La frisella, regina delle tavole salentine

di Marcello Gaballo

Nelle calde serate estive, dopo aver giocato con i fratellini e con gli amichetti nnanzi ccasa, mia madre invitava al rientro immediato perché aveva già preparato la cena: aggiu ssuppatu li friseddhe. L’ordine era perentorio. Bisognava lasciar tutto, anche la conta del nascondino (“mazzareddhe”), per correre filati al desco dove ci attendeva una gustosa e variopinta frisella. Ritardare avrebbe significato trovare nel piatto una molliccia e inzuppata pietanza, disgustosa, che difficilmente poteva mangiarsi con le mani.

Per chi non è salentino diciamo subito che l’arcinota frisa o frisella (friseddha) può paragonarsi ad una galletta secca circolare, che va bagnata in acqua fredda per poterla consumare. In realtà essa è pane casereccio, cotto due volte nel forno di pietra, dopo averla tagliata in due in senso orizzontale.
Alimento “povero”, antichissimo, di basso costo (acqua, farina integrale e lievito), creato per necessità, quando bisognava trasferirsi in campagna, senza possibilità di avere a disposizione il forno in cui cuocere il pane.

Priva di grassi (al contrario di crackers e grissini arricchiti con oli e strutto), fornisce un discreto apporto calorico e nei tempi passati si consumava anche “a secco”, sgranocchiandola nel tardo pomeriggio, durante un viaggio o mentre si lavorava nei campi. Ottima compagna anche per i pescatori e per quanti vanno a fare il bagno, in questo caso spugnandola direttamente nel pulitissimo mare di un tempo, senza bisogno di aggiungervi il sale.
Le nonne la gradivano inzuppata nel latte, a colazione o nelle cene frugali invernali, quando davano fondo all’esubero estivo.

Essendo biscottata, se correttamente conservata, non può andare a male e la sua gradevolezza può anche mantenersi per due-tre mesi, a patto di riporla negli appositi recipienti di terracotta (capase). Lasciata all’esterno, anche solo per poche ore, perde la sua caratteristica croccantezza, sino a “risciuncare”, come per i biscotti lasciati fuori dalla confezione per qualche ora.
Non deve mai essere troppo bagnata (spunzata) e quindi il tempo di immersione in acqua deve limitarsi a pochi minuti (lu tiempu ti ‘n’Ave Maria). Alcuni preferiscono la metà inferiore, più compatta, altri la superiore, più friabile e perciò atta a trattenere maggior quantità di acqua.

Insostituibile compagno della frisella è lo straordinario olio d’oliva locale, con cui si condiscono abbondantemente i pomodori rossi che la ricoprono e le fette di poponelle (minunceddhe) accantonate con le olive nere e le foglie di rucola selvatica (cresta) al bordo della ciotola che la contiene. La dolcezza di questi ultimi veniva alleviata dai rametti di “erva ti mare” sottaceto, preparata all’inizio dell’estate o avanzata dall’anno precedente. Col passare degli anni è stata guarnita con cubetti di mozzarella, cipolla barlettana a fette, tonno, acciughe, olive verdi, sottaceti, magari spolverandola con origano raccolto nelle “macchie” dell’ubertosa campagna salentina.

Delle tante etimologie proposte forse si deve optare per il latino frendere = spezzettare, pestare, stritolare. Frisa dunque sarebbe un participio passato femminile del verbo, da cui il diminutivo frisella. Ma il buon Armando Polito son certo interverrà per chiarire l’arcano.

Una norma valida per tutti: mangiatela con le mani, mai con la forchetta. I vostri commensali salentini vi riterrebbero troppo schizzinosi!

Alcuni termini propri della frisella:
ssuppare: bagnare in acqua, come si farebbe con i crostini nel brodo. È il verbo più appropriato per il nostro alimento.
Spunzare: trattenere acqua oltre il dovuto, tanto da alterare le qualità organolettiche della pietanza. Il grado successivo, che disfa la frisella, si indica con “spulisciare
Risciuncare: rammollirsi della frisa per umidità protratta
Friseddha ti sotta: metà inferiore della frisella che è stata a contatto con le chianche del forno durante la cottura. Più compatta rispetto alla friseddha ti sobbra.
Capasa: grande recipiente di terracotta (circa 5 litri) per riporvi fichi, olive in salamoia o le stesse frise. La chiusura era garantita da un piatto posto in corrispondenza dell’apertura circolare.

Modi di dire:
ssuppatu a friseddha: bagnato fradicio
ti fazzu a friseddha: colpire fino a ridurre a persona informe
ndi ssuppamu ‘na friseddha: invito al convivio, anche se non si consuma la frisella
ruzzulisciare: crocchiare tra i denti della frisa non bagnata.

Bisignano e Nardò. I Sanseverino e gli Acquaviva

Bisignano e Nardò. I Sanseverino e gli Acquaviva

di Roberto Filograna

Sia la città di Bisignano[1](l’antica, medioevale Visinianum), sia la città di Nardò[2] (l’antichissima, messapica Naretinon), legano buona parte della loro storia più recente, dal XV secolo sino ai tempi dell’eversione della feudalità, al nome di due grandi famiglie che detennero il potere feudale ed amministrativo delle due città: i Sanseverino a Bisignano e gli Acquaviva a Nardò.

La famiglia Sanseverino e la famiglia Acquaviva appartenevano al gruppo delle sette famiglie più importanti del regno, assieme ai Ruffo, ai d’Aquino, agli Orsini del Balzo, ai Piccolomini e ai Celano. Ambedue le famiglie, improntarono la storia, l’economia, la cultura e la vita economica e sociale dei due centri, con alterna fortuna per gli stessi e secondo direzioni prevalentemente parallele ma che in qualche occasione divennero convergenti con punti d’incontro che produssero eventi di notevole

Brindisi e le sue tradizioni. Il cavallo parato

di Raimondo Rodia

 

Questa singolare usanza religiosa viene fatta in occasione del Corpus Domini quando il vescovo porta in processione il SS. Sacramento per le vie principali della città montando su un cavallo bianco parato. Alle radici di questa tradizione vi sarebbe la circostanza che Luigi IX di Francia, sconfitto e fatto prigioniero dal Saladino presso la città di Damietta in Egitto, avrebbe concordato per il suo rilascio un riscatto in denaro. In attesa di procurarsi la somma in patria avrebbe lasciato in pegno l’Eucarestia. Approdato a Brindisi ed avendo ottenuto la somma necessaria da Federico II, sarebbe ritornato dal Saladino, il quale gli avrebbe reso il sacro pegno rinunciando al riscatto, come premio della sua fede e lealtà.

Tornando in patria, nel 1250, la sua nave sarebbe approdata a Punta Cavallo, nei pressi dell’imbocco del porto di Brindisi, da dove l’Eucarestia sarebbe stata portata in processione in città’ dall’arcivescovo Pietro, il quale, essendo molto vecchio, avrebbe montato un cavallo bianco tenuto per le briglie da Federico II e Luigi IX. Fà parte della leggenda la circostanza che, nel punto della spiaggia dove il cavallo pose i piedi durante il trasbordo dell’Eucarestia, sgorgasse acqua dolce.

La tradizione della processione del “cavallo parato” inizia a partire dal 1264 ed è unica nel suo genere.

Piccoli seminaristi crescono (I parte)

di Alfredo Romano

A 11 anni non si può decidere cosa fare da grande. Ma entrare in Seminario, quel 30 settembre del 1960, lasciando Collemeto per Nardò, era forse un modo di evadere dal paesino e mettersi in viaggio per strade inesplorate e paesi sconosciuti.

Sono stati cinque anni duri: disciplina severa, un silenzio continuo, riti lunghissimi, lo studio costante. Ero bambino ancora e mi mancava tanto il calore di casa mia, di mamma, papà, i miei fratellini. Avevo fatto il chierichetto naturalmente, come tutti allora, e non nascondo di essere stato affascinato dai riti liturgici con tanto di organo e profumo d’incenso che

Breve storia economica del lampascione

di Armando Polito

Lascio parlare le fonti (le traduzioni dal testo originale, che qui non si riporta per motivi di spazio, sono mie…il lettore è avvertito), limitandomi solo a qualche intervento di collegamento.

Dioscoride Pedanio (medico greco del I secolo d. C.) (De medicinali materia, II, CLXI): “Il bulbo commestibile. Il bulbo commestibile è noto a tutti come cosa che si può mangiare; salutare per lo stomaco, libera l’intestino, è rossastro e viene importato dalla Libia; è amaro, simile alla scilla, più salutare per lo stomaco, favorisce la digestione. Tutti sono aspri, danno calore e eccitano al rapporto sessuale…”.

Non dissimile opinione anche in ambito romano: Publio Ovidio Nasone (I secolo a. C.-I secolo d. C.) (Remedia amoris, 795-800): “Ecco, ti darò anche, per usare ogni dono della medicina, i cibi da evitare e da seguire. Il bulbo della Daunia o quello mandato a te dalle coste della Libia, o venisse pure da Megara1, ti sarà comunque nocivo. Nondimeno è opportuno evitare le afrodisiache ruchette e tutto ciò che prepara i nostri corpi all’amore. Più utile che tu prenda la ruta che aguzza la vista e tutto ciò che nega i nostri corpi all’amore. ”

Dello stesso tenore è la testimonianza di C. Plinio Secondo (I secolo d. C.) che conferma, sia pure parzialmente, la precedente graduatoria di Ovidio (al primo posto il bulbo di Megara1, poi quello africano e infine quello della Daunia), in due passi della Naturalis historia : XIX, 30: ”…sono apprezzati soprattutto quelli (i bulbi) nati in Africa, poi quelli dell’Apulia.”;XX, 105): ” I bulbi di Megarastimolano al massimo grado il desiderio amoroso…”.

Concorde pure la testimonianza di Lucio Giunio Moderato Columella (I secolo d. C.) (De re rustica, X, 105-109): ”…e vengano da Megara1 i fecondatori semi di bulbo che eccitano gli uomini e li armano per le fanciulle e quelli che la Numidia raccoglie coperti dalle zolle getule e la ruchetta che viene seminata vicina al fecondatore Priapo per svegliare all’amore i mariti addormentati.”

Ritorniamo al mondo greco con Ateneo di Naucrati (II-III secolo dopo C.) con le sue numerose citazioni che costituiscono ciò che ci resta di autori antichi: (I deipnosofisti, Difilo2): ”I bulbi sono di difficile cottura ma molto nutrienti e salutari per lo stomaco; inoltre sono purgativi e indeboliscono la vista, ma sono eccitanti nei rapporti sessuali. Il proverbio dice: Per niente ti gioverà il bulbo se non hai vigore. In realtà sono afrodisiaci tra loro quelli chiamati regali, che sono superiori agli altri, tra i quali quelli rossastri. Invece quelli bianchi e quelli della Libia sono simili alla scilla; i peggiori tra tutti, però, sono quelli egiziani”)].

Pur tenendo conto della difficoltà di identificare senza ombra di dubbio il bulbus con il lampascione3, non si può non ricordare che due tipi di bulbus compaiono nell’Edictum de pretiis rerum venalium emanato nel 301 d.C. dall’imperatore Diocleziano, che stabiliva il prezzo massimo per vari tipi di merce. E tra le derrate alimentari nella sezione De oleribus et pomis (Ortaggi e frutti) si legge: bulbi Afri siv[e] Fa[b]riani maximi no. viginti denarii duodecim bulbi minores no. quadraginta denarii duodecim bulbi africani ovvero fabriani grandissimi no. venti dodici denari bulbi più piccoli no. quaranta dodici denari)

Come si nota, i bulbi africani (maximi), allora, sul mercato valevano esattamente il doppio rispetto ai minores (da presumere di produzione italica), nonostante un’altra sezione dello stesso editto mostri (dopo che i Romani avevano riempito di strade tutto l’impero) che il prezzo di trasporto per mare era di due denari per miglio/tonnellata, quello per terra di cinquanta denari: oggi è esattamente l’opposto e i nostri lampascioni si sono presi, a distanza di parecchi secoli, la loro brava rivincita su quelli africani: un raro esempio di ribaltamento di una originaria esterofilia alimentare?

Ma non è finita, perché essi sono riusciti a rendere obsoleti perfino vecchi proverbi. Uno di questi sanciva la fine delle abbuffate carnevalesche e l’inizio del digiuno (o quasi) quaresimale:

È scurùtu lu Carniàle

cu ppurpètte e mmaccarrùni;

mò ndi tocca l’acqua e ssale

e qquattru, cinque lampasciùni

È finito il Carnevale

con polpette e maccheroni;

adesso ci tocca l’acqua e sale4

e quattro, cinque lampascioni.

Anche qui i rapporti si sono invertiti: il lampascione, quello pugliese, in passato cibo povero, oggi, con la sua quotazione di mercato, è tutt’altro che simbolo di frugalità e rinunzia, ruolo che, paradossalmente rischiano di assumere le polpette e i maccheroni, che un tempo erano (soprattutto le prime) il cibo delle grandi occasioni.

E non è detto che il significato traslato di stupido diventi in breve volgere di anni obsoleto: come si può continuare a dare quest’appellativo, che indica oggi qualcosa di pregiato, ad un uomo di poco valore?

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1 Megara è il nome di due città, una in Grecia, l’altra in Sicilia; è più verosimile che quella citata da questo autore e da altri sia la seconda, dal momento che Dioscoride Pedanio accenna solo ai bulbi provenienti dalla Libia e non a quelli, per così dire, nazionali di Megara.

2 Naturalista del III secolo a. C.

3 Lampadio compare per la prima volta in un manoscritto del X secolo (che secondo gli studiosi si rifà ad uno, perduto, di almeno tre secoli prima) contenente la traduzione in latino di un pezzo in greco di Oribasio (erborista e medico bizantino del IV secolo d. C.).

4 Simbolo della frugalità di altri tempi quando una cena consisteva in qualche pomodoro affettato in acqua e sale.

Gnorumàru, negro amaro, Negramaro

(da http://www.cantinadefilippo.com/img/negramaro.gif)

di Armando Polito

Gnorumàru è il nome di un vitigno tipico del Salento. Il corrispondente italiano, divenuto ormai simbolo nel mondo della produzione enologica salentina, è negro amaro/negramaro, inteso come composto da negro (dallo spagnolo negro, a sua volta dal latino nigrum) e amaro (dal latino amàrum); in realtà si tratta di una paretimologia giacchè gnorumàru risulta composto sì da gnoru (stessa etimologia di negro), ma il secondo componente non è amàrum bensì màurum=della Mauritania, africano (dal greco màuros=nero), a sottolineare in un sol colpo  il colore nero violaceo del frutto e il luogo d’origine. L’italiano, perciò, nel trascrivere correttamente la voce neritina, avrebbe dovuto dare vita a negromauro/negromoro. E’ nato invece, come sappiamo, negramaro, alla faccia di quanti vorrebbero che la lingua venisse costruita dagli addetti ai lavori nella speranza, forse anche così vana, di non incorrere in fraintendimenti ed errori. Ma la lingua è fatta dai parlanti: senonchè non tutti i parlanti sono filologi, anche se tutti i filologi sono parlanti; è stato così da sempre e perciò non è certo il caso di scandalizzarsi più di tanto: in fondo negramaro è solo la consacrazione ufficiale di un’errata “traduzione” dalla lingua originale e anche se la voce fosse stata creata da un filologo potremmo sempre confortarci pensando che quel tale era sotto l’effetto dello gnorumàru.

Dagli effetti sconvolgenti del vino a quelli coinvolgenti della musica il passo è breve: così negramaro è diventato anche il nome di un complesso musicale salentino affermato a livello nazionale e non solo.
E magari qualche critico musicale, mettendo il suo sigillo autorevole sull’errore paretimologico, arriverà ad affermazioni del genere: “La musica de i Negramaro è già tutta contenuta nel nome: magico mix di tristezza soul e di tragica amarezza mediterranea”. Dovrei ridere, ma mi vien da piangere… ottima scusa per consolarmi pensando che “non mi resta che allacciare un paio d’ali alla mia testa/e lasciare i dubbi tutti a una finestra1”; lo faccio bevendo un bicchiere di negramaro: alla salute!

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1 La finestra, dall’omonimo album del 2007.

Eccole che arrivano: mosquito, gnat, Mücke, moustique. Insomma, le fastidiosissime zanzare

di Antonio Bruno

Quel zzzzzzzzzz insistente che in italiano trova eco nel nome zanzara eco che, invece non c’è in altre lingue, dove si chiama mosquito, gnat, Mücke, moustique. Comunque zanzara Genere: Culex pipiens; Ordine: Ditteri (Diptera); Classe: Insetti (Insecta).

Zanzara: la parola non dovrebbe avere significato, dovrebbe essere più un suono che una parola e infatti è un suono quel zzzzzzz che ha il significato che “stanotte non si dorme” se non accendi lo zampirone o se non metti un rimedio che rischia di farti stare male.
Perché ne scrivo? Si avvicinano le notti piene di caldo, le notti che ti giri e rigiri nel letto alla ricerca di una punto più fresco, le notti in cui nel silenzio ecco che giunge il zzzzzzzzzzz assordante della notte e il grattarsi per il prurito da puntura. Per questo ne scrivo, anche perché non siamo più nel primo ventennio del ‘900 quando si diffondeva sempre di più la malaria e la disoccupazione.

Ricordo a me stesso che tra il 1924 e il 1932 i casi di malaria registrati nella sola Ugento nel Salento leccese oscillarono tra i 1.071 e i 2.416, su una popolazione complessiva di circa 5.000 abitanti. Le scoperte scientifiche sul finire del secolo, tra il 1880 e il 1898 dimostrarono che un protozoo, ovvero il plasmodio (Plasmodium Falciparium), era l’agente patogeno della malaria e la zanzara anofele il vettore. Anopheles Meigen, 1818, è un genere di insetti appartenente alla famiglia delle Culicidae ed unico compreso nella sottofamiglia Anophelinae. Questo particolare genere è tristemente famoso poiché vettore principale di trasmissione di numerose patologie parassitiche che colpiscono l’uomo, tra le quali la malaria, il verme parassita dirofilaria immitis ed il virus della febbre chiamata O’nyong’nyong.

Spaventati vero? Ma il plasmodio (Plasmodium Falciparium) nel Salento leccese è stato debellato e quindi le notti che sono caratterizzate dal zzzzzzzzz della zanzara Anopheles non hanno conseguenze.
Ci sono tante specie di zanzare che però non pungono l’uomo. Infatti la maggior parte delle specie si nutre del sangue di uccelli, anfibi ed altri animali vertebrati. Le specie che pungono l’uomo si dicono antropofile e sono solo le femmine della zanzara che, per poter maturare le uova, hanno bisogno delle proteine che si procurano pungendoci e succhiando il nostro sangue. I maschi invece si nutrono di liquidi zuccherini e quindi sono assolutamente inoffensivi.
Si possono distinguere due sottospecie di zanzara la Culex pipiens molestus e la Culex pipiens pipiens, difficilmente distinguibili. Per i diversi ambienti normalmente colonizzati la Culex pipiens molestus è conosciuta come forma urbana, mentre la seconda come forma rurale.
Poi c’è la zanzare tigre (Aedes albopictus Skuse, 1894) che compie 20 anni di soggiorno in Italia, il primo avvistamento fu fatto a Genova, nel ’90, arrivò dal Sud America dentro i copertoni da smaltire. Ed è in arrivo una pericolosa “cugina” che si chiama Aedes egipti, che veicola la febbre gialla e arriva nei porti. Finora non è arrivata da noi perché non riusciva a sopportare il freddo invernale. Ma ora con l’aumento medio delle temperature e le importazioni si potrebbe stabilizzare tranquillamente, e non ce ne accorgeremmo, perché è perfettamente identica alla zanzara tigre.
Cosa fare? Prima di tutto bisogna sapere che cosa fanno le zanzare e poi stabilire un programma d’azione. La femmina di queste specie che pungono l’uomo ha un apparato boccale pungente succhiatore, che funziona come una siringa ipodermica. Allora questa siringa volante che dovrà pungerci viene attirata dall’anidride carbonica che emettiamo con la respirazione, dall’odore del nostro sudore, dall’acido lattico che si è formato nei nostri muscoli e dalle correnti termiche di convenzione che si formano attorno al nostro corpo.
E quando ci ha individuati si poggia sulla nostra pelle che viene ispezionata dalla maledetta con la punta del suo labrum che è il suo pezzo boccale superiore, quella brutta siringa volante ci palpa la pelle per trovare un’area idonea. Poi con gli stiletti boccali che sono 4 pezzi derivanti a coppie dalle mandibole e dalle mascelle, inizia a lacerare le cute, e con essi penetra dentro la nostra pelle insieme al labrum e all’ipofaringe insomma ci fa sentire un ago formato da tutti questi che tvengono chiamati fascicolo.
Mentre il fascicolo penetra, il labium che ho già scritto che è il pezzo boccale inferiore, si piega a gomito all’indietro scorrendo lungo il fascicolo stesso che gli fa da guida.
La zanzara con un movimento avanti e indietro fa penetrare il fascicolo in profondità fino a raggiungere ed entrare in un capillare, o almeno, sino a danneggiarlo quel tanto da farlo sanguinare.
A questo punto ecco uscire la saliva della zanzara che fluisce attraverso il suo ipofaringe e si mescola con il sangue diluendolo. Tutto questo ha la finalità di rendere più facile la suzione del nostro adorato sangue. Ma nella saliva della zanzara ci sono anche alcune componenti che provocano il rilascio di istamina che fa dilatare i capillari che stanno nelle vicinanze e quindi la nostra zanzara potrà succhiare molto più sangue, ci dissanguerà questa insetta assassina. E fosse solo il sangue ciò che gli doniamo! Ci sono delle reazioni che lasciano quel senso di prurito intorno alla puntura che ci costringe a grattarci svegliandoci durante la notte. La saliva della zanzara per non far coagulare il nostro sangue contiene anche delle sostanze anticoagulanti che impediscono la formazione di coaguli mentre lei ci sta succhiando il nostro sandue goccia dopo goccia.
In pochi minuti quella femmina di zanzara carica di una quantità di sangue sino al peso del suo corpo, finalmente sazia, se ne va volando via.
Io mi chiedo e vi chiedo: se andaste in vacanza in una qualsiasi parte del mondo, gradireste avere un trattamento di questo genere ad opera di un insetto che fa zzzzzzzzzzzzzzzzzz?
Il Centro Studi del Dottore Agronomo e del Dottore Forestale della Provincia di Lecce ha elaborato un progetto di studio che ha l’obiettivo della conoscenza del territorio e delle specie esistenti in modo da comporre il quadro di informazioni necessario per costruire ed applicare una strategia di difesa in grado di stabilire con precisione la reale necessità di un intervento.
Intanto possiamo fare tutti qualcosa. Possiamo mettere in atto semplici comportamenti che possono ostacolare il proliferare di questo insetto nelle aree private e che hanno lo scopo di evitare il più possibile i ristagni d’acqua, l’habitat fondamentale per il suo ciclo vitale.
Tenere pulite vasche e fontane, verificare che le grondaie non siano ostruite, trattare i tombini con prodotti larvicidi, non utilizzare sottovasi, non lasciare innaffiatoi e secchi con l’apertura verso l’alto, non accumulare copertoni.
È nelle zone di deposito e raccolta di acqua stagnante che nasce e si sviluppa la Zanzara e quindi se in questi posti si mettono in atto semplici comportamenti, piccole abitudini si può ostacolare il proliferare dei focolai nelle aree private. E’ un Progetto per una strategia integrata di lotta alla Zanzara che ha l’obiettivo di affrontare in modo coordinato il diffondersi di questo insetto che costringe le Amministrazioni comunali del Salento leccese a sostenere costi per le disinfestazioni a cui si aggiungono le spese dirette di tutti noi per l’acquisto di prodotti per la protezione personale e per le cure mediche.
L’obiettivo del progetto è di creare un approccio integrato al problema, ricercando anche soluzioni innovative per la prevenzione e la gestione dei focolai.
Una volta stabiliti i siti dei focolai si potrà mettere in atto la tecnica messa a punto dal collega Dottore Agronomo Fabio Grattarola dell’Assessorato all’Ambiente del Comune di Aqui Terme.
Si devono costruire delle ovitrappole. Una ovitrappola è fatta da un bicchiere di plastica nero riempito per metà di acqua e lasciato nel terreno per non più di 5 giorni. In questo modo si attrae la femmina che depone le sue uova. Dopo 5 giorni si svuota l’acqua nel terreno e le uova che vi sono state deposte o le larve che si sono formate al contatto con il suolo e senza acqua muoiono.
Non si deve aggiungere alcuna sostanza chimica, basta della semplice acqua.
Se si segue questa semplice procedura e si vuota il bicchiere dopo 5 giorni si assicura una trappola per catturare uova e larve per poi ammazzarle e non acqua per produrre zanzare.
Se poi con lo stesso metodo si aggiunge nell’acqua delle pasticche di bacillus thurinsiesis israelensis si combattono anche le altre larve o uova. Il batterio è attivo per tre/quattro giorni, quindi il bicchiere va comunque svuotato e soprattutto la raccomandazione è svuotarlo nel terreno e mai nei tombini.
Il Bacillus thuringiensis venne scoperto nel 1901 in Giappone e nel 1911 in Germania da Ernst Berliner; è un batterio sporigeno che vive nel terreno. Quando viene ingerito mediante vegetali contaminati, il batterio sporula nell’ospite liberando le tossine che sono innocue per gli esseri umani e che danneggiano il tratto digerente delle larve delle zanzare.
Le tossine sono contenute all’interno di cristalli che si dissolvono in particolari condizioni presenti a livello intestinale di alcuni insetti. Al fine di favorire la solubilizzazione del cristallo il pH deve essere alcalino (pH >9). Le tossine Bt sono estremamente specifiche ed interagiscono con l’intestino di determinate specie d’insetti e tra questi le zanzare.

*Dottore Agronomo

Bibliografia
Antonio Vincenzo Greco: “Le bonifiche n ella storia del paesaggio del Tarantino Sud-orientale”, in Umanesimo della Pietra Verde 7, 1992 Martina Franca
Roberto Perrone: “Le paludi del Tarantino occidentale prima delle bonifiche”, in Umanesimo della Pietra Verde 7, 1992 Martina Franca
Floriano BOCCINI, Erminia CICCOZZI, Mariapina DI SIMONE, Nella ERAMO, Maura PICCIALUTI: Fonti per la storia della malaria in Italia
Stefania Busatta: La zanzara
La zanzare tigre compie 20 anni di soggiorno in Italia: non se ne andrà più Il giornale del 4 giugno 2010 http://www.ilgiornale.it/interni/la_zanzare_tigre_compie_20_anni_soggiorno_italia_non_se_ne_andra_piu/cronaca-attualit-zanzara_tigre_anni/04-06-2010/articolo-id=450576-page=0-comments=1
Luca Marzocchi: Zanzare, lotta integrata e mirata nei siti dove proliferano le larve. Terra e vita n° 18 dell’ 8 maggio 2010.
ANTEA: www.entomologia-antea.it
Comune di Acqui Terme – Assessorato all’ambiente – Dottore Agronomo Fabio Grattarola referente tecnico-scientifico del Comune per la lotta biologica ed integrata alla zanzara tigre http://www.acqui-ambiente.it/pages/assessorato.htm
Bacillus thuringiensis: http://www.ispave.it/fpdb/bancadatibiologica/dettaglio.asp?principio=10

Emigrazione/ I leccesi a Civita Castellana (Viterbo)

di Alfredo Romano


Qualcuno si chiederà come mai molti leccesi abbiano scelto come luogo d’emigrazione Civita Castellana e non le tradizionali città del Nord. Non si tratta, innanzitutto, di una scelta, ma del risultato di una congiuntura economica nel mercato delle braccia.

La coltivazione del tabacco

Ci fu a Civita Castellana, dal dopoguerra in poi, una forte richiesta di manodopera specializzata nella coltivazione del tabacco. Il risveglio dell’economia ceramica aveva provocato una carenza di salariati e brac­cianti. I proprietari terrieri erano per ciò costretti a ripiegare su colture estensive, per lo più seminativi e pascoli che, se da una parte non ri­

La cripta di Santa Maria della Porta nel casale di Pisanello a Galatina

di Raimondo Rodia

Pisanello fu un casale bizantino, come si evince da un documento risalente al 1427, ed era ubicato tra Noha, Sogliano, Galatina, in una favorevole posizione viaria.

La sua fondazione corrisponde alla tipologia insediativa “basiliana” che presuppone un ruolo di polo attrattivo svolto da un luogo di culto come appunto quello di S. Maria della Porta, di altre cappelle come S. Anna, presso il casale vicino di Pisano, S. Antonio, S. Maria di Cantalupo, S. Nicola, S. Eulalia, S. Maria della Candelora e di altre ormai scomparse che crearono nella zona una vasta trama di sedi di culto.

Una stele con una iscrizione messapica del IV secolo a.C., trovata nel 1882 ed attualmente visibile al museo civico Cavoti di Galatina, resti di vasi in terracotta rinvenuti nella zona e la presenza di frammenti di ceramica risalenti allo stesso periodo ritrovati in un campo posto ai confini di ponente della contrada di proprietà della famiglia Giannini, ci possono far pensare ad un insediamento messapico nella zona. Infatti l’enorme quantità di frammenti, la varietà delle fatture dei vasi, la loro concentrazione, fanno presumere che in questa zona potesse esistere una fornace con centro di vendita oppure un grosso centro commerciale, distrutto per cause ignote .

Una leggenda vuole il passaggio di S. Pietro in questa contrada. L’apostolo, provenendo da Otranto, avrebbe sostato e riposato su di masso esistente nella zona. Anche le leggende, però, vanno alimentate, così il celebre vescovo di Otranto, ma dimorante a Galatina, Gabriele Adarso De Santader nel 1670 trasferì una pietra attualmente conservata nella chiesa matrice di Galatina lasciando sul posto una colonna con l’iscrizione memoriale
hic S. Petri defessi levamen.

Il De Giorgi attribuisce la distruzione del casale ai soliti saraceni; interessante a questo proposito una graziosa filastrocca raccolta dal Casotti nel libro “Opuscoli rari” edito a Firenze nel 1874, ed alludente alle “acchiature “ cioè i tesori nascosti del territorio:
Pisano e Pisanello distrutti fur dai mori sotto l’altar maggiore si trovano i tesori.
Questo episodio può essere avvenuto nel V secolo con le guerre gotiche oppure nel 944 per opera di pirati algerini, oppure di mori che altro non sono che i turchi, i quali, conquistata Otranto nell’ agosto del 1480, rivolsero le attenzioni con brevi scorrerie all’interno del territorio salentino.

In una di queste incursioni, in cui perse la vita il conte Giulio Antonio Acquaviva di Conversano il 7 Febbraio del 1481 , vennero messi a fuoco non solo Soleto e Galatina, ma anche tutti quei piccoli casali senza mura che, da quel momento in poi, rimasero disabitati. Non a caso dalle visite pastorali e dai sinodi otrantini che vanno dall’inizio del XV secolo fino alla fine del XVII il casale Pisanello è riportato come loco inhabitato.

Dai registri angioini il casale risulta infeudato fin dal tempo di Carlo I d’Angiò che lo aveva concesso a Boemondo Pisanello e che alla sua morte era passato al figlio Guglielmo il 13 Settembre 1275.

Succeduta al padre Guglielmo, Caterina Pisanello nel 1329 porta in dote al marito una vasta baronia che oltre a Pisanello comprendeva Alliste, Felline e quote di Carpignano, Tutino, Puzzomanno, Pisignano ecc.

Durante il XIV secolo Pisanello era incluso nei territori di Gualtiero VI di Brienne conte di Lecce; nel 1353 fu infeudato a Filippo di Altomonte, successivamente nel XV secolo agli Alami. Nello stesso secolo passò a Luigi Dell’Acaia poi a Vincenzo e Antonio De Noha, anche se nel 1489 Antonello De Noha, indebitato per oltre 104 ducati verso i fratelli Zaccaria di Venezia, subisce il pignoramento di Pisanello e Noha . La famiglia d’Acaya lo possiede fino al 1525.

Le nozze tra Adriana De Noha e Girolamo Montenegro mutarono l’intestazione feudale a nome dei Montenegro. Dopo un breve possesso di Orazio Guarini, che aveva acquistato Pisanello nel 1606, il territorio entrò a far parte della vastissima baronia degli Spinola con Galatina , Soleto, Noha, ecc.

Da un documento presente nell’archivio di stato del notaio Emilio Arlotta del 22 Luglio 1906, registrato al n° 93 del repertorio generale ed al n°610 dello speciale, relativo alla domanda di separazione di Noha dal comune di Galatina, risulta che Noha ebbe autonomia comunale fino al 1811, quando venne fagocitata dalla potente Galatina. Dal documento si evince anche che Pisanello, suffeudo di Noha sin dal 1200 fino all’epoca catastale, ha gli stessi diritti del feudo di Noha a cui era legato. Infatti molti documenti del casale di Pisanello sono legati alle vicende del feudo di Noha, come risulta da un documento di un contratto del 1439 con il quale Boezio De Noha compra dal principe Giovanni Antonio Orsini Del Balzo i possedimenti di Sava e Giurdignano avendo già Pisanello, Villanova, Alliste, Felline ecc. e in questa direzione vanno fatte le prossime ricerche.

Passando ora alla descrizione della cripta di S. Maria della Porta faremo alcune congiunture che sono ancora da verificare. La cripta situata lungo una strada campestre a pochi centinaia di metri dalla strada statale 476 di proprietà delle sorelle Gaballo, ha l’invaso originale non più visibile. Questo invaso si potrebbe trovare sotto od attorno all’attuale complesso architettonico, costituito da un chiostro scavato e da una chiesa in muratura, datata 1889, con copertura a cupola e di forma circolare. Sicuramente il chiostro di quello che doveva essere un cenobio basiliano scavato nel tenero tufo sul finire del XIX, secolo come abbiamo visto dall’iscrizione presente sul mosaico della chiesa circolare, diviene un cosiddetto giardino di delizia, prova ne sia appunto il mosaico che ricopre non solo la chiesa ma anche il chiostro, con la presenza di gradino sedile, fontane e ninfei fatti con le conchiglie.

Il cenobio basiliano era nell’attuale zona della chiesa, che stranamente ha una forma circolare che ben si adatta alla zona dell’ingresso dell’antico monastero. Attualmente rimangono a testimoniarlo tutt’intorno alla chiesa un’intercapedine che, dietro all’altare, sembra portare ad un corridoio o “dromos” ed alle cellette dei monaci.

L’antica cripta doveva avere tre navate divise in nove campate da quattro pilastri come nella cripta di S.Salvatore a Giurdignano. Inoltre la cripta, come altre chiese di rito greco, doveva essere triabsidata e con un’esposizione est-ovest.

Non ci sono tracce di arredi litoidi, iconostasi od altro tra “bema” e “naos”. Il chiostro con la chiesa si trova cinque metri sotto il piano della campagna e con l’edificazione del complesso edilizio di cui abbiamo riferito ha subito notevoli trasformazioni e, purtroppo, danni da parte di vandali o tombaroli poco attenti verso questo bene storico.

Un Lord a Marittima

di Rocco Boccadamo

Da alcuni anni, a Marittima, precisamente all’uscita dal paese sulla strada provinciale che porta a Castro, è operante una struttura turistico – alberghiera, piccola ma accogliente e di semplice eleganza nella formula del bed & breakfast, che vanta una storia molto singolare.

E’, Marittima, un paesino del sud Salento, ameno e solatio, all’incirca a metà percorso, in linea d’aria, fra Otranto e Santa Maria di Leuca, adagiato a ridosso di una delle tipiche serre che, nella zona, declinano fin verso la costa rocciosa contraddistinta da alte e ripide scogliere.

Alla sua periferia, sorge un grazioso Santuario, dedicato alla Madonna di Costantinopoli, costruito intorno al 1620, mentre, appoggiato a tale chiesetta, si trova un altro edificio, realizzato quasi contemporaneamente, che sino alla seconda decade del XIX secolo, ha ospitato un convento di frati francescani.

Quest’ultimo complesso consta di una serie di sale e locali su due piani, in gran parte prospicienti su un elegante chiostro, comprende anche un frantoio ipogeo ed è circondato da terreni. Per molti anni, infine, è stato la residenza del vescovo di Castro, praticamente sino alla soppressione della relativa diocesi, avvenuta sempre nella seconda decade del 1800.

Andati via i monaci, l’ormai ex convento ha vissuto una lunghissima buia sequenza temporale, passando sotto la proprietà di una serie di privati e subendo svariate destinazioni d’uso, fra cui manifattura di tabacchi, allevamento di animali domestici, deposito. Ciò, con inevitabile progressivo degrado.

In occasione dell’ennesimo cambio di titolarità, circa un decennio addietro, nel ruolo di compratore è inopinatamente intervenuto un personaggio particolare, l’inglese Lord Alistair McAlpine, il quale, da giovane, lasciò la propria patria per l’Australia, dove, proseguendo l’attività imprenditoriale già avviata dai familiari, è andato via via realizzando una serie di grosse iniziative in campo edilizio, alberghiero eccetera. In pari tempo, si è inoltre interessato di ricerche e di studi su antichi reperti e manufatti artistici, dando luogo a preziose collezioni. Alistair McAlpine è, poi, autore di diversi volumi e di articoli di stampa e ha pure ricoperto cariche pubbliche fra cui quella di consigliere del Teatro Reale Inglese.

Già buon conoscitore dell’Italia, avendo abitato per diverso tempo a Venezia, Lord McAlpine si è determinato ad effettuare l’importante investimento nel nostro Salento, sembra su segnalazione della sua amica baronessa Esmeralda Winspeare, madre del regista cinematografico Edoardo, la quale come noto vive a Depressa (Lecce).

Dopo l’acquisto dell’immobile, il nobile britannico ha fatto eseguire lunghe e accurate opere di recupero dell’edificio, con interventi scelti e mirati, in modo da salvaguardarne le strutture originali, effettuando anche notevoli lavori di piantumazione e di sistemazione dei terreni circostanti, con puntuale recupero dei muri a secco, e realizzando una piscina. Tante aiuole fiorite, infine, impreziosiscono l’insieme.

Cosicché, l’ex convento ora si presenta rinato a nuova vita e attrezzato con arredi di gusto.

Lord McAlpine, dalla fine del 2002, ne ha fatto la sua stabile dimora e, come detto prima, ha parallelamente messo la struttura a disposizione di turisti e visitatori attraverso un servizio bed & breakfast. Risultato è che, ora, in tutto l’arco dell’anno, sono presenti numerosi ospiti, provenienti principalmente dalla Gran Bretagna e dagli USA.

Da vecchio “compaesano” ho voluto presentarmi e conoscere Lord McAlpine, porgendogli il benvenuto nel Salento e complimentandomi per l’ottimo lavoro svolto nell’ex convento.

Zzippu ti pitàccia: è lei l’inventore della zip?

di Armando Polito

Ci accompagna dalla nascita fino alla morte, salvo casi eccezionali in cui, quando è motivo di disagio, può anche, tramite apposita istanza al Tribunale, essere cambiato. Si tratta del cognome, cioè di quella parte dei dati anagrafici che ognuno eredita normalmente dal padre (qualche volta dalla madre) e che indica l’appartenenza ad una famiglia; libera è, invece, come ognun sa, la scelta del nome, anche se spesso essa è condizionata dai fattori più disparati, da quelli politici (quanti Benito nel ventennio!) a quelli, per così dire, canzonettistici (quante Roberta negli anni ’60, quando Peppino di Capri lanciò l’omonima canzone!).

I Romani avevano il praenomen (corrispondente al nostro nome), il nomen (corrispondente al nostro cognome) e l’agnomen (corrispondente al nostro soprannome); per esempio, Marcus (Marco) Tullius (Tullio) Cicero (Cicerone): Tullius indicava l’appartenenza alla gens (famiglia) Tullia, Cicero (da cicer=cece) si riferiva ad un bitorzolo che, secondo le antiche testimonianze, il famoso oratore aveva sul naso. Il soprannome poteva fare riferimento anche ad un difetto fisico, per così dire, acquisito: è il caso di Caius (Caio) Mutius (Muzio) Scaevola (Scevola), in cui Mutius indicava l’appartenenza alla gens Mutia e Scaevola (da scaevus=sinistro) alludeva alla punizione che inferse alla sua mano destra (la bruciò ponendola su un braciere) per aver fallito l’attentato contro Porsenna.
In alcuni casi, addirittura l’originario soprannome (agnomen) diventava nome di famiglia (cognomen) in aggiunta a quello della gens e il personaggio, se era necessario, assumeva un nuovo soprannome: è il caso, per esempio, di Publius (Publio) Cornelius (Cornelio) Scipio (Scipione) Africanus, in cui Cornelius indicava l’appartenenza alla gens Cornelia, Scipio [che originariamente era il soprannome, da scipio=bastone (onestamente non so con riferimento a quale potenza…)] l’appartenenza alla famiglia e Africanus alludeva alla sua vittoria a Zama (in Numidia, regione dell’Africa settentrionale) contro Annibale; va detto che a questo personaggio venne inoltre affibbiato, come se non bastasse, l’ulteriore denominazione di maior (maggiore) per distinguerlo da Publius Cornelius Scipio Aemilianus Africanus minor (Aemilianus perché in realtà era figlio di Lucio Emilio Paolo, anche se adottato dall’Africano maggiore), che distrusse Cartagine e Numanzia. Per completezza va citato pure Lucius Cornelius Scipio Asiaticus, fratello dell’Africano maggiore e vincitore di Antioco a Magnesia.

Tornando a tempi a noi più vicini, va osservato che, soprattutto nei centri minori, fino a qualche anno fa le famiglie erano conosciute più per la ‘ngiùria (nomignolo, alla lettera ingiuria) che per il cognome; essendosi perso nel tempo il ricordo delle ragioni che avevano spinto qualcuno ad  affibbiare al capofamiglia la ‘ngiùria, non sempre risultava agevole, per chi avesse voluto farlo,  la ricostruzione della sua origine; lo stesso non valeva, invece, per la ‘ngiùria meno, per così dire, storicizzata, quella affibbiata al singolo individuo1.

Talora la fama e il nomignolo varcavano i confini ristretti del proprio paese; non a caso, per esempio, mia madre nei suoi aneddoti metteva in campo Zzippu ti pitàccia, di origine leveranese. Il ragazzino che ero io all’epoca considerava quel nesso quasi uno scioglilingua, qualcosa che non suscitava voglia di approfondire. Non avrei mai immaginato allora che a distanza di più di mezzo secolo avrei scritto queste righe.

So che la parte che sto per affrontare sarà noiosa per qualche salentino, ma io sento il dovere di farmi capire anche da chi salentino non è e su questo sito (e non solo su questo) non ha avuto esitazioni nell’esprimere interesse e amore per la nostra cultura.

Zzippu, che designa un ramoscello secco, è voce che il Rohlfs registra nel suo vocabolario senza fornire, però, alcuna proposta etimologica. Io non escluderei un collegamento (non derivazione!) col romanesco zeppo, a sua volta da zeppa che, secondo alcuni è dal longobardo *zippa=estremità appuntita, secondo altri dal latino cippu(m)=cippo.

Ti corrisponde alla preposizione semplice di. E passiamo a pitàccia, per la quale il discorso sarà più lungo coinvolgendo altri aspetti della nostra cultura che esulano dal nomignolo del nostro personaggio. La pitàccia è la patta dei pantaloni. La voce è dal latino *pitàccia, plurale neutro collettivo di *pitàccium, dal classico pittàcium=pezzo di cuoio, tela o carta, registro dei conti, dal greco pittàkion=pergamena incerata, tavoletta, elenco di soci, striscia di tela usata per impiastri. Pittàci (italianizzato dagli storici in pittagio o pittaggio) era anche in epoca medioevale un nome comune che significava quartiere, con i nessi relativi fèmmina ti pittàci=pettegola, sta ccumbìni ‘nu pittàci =stai facendo confusione, e cce ggh’è ‘stu pittàci?=che cos’è questo chiasso? Filologicamente parlando pitàccia è la sorella di pittàci, entrambi figli del citato *pitàccium; solo che, mentre pittàci ha subito uno slittamento semantico (da registro, elenco di soci a divisione territoriale e amministrativa; ulteriore slittamento per metonimia nei nessi riportati: dall’ambiente agli effetti comportamentali, naturalmente presunti, di chi ci vive), pitàccia, invece, ha conservato il suo significato originario di pezzo di tela. E’ questo il significato che, con slittamento peggiorativo a straccio, ha visto la variante napoletana petàccia/petàccio trovare la sua nobilitazione nella poesia da Sgruttendio a Viviani. Il salentino in questo campo ben poco può opporre a Napoli, ma Zzippu ti pitàccia contribuisce nel suo piccolo a colmare, almeno in parte il divario, ergendosi quasi a simbolo concorrenziale di quella fantasia ed inventiva che nella città partenopea, piaccia o non piaccia, hanno il loro santuario: il  personaggio sarà stato pure un contadino ma, come dice il noto proverbio, anche un cervello fino, perché, laddove altri rimasero con le brache a terra, lui, invece, ingegnosamente ovviò all’inconveniente facendo passare uno zzippu tra le asole della patta rimasta senza bottoni. Un’occasione persa dalla paretimologia (falsa etimologia, etimologia popolare, senza alcun fondamento o riscontro scientifico) per affermare che la zip trae il nome da (Z)zip(pu ti pitàccia). E a me non resta, a questo punto, che sciogliere negativamente, pur controvoglia, la domanda frizziana (che cosa non deve fare uno per suscitare attenzione!)  contenuta nella seconda parte del titolo.

Centro storico di Nardò (ph Fabio Fiorito)

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1 In passato anche l’intera popolazione di un centro abitato aveva il suo bravo nomignolo affibbiatole, naturalmente, dagli abitanti dei centri vicini. Sull’argomento fondamentali sono i quattro fascicoli del Babbarabbà, lo speciale del Quotidiano, usciti nel dicembre 1990 e riediti in volume nell’agosto 1991: vi sono riportati i nomignoli degli abitanti dei paesi delle provincie di Brindisi, Lecce e Taranto corredati di interessantissime osservazioni sulla loro origine. Solo per quattro paesi su 145 manca il nomignolo degli abitanti e per i rimanenti 141 i nomignoli spesso sono più di uno.

Tra quei quattro paesi c’è Nardò: sento ciò non come motivo di orgoglio per una poco probabile superiorità morale o per un malinteso senso del prestigio, al contrario, come testimonianza di una sorta di vuoto culturale rimasto, stranamente, incolmato, di un’identità collettiva quasi amorfa e, quel che è peggio, senz’anima.

Un murales nel centro storico di Copertino

Copertino (Lecce), Via Regina Margherita, Maria d’Enghien parte con il suo esercito per difendere Taranto dall’assedio di Ladislao re di Napoli, dipinto su muro realizzato dal professor Franco Contini e dai suoi allievi Antonio Mingolla, Giovanni Perdicchia e Stefano Tanisi, studenti dell’Accademia di Belle Arti di Lecce (11/9/2006).

La scena rappresenta un momento preciso della vita di Maria d’Enghien, principessa di Taranto, contessa di Lecce e Copertino. Morto il 17 gennaio 1406 il marito Raimondo del Balzo Orsini, n’è occultata la notizia affinchè re Ladislao non affretti gli apparecchi di guerra e non trovi il principato di Taranto indifeso. Maria chiama a raccolta i suoi alleati tra i quali spiccano i Sanseverino duchi di Venosa e si trasferisce a Taranto, capitale del feudo e centro della resistenza, portando con sé i quattro figliuoli: Maria, Caterina, Giovanni Antonio e Gabriele.

Bellissima nella sua armatura d’argento, ornata di gioie, con la sola presenza effondeva coraggio alle truppe che più volte seppero vincere l’assedio. Vicino a lei il rettore dei frati Minori, per l’elezione del quale Raimondo, suo marito, aveva ottenuto la concessione da Bonifacio IX, e Gabriele Capitignano, uomo di corte della principessa.

Nelle mani di quest’ultimo, re Ladislao dopo circa un anno pose la proposta d’amore per la sua signora. Capendo di non poterla vincere con le armi, il re provò a colpirla nell’ambizione e orgoglio.

Maria non seppe resistere all’offerta della corona di regina di Napoli, di Sicilia, di Gerusalemme, di Ungheria e di altri stati. Rimandò al re il fedele Capitignano con la comunicazione che accettava. Il matrimonio fu celebrato il 23 aprile 1407 nella cappella del castello di Taranto.

I personaggi raffigurati, da sinistra a destra di chi guarda, sono: Maria, Caterina, Giovanni Antonio e Gabriele del Balzo Orsini, con la loro madre Maria d’Enghien; il rettore dei frati Minori; Gabriele Capitignano; il duca di Venosa Sanseverino. Si notino le armi dei Del Balzo (sulla bandiera), dei Del Balzo-Orsini-D’Enghien e Sanseverino (sugli scudi).

Alezio, la Lizza e la Lizziceddha

di Raimondo Rodia

Alezio, S. Maria della Lizza

Patrona di Alezio è la Madonna dell’Assunta che si festeggia il 15 agosto. Nello stesso periodo si svolge una importante fiera che fu istituita il 25 luglio 1810 da Gioacchino Napoleone allora re delle Due Sicilie, che tolse dazi e gabelle per gli otto giorni in cui si svolgeva la fiera.

Un tempo era diffuso tra le donne che rendevano omaggio alla Vergine l’usanza di giungere a piedi camminando sulle ginocchia dall’ingresso del paese fino alla chiesa.

Ancora si rinnova la consuetudine di annunciare per tutta la novena l’avvicinarsi della festa con il suono di un fischietto e di un

Una filiera corta, anzi, cortissima… salentina!

di Antonio Bruno

Ci sono notizie che fanno riflettere, ci sono città che fanno meditare e Nazioni che lasciano senza fiato per comportamenti contraddittori. Mi viene in mente la città di Napoli sede di ogni bellezza e del taroccato doc, e che dire della Cina?

La Cina coltiva in modo biologico il 4,4% del riso, il 6,6% della frutta, il 16,3% del tè  è al secondo posto al mondo per superficie agricola coltivata a biologico, dopo l’Australia. E dalla Cina arrivano anche prodotti che sembrano italiani senza esserlo. Ma se c’è chi tarocca le griffe dell’abbigliamento e chi tarocca i prodotti italiani che sono davvero molto richiesti. Chi li compra pensa di accedere a prodotto biologico per il quale è disposto anche a pagare di più rispetto al prodotto della Grande Distribuzione Organizzata.
Tre le principali categorie di consumatori i 20-40enni di educazione e reddito medio alti; poi ci sono gruppi specifici come donne incinte, neonati e bambini che sono acquirenti istituzionali. Il valore della produzione bio made in China è attualmente pari a circa 700 milioni di dollari e nel 2004 il valore delle esportazioni è stato pari a 350 milioni: la metà del totale prodotto, e si stima una crescita dell’export al ritmo del 10% annuo. Nel commercio con l’estero si è verificata una netta inversione di tendenza con il crollo del valore delle importazioni di prodotti agroalimentari dalla Cina in Italia che hanno fatto segnare un calo del 21,5% proprio per la consapevolezza del taroccato che nessuno vuole e che se si viene a sapere che il prodotto cinese ha il pericolo di essere travestito da italiano ecco che le vendite calano.

Per difendersi i rappresentanti delle organizzazioni agricole al G8 Farmers al meeting di Roma si sono promessi una “carta d’identità” per il cibo.
Il vertice mondiale di tutti i leader delle maggiori organizzazioni agricole dei Paesi appartenenti al G8 per discutere di agricoltura, alimentazione, ambiente e energie alternative nel tempo della crisi, ha coinvolto qualche mese fa a Roma  gli agricoltori di Giappone, Stati Uniti, Canada, Germania, Francia, Inghilterra, Russia e Italia.

Siccome emerge la necessità di avere standard di sicurezza, di preservare l’ambiente e rilanciare l’agricoltura per risolvere la fame nel mondo questi signori pensano a una carta d’identità perché sono consapevoli che nessuno sa più cosa mangia, da dove viene quello che mangia, e soprattutto come viene prodotto ciò che poi diventerà carne della sua carne e carne e sangue dei nostri figli.
I prodotti agricoli riguardano un aspetto fondamentale del genere umano, come l’alimentazione, e non possono essere trattati come tutte le altre commodities. Ad esempio l’acquisto di cibo a differenza delle automobili non può essere rinviato da un anno all’altro.

Il prodotto interno lordo della Puglia è di circa 7.000 milioni di Euro e quindi se si potesse accedere alla vendita del prodotto biologico avremmo la possibilità di uno sviluppo dell’impresa agricola vera, di quella che produce e vende senza stampelle, senza elemosine, senza faccendieri e praticoni che imbrattano carte su carte, che scrivono milioni di parole inutili che nessuno leggerà mai. Parole che non danno alcuna prospettiva al settore primario come è stato dimostrato da decenni di Politica Agricola Comune data in mano alle carte anziché darla in mano ai Medici della terra.

Insomma sto scrivendo di un tipo di agricoltura che più di preoccuparsi di vendere all’estero vende senza alcuna preoccupazione al vicino di casa, al compaesano e al cittadino della stessa Provincia e al Corregionale.

Vi voglio raccontare una storia   di donne, quelle che da sempre hanno in mano il destino dell’agricoltura, perché i prodotti della terra vengono serviti al mondo che ogni donna crea, al suo maschio che le ha fatto mettere al mondo i figli che insieme a lei costituiscono il mondo che va nutrito e curato, perché non vada perso per incuria e distrazione.
Trent’anni fa in Giappone, un gruppo di donne preoccupate dall’aumento delle importazioni di cibo ed il relativo calo della popolazione impegnata in agricoltura promossero un rapporto diretto “produzione-acquisto” tra il loro gruppo e i contadini locali. Questo modello di organizzazione, in Giapponese “teikei”, si traduce con “metti la faccia del produttore sul cibo”. Questo concetto attraversò l’Europa e fu adattato alla situazione statunitense e la nominato Community Supported Agricolture (agricoltura sostenuta dalla comunità) presso la Indian Line Farm, in Massachussetts, nel 1985. A gennaio 2005 Canada e Stati Uniti contano oltre 1500 aziende afferenti al CSA.
Community Supported Agriculture (CSA) è un  termine che descrive un rapporto diretto tra azienda agricola e consumatori  che ha delle peculiarità che si possono sintetizzare con l’orgoglio di appartenere a una comunità che ha dei prodotti tipici che la caratterizzano e quindi c’è la spinta ai coltivatori a produrre alimenti per la comunità. A questo c’è da aggiungere che per ottenere tutto questo i cittadini acquistano un abbonamento che gli consente di prendere i prodotti che vengono pagato all’inizio della stagione. Questo da diritto agli abbonati di ricevere settimanalmente i prodotti previsti dall’abbonamento.
Questo meccanismo di marketing continua  a crescere in popolarità, soprattutto tra i consumatori benestanti intorno ai centri urbani.

Con questo modello, i consumatori del Salento leccese acquisterebbero direttamente dagli agricoltori della nostra zona, avrebbero la certezza che il cibo proviene da una terra madre che è rispettata e nutrita dal coltivatore seguito dal Dottore Agronomo o dal Dottore Forestale sotto la direzione scientifica dell’Università. I consumatori dovrebbero pagare in anticipo per una quota del raccolto della stagione. Questo contribuirebbe a coprire i costi di produzione e garantirebbe un mercato stabile, aiutando gli agricoltori più piccoli a rimanere in attività.

Ci sono alcuni esempi in USA che hanno come consulenti scientifici i professori dell’Università come ad esempio la Johns Hopkins Center per un futuro vivibile che ha avviato il primo progetto CSA alla Johns Hopkins University nel 2007. Questo progetto fornisce a docenti, studenti e personale prodotti freschi e certificati biologici dal Maryland One Straw Farm.
Il progetto ha avuto un buon successo e ci sono state 150 adesioni nel 2009, mette in gioco anche temi quali la sicurezza alimentare nella comunità circostante Baltimora, e promuove le pratiche agricole che tutelano la salute pubblica attraverso la protezione, promozione e tutela dell’ambiente che è al 99% paesaggio rurale.

Leggi attentamente, dico a te, prova a immaginare di avere nel Salento leccese, a pochi passi da casa tua, la produzione certificata dai Dottori Agronomi e dai Dottori Forestali sotto la direzione scientifica dell’Università e questa produzione sana, saporita, genuina sia costituita di Fragole, zucchine, cetrioli, melanzane, zucca, aglio, lattuga, cipollotti, ravanelli, barbabietole, patate, patate dolci, carote insieme a tanto, tanto altro. L’Eden, il paradiso terrestre, la terra promessa da cui sgorgano fiumi di latte e miele, alberi che producono frutta gustosa piena di sapori e di odori ineguagliabili, colori che splendono nella campagna del Salento leccese che produce il cibo per te e i tuoi figli, delizie per il palato che tu puoi andare a vedere in ogni istante andandoci a passare qualche ora oppure collegandoti con internet perché il pomodoro che mangerai, lo puoi vedere crescere da casa tua, dal tuo schermo collegato in diretta alla Web Cam del produttore che hai prepagato e potrai chiedere ogni chiarimento al Medico della Terra che segue con amore e competenza il campo che produrrà il cibo per la tua famiglia.

Riporto l’esempio di un prepagato di  24 settimane (circa sei mesi) che dà diritto ad avere  prodotti biologici freschi consegnati a casa e a disposizione di tutti i docenti, del personale e degli studenti della Johns Hopkins. L’iscrizione doveva avvenire prima del 9 marzo del 2010. Tale iscrizione nella Stagione 2010 parte dall’ 8 giugno e finisce il 16 novembre (24 settimane) il ritiro della cassetta è ogni  martedì dalle ore 15 e 30 alle 16 e 30 in un garage di un componente della Comunità. Prima al 9 marzo, una ripartizione dei costi completo 490 dollari che corrispondono a 366 Euro (20,42 dollari a settimana) Dopo il 9 marzo, una quota totale dei costi 550 dollari (22,92 dollari a settimana che corrispondono a 15 Euro a settimana).
Il prezzo di una quota, divisa in 24 settimane, è molto ragionevole, soprattutto rispetto ai costi del  cibo al supermercato.

Ma vediamo che cosa è incluso in una quota settimanale CSA:
i soci ricevono otto varietà di prodotti biologici tutte le settimane. Come esempio la cassetta di una settimana potrebbero essere: 1 mazzetto di foglie di lattuga, 1 cestino di un chilo di pomodori, 1 melanzana grande, 3 cetrioli, 3 peperoni, 2 mazzi di cavolo, 1 cestino di patate e 1 chilo  di cocomero intero.
Anche se gli elementi variano con la stagione e le condizioni di crescita, i membri in genere si aspettano un flusso costante di verdure a foglia verde come spinaci, lattuga, bietole e cavoli  in aggiunta alle raccolte stagionali di frutta, cetrioli, pomodori, mais, zucchine, zucca, erbe, patate dolci e meloni, solo per citarne alcuni.
Come ci si iscrive?
Ci si iscrive e si paga on-line utilizzando un assegno o carta di credito.
I membri a volte dividono la cassetta con qualcuno ovvero si compra una quota di 366 Euro ma la si divide con un vicino di casa e quindi la settimana si pagherebbero appena 7,50 Euro.

A differenza di molti produttori di grandi catene di negozi che forniscono a migliaia di chilometri di distanza, gli agricoltori locali possono coltivare varietà selezionate per il sapore e non per la loro capacità di resistere ai parassiti e per la gran quantità di produzione. Le aziende agricole sono biologiche e grazie alla consulenza dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali c’è la protezione dell’ambiente poiché i Medici della Terra fanno in modo che l’azienda adotti pratiche che impediscono il deflusso di sostanze inquinanti, di proteggere la qualità delle acque, la conservazione del soprassuolo, e attraverso i suggerimenti da parte del Medico della Terra della varietà da coltivare si promuove la biodiversità e si agisce in modo da ridurre le emissioni di gas serra.

Chiedo a chi mi legge di aderire a un progetto che ha lo scopo di aumentare la consapevolezza di essere in grado di avere più opzioni per creare o accedere al cibo locale. Queste opzioni possono contribuire alla costruzione di comunità. Abbiamo visto il caso di una iniziativa sorta  per soddisfare le esigenze specifiche di una comunità attraverso l’accesso a una distribuzione locale degli alimenti e  di produttori di generi alimentari che vendono parti del loro raccolti ai membri della  comunità. Ora non dobbiamo far altro che costruire la prima Comunità nel Salento leccese e poi tutto verrà di conseguenza.

Bibliografia
Bollettino italiano dell’Associazione per l’agricoltura biologica
Marinella Correggia: Filiera corta, anzi, cortissima
University of Kentucky College of Agriculture New Crop: Opportunities Center Community Supported Agriculture (CSA)
Ryan Light, Graduate Assistant with Heather McIlvaine-Newsad, PhD, Research Fellow and Associate Professor of Anthropology and Erin Orwig, Technical Assistant:  Illinois Directory of Community Supported Agriculture (CSA)

Crisi e panzerotti

ph Leonardo Scorrano

di Rocco Boccadamo

Grazie ad un settimanale d’informazione e tempo libero distribuito gratuitamente, una sorta d’utile calepino dall’A alla Zeta per la gente comune, ho appreso che, dal 4 al 6 giugno 2010, nella marina leccese di San Cataldo, si svolge la tre giorni dedicata “allu panzarottu te patate” (per i non indigeni, panzarottu significa, in questo caso, delicato impasto di patate, menta e formaggio pecorino), giunta alla sua 5^ edizione.

L’evento propone un ricco calendario di musica e divertimento, con pizziche e gruppi di  musica popolare.

Sebbene, per la verità, io sia solitamente attento a guardare e ascoltare intorno, così da tenermi aggiornato sul ricco novero delle sagre a contenuto ludico gastronomico che costellano il calendario d’ogni paese e paesino, devo francamente ammettere che un evento espressamente consacrato al “panzarottu te patate” mi era del tutto sfuggito.

E che evento, addirittura una tre giorni, un triduo! Il fatto è che il povero osservatore di strada scrivente è sin qui rimasto fermo al concetto di triduo inteso semplicemente come “ciclo di atti di preghiera e di devozione che si protrae per 3 giorni, ad esempio triduo alla Madonna”.

Meglio così, la realtà aggiornata è meno cruda di quanto può sembrare: ossia a dire, talune sfaccettature della crisi, se crisi c’è, si presentano come i miracoli, esistono, ma non si vedono.

Il fiore che uccide

di Antonio Bruno

Il Prof. Ferdinando Vallese in una sua nota nella rivista da lui voluta e fondata “Agricoltura Salentina” nel numero del 15 luglio 1904 afferma che c’è una pianta che dovrebbe essere coltivata in via sperimentale nel nostro Salento leccese ed è il Pyrethrum cinerariaefolium Trev.  cespugliosa, pelosa, con foglie lobate e fiori raccolti in capolini solitari con disco giallo e ligule bianche. Anche se noi adesso la conosciamo come  Chrysanthemum cinerariifolium possiamo notarla facilmente, infatti è una pianta che forma ampi ciuffi colorati e viene recisa e usata per la decorazione interna o lasciata in giardino a gruppi o file.

E’ una pianta perenne che produce grandi fiori a forma di margherita nelle tonalità rosa e rosse, con grande cuore giallo: spiccano per questo tra il fogliame di un bel verde brillante, raggiungendo un’altezza di circa 80 cm.
Nelle nostre case in estate il piretro aleggia nell’aria perchè ha preso il posto del vecchio DDT che noi 50 enni (o su di li) ricordiamo perfettamente perchè si spruzzava con delle pompe a mano che comunque facevano fuoriuscire prodotto oleoso che imbrattava le nostre mani, nelle stanze al buio per uccidere le mosche e le zanzare della nostra infanzia. Poi il DDT si scoprì dannosissimo non solo per le mosche e zanzare ma anche per noi esseri umani ed ecco che al suo posto si impiega ancora oggi il piretro dall’alto potere insetticida in quanto contenente particolari principi attivi (le piretrine) che agiscono sull’apparato respiratorio degli insetti.

Tra le sostanze di origine naturale elencate nell’Allegato II B del Regolamento Ce 2092/91, relativo al metodo di produzione biologico dei prodotti agricoli, il piretro è un insetticida poco tossico ed efficace, che si rivela un utile alleato nelle strategie di difesa di ortaggi e frutta in una produzione biologica.
Il Prof. Vallese nella sua nota di più di un secolo fa afferma che i fiori di piretro disseccati e ridotti in polvere danno la razzia, le numerose miscele insetticide ed insettifughe, la polvere Dufour per combattere la tignola dell’uva, la polvere per la fabbricazione dei fidibus o coni fumanti.
La polvere Dufour nel 1897 era un nuovo rimedio proposto dal Dufour, uno dei migliori insetticidi per la cochylis, e cioè a base di piretro.
C’è anche la descrizione dell’ottenimento: “sciogliere kg. 3 di sapone nero in qualche litro di acqua calda, aggiungere acqua fredda fino a completare i 100 litri, e infine aggiungere (in dose esatta 2 kg. di essenza di terebentina”  Si applica con le pompe solo sui grappoli infetti, e nei punti dove si manifesta la larva.

Secondo le notizie in possesso nel 1904 del Prof. Vallese il piretro cresce spontaneo in Dalmazia dove da il prodotto che ordinariamente si trova in commercio. Noi sappiamo che è stato coltivato già in tempi antichi in Oriente e oggi è diffuso soprattutto in Kenya, Tanzania, Tasmania ed Australia.
In Kenya l’agricoltura di piantagione è praticata sulle terre migliori della costa e dell’altopiano intorno a Eldoret, Nakuru e Kitale, gestita da europei, canadesi e giapponesi, è specializzata nelle colture più redditizie destinate all’esportazione tra cui il piretro di cui il Kenya è il primo produttore mondiale.
I fiori vengono raccolti, essiccati in alcuni casi utilizzando l’energia geotermica e macinati, per ottenere un composto che in diluizione viene irrorato sulle piante come antiparassitario.
Il piretro cresce bene in terreni asciutti sabbiosi e preferibilmente calcarei.

Siccome questo tipo di terreni è molto diffuso nel Salento leccese probabilmente il piretro da noi potrà trovare condizioni favorevoli per produrre in abbondanza e con una buona qualità.
La semina si fa in Primavera o all’inizio dell’Estate in semenzaio, le piante saranno poi trapiantate in autunno nel pieno campo. Il terreno che dovrà ospitare la coltivazione del Piretro deve essere ben lavorato e le piante vanno trapiantate a righe distanti 50 centimetri e con le piante a 40 centimetri di distanza l’una dall’altra sulla riga. In questo modo in un ettaro si avranno circa 50.000 piante. Alcuni vivai forniscono già le piantine da trapiantare il prezzo per l’acquisto di mille piante è di  70  Euro, quindi il solo costo delle piantine è di 3.500 Euro ad Ettaro.

La pianta del piretro essendo vivace può vivere per più anni sullo stesso terreno tanto da costituire diremo in maniera spiritosa un “piretreto”, il primo anno si produrranno pochi fiori mentre la produzione si avrà il secondo anno e durerà sino al quinto.
La raccolta dei fiori si fa tra maggio e giugno, staccandoli dalle piante  quando non sono molto aperti, la raccolta può avvenire a mano o con una specie di pettine di legno.
Il disseccamento dei fiori si fa all’ombra e dopo il prodotto ottenuto va conferito all’industria che li polverizza.

Nel 1904 il Prof. Ferdinando Vallese ha condotto una sperimentazione della coltivazione del piretro nel Salento leccese con ottimi risultati.
Gli effetti insetticidi del piretro erano già noti in Cina a partire dal primo secolo dopo Cristo. La coltivazione del piretro è iniziata in Europa nel 1820.

L’azienda Specchiasol presso l’Opificio Erboristico Sandemetrio di Specchia (Le), gestisce un Centro per la promozione di studi e ricerche nel settore delle piante officinali. I lavori nel campo sperimentale didattico hanno già visto la messa a dimora di una collezione di circa 400 specie diverse di piante officinali, medicinali, aromatiche, ma anche piante utilizzate in agricoltura biologica come il Piretro.
Studiosi dell’ex Jugoslavia hanno studiato il contenuto in pietrine di una varietà di piretro dell’adriatico e sono arrivati alla conclusione che il contenuto di piretrine nei capolini raccolti nelle zone del nord adriatico non è paragonabile a quello delle zone di produzione tradizionale. La conferma viene da uno scritto Regio Istituto italiano agronomico per l’Africa italiana nel periodo coloniale che prende atto delle proprietà insetticide della pianta coltivata nell’Africa Mediterranea che sono maggiori di quando è coltivata sulle coste adriatiche.

Ogni anno si stima che si producono intorno a 20 – 25.000 tonnellate di fiori secchi che contengono circa l’1,3% di piretrine pure che determinano il valore del prodotto. Il piretro viene commercializzato come estratto contenente il 25% in peso di piretrine pure in solvente organico.
C’è un protocollo di una tecnologia rapida di propagazione in vitro per Cinerariifolium Chrysanthemum  (Trev.) Vis., messa a punto in Cina. Un gran numero di gemme potrebbe  essere indotta direttamente da espianti dall’epicotile  Dopo l’induzione con alcune sostanze lo sviluppo potrebbe essere osservato entro 15 giorni dopo l’inoculazione. Inoltre uno studio sui poliploidi riprodotti in vitro ha ottenuto linee di riproduzione superiore con alto rendimento  e di buona qualità. Linee Autotetraploidi  di cinerariifolium C.  sono stati ottenute mediante trattamenti colchicina e identificato un cromosoma .
Il numero dei cromosomi della piantina autotetraploide è stato  2n = 4x = 36. L’ottenimento di  linee autotetraploidi sarà di importanza genetica per la riproduzione di valore e possono essere utilizzate per ulteriori selezione e riproduzione delle piante.

Il prodotto ottenuto dai capolini dei fiori, noto come piretro, è in realtà composto da sei principi attivi e, per aumentarne l’efficacia, è spesso associato al piperonilbutossido. La sintomatologia di chi è intossicato da questo prodotto raramente presenta caratteristiche di gravità come lo shock anafilattico. E’ stato descritto un decesso dovuto all’inalazione di uno scampoo a base di piretro che ha determinato un broncoplasmo risultati fatale.

Chiesetta dei Santi Stefano e Vito presso la masseria Carignano Grande

 

ph Aristide Mazzarella

Chiesetta dei Santi Stefano e Vito presso la masseria Carignano Grande in agro di Nardò

di Marcello Gaballo

A circa 1,5 Km dal centro abitato, tutta in muratura, di media grandezza, era dotata di beneficio ecclesiastico: un terreno seminativo e macchioso circondato da muro; un ettaro e due orti di seminativo, tutti con la decima; nove orti di vigneto; una grotta ed una casupola, senza alcun obbligo.

Fu arcipretura curata e l’arciprete ogni anno prestava obbedienza al vescovo di Nardò ed offriva una candela di cera del peso di una libbra.

Trascorso il tempo la cappella crollò ed il casale ne rimase privo per anni. Verso il 1577 il rettore Leonardo Trono, assecondato dal barone Francesco Antonio Carignano, ne iniziò  la ricostruzione, terminata sotto il rettore successivo Giovanni Lorenzo Carignano. Risultò tutta in muratura, di forma rettangolare (circa metri sei per otto), con un solo altare e l’immagine di San Vito dipinta sulla parete retrostante, con campanile, campana, due grandi tele e quattro gradini di accesso.

Il barone donò cinque orti e mezzo di terreno in Carignano con la decima, ed un capitale censo di ducati seicento per la celebrazione ivi di due Messe domenicali ed una festiva, ridotta  successivamente dai vescovi Lelio Landi (1596 – 1610), Luigi e Girolamo De Franchis (1611 – 35) ad una sola domenicale e ad un’altra in Cattedrale. Il beneficio rendeva, al netto degli oneri, ducati venti annui.

Verso il 1870 i beni furono incamerati dallo stato e venduti a privati; tuttavia, per interessamento del proprietario, nella cappella si celebrò la messa le domeniche e feste fino ai primi decenni del secolo scorso, poi fu chiusa ed abbandonata come è ora.

Verso il 1860, cessato di esistere il casale, la  cappella non fu più arcipretura curata.

Arcipreti della stessa, tra gli altri, furono: Tommaso Inno, che rinunziò poco dopo; Leonardo Trono, 7 maggio 1546 – maggio 1600; Giovanni Lorenzo Carignano, dottore nelle Leggi, 13 maggio 1600 – 34; Giuseppe Carignano, 2 dicembre 1634 – 78; Oronzo Carignano, 1679 – 94; Felice Carignano, 1695 – 1714; Giuseppe Carignano, 1715 – 4874; Giovan Battista Carignano, 1749 – 71; Antonio Della Ratta da Lecce, 1772 – 86; Giovan Battista Tollemeto, 1787 – 1822; Cesare Stasi,  1823 – 37; Domenico Trotta 1838 – 60 circa.

Appello per salvare la campagna salentina dall’abbandono

Proponendo la poesia di Giulietta Livraghi Verdesca Zain “Saggio sulla “morte” del  contadino”, SOS  per lo stato di abbandono in cui versa la campagna

di  Nino Pensabene

Il titolo stesso della poesia “Saggio sulla ‘morte’ del contadino” lascia già da sé immaginare che il testo non tratti un tema di semplice natura sentimentale, quale la delusione per un amore perduto, la nostalgia  per un figlio lontano o il dolore per la scomparsa di una persona cara.

L’etnoantropologa salentina, lasciando  per un attimo la narrazione e lo studio della civiltà contadina di fine Ottocento,  ridiventa cittadina inserita a tutti gli effetti nel contesto sociale dell’oggi e, riappropriandosi della sua entità giornalistica e attraverso i mezzi poetici – i primi con i quali si è affacciata al mondo dello scrivere – lancia un S.O.S. a favore dell’agricoltura,  mettendo implicitamente in luce  lo stato di abbandono in cui ancora oggi versa la campagna. Sì, la poesia è stata scritta nel 1995 ma a questo punto possiamo dire “peggio!” perché da allora le cose non solo non sono migliorate ma sono addirittura precipitate: man mano  sono venuti a mancare quei pochi contadini anziani rimasti sulla breccia (la Giulietta li chiamava “gli eroi dell’oggi, gli ultimi eroi”) e la terra langue in un’agonia alla quale sembra nessuno di noi voglia partecipare.

Cosa utile, necessaria e meritoria – credendo, però, forse, sia questa l’unica forma di fare cultura –  siamo tutti  con lo sguardo rivolto al passato: con un binocolo in mano andiamo alla ricerca del monumento dalla pietra caduta, dell’altare dall’angolo scalfito, dell’affresco sbiadito per il troppo sole o la troppa pioggia, di un libro antico fra le cui pagine possiamo trovare un insetto, dalle culture e tradizioni in genere delle popolazioni passate, ma tralasciamo molti dei problemi che assillano il presente sociale (che – si badi bene – non si esaurisce alla visione turistico-ambientale) e dei quali, un giorno, i nostri figli potranno chiederci conto. Cito, tanto per fare qualche esempio, la spaventosa immigrazione di massa con la relativa miseria, alla quale si aggiunge la miseria  di casa nostra a causa della dilagante disoccupazione giovanile; l’inquinamento dei mari e dell’aria con annesso programma di orientamento  energetico-nucleare; e non ultimo, ma fra i più importanti per il nostro Salento e il Sud tutto, il disinteresse assoluto –  come se non facesse parte della nostra realtà quotidiana ed esistenziale –  nei confronti dell’agricoltura e, intrinsecamente, della campagna.

Per tornare al tema della poesia in oggetto, i tempi di “Arneo” sono ormai Storia consolidata, e storici sono pure i cortei attraverso i quali – facendo demagogia al fine di accaparrare voti – si prometteva ai contadini il miraggio di realizzare il loro atavico sogno: quello di coltivare un pezzo di terra in proprio, senza sottostare al giogo crudele e sfruttatore di un padrone ripetendo all’infinito: “Fatìu, fatìu, pi lla scòrsa ti l’uéu” (Non faccio che faticare per avere in ricompensa soltanto il guscio dell’uovo).

Abbasso i padroni… la terra è dei coloni…

Coloro che come me non sono più giovani ricorderanno l’affannosa e studiata strategia di questi affascinanti cortei, caratterizzati  dai due elementi più plagianti nei confronti di un popolo schietto quanto non istruito e desideroso di riscatto sociale: coreografia e tono vocale , cioè, il secondo, caratterizzato dalla perfetta cadenza del tuonante sglogan “Abbasso i padroni… la terra è dei coloni…” e, il primo, dal teatrale avanzare con passo anch’esso cadenzato, quasi militare, accompagnato dall’altrettanto teatrale esibizione delle enormi bandiere rosse svolazzanti da chilometrici bastoni.

Perché il progetto politico è fallito? Perché è fallito il sogno dei contadini? Perché inutile sarebbe stato dare la terra ai contadini senza restituire i contadini alla terra, ovverosia senza una rivoluzione programmatica di migliorie che inserisse i futuri padroni-contadini, dicat coltivatori diretti, nel contesto sociale attuale. Inutile sarebbe stato dire: “Questo pezzo di terra è tuo: ora sei anche tu un proprietario… cavatela da solo, cerca di fare da infermiere a questa moribonda che è l’agricoltura!”, quando già si era avuto l’esperienza di Arneo! Se si voleva agricoltori  riscattati, non più visti nella declassante accezione di contadini schiavi come vengono descritti dalla Giulietta nei suoi lavori di etnoantropologia di matrice ottocentesca, bisognava sì creare degli uomini  liberi, proprietari della terra che coltivavano, ma operatori di un’agricoltura – aggiornata,  sostenuta da leggi promotrici –  nel cui contesto le emancipazioni economiche e i diritti civili venissero ad essere equiparati a quelli di cui godono, faccio per dire, gli impiegati del Catasto o gli infermieri di un qualsiasi ospedale, i bidelli che operano nella scuola o  gli operai che lavorano in fabbrica.

Sì, è sotto gli occhi di tutti, che ci sono ancora persone che si dedicano alla terra, e guai per tutti noi se non ci fossero; ma la maggior parte lo fanno come hobby, svolgendo altrove un  altro lavoro ben remunerato (magari impiegatizio), alla lontana di preoccupazioni o prese di coscienza agricole; altri, che magari si dedicano alla coltivazione degli ortaggi, sono dei pensionati che lo fanno  per passatempo e per arrotondare; e gli uni e gli altri con il validissimo supporto coadiuvante degli extracomunitari.  La terra, però, non vuole dopolavoristi interessati solo al valore del prodotto, così come non sa che farsene dei frettolosi economisti impiegati della zolla… la terra vuole gli innamorati della zolla, così come lo erano gli antichi contadini, quelli che con le loro mani callose l’accarezzavano carpendone tutti gli umori e le potenzialità sia  di domande concimatorio-nutritizie  che di risposte produttivo-redditizie. E se la terra rispondeva è perché ne percepiva la trasmissione amorosa di animi semplici e votati al rispetto di ogni primordiale sacralità, sacralità che andrebbe ripristinata attraverso il rispetto dell’ecosistema, per prima cosa combattendo il già avanzato stato di inquinamento con una forte, anzi assoluta, rivalutazione dell’agricoltura biologica: niente dunque diserbanti, ma niente più anche pesticidi, antiparassitari o anticrittocramici.  Tutto ciò che è “chimico” dovrebbe essere bandito dalla campagna, e sì per amore della terra, ma di riflesso per amore dell’uomo, della società in cui viviamo, di noi stessi. A tua madre o a tuo figlio daresti mai del veleno? E inoculandolo nella terra o spargendolo sulle erbe o sugli alberi o sui frutti non è come avvelenare tua madre, tuo figlio, tuo fratello o suicidarti? Ci siamo reso conto che di pari passo all’impoverimento dell’ozono, si è impoverita la terra? La terra è priva di sali, è priva di zuccheri, la terra  è morente! Basta assaggiare un frutto per accorgersene che  non ha per niente il sapore di una volta!

La terra va amata, la terra vuole essere amata, perché, non dimentichiamolo mai, rientra di diritto in quel complesso operativo che è l’amore cosmico, l’amore che non può che generare amore. Chi dei giovani sa  qual’era il rapporto fra uomo e terra, fra il seme che s’imbuca e l’occhio che ne aspetta il germoglio, fra la mano che versa l’acqua del secchio e la zolla assetata che la beve e, rispondendo, appunto, al motto latino Ut Ameris amibilis esto, avvertendo cioè  l’amore dell’uomo, lo ricambia attraverso lo slancio produttivo?! E chi, anche fra gli adulti,  sa coscientemente quanti sono i fondi rustici che non vengono più coltivati? Fondi ereditati da persone che non essendo in grado di dedicarsi alla campagna vorrebbero venderli senza però trovare alcun acquirente, in quanto – per i suddetti motivi – nessuno dei giovani  vuole più  – con tutte le ragioni – avere da fare con la terra?

Fatevi qualche passeggiata a piedi nelle campagne e ditemi se la terra di questi fondi abbandonati  non sembra stia a piangere, se non sembra voglia tendervi le mani supplicandovi di ararla, di rinvigorirla, d’ingravidarla, di riportarla agli antichi splendori!

Al di là del rapporto agricolo, ci siamo dimenticato cosa è stata, per millenni, la terra per l’uomo e l’uomo per la terra ? Quale simbiosi fra le due energie vitali c’è stata nella pregnanza del dare e avere? Adesso i cimiteri sono pieni di scatoloni di cemento in cui veniamo tutti sigillati, ma ricordiamoci quel tenero quanto profondo interscambio d’amore dove, se la terra diventava grembo materno per accogliere in estremo e dare pace all’involucro carnale dell’uomo, l’uomo, mediante i suoi resti, si faceva a sua volta humus, rinata e depurata energia per ngrasciàre (nutrire, ingrassare) la terra affinché questa potesse, in lenti, millenari ma continui assorbimenti veicolanti, meglio produrre facendosi – nell’avviato ingranaggio – alimento per l’umanità vivente!  Non a caso son voluto scivolare in questa apparentemente inappropriata divagazione: se l’amore degli uomini  per la terra era così forte, molto si deve a questa magia naturale, che agendo positivamente sul  flusso e riflusso di energie vitali, condizionava felicemente l’uomo ad essere presente nel mondo come il primo giorno della creazione: fusione completa fra terra, uomo e animali, tenendo presente come e quanto questi ultimi partecipassero attivamente al suddetto  flusso e riflusso attraverso il lavoro nei campi e la concimazione biologica.

COPERTINO, LECCE, BARI, ROMA.

Io – umilissima voce – sono convinto che in seno all’umanità ci sono  moltissime persone,  e soprattutto giovani,  con quella ricchezza interiore ancora in grado di amare la terra come e forse meglio dei nostri amati defunti contadini, ma sta agli Assessorati Regionali, allo Stato, a tutti gli Organi Competenti, insomma, risvegliarsi da questo torpore mentale  legato alla vergogna della terra e ricreare una giovinezza agricola degna dei tempi emancipati in cui viviamo. Ormai abbiamo dimostrato a tutti di non essere furèsi, di non essere cafùni, di non essere poveri, di non appartenere, insomma, a quella tanto disprezzata civiltà  di “terroni”. Ormai, con la sicurezza di un pezzo di carta in mano, possiamo testimoniare non solo all’Italia ma al mondo intero di essere tutti dottori, per cui, superato il complesso dell’appartenenza a un popolo ignorante, si potrebbe ritornare alla terra a testa alta, così come si sta facendo già col dialetto.

Voi, genitori degli attuali giovani, ricordate negli anni 70-80 del Novecento? Era segno di retrività e ignoranza non solo parlare in  dialetto ma anche semplicemente citare un proverbio… Coloro che erano appartenuti al mondo campagnolo dovevano parlare in italiano per dimostrare di essere persone civili e istruite, non importava con quali storpiature e ridicolaggini varie, l’importante era  sembrare gente evoluta, e c’era anche chi calcava nell’accento come appena arrivato da Milano o Torino, alla stregua, appunto, delle donne che d’estate andavano a lavorare negli alberghi delle zone turistiche del Nord. In questo quadro, guai se i figli, tornati a casa, pronunciavano un verbo dialettale: mazzate! Il parlare in dialetto veniva visto come opera del diavolo, nel contesto di un mondo in cui si erano e si sono invertiti i termini di bene e di male. A Londra o a Parigi si facevano andare i figli affinché, tornando,  potessero fare gli snobs snocciolando qualche parola delle lingue straniere, ma ai nonni contadini era severamente vietato parlare per non far sentire ai pargoli ‘impure bestemmie’. Oggi, al contrario, una volta dimostrato che sappiamo parlare la lingua italiana, stiamo man mano – non importa se per il momento è solo motivo di curiosità, sciccheria o stupida snobaggine – tornando al dialetto.

Io sono sicuro che superate le frange degli ultimi complessi d’inferiorità, ognuno sentirà la gioia di ritrovare la spontaneità nell’esprimersi con la lingua madre; il dialetto trionferà, così come un giorno ci sarà il trionfo della terra. Tutte le migliaia di giovani disoccupati, che – se si perseguiterà nel mito della laurea – col tempo aumenteranno, dovranno in qualche modo trovare lavoro, e la terra potrà ritornare ad essere madre, l’importante che gli organi competenti ne prendano coscienza riscattandola dallo stato di vedovanza in cui l’hanno imprigionata e, tornando a rendere grazie alla tanto rinnegata Provvidenza, sappiano sfruttare le parole di Cesare Beccaria ricreando la nuova civiltà agricola.  Solo così potremo debellare la disoccupazione nel Mezzogiorno, solo così potremo dire di essere una nazione economicamente evoluta, un popolo libero, non schiavo di pregiudizi e complessi.

Ecco la poesia

“SAGGIO SULLA ‘MORTE’ DEL CONTADINO

 

Reperto non catalogato

nei vanti della storia

non hai museo da dove avanzare

i tuoi diritti alla primogenitura

del sudore convertito in  pane

eppure le tue radici

sono intrecciate a quelle di Dio

fin dal terzo giorno della Genesi

quando – a precorrere il tuo cono d’ombra –

sul muto proscenio della terra

esplose il canto della clorofilla.

* * *

Come Agamennone

anche tu ti sei portato dietro

una maschera d’oro

– cesellata dal sole fra le biade –

ma la tua “Micene”

non interessa agli archeologi di Stato

incapaci di valutare

i tesori di una reggia

d’alberi d’ulivo

e già delusi

al pensiero di scoprire una porta

non vigilata da leoni a lamine lucenti

ma da buoi

inghirlandati solo di spighe e grappoli d’uva.

(“L’arte dunque di dirigere e incoraggiare

gli uomini, acciò cavino il migliore

partito possibile dalle terre, sarà la base

fondamentale d’ogni operazione economica;

quest’arte chiamasi agricoltura politica:

primo oggetto di economia pubblica” 

– diceva Cesare Beccaria

mai pensando allo specchietto deformante

che il futuro avrebbe appeso

all’architrave dei compromessi…).

 

Tu che non conoscevi altre vocali

se non quelle dei semi

e ogni giorno

scrivevi la tua pagina col vomere

affidandone ai grilli la lettura

oggi avresti geroglifici di fuoco

da incidere

– a tatuaggio di vergogna –

sulla fronte di quanti

hanno manomesso l’ago della bussola

consegnando le sorti della zolla

alla rotta funeraria delle sabbie mobili.

* * *

Dio

l’uomo

la terra

il sudore

il pane.

Sulla regalità di questo atavico organismo

è caduta la nebbia della favola

e si è scoperto che la Bibbia

ha mani ruvide

inadatte alla setosa carezza delle banconote

– unica credenziale

per essere elevati agli onori della tutela.

(giugno 1995)

                                                

Al di là della razionalità espositiva e dello studio del problema – che l’autrice presenta con competenza pur se celato nella metafora -, questa poesia è un grido di dolore che nasce  dal suo aver dedicato quasi tutta l’esistenza al mondo agricolo (nel senso metaforico, per gli studi etnoantropologici condotti sulla civiltà contadina, e nel senso reale per essere stata nell’arco di più di mezzo secolo  titolare [in un rapporto di fraternità e giustizia con tutti i dipendenti] di un’azienda agricola* a Copertino); è un manifesto, riprendo, che i giovani delle popolazioni salentine – per la maggior parte di discendenza contadina – dovrebbero appendere nelle loro case in rispetto alla terra che ci nutre,  in memoria del sangue di sudore versato fra le zolle dai loro antenati, e come segno di lutto per un potenziale lavoro sottratto alle necessità  giovanili e comunque  popolari.

Da un punto di vista ecologico-ambientale ed economico-mercantile è pure un manifesto che interessa tutta la storia locale:  a condanna? a giustificazione? E di chi? Dipende da ciò che ci riserverà il futuro.

*

Affinché non sembri che a spingermi a scrivere questo articolo siano stati interessi a carattere personale, preciso di non possedere un solo centimetro di terra.

Quattro triglie per una coppia

di Rocco Boccadamo

Si era ai tempi del mitico attacco dell’Inter formato da tali Jair, Mazzola, Peirò, Suarez e Corso, delle prime Cinquecento cui si faceva un discreto rifornimento mediante 500 (lire) di super e 500 di normale, di un poco più che ventenne impiegato sportellista appena coniugatosi, stipendio mensile intorno alle 80.000 (lire), assorbito per il 35% dall’affitto di casa.

Nella città vecchia di Taranto, s’affacciava, presso Piazza Fontana, la pescheria “Bellavista” (non è dato sapere se esiste ancora) e, saltuariamente, il giovane bancario, alla fine dell’orario di lavoro nella vicina Agenzia all’imbocco del Ponte di pietra, era solito transitarvi per procurarsi una manciata di specialità ittiche fresche.

Le scelte vertevano prevalentemente sulle triglie, esemplari di formato medio – piccolo sui 75/100 grammi di peso, che, all’immaginario dell’avventore, rendevano quasi la sensazione di voler sorridere con quelle minuscole pupille traslucide, antenne e sensori di salsedine profumata.

Quattro, in genere, i “pezzi” individuati e acquistati, il corrispettivo pagato pari a 400 (lire), ossia 100 per ciascuno.

E, ogni volta, in casa, si poteva imbandire una cenetta per due, una pietanza succulenta, gustosa, da festa.

Si provi, il giorno d’oggi, un attimo appena, a dare un’occhiata, in pescheria, alla varietà “triglie” di analoga pezzatura: sul cartellino del prezzo, si leggerà da 15 a 25 (euro) il chilogrammo, cioè a dire da 22 a 37 volte tanto.

E’ vero, è trascorso tanto tempo, per fortuna le triglie sono ancora adesso squisite come allora!

Carovigno e il lancio della nzegna

di Raimondo Rodia

I santi protettori di Carovigno sono San Giacomo e San Filippo che, però, vengono ricordati ormai solo religiosamente, mentre viene festeggiata la Madonna del Belvedere.

Elemento centrale della festa è la cosidetta battitura: il lancio in aria della “nzegna” (l’insegna mariana).

La battitura viene fatta ormai da circa sessant’anni dalla famiglia Carlucci che apre la gara tra chi lancia meglio e più in alto le variopinte bandiere.

La Vergine Maria è conosciuta in paese anche come Madonna del Mangia-Mangia, per il grande banchetto che una volta si faceva in piazza a cui partecipava tutta la popolazione. L’usanza era nata dal ritrovamento miracoloso dell’immagine della Madonna del Belvedere grazie ad una mucca che venne ritrovata in fondo ad un burrone inginocchiata nei pressi della grotta dove su di un masso vi era affrescata l’immagine della Madonna.

Da questo episodio nasce anche il lancio della “nzegna” che si riferisce al grido di gioia del mandriano che ritrovò la mucca: l’uomo, infatti, aveva preso un fazzoletto e lo aveva lanciato in aria, come ora si fa con le bandiere di Carovigno nel giorno della “nzegna”.

Il problema della proprietà intellettuale e del cosiddetto diritto d’autore

di Armando Polito

La rivoluzione tecnologica in atto ha creato una nuova figura di ignorante, quella di chi non è in grado di sfruttare le enormi potenzialità che l’informatica con la rete ha messo a disposizione di tutti. Parallelamente alle nuove capacità, per così dire tecniche, di utilizzo del nuovo strumento è richiesta ancor più che in passato la capacità di affinare il proprio spirito critico per non correre il rischio di naufragare in un mare in cui, come in quello reale, accanto a meravigliose creature e a suggestivi paesaggi, si incontrano pure innumerevoli sacche e secche di spazzatura sui cui molteplici aspetti non mi soffermo.

E l’insegnamento di don Milani amplifica i suoi orizzonti, ponendo alle nostre coscienze problemi vecchi insoluti e problemi nuovi, con il correlato dovere di tentare di risolverli. Trasparenza è il vocabolo con cui, politici e non, si sciacquano sovente la bocca, salvo, poi, mettere in campo il segreto di stato a barriera contro la verità, con l’alibi che per il bene di tutti è meglio che pochi sappiano come effettivamente stanno le cose. Il problema è antico e solo in rare occasioni la storia successiva ha dimostrato che il segreto è stato, tutto sommato, un bene per l’Umanità. Non accenno nemmeno al dibattito in corso sulle intercettazioni che, rispetto al segreto di stato, possono apparire come futile cicaleccio.

Ma torniamo all’assunto principale. La conoscenza, dicevo, ricordando don Milani, è alla base della liberazione dell’uomo dal bisogno e da ogni forma di schiavitù e la rete, pur con i suoi rischi, si è assunto, all’inizio forse inconsapevolmente, il compito immane di diffonderla.

Mi soffermerò ora su un aspetto particolare, per me di importanza primaria. Il libro per secoli è stato il principale veicolo di evoluzione culturale e agli albori della stampa era certamente un oggetto riservato a pochi eletti.

Ma, sempre per quanto riguarda il libro, le cose, da allora, sono veramente cambiate? Ho l’impressione che, mentre l’economia di scala ha reso irrisorio nel tempo il costo di un apparecchio televisivo,  di un telefonino, di un computer, il libro in generale e in particolare quello che trasmette certi contenuti stia ancora pagando dazio.

Il problema della proprietà intellettuale e del cosiddetto diritto d’autore costituisce per me il freno più appariscente ma non decisivo. So benissimo che chi scrive ha lo stesso diritto a mangiare di chi esercita una qualsiasi altra attività e, in fondo,il diritto di autore ne costituisce l’immediato riconoscimento.

A prescindere dal fatto che esso, comunque, a mio avviso, potrebbe oggi essere regolamentato in modo diverso senza per questo abbracciare posizioni che possono apparire rivoluzionarie1, mi riferirò solo a quei testi per i quali il diritto d’autore è scaduto.

In passato bastava scorrere il catalogo di qualsiasi biblioteca e, trovato il testo d’interesse, consultarlo. Oggi, bene che vada, è possibile reperire in rete la dislocazione di un determinato testo, ma, per fruirne, occorre spostarsi fisicamente. Non mancano, è vero, banche dati di testi digitalizzati, ma si tratta di iniziative sporadiche ed è triste constatare che anche in questo settore l’Italia non è certo all’avanguardia.

E allora? Che si aspetta a digitalizzare almeno in formato grafico il patrimonio librario di tutte le biblioteche? L’operazione, oltretutto, sarebbe a costo zero o quasi, dirottando, dopo adeguata formazione,  parte del personale già in servizio. L’immissione in rete, poi, del materiale digitalizzato consentirebbe a chiunque di fruirne senza spostarsi da casa (evento, che in non pochi casi, fa passare l’interesse da caldo a tiepido, da freddo a gelido).

L’iniziativa dovrebbe a mio avviso coinvolgere non solo le biblioteche ma tutti gli archivi pubblici e, col dovuto permesso, anche quelli privati. Il risultato sarebbe molteplice: a parte la comodità di consultazione già detta, si eviterebbe anche il deterioramento, quello dovuto all’uso, di manoscritti e di libri rari e non, eliminando, inoltre, la spesso scoraggiante  pratica burocratica di permessi ed autorizzazioni speciali e riservandola solo ai casi in cui lo specialista ha bisogno di entrare in contatto con l’oggetto originale; senza dire, poi, che la digitalizzazione costituirebbe l’unico rimedio possibile  alle tutt’altro che infrequenti mutilazioni vandaliche e agli altrettanto criminali trafugamenti.

Possibile che con la tecnologia a nostra disposizione non siamo ancora riusciti a tramandare alle generazioni future quel patrimonio che in parte e con tanta fatica (loro e, successivamente  dei filologi…) gli amanuensi medioevali hanno fatto arrivare fino a noi?

Mi pare di sentire l’obiezione: una volta attuato questo processo c’è da attendersi una proliferazione di autori (?) specializzati nel copia-incolla e di opere (?) che io amo definire plagio a macchia di leopardo. Il fenomeno è antico e ne ho dato un esempio, credo eclatante, nel mio post “Se non è plagio ditemi voi cos’è” del 14 maggio u. s.; obiezione respinta: gli specialisti del copia-incolla oggi, proprio ai motori di ricerca della rete, sarebbero agevolmente smascherati da chiunque e sputtanati in tempo reale.

Forse il mio è solo un sogno e apparirò un ingenuo agli occhi di chi sta già pensando: “ Caro Armando, ma quando capirai che il potere ha paura della conoscenza e, in senso più lato, della cultura?”.

L’ho capito, da sempre; ma un sognatore non si rassegna, mai.

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1 A tal proposito segnalo, per esempio, il pensiero del giudice Gennaro Francione all’indirizzo http://www.laveracronaca.com/index.php?option=com_content&view=article&id=62:gennaro-francione-qnascita-ed-evoluzione-del-copyrightq&catid=1:ultime&Itemid=29

L’uomo dell’orzo

di Antonio Bruno

Antonio Michele Stanca quando parla dell’orzo si illumina: “è la pianta a cui ho dedicato 50 anni dei miei Studi” riferisce queste parole ad una platea formata soprattutto da giovanissimi adolescenti nella Giornata di studio che si è tenuta a Maglie. Lui mentre parla non fa come la maggior parte degli “illustri” oratori, il professore Stanca non si concentra sulle slide della presentazione.

Lui, quest’uomo buono della Città del Sole del Salento leccese, osserva le persone che ha davanti, percepisce le reazioni alle sue parole, è in un atteggiamento dialogante, con gli occhi, con il corpo e con l’anima. Dove si inserisce l’orzo? Cita un uomo, Johan Gregor Mendel che spiegò in forma matematica la ricombinazione genetica. Tu hai una pianta di orzo alta con la spiga grande e la fai incrociare con una pianta bassa che ha spiga piccola, erano linee pure, e queste ci sono solo nel mondo vegetale noi umani non siamo mai e mai saremo (grazie a Dio) linee pure http://159.149.74.38/webpage/Mendel%202.pdf .

Bene Johan Gregor Mendel vide che c’erano tra i semi nati alcuni che davano piante basse con spiga grande e si diede una spiegazione affermando che evidentemente c’erano dei corpuscoli che passavano da un organismo all’altro.

Non la fa lunga il Professore Antonio Michele Stanca e ci narra subito del codice genetico dell’uomo, ci ricorda che i geni sono stati tutti mappati, c’è ora, qui, una mappa che rappresenta la disposizione di tutti i geni dell’uomo. Ci dice della scoperta del microorganismo artificiale, del cromosoma fatto in laboratorio, ma poi, come una farfalla, vola via da quell’argomento insidioso e plana su una radura in cui si nutrono e si moltiplicano 220.000 specie vegetali: è il nostro pianeta, la terra madre.

Di tutto questo ben di Dio, ci racconta il Prof. Antonio Michele Stanca, solo 5.000 piante sono usate dall’uomo e di queste soltanto 1.500 sono state addomesticate, ma non basta! Di queste ultime solo 150 si coltivano. Ma il Professore Stanca senza stancarsi e andando ancora più a fondo con il bisturi dell’osservazione e con l’ausilio dei dati, ci dice che delle 150 piante coltivate 5 di queste e specificamente il riso, il grano, il mais, l’orzo e la patata rappresentano le piante che nutrono le donne e gli uomini di questo pianeta. Il grano! Ci rivela che del frumento prodotto in Italia solo il 10% è frumento duro, il resto è frumento tenero e, siccome la pasta di grano duro si mangia solo in Italia, anche in Spagna si produce in maggioranza grano tenero perché gli spagnoli, la pasta, la fanno con il grano tenero!

Poi arrivò il Dottore Agronomo Nazareno Strampelli http://www.ecologiapolitica.it/liberazione/200205/articoli/memoria.pdf che incrociò la varietà Olandese Wilhelminaper con la varietà Giapponese Akagomughi per ottenere il Prodotto Tipico Italiano! Capite? il Dottore Agronomo Nazareno Strampelli ha fatto un prodotto tipico italiano con varietà estranee all’Italia ecco perché il Prof. Antonio Michele Stanca afferma che prima vanno fatti i prodotti tipici e poi noi Dottori Agronomi dobbiamo dimostrare e spiegare il perché quel tal prodotto è tipico!

Come dici? Che se è un prodotto del Comune di San Cesario di Lecce ecco che allora è tipico? Il Prof. Antonio Michele Stanca non è d’accordo con te! E lo sai perché? Perché se quel prodotto che noi definiamo tipico non ha certe caratteristiche ecco che allora tipico non è!

Poi ci racconta degli anni 70 quando dal Messico arrivarono i frumenti nani e della circostanza che prima di Strampelli in Italia mediamente una donna o un uomo ingeriva 1.050 calorie al giorno e che dopo Strampelli le calorie che assume un Italiano in un giorno sono diventate 3.000.
E l’orzo? E’ una pianta diploide che significa che se tu, si dico a te che stai leggendo, fai una domanda all’orzo lui (l’orzo) ti risponde subito! E questa prontezza nel rispondere ha fatto dell’orzo una pianta modello. Ma come sanno bene le donne di spettacolo, il successo non è eterno, e così è stato anche per l’orzo, che ha dovuto cedere il passo alla Arabidopsis thaliana della famiglia delle rape che ha un genoma sequenziato.

La Arabidopsis thaliana è la scienza del settore vegetale perché in 60 giorni ti dice che cosa sta facendo un gene nella pianta. La scelta di Arabidopsis come organismo modello per la genetica e la biologia molecolare e cellulare delle piante ha diverse ragioni. Le dimensioni relativamente contenute del suo genoma (circa 125 milioni di paia di nucleotidi, in soli cinque cromosomi) l’hanno resa una pianta ideale per la creazione di mappe genetiche e per il sequenziamento del genoma, il primo ad essere stato completato, nel 2000, nel regno vegetale. Da allora il punto focale della ricerca è diventato scoprire qual è la funzione di ognuno dei circa 29 mila geni contenuti.

Poi il Prof. Antonio Michele Stanca passa al racconto del Neolitico, ci mette in una macchina del tempo e ci catapulta a 9.000 anni fa, quando cominciò l’importazione e quando tutto, era di importazione. Nella Mezzaluna fertile c’erano le donne e gli uomini che avevano avuto prima di andare va vivere in quel territorio la necessità di 16 chilometri quadrati, perché tanto era il territorio che serviva alla donne per raccogliere e agli uomini per cacciare. Poi, invece, nella mezzaluna fertile cominciano ad avere una prima possibilità, quella dell’orzo. Si ferma un attimo il Prof. Antonio Michele Stanca e ci racconta della ricerca di Luigi Luca Cavalli-Sforza che aveva visto i nuraghi in Sardegna e i furnieddhi nel Salento e ha provato a dimostrare che tutte e due le popolazioni fossero di origine fenicia. Invece no!

Il Salento leccese è terra di passaggio e nel Neolitico questo passaggio aveva anche una velocità! La cultura orale viaggiava alla velocità di 500 metri all’anno ma la pratica vera invece, era più lenta, e viaggiava a un chilometro l’anno!

A quelle velocità, 7.000 anni prima di Cristo, arrivò nel Salento leccese l’orzo (Hordeum Vulgare) e sempre a quelle velocità l’orzo viaggiò attraversando tutta la penisola italiana e si diffuse nell’intera Europa.
Una donna, forse bellissima, secondo il Prof. Antonio Michele Stanca, trovò un rachide di orzo che non era come tutti gli altri. Lei sapeva che se il giorno dopo ci fosse stato un vento forte, non avrebbe più trovato l’orzo perché il rachide è fragile e i semi si disperdono per terra. Invece quel giorno, quella donna bellissima trovo un rachide che era robusto, non faceva disarticolare il seme. Il Prof. Antonio Michele Stanca ci narra delle riunioni che quella donna fece nel villaggio, ci fa vivere le discussioni, tutte incentrate sul dilemma se dovessero continuare a coltivare le varietà a rachide fragile oppure se fosse il caso di incominciare a seminare quest’orzo a rachide non fragile. E poi dopo la suspence ecco la rivelazione liberatoria e il Professore ci dice che vinse il nuovo!

E il progresso continuò a fare altri passi come quello della raccolta con il falcetto di selce. Sapete cosa significa l’introduzione di questo “potente” mezzo? Riuscire a raccogliere 20 piante ogni volta. Il falcetto di selce è stato un grandissimo progresso tecnologico.
Non so se il mio report è riuscito a trasmettervi le informazioni che mio sono giunte attraverso la capacità narrativa di questo Magister, di quest’uomo partito dalla penisola salentina immersa nel grande lago salato con destinazione il Globo. Il Prof. Antonio Michele Stanca a Maglie il 29 maggio, mi ha emozionato e se io sono riuscito a trasmettere, anche solo un piccolo frammento di questo suo amore per la vita, per la terra e per le persone, allora domani tornate qui, perché la storia dell’orzo che non STANCA non è ancora finita.

La fontana di Gallipoli

di Raimondo Rodia
Non si conosce l’esatto periodo di costruzione di questo monumento in pietra calcarea: forse risale al periodo compreso fra la dominazione greca e quella romana, ma c’è chi lo vuole per la sua fattura costruito nel Rinascimento. Infatti sembra plausibile che le sculture che adornavano la fontana antica siano state riprese nel trasloco avvenuto durante il XVI secolo. Certo è che la fontana esisteva giàprima del 1500 in un luogo diverso da quello attuale e precisamente nella zona denominata “Fontanelle” , nei pressi del vecchio “Ospedale Sacro Cuore”. Ci ricorda del sito l’antico toponimo “Korici”, alterazione del greco “Korikios” [latino: termae]; questo ci fa supporre l’esistenza di un impianto termale cui apparteneva probabilmente anche la fontana. Forse a causa di infiltrazioni di acqua marina, essendo il sito troppo

Righe fuori schema

di Rocco Boccadamo

Piccoli sussulti insoliti arrivano a sgorgarmi, aventi al centro una donna, ancora nella stagione bella della vita coi suoi quaranta, amorevolmente contenta, in certo qual modo se non specialmente appagata – in armonia con i cieli, le costellazioni, i sentimenti e le usanze all’epoca dominanti – per via d’una squadra di sei figli partoriti in casa.

Carattere buono, mite, generoso, disponibile, giammai una parola di troppo o accenni d’insofferenza, che mamma, che dolcezza di mamma!

Porte di casa sbarrate ai malanni, solo qualche dolore di schiena e, a tratti, fastidiose irritazioni alle mani a causa dei tanti bucati, piccoli e grandi, fra sapone, lisciva e cenere per naturalissimi detergenti e sbiancanti, con l’ausilio di capienti tinozze fumanti d’acqua bollente e poi di braccia e di gomiti protesi su lignei “lavaturi”, nella pila lapidea appoggiata al muro del cortile.

Una mattina, all’improvviso, durante una breve pausa di solitaria tranquillità domestica, ella si trovò inopinatamente ad avvertire che qualcosa l’aveva aggredita, come se un subdolo mostro senza volto le fosse penetrato dentro.

In quei tempi lontani, quando l’esistenza era vestita di semplicità, i drammi, specialmente se imprevisti, assumevano le sembianze di autentiche calamità, lasciando attoniti gli animi di quanti rimanevano coinvolti o sfiorati.

E però, nella donna, prevalse, o per lo meno si palesò in prima linea, la serenità, l’accettazione del fatto nuovo, dell’incognito.

Fu l’occasione per l’ingresso, prima volta, nel presidio ospedaliero della zona, ai fini, diciamo così, d’un sopralluogo, d’una prima ricognizione sul corpo.

In tale luogo di cura, prestava da poco servizio un giovane infermiere, il quale, accanto alle capacità professionali, sembrava sprigionare una spiccata, evidentemente innata, disponibilità.

Trascorse poche ore, il ritorno a casa, l’attesa.

Di lì a poco, dovette purtroppo seguire un altro lungo tragitto d’incertezza e insieme di speranza, avente per oggetto l’espletamento di attività di cura più cospicue, finalizzate a porre rimedio al “brutto incontro” col mostro.

L’epilogo della vicenda occorsa alla giovane donna nell’estate della propria vita è stato purtroppo triste. Sono quarantaquattro anni che ella se n’è andata, sebbene, a dire il vero, per qualcuno è ancora sempre vicina e presente.

Così che, il di lei viso affettuoso s’affaccia discreto e sorridente anche in ogni circostanza d’incontro, per strada, lungo la litoranea, di fronte al mare azzurro, con il giovane infermiere di tanto tempo fa, il quale ormai veleggia intorno agli ottanta e, tuttavia, appare sempre fresco, disponibile e generoso d’animo: la reazione spontanea è d’indirizzargli un rosario di “grazie”.

L’autore di queste righe si scusa per aver voluto così dedicare un piccolo pensiero di ricordo alla propria genitrice.

Dalla maglietta di lana grezza al formaggio, dalle batterie alle cellule staminali, da…

 di Armando Polito

La stamègna, lemma che, stranamente, non compare nel Vocabolario dei dialetti salentini del Rohlfs, indica a Nardò, da tempi remoti, il panno di tela rozza con cui i pochi casari nostalgici della tradizione ancora oggi colano il latte cagliato. La voce è variante dialettale dell’italiano stamìgna che nel Dizionario italiano De Mauro è riportato come termine tecnico-specialistico tessile, ad indicare un tessuto di lana sottile e rado, ma molto resistente, usato specialmente per colare e setacciare. Il detto dizionario registra anche il significato obsoleto di veste mortuaria, reca come anno di nascita del termine il 1182 e fa derivare la voce dal latino medioevale stamìnea(m), derivato di stamen=stame.

Debbo però dire che la derivazione riguarda solo l’aspetto formale, non quello semantico, dal momento che nel Glossario del Du Cange alla voce stamìnea leggo: ”Lanea interula, seu camisia, qua Monachi quidam vice cilicii utebantur: nam Benedectinis lineas camisias ìnterdixit Innocentius III” (Maglia o camicia di lana usata da certi monaci invece del cilicio: infatti Innocenzo III proibì ai Benedettini le camicie di lino); perciò il passaggio dal significato di tessuto di lana ruvida a quello di panno per il filtraggio è sicuramente posteriore al tempo del papato di Innocenzo III (1198-1216).

Mi pare opportuno aggiungere, con un tuffo nel passato, che stamen, derivato dal verbo stare, è in connessione parallela con il greco σταμίς (leggi stamìs) o σταμίν (leggi stamìn) (attestato solo al plurale nel senso di travi verticali della carena della nave, a sua volta dal verbo ἵστημι (leggi ìstemi)=far stare=collocare, stare fermo); noto pure che la diffusione della voce nell’area neolatina  è limitata, oltre che all’Italia, solo alla Spagna con estamena, dal momento che bisogna attendere il 1908 per la nascita del francese étamine.

Stàmina è il nome dato alla fine degli anni ’90 dalla Sony (giapponese!) ad un modello di batterie per le telecamere di sua produzione, batterie caratterizzate (almeno nella pubblicità…) da una durata d’impiego decisamente superiore al normale. La voce in italiano è un termine tecnico specialistico del mondo sportivo, indica (cito sempre dal De Mauro) la capacità di produrre uno sforzo intenso e prolungato, deriva dall’inglese stàmina=resistenza, a sua volta dal latino stàmina, plurale di stamen. Perciò, se i possessori di teecamere Sony hanno problemi di batteria, ora sanno con chi devono prendersela: non con i giapponesi, non con gli inglesi, ma con gli antichi romani…1   

 

Staminàle è presente nel citato dizionario come sostantivo, termine tecnico-specialistico della marina, ad indicare nelle imbarcazioni in legno la parte comprendente gli scalmi più bassi, con maggiore curvatura, data di nascita il 1607, dal greco stamìn=trave col suffisso -àle e come aggettivo, termine tecnico-specialistico della botanica, nel senso di relativo allo stame, data di nascita il 1927, dal latino stamen=filo, stame, col suffisso -àle. Faccio notare come, al di là della rispettiva derivazione dal greco e dal latino, che immagino proposta per motivi non esclusivamente semantici (in altri termini, siccome il sostantivo si riferisce al mondo marinaro, deriverebbe dal greco, siccome l’aggettivo si riferisce al mondo botanico, deriverebbe dal latino), è certo che staminale è partecipe delle stesse connessioni etimologiche di stamìgna e di stàmina.

 

Le tre voci riportate nascono, dunque,  dal concetto semplicissimo e fondamentale, quello dello star fermo, del sostegno, evolutosi poi per staminàle verso i significati concreti di trave e filo (con riferimenti, rispettivamente al mondo marinaro e a quello tessile, e, per quest’ultimo, nel caso del neritino stamègna con ulteriore passaggio al mondo lattiero-caseario), per stàmina verso il significato di cosa resistente con riferimento prima  al  mondo  sportivo  e  poi  a  quello dell’elettronica), ma  staminàle  in particolare sembra continuare questa vocazione tecnico-specialistica nel recente nesso cellule staminali che, sottintendendo il sostantivo secondo una procedura antica oggi  influenzata dalla velocità e dalla tendenza all’abbreviazione tipiche del nostro tempo, è ormai diventato un sostantivo usato solo al plurale, le staminali.

Ho dedicato la mia attenzione a stamègna e ai suoi ascendenti e discendenti, ignorando volutamente tanti altri compagni di viaggio presenti nella lingua nazionale (stantio, stato, statuto e si potrebbe continuare per due giorni…), tutti legati a una radice ravvisabile nella sua fase più antica, a quanto ne so, nell’antico indiano ti-sth-ati, per non perdere anche l’ultimo lettore che ha avuto la pazienza di seguirmi fin qui. E chiudo con una domanda che tradisce da un lato la curiosità, dall’altro la consapevolezza di non poterla, probabilmente, soddisfare nemmeno in parte (tant’è che ho dovuto usare la preposizione semplice da impossibilitato a prevedere pure il genere della voce che nascerà): quali parole sostituiranno (è inevitabile!) fra qualche anno i puntini di sospensione del titolo?

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1 Lo stesso consiglio di fare a chi, in tempi in cui non esisteva il Viagra, è rimasto deluso dall’uso di Stamina R-x, le cui strabilianti proprietà chiunque potrà, solo digitandone il nome, ricercare in rete. Sono per la totale libertà della stessa, ma perché la magistratura non interviene per evitare questa ed altre truffe? Se non lo fa perché è necessaria la querela di parte, che si aspetta a cambiare la legge?.

Bernabò Sanseverino, biografia

BERNABO’ SANSEVERINO, DA CAPITANO DI GUERRA A SIGNORE DI NARDO’ (1384-1400)

II parte

di Roberto Filograna

… E’ in questa fase storica che compare, quindi, nelle vicende neretine Bernabò Sanseverino, nuovo signore di Nardò a partire dal 1384 e sino al 1400, data della sua uscita di scena, forse,  a causa della morte avvenuta,  prematuramente, per malattia.

Ma chi è Bernabò Sanseverino?

Egli è figlio del Dominus Franciscus de S. Severino, a sua volta figlio di Guglielmo Sanseverino (figlio di Tommaso II) e di Margherita de Scotto e che è considerato il capostipite dei Sanseverino di Nardò e di Terlizzi. Ha per fratello Luigi, anch’egli capitano di guerra.

Egli apparteneva quindi alla nobilissima casata dei Sanseverino, di origine francese e discendenti da Troisio, nobile cavaliere sceso in Italia con i conquistatori  Normanni, gli Hauteville (Altavilla). Essi presero il loro nome dal dominio sulla terra di San Severino, nel principato di Salerno.

I Sanseverino furono sempre presenti come protagonisti nelle vicende più importanti  del Regno. Da sempre legati ed alleati dei sovrani francesi, essi stessi furono, il più delle volte, gli strumenti della loro politica ed

Ti smaschero la frode alimentare

di Antonio Bruno

C’è la necessità di dare una carta d’identità alla tipicità che altrimenti rischia di poter essere contraffatta. Grazie al Prof. Antonio Michele Stanca i Dottori Agronomi e i Dottori Forestali del Salento leccese danno il passaporto al vostro prodotto tipico per verificare in qualsiasi momento se ciò che viene pubblicizzato è effettivamente quello che è descritto in etichetta.
C’è tutto il calore del Salento leccese in quest’uomo che tanto tempo fa è partito dalla città del sole Soleto (LE) per divenire protagonista del mondo: è Antonio Michele Stanca un uomo che è la dimostrazione vivente dell’era del fortemente locale che si proietta a pieno titolo nell’Universo globale.
Lo vedo nel Bar di forte al Museo Biblioteca L’Alca di Maglie dove ieri è venuto per prendere parte ai lavori della giornata di studio sull’orzo. Mi sono avvicinato e lui stava parlando del gruppo di ricerca, guidato da Craig Venter del J. Craig Venter Institute, era davanti a un capannello di persone che in a bocca aperta ascoltavano la Sua narrazione della prima specie auto-replicante esistente sul pianeta Terra il cui padre e’ un computer.

E’ tutto concentrato quando ci descrive la generosità di questo scienziato che ha donato la sua ricerca all’umanità, pur essendo stata realizzata da un laboratorio privato, pubblicandola e in questo modo permettendo a chiunque di fare ciò che lui stesso ha fatto.
Il Prof. Michele Stanca poi ci parla di ciò che sarà a suo avviso il punto di arrivo, molto probabilmente una forma vivente interamente costruita in laboratorio e programmata per una funzione precisa. Antonio Michele Stanca ci regala ancora tante emozioni in una relazione bellissima si cui però riferirò nei prossimi giorni.

Una giornata piena di sole, caldo asfissiante, ma ci muoviamo tutti alla volta della Masseria La Torre, la casa del Dottore Agronomo Francesco Dionigi Tarantino mio amico dai tempi dell’Istituto Tecnico Agrario “Giovanni Presta” . In questo Paradiso rubato alla Gariga c’è sempre il nostro Scienziato, circondato dalle persone in religioso silenzio che assistono, partecipano, palpitano assistendo alla disputa del Professore con Giovanni Pellegrino da Zollino sulla tipicità dei prodotti, sulla necessità di dare una carta d’identità alla tipicità che altrimenti rischia di poter essere contraffatta dal primo “cinese” di passaggio.

Ed è qui che il Prof. Antonio Michele Stanca ci ha parlato dei RIS, del Reparto Carabinieri Investigazioni Scientifiche. Che c’è? Perché fai quella faccia? Come dici? Si, sto parlando di quei Carabinieri che hanno una tuta completamente bianca e che vanno a caccia di capelli sulle donne che sono state violentate perché grazie a quel capello chi è colpevole paghi per il delitto commesso.
Infatti, sono stati identificati tanti malfattori e scagionati tanti innocenti grazie al DNA contenuto in un capello. E adesso mi chiederai cosa c’entrano i RIS con i prodotti tipici. Me l’ha spiegato il Prof. Antonio Michele Stanca che tra gli incarichi che ricopre fa anche il Dottore Agronomo, regalandomi la opportunità per tutti i colleghi della Provincia di Lecce di entrare in possesso della capacità di “fare la carta d’identità” ai prodotti tipici e della conseguente possibilità di verificare immediatamente se un prodotto corrisponde alle caratteristiche e al nome che il venditore utilizza.

Insomma quest’uomo ci ha regalato la “tracciabilità vera” e noi Dottori Agronomi e Dottori Forestali della Provincia di Lecce presto inizieremo questo percorso guidato da un Magister che pur essendo presente in tutto il mondo ai massimi livelli non dimentica la Sua terra e i Suoi conterranei, i Suoi Salentini leccesi, i Suoi colleghi Dottori Agronomi e Dottori Forestali.
Insomma voi che mi leggete avete la possibilità di avere a disposizione i Dottori Agronomi e i Dottori Forestali del Salento leccese per dare il passaporto al vostro prodotto tipico e per verificare in qualsiasi momento se il prodotto che viene pubblicizzato sia effettivamente quello che è descritto in etichetta.

Tu caro produttore sei in possesso di un seme di un prodotto tipico? Hai una produzione tipica? Noi siamo in grado di dare un passaporto a questo tuo prodotto dopo averne definito scientificamente le caratteristiche di eccellenza.
La tecnica che utilizzeremo è quella del finger printing genetico (caratterizzazione genetica di un singolo individuo). Si ottengono delle bande che saranno diverse per ciascun individuo, si usano queste tecniche anche nelle indagini forensi (tipo per scoprire l’assassino), confrontando diversi alleli microsatelliti di un individuo, con gli stessi microsatelliti però di un altro individuo. Se gli alleli coincidono per tutti i microsatelliti analizzati allora l’indagato è il colpevole, se sono diversi allora non è stato lui: è innocente.
E’ questo che facciamo noi Dottori Agronomi e Dottori Forestali del Salento leccese, facciamo delle indagini e poi ti diciamo se quel prodotto è la Pastinaca di Sant’Ippazio coltivata a Tiggiano oppure no, e lo possiamo certificare in maniera scientifica senza paura di smentita. I Dottori Agronomi e i Dottori Forestali del Salento leccese sono in grado di utilizzare efficientemente e in sicurezza le tecniche molecolari per effettuare con metodi analitici di indagine la caratterizzazione di organismi e prodotti agricoli ed il controllo della loro qualità e salubrità, nonché di partecipare alla ricerca e allo sviluppo delle potenzialità adattative e produttive delle piante coltivate e di ottimizzare i processi di trasformazione dei prodotti agricoli.

Una giornata di sole, il caldo degli ultimi giorni di maggio nella bellezza della campagna del Salento leccese, un uomo, discendente dei progenitori che vennero da Oriente, partito con destinazione il Mondo, è tornato in questa penisola che si immerge nel Grande Lago Salato: Antonio Michele Stanca è stato in mezzo a noi con l’atteggiamento di chi non è mai partito, lo stesso che gli ha permesso di portare in Inghilterra o negli Usa, in Africa o in Oceania, la peculiarità della terra di passaggio, del territorio dell’accoglienza, della culla dell’armonia delle diversità, la competenza, l’intuito, la curiosità, la cordialità e la generosità del popolo del Salento leccese.

Bibliografia:
Una cellula batterica controllata da un genoma sintetico.
Ecco la vita artificiale: costruita la prima cellula “comandata” da un genoma sintetico.
Luciano Garofano (Maggiore Dr. Comandante del Reparto Carabinieri Investigazioni Scientifiche): L’uso del DNA a scopi investigativi.
Giovanna Ruffin: Il Dna metterà il cappio ai criminali.
Caratterizzazione, attraverso marcatori molecolari, di varietà di particolare pregio con l’ottenimento di un “passaporto molecolare” a supporto della certificazione di autenticità.
Caramante, Martina (2009) Marcatori molecolari del DNA per la tracciabilita’ nella filiera agroalimentare del pomodoro. Universita’ degli Studi di Napoli “Federico II”.
Donato Matassino: La rintracciabilità di un prodotto di origine animale e/o vegetale a garanzia di qualità.

Appunti di viaggi: dalla Puglia alla Sicilia

APPUNTI DI VIAGGI: DALLA PUGLIA ALLA SICILIA, FRA SCORCI D’INCANTO

di Rocco Boccadamo

Bellissime, struggenti e fresche immagini snodatesi innanzi agli occhi in armoniosa e distensiva successione, frammiste e combinate con emozionanti altalene di sensazioni e riflessioni sprigionatesi nel mio intimo profondo, concorrono a farmi rivivere, con un senso di gioia e d’autentico piacere, gli orizzonti, il clima e i contenuti di un recente viaggio in auto da Lecce a Messina.

Invero, mi è particolarmente caro l’itinerario che si muove dal Salento  in direzione sud e lo ripercorro sempre con vivo e rinnovato interesse e godimento.

tavole palatine

A cominciare dal balzo che avverto dentro nello sfilare lesto davanti alla mirabile e insieme mitica silhouette  delle Tavole Palatine di Metaponto, oppure gustando i suggestivi arenili ad acciottolato fine – con piccoli e romantici scogli affioranti proprio a ridosso della riva – nel primo tratto cosentino da Montegiordano Marina  a 

La fabbrica del vino del Salento

di Antonio Bruno

Ci sono 10 milioni di cinesi che possono consumare prodotti del Salento leccese ed è per questo motivo che i produttori di vino di questo territorio sono presenti sino al 31 ottobre 2010 all’Esposizione universale di Shanghai presso il padiglione Italia del Ministero delle Politiche agricolo, alimentari e forestali.

Ma com’è questo vino del Salento leccese? Nel nostro territorio la produzione massima di uva per ettaro di vigneto in coltura specializzata non supera le tonnellate 14 per la tipologia rosso Primitivo; a tonnellate 19 per le tipologie derivate da uve a bacca nera; a tonnellate 22 per quelle derivate da uve a bacca bianca. La resa massima dell’uva in vino finito, pronto per il consumo, non è superiore al 75%, per tutti i tipi di vino. Un attimo solo per le tipologie rosato e passito la resa non deve essere superiore al 50%. Quindi da un ettaro di Primitivo si ottengono circa 10.000 litri di vino, e 14.000 litri dalle uve a bacca nera e 16.000 litri di vino bianco.

Secondo l’Eurispes, nel nostro paese nel 1999 sono stati consumati circa 47 milioni di ettolitri di alcol, tra vino e superalcolici. Se si riferiscono tali consumi alla popolazione superiore ai quattordici anni il consumo pro capite sale a 105 litri. Il consumo di vino degli italiani è inferiore solo al consumo francese (59 litri pro capite) uguale a quello portoghese, superiore a quello svizzero (41 litri) o a quello tedesco (32).

Significativo risulta anche il consumo domestico di vino. Nel 1999, secondo l’Eurispes, la spesa media mensile di vino per nucleo familiare si aggirava intorno ai 18 €.

ph Riccardo Schirosi

Ma dove si compra il vino? Soprattutto al supermercato nel 50% dei casi, nelle enoteche per il 27% e solo nel 7% da chi lo produce direttamente. L’andamento dei consumi pro-capite italiani (-20% negli ultimi 6 anni) e la perdita di competitività all’estero riportano in evidenza il problema delle eccedenze produttive. Per questo motivo il famoso “Prendi tre e paghi due” che è la regina di tutte le formule promozionali può, in estrema sintesi, dare l’idea di quel che sta succedendo al vino italiano sui mercati esteri. Come registrano i dati di Assoenologi, i flussi dell’export nel terzo trimestre 2009 indicano un aumento dei volumi da 12,9 a 14,1 milioni di ettolitri e una diminuzione degli incassi da 2,61 a 2,46 miliardi di euro.

Con questa situazione le aziende produttrici di vino del Salento leccese sbarcano piene di speranze oggi in Cina, domani in Messico o in Nuova Zelanda per risolvere l’annoso problema e una volta presa conoscenza delle dinamiche di mercato nel settore alla luce dell’internazionalizzazione dei mercati, alla complessità dei comportamenti d’acquisto del consumatore è evidente che queste imprese sono sottoposte a una notevole minaccia competitiva.

Per poter fronteggiare questa situazione le aziende sono costrette a intraprendere delle efficaci ed efficienti azioni di marketing, processo che necessita di investimenti cospicui, di uno studio approfondito per la formulazione del piano di marketing, tutte cose che se sono nella facoltà delle grandi imprese non possono essere alla portata del produttore singolo.

Voglio raccontarvi ciò che è accaduto al mio amico Marco che vuole fare il vino. Ha 5 ettari di vigneto da cui ricava 70.000 litri di vino. Mi ha detto che vuole produrre e vendere direttamente il vino che fa lui. Mi ha detto che vuole regalare a tutti il gusto di riscoprire i sapori pugliesi del passato poiché si tratta di prodotti che passano direttamente dal produttore, ossia il singolo contadino, al consumatore, una tradizione e un gusto che purtroppo diventano sempre più rari. Dopo che il mio amico Marco ha letto il mio articolo Volete provare l’ebbrezza del profumo del mosto selvatico? http://centrostudiagronomi.blogspot.com/2009/12/volete-provare-lebbrezza-del-profumo.html siamo andati a trovare un altro mio amico e cioè Angelo Amato di Lecce http://www.olivaservice.com/ che ci ha messo a disposizione tutto l’occorrente.

Però c’è una novità che è rappresentata dalla “Fabbrica del Vino Mobile”. Come dite? Si! Angelo Amato presto si attrezzerà con quanto occorre per venire nell’Azienda del mio amico Marco con il suo “Palmento Mobile” e dopo averlo ottenuto direttamente sotto i tuoi occhi, tu potrai acquistare il vino di Marco sapendo che è proprio quello dell’uva che ha scelto e che hai visto divenire vino davanti ai tuoi occhi. Come dici? Quanto costa? Il vino di Marco costa 3 Euro al litro che a te garantisce la genuinità e la riscoperta del vino di una volta e a Marco un buon reddito.

Allora quest’anno si va alla vendemmia di Marco?

 

Bibliografia

Italo Poso: I vini del Salento sbarcano in Cina – Nuovo Quotidiano di Puglia del 13 maggio 2010

E. Scafato, S. Ghirini, R. Russo. Istituto Superiore di Sanità. Roma: I consumi alcolici in Italia: analisi e proposte

Disciplinare di produzione Indicazione geografica tipica del vino «Salento» Decreto Ministero Risorse Agricole del 20 luglio 1996 G. U. Repubblica Italiana n. 190 del 14 agosto 1996. Ha sostituito il D.M. 12 settembre 1995.

Volete provare l’ebbrezza del profumo del mosto selvatico? http://centrostudiagronomi.blogspot.com/2009/12/volete-provare-lebbrezza-del-profumo.html

Storia della musica salentina/ Cloe Elmo (1910-1962)

a cura di Elsa Martinelli

Cloe Elmo (Lecce, 9 aprile 1910Ankara, 24 maggio 1962), mezzosoprano e contralto italiano. Studiò al Conservatorio di musica “Santa Cecilia” a Roma con Edvige Ghibaudo.

Nel 1932 vinse il primo premio al “Concorso internazionale di canto e musica” di Vienna. Debuttò a Cagliari nel 1935 come “Santuzza”. Nel 1936

Leggendo Luigi Corvaglia…


di Gianni Ferraris

 

Ah le differenze. Leggo Corvaglia e le sue riflessioni  psicologiche su baresi e leccesi, leggo e imparo. Come ogni cosa scritta con il cuore ti invita a volare. Il pragmatismo produttivo e maschio contrapposto alla “mollezza burrosa” e femminile. Che vita strana, che strane sensazioni.  Sono scivolato attraverso l’Italia intera. Dalle terre dei Savoia, si proprio quelli che hanno saccheggiato il sud,  che fra loro parlavano un forbito francese. Quelli che ci hanno lasciato eredi che, in quanto a religiosità, paiono molto più vicini a S. Vittore  piuttosto che ad altri santi. Poi sono rotolato sulla rossa Emilia

Lu lampasciòne

Lu lampasciòne1

di Armando Polito

 

 

Era littu sobbra a llibbri antìchi                                  

ca niènti cu lli fèmmine rispichi2                                 

ci no tti ‘mbacchi3 lu mangiàre ggiùstu;   

ci poi vuei ppruei cchiù motu custu,

lu lampasciòne miràculi pò ddare                              

Il bulbo che risveglia i sensi

di Antonio Bruno

 

Mio nonno Pietro detto “Petruzzu” li adorava. Li potete raccogliere dopo l’aratura del terreno e sono il frutto di 4 o 5 anni vita di questa pianta che ha il nome Muscari comosum. Ha dell’avventuroso andare alla ricerca del “Pampasciune”, una attività di scavo, di portare fuori dalle rosse terre del Salento leccese un bulbo amaro che viene lasciato nell’acqua per essere poi mangiato. La raccolta del selvatico è praticata ancora oggi diffusamente nel Salento leccese.
Lu Pampasciune detto anche Lampasciune è una pianta erbacea perenne di modeste proporzioni, fornita di un bulbo (organo sotterraneo come quello dei tulipani) formato da scaglie o tuniche carnose, compatte, di colore rosaceo.
Tutte le parti di questa pianta (bulbo, fusto,  foglie e fiori) contengono un succo mucillaginoso di sapore amaro un po’ acre.
Nel mondo classico ai bulbi , veniva attribuito un alto potere afrodisiaco, e numerose sono le testimonianze in tal senso. d.C.) dedicò ai bulbi queste parole. “qualora tua moglie sia vecchia, qualora il tuo membro sia morto, niente altro che i bulbi potranno soddisfarti… Chi sa apparire uomo nelle battaglie di Venere, mangi i bulbi e sarà molto forte”.

 
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Un linguaggio d’altri tempi, una parola che indica una cipolla selvatica che

Don Tonino Bello, vera sciabolata di luce viva

di Gianni Ferraris

Ricordare certe figure è un obbligo morale, una questione etica e socialmente non prescindibile.

Ci sono uomini che travalicano le loro appartenenze religiose, politiche, culturali. Che parlano all’umanità intera i linguaggi più consoni e che raggiungono le coscienze in modo diretto. Ci sono sguardi che trafiggono per la loro intensità.

Pensiamo al Dalai Lama che porta in giro per il mondo il suo esilio. Al Mahatma Gandhi che invocava la pace con messaggi di una coerenza difficilmente riscontrabile da altre parti. Pensiamo a figure di statisti come Pertini, Moro e molti altri potrei citarne, sicuramente scordandone molti altri ancora.

Sono figure di fronte alle quali ogni essere umano si sente in dovere di esprimere riconoscenza. Cattolici, atei, laici, di religioni diverse, però con un univoco modo di essere eticamente, moralmente, socialmente preziosi per gli insegnamenti che ci hanno donato.

Così anche un non credente si sente in forte debito nei confronti di un sacerdote, un vescovo in questo caso, che ha aperto uno squarcio nella pochezza di alcuni linguaggi o, peggio, nelle nefandezze che sono di strettissima attualità in ogni ordine di gerarchie, siano esse laiche o religiose.

Sono voci fuori da questi cori così poveri, e sono vere sciabolate di luce viva, fari di coscienza e di consapevolezza. Hanno sguardi penetranti, hanno parole che commuovono come l’estrema coerenza sa commuovere. Aiutano a guardare e vedere, invitano a non spegnere mai la luce.

Tonino Bello nacque ad Alessano (Le) il 18 marzo del 1935. Finite le medie, venne mandato in seminario prima ad Ugento (Le) , poi a Molfetta (Ba). Ordinato sacerdote a 22 anni, si occupò della rivista “vita nostra”. Poi, negli anni 70, fu parroco a Tricase (Le). Qui incontrò e conobbe gli ultimi: i poveri, i disoccupati, gli emarginati. Nel 1982 venne nominato vescovo di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi e nel 1985 presidente di pax Christi.

Fra i molti suoi scritti ed interventi, mi piace citare quello del grembiule e della stola, che forse contribuisce a comprenderne la statura:

“…Forse a qualcuno può sembrare un’espressione irriverente, e l’accostamento della stola col grembiule può suggerire il sospetto di un piccolo sacrilegio. Si, perchè di solito la stola richiama l’armadio della sacrestia, dove con tutti gli altri paramenti sacri, profumata d’incenso, fa bella mostra di sè, con la sua seta ed i suoi colori, con i suoi simboli ed i suoi ricami… Il grembiule, invece, ben che vada, se non proprio gli accessori di un lavatoio, richiama la credenza della cucina, dove, intriso di intingoli e chiazzato di macchie, è sempre a portata di mano della buona massaia. Ordinariamente non è articolo da regalo: tanto meno da parte delle suore, per un giovane prete. Eppure è l’unico paramento sacerdotale registrato dal vangelo. Il quale vangelo, per la messa solenne celebrata da Gesù nella notte del Giovedì Santo, non parla nè di casule, nè di amitti, nè di stole, nè di piviali… La cosa più importante, comunque, non è introdurre il “grembiule” nell’armadio dei paramenti sacri, ma comprendere che la stola ed il grembiule sono quasi il diritto ed il rovescio di un unico simbolo sacerdotale. Anzi, meglio ancora, sono come l’altezza e la larghezza di un unico panno di servizio: il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo. La stola senza il grembiule resterebbe semplicemente calligrafica. Il grembiule senza la stola sarebbe fatalmente sterile…”

Servizio. E’ stata questa la grandezza di Tonino Bello.

L’umiltà di essere servitore del suo Dio e delle persone, al di là ed oltre il loro credo. Persone e basta. Aprendo le porte del suo vescovado agli operai, ai disoccupati. Andando con la sua utilitaria la notte nei quartieri degradati per aiutare un tossicodipendente, una prostituta, un clochard. Indossava il solo grembiule in quei momenti, ma quanto era luminoso, sembrava una stola di seta dorata! E come vescovo inizia un percorso che lo vede a fianco degli operai delle acciaierie di Giovinazzo che difendono il posto di lavoro. Soprattutto lo si vede a Comiso con i pacifisti a sfilare contro l’installazione dei missili. E aprirà le austere porte del vescovado per accogliere gli sfrattati, sostenendo con forza che non risolverà lui il problema degli sfrattati, non è compito suo. Lui intende semplicemente istigare le istituzioni a fare il loro lavoro.

“…io ho posto un segno di condivisione che alla gente deve indicare traiettorie nuove (…), insinuare qualche scrupolo come un sassolino nella scarpa.”

E ancora, nella consapevolezza di essere personaggio scomodo, crea centri di accoglienza per i tossicodipendenti, per immigrati. E fa nascere una moschea per “i fratelli mussulmani”.

Integrazione, accoglienza, solidarietà nei fatti, sono le parole d’ordine che lo guidano e il suo essere pastore. La pace e un pacifismo “militante” furono le sue battaglie più aspre. Quelle che lo portarono addirittura ad essere accusato di incitare alla diserzione quando in una lettera ai parlamentari nel gennaio 1991, disse che era possibile: “esortare direttamente i soldati, nel caso deprecabile di guerra, a riconsiderare secondo la propria coscienza l’enorme gravità morale dell’uso delle armi».

Prima aveva lottato contro gli F16 a Crotone, contro gli Jupiter a Gioia Del Colle. Aveva promosso campagne per il disarmo e l’obiezione fiscale alle spese militari.

Immediato viene il paragone con un altro vescovo. Oscar Romero infatti invitò i militari salvadoregni ad opporsi a ordini di pena di morte. E immediato viene il parallelo con la teologia della liberazione. Romero venne trucidato da un tiratore scelto delle squadracce del dittatore mentre elevava l’ostensorio in una cattedrale affollata di campesinos impauriti e sgomenti.

Il culmine dell’impegno per la pace di Tonino Bello furono quei 500 che partirono da Ancona per la marcia per la pace in una Sarajevo martoriata dalla guerra, era il 7 dicembre 1992.

E lui, già malato, terminò la sua omelia con queste parole: “…Gli eserciti di domani saranno questi: uomini disarmati”.

Alexander Langer, suo estimatore ed amico, ricordò con queste parole un dialogo fra loro dopo il ritorno da quella marcia: “Tornò pieno di dubbi, e non li nascose: aveva vissuto con acuto dolore l’impotenza della pura proclamazione di pace, non se la sentiva di dare o escludere indicazioni operative, ma era sicuro di una cosa, come nei giorni della guerra del Golfo: che la pace, per affermarsi, ha bisogno innanzitutto di persone pacifiche e di mezzi pacifici”.

Tonino Bello morì il 7 aprile 1993 per cancro.

Alcune sue citazioni sono rimaste impresse come scritte indelebili. Una sua frase ricordo in particolare: «Dicono che gli uomini sono angeli con un’ala soltanto, devono tenersi abbracciati per poter volare».

E ancora nel corso di un incontro che ebbe con i ragazzi di una scuola media, disse parlando a braccio: “…Abbiamo sentito una canzone qualche sera fa nella cattedrale di Terlizzi ad un incontro per i giovani… facemmo mettere una canzone di Zucchero che diceva: “… voglio amare fino a che il cuore mi faccia male…”. Io vi auguro, ragazzi, che voi possiate essere capaci di amare a tal punto che il cuore veramente vi faccia male! Lo dico a tutti, indipendentemente dalla vostra esperienza religiosa… anche se c’è qualcuno, qualcuna che è molto lontana… sono convinto che è una cosa che tocca anche loro… starei per dire… soprattutto loro! Vi auguro che possiate veramente amare, amare la vita, amare la gente, amare la storia, amare la geografia, cioè la Terra… a tal punto che il cuore vi faccia male… e ogni volta che vedete non soltanto queste ignominie che si compiono, queste oppressioni crudeli, queste nuove Hiroshima e Nagasaki, questi nuovi campi di sterminio, vedrete fra 5 o 6 anni come i momenti che stiamo vivendo oggi passeranno davvero nella storia con una gravità più grande di quella che avvolge gli episodi di Hiroshima, di Nagasaki, dei campi di concentramento, dei campi di sterminio… quello che si sta compiendo oggi… nel silenzio generale di tutti… questi curdi massacrati, come gli iracheni massacrati, come le guerre che hanno mietuto iracheni, americani, europei… ma che c’importa della bandiera? Quando muore un uomo è sempre una tristezza incredibile. Io penso che quando voi vedete queste cose vi dovreste sentire il cuore che vi fa male… Ma noi il cuore ce lo sentiamo triste soltanto quando vediamo le cose epidermiche… Perché vedere la moglie di un marinaio che ieri è morto nell’incidente di Livorno che viene ripresa dalle zoomate impietose della tv e che piange, che singhiozza… anche te ti senti il cuore che ti fa male… ma poi dopo passa… e la televisione ci sta abituando a girar pagina subito. Però il grido violento che si sta sprigionando dalla Terra, soprattutto dalle turbe dei poveri, quello lì deve risuonare costantemente dentro di voi… vi auguro, dicevo, che il cuore vi faccia male, come anche il cuore vi dovrebbe far male quando vedete lo sterminio della natura… Sentiremo fra poco che cosa significa la fiumana di greggio che si è sprigionata nel Golfo Persico… ”.

Gli auguri scomodi di Tonino Bello ai suoi fedeli:

Non obbedirei mai al mio dovere di vescovo, se vi dicessi “Buon Natale” senza darvi disturbo. Io, invece, vi voglio infastidire. Non posso, infatti, sopportare l’idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla “routine” di calendario. Mi lusinga, addirittura, l’ipotesi che qualcuno li respinga al mittente come indesiderati. Tanti auguri scomodi, allora! Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali. E vi conceda la forza di inventarvi un’esistenza carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio. Il bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finchè non avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un povero marocchino, a un povero di passaggio. Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la carriera diventa l’idolo della vostra vita; il sorpasso progetto dei vostri giorni: la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate. Maria, che trova solo nello sterco degli animali la culla ove deporre con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti a sospendere lo struggimento di tutte le nenie natalizie, finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che lo sterco degli uomini o il bidone della spazzatura o l’inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa. Giuseppe, che nell’affronto di mille porte chiuse è il simbolo di tutte le delusioni paterne, disturbi tutte le sbornie dei vostri cenoni, rimproveri i tepori delle vostre tombolate, provochi cortocircuiti allo spreco delle vostre luminarie, fino a quando non vi lascerete mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza salute, senza lavoro. Gli angeli che annunciano la pace portino guerra alla vostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che, poco più lontano di una spanna con l’aggravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfrutta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano i popoli allo sterminio della fame. I poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’oscurità e la città dorme nell’indifferenza, vi facciano capire che, se anche voi volete vedere “una gran luce”, dovete partire dagli ultimi. Che le elemosine di chi gioca sulla pelle della gente sono tranquillanti inutili. Che le pellicce comprate con le tredicesime di stipendi multipli fanno bella figura ma non scaldano. Che i ritardi dell’edilizia popolare sono atti di sacrilegio, se provocati da speculazioni corporative. I pastori che vegliano nella notte, “facendo la guardia al gregge” scrutando l’aurora, vi diano il senso della storia, l’ebbrezza delle attese, il gaudio dell’abbandono in Dio. E vi ispirino un desiderio profondo di vivere poveri: che poi è l’unico modo per morire ricchi. Sul nostro vecchio mondo che muore nasca la speranza!!!  don Tonino Bello.

Bibliografia:

– “Alla finestra della speranza” Ed. S. Paolo, Cinisello B., 1988.

– “Sui sentieri di Isaia” Ed. La Meridiana, Molfetta, 1990.

– “Scrivo a voi… lettere di un vescovo ai catechisti” Ed. Dehoniane, Bologna 1992.

– “Pietre di scarto” Ed. La Meridiana, Molfetta, 1993 – “Stola e grembiule” Ed. Insieme, Terlizzi, 1993

Addio al calaprìcu e compagni


 di Armando Polito

In un’epoca in cui l’ingegneria genetica promette mirabilie e, con particolare riferimento al mondo vegetale, già serve sulle nostre tavole frutta e verdura di forma e sapore (?) inusitati, può sembrare da inguaribile nostalgico del tempo che fu dedicare quattro righe ad un umilissimo arbusto un tempo molto diffuso dalle nostre parti: il calaprìcu, cioè il pero selvatico. La voce ancora oggi è usata per sottolineare il sapore amaro di un cibo o il carattere scontroso di una persona, anche se la metafora a breve scomparirà seguendo in questo il destino dell’arbusto.

È per me paradossale e scandaloso che a parole si sottolinei l’importanza della biodiversità e che contemporaneamente non si muova un dito per salvare specie animali e vegetali in pericolo di estinzione e che, anzi, per motivazioni egoisticamente ed esclusivamente economiche (qualcuno ha persino la spudoratezza di affermare che le modificazioni genetiche applicate all’agricoltura risolveranno il problema della fame nel mondo!) si sovrapponga incoscientemente e presuntuosamente alla biodiversità progettata,  realizzata e collaudata nei millenni dalla natura e parzialmente turbata dall’uomo con l’antichissima tecnica dell’innesto, quella ideata, sempre dall’uomo, in questi ultimi anni e immessa sul mercato senza, a mio avviso, le dovute garanzie che solo un controllo prolungato nel tempo può dare.

È triste consolarsi col passato, ma tant’è! Plinio il Vecchio (23-79 d. C.) nella Naturalis historia (17, XIV, 75) ci ha lasciato sul tema quanto segue; non so, anche su altri temi, purtroppo, cosa lasceremo noi…:

Tubures melius inseruntur in pruno silvestri et malo cotoneo et in calàbrice. Ea est spina silvestris; quaecumque optime et myxas recipit; utiliter et sorbos.

(I lazzeruoli si innestano meglio sul susino selvatico, sul melo cotogno e sul calaprico. Questa è una pianta spinosa selvatica; accoglie ottimamente ogni specie e i susini; con buoni risultati anche i sorbi).

E tre secoli dopo Palladio Rutilio Tauro Emiliano (Agricultura, X, 14) ribadiva:

Mense ianuario ultimo vel februario tuburum surculus mirabiliter proficit cydonio insitus. Inseritur autem melis omnibus et piris et prunis et calabrici melius trunco fisso quam cortice.

(Alla fine di gennaio o di febbraio la gemma dei lazzeruoli attecchisce mirabilmente innestata sul melo cotogno. Si innesta inoltre su tutti i meli, peri, susini e sul calaprico meglio a spacco che a corteccia).

Ma il funerale dei portainnesti antichi vede, oltre al calaprìcu, il piràscinu (altra specie di pero selvatico, il cui nome è da piru+lo stesso suffisso dispregiativo di nannàscina, purpàscina, etc. etc.; un latino piràginus è attestato molto tardi e precisamente nello statuto di Atena (Sa) che è anteriore al 1475), la maràngia [direttamente dall’arabo narang, dal persiano narany , probabilmente dal sanscrito nagaranja=frutto degli elefanti, mentre in italiano si è sviluppato arancio con caduta di n– per deglutinazione in seguito a fusione con l’articolo (un narangio>un arangio>arancio); solo in epoca relativamente recente, per probabile importazione da Gallipoli e incrocio con mara=amara, la voce si è specializzata ad indicare la varietà amara] e il tèrmite (specie di olivo selvatico); la voce è  direttamente dal latino tèrmite(m)=ramoscello, con specializzazione del significato; i  nostri  oliveti secolari ed  ultrasecolari con il loro irregolare sesto d’impianto provano la pratica antica  di  innestare   in pieno  campo  olivastri  (tièrmiti) spuntati qua e là nei campi e nella macchia e, con la loro maggiore resistenza alle malattie rispetto ad esemplari frutto di tecniche colturali più recenti, confermano ciò che già il poeta latino Orazio (I° secolo a. C.) aveva celebrato nei versi 41-48 del 16° epodo: Nos manet Oceanus circumvagus: arva beata/petamus, arva divites et insulas,/reddit ubi cererem tellus inarata quotannis/et imputata floret usque vinea,/germinat et numquam fallentis termes olivae/suamque pulla ficus ornat arborem,/mella cava manant ex ilice, montibus altis/levis crepante lympha desilit pede (Ci attende l’Oceano che tutto abbraccia: di campi beati/andiamo in cerca, di campi ricchi e di isole/dove la terra ogni anno senza esssre arata dà le messi/ e la vite senza essere potata rifiorisce sempre/ e il ramo dell’olivo che mai inganna germoglia/e il giovane fico orna il suo albero,/il miele stilla dal cavo leccio, dall’alto dei monti/scende giù con la sua corrente fragorosa l’acqua leggera).

Termes è connesso col greco terma=meta, limite e con i latini termo, termen e tèrminus=linea di confine, a riprova questa volta del fatto che un tempo dei rami segnavano il confine di un campo,  proprio come avrebbero fatto per secoli nelle nostre campagne le piante di olivo (chisùre). E Tèrminus per i Latini era il dio dei confini.

Al di là della contestualizzazione storica (l’abbandono della terra natia verso lidi che sembrano una sorta di paradiso è visto da Orazio come unico rimedio al clima di distruzione e morte indotto dalle guerre civili), dove cercheremo rifugio noi dopo aver violentato anche l’Amazzonia? Sembra una vendetta della storia e pure dell’etimologia quando si pensa che il greco terma, prima citato, deriva dal verbo tèiro (in latino tèrere, dal cui participio passato tritum sono nati i nostri trito, tritare e triturare) che significa logorare, indebolire. I Greci erano partiti da questo concetto di sfinimento e morte per dar vita a quello di conclusione, confine; poi i Latini, a parte i già nominati termo, termen, tèrminus e Tèrminus avevano mantenuto l’originario significato negativo oltre che nel verbo tèrere anche in tarmes/termes=tarma (dalla variante termes la nostra tèrmite o termìte, il temibile insetto). E noi? Noi, in pochi decenni, siamo stati capaci solo di percorrere il cammino inverso…

E io sono stato solo in grado di partorire queste poche, inutili osservazioni e questi miserabili, altrettanto inutili versi (?)…

Lu tèrmite

                                                                                  

Quantu tièmpu è ppassàtu ti ddhu ggiùrnu!                  

Simènte eri, ti ceddhu cuncardàta1;                              

ti lu sole poi sott’a llu furnu                                          

la vita chiànu chiànu è spuntàta.

                                                                                        

Picchi acqua ‘ggiàna2 intr’a ‘stu maru cuèzzu,            

stuèrtu e ttanti bbuchi intr’a lla scorza,                        

ti stòria antìca tu sî ormai ‘nu stuèzzu                          

e ddi natùra la proa ti la forza.

                                                                                       
Ma quarche ccosa strana mo sta ssiènti:                      
                                       

l’acqua non è cchiù queddha e mmancu l’aria,            

troppu ti pressa càngianu li tièmpi,                                                                            

lu sangu ‘ndi mbilèna addha malària.                                                                      


E ppàssari, ciciàrre  e ssaccufàe
3                                                                 

sempre menu ti fannu cumpagnìa,                                       

irdulèddhe e ccardìlli cchiù no ‘nd’hae                         

e sta tti pìgghia la malincunìa.

                                                                                       
Piensi ca no ppuè ffare mancu figghi                            

e la simènte tua a ‘n terra minàta                                 

sai ggià ti sicùru ca ttra ppicchi                                    

è mmuffìta, morta e ppoi squagghiàta.

                         

L’olivastro

 

Quanto tempo è passato da quel giorno!

Seme eri, riscaldato dal ventre di un uccello;

del sole poi sotto il calore

la vita piano piano è spuntata.

 

Poca acqua piovana dentro questa roccia amara,               

storto e con tanti buchi nella corteccia,

di storia antica tu sei ormai un pezzo

e la prova della forza della natura.

 

Ma qualche cosa strana stai ora sentendo: 

l’acqua non è quella di una volta e nemmeno l’aria,

troppo in fretta cambiano i tempi,

il sangue ci avvelena una diversa malaria.

 

E passeri, cinciallegre e rigogoli

sempre meno ti fanno compagnia,

verdoline e cardellini non ci son più

e ti sta prendendo la malinconia.

 

Pensi che non puoi fare nemmeno figli

e il seme tuo a terra abbandonato

sai già di sicuro che tra poco

sarà ammuffito, morto e poi disfatto.

_______

1 Il calore del ventre dell’uccello che ha inghiottito il seme favorisce, dopo la sua eliminazione, l’attecchimento; cuncardàre corrisponderebbe ad un inusitato italiano concaldare.

2 Da *foggiàna, acqua che si raccoglie nella fòggia (fossa), con aferesi di fo-.

3 Dal greco siukòfagos=mangiatore di fichi.

Càusi e stiani (pantaloni e gonne)

CIVILTA’ CONTADINA DI FINE OTTOCENTO

 CAUSI E STIANI  (PANTALONI E GONNE)

 

 di  Giulietta Livraghi Verdesca Zain

 

(…) “La strata ncursàta spenta l’andòre…” (“nella strada affollata il profumo svapora…”), si diceva a inculcare che una donna onesta non doveva oziosamente gironzolare per il paese, pena la perdita delle sue qualità morali; e continuando nello snocciolare dei proverbi a carattere formativo, si affermava che “Lu passìu ti la fèmmina ete l’urtàle” (“La passeggiata, la donna può farsela sfaccendando nel cortiletto di casa”), dichiarando “Bbinitétta la fémmina ca tàe palòra sulu a lla nnàccara ti lu tilàru”  (“Benedetta la donna che conversa solamente col ticchettio del telaio”), sino a prendere spunto dalla sciorinata del bucato per ricordare che “Càusi e stiànu no bbànu mpisi a lla stessa corda ci ti miènzu no nc’ete nnu chiasciòne” (“Pantaloni e gonna non vanno appesi allo stesso filo se fra un indumento e l’altro non si tende un lenzuolo”, cioè un uomo e una donna non devono stare a tu per tu se fra di loro non c’è vincolo matrimoniale).

E non si creda che queste fossero formule assolte solo in linea di principio, ché anzi trovavano nella messa in pratica una più espansa misura di responsabilità, quasi il preservo morale della donna non fosse di esclusivo interesse familiare, ma riguardasse l’intera collettività quale elemento connotativo della stessa. Nel comportamento del singolo, infatti, il paese veniva a riflettersi, e per così dire a saggiarsi, nel vigile timore che uno sgarro individuale si rivelasse azione corrosiva al buon nome della popolazione, dando motivo agli abitanti dei paesi vicini di forgiare etichette sarcastiche o addirittura offensive. Un danneggiamento morale che, nel caso specifico, avrebbe avuto delle spiacevoli conseguenze pratiche, rivelandosi bastone d’intralcio nell’accasamento delle ragazze cu strìi ti fore paése (con giovanotti residenti in altri paesi). Di qui la necessità per i capifamiglia di esonerare le donne da ogni incombenza che offrisse ragione di sortita, per cui non solo si privavano del loro aiuto nel vendere frutta e verdura al mercato o nel recapitare  la minéscia ti fogghe a ccasa a llu patrùnu (il fascio di verdure a casa del padrone), ma si accollavano tutti quelli che erano gli abituali – od occasionali – disbrighi esterni, quali fare la spesa, andare a chiamare il medico, passare dallo speziale o portare dal calzolaio le scarpe abbisognevoli di risolatura.

Una vera e propria estromissione femminile dalla vita pubblica, insomma; regolamentazione del resto ormai vecchia di secoli e perciò connaturata col sentire stesso delle donne, che spontaneamente ne rimarcavano i contorni: per recarsi in chiesa, alle veglie funebri, a visitare un ammalato o una puerpera, si industriavano a come compiere il tragitto percorrendo strade secondarie, scrupolosamente scantonando da quelle principali e soprattutto dalla piazza, che attraversavano solo se debitamente accompagnate dai rispettivi mariti. E malgrado le vie, per l’inesistenza del traffico, si offrissero ai loro passi come altrettanti campi aperti, non si azzardavano mai a camminarvi nel centro, bensì rasentavano il più possibile i muri, quasi prevalesse in loro l’inconscio desiderio di apparire fagocitate dall’ombra.

Nell’andare e tornare dalla campagna, infatti, a parte l’immancabile scorta dei loro uomini o – se si trattava d’ingaggio a gruppo – di un anziano remunerato a tal scopo dal padrone, erano abituate ad attraversare il paese nell’incerta luce delle albe e nell’ovattatura dei crepuscoli, per cui quella volta che si trovavano ad affrontarne le strade in pieno giorno soggiacevano  a un senso di verecondia, specie se si vedevano soppesate da occhi maschili. In tal caso, a scanso di equivoci, occorreva dichiarare la propria onestà, e come qualche anziana vedova in servizio presso una casa signorile, eccezionalmente trovandosi a comprare il pesce al mercato o la soda caustica nel negozio di alimentari, si premurava di precisare “Mi ttròu acquài pi ccumànnu patrunàle” (“Se mi trovo qui è solo per soddisfare al comando della padrona”), così la donna in transito per la strada, incrociando un gruppo di uomini o rasentando la bottega di un barbiere (la cui vocazione al pettegolezzo era a quel tempo virus categoriale), correva ai ripari atteggiando il viso a mestizia e sospirando come anima in pena: “Ah, nicissitàte ti la ita… lu jéntu azza quannu menu ti la spiétti!…” (“Ah, necessità della vita… il vento si leva quando meno te l’aspetti!… [Se mi trovo fuori casa, è per una sgradita  quanto inaspettata emergenza!]”). Naturalmente, compostezza voleva non si avesse mai a guardare in faccia gli uomini che s’incontravano, né tanto meno fermarsi a dar loro parola: al di là del soliloquio, fossero anche cugini, cognati o compari, non si doveva andare oltre i recisi saluti di “Bbona sciurnàta, bbon’éspira e bbonaséra” (“Buon giorno, buon vespro e buonasera”).

Come già detto, pantaloni e gonne non dovevano trovarsi a tu per tu, e l’importanza che si dava a questo assunto si può desumere dall’estremistica imposizione che donne e uomini subivano in chiesa, dove questi ultimi, privilegiati nell’occupare la navata centrale, venivano diffidati – spesso pubblicamente, dal pulpito – dal lanciare sguardi verso le navate laterali, zone che per essere più in ombra erano tassativamente riservate alle donne. (…)

 

Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994 (pagg. 347-349)

L’urgialuru

L’URGIALURU

di Armando Polito

Sarebbe (l’uso del condizionale si capirà dopo) un piccolo polpo di scoglio. Ignoravo la voce (che, peraltro, è assente nel vocabolario del Rohlfs) fino a che non l’ho letta nel pregevole saggio La cucina del Salento (Edizione “A.N.D.O.”, 1996, pag. 6) dell’amico Massimo Vaglio. Essa è irreperibile anche in Rete ma, siccome ho troppa stima di Massimo per credere che se la sia inventata, mi son chiesto quale ne potrebbe essere l’origine.

Il corrispondente (solo formale, non semantico) italiano potrebbe essere, anche per quanto si dirà, orzaiolo, che è dal latino tardo hordèolu(m), derivato di hòrdeum =orzo, per la forma simile a un chicco d’orzo, forse con influsso del latino, sempre tardo, varìola =vaiuolo, a sua volta derivato di vàrius=vario, chiazzato. Ma cosa hanno a che fare orzo e orzaiolo con il nostro polpetto?

Nella commedia Càsina di Tito Maccio Plauto (3°-2° secolo a. C.) l’autore al verso 493 fa dire al vecchio Lisidamo:

– Èmito sepìolas, lòpadas, loligùnculas, hordèias…-

Comprerai seppioline, patelle, calamaretti, orzaioli (traduco così provvisoriamente hordeìas).

E immediatamente nel verso successivo il servo Chalino ribatte:

-Immo triticèias, si sapis-

Anzi granaioli (traduco così provvisoriamente triticèias), se sai il fatto tuo

La traduzione provvisoria di hordèias è dovuta al fatto che per questa voce il Castiglioni-Mariotti dà la definizione  generica di un pesce o  mollusco, il Calonghi di specie di mollusco, il cui nome richiama hòrdeum. Ma sono stato costretto a tradurre orzaioli per mantenere il gioco di parole insito nel successivo triticèias (forma aggettivale da trìticum=grano) che ho dovuto rendere con granaioli.

Hòrdeum, l’avevamo visto, significa orzo, trìticum, l’ho appena detto, grano: è evidentissima nella battuta del servo la contrapposizione tra i due cereali di diverso pregio; solo che la voce designante il cereale meno pregiato (l’hòrdeum), aveva certamente il suo derivato in hordèia (che inequivocabilmente è una specie marina, dal momento che si accompagna ad altre: sepìolas, lòpadas e loligùnculas); quello più pregiato (il trìticum) aveva il suo derivato in triticèia che nella lingua comune era un aggettivo indicante ciò che si riferiva al grano, ma non una specie marina, che qui fantomaticamente viene evocata solo per dar vita ad uno dei giochi di parole così frequenti in Plauto. Insomma hordèia indicherebbe una specie marina somigliante a chicchi di orzo: se è così non è azzardato supporre che figlio del plautino hordèia sia urgialùru che denoterebbe, così, un suffisso –alùru corrispondente all’italiano –aròlo, [variante di –aiòlo, composto da –aio, dal latino –àriu(m) e –olo, dal latino –èolu(m)], con passaggio –o->-u– (*-arùlo) e metatesi –rul->-lur-. Tutto ciò sarebbe confermato dal fatto che il vocabolario del Rohlfs, pur non registrando, come ho detto all’inizio, la voce neritina, riporta però la parallela orgialùru attestata per Aradeo, Melpignano e Ruffano solo col significato di orzaiolo.

Cosimo De Giorgi, famoso geografo leccese, medico e filantropo

di Luigi Cataldi

 

Cosimo De Giorgi nasce a Lizzanello, presso Lecce, il 9 febbraio 1842, ed ottiene il diploma in Belle Lettere e Filosofia nel 1858, presso il Liceo-Convitto dei Gesuiti di Lecce. Conseguita, presso la scuola Medica di Lecce, l’ammissione al II grado di medicina nel 1861, nel novembre dello stesso anno si trasferisce a Pisa, dove, nel 1864. si laurea in Medicina. Due anni dopo consegue anche la laurea in Chirurgia, a Firenze.

Nel 1867 rinuncia, suo malgrado, a recarsi all’estero per frequentare una scuola di specializzazione, dovendo rientrare al paese natio per curare i familiari affetti nel corso di un’epidemia di colera. Si dedica con successo alla professione medica, che esercita dedicandosi contemporaneamente a studi di geologia, e all’insegnamento delle scienze naturali. Lasciato definitivamente l’esercizio della medicina nel 1889, forse a seguito della morte della madre e del senso di colpa derivatogli per non esser riuscito a salvarla, si dedicò interamente ad attività sociali tra le quali il Comizio agrario, la Commissione Conservatrice dei Monumenti, il Consiglio Sanitario, la Delegazione Scolastica.

In particolare De Giorgi si dedicò allo studio dell’ambiente salentino sotto vari aspetti, dalla meteorologia alla sismologia, dalla geologia alla paleontologia, dall’archeologia alla storia, dall’agricoltura all’igiene. Dopo una raccolta sistematica delle osservazioni meteorologiche a Lecce (1869-1873), nel 1874 fondò l’Osservatorio Meteorologico, dirigendolo ininterrottamente fino quasi alla sua morte.

Realizzò anche la Rete Termopluviometrica Salentina, che portò la Provincia di Lecce ad una invidiabile collocazione ai primi posti in Italia in ambito meteorologico.

De Giorgi guadagnò in tal modo un ruolo di prestigio nella comunità scientifica nazionale, che apprezzò ampiamente le sue doti accogliendolo consensualmente tra le personalità scientifiche di maggior rilievo. Egli partecipò ai congressi della Società Meteorologica Italiana, svolgendo relazioni su vari temi.

Ottenne nel 1880 la nomina a cavaliere del Regno d’Italia. Nel 1897 fu nominato socio corrispondente della Pontificia Accademia dei Nuovi Lincei e ai primi anni del ‘900, grazie alla passione per l’Archeologia proprio in quegli anni (1900-1906) riuscì a portare alla luce l’Anfiteatro Romano esistente nel cuore della città di Lecce, permettendo al Salento di acquisire una posizione di grande prestigio culturale.

Prenderemo ora in considerazione alcuni aspetti che fecero meritare a De Giorgi ottima fama anche in campo medico, nell’Igiene e nella prevenzione. Rileviamo questi dati preziosi dalla corposa corrispondenza che il De Giorgi tenne con centinaia di Personalità, Istituzioni, Colleghi e Amici.

Accenneremo solo ad alcune problematiche che potremmo inserire nel grande tema della medicina popolare.

Quando il paziente chiede al medici, con insistenza, la prescrizione di un farmaco di cui ha visto o sentito dire qualcosa, magari su “Internet”… Evento assai frequente anche sulla base della nostra esperienza recente. E il medico dovrebbe rispondere: “stia molto attento signore, che sul web c’è anche molta spazzatura ed abbiamo anche noi difficoltà a discernere il buono dal cattivo”. Che sarebbe una maniera elegante per non dire: “si faccia curare da Internet…”.

In una delle sue lettere, indirizzata il 2 maggio 1868 all’amico e collega Guidi Mugnaini, da Nugola (LI), suo compagno di studi, De Giorgi lamenta la richiesta di continui salassi da parte dei suoi assistiti ippocraticamente convinti che il salasso liberi il corpo dai “cattivi umori”.
Poche settimane dopo scrive allo stesso amico lamentando i pregiudizi dei suoi pazienti su streghe, stregoni, diavoli, sulla credulità e superstizione relative ai riti magici, al malocchio e ai vari rimedi popolari per liberare se stessi o i propri bambini.
Quando i bambini piangevano, lamentandosi senza un motivo apparente, veniva consultata un’anziana esperta che controllava se avessero il malocchio (l’affascinu). L’affascino poteva essere procurato ai neonati dallo sguardo invidioso di donne che non potevano avere figli, o da chi, in ogni modo per invidia, facesse apprezzamenti. Per liberare un soggetto dal malocchio si ungeva l’indice con l’olio e lo si faceva gocciolare nel piatto poggiato sulla testa del “fascinatu”; l’operazione veniva ripetuta per tre volte recitando l’Ave Maria.

Un altro rito magico molto diffuso era quello di “tagliare i vermi” ai bambini che soffrivano mal di pancia. Veniva chiamata una donna esperta, che nel vicinato non mancava mai, e che interveniva con una tecnica e una formula segreta che le era stata tramandata: per tre volte faceva il segno della croce sulla pancia del bambino con le mani unte di olio e, massaggiando la pancia, recitava preghiere misteriose.

In una lettera del 30 giugno 1868, il De Giorgi, addoloratissimo, comunica all’amico il caso di un adolescente con un grave trauma a un arto, morto per una complicanza infettiva da tetano, contratto perché i genitori avevano rifiutato di far amputare l’arto traumatizzato… Il ragazzo era morto e De Giorgi era stato incolpato, se non aggredito, dai parenti.In una lettera del 16 luglio dello stesso anno De Giorgi informa l’amico che nel Salento una medichessa tratta le infiammazioni oculari passando la lingua, ben insalivata, sull’occhio malato, ma dopo aver masticato a lungo delle foglie di ruta.

Contro l’eresipela, invece, come egli riferisce, esistevano numerose possibilità terapeutiche popolari, dalla zucca gialla alle foglie di sambuco, dalle monete o medaglie d’argento alle feci umane…

In conclusione anche se sono trascorsi quasi 150 anni dai tempi in cui Cosimo De Giorgi viveva sulla propria pelle i drammi dell’ignoranza della popolazione, ancora oggi tutti i medici e forse i pediatri in misura più rilevante, subiscono aggressioni culturali, psicologiche, legali, e non di rado anche fisiche a causa della diffusa ignoranza popolare, e perché no, anche della malafede di personaggi di indefinibile moralità.

Bibliografia

Caiuli A. (a cura di), Bibliografia di Cosimo De Giorgi, Congedo Editore, Galatina 2002

Cataldi L., Gregorio M.G., Errori di ieri… , “Atti del 10° Congresso Internazionale del GSNNP”, Aversa 24-26 nov 2006

Cataldi L., Errori di oggi… Atti del 10° Congresso Internazionale del GSNNP Aversa 24-26 nov 2006

Jastrow J. (a cura di) – Storia dell’errore umano. Milano, Mondadori, 1941

Joubert L., La prima parte de gli errori popolari dell’eccellentiss. sign. Lorenzo Gioberti filosofo, et medico, lettore nello studio di Mompellieri. Nella quale si contiene l’eccellenza della medicina, e de’ medici, della concettione, e generatione; della grauidezza, del parto, e delle donne di parto; e del latte, e del nutrire i bambini. Tradotta di franzese in lingua toscana dal mag. m. Alberto Luchi da Colle. Con due tauole, vna de’ capitoli, e l’altra delle cose notabili. Nuouamente data in luce. In Fiorenza, per Filippo Giunti, 1592 

Mercuri S., Degli errori popolari d’Italia, In Venetia, appresso Gio. Battista Ciotti Senese, 1603

Ruge R. Muhlens P, Schwalbe J. Errori diagnostici e terapeutici e criteri per evitarli: pediatria, Milano Vallardi, 1927  

* Il presente contributo è stato presentato il 20 febbraio 2010 al 6° CORSO  “NOVITA’  NELLA  STORIA DELLA PEDIATRIA” del GRUPPO DI STUDIO DI STORIA DELLA PEDIATRIA della SOCIETA’  ITALIANA  DI  PEDIATRIA autori, Angela Paladini e Luigi Cataldi.

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