insediamenti degli uomini che costruiscono case che rimangono vuote per quasi tutto l’anno sia in campagna che lungo le coste sottraendo territorio all’ambiente che come sappiamo è paesaggio rurale.
Questo mio scritto vuole contribuire alla coesistenza tra i popoli che vivono lungo le rive del Mediterraneo e dell’agricoltura moderna con quella tradizionale, di quella dell’utilizzo del territorio come paesaggio rurale in equilibrio con altri usi del territorio.
C’è più di una base ecologica nella relazione Umanità – Paesaggio. Ognuno di noi ha una relazione personale con il Paesaggio e chi si occupa di progettazione di spazi lo sa intuitivamente e il successo del suo lavoro è subordinato alla capacità di progettare uno spazio che riproduce o simula l’ambiente nel quale si sono evoluti i nostri antenati.
Ehi tu! Si dico a te! Pensaci, mentre sei in auto, mentre sei nella città a fare un giro per uffici o quando ti sei sposato o laureato eri immerso nell’artificiale città, ma c’era sempre il sole con i suoi raggi e poi le piante quell’albero che vedevi dalla finestra, insomma c’è sempre nella tua mente in ogni istante oltre all’artificiale della città anche la natura, che tu vuoi ci sia e che tu colleghi intimamente alla tua vita. E quando sei stressato che fai? Come dici? Cerchi un posto tranquillo? E forse questo posto che cerchi non ha a a che fare con la natura e con il paesaggio rurale? Un luogo in cui non c’è nessuno, non c’è anima viva, non ci sono suoni, luci o manufatti, e quando arrivi nel tuo personale e solitario giardino i tuoi sensi si risvegliano, osservi il fiore, il ramo o il filo d’erba, ascolti lo strepitìo di quello che schiacci con i tuoi piedi e ti ficchi nella realtà penetrandola, con forza, possedendola, attraversandola come si fa in un viaggio.

Il Salento leccese è una pista d’atterraggio immersa nel Mediterraneo, i suoi destini sono stati sempre legati a quelli dei paesi che si affacciano su questo mare ed è per questo motivo che è vitale per i Salentini cooperare con i popoli dell’altra riva per promuovere lo sviluppo della nostra terra e di quei territori.
La cooperazione deve essere fondata sull’agricoltura poiché i paesi della riva africana sono in una situazione di dipendenza alimentare. La cooperazione agricola tra le realtà produttive e i professionisti Dottori Agronomi e Dottori Forestali del Salento leccese con quelli dei paesi africani e asiatici deve divenire centrale proprio per questi motivi.
La nostra realtà territoriale vede il Salento leccese che non ha il problema di penuria di beni agro-alimentari, ma che invece vive il dramma delle eccedenze agricole e ha tutte le energie impegnate nel tentativo che si sta facendo di liberalizzare un’agricoltura che per decenni è stata protetta. E’ noto a tutti che sempre più si abbandona la concezione di un’agricoltura che si dedica alla produzione di prodotti agroalimentari e sempre più si sostiene il concetto di un’agricoltura del Salento leccese che produce beni di rilevanza sociale come il paesaggio, la salvaguardia ambientale e in ultima analisi la qualità della vita, poiché tutti noi del Salento leccese viviamo immersi nell’ambiente che da noi è quasi esclusivamente Paesaggio rurale.

Ma cos’è questa Agricoltura Mediterranea? E’ una REGIONE AGRICOLA che ha caratteristiche climatiche simili. Prima che la riva europea si differenziasse da quella africana l’agricoltura in tutto il bacino del Mediterraneo era caratterizzata da strutture agricole gestite direttamente dal contadino, da sistemi di agricoltura mista basata su una combinazione della produzione delle colture e dell’allevamento degli animali. La trasformazione intervenuta in Europa e nel nostro Salento leccese dovrebbe farci riflettere perché l’agricoltura mista ha costituito la base di gran parte dei sistemi agricoli di tutti i tempi perché collegava l’uso della terra alla disponibilità di concimi organici forniti dagli animali che ne conservavano la fertilità.

La popolazione del Mediterraneo, dei nostri territori Europei e delle terre che sono davanti a noi, passerà dagli attuali 450 milioni di abitanti a 651 milioni nel 2025. Ma la cosa che deve farci riflettere è che oggi la popolazione è equamente distribuita in metà nei Paesi dell’Europa del Sud e l’altra metà in quelli del Nord Africa e Asia, nel 2025 e la popolazione al di sotto dei 15 anni sarà per il 45% nei paesi della riva sud e solo per il 24% in quelli della riva nord che in termini di politiche del lavoro significa che dovrebbero essere creati più di 60 milioni di nuovi posti di lavoro per il 2025.
Ecco perché noi del Salento leccese dobbiamo contribuire allo sviluppo del Mediterraneo, che va costruito su un concetto di modernizzazione capace di rivalutare la qualità della vita nelle aree rurali e nelle società agricole e tutto questo con un modello fortemente decentralizzato della crescita economica.

La scelta dei territori in cui insediarsi è frutto di una logica stringente, infatti per tutto il Medioevo l’agricoltura montana era ricca rispetto a quella di pianura infestata dalla malaria invece risolto questo problema, oggi accade il contrario.
Noi del Salento leccese siamo maestri di delocalizzazione e decentralizzazione poiché i nostri antenati hanno potuto sfruttare solamente le acque sotterranee. Il problema dell’acqua potabile ha esercitato un ruolo primario nella scelta dell’insediamento in cui i nostri antenati dovevano costruire la loro casa. Questo fattore nel Salento leccese ha regolato le forme di centro abitato. Infatti per la scarsa disponibilità di acqua proveniente dalle falde acquifere e per la lentezza con cui ci si riforniva l’uomo è stato indotto a distanziare uno dall’altro gli insediamenti che via via si sono accresciuti per divenire piccoli centri abitati.

Io lo ricordo il secchio con la catena che scorreva nella carrucola, il tonfo che faceva quando cadeva nel pozzo “nella curte” dove si affacciava la casa dei miei nonni a San Cesario di Lecce “ allu nfiernu a rretu alla farmacia” e io bevevo quell’acqua di quel pozzo nella mia infanzia di quasi 50 anni fa. E ricordo le case in cui ho abitato prima del 1963 quando rimasi ipnotizzato alla vista del rubinetto da cui sgorgava l’acqua con un semplice svitare. Eravamo andati a vedere la nuova casa, quella che avevano assegnato alla mamma, c’era mio padre che mi mostrò quella casa vuota prima di andarci ad abitare, soprattutto mi fece presente l’assenza del pozzo e la presenza dei rubinetti che ne sostituivano la funzione. Pensate nella vecchia casa avevamo la TV ma l’acqua corrente no, l’acqua proveniva dal pozzo. Chissà quante abitazioni della riva sud del mediterraneo sono provviste di parabola per la ricezione della TV Satellitare ma l’acqua la prendono dalle cisterne o dai pozzi come noi 50 anni fa.
Il Salento leccese è una costellazione di piccoli mondi pullulanti di vita e di storia che dopo secoli in cui sono rimasti dimenticati oggi possono uscire dal letargo e divenire protagonisti di cooperazione con la riva Sud del Mediterraneo. Noi donne e uomini del Salento leccese siamo quelli che hanno costruito i fari della nostra terra, noi del Salento leccese, con il nostro duro lavoro, abbiamo innalzato le torri di difesa che osservano da secoli ogni movimento nel mare, siamo stati sempre noi che abbiamo scavato le cave di bauxite e i frantoi ipogei dove per secoli nelle viscere della terra si è prodotto l’olio che ha illuminato le strade degli Zar a San Pietroburgo in Russia, e siamo stati sempre noi che abbiamo realizzato i ninfei, le cave ipogee che fanno reggere interi oliveti e campagne sulle arcate di queste cattedrali sotterranee, che abbiamo costruito le chiese rupestri e quindi siamo stati e siamo tuttora impegnati a percorrere traiettorie alternative a metà tra il mistero e il reale, il quotidiano e il fiabesco. Noi Salentini leccesi ci candidiamo a essere la cerniera tra Europa e Sud del Mediterraneo, ci prepariamo ad ospitare nei nostri studi professionali e nelle nostre aziende i coltivatori dell’altra riva a collaborare con lor perché lo sviluppo dei popoli del Mediterraneo, senza una crescita scriteriata ma con il rispetto del territorio, è la chiave per la pace che realizza la convivenza dei popoli lungo le coste del grande lago salato.
Bibliografia

Bertrand Hervieu-Cosimo Lacirignola Dieci pilastri per l’agricoltura nel mediterraneohttp://www.agriregionieuropa.it/

CIDOB (Center) Il mediterraneo: economia e sviluppo
Dizionario Collins dell’ambiente
Franco Rizzi Un Mediterraneo di conflitti: storia di un dialogo mancato
Donato Romano Agricoltura
Visionary landscapes, “Landascape and Urban Planning” 2003 pp 1 – 3
Bruno Amoroso Europa e Mediterraneo: le sfide del futuro
Angelo Massafra Problemi di storia delle campagne meridionali nell’età moderna e contemporanea
Carmelo Colamonico Aspetti geologici e geografici del Salento
Salento d’autore. Guida ai piaceri intellettuali del territorio
Donato Valli L’onore del Salento

Beni culturali enogastronomici: una traiettoria per penetrare il Salento leccese

di Antonio Bruno

Non so voi, ma quando arriva il pomeriggio di sabato a casa mia iniziano a giungere le telefonate degli amici. Che dici? Stai tranquillo c’entra con il titolo questo fatto perché le telefonate sono finalizzate a decidere a qual’è locale dove si intende andare a cena con gli amici per prenotare un tavolo. Già! Perché se non prenoti un tavolo, il sabato rischi di passarlo ad aspettare che si liberi, perché tutti i tavoli sono occupati da altri, e le attese durano ore ed ore.
Senza dubbio il cavallo vincente delle serate prefestive e dei giorni festivi è l’offerta enogastronomica. Ma i menù che risultano gettonatissimi e richiestissimi sono quelli che offrono le primizie della campagna, le carni, i formaggi e i salumi che compongono l’ampia varietà degli antipasti e dei contorni che inondano le tavole che occupiamo con i nostri amici nei giorni di festa.

Ci dovrebbe essere un patto tra chef di prestigio, cultori di antropologia culturale, esponenti del mondo sindacale, rappresentati delle categorie del mondo agricolo, insigni scienziati, operatori commerciali, esponenti del mondo degli ambientalisti, professionisti e uomini di levatura internazionale per portare sulla tavola prodotti tipici del Salento leccese narrando agli avventori le caratteristiche di quei prodotti della terra di Lecce e guidando la consumazione attraverso la narrazione preventiva del gusto, della meraviglia degli odori, dei sapori e dei colori di quello che la terra del Salento leccese produce.

La presenza dei cosiddetti beni culturali enogastronomici nell’offerta del tempo libero è piuttosto ampia e varia. I beni culturali enogastronomici del Salento leccese costituiscono un suo Patrimonio culturale.
Il patrimonio è un complesso organico di elementi spirituali, culturali, sociali o materiali che una persona, una collettività, un ambiente hanno accumulato nel tempo. È comprensibile che nei processi di patrimonializzazione, spesso connessi al concetto di proprietà (cioè del diritto di godere e disporre di una cosa in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti fissati dalla legge), si presti grande attenzione all’appartenenza esclusiva di un certo prodotto culinario ad un determinato territorio per un arco di tempo abbastanza lungo.

Il Ministero delle politiche agricole e forestali, certifica tipicità, la tradizione e via discorrendo di un certo artefatto culinario o anche delle materie prime (piante ed animali).
Mi soffermo spesso ad osservare la realtà del nostro patrimonio enogastronomico e noto con piacere che la nostra “dimensione locale” si proietta al di la dei confini del Salento leccese quando il mio amico di Parigi esclama di stupore e di meraviglia dinanzi a un purè di fave bianche e cicorie, ed io gongolo perché sono consapevole che saper gustare quel piatto, offrirlo ai miei amici italiani e stranieri è un eredità che consegno a mia figlia, un sapere che è costitutivo della fisionomia dell’essere nati nel Salento leccese. Il gusto dei piatti che si assaporavano dalla mamma, dalle nonne e dalle zie sono veri e propri luoghi della memoria che da vita al presente per noi tutti di questa terra che si immerge nel Mediterraneo e che ci rende la guida dei visitatori che venendoci a trovare assaporano il gusto della nostra accoglienza attraverso il tiepido calore dei nostri piatti.

Ho notato che quando fornisco spiegazioni alle persone sui cibi che stiamo mangiando ecco che si accende l’interesse e mi piace guardare i miei amici mentre faccio la narrazione perché ormai seguono continuità, coerenze, “piste” e direttrici sempre più imprevedibili e meno scontate. Ho potuto notare che partendo dal territorio di una Comune del Salento leccese e dai suoi confini si può arrivare sino ad ambiti interprovinciali sino a quelli internazionali.
E quando mi vengono a trovare ecco che spesso mi accorgo che se immagino di fargli fare un itinerario ecco che istintivamente nella mia mente si forma una rete di “attrattori” culturali e non: ad esempio un itinerario turistico in cui vi sia un importante complesso di dimore storiche come è quello della centro storico di Lecce e nelle tappe successive beni paesistici, ambientali ed eno gastronomici. Mi viene naturale portare i miei amici nei boschi degli olivi della provincia di Lecce, fargli gustare le nostre focacce, il pane farcito di olive.

Ogni tanto osservo questo meraviglioso Salento leccese leggendo le insegne degli itinerari culturali propriamente detti che sono affiancati dagli itinerari enogastronomici, strade del vino e strade dell’olio e mi dico che tutto questo è intrecciato con la valorizzazione del paesaggio e dei beni culturali presenti nel nostro territorio.

Io non comprendo perché quando si parla di valorizzazione dei beni culturali ci si riferisce solo ai luoghi e istituti della cultura ma non si prenda in considerazione quella che è una tipica attività di valorizzazione del patrimonio culturale presente nel territorio con la costituzione degli itinerari culturali. In questo contesto i Dottori Agronomi ed i Dottori Forestali costituiscono una risorsa per il territorio del Salento leccese che è così diversificato proprio perché deriva da diversi patrimoni di costituiti dalle diverse culture agricole del nostro territorio.
I Dottori Agronomi ed i Dottori Forestali possono rappresentare la risorsa formidabile del Salento leccese perché potranno provvedere alla riunificare e ricontestualizzare degli aspetti del Paesaggio rurale e del patrimonio enogastronomico del Salento leccese che si sono progressivamente allontanati dalla loro unità originaria e dono stati separati dal nostro territorio in cui sono nati e dalle funzioni per le quali erano stati prodotti.

Bibliografia

Alessandra Guigoni: I beni enogastronomici nella Rete italiana: un’introduzione
Baicr Sistema Cultura: Musei del gusto. Mappa della memoria enogastronomica
Giorgio Castoldi: La guida turistica. Manuale di preparazione all’esame di abilitazione: beni culturali ed ambientali, geografia, cultura locale, tecnica professionale, normativa
Francesca Ricciardi: Il viaggio dell’innovazione. Informatica, beni culturali e turismo
Francesco Forte-Michela Mantovani: Manuale di economia e politica dei beni culturali
Valentino Baldacci: Gli itinerari culturali. Progettazione e comunicazione

Dialetti salentini/ ngafare

di Armando Polito

 

 

NGAFARE: far entrare premendo; sprofondare nel fango. Le varianti ‘ncafàre di San Cesario di Lecce e Manduria e ‘ncafàri di Mesagne consentono con sufficiente sicurezza di affermare che il corrispondente italiano è incavare, dal latino incavàre, composto da in=dentro e cavus=cavo. Difficoltà fonetiche insormontabili impediscono di collegarlo a nghièfa=zolla , dal latino gleba con l’influsso dell’osco *glifa. Tra l’altro, contrariamente a quanto è stato detto in questo blog (naturalmente il padre o la madre di ogni proposta hanno il diritto di replica…), il latino gleba (e il neritino nghiefa) non hanno come radice primaria “geo” (dal greco ghe=terra) ma gl-, cioè lo stesso di globus (da cui l’italiano globo) e glomus (da cui l’obsoleto ghiomo che poi ha dato vita, incrociandosi con gomito, a gomitolo), con evidente riferimento alla forma più o meno arrotondata della zolla.

L’Agricoltura sostenibile soluzione per una vita sana e piacevole

di Antonio Bruno

L’agricoltura è definita come l’insieme delle attività pratiche che riguardano la coltivazioni delle piante utili all’uomo e ai principali animali domestici. Quindi è evidente che essendo una attività pratica rappresenta un’azione diretta dell’uomo nei confronti dell’ambiente che si rivolge a quanto c’è di utile nel complesso sistema naturale. L’attività dell’agricoltura è antica al punto che è difficile immaginare oggi l’aspetto delle zone prima che l’agricoltura, con la sua azione, ne trasformasse l’aspetto.
Ecco perché sostengo che l’agricoltura interessa il territorio e l’ambiente. L’agricoltura utilizza oggi circa un terzo della superficie terrestre emettendo nel contempo quantità enormi di gas serra in atmosfera.

Per questo l’agricoltura stessa è considerata a maggior rischio di impatto sui cambiamenti climatici. E’ evidente che la sua introduzione sfrutta le potenzialità del territorio convivendo con tutto il sistema naturale, senza dimenticare che lo scopo dell’imprenditore agricolo è quello di cercare soluzioni tecniche che lo facciano guadagnare migliorando la produzione.
L’agricoltura è in relazione con l’ambiente circostante da cui subisce l’influenza e a cui fa subire delle influenze.

Negli ultimi 150 anni le attività agricole hanno emesso circa 200 miliardi di tonnellate di carbonio (Gton C) ecco perché a partire dai primi centri di produzione in Mesopotania 10.000 anni fa ad oggi l’agricoltura è diventata un agente di impatto ambientale.
Si parte dal presupposto che noi scegliamo di coltivare una pianta in un determinato territorio perché il clima è adatto alla coltivazione di quella pianta e per questo le terre coltivate occupano 1,5 miliardi di ettari e rappresentano il 10% della terra emersa libera dai ghiacciai, 3,5 miliardi di ettari sono utilizzati per il pascolo degli animali e infine 200 milioni di ettari circa sono destinati alla produzione forestale.
L’agricoltura però si sta integrando nel sistema ambientale verso la tutela del territorio e del paesaggio.
Il 2009 è stato l’anno al quinto posto tra gli anni più caldi degli ultimi due secoli in Italia Il consumo di energia elettrica, che ha fatto segnare il calo peggiore dal 1945, anche per effetto della crisi economica. I dati dell’Istituto di Scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche di Bologna (Isac-Cnr), non lasciano spazio a dubbi, le temperature medie del 2009 sono state superiori di 1,15 gradi rispetto alla media di confronto del periodo 1961-1990. Dopo che il 2008 si era già classificato al settimo posto tra gli anni più caldi dal 1800, mentre il record assoluto degli ultimi due secoli resta assegnato al 2003.

I cambiamenti climatici in corso si manifestano anche con una più elevata frequenza di eventi estremi, con sfasamenti stagionali, precipitazioni brevi e intense, un maggior rischio di gelate tardive, l’aumento dell’incidenza di infezioni fungine e dello sviluppo di insetti come le cavallette, la riduzione della riserve idriche.
Ma ci sono altri effetti di questi cambiamenti? Sulle piante l’aumento della anidride carbonica provoca l’accumulo della sostanza secca e un maggior uso dell’acqua, l’aumento delle temperature influiscono sulla durata del ciclo vegetativo e fanno cambiare le zone di coltivazione, la pioggia e il vento agiscono sull’accumulo della sostanza secca.
I mutamenti climatici impongono di adottare delle strategie sia agronomiche che economiche e politiche al fine di sfruttare al massimo le potenzialità che i mutamenti offrono e di non subirne i danni.
E’ da considerare il fatto che l’effetto dell’aumento dell’anidride carbonica ha avuto come conseguenza in un esperimento in Arizona che la resa del cotone è cresciuta del 60% e quella del grano più del 10% rispetto alla resa di piante coltivate in ambienti con concentrazioni di anidride carbonica nella norma. L’aumento di 1 grado di temperatura giornaliera media nella stagione di crescita avrebbe come conseguenza quella di spostare verso nord le zone di coltivazione e nel caso specifico negli USA si sposterebbe verso nord il “corn belt” che è la fascia di maggior produzione del mais.

Il Centro di ricerca sui cambiamenti ambientali dell’Università di Oxford ha condotto in collaborazione con colleghi Dottori Agronomi di 18 Paesi del mondo uno studio che aveva l’obiettivo di esaminare gli impatti regionali e globali dei mutamenti climatici sulla produzione agricola mondiale.
Uno dei risultati principali di tale studio è che gli effetti negativi delle variazioni climatiche verranno parzialmente compensati dall’aumento della produttività che è la conseguenza dei maggiori livelli di anidride carbonica. Comunque lo stesso studio prevede che vi sarà un aumento della produttività nei paesi sviluppati e una diminuzione in quelli in via di sviluppo. La diminuzione è soprattutto quella della produzione mondiale dei cereali e le conseguenze negative saranno soprattutto per i paesi poveri. E poi, proprio per non farci mancare nulla, in molte di queste regioni povere con condizioni estremamente limitanti per l’agricoltura i modelli prevedono un ulteriore peggioramento del clima.

Concludo questa breve esposizione sperando che il governo vari al più presto una regolamentazione, con relativi registri, sui crediti di carbonio anche in agricoltura. Il Prof. Cristos Xiloyannis dell’Università della Basilicata è arrivato alla conclusione dopo una ricerca che un oliveto sostenibile produce di più e con qualità comparabile a quella di uno tradizionale. Gli studi del professore hanno avuto la durata di 8 anni e si è potuto rilevare che la media produttiva dell’oliveto condotto secondo il metodo sostenibile è stata di 9,7 tonnellate per ettaro d’olive contro le 4,2 dell’oliveto condotto secondo il modello tradizionale.

Adottare un sistema sostenibile dunque conviene, anche sotto il profilo economico ma è anche una scelta che preserva la fertilità del terreno a beneficio delle generazioni future. Infatti con l’utilizzo della sostanza organica si ottiene l’effetto del ripristino della fertilità e di scongiurare il rischi della desertificazione.
Infine coltivare in modo sostenibile conviene e infatti se andiamo a vedere i conti economici effettuati sulla base della ricerca del Prof. Xiloyannis un’azienda condotta secondo il metodo sostenibile sarà in attivo per circa 4800 euro/ettaro/anno mentre col metodo convenzionale ci si dovrebbe accontentare di soli 21 euro/ettaro/anno.

Il concetto di sostenibilità è vincente e se applicato all’agricoltura che è l’ambiente dell’Italia il cui territorio quasi per l’ intera superficie è Paesaggio rurale. L’agricoltura sostenibile ha la conseguenza di farci vivere in maniera sana e piacevole.

Bibliografia

Le colture del Mezzogiorno emigrano al Nord, in “Finanza e Mercati” 13 gennaio 2010 pag 9
Flora Pagetti Il riscaldamento del pianeta
Bindi Effetto dei cambiamenti climatici sui componenti del sistema agricolo 2003
Intergovernmental Panel on Climate Change, 2001 a
Thomas M. Smith-Robert L. Smith Elementi di ecologia
Antonello Pasini Kyoto e dintorni. I cambiamenti climatici come problema globale
Francesca Giusti La nascita dell’agricoltura: aree, tipologie e modelli
Luca Colombo-Antonio Onorati Diritti al cibo! Agricoltura sapiens e governance alimentare
Alberto Grimelli Un’olivicoltura con un occhio all’ambiente. Una sfida prima di tutto economica

Primo maggio, tradizioni popolari a Nardò

di Marcello Gaballo

Fino ad una ventina d’anni fa il primo maggio era particolarmente atteso dai bambini di Nardò per una usanza loro spettante, tanto da farne la loro festa, come mai sarebbe potutto accadere nel resto dell’anno.

Appena svegli e subito dopo la colazione si ritrovavano con gli amichetti, ognuno provvisto di un vassoio (la quantiera), e giravano tra le abitazioni di amici e conoscenti, comunque del quartiere in cui risiedevano, bussando alle loro porte e presentando agli abitanti quel vassoio dopo avergli proferito: lu pumu di maggiu (ancor più lontano negli anni quel maggiu era detto masciu).

Era doveroso ricompensare il piccolo questuante con un dono: biscotti, un tarallo, qualche caramella o i più rari cioccolatini; se proprio non si disponeva di alimentari e dolciumi si poteva riporre qualche soldino (cinque, dieci lire di allora).

Ricordo che spesso nel mio vassoio qualche solita taccagna riponesse uno-due baccelli di fave verdi, in quella stagione nel pieno della produzione, il più misero tra i doni desiderabili, visto che nei giorni precedenti avevamo già fatto man bassa negli orti vicini alle nostre case.

Quando il vassoio era colmo ci si ritrovava con gli altri amici sui gradini della vecchia casa abbandonata per godere dell’abbondanza ricevuta, magari riflettendo sulla bontà di tale zia o dell’altra vicina che, sebbene disturbasse a tutte le ore per chiedere alla mamma il solito sale o caffè improvvisamente terminato, si era limitata a riporre nel mio luccicante vassoio inox decorato in stile rocaille una sola fava verde (che ancora oggi si chiama ùngulu) o una misera caramellina al limone, che era il gusto generalmente evitato nel già magro assortimento di caramelle miste.

Ci si scambiava con gli amici più cari un dolcetto (magari lui ne aveva avuti due-tre dall’amica fidata della sorella o dalla zia notoriamente ricca). I più preziosi tra i doni erano le monete di cioccolato e per averne una dal compagno di gioco si sarebbero cedute anche tre figurine Panini o il ricercato Omar Sivori (per avere Boninsegna invece si sarebbe dovuto cedere quasi tutto il vassoio).

Inutile dirlo che le più inflazionate erano le fave verdi, vista l’ampia disponibilità nei campi, ma noi soliti bambini terribili avremmo comunque gareggiato per vedere chi avesse ricevuto quella più lunga o la più bizzarra. Una insolita forma subito ci avrebbe ispirato di piazzargli quattro mezzi stuzzicadenti, quasi fossero gli arti di una strampalata pecorella. Tutte insieme improvvisavano un gregge e gli amici più cari consentivano che la pecorella del vicino restasse affianco alla propria, allontanando quella dell’antipatico mascalzone, quasi vendicandosi del torto subito qualche giorno prima o magari per non aver condiviso con i restanti i frutti della questua giornaliera.

Il gregge sarebbe rimasto lì, in posa, per qualche decina di minuti, magari aspettando che le amichette fossero finalmente lasciate in libertà dalle mamme e venire dunque a godere della mostra improvvisata sullo scalone sgaruppato. Erano particolarmente gradite le critiche, senza però esagerare, perchè un giudizio severo sulla zampa più corta o più lunga rispetto alle altre le avrebbe escluse dal bottino che avevamo faticosamente messo su dopo tanto peregrinare.

Il gruppo raramente diventava branco (almeno nel mio quartiere e per quello che posso ricordare), ma spesso il gregge fantasiosamente messo su veniva assalito dal lupo vorace che il solito bullo del quartierino si era costruito con la fava portatasi da casa, senza neppure girare di porta in porta. Si era svegliato due ore dopo di noi, aveva fatto colazione con gli squisiti biscotti a tre buchi della Doria, si era fatto costruire il lupo dalla sorella maggiore e veniva di proposito tra noi per rompere il sogno concretizzato in quella misera galleria d’arte.

Lo ricordo ancora il gradasso, ma sfuma nella mente la sua arroganza, mentre resta indelebile il piacere dello
stare con gli altri, della creatività, della fantasia, della solidarietà, della compartecipazione, del vantaggio di restare insieme per fronteggiare il nemico e per far sapere alle bande vicine chi comandava in quel quartiere.

Nardò. Vicende della masseria e del feudo di Ogliastro

 

di Marcello Gaballo

Sulla strada Nardò-Copertino, a circa quattro chilometri da quest’ ultima, da secoli esiste la masseria Ogliastro o Olivastro, comunemente nota come Ghiassciu, tra le più antiche del nostro territorio.

Raggiungibile mediante un tratturo alberato con maestosi pini, e per questo ben visibile da gran distanza, rappresenta un altro dei più bei complessi masserizi, questa volta con tipologia di villaggio sviluppatosi in più riprese attorno ad una torre tre-quattrocentesca.

viale alberato per cui si giunge alla masseria Ogliastro, visibile sullo sfondo (ph M. Gaballo)

 

È questa l’ elemento principale del casale, già esistente ed abitato nel medioevo, posta tra il cortile ed il giardino, imponente ma ben slanciata, con importante arco ricavato nel suo spessore e con decorazioni scolpite nella parte più alta, dove trova posto anche uno stemma illeggibile.

Le decorazioni vengono riprese sul massiccio fabbricato cinquecentesco, posto a destra della torre ed adibito a deposito, anche questo singolare per l’ incredibile spessore murario e per le interessanti finestre centinate, molto simili a quelle della masseria Trappeto nell’ Arneo.

I diversi locali di lavoro e le numerose abitazioni del personale, gli abbeveratoi, le stalle, i fienili, le poderose mura perimetrali a secco, il portone d’ ingresso e l’ immancabile chiesetta, testimoniano la frenetica attività masserizia nelle diverse epoche, che perciò ben meritava di proteggere la sua produzione dalle incursioni barbaresche prima e dai briganti dopo.

In discrete condizioni statiche e altrettanto discreto stato conservativo è disabitata, ridotta a solo deposito di materiale ed attrezzature agricole.

Rimando ai pochi testi che trattano di questa ed altre masserie per ulteriori notizie sull’ architettura e sulle dinamiche agricole del complesso, comunque poco noto e meritevole di adeguata attenzione, specie in tempi come questi in cui si auspica il rilancio dell’ agriturismo salentino.

Quasi del tutto sconosciute sono invece le vicende storiche di questa masseria e dell’ omonimo feudo, che si estende sino alla strada Nardò-Avetrana, compreso tra quelli di Puggiano, Castro e S. Andrea.

Ogliastro compare per la prima volta in documenti del 1272, essendo di proprietà dei De Bellovedere, dai quali passò poi agli Arena Conclubeth, che ancora lo possedevano nel 1377.

Tornato alla Regia Corte fu venduto a Roberto Capano, quindi a Orazio Tuttavilla, da cui ai Minutolo, che nel 1516 lo cedettero al napoletano barone di Barbarano Giancola Capite.

Come sempre sono gli atti notarili a fornirci i chiarimenti per le vicende nei secoli successivi al XV. Da alcuni di essi infatti apprendiamo che dall’ ultimo proprietario il feudo fu venduto ad un altro napoletano della famiglia Gaetani, imparentato con gli Acquaviva di Nardò, la cui figlia lo portò in dote al marito Spinetto Maramonte, leccese, col quale generò, tra gli altri, Marsilio, che risulta barone di Ogliastro già nel 1572 e almeno per un altro decennio.

Nel 1582 infatti Marsilio lo vende al barone Vitantonio De Pantaleonibus …che compra quel castello per ducati diece mila cinque cento colla bagliva, e colla giurisdizione civile, criminale e mista, quindi per 10.500 ducati, cum bajulatione del Banco di Giustitia di Napoli, come si legge nei privilegi del duca di Ossuna spediti nello stesso anno.

Tre anni dopo il casale viene affittato a Massenzio Martina da Lequile e la masseria, a pieno regime lavorativo, risulta provvista di forno, mulino, apiario, con diversi terreni, vigneti, oliveti e pascoli, oltre a possedervi lo jus pasculandi et herbagiorum, consistente pure in aquis, jure aquarum, paludibus, domibus, jardenis, curtibus, puteis, cisternis.

Vitantonio ebbe come discendenti solo delle femmine e alla primogenita Antonia donò il feudo e la masseria, per portarli in dote al suo secondo marito Lucantonio Personè (è di entrambi infatti lo stemma partito, tuttora visibile sul portone d’ ingresso alla masseria).

Ai Personè il feudo rimase per tutto il periodo successivo e sino all’ eversione della feudalità, persistendo invece il possedimento della masseria, che nel 1934 è di Francesco Personè; avutolo per eredità della madre Elena di Michele Personè.

In tale anno, come risulta negli atti dell’ Intendenza di Finanza conservati nell’ Archivio di Stato di Lecce, la si dichiara con estensione di 335 ha e viene stimata del valore di un milione di lire. A causa di un grave dissesto finanziario, che aveva fatto perdere alla nota famiglia neritina moltissime altre proprietà altrettanto consistenti, la masseria fu venduta all’ asta e mai più ricomprata dagli eredi o parenti… ma questa è storia dei nostri giorni.

Oggi parliamo di vino, il “merum” pugliese

di Antonio Bruno*

E’ emerso che nella grande distribuzione organizzata (gdo) Negroamaro e Primitivo sono i due vini in Italia in maggiore crescita percentuale delle vendite. Quando c’è la possibilità di sviluppo ecco che i muri si abbassano, le bocche dei compratori si schiudono in sorrisi accattivanti e i viticoltori che producono per le aziende che vendono si sfregano le mani.

Era comunissima la scritta VINO su una porta che in maniera semplice ma espressiva indicava nel mio paese la presenza di un luogo in cui si vendeva il vino. Si andava con la bottiglia di vetro e l’oste provvedeva a riempirla. Ricordo il costo di 150 lire di un litro di vino, nel 1965 e giù di li e le frequentazioni di queste “putee” così si chiamavano, chi ci andava spesso erano gli uomini anziani, con la còppola, che giocavano con il libro di 40 pagine, le 40 carte napoletane, a scopa, briscola, stoppa. Tanti tavolini e le sedie di paglia, il fumo denso che invadeva la sala e il bicchiere di vino da ½ 5° che adornava la mano destra dei nonni di allora presenti in queste aggregazioni maschili che invece adesso vanno sempre più scomparendo. Quindi il vino era una parte integrante del tessuto urbano delle oasi del Salento leccese, con il profumo di mosto e di cucina casareccia che a base di pezzetti di carne di cavallo (pezzetti e mieru) e uova lesse accompagnava le laute bevute dei nonni degli anni ’60.

Sono trecentomila gli ettolitri di vino Doc (Denominazione d’origine controllata) e l milione 350 mila gli ettolitri di vino Igt (Indicazione Geografica Tipica) prodotti in Puglia, su una superficie complessiva di 23mila e 616 ettari nel 2009.
L’imbottigliamento è raddoppiato in 5 anni ed è pari a circa 615.000 ettolitri che rappresenta il 30% della produzione totale di vino.
L’agricoltura della provincia di Lecce ha negli ulivi con circa 85.000 ettari che rappresentano il 52% della superficie agricola totale e nelle viti con circa 10.000 ettari che sono il 6% della superficie agricola totale e quindi rappresentano i boschi che la caratterizzano da migliaia di anni.

Le prime notizie sul vino pugliese, che risulta già presente sulle tavole imbandite dell’antica Roma, ci giungono dagli scritti di Tibullo, Plinio il Vecchio e Orazio, che elogiano nelle loro opere il profumo, il sapore e il colore del vino pugliese, descrivendone anche i processi di coltivazione e vinificazione. Plinio citava sempre i vini di “Canosium” e di “Brundisium”, Orazio li decantava nel suo “Merum Tarentinum”. Lo stesso termine “merum”, in latino, identificava il vino pugliese, puro, genuino e corposo, per distinguerlo dal tipo semplice, che i Romani chiamavano “vinum”.
Il termine è in uso ancora oggi nel dialetto pugliese, riadattato in “mjere” o “mjeru”.
Da quando circa 45 anni fa mi recai con mio padre a Novoli per la “Focara” mi incuriosisce molto il vino moscato. A Novoli oggi si organizzano quelli che pomposamente vengono definiti “i giorni del fuoco”, in quegli anni si organizzava la focara il 17 gennaio in onore di Sant’Antonio Abate e nelle strade c’era il fornello con la carne arrosto e la bottiglia di moscato. Il Moscato (Filtrato dolce) si ottiene con un’ operazione che consiste nel far passare il vino attraverso membrane sufficientemente serrate da trattenere le parti solide in sospensione. Questa tecnica permette di ottenere vini limpidi e brillanti, con effetti più radicali che non attuando le semplici operazioni di travaso. Una filtratura molto spinta permette ai vini dolci e ai vini bianchi di acquisire maggiore stabilità.
Il mosto che deriva dalla pigiatura è un liquido acquoso in cui sono disciolte le numerose sostanze contenute negli acini dell’uva. Oltre all’acqua sono presenti zuccheri, acidi, sali minerali, sostanze azotate, vitamine e naturalmente i lieviti, che sono i microrganismi in grado di far avvenire la fermentazione. Possiamo avere ad esempio il mosto concentrato, il filtrato dolce (detto volgarmente Moscato) e il mosto muto. Il mosto concentrato è ottenuto con un processo industriale attraverso il quale viene eliminata acqua portando la concentrazione di zuccheri fino al 50-70%. Il filtrato dolce è un mosto dal quale sono state tolte, con particolari processi di filtrazione, le sostanze azotate indispensabili ai microrganismi della fermentazione per cui si creano le condizioni perché questa non avvenga. Anche nel mosto muto la fermentazione viene bloccata, ma in questo caso per l’aggiunta di una forte dose di anidride solforosa.
Ma come si possono produrre filtrati dolci? O per essere più precisi come possiamo produrre il moscato? Oggi il problema non esiste anche per le piccole cantine, il processo fermentativo è del tutto controllato ed avviene quando e come si vuole. Ma nel passato? Nel 1935 che accadeva? Eccone una breve descrizione per non dimenticare.

Per quanto riguarda i filtrati dolci rossi per ottenere un buon prodotto bisognava partire da una ottima uva. Era opportuno scegliere le uve più zuccherine e dopo era necessario che l’uva venisse pigiata con le pigiatrici – diraspatrici e , prima di giungere nel palmento, doveva attraversare un apparecchio chiamato solfitatore – diffusore.
Tutto questo era consigliato nel 1935 dal Dott. Emilio Severi che spiegava anche che il solfitatore – diffusore con il movimento di diversi congegni che iniettava l’anidride solforosa liquida o in soluzione, nella massa pigiata, favorendo l’intimo contatto con la buccia e la perfetta distribuzione. Sempre il solfitatore – diffusore attraverso un energico rimescolamento di tutta la massa, otteneva la rottura delle cellule della buccia e in tal modo favorendo una più facile e abbondante dissoluzione della materia colorante.

La quantità di anidride solforosa somministrata per quintale di uva pigiata variava da 20 a 30 grammi. Le raccomandazioni pratiche per una buona riuscita consistevano nell’arieggiare la massa per ottenere una rapida moltiplicazione del lievito che consumerà buona parte delle sostanze azotate. Per effettuare l’arieggiamento il Dott. Emilio Severi consigliava di utilizzare le comuni pompe da travaso. La raccomandazione era inoltre di eseguire diverse follature, ovvero l’operazione eseguita prevalentemente per rompere, affondare e disperdere il cappello di vinacce che si forma nella vinificazione in rosso e che tende a disporsi in superficie, per azione delle bollicine di anidride carbonica, che si forma durante la fermentazione, aumentando il pericolo di acetificazione. Naturalmente quando l’uva pigiata attraversava l’apparecchio solfitatore – diffusore le follature divenivano più brevi.

Sia gli arieggiamenti che le follature dovevano essere eseguite nel giusto limite al fine di impedire che la massa prendesse una fermentazione tumultuosa che sarebbe stata un inconveniente tale da far ottenere mezzi filtrati che presentano molta difficoltà nella filtrazione. La macerazione non doveva andare oltre le 48 ore. Poi si interrompeva dividendo il mosto dalla vinaccia e lasciandolo defecare per qualche tempo prima di passarlo al filtro. Questa modalità operativa faceva in modo che il lievito continuasse a consumare le sostanze azotate e contemporaneamente si otteneva il risultato per cui il mosto si spogliava di materie estranee e in questo modo era più facile procedere alla filtrazione.
In pratica la separazione del fermento si otteneva tramite la filtrazione.

Già in quel periodo si diffondeva nella grande industria l’impiego delle centrifughe De Laval note per la forte capacità lavorativa, la grande efficienza che evitava le perdite dell’alcol e che infine assicuravano la buona conservazione del prodotto.
Anche la pastorizzazione era una delle tecniche suggerite.
Nella pratica però si ricorreva alla filtrazione e nel 1935 veniva usato il filtro olandese.
Il filtro olandese si può costruire in cemento o in legno, la costruzione in cemento era quella che il Dott. Emilio Severi suggeriva perchè di più perfetta tenuta e facile pulizia.
Nella costruzione del filtro vi era la necessità che i sacchi filtranti fossero posti a giusta distanza e di pronto controllo, infatti bastava che un solo sacco non filtrasse bene perchè il filtrato cominciasse subito a rifermentare.
Procedendo alla filtrazione si riempiva di mosto la vasca porta sacchi e se si aveva la necessità di ostruire la porosità dei sacchi si aggiungeva carbone vegetale, fibrina, colla e si aprivano contemporaneamente tutti i fori in modo che il mosto attraverso i sacchi passasse nella vasca portante.

L’operazione continuava con una pompa per mandare il liquido nella vasca porta sacchi sino a che non si fosse ottenuto un vino perfettamente limpido.
All’epoca ogni filtro aveva un ricambio di sacchi al completo in maniera tale che mentre i sacchi lavorano donne esperte lavavano in acqua corrente i sacchi che poi avrebbero sostituito quelli che stavano lavorando.

Per avere un buon funzionamento del filtro la vasca porta sacchi doveva avere un livello e il liquido da filtrare doveva trovarsi sempre alla giusta altezza e doveva avere una capacità sufficiente a contenere tutto il mosto della vasca porta sacchi e dei sacchi filtranti. Si raccomandava di porre attenzione affinché il locale in cui si filtrava fosse lontano da quello destinato alla fermentazione. Il filtato veniva deposto entro fusti preventivamente sterilizzati. Le botti di filtrato venivano poi conservate in luogo fresco e ventilato. Si usavano piccoli fusti perchè in questi contenitori era difficile che riprendesse la fermentazione e si prestavano meglio per altri lavori e per rifiltrare.

Bibliografia

5° Censimento generale dell’Agricoltura
A. Calò, “L ‘evoluzione della viticoltura pugliese in relazione al vitigno quale fattore di qualità” (Rivista di Viticoltura e di Enologia di Conegliano, n. 9, settembre 1986, pagg. 374 – -103).
Saverio Russo Paesaggio agrario e assetti colturali in Puglia tra Otto e Novecento
Lorenzo Tablino Moscato: come si stabilizzava
Lorenzo Tablino IL MOSCATO BIANCO DI CANELLI: STORIA E INNOVAZIONE

Cacciatore di piante del Salento leccese

di Antonio Bruno*

Nei giorni scorsi (24-25 aprile 2010) a Leverano (Lecce) si è tenuta la manifestazione “Note Fiorite”. Si suggerisce di effettuare prove di germinazione su piante spontanee della flora del Salento leccese per verificare la loro attitudine ad essere propagate e studi sulla fisiologia e sulla conservazione dei fiori recisi dopo che sono stati raccolti.

Leverano in fiore 2010 (ph P.P. Tarsi)

 

Ci sono gli ambienti naturali ed esistono i tentativi di riprodurre la loro bellezza sui balconi delle nostre case o, per i più fortunati, nei giardini che precedono o succedono le nostre case oppure negli spazi verdi che occupano le nostre città rendendole più simile a una condizione di vita naturale.

Il paesaggio antico è stato decantato dai poeti e studiato e dipinto dagli artisti e noi non facciamo che tentare di averlo nelle nostre case. Gli inglesi sono stati i primi a copiare l’arte dell’uomo e, dai tratti che ricavavano dai paesaggi dipinti, tentavano di adattarli ai loro giardini. Insomma gli inglesi hanno il merito di aver tentato di adattare il Paesaggio dei dipinti ai loro giardini. Questa influenza è giunta anche nel Salento leccese dove la produzione vivaistica ed il commercio delle specie ornamentali sono orientati prevalentemente su specie esotiche che spesso hanno difficoltà ad adattarsi completamente alle nostre condizioni ambientali.

E’ interessante quanto realizzato dal Dipartimento di Agronomia, Selvicoltura e Gestione del Territorio – Università degli Studi di Torino, Facoltà di Agraria, dove si è tentato di individuare specie autoctone di Campanula per poterle poi utilizzare come pianta da vaso fiorito, pianta da giardino o come fiore reciso.

Leverano in fiore 2010 (ph P.P. Tarsi)

 

Sono state effettuate prove di germinazione per verificare la loro attitudine ad essere propagate e studi sulla fisiologia e sulla conservazione dei fiori recisi dopo che sono stati raccolti. In questo caso la ricerca ha dimostrato che possono essere utilizzate le Campanule perchè la varietà detta Spicata e quella Rapunculoides hanno una percentuale di germinazione del 70% alla temperatura media di 14°C e sempre la Campanula Rapunculoides sottoposta a prova di conservazione del fiore reciso ha ottenuto una buona conservazione di 4 – 6 giorni dimostrandosi adatta alla vendita dei fiorai.

L’esperienza torinese può divenire l’esperienza di Leverano? Insomma “Note Fiorite”, la manifestazione che si è svolta il 24 e 25 aprile 2010, nata per far apprezzare e esaltare i siti di maggior richiamo, che si è dimostrata in questi sei anni in grado di creare interesse per la natura e il territorio, sarà in grado di raccogliere la sfida per l’arricchimento culturale e l’innovazione individuando specie tipiche del Salento leccese e di Leverano in particolare, per poterle poi utilizzare come pianta da vaso fiorito, pianta da giardino o come fiore reciso?

Leverano in fiore 2010 (ph P.P. Tarsi)

 

Mi verrebbe da fare una domanda ai floricoltori di Leverano. Me lo immagino il mio amico Mimino di Leverano che ha fatto la sua azienda in cui produce fiori e piante per i giardini e quindi è anche un vivaio in cui vive e svolge il suo lavoro di ogni giorno. Io ti chiedo Mimino: “Tu sai perchè hai fatto la tua azienda in cui produci piante e fiori che assomiglia a un giardino?” E’ come se ti vedessi, non sai cosa rispondermi vero? Sei sorpreso? Non lo sai? E allora te lo dico io, era scritto nel tuo patrimonio genetico, nel tuo DNA, era scritto che tu dovevi fare quel giardino.

Io sono convinto che tu aspettavi la primavera, dopo il freddo dell’inverno per vedere i fiori che sbocciano, come adesso, e che sei stato sempre trascinato in immagini delicate che sorgevano nella tua anima quando rimanevi immerso nei profumi delle foglie e travolto da tutti gli odori del mondo vegetale che ti circonda. Quando sei cresciuto caro Mimino allora hai voluto fare di questa tua passione per la natura il tuo lavoro. Questo sei! E questo sono i nostri florovivaisti, donne e uomini del Salento leccese che da sempre sono rimasti incantati a guardare la corolla di una margherita, o paralizzati e pieni di meraviglia davanti all’esplosione di un prato pieno di fiori di campo, spontanei, così com’è spontaneo sentire il cuore pieno di felicità in una bella giornata d’aprile con l’aria tiepida che ti accarezza il viso e i profumi delicati che inondando i tuoi sensi.

Se sei qui, in questo territorio, per produrre fiori e piante perchè non cerchi di individuare anche tu specie autoctone per poterle poi utilizzare come pianta da vaso fiorito, pianta da giardino o come fiore reciso? I fiori spontanei in cui anneghiamo i nostro occhi per qualche giorno ogni primavera, grazie a te amico Mimino, invece di scolorirsi ed appassire, attraverso la tua passione con l’andar del tempo acquisteranno nitidezza e flagranza e poi diverranno fioriti in eterno donandoci quei colori e quegli odori della stupenda Primavera della campagna salentina per tutto l’anno.

Foreste tropicali, barriere coralline, boschi, zone umide, pascoli alpini, dune costiere: sono alcuni degli ecosistemi dove milioni di organismi vivono in equilibrio interagendo tra di loro. Alcuni di questi ambienti ricchi di biodiversità ci sono anche nel Salento leccese ed io spero che accada a qualcuno quello che accadde a Mimino Albano negli anni 60 il primo salentino di Leverano a tentare la via della floricoltura. Mimino si trasferì a Viareggio che tra le altre cose è un centro specializzato nella coltivazione dei fiori e dopo alcuni anni, rientrò al Sud, nel Salento Leccese e iniziò la pratica floricola, dando il via a ciò che ha fatto di Leverano un paese ricco di benessere, che ha portato alla creazione nel territorio del “Mercato dei Fiori”.

Leverano in fiore 2010 (ph P.P.Tarsi)

 

Adesso caro Mimino si tratta di guardare a Leverano, alla sua pseudosteppa e alla sua gariga, si tratta di osservare le zone umide dell’Arneo, percorrere le Serre Salentine, insomma caro Mimino devi diventare “Cacciatore di Piante del Salento leccese”…….. per non morire!

Bibliografia

Ercole Silva Dell’arte dei giardini inglesi
Accati E.-Devecchi M.*-Scariot V.- Seglie L.  Valorizzazione delle potenzialità ornamentali di ecotipi locali di Campanula spp. mediante prove di propagazione e conservazione in post-raccolta
Maria Chiara Pozzana I giardini di Firenze e della Toscana: guida completa
Maria Gabriella Buccioli I giardini venuti dal vento: come ho costruito il mio giardino “secondo natura”
Touring club italiano L’Italia dei giardini

Sembra strano a dirlo, ma è così

di Pier Paolo Tarsi

È tanto piccolo questo Salento, eppure è troppo vasto. Sembra strano a dirlo, ma è così. Ci sono giorni che, per caso, si incontrano i tanti fili di una ragnatela che senza alcun senso si tesse col vivere. Quanti paradossi si creano o si sciolgono ai nodi, là, dove i sentieri si intersecano. Alcune strade si sono intrecciate pure oggi. E nessuna di queste ha una direzione precisa presa a sé.

Mi sono alzato tardi, ho l’amaro in bocca e nell’anima. È uno strano periodo questo. Sarà pure primavera, si, ma il mio è stato un risveglio nel più cupo autunno. Sarà che ho alzato un po’ il gomito ieri sera, sarà che c’è troppo disordine in casa, in me, intorno. È terminato ieri il corso di formazione che mi ha impedito qualunque altra attività per due mesi e più. Dovrei ordinare e pulire casa, pertanto decido di uscire. È da un po’ che non vedo Nino, il mio amico poeta. Non ho voglia di vedere nessuno in realtà e dunque lo chiamo, gli dico che passo a prenderlo per fare due passi: sembra strano detto così, eppure è così. Prima di arrivare da lui mi fermo a prendere un caffè e mi passano accanto uomini e donne su biciclette adornate di bandierine gialle con stampata una sigla: FIAB. So cos’è questa FIAB (Federazione Italiana Amici della Bicicletta), tre, quattro, forse cinque anni fa, in qualche modo venni in contatto attraverso la rete con “I Cicloamici”, il gruppo FIAB che se ne va pedalando per il Salento qua e là. Ricordo che scrivendo nel loro gruppo proposi persino di organizzare un itinerario per loro nei pressi di Torre Lapillo. A qualcuno però piacque per davvero l’idea e così pensai bene di non scrivere più in quel gruppo pedalante. “I CICLOAMICIIII???” grido a uno di loro mentre scendo dalla mia auto per andare al bar, questi rallenta, sorridente, “SIIIIII!” mi urla dapprima, e poi, avvicinandosi e frenando, aggiunge fiero e orgoglioso “Hai visto? Anche con questo tempo incerto siamo usciti!”. Mi piace assai questo tipo, vivo come non mi sento oggi io, frizzante come non so essere oggi io. Ci presentiamo, ma non ricordo il suo nome, forse si chiama Giulio.

Gli chiedo dove vanno e mi risponde che pedalano verso Leverano per visitare qualcosa, ma non capisco cosa.

Ci salutiamo e il forse-Giulio riparte con una bella ed energica pedalata. Io invece pigramente mi rimetto in auto, vado a prendere Nino, senza neanche prendere più il caffè, mi tengo l’amaro in bocca, nel cuore, dappertutto.

Quando Nino monta in auto, senza neanche veramente volerlo, guido verso Leverano, sono solo tre/quattro chilometri da noi. L’amico poeta mi fa notare che sono tre mesi che non ci vediamo, da quando l’avevo accompagnato ad acquistare una macchina fotografica digitale che non ha mai neanche acceso. Aspettava me perché gli mostrassi come si fa. Gli avevo promesso che lo avrei fatto e poi lo avevo un po’ dimenticato. L’ha portata dietro con sé. Scendiamo dall’auto.

A Leverano è tutto un tripudio di fiori che colorano le vie del centro storico, le cantine delle case, le chiesette, gli angoli delle corti. Ecco dove andavano difilati i Cicloamici, alla “festa dei fiori”. La festa ci viene incontro, proprio come l’occasione giusta per imparare ad usare una digitale. Qualche volta i paradossi si sciolgono. Allora è tutto un fotografare, un affacciarsi nelle chiese mai visitate, negli anfratti mai visti. Quante volte sarò venuto qui? Cento? Mille? Diecimila? Eppure non ho mai incontrato questo paesino. È   tanto piccolo questo Salento, deve essere piccolo se, uscendo da casa, incontri i Cicloamici che avevi conosciuto in rete, e tuttavia deve essere immenso se a soli tre chilometri da casa c’è tanta bellezza che ti è sempre sfuggita. Un paradosso emerge, e poi un altro si scioglie. Viaggiare forse non ha niente a che vedere con il movimento, è semplicemente stare, saper stare fermo, per prendere quanto ti viene incontro. Ecco, sembra strano a dirsi, eppure deve essere così.

Prendiamo finalmente il caffè. Paga Nino, ci tiene veramente a pagare lui, gli fa piacere e lo lascio fare, così ogni volta. Faccio un po’ di foto pure ai Cicloamici, qualcuno di loro mi guarda un po’ sospettoso. Fa nulla, vallo a spiegare che sono un quasi-cicloamico senza nessuna voglia di mettermi su una bicicletta per andare a Torre Lapillo o chissà dove. “Come hai detto? I ciclamini??” mi chiede Nino. Beh, comprensibile che abbia capito male quanto da me farfugliato, contornati come siamo da miliardi di fiori. “Cicloamici Nino, cicloa-m-i-c-i!” scandisco stavolta. Intanto continuo a fotografare artistiche composizioni floreali sparse per il centro storico, i fiori attorcigliati sui lampioni, negli angoli, nei cortili delle vecchie abitazioni, sulle scalinate, ed anche Nino prova a fotografare: “Non devi infilare l’occhio nello schermo, non è un obiettivo Nino!” Si deve liberare dell’automatismo del maneggiare una qualunque vecchia macchina fotografica che lo porta a ficcarsi col naso sulla digitale. Credo che presto ce la farà. Intanto s’è fatta ora, ce ne andiamo. Ci salutiamo, promettendoci di vederci molto presto.

L’amaro in bocca è ancora intenso, non ho fame, ma voglio andare a mangiare lo stesso. Sembra strano a dirlo, ma è così.

Ed è altrettanto strano continuare a ripetermi che non sono affatto innamorato di lei, perché l’avrei voluta accanto a me, sempre, da quando l’ho lasciata, ieri sera, e l’avrei voluta accanto a me prima, tra tutti quei fiori, ed ora, mentre scrivo, oggi, il giorno dopo la fine di un corso nel quale l’ho conosciuta, il giorno in cui mi accorgo che un altro sentiero della ragnatela è appena terminato. Sembra strano a dirlo, ma è così?

Sancta Maria de Tollemeto nella masseria Càmara in Collemeto

di Massimo Negro

Immaginate di vivere in una vecchia masseria nel Salento, circa quarant’anni fa. Una masseria con mura spesse, possenti. Anche quelle interne.
Immaginate di trovarvi in una stanza, non una stanza anonima perché la porta di ingresso lasciava pensare ad un’antica chiesetta, ma completamente spoglia con mura imbiancate a calce. In questa stanza una parete, ogni volta che vi appoggiavate, poggiavate qualcosa o battevate con il martello per un chiodo o altro, suonava come vuota.  Un suono strano, diverso rispetto a quello delle altre pareti spesse della masseria.
Finchè un bel giorno presi dalla curiosità, vi siete armati di attrezzi e avete deciso di buttar giù il muro per vedere cosa nascondesse quella parete.
Man mano che i mattoni venivano giù vi comparivano dinanzi colori, aureole, facce di Santi. Quando infine l’intera parete era stata abbattuta vi siete trovati dinanzi un’autentica meraviglia. La Camara.

La Camara è il nome di una masseria di Collemeto, frazione di Galatina, ormai inglobata nel centro abitato. La storia è pressa poco per come ve l’ho raccontata. Circa quarant’anni fa ci fu il ritrovamento dell’affresco che potete ammirare nelle foto.

ph Massimo Negro

 

La Camara rappresentava in antichità il cuore e il centro della zona dove ora sorge l’attuale Collemeto. La masseria ingloba la cappella di Santa Maria di Tollemeto detta anche Camara. Sul sito sono state scritte anche un paio di tesi ed è stata visitata più volte da studiosi non solo locali.

La cappella è privata , come la masseria che nel frattempo è stata suddivisa tra i figli di chi ritrovò casualmente gli affreschi.  Il proprietario è sempre disponibile ad aprire la masseria per far visitare la cappella.

Gli affreschi della Camara sono un gioiello ritrovato ma che si è fatto in tempo a perdere o quasi, se non si corre subito ai ripari.

 

Le foto del locale e dell’affresco sono visibili su http://www.youtube.com/watch?v=6Y9veElKWaQ

Lecce, il restauro delle porte d’ingresso nella basilica di S. Croce

di Rocco Boccadamo

 
(ph R. Boccadamo)

 

Lettera aperta al Presidente della Provincia di Lecce Antonio Gabellone, al Sindaco di Lecce Paolo Perrone e, per conoscenza, al Capogruppo PD al Comune di Lecce Antonio Rotundo.

 

Nello scorso gennaio ho lanciato alle SS.VV. – direttamente e anche attraverso la stampa – un vibrato e motivato appello per il restauro dei manufatti di legno relativi al portone centrale e alle due porte laterali esistenti sul frontespizio della basilica di S. Croce.

Pur essendoci state, da parte Vostra, pubbliche dichiarazioni di sensibilità e interesse rispetto al problema, a distanza di un trimestre non è successo alcunché di concreto.

Le anzidette strutture lignee sono, infatti, sempre lì, in condizioni vieppiù pietose, per non dire vergognose, quando, alla fin fine, gli interventi da compiere non richiedono una spesa di milioni, bensì di poche migliaia di euro.

Pertanto, mi permetto di rinnovare la sollecitazione, auspicando che si passi, al più presto, dalle parole/assicurazioni ai fatti e che gli infissi del gioiello artistico di che trattasi siano restaurati e ritornino ad uno stato decoroso, doverosamente consono alla grandiosità e alla bellezza del monumento.

Grazie.

Rocco Boccadamo

San Giorgio: il cavaliere che uccide il drago per salvare la bella principessa

di Stefano Tanisi

Melpignano, parrocchiale, facciata con altorilievo del Santo protettore (ph M. Gaballo)

 

San Giorgio fu un militare originario della Cappadocia (odierna Turchia) e nacque verso l’anno 280. Fu educato alla religione cristiana dalla madre all’insaputa del padre e divenne tribuno dell’armata militare dell’imperatore di Persia. Dopo aver donato tutti i suoi beni ai poveri confessò la sua fede davanti all’imperatore, che lo condannò ad atroci torture. Rinchiuso in carcere ebbe una visione del Signore che gli predisse che avrebbe subito sette anni di tormenti, tre volte la morte e tre volte la resurrezione. Morì verso il 303 in Palestina.

Matino, centro storico, edicola con S. Giorgio (ph M. Gaballo)

 

Nota è la Leggenda Aurea, la quale narra che vicino alla città di Silene, in Libia, vi era un grande lago dove si nascondeva un drago che quando si avvicinava alla città uccideva col fiato tutti gli uomini che incontrava. I cittadini per placare l’ira della bestia gli offrivano ogni giorno due pecore, ma quando incominciarono a scarseggiare, una pecora e un giovane estratto a sorte. Fu così che toccò alla giovane principessa. Il re cercò di riscattarla ma non riuscì a evitagli il sacrificio. Allora la giovane si diresse piangente al lago. Ma ecco che si trovava a passare il cavaliere Giorgio e saputa la triste vicenda le disse: “Figlia mia, non temere perché io ti verrò in aiuto nel nome di Cristo”. Allora uscì il drago, ma il cavaliere non si spaventò: saltato a cavallo, vibrò con forza la lancia e ferì la bestia che cadde a terra. “Non avere più paura” gli disse Giorgio “e avvolgi la tua cintura al collo del drago!”. La fanciulla legò dunque l’animale e lo portò a guinzaglio fino in città. Gli abitanti si spaventarono, ma Giorgio gli rassicurò dicendogli “Non abbiate timore perché Iddio mi ha mandato a voi per liberarvi dal drago. Abbracciate la fede in Cristo, ricevete il battesimo e ucciderò il mostro”. Allora il re e la popolazione si convertirono chiedendo al cavaliere di mantenere la promessa.

Proprio questo leggendario episodio del drago ha ispirato numerosi artisti nella rappresentazione del santo.

San Giorgio è patrono dei cavalieri, arcieri, soldati, degli scout e delle guide. Il suo nome è invocato contro la peste, la lebbra, i serpenti velenosi e la sifilide. La festa liturgica è il 23 aprile.

Melpignano, affresco di S. Giorgio (ph S. Tanisi)

 

San Giorgio si festeggia in diversi paesi del Salento: Melpignano, Matino, Bagnolo del Salento, Corigliano d’Otranto, Ortelle, Serrano, Sternatia, ecc.

Oltre la natura

di Antonio Bruno

Dalla scienza arrivano continuamente messaggi che ci suggeriscono di non commettere errori nella dieta di ogni giorno, di non sbagliare nel nutrirsi, di evitare di ingerire alimenti non prodotti seguendo le regole della natura, inoltre fare il contrario è scientificamente provato che sia tra le prime cause di molte patologie, forse commettere errori nella dieta di ogni giorno è la madre di tutte le malattie per dirla con un modo di porgere del mondo arabo.
Mangiare cibi sani è gratificante per il gusto, (vi è venuta l’acquolina in bocca vero?) ed è gratificante anche per la vista, infatti vedere un alimento presentato in modo bello e accattivante rappresenta un invito a nutrirsi gustando ciò che la terra ci ha donato grazie alla sua generosità.
Vi consiglio di guardare il cibo, di osservarlo quando ve lo trovate davanti a tavola. Osservare il colore di quell’alimento ci offre un’idea precisa di quali virtù sono racchiuse. E poi prevedete nella vostra giornata un tempo da dedicare ad una passeggiata in campagna, andate a raccogliere erbe spontanee perché ciò rappresenta un occasione per far tornare alla memoria antichi sapori e fare il pieno di sostanze benefiche.
L’amore per la terra crea cibi buoni e sani. Dino Casati, docente alla Facoltà di Agraria di Milano afferma che c’è abbondanza di cibi di ogni genere e provenienza, c’è la possibilità di scegliere fra di essi secondo esigenze e propensioni personali, ma nello stesso tempo c’è la sensazione diffusa che i cibi di un tempo fossero più gustosi e sani di quelli manipolati eccessivamente da una tecnica oscura. Inoltre il prof. Casati sostiene che questa sensazione debba essere indagata per capire da cosa è determinata.
E’ stato accertato che continuano a crescere di numero i consumatori disposti a pagare qualcosa in più (fino al 40% in più, nel caso degli ortaggi) pur di assicurarsi generi commestibili e naturali. E continua a crescere il numero degli agricoltori disposti a offrirglieli infatti l’Italia, ha oltre 200 Prodotti alimentari Dop (Denominazione di origine protetta) e Igp (Indicazione di origine del prodotto), oltre che due Stg (Specialità tradizionale garantite) che la mettono davanti a Francia e Spagna, ma che, soprattutto, significano un fatturato al consumo di 10 miliardi di euro, esportazioni pari a 2,3 miliardi e qualcosa come 98.200 aziende agricole oltre che 7600 strutture di trasformazione artigianali e industriali coinvolte.

Quando si parla di cibo effettivamente ci riferiamo alla natura e allo stesso tempo quando parliamo della natura noi Dottori Agronomi e Dottori Forestali non è che diciamo un frettoloso e deresponsabilizzante lasciamo fare alla natura, ma noi invece facciamo oltre la natura. Un po’ rifacendoci ai tre principi dell’agricoltura biodinamica dell’austriaco Rudolf Steiner che poi sono quelli di mantenere la fertilità della terra, rendere sane le piante in modo che possano resistere alle malattie ed ai parassiti, produrre alimenti di qualità più alta possibile.

Insomma si tratta di attivare la vita nella terra, la stessa che è ha nel suo ventre le sostanze derivate dall’attività dei lombrichi e dei microrganismi e che poi saranno assorbire dalle piante. Quella madre terra che accoglie, quasi respirandole dall’atmosfera, altre sostanze e che lo fa naturalmente, per metterle a disposizione della piante.
Noi Dottori Agronomi e Dottori Forestali assecondiamo l’autoregolazione che ci fa adattare alle condizioni esterne, ci fa ottenere l’equilibrio della natura quell’equilibrio che ci consente di resistere alle malattie.

Insomma quella proposta non è una coltivazione primitiva o del neolitico ma un sistema articolato ed efficiente che sfrutta ala massimo le risorse naturali contenute nel terreno e nell’ambiente e il bello è che questa impostazione permette di cercare di ricostruire un tessuto sociale legato al territorio e nello stesso tempo rappresenta la soluzione ideale per tutelare salute, ambiente e qualità della vita.
Questa disponibilità del consumatore a spendere di più per i prodotti sani e genuini rappresenta la cura all’andamento dei prezzi che, al consumo, sono rimasti pressoché fermi, mentre alla produzione sono mediamente scesi del 10%. Anche all’estero c’è per una forte tendenza a rivalutare il ruolo delle piccole produzioni diffuse sul territorio. In Georgia negli Usa nel 2004 c’erano solo 150 aziende che producevano prodotti biologici, oggi sono arrivate a 1.500. L’agricoltura italiana è l’agricoltura dei territori, la tipicità e il radicamento sono un patrimonio grandissimo che tutto il mondo ci invidia. Il Governo ha un ruolo strategico per tutelare e valorizzare questa ricchezza, per farsi valere in sede Ue e imporre il principio che una buona alimentazione parte solo da una buona agricoltura.

Le comunità rurali, dal 50% della manodopera impegnata sono passate al 3%, comunque vi è la consapevolezza in tutti gli strati della popolazione che nel mondo rurale c’è la possibilità di un contatto personalizzato, un inserimento nell’ambiente rurale fisico ed umano e una partecipazione alle attività, agli usi e ai modi di vita della comunità rurale. La dimensione pedagogica e culturale è importante infatti la maggior parte degli studi sociologici ha evidenziato che le persone attribuiscono una grande importanza ai valori e all’identità culturale locale. Questa identità è strettamente collegata al territorio che è paesaggio rurale.
Ecco perché concepire la questione alimentare come merce significa non capire lo stretto rapporto con la salute, l’ambiente, la storia, non si può mercificare tutto.

Ogni prodotto della terra è un pezzo di vita del territorio che l’ha prodotto, dentro ci sono i profumi, le storie, la cultura di un mondo che l’ha amorevolmente portato sulla tua tavola. Ogni alimento è un pezzo di vita delle persone che hanno collaborato affinché giunga sin sulla tua tavola. Il cibo vive e pulsa di emozioni, è nutrimento per il corpo e per la mente, è la proposta vera di una vita piena ed appagante.

Non possiamo affidare il nostro corpo e la nostra mente ad alimenti che sono stati ottenuti violentando la natura, forzandola a fare cose che non vuole e non puo’ fare. Dobbiamo tornare a raccogliere idealmente il cibo della nostra mensa affidandoci a chi lo prende senza strapparlo, a chi lo coltiva senza avvelenarlo, a chi lo vende senza sofisticarlo. Tutto questo può garantirlo il medico della terra, il Dottore Agronomo e il Dottore Forestale.

Bibliografia
Annamaria Capparelli La sfida si giocherà sulla crescita del territorio
Andrea Zaghi Campi Europei, partita riaperta
Luca Reteuna Bioequamente. Alla scoperta del cibo biologico
Paola Magni-Stefano Carnazzi Le pere di Pinocchio. 50 piccole cose da fare per una sana alimentazione
La Repubblica Salute del 25 novembre 1999
Attilio Attemi-Terry Tyzack Geni della discordia: comunicazione, leggende e interessi nelle biotech italiane
Rivista Politeia, novembre 1999
Angelo Massafra,Università di Bari. Dipartimento di scienze storiche e sociali,Italy.

Soprintendenza archivistica per la Puglia Il Mezzogiorno preunitario: economia, società e istituzioni

Nardò, 1607. Lavori nella chiesa di S. Francesco da Paola

di Marcello Gaballo

Il 30 aprile 1607 il conte di Mesagne don Ferdinando Beltrano, genero dei duchi Acquaviva, commissiona al mastro Angelo Spalletta una cappella con altare nella chiesa dei Paolotti, allora detta S. Maria di Costantinopoli o del Canneto extra et prope menia, per un compenso pattuito di 80 ducati.

Detto mastro si obbliga di fare detta cappella all’ altare maggiore di detta chiesa, conforme al desegno fatto per mastro monaco della terra di Copertino, quale è in potere di esso mastro Angelo, consignatoli da detto signor Conte, munito col segillo di esso signor Conte.

Sarà obbligato esso mastro Angelo di mettere tutta la monitione integra che ci vorrà per detta cappella cossì di liccese, come di tufi, calce et pietre et anche tutti l’ afici necessari a proprie spese di esso mastro Angelo.

Detto mastro si impegna a consegnarla finita entro la metà di settembre dello stesso anno, con la facoltà da parte del conte, qualora non fosse terminata entro tale termine, di nominare un altro mastro al posto dello Spalletta, che se ne farà carico delle spese.

Il contratto prevede altresì che le statue dei Santi da mettere in tale cappella, conformemente al disegno ed al progetto, saranno realizzate dal mastro Vespasiano di Gallipoli.

Riguardo al pagamento, il Conte versa subito 25 ducati, mentre la restante somma per arrivare agli 80 pattuiti verrà data fatigando pagando. Gli ultimi 20 ducati saranno consegnati a lavori ultimati et alla sua perfectione.

Un buon vino? Si cominci dalla cantina!

di Antonio Bruno*

Una delle raccomandazioni che i colleghi Dottori Agronomi del 1939, e tra questi il collega Palmieri, era quella di avere la massima cura nell’osservare nella cantina la più scrupolosa pulizia. Naturalmente il citato collega sottolineava che per ottenere questo risultato c’era la necessità per il viticoltore di fare delle piccole spese affinché la pulizia fosse garantita.

Il Palmieri riferisce che in certe cantine gli capitava di vedere oltre alle botti che contengono il vino e agli attrezzi enologici, diversi altri recipienti. Inoltre nei locali destinati alla cantina gli era capitato di vedere depositi di altra natura, tanto da trasformare la cantina in una vera e propria dispensa. In una delle sue visite in una di queste cantine del Salento leccese il collega Palmieri aveva potuto vedervi custodito ogni ben di Dio, l’olio, lo strutto, il salame, il formaggio, l’aceto e persino il petrolio, il concime ed anche il solfato di rame.

Come tutti possiamo immaginare questo tipo di comportamento costituiva allora e costituisce ancora oggi, laddove qualcuno lo praticasse, un gravissimo errore perchè il vino è un alimento liquido che con molta facilità contrae cattivi odori; ed è necessario perciò tenerlo, quanto più è possibile, lontano dalle sostanze che possano inquinarlo.

Ma la sostanza più pericolosa è l’aceto, che se tenuto in cantina, passerà lo spunto al vino proprio perchè gli acetobacter, ovvero i batteri responsabili dell’ossidazione dell’alcol in acido acetico, contenuto nell’aceto vengono disseminati nelle cantine da certi moscerini, che vengono appunto detti moscerini dell’aceto, che tutti conosciamo.

Nel 1939 era frequente vedere delle muffe che nelle cantine umide ricoprivano le pareti, le volte, il pavimento e anche le botti, diffondendo nell’ambiente quell’odore cosiddetto di muffa che è a tutti noto.

Per fare in modo di distruggere le muffe nelle cantine umide c’era allora un rimedio energico ed alla portata di tutti rappresentato dal fumo di zolfo. Ma c’era anche un altro mezzo efficace per impedire lo sviluppo di muffe nelle cantine che consiste nel fare una miscela formata da cento litri di latte di calce e cinque chili di solfato di rame e con questa imbiancare le pareti.

Naturalmente la soluzione più efficiente sarebbe quella di prendere tutte le misure necessarie per impedire di avere l’umidità nelle cantine rimuovendo direttamente le cause che la determinano.

Se dovessimo constatare, come nel 1935, che i vini dell’anno precedente seppure di gusto eccellente, di corpo robusto, di colore intenso e di sanità soddisfacente avessero una leggera tendenza ad imbrunire il colore e a formare anche un deposito quando venivano a contatto con l’aria cosa potremmo fare?

Intanto il collega Palmieri affermava che i vini andavano aiutati e sostenuti per poterli conservare fino alle vendite. Il consiglio principale per conservare il vino è quello di effettuare i travasi e le colmature. Un primo travaso è da eseguire nel dicembre e un secondo va eseguito a marzo. Questo travaso di marzo sarà tanto più urgente se il vino è ancora sulle fecce, che costituiscono il deposito più pericoloso essendo costituito in prevalenza da fermenti di facile decomposizione.

L’altro suggerimento del collega Palmieri era relativo a un saggio del comportamento del vino all’aria da farsi prima del travaso, questo saggio si fa prendendo il vino e mettendone due dita in un bicchiere e osservando per tre quattro giorni cosa accade nei vari tratti.

Constato che si abbia, che il vino non resiste al colore suo proprio ecco che il collega Palmieri suggerisce il rimedio facendo modesto uso dei composti solforosi ed esattamente metabisolfito di potassio in quantità di grammi 8 – 10 per ogni ettolitro di vino o solfito di calcio in quantità di grammi 15 per ogni ettolitro. Inoltre il collega Palmieri suggeriva di aggiungere simultaneamente 40 – 50 grammi per ettolitro di vino, di acido citrico che, oltre a ravvivare la tinta del vino, ne migliora il gusto.

Durante i travasi si deve evitare di sbattere inutilmente il vino all’aria e soprattutto che i vini siano poi travasati in botti ben pulite e solforate in maniera forte o leggera a seconda del bisogno.

La perfetta conservazione del vino dopo il travaso saranno assicurate dalle colmatuire ripetute una volta a settimana.

In questa situazione è interessante vedere cosa si diceva in una trasmissione radiofonica per gli agricoltori del 26 maggio 1935 riportata in un numero de “L’Agricoltura Salentina” su quello che oggi è invece uno dei capisaldi della viticoltura del Salento leccese ovvero l’imbottigliamento.

In quella trasmissione alla radio si sosteneva che i piccoli produttori, i proprietari di vigneti ed anche i modesti cantinieri, avevano un po’ tutti la mania dell’invecchiamento dei vini, e molto spesso si riscontrava che tali soggetti erano certi che qualunque vino si presti ad essere invecchiato. In quella trasmissione si affermava che era un bene per tutti che di sapesse che “l’onore della bottiglia” spetta solo a quei vini che hanno origine da uve di pregio che sono capaci di sviluppare particolari caratteri per effetto dell’invecchiamento.

Nella trasmissione si affermava che un vino da destinarsi alla bottiglia deve essere oggetto di cure particolari che devono attuarsi sin dalla vendemmia.

In primo luogo le uve devono essere raccolte quando raggiungono la perfetta maturazione, devono essere rigorosamente scelte, inoltre l’ammostatura deve farsi con il diraspamento; l’accortezza è da porsi nell’effettuare moderate aggiunte di metabisolfito, poi il torchiato non deve essere mescolato al mosto fiore, i travasi devono essere eseguiti sempre tempestivamente e non si debbono trascurare mai le colmature.

Il vino, sin dal primo momento, deve essere conservato in fusti di legno non troppo grandi e mai in recipienti di cemento armato.

Sempre in questa trasmissione radiofonica del 26 maggio 1935 si avvisa dell’errore che si fa in maniera frequente di imbottigliare i vini troppo presto e ciò comporta la presenza delle fecce in cui si trovano i microrganismi che sono la causa di gravi malattie del vino tra cui l’aceto, il girato e l’amaro.

Ecco che è del tutto evidente che per conservare il vino è necessario che questi microrganismi siano presenti in minima quantità e tale risultato è facilmente ottenibile se si ha la pazienza di attendere che il vino lasci la maggior parte di questi microrganismi nelle fecce delle botti.

Quindi il consiglio per ottenere un buon invecchiamento è togliere il vino dalle botti grandi dopo un anno e travasarlo in fusticini più piccoli sempre di legno. Durante l’invecchiamento che può avere la durata di uno come di tre anni, si deve travasare una volta l’anno ed era consigliabile praticare qualche chiarificazione con gelatina o con bianco d’uovo senza dimenticare di effettuare le colmature periodiche.

 

Breve profilo degli artisti di Santa Croce in Lecce

Gabriele Riccardi (Lecce, 1524 – ?): architetto. Artista di formazione manierista, unisce il patrimonio culturale mediterraneo con i dettami delle idee gesuitiche. La sua architettura può rientrare nell’ambito dell’arte controriformata: a santa Croce inventa la soluzione della colonna inglobata.

Francesco Antonio Zimbalo (Lecce, 1567 – 1631 ca): architetto. A Lecce è la prima figura importante per la nuova decorazione barocca, interviene a santa Croce nei tre portali della facciata e per l’altare di san Francesco da Paola. È legato in larga misura alla cultura figurativa cinquecentesca avviando poi cadenze, motivi, stilemi e fantasie decorative che troveranno il loro più compiuto sviluppo nel barocco.

Giuseppe Zimbalo (Lecce, 1620? – 1710): architetto. Non è chiaro il rapporto di parentela con Francesco Antonio. È l’artista più importante del barocco a Lecce, è autore della facciata superiore di santa Croce che si pone come svolta per l’arte del XVII secolo in Puglia. Giuseppe Zimbalo unisce la tradizione culturale locale con le soluzioni di fantastica libertà, guardando all’arte iberica e agli esempi napoletani di Fanzago. Lavora nelle maggiori fabbriche del periodo e presto diventa l’architetto preferito dal vescovo Pappacoda. Suoi sono anche la facciata della chiesa del Rosario, la facciata del duomo e il suo campanile.

Cesare Penna (Lecce, 1607 – 1656): scultore. Lavora alla facciata superiore della basilica di santa Croce. Il suo modo di lavorare la pietra è quasi da ricamatore, egli riesce a creare figure e motivi ornamentali di grande sfarzo e potente effetto visivo.

 

queste brevi note sono estratte dal più ampio articolo su Santa Croce pubblicato su Spicilegia Sallentina n°6 

Antonio Mele, in arte Melanton

di Cosimo Giannuzzi

Antonio Mele nasce a Galatina nel 1942. Oltre ad essere disegnatore, è anche scrittore e poeta.

Esordisce nell’arte dell’umorismo e della satira collaborando ad appena 17 anni con  un periodico satirico della sua città “La Civetta”, ma ben presto il suo talento lo porta a collaborare con numerosi giornali e riviste tra le quali “La Tribuna illustrata”, “Domenica quiz”, “Hurrà Juventus”, “Marc’Aurelio”, “Il Travaso”,  “La Repubblica”, “Il Corriere Canadese”, “Il Quotidiano di Lecce”, “Il Carabiniere”.  In quest’ultime tre testate pubblica i “Giochi dell’oca”.

Ha scritto numerosi libri di satira ed umorismo ed ha curato molti cataloghi delle mostre a tema, organizzate nel Museo Internazionale della Caricatura di Tolentino (Macerata)  di cui è sin dal 1991, Direttore artistico. Fra queste mostre l’omaggio nel 1994 a F. Fellini con il catalogo  Fellini umorista, dedicata ai disegni del regista. Altre pubblicazioni sono state:  La civiltà del sorriso, Giunti, Firenze 2001;  Sorridendo nei secoli: I Carabinieri nell’umorismo Ente Editoriale Arma dei Carabinieri, Roma 2003;  Sorridendo con la Benemerita: i carabinieri nell’umorismo, TorGraf, Galatina 2004. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti in sede nazionale ed internazionale.

Nel 1997 è stato insignito dalla Targa del Presidente della Repubblica Italiana per i suoi meriti culturali nel campo della satira e dell’umorismo.  La sua attività vignettistica dal 2006 è divenuta stabile nella rivista mensile dell’Arma dei Carabinieri “Il Carabiniere”.

Nel 2008, il Comune di Maglie gli ha dedicato una mostra antologica  denominata “Sorrido ergo sum”.

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°5

Frugando tra i ricordi

di Rocco Boccadamo

Nato nel lontano 1941, i miei primi ricordi risalgono, più o meno, a quando avevo tre anni. All’epoca, nelle famiglie del Salento, era in vigore la tradizione di preparare il corredo per le figlie femmine un po’ alla volta, nel corso di lunghe stagioni di paziente e faticosa tessitura a mano.

Per approvvigionarsi  della principale materia prima, vale a dire il filato di cotone, la gente del mio paese ricorreva ad un venditore ambulante, in gergo “cuttunaro”, il quale girava attraverso i vari centri abitati a bordo di un calesse trainato da un cavallo bianco e carico di “ballette” – grossi gomitoli – giustappunto di cotone.

disegno di grafica di Vitale Mariano

 

Il bravo commerciante era solito annunciare la sua presenza e richiamare l’attenzione della potenziale clientela suonando una trombetta d’ottone luccicante, con cadenzato, prolungato e accentuato rigonfiamento delle gote, una smorfia facciale che restava in me impressa assai più che il resto della scena.

Allora, i bambini non venivano alla luce nelle cliniche o in ospedale come adesso, ma direttamente nelle case dei genitori, nel lettone: le partorienti si avvalevano solo dell’assistenza della levatrice e dell’aiuto delle altre donne, già mamme, della famiglia.

Così accadde nel 1944 per la nascita di mia sorella.

La mattina successiva a tale lieto evento, la nonna e le zie, con le quali ero rimasto a dormire per l’occasione, mi condussero a salutare mia madre e a conoscere la nuova arrivata.

Fu per me un attimo davvero importante sollevare il lenzuolo sulla piccola culla di legno e scorgere il visetto della neonata: un faccino particolarmente paffuto e rubicondo, al punto da farmi esclamare fra la meravigliata ilarità dei presenti :”Ma  questa bimba assomiglia proprio ad una “cuttunara” (accezione dialettale al femminile di venditore di cotone)!”

Evidentemente, l’immagine del venditore con tromba, sul calesse tirato dal cavallo bianco, si stagliava dominante nella mia infantile memoria.

Vinsalenty ovvero la risposta Mediterranea al Vinitaly

di Antonio Bruno

 

Meglio un contadino laureato che un avvocato disoccupato è il titolo del libro di Andrea Prato, avvocato ma assessore all’Agricoltura della Regione Sardegna. L’avvocato racconta dei 1.700 chilometri di ippovie, itinerari percorribili a cavallo o in bicicletta, che dagli aeroporti raggiungono il centro dell’isola nota a tutti come Sardegna e mettono in mostra le risorse ambientali, storiche e culturali della regione. Ogni 12 chilometri circa c’è una stazione di posta, gestita da un’azienda agricola, dove degustare e acquistare solo i prodotti tipici del posto.

L’agricoltura come l’abbiamo conosciuta fino a oggi non può più resistere. Deve scommettere sulla multifunzionalità: oltre che produrre e commercializzare materie prime, deve sapersi sposare con il turismo, con le tradizioni, con le energie rinnovabili.

Noi Dottori Agronomi del Salento leccese lo diciamo agli imprenditori agricoli che hanno più di 65 anni e che di tutto questo dramma della disoccupazione non hanno nessuna preoccupazione. Ogni 10 imprenditori ultra 65enni del Salento leccese ce n’è uno di 35 anni.

Caro Assessore Prato penso che nessuno dei 230.000 imprenditori ultra 65enni della Puglia acquisterà il tuo libro e i restanti 20.000 che hanno dai 35 ai 65 speriamo che il libro lo leggano, che lo vengano a sapere da qualcuno perchè in effetti è in quella visione dell’imprenditoria agricola che c’è la risposta a tutte le domande.

E pure noi abbiamo il Vinitaly del Salento come dire, abbiamo il Vinisalenty dal 01 al 04 luglio 2010, nella splendida cornice barocca del Grande Salento in Lecce, con il patrocinio del comune di Lecce. L’’expo internazionale “salone del gusto e del vino mediterraneo 2010” si terrà nell’area ex Carlo Pranzo e sarà dedicato alla promozione ed esposizione dei prodotti vinicoli ed agroalimentari dell’area mediterranea. Ha l’obiettivo di proporre oltre ad un evento straordinario, una sinergia tra i grandi produttori ed i buyers internazionali. Vi sarà un calendario ricco di incontri, dibattiti, degustazioni enogastronomiche, conferenze e la prima edizione del concorso enologico internazionale “PRIMUS MEDITERRANEO” dove si assegneranno riconoscimenti alle migliori categorie di vini ed a tutte le aziende partecipanti.

Il vino è prodotto da ultra 65enni e commercializzato da aziende che non so quanti anni abbiano in media gli imprenditori viti – vinicoli ma so con certezza che non stanno con le mani in mano. In estate fanno la Notte Bianca del Vino quella che una volta era la notte dei falò sulla spiaggia e che oggi è Calici di Stelle. Le strade del vino e l’iniziativa Cantine Aperte e tanto altro per promuovere un prodotto che viene venduto solo con il territorio e con la storia del nostro territorio.

 

La chiesa di Santa Marina di Stigliano

di Sandro Montinaro

 

Percorrendo da Lecce la SS 16 in direzione Maglie, uscita Soleto subito dopo Martano, sulla strada provinciale per Otranto, incontriamo due graziosi centri abitati: Carpignano Salentino e Serrano.

A circa 3 chilometri da Serrano, in aperta campagna, sui resti dell’antico feudo di Stigliano, sorge la piccola chiesetta dedicata a Santa Marina costruita nel 1762 per volontà del barone Domenico Salzedo insieme all’adiacente complesso architettonico.

La chiesetta sorge come d’incanto in un bel paesaggio tra il verde dei secolari ulivi, racchiuso ad Oriente da un ameno boschetto e dall’azzurra linea dell’Adriatico.

Gli uliveti prolungano il loro intenso verde striato d’argento quasi fino al mare, a un passo dal quale le paludi della zona lacustre di Arimane (l’odierna Alimini) che, ancora fino agli inizi del XX secolo, emanavano malarici miasmi.

La chiesa, a croce greca, presenta tre altari. Quello maggiore conserva nella nicchia tonda l’immagine bizantina della titolare.

Al di sotto della costruzione del Salzedo è situata una cripta rupestre con una serie di affreschi, alcuni dei quali difficilmente recuperabili, oggi ormai completamente invasa dai rovi.

La tradizione orale narra che Stigliano era un paese sorto nel periodo bizantino. Quando sia stato distrutto il casale eventualmente esistito non lo sappiamo, può anche darsi che il centro sia stato abbattuto durante una delle varie scorrerie saracene. Proprio per sfuggire ai continui pericoli gli stiglianesi avrebbero riparato sulla collina fondando Serrano.

A favore dell’ipotesi di una continuità storica tra Stigliano e Serrano ci sono vari elementi: ad esempio nella Serrano del passato troviamo il culto di Santi già presenti a Stigliano; inoltre bisogna ricordare che gli abitanti di Serrano, ieri come oggi, hanno sempre considerato Stigliano come una “cosa” loro.

Verso la fine del XIV secolo, il feudo di Stigliano per un periodo abbastanza lungo appartenne ai Lubelli. Successivamente andò ai Tolomei i quali poi nel 1575 lo vendettero al barone Nicolò Personè di Carpignano; nel 1580 insieme con Castrignano dei Greci il feudo fu di Filippo Prato. Nel 1643 essendo i Prato in debito con la famiglia Marchese furono costretti a vendergli la loro proprietà. Stigliano con il casale di Castrignano passò in seguito ai Maresgallo, ai Prototico e ai Gualtieri. Da questi ultimi infine, intorno al 1749, il barone Salzedo di Otranto comprò il feudo ormai disabitato.

La zona circostante la chiesa di Santa Maria di Stigliano è costellata da numerose masserie, disseminate, del resto, nell’intero territorio: Masseria Calavaggi, Masseria Torre Pinta, Masseria Culaozza, Masseria Ciomma, Masseria Mancinella. Presso quest’ultima troviamo le tajate ossia le cave da cui si estraeva la pietra tufacea per usi edilizi.

Santa Marina di Stigliano, dunque, rappresenta uno dei tanti luoghi presenti su tutto il territorio salentino. Semplici e misteriosi rappresentano quegli ancestrali luoghi di culto eretti quasi a celebrare un incontro con il Dio che è in ogni luogo ma che è soprattutto lì dove la natura, nel trionfo di bellezza e di dolcezza, apre l’anima all’incontro con il soprannaturale. A siffatte gioie spirituali l’anima è preparata dalla frequentazione delle bellezze insite nei luoghi che circondano le chiese rupestri: una campagna serena sotto un cielo che è l’immagine stessa del Paradiso, una distesa di terra immersa nel severo silenzio degli ulivi, dove di tanto in tanto sale dalle sommesse voci degli esseri viventi, animali o piante, il “cantico delle creature”.

 

Bibliografia di riferimento:

EMILIO BANDIERA – VINCENZO PELUSO, Guida di Carpignano e Serrano. Testimonianze del passato nella Grecia salentina, Mario Congedo Editore, collana “Guide verdi”, 2008.

CARLA CALÒ – SANDRO MONTINARO, L’uomo: tomoli di terra, pietre di memoria. Paesaggio agrario e società a Carpignano Salentino e a Martano nel ‘700, presentazione di Anna Trono [Biblioteca di Cultura Pugliese, serie seconda, 163], Martina Franca (Ta), Mario Congedo Editore, 2006.

EMILO BANDIERA, Carpigano Salentino. Centro, frazione, casali, Capone Editore, Cavallino 1980.

COSIMO DE GIORGI, La Provincia di Lecce. Bozzetti di viaggio, Mario Congedo Editore, Galatina 1975.

Ruffano, festività della Madonna del Latte

 

di Stefano Tanisi

Situata sulla collina della Serra -a 170 metri sul livello del mare- è la piccola chiesa rurale della Madonna della Serra o comunemente detta Madonna del Latte di Ruffano. La cappella sin dal XII secolo ha visto sostare i numerosi pellegrini diretti verso la “perdonanza” di Leuca.

La domenica seguente la Pasqua la chiesa riapre per festeggiare la titolare, la Vergine del Latte. Grande è la devozione delle donne verso questa Madonna: fino a pochi decenni fa le donne -in gestazione o che avevano appena partorito- percorrevano il sagrato e la navata della chiesa in ginocchio, fino ad arrivare al cinquecentesco affresco della Madonna che allatta il Bambino (la Vergine Galaktotrophusa – che nutre col latte), per chiedere la grazia di avere abbondante latte per il nutrimento dei propri piccoli.

Nei primi del ‘900 il pittore mandurino Giovanni Stano (1871-1945) realizza il dipinto omonimo per l’altare maggiore, mentre verso gli anni ‘30 del secolo scorso è stata realizzata la statua in cartapesta che le donne portano in processione per le strade di campagna intorno alla chiesa.

Bibliografia

– A. de Bernart, L’antica chiesa di Mater Domini a Ruffano. Storia, culto, tradizione, Ruffano 2008

– A. de Bernart – M. Cazzato, S. Maria della Serra a Ruffano, Galatina, 1994

– S. Tanisi, Giovanni Stano. A Santa Chiara il grande dipinto dei Quattro Santi, in “L’Ora del Salento”, settimanale, Anno XIX, Numero 28, 5 settembre 2009

La qualità del vino all’ombra dell’alberello


di Antonio Bruno*

Una volta nel Salento leccese dire vigneto significava dire Alberello Pugliese che è con molta probabilità il sistema di allevamento della vite più antico.
Anche se la pianta della vite ha una crescita considerevole adottando il sistema ad alberello si costringe la pianta ad avere una minore vegetazione in maniera tale da poter vivere anche nelle condizioni climatiche poco favorevoli del nostro Salento sfruttando in modo ottimale le limitate risorse idriche, in condizioni di siccità, o la limitata fertilità dei terreni .

Uno dei massimi luminari della vitivinicoltura mondiale, il professor Mario Fregoni, lo ha sempre detto e scritto: salvare l’alberello pugliese equivale a tenere in piedi la viticoltura di qualità e sempre lo studioso in un occasione aveva bacchettato gli attori delle decisioni del territorio affermando che nessuno s’era accorto che la “Puglia aveva un cadavere: l’alberello”. L’alberello l’avete visto? No? E allora se vedete un tronco mai più alto di un metro, con le piante distanti tra di loro un metro e mezzo con un sistema che vede le piante come il cinque della faccia di una dado, ovvero il sistema a quinconce, bene siete di fronte a una vite che è oggi è rarissima perché è allevata ad alberello.

La pianta viene allevata a vaso, con il tronco che può essere alto dai 20 centimetri sino a un metro, alla sommità del quale possiamo vedere due o tre branche che ogni anno vengono potate lasciando da una tre gemme con un tipo di potatura definita corta.
Adesso le distese infinite di alberello non si vedono più. Sono pochi che continuano a coltivarlo e tra questi l’Azienda agricola Attanasio che ha cominciato un percorso di coltivazione che prevede l’inerbimento del vigneto con la semina del favino da sovescio permettendo di non utilizzare i fertilizzanti chimici azotati. L’obiettivo della pratica del sovescio è l’apporto di materia organica al terreno e quello di fornire gli elementi nutritivi in maniera naturale.
Inoltre questo imprenditore ritiene essenziale trattare le viti con prodotti rameici solo se necessario e prima della pioggia. Ed ecco che sempre questo imprenditore adottando la cimatura manuale favorisce lo sviluppo di una folta parete fogliare, che è la condizione necessaria per ottenere grappoli maturi e ricchi di zuccheri.
Tanto tempo fa ogni famiglia di agricoltori possedeva il palmento con i capasoni, e dopo le lavorazioni ogni famiglia otteneva il suo Primitivo. I vigneti erano allevati esclusivamente ad alberello e le vinificazioni garantivano piena naturalità.
Negli anni ‘60 sorsero le cantine sociali, con costi di produzione sensibilmente più bassi dei piccoli palmenti familiari che decretarono la chiusura delle vecchie modalità di produzione.

I vigneti ad alberello sono oggi quasi scomparsi, lasciando spazio a sistemi e a varietà alloctone più “facili” e produttive. Chi coltiva oggi gli alberelli è una mosca bianca: si scontra con una modalità poco produttiva e difficile da coltivare ma molto generosa nel conferire qualità alle uve, frutto e struttura al vino. Salvaguardare l’alberello pugliese è la condizione necessaria per fare qualità.

L’alberello coccolato, conservato e promosso da un uomo che da ragazzo partiva con la bicicletta da casa per arrivare alla stazione del suo paese, aspettava l’arrivo del treno e insieme agli altri ragazzi e ragazze ci saliva sopra trascorrendo il viaggio a parlare del futuro che per lui era fatto di di grappoli d’uva e di vino. Giunto alla stazione di Lecce prendeva un’altra bicicletta che lo doveva portare verso l’Antica Rudiae, nella valle che ospita l’Istituto Tecnico Agrario Giovanni Presta. Un uomo che nella 44a edizione del Vinitaly, il Salone internazionale dei vini e dei distillati, in corso di
svolgimento a Verona. è stato insignito della Gran Medaglia Casagrande per la Viticoltura italiana 2010. Un uomo simbolo per ogni Dottore Agronomo, un esempio da imitare per chiunque desideri affacciarsi nel fantastico mondo dell’ambiente che è Paesaggio Agrario: un uomo, un enologo Angelo Maci, presidente delle Cantine Due Palme di Cellino San Marco (Br).
L’enologo salentino ha ricevuto questa prestigiosa onorificenza, a dimostrazione del grande lavoro svolto per la valorizzazione del patrimonio vitivinicolo, soprattutto per l’impegno profuso nel tutelare e valorizzarlo e, in particolar modo, l’alberello pugliese anche con l’opera che sta svolgendo l’Accademia dell’alberello pugliese, che da lui fondata ha stretto attorno a sé tutti i rappresentanti istituzionali e scientifici dell’intera Puglia.

I sindaci dei Comuni delle principali DOC salentine, il presidente della Provincia di Lecce e ricercatori universitari hanno sancito un importante documento, utile a tutelare e valorizzare un patrimonio in via d’estinzione.
L’enologo Angelo Maci che è realista affermando che in Australia sono sufficienti appena 50 ore di lavoro meccanizzato per gestire un ettaro di vigneto, mentre nei nostri territori sono necessarie anche mille ore di lavoro. Questo dato di fatto però fa riflettere il Presidente Maci su che tipo di concorrenti abbiamo in ambito mondiale. Ma il Presidente Angelo Maci è lo stesso che ha l’orgoglio e la consapevolezza di essere convinto che il nostro punto di forza è, e deve continuare ad essere, la qualità, lo stretto legame tra il nostro vino ed il territorio, la storia e la cultura della nostra terra. In controtendenza anche con la Storia e con un altro enologo, Giuseppe Turco, che il 4 gennaio 1969 scriveva che aveva la consapevolezza della opinione diffusa di allora che si dovesse rinforzare l’alberello in difficoltà potando a una sola gemma. Giuseppe Turco riportò dati sperimentali secondo cui le viti non potate avevano prodotto 22,7 chili di uva; la vite potata lunga aveva prodotto 16,6 chili di uva; la vite speronata a 2 – 3 gemme aveva prodotto 11,1 chili di uva ed infine la vite speronata a 1 gemma aveva prodotto 2,8 chili di uva. Nell’articolo l’enologo Turco affermava che l’alberello aveva fatto il suo tempo e che andava sostituito. Gli Anni ’70 che avevano una visione “AUSTRALIANA” dell’agricoltura sempre invidiosa dell’industria e della sua efficienza attraverso l’uso delle macchine.

L’alberello a seconda dei terreni ha una densità d’impianto che va da 3.000 ad un massimo di 8.000 ceppi per ettaro. E i conti sono presto fatti se presupponiamo di ottenere un prodotto DOC a cui la Cantina Due Palme l’anno scorso ha riconosciuto 65 Euro al quintale il reddito lordo per ettaro da un allevamento di viti ad alberello va da un minimo di 22.000 euro a 3.000 ceppi per ettaro, ad un massimo di 57.000 euro se si hanno 8.000 ceppi per ettaro. Il confronto con la Tabella dei Redditi Lordi Standard (per ettaro di superficie coltivata e per capo allevato) della Regione Sardegna che per un ettaro di Vigneto per uva da vino di qualità prevede un reddito lordo per ettari di euro 2.223,86 lascia senza parole.

Infine una bella ricerca di due colleghi Dottori Agronomi. Si tratta di Marco Simonit e Pierpaolo Sirch due Dottori Agronomi “preparatori d’uva” che hanno recuperato un antico sistema di potature, che previene le malattie del legno e allunga il ciclo di vita della vite, applicandolo alla viticoltura moderna.
L’approccio è individuale, fatto di interventi mirati pianta per pianta, con potature sul legno giovane e con il risultato di rendere produttivo un vigneto per almeno 50 anni.
Dalle sperimentazioni dei due colleghi friulani, condotte a partire dal 1988, è emerso infatti che il segreto della longevità della vite dipende in particolare da una potatura corretta, che non provochi ferite sulle porzioni vitali della pianta.

Queste sperimentazioni hanno confermato che il sistema di coltivazione ad alberello, tipico dell’area mediterranea è particolarmente longevo grazie a potature sul legno giovane, fino ai 2 anni di età.
*Dottore Agronomo

Bibliografia
Preparatori d’uva – e mail: preparatoriuva@preparatoriuva.it, cell. Marco Simonit 348.8555647 Il ritorno dell’antico metodo della potatura “soffice” dei vigneti
Francesca Mosele, La biodinamica non è un’utopia
Alfredo Tocchini, Il modo di fare viticoltura
Rolando Mucciarelli, La coltivazione della vite
Azienda Agricola Giuseppe Attanasio http://www.primitivo-attanasio.com/index.html
T. N., Fiat lux, nasce l’Accademia dell’alberello pugliese http://www.teatronaturale.it/articolo/8688.html
Giuseppe Turco, La potatura del vigneto ad alberello
Tabella dei Redditi Lordi Standard (per ettaro di superficie coltivata e per capo allevato) della Regione Sardegna
http://www.regionesardegna.it/documenti/1_19_20060929095438.pdf

Tito Schipa (1889-1965). L’amico e l’artista

di Giuseppe A. Pastore

Tito Schipa nacque a Lecce il 27 dicembre 1888 e fu registrato negli elenchi anagrafici il 2 gennaio 1889 con il nome di Raffaele Attilio Amedeo. Studiò nella città natale con il maestro di canto e pianoforte Alceste Gerunda e si perfezionò a Milano con Emilio Piccolo, che lo introdusse negli ambienti chic e influenti del capoluogo lombardo. Debuttò al Facchinetti di Vercelli il 4 febbraio 1909 in Traviata, quindi si esibì a Selenico, in Dalmazia, a Savona e a Crema, dove ebbe un contratto per l’intera stagione (Zazà di Leoncavallo e Adriana Lecouvreur di Cilea). La medesima impresa lo scritturò per la stagione al Politeama di Lecce, qui riproponendosi in altre occasioni in Mefistofele e Rigoletto. Nel 1911 fu al Quirino di Roma in Don Pasquale, Werther, Zazà e Barbiere, quindi a Buenos

Santa Croce in Lecce. L’ordine prigioniero e la colonna inglobata. L’interno della basilica

di Teodoro De Cesare

Nella parte inferiore della facciata ci si accorge di un altro elemento architettonico e decorativo che viene definito colonna inglobata. Questa colonna è posta sul fianco della facciata e fa parte, quindi, della fase progettuale di Gabriele Riccardi. Questo tipo di colonna può essere ricondotto al simbolismo dei volumi, cioè alla forma pura della colonna cilindrica (assimilabile alla perfezione celeste del cerchio) contenuto all’interno del pilastro (assimilabile al movimento del cubo, simbolo della terra). La successione di cornici ovali può far pensare sia alla serie di figurazioni romaniche entro riquadri circolari sia alle cornici circolari od ovali che appaiono negli altari del Rosario. Gli ovali inseriti sul fusto del pilastro possono far pensare anche ai circoli come moduli sovrapposti dai teorici sul disegno degli ordini architettonici .

La colonna inglobata non è un caso isolato a Lecce, oltre a che sulla facciata di santa Croce essa è presente, sempre come colonna-pilastro angolare, in un altro monumento cittadino: il cosiddetto Sedile, in piazza sant’Oronzo, e in questo caso si tratta non di un edificio religioso ma di una struttura di civile, probabilmente un antico comando militare. Si accennerà poi brevemente alle ipotesi che sono state avanzate riguardo alla simbologia sottesa alla colonna inglobata . L’inserimento della colonna inglobata nella facciata di Santa Croce, dunque, non è un episodio isolato ma ha riferimenti precedenti nei grandi studi e progetti rinascimentali. Questo dimostra che l’autore della facciata inferiore, Gabriele Riccardi, è un architetto ancora molto vicino alla pratica costruttiva cinquecentesca.

L’interno

Lo spazio interno è organizzato in tre navate che si caratterizzano per un accentuato verticalismo. Inizialmente la basilica era a cinque navate, due delle quali vennero utilizzate per la costruzione delle cappelle nel Settecento. Le due navate laterali sono sormontate da volte a crociera con festoni rettilinei, mentre quella centrale è chiusa superiormente da un soffitto ligneo a cassettoni dorati di forma esagonale, al centro del quale è incassato un dipinto della Trinità, sormontato dagli stemmi di san Pietro Celestino e dell’ordine dei celestini. La navata centrale contiene sedici colonne marmoree che arrivano fino al transetto, riccamente decorato da cordonature di melagrane, cespi d’acanto e spettacolari fioriture in pietra. Tra il transetto e la navata centrale si alza la cupola decorata con festoni di foglie d’acanto, angioletti e motivi floreali. Le sedici colonne hanno il fusto liscio con pulvini piumati e capitelli in stile corinzio, arricchiti dai volti dei 12 apostoli, mentre i capitelli delle colonne binate del transetto sono caratterizzati dai simboli degli Evangelisti.

Nel presbiterio si può ammirare l’abside polilobata e costolonata. Lungo le navate si aprono sette profonde cappelle per lato, al cui interno si trovano splendidi altari riccamente decorati. Un monumento importante di questa chiesa è l’altare con le storie di san Francesco da Paola, nel transetto sinistro, realizzato da Francesco Antonio Zimbalo tra il 1614 e il 1615. A questo si affianca l’altare della Croce, commissionato nel 1637 dalla famiglia Foscarini a Cesare Penna: qui la cosa più interessante da notare è la loggetta balaustrata alla sommità dell’altare che richiama la loggia con balaustra della facciata. Sono due altari significativi non solo per la loro ricchezza compositiva e decorativa, ma perché offrono l’opportunità di evidenziare il parallelismo tra altari barocchi e facciate. In pratica così come gli altari sono elementi e opere a sé stanti applicati alla parete interna della chiesa, così le facciate nelle chiese barocche sembrano dei giganteschi altari aggiunti a edifici precedentemente costruiti.

È proprio questa caratteristica di apparato effimero che rende unica la facciata di santa Croce, facendocela percepire come una continua e quotidiana festa religiosa. L’ornato e la decorazione ricca, con i loro messaggi, investono l’osservatore e rendono all’opera architettonica una netta frontalità. Ciò è molto diverso dall’effetto del classico rinascimentale; al contrario del barocco romano, che articola edifici e luoghi urbani immettendo lo spettatore in un percorso più complesso; invece la facciata leccese non cerca di includere lo spazio antistante.

Nel 1646 il barocco Leccese è ancora all’inizio, ma la facciata di Santa Croce fornisce già ampie porzioni di repertorio e di elementi che si svilupperanno in altri edifici anche più consapevolmente barocchi. Santa Croce resta un crocevia di storia, arte e cultura su cui tutto si ferma e da cui tutto riparte per la definizione di questa particolare tipologia di barocco .

 

L’articolo è stato pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°6.

Gli allarmi aerei e la corsa nel buio a Monticelli

di Rocco Boccadamo

Durante la seconda guerra mondiale, il Salento, forse perché privo di obiettivi o insediamenti militari di particolare rilevanza, rimase per fortuna indenne da attacchi aerei e correlate operazioni di bombardamento.

Pur tuttavia, di tanto in tanto, specialmente nella fase conclusiva del conflitto, formazioni di velivoli si trovavano a sorvolarne il territorio, magari per semplice coincidenza con la rotta degli spostamenti da una base all’altra o delle missioni dirette ad obiettivi situati in aree più lontane.

All’epoca, lo scrivente, bimbetto di 3-4 anni, viveva, in seno alla famiglia, nel paese natio verso il sud della provincia.

Nel piccolo centro, non esistevano, ovviamente, veri e propri dispositivi d’allarme, né rifugi appositamente attrezzati per il caso di attacchi dall’alto. In ogni modo, funzionava ugualmente – chissà su quali basi o sistemi – un misterioso tamtam che si spargeva a macchia d’olio fra la popolazione e anticipava l’avvicinamento delle squadriglie volanti.

Le voci e/o grida “Gli apparecchi, gli apparecchi!” si diffondevano in un battibaleno.

Al che – si verificava soprattutto nella tarda serata o di notte – ricordo che arrivavano di corsa a casa i nonni e gli zii, abitanti nelle vicinanze, per aiutare a prendere in braccio o per mano  pargoli e bambini e, in gruppo, si abbandonava la dimora e la zona abitata illuminata da fioche lampadine, portandosi di buona lena nel non lontano appezzamento agricolo di Monticelli, su cui insisteva anche un piccolo fabbricato rurale completamente immerso nel buio.

Di lì a poco, puntualmente, sia attraverso il rombo che andava accentuandosi, sia grazie alle luci verdi e rosse che lampeggiavano lassù, si scorgeva il transito degli aeroplani che, meno male, proseguivano oltre senza lasciare alcuna traccia.

In breve volgere di tempo, il pericolo si considerava rientrato, anche se, ormai guastato il normale ciclo del sonno, comunemente ci si tratteneva in campagna, attendendo il sorgere del sole per far rientro fra le mura domestiche.

Le gustose bocche di dama salentine

antico e delicato dolce salentino che richiama le più celebri “minne di Sant’Agata” siciliane, quasi certamente realizzate in occasione della festività isolana della santa. La loro forma convessa, a cupola, sormontata da mezza ciliegia candita, è chiaro richiamo alla forma anatomica dell’organo strappato alla martire. Rispetto al dolce siculo è però assai più semplice, meno zuccherato, composto da pasta tipo “savoiardo” o pan di spagna farcito con crema pasticcera e bagnato con liquore tipo Strega. La parte superiore è ricoperta da glassa bianca di zucchero.

Come conferma Marilisa Morrone il dolce è simile alle paste alla crema calabresi, dette anche paste di forisi, in cui la forma è oblunga anzichè circolare, fatte di un sofficissimo pan di spagna, anche queste farcite con  crema e ricoperte di glassa con la ciliegina sopra.
In Abruzzo dolci molto simili vengono chiamati sise delle monache.

Il Cristo deposto nella chiesa del Carmine in Nardò

 

di Marcello Gaballo

Tra le opere pittoriche conservate nella chiesa del Carmine di Nardò, già chiesa conventuale carmelitana poi parrocchia, di gran rilievo è senz’altro la tela della Pietà o del Cristo deposto sorretto da angeli finora attribuita al copertinese  Gianserio Strafella, collocata sul secondo altare della navatella destra. Di cm. 152×205 non è ad olio, ma una tempera grassa su tela, come emerso dall’ultimo restauro del 1999 eseguito da Francesca Romana Melodia.

Nonostante sia stato ridotto rispetto alle dimensioni originarie ed il pigmento abbia perduto di consistenza materica a causa di una precedente violenta pulitura, il dipinto è un’opera davvero importante del cinquecento salentino e tra le più belle esistenti in città.
Continuando a ritenerla opera del copertinese, come ancora sostiene la critica, lo Strafella nasce attorno al 1520 da Pietro e Maria Mollone, ed è documentato dal 1546 grazie alle pale d’altare presenti in alcuni centri di Terra d’Otranto. Restano incertezze sulla data di morte dell’artista, da collocarsi tra la fine del 1573 e il 1577, e pochi sono ancora gli studi finora condotti, se si eccettuano quelli più noti di Nicola Vacca, ripresi da Giovanni Greco.

Una delle prime opere sembra sia stata la Trinità, un olio su tavola autografo conservato in Santa Croce a Lecce, ma il capoluogo può vantare un’altra pittura al medesimo attribuita, La Vergine col bambino e i santi Michele e Caterina d’Alessandria nella chiesa di S. Francesco da Paola, del 1564.
Sua è pure la Madonna in Gloria, un tempo nella chiesetta di S. Maria di

Santa Croce in Lecce (III parte)

di Teodoro De Cesare

Il rosone centrale è l’elemento che colpisce di più l’occhio: si dipana da esso una specie di movimento e di giochi visivi che hanno il carattere della festa e della gioia. Nel giro più interno ci sono dodici cherubini che corrisponderebbero al motivo dei dodici raggi, frequente nei rosoni delle cattedrali medievali e simbolo di Cristo-Sole; nei due giri più esterni si vedono i ventiquattro melograni cristologici e i ventiquattro cherubini.

La parte superiore della facciata di santa Croce è il trionfo della fantasia decorativa, presenta alcuni elementi iconografici ricorrenti come le fiamme e i leoni, simboli della fede, il pellicano che nutre i suoi piccoli (nel capitello a sinistra del rosone) e i melograni, simboli della passione di Cristo. È possibile riconoscere anche un riferimento alla tecnica grafica della miniatura nel particolare dei volti infrascati e, soprattutto, nelle lettere sostenute da angioletti che compaiono, intrecciate e poco leggibili, nel fregio .

Questa ricca e sfavillante decorazione rappresenta un barocco applicato a una struttura parietale preesistente, concepita in maniera più sobria nel Cinquecento seguendo delle regole di architettura manierista e controriformata.

Nella sua arditezza artistica, bellezza e finezza tecnica la facciata di santa Croce appare una costruzione provvisoria, leggera, simile alle costruzioni in cartapesta che in Italia, almeno dal Quattrocento, sono legate agli apparati provvisori o simile alla fase provvisoria del bozzetto, dello studio preparatorio, del modello che raramente viene conservato . Non a caso dal Settecento a Lecce si forma una grande tradizione di maestri cartapestai che è viva e fiorente ancora oggi.

(continua…)

 

L’articolo è stato pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°6.

Santa Croce in Lecce (II parte)

 

di Teodoro De Cesare

Tra il 1549 e il 1646 l’arte italiana cambia radicalmente: la fase del Manierismo è alla sua conclusione, Firenze perde la sua egemonia artistica a favore di Roma che, a sua volta nel corso del XVII secolo, accoglierà artisti da tutta la penisola e dall’estero; si susseguono, quindi, classicismo, naturalismo e barocco. Questa situazione ha i suoi riverberi anche a Lecce dove i ritardi dei modelli romani si uniscono a una forte tradizione culturale presente in loco. Si può affermare che il barocco leccese, che si vede nella facciata di santa Croce e che si rileverà in altre architetture della città, prende forma tra la seconda metà del Cinquecento e la fine del Settecento.

 

Il quadro storico nel quale si inserisce questo fenomeno artistico è quello della Controriforma e della nascita degli ordini religiosi riformati, un contesto che riguarda processi economici e culturali particolari a cui danno il loro contributo personalità politiche e artistiche diverse e dirompenti. I cambiamenti non sono semplicemente artistici ed estetici, ma si inseriscono in un insieme di idee che coinvolgono anche trasformazioni urbanistiche.

Quello di Lecce è un complesso di palazzi, ville e residenze nobiliari, chiese, conventi, scuole religiose, edifici assistenziali che testimoniano il rango politico attribuito alla città al di là dell’infelice quadro economico che gli storici delineano sulle vicende della Terra d’Otranto tra il Sei e il Settecento . Si può affermare che la facciata di santa Croce sia concepita come un grandioso altare e rappresenti un continuo rimando tra esterno ed interno, piccolo e grande, che è l’ossatura del significato dell’architettura barocca leccese. In qualche modo la facciata, come l’altare, in questo caso rappresenta una sovrastruttura decorativa su una parete preesistente e che, nel caso specifico della basilica di santa Croce, deve essere indagata anche per i suoi rimandi simbolici e figurativi. Un Barocco di facciata?

La conclusione della parte inferiore del prospetto della chiesa, come da iscrizione, risale al 1582. I tre portali sarebbero stati eseguiti su progetto di Francesco Antonio Zimbalo tra il 1606 e il 1607; prima della loro costruzione dovevano comunque esistere, sotto qualche altra forma, poiché corrispondono agli ingressi nelle tre navate. È molto probabile, allora, che una primitiva forma di portali possano essere di mano di Gabriele Riccardi, autore della parte inferiore della facciata. In particolare, il portale centrale si caratterizza per avere quattro colonne, abbinate a coppie, ed è plausibile che sia proprio questa l’aggiunta dello Zimbalo. Le coppie di colonne terminano con piedistalli ruotati di 45°: questa soluzione si può vedere all’interno della chiesa anche nell’altare di san Francesco di Paola, realizzato proprio da Francesco Antonio Zimbalo nel 1614. L’ordine ruotato di 45° non è qui isolato, lo si ritrova nella teoria architettonica del manierismo italiano .

Di Riccardi, forse, resta nel portale il motivo delle lesene a “foglie d’acqua” come si evince dal confronto con le foglie d’acanto poste sopra ai capitelli della navata di santa Croce. […] In questa porzione del prospetto entra in campo una terza figura di artista e scultore, Cesare Penna che la conclude entro il 1646. Questa data è riportata in un cartiglio retto da due figure di leoni e sancisce la consacrazione della chiesa.

La balaustra è sorretta da telamoni e figure zoomorfe alternati e che affondano le loro radici culturali in un passato lontano. Il riferimento è ai bestiari medievali, che nel Salento non è inusuale, e lega temi profani e religiosi: l’esempio più significativo è il mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto, eseguito fra il 1163 e il 1165. In Santa Croce il tema potrebbe anche essere quello della Croce vittoriosa sui miti e sulla superbia dei pagani: «L’allusione si evidenzia nella serie dei tredici telamoni che fanno da mensola alla loggia del secondo piano: è, ingrandita nella magniloquenza barocca, l’antica simbologia dei leoni stilofori, che alludono alla bestialità e al male soggiogati: troviamo infatti tra le tredici mensole il leone, ma anche il grifone, l’aquila, il drago, immagini di orgoglio e di mostruosità, nonché la lupa romana, (…) Ercole con la pelle di leone, figure di legionari, di negri, di musulmani, pagani o infedeli antichi e moderni, con provabilissimo, anzi certo, riferimento ai pirati del Mediterraneo, i famigerati turchi sgominati di recente (…) nella battaglia di Lepanto» .

(continua…)

L’articolo è stato pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°6. Verrà riproposto su Spigolature Salentina in più fasi.

I parte: http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/03/30/santa-croce-in-lecce-emblema-del-barocco/

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