Una piccola parentesi distensiva

 

il mio giardino con la luna (ph R. Boccadamo)

di Rocco Boccadamo

Con la motivazione, invero reale, di dover assistere ad alcuni interventi di riordino nel giardino attiguo alla casetta delle vacanze, mi sono concesso una breve pausa, appena quarantotto ore, evadendo così dalle quotidiane abitudini personali fra le pareti domestiche e allontanandomi, in abbinata, dai frastuoni, dalle chiacchiere noiose, dalle beghe, il più delle volte senza senso, che caratterizzano la vita e la cronaca cittadina.

Dall’esperienza, grazie anche alle eccellenti condizioni atmosferiche, ho potuto trarre profondo apprezzamento, rendendomi soprattutto conto – credetemi, ogni tanto c’è proprio bisogno di una riflessione del genere – come, in fondo, sono sufficienti limitate e semplici scansioni ed azioni, durante il giro dell’orologio esistenziale, per riuscire a sentirsi appagati dentro. Invece, di quanti inutili e superflui fronzoli siamo soliti, ahinoi, circondarci, ormai senza neppure accorgercene, durante le nostre comuni giornate!

Come più immediato effetto della “fuga”, confesso di essermi trovato a lungo, con soddisfazione, ad ascoltare il silenzio, la melodia della mancanza assoluta di rumori all’intorno, tranne solo l’andirivieni a volume bassissimo dei miei respiri e lo scivolamento dei miei pensieri.

Mi è sembrato quasi una magia il poter cogliere distintamente – sotto il palmo della mano adagiato sul petto, esercizio non consueto – il tum tum ritmato del cuore; distinguere oltre la finestra, a guisa di note sottili ma non meno armoniose, il fruscio delle foglie argentee degli ulivi e, in un più distante sottofondo, lo sciabordio delle onde leggere sugli scogli bruni per via dell’usura millenaria. L’effetto è stato di ritornare, d’incanto, in un’atmosfera di quiete con me stesso, di avvertire una sensazione oltre qualsiasi gioco emotivo.

Il provvisorio isolamento, o lieve esilio, mi ha infine dato modo di scorgere ancora una volta, partecipando alla messa festiva, la dolce e giovane figura di R., ragazza non vedente sin dalla nascita e perciò burocraticamente definita “persona diversamente abile”. Nel caso specifico, la codifica è impropria e non corrispondente affatto alla realtà, giacché R. non è aiutata, è vero, dalle pupille, ma ha la capacità di sopperire a ciò con le sue spiccatissime doti interiori di sensibilità, discernimento, autodeterminazione e forza di volontà, riuscendo, alla fine, addirittura meglio di noi “normali”: legge benissimo, lavora al computer, durante la stagione estiva, nella bellissima località di villeggiatura dove abita, presta inoltre attività sotto forma d’informazioni e accoglienza ai turisti.

Anche il rinnovato impatto con R. mi ha dato molto appagamento in questi giorni di autonoma abdicazione al tran tran  delle abitudini.

Invarianze tarantine. Fenomenologia di una città rossoblù

Taranto, il porto mercantile visto dalla rotonda sul Lungomare (ph Francesco Lacarbonara)

di Daniele Chiffi

Alcune categorie storiche e socio-antropologiche a cui si ricorre per comprendere una determinata cultura fanno riferimento sovente a concetti vaghi come “mentalità”, “visione del mondo”, “prassi sociale”. Tali concetti sono difficilmente sostenibili da un punto di vista metodologico. Inoltre, è consuetudine quasi del tutto italiana assumere che una disanima storica della genesi di una determinata cultura sia l’unico lavoro di scandaglio critico applicabile per un’analisi culturale. La mia prospettiva, al contrario, è volta a mostrare alcuni aspetti invarianti che si manifestano con modalità individuali differenti, ma che sono accomunate da un medesimo humus culturale e sociale. Ovvero, la mia proposta è quella di presentare alcuni tratti salienti che permettono di indicare una ricostruzione razionale di alcune linee di pensiero invarianti riferite a singole comunità locali. Come esempio di comunità locale mi concentrerò sulla città di Taranto (che è la mia città natale) e le sue zone limitrofe. Cercherò di evitare quella saccente, vuotamente erudita e fastidiosa retorica di autoesaltazione da parte di molti studiosi della propria realtà locale.

La prima invarianza tarantina è di tipo essenzialmente linguistico. Ė ben noto che la parte orientale della provincia jonica ha forti influenze linguistiche salentine, mentre la parte nord e quella occidentale mostrano notevoli somiglianze linguistiche con i dialetti lucani e della provincia di Bari. Ciò comporta che esista un basso senso di appartenenza al capoluogo jonico da parte dei paesi della provincia, cosa che non avviene, ad esempio, per i comuni salentini con Lecce città.

La seconda invarianza è di sicuro determinata da alcuni aspetti legati alla cucina, oltre che dalla ritualità domenicale di taluni piatti, come le carni al sugo servite dopo la pasta. Parimenti, anche il consumo di talune bevande alcoliche sembrano essere un segno distintivo del senso di appartenenza tarantino come nel caso della birra Raffo, vero simbolo della ‘tarantinità’.

Un’ulteriore invarianza è determinata dall’amore per il mare. Taranto è bagnata da due mari, detti “Mar Grande” e “Mar Piccolo”. Quest’ultimo è molto famoso per le attività legate alla mitilicoltura, che hanno reso famosa Taranto con la sua “cozza” omonima. Il mare jonico, inoltre, ci ricorda delle imponenti strutture della Marina Militare Italiana, del ruolo strategico di Taranto nel Mediterraneo e del suo porto militare e mercantile.

Ad ogni modo, il vero aspetto invariante dell’essere tarantino è quello della “rassegnazione”. Taranto negli anni recenti ha dovuto subire un dissesto finanziario di dimensioni spropositate dovute a un ex-sindaco (al secolo Rossana Di Bello) che ha portato le finanze comunali allo sfascio a causa di una fortissima corruzione e a seguito di una gestione fallimentare e disonesta della cosa pubblica. La rassegnazione si evidenzia ancora nelle quotidiane morti per cancro nella città di Taranto, dove ha sede uno degli impianti siderurgici più imponenti d’Europa, appartenente al gruppo Ilva. In ogni famiglia tarantina c’è un parente o conoscente morto di cancro. La rossa polvere sui guardrail della zona industriale è il vero simbolo della rassegnazione tarantina.

Quale via d’uscita per tale rassegnazione? Di sicuro un più alto livello di onestà intellettuale dei governanti, una riconversione delle attività produttive e la creazione di reti culturali e di legalità potranno, per lo meno, lenire la rassegnazione di una città – i cui colori calcistici sono il rosso e il blu – che continua a vivere tra il blu del mare e il rosso ferrigno delle polveri del suo centro siderurgico.

Riflessioni filologiche su un toponimo neritino. La Cucchiara.


di Armando Polito

Fino ad una ventina di anni fa era solo il toponimo di un territorio non molto esteso in agro di Nardò, sulla litoranea Santa-Caterina-S. Isidoro. Come è successo per Massarei (italianizzato in Masserei; vi abito io ed è doveroso che a questo toponimo prima o poi dedichi la mia attenzione: il lettore lo consideri pure come una minaccia…) è diventato, in seguito ad una prorompente antropizzazione di un territorio all’origine destinato all’agricoltura e (laddove c’erano pochi fabbricati in ordine sparso) alla villeggiatura, prima una contrada, poi pure una strada. Strada Cucchiara-S. Caterina leggo, infatti,  sull’elenco telefonico, ma sobbalzo quando lo stesso indirizzo lo leggo corredato del civico 1 accanto al numero telefonico di mio cognato Vincenzo, titolare, insieme col fratello Giuseppe, della masseria Bellimento. Il cognome non lo cito perché non mi si accusi di fare pubblicità più o meno occulta…ma qualche dato l’ho dovuto dare per chi avesse voglia di fare i dovuti riscontri. La masseria che ho nominato è molto più vicina a S. Isidoro che alla Cucchiara e mi pare pure strano che corrisponda al civico 1, dal momento che logica vorrebbe che la numerazione cominciasse dal punto più vicino al luogo che poi ha dato il nome all’intera strada, anche perché tra Bellimento e la Cucchiara i toponimi legittimati a dare il loro nome al tratto stradale di competenza sarebbero più di uno (‘Nsirràgghia, Rinàru, per limitarmi ai toponimi costieri). Mistero recente, come antico è quello che mi accingo ad affrontare.

Cominciamo, come sempre, dalle fonti.

La più antica testimonianza a me nota del toponimo risale al 1428 [Michela Pastore, Le pergamene della Curia e del Capitolo di Nardò, Centro di studi salentini, Lecce, 1964, pg. 75: Item in eodem feudo in loco nominato de Cuchara ortos terrarum quinque iuxta terras Nicolai […]ti iuxta terras [domini] Johannis Grande et viam puplicam (Parimenti nello stesso feudo (1) in località chiamata Cucchiara cinque orti di terra confinanti con le terre di Nicola […]to, con le terre di [don] Giovanni Grande e la via pubblica).

La testimonianza successiva è del 1500 [Centonze-De Lorenzis-Caputo, Visite pastorali in diocesi di Nardò (1452-1501), Congedo editore, Galatina, 1988, pgg. 207-208: Item in loco de Chuchiara maxaria una cum curti, case et cisterne et chesure de herbagio chiuse de pariti, cum terre culte et inculte, cum ceti arbori de fiche et altri menbri sui, servitutis decime monasterio Sancte Clare, iuxta la maxaria de Cola de Fanto de Nerito, iuxta la maxaria de li heredi de Gabrieli de Montefuscolo, iuxta litus maris et iuxta li terreni del monte de la dicta abbatia; in la quale maxaria ce è una cisterna tunda nominata la cisterna de mastro Barnabo. Item in eodem loco de Cuchiara peczo uno de terra de orte trenta macclosa, iuxta litus maris et iuxta le terre petruse de la dicta maxaria et altri confini. (Parimenti in località Cucchiara una  masseria con corte, case  e cisterne e pascoli recintati con muri, con terre coltivate e incolte, con certi alberi di fico ed altre sue parti, soggetta a decima in favore del monastero di Santa Chiara, confinante con la masseria di Nicola Fanto di Nardò, con quella  degli  eredi  di  Gabriele  Montefuscolo, con la costa e i terreni del monte   della   detta  abbazia; in  questa   masseria  c’è   una   cisterna  tonda chiamata la cisterna di Mastro Barnabo. Parimenti nella medesima località Cucchiara un appezzamento di terra macchiosa di trenta orti, confinante con la costa e con le terre pietrose della detta masseria e con altri confini.)].

 

I toponimi rurali sono legati di solito ad una caratteristica del territorio (può essere un dettaglio fisico, una specie vegetale particolarmente diffusa) o al nome di un proprietario.2

 

La variante più antica, come abbiamo visto, è Cuchara, quella un pò più recente Cuchiara. E proprio quest’ultima forma è la più diffusa, quasi unica3, negli autori del XVI secolo (ne riporto, per brevità, solo alcuni4).

La variante più antica cuchara e il fatto che ancora oggi in spagnolo cucchiaio si dice così mi autorizzano a pensare che, una volta tanto, la denominazione attuale sia correttamente corrispondente all’antica, non abbia, cioé, subito pesanti storpiature.

Cucchiaia nasce ufficialmente in italiano nel 15505 ma sicuramente la variante centro-meridionale cucchiara è più antica, in quanto conserva l’originario suffisso latino –ària che in italiano darà –aia; cucchiaia, d’altra parte, deriva a sua volta da cucchiaio che nasce prima del 1388 e sicuramente anteriore a tale data sarà, per via, come nel caso precedente, della presenza del suffisso originario latino –àrio, la variante centro-meridionale cucchiàro.

Cucchiaro è dal latino cochleàriu(m)=lumacheto (in Varrone), cucchiaio usato per mangiare le chiocciole (in Plinio), da còchlea=chiocciola.

Oggi cucchiara designa la cazzuola del muratore, ma i rinascimentali cuchiara e chuchiaria mostrano chiaramente che di cucchiaio si trattava.

Perché denominare così quel territorio? Se Cuchara non è il nome di un proprietario spagnolo o locale6, bisogna pensare ad altro.

E a questo punto mi vengono in mente due congetture, legate ai due significati precedentemente visti per cochleàrium, che potrebbero trovare un qualche riscontro, rispettivamente, attraverso un’indagine geologica e una aereofotogrammetrica.

La prima è che il nome contenga un’allusione all’abbondanza di chiocciole  più o meno commestibili (e in 500 anni potrebbero pure essersi estinte…) o a formazioni fossili particolarmente diffuse (indagine geologica).

La seconda è che il nome si riferisca alla conformazione fisica di superficie del territorio, simile ad un cucchiaio (indagine aereofotogrammetrica). In questo caso Cucchiàra corrisponderebbe semanticamente al Cupa [dal latino cupa(m)=botte, da cui l’italiano coppa e lo spagnolo copa=calice, tamburo del cappello], componente di parecchi toponimi in varie regioni (in Salento la Valle della Cupa) ad indicare territori posti in una depressione.

Il mistero non è stato risolto? E io chi sono, Mandrake? E non sarebbe meglio, intanto, correggere l’incongruenza moderna relativa alla numerazione, prima che fra qualche decennio diventi anch’essa mistero che si aggiunge, colpevolmente, a mistero?

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1 È il feudo di Donna Agnese,  nominato nella parte precedente, qui non riportata, del documento.

2 Prediali (da praedium=podere, fondo) sono detti quei toponimi (per lo più terminanti in –ano) che si suppone si riferiscano al nome di colui che in epoca romana ne entrò in possesso in seguito a centuriazione (durante la fondazione di una colonia, suddivisione in centurie e distribuzione del terreno pubblico ai cittadini).

3 Unica eccezione a me nota è chuchiaria, che si legge in un inventario di epoca rinascimentale(Atti della Pontificia Accademia romana di archeologia: Rendiconti, Tip. poliglotta vaticana, 1927, pag. 181): Una chuchiaria di plasma in una schatola…; il plasma è una varietà di calcedonio di colore verde scuro per la presenza di inclusioni di vari silicati, come clorite o anfiboli, anticamente usata per intagli.

4 Leonardo Fioravanti, Il tesoro della vita humana (cito dall’edizione Brigna, Venezia, 1673, pag. 419: “poi che scaldi del magno liquore dentro una cuchiara…”; Giambattista Della Porta, De i miracoli et maravigliosi effetti dalla natura prodotti (cito dall’edizione Avanzi, Venezia, 150,  pag. 135: “Pigliano una cuchiara di ferro grande…”; Olaus Magnus, Historia delle genti et della natura delle cose settentrionali (cito dall’edizione Giunti, Venezia, 1565, pag. 159: “…overo con una cuchiara forata…” ; Cristoforo di Messisbugo, Banchetti, compositioni di vivande et apparecchio generale (cito dall’edizione Buglhat-Hucher, Ferrara, 1549, pag. 24: “…e con la cuchiara li andarai ponendo…”.

5 La data di nascita di una parola è un’indicazione introdotta relativamente da poco nei comuni vocabolari; il lettore comprenderà come sia un dato estremamente provvisorio, dal momento che la scoperta di nuovi documenti può comportare una retrodatazione. Le date di nascita per cucchiaia e per cucchiaio le ho tratte dal Dizionario del De Mauro e, siccome l’edizione in mio possesso risale a circa dieci anni fa, la retrodatazione di cui ho appena parlato potrebbe essere già avvenuta.

6 In una pergamena contenente un atto redatto il 31 dicembre del 1427 [Angela Frascadore, Le pergamene del monastero di Santa Chiara di Nardò (1292-1508), Società di storia patria per la Puglia, Bari, 1981, pag. 86] leggo: “Iacobus Pignata et Nicolaus Cucchiara de Galatone”.  Pare di essere in presenza di due personaggi di una commedia di Plauto e sorprende anche che sia stato scelto proprio l’ultimo dell’anno per la stesura.  È un esempio, a prescindere dall’eventuale legame di Nicola Cucchiara col nostro toponimo, di come la realtà superi spesso la più accesa fantasia. Peccato che l’atto non fornisca dettagli che autorizzino ad un adattamento siffatto del noto proverbio: li cuai ti lu Pignata li sape lu Cucchiara.

Un libro su Sogliano Cavour

di Paolo Vincenti

E’ stato pubblicato “ Sogliano Cavour: tra Medioevo ed Età moderna”, a cura del Centro Regionale Servizi educativi e culturali della Regione Puglia (Crsec), distretto di Galatina, in collaborazione con il Comune di Sogliano Cavour. Il volume vede la partecipazione di alcuni importanti studiosi, fra i quali Don Giuseppe Palamà, compianto parroco di Sogliano, scomparso qualche mese fa (Ricordo di Don Giuseppe Palamà sul Tacco n°13 -Marzo).

“L’obbiettivo dell’opera”, dice la dott.ssa Maria Francesca Natolo, direttrice del Crsec di Galatina, “è quello di ricostruire in maniera precisa e dettagliata la storia sacra e civile di Sogliano Cavour, avvalendosi della collaborazione di esperti e studiosi di storia patria”. Ecco allora che Luigi Manni si occupa della storia antica di Sogliano nel suo saggio: “Sogliano: un po’ di storia, le chiese, il centro antico, le famiglie”. Il II capitolo è a cura di Antonio

Guerra tra Bernabò Sanseverino e Raimondello Orsini del Balzo

BERNABO’ SANSEVERINO, DA CAPITANO DI GUERRA A SIGNORE DI NARDO’ (1384-1400)

IV ed ultima parte

di Roberto Filograna

 

Guerra tra Bernabò Sanseverino e Raimondello Orsini del Balzo

 Nel mentre Bernabò Sanseverino governava Nardò, re Ladislao, per portare dalla sua parte il conte di Lecce Raimondello Orsini del Balzo, prima gli promise (1398) e poi, una volta venuto meno Ottone di Brunswick, gli concesse, l’8 maggio 1399, il principato di Taranto con alcune importanti città pugliesi tra cui Nardò. Tutto ciò  pose a Bernabò Sanseverino il problema di dover certamente fronteggiare l’aspirazione dell’Orsini di recuperare il feudo di Nardò al suo dominio ivi compreso un suo prevedibile ricorso alle armi, per realizzare tale progetto.

Per tale motivo, Bernabò Sanseverino, da abile stratega e da ottimo capitano di guerra, anticipando le mosse dell’Orsini, prima che avesse il tempo di organizzare le proprie milizie, iniziò manovre militari contro di lui e il 28 agosto del 1399 …gens armigera Domini Bernabonis de S. Severino caepit guerram movere in comitissu et terris Principis. Colto di sorpresa e messo in difficoltà, Raimondello Orsini del Balzo, chiese l’aiuto del marchese di Crotone che venit …in ausilio Principis cum equitibus 500, contra Dominum Bernabonum in terra Hydrunti. Seguì, in settimana Sanctae Catharinae (e cioè, nell’ultima settimana di novembre) …magnum proelium inter eos.

La  battaglia non risolse le sorti della guerra tra Bernabò Sanseverino e Raimondello Orsini del Balzo, anzi, le belligeranze continuarono e si protrassero nell’anno successivo, sino allo scontro campale che si registrò in Sancto Petro ad Galatinum dove fuit factum inter eos magnum proelium

La Puglia parla alla Padania con un suo dialetto

Lingua e dialetto

 di Armando Polito

Non è trascorso nemmeno un anno dalla richiesta avanzata dalla Lega che i professori fossero sottoposti ad un test per dimostrare la “conoscenza della storia, delle tradizioni e del dialetto della regione in cui intendono insegnare”. A suo tempo trovai scandalosa la proposta e perché faceva passare in secondo piano il titolo di studio “spesso comprato” e per il suo taglio inequivocabilmente razzista, ma ancor più scandaloso il quasi silenzio da parte della scuola e quello pressoché totale degli intellettuali autolegittimatisi a parlare di problemi scolastici senza aver messo mai piede in un’aula, neppure vuota.

So che è da ignoranti, anzi da idioti, parlare della superiorità di una cultura su un’altra1 e, perciò, di una lingua sull’altra, dal momento che proprio la lingua è il principale strumento di espressione e trasmissione di una cultura.

Queste poche note sono dedicate (si fa per dire) a chi crede teoricamente (teoria ineccepibile) che ogni cultura è di per sé nobile e degna di essere protetta, conosciuta e valorizzata, ma in pratica ritiene che solo la cultura del suo territorio è degna di rispetto e da proteggere, anche con le maniere forti, da ogni contaminazione (nell’era della globalizzazione!). Qui è la Puglia che parla alla Padania con un suo dialetto (il neritino)2 e mette in campo, tra i tanti,  Greci e Latini nel suo confronto con la lingua nazionale, senza gonfiare i muscoli, in attesa dell’arrivo dei Celti…

Se ne sconsiglia, tuttavia, la lettura a Bossi padre e a Bossi figlio non perché non siano all’altezza per capire, ma solo perché sarebbero distratti dalla loro azione di governo, di cui tutto il paese non può permettersi il lusso di fare a meno.

àstricu= lastrico; dal latino medioevale àstracu(m)=terrazzo fatto con cocci, che è dal greco ta òstraka=i cocci, con indebolimento della vocale postonica (-a->-i-). L’italiano lastrico rivela l’influsso di lastra o l’ erronea agglutinazione dell’articolo (l’astrico>lastrico>il lastrico).

bàsciu= fune che legava il giogo al collo dei buoi; dal greco pàghion=fermo, stabile, aggettivo neutro sostantivato da paghe, da pègniumi=fissare.   In italiano rimane come confisso tecnico-specialistico nella sola voce craniopago= feto malformato bigemino in cui i feti sono uniti tra loro a livello del cranio

càulu=cavolo; dal latino tardo càulu(m), dal classico càulis.  L’italiano cavolo presenta epentesi di –v-.

ddha 1=quella; dal latino illa(m), con aferesi di –i– e consueto passaggio –ll->-ddh-.  L’italiano quella, invece, è da  *(ec)cum illa(m)=ecco quella. Stessi fenomeni in ddhu=quello [da ill(u)m]/quello [da *(ec)cum illu(m)] e in ddhi=quelli; quelle  (la voce, che è plurale del maschile ddhu, vale pure per il plurale del femminile ddha, costituendo un esempio, questa volta dialettale, del maschilismo presente, com’era naturale (per motivi storici e culturali), anche nella lingua (infatti, per il femminile, da un singolare ddha 1, ci saremmo aspettati un plurale ddhe, presente in altri territori del Salento, ma non a Nardò).

ddha 2 là, dal latino  latino illac, con aferesi di i-, consueto passaggio –ll->ddh– e caduta della consonante finale. L’italiano presenta invece, oltre alla caduta della consonante finale, l’aferesi di il-.

facce=faccia; dal latino fàcie(m)=aspetto. La voce italiana faccia suppone un latino volgare *fàcia(m).

iddhu=lui; da un latino *ìllui (classico illi) dativo singolare maschile di ille=egli, rifatto sul modello di cui. L’italiano lui è per apocope da *ìllui.

issìre uscire; dal latino exìre, composto da ex=fuori e ire=andare. L’italiano uscire presenta la  sovrapposizione di uscio [dal latino tardo ùstiu(m), dal classico òstium=entrata, da os=bocca].

letu sporco. il corrispondente italiano è laido, dal francese antico laid=sgradevole, dal francone *laid. Etimologia: direttamente dalla pronuncia della voce francese (led), con passaggio –d->-t– e regolarizzazione della desinenza.

mattra mobile di legno, generalmente a forma di cassone rettangolare, usato tradizionalmente in campagna per impastare il pane, conservare farina, lievito e altri generi alimentari; direttamente dal greco mactra=madia, da masso=impastare.  Il corrispondente italiano è madia, dal latino màgida(m)=specie di grande piatto, dal greco maghìda, accusativo singolare di maghìs=focaccia, recipiente usato per impastare, dal citato masso.

‘ngegna congegno per attingere l’acqua dal pozzo; dal latino ingènia (plurale collettivo di ingènium)=, ingèniu(m)=indole, ingegno, trovata ingegnosa, composto da in=dentro e gènere, forma arcaica di gìgnere=nascere. In italiano la voce formalmente corrispondente è ingegno (in neritino ‘ngegnu), ma il termine semanticamente più vicino al neritino ‘ngegna sarebbe congegno. La ‘Ngegna era un toponimo che designava una località fuori dalle mura, caratterizzata, evidentemente, dall’esistenza di uno o più pozzi.

pòlice pulce; dal latino pùlice(m); l’italiano pulce presenta sincope di –i-.

quatàra caldaia; dal latino calidària(m)=che scalda, da càlidus=caldo, da calère=essere caldo; derivati (indicano recipienti progressivamente più piccoli): quataròttu e quataruttièddhu. Corrispondente italiano: caldaia.

rispicàre andare in cerca di ciò che rimane dopo il raccolto principale; da un latino *respiculàre, dal classico re– (prefisso che indica ripetizione) e *spiculàre, da spìculu(m)=punta, diminutivo di spicu(m) o spica(m)=spiga.  L’italiano spigolare ha fatto a meno del prefisso re-.

sanitàte salute; dal latino sanitàte(m), da sanus=sano. Il corrispondente italiano è il letterario sanitàte, da cui, per apocope, sanità.

tùminu misura di capacità e di superficie; dall’arabo tumn=un ottavo, con epentesi di –i– per motivi di pronuncia e con regolarizzazione della desinenza.  Il corrispondente italiano è tomolo. Come misura di superficie era pari a circa 6300 mq.; un tomolo era formato da 8 stuppièddhi (lo stuppièddhu era pari, come misura di liquidi,  a circa sette litri e di superficie a circa 9 are) ed era anche una misura per derrate come olive e mandorle e corrispondeva alla capacità di un apposito contenitore. Le due misure avevano nomi uguali perchè per seminare un tomolo di terra serviva all’incirca un tomolo di grano.

ulutàre rivoltare; dal latino volutàre=voltolare, iterativo di vòlvere=far girare, con aferesi di v-.3 L’italiano voltare presenta sincope di –u-. Sorprende che uno studioso del calibro del Rohlfs faccia derivare la voce neritina dal latino volitàre=svolazzare, intensivo di volàre.

Abbiamo notato attraverso i pochi esempi proposti come il neritino, rispetto alla lingua nazionale,  non sia incorso in un errore (àstricu/lastrico), abbia conservato l’autonomia della voce di origine che, invece, in italiano ha dato vita solo a dei composti (bàsciu/craniopago), abbia conservato tal quale la forma originaria, cui l’italiano, invece, ha aggiunto un fonema (càulu/cavolo) o l’ha sottratto (pòlice/pulce, ulutàre, voltare), abbia sottoposto la voce originale a delle modifiche comunque meno invasive di quelle presenti in italiano (ddha 1/quella e ddha 2/), abbia conservato traccia della declinazione di origine laddove l’italiano ha proceduto ad una regolarizzazione della desinenza (facce/faccia), abbia evitato la sovrapposizione con altra radice in cui è incorso l’italiano (issìre/uscire), abbia adottato una parola straniera trascrivendone la pronuncia e non la grafia (letu/laido) o, comunque, una forma più fedele rispetto all’italiano (tùminu/tomolo), abbia conservato la voce greca laddove l’italiano ha utilizzato il più recente intermediario latino (mattra), abbia sfruttato tutte le possibilità formali e semantiche offerte dalla declinazione dell’originario latino mentre l’italiano è dovuto ricorrere all’aggiunta di un prefisso (‘ngegnu, ‘ngegna/ingegno, congegno), abbia conservato il vocalismo originario (omu/uomo), abbia sviluppato rispetto all’italiano più derivati (quatàra, quataròttu, quataruttièddhu/caldaia, calderotto), abbia utilizzato un prefisso che meglio esprime il significato del lemma (rispicàre/spigolare), abbia conservato forme che l’italiano limita all’uso letterario (sanitàte/sanitate).

I pochi fenomeni rilevati per qualcuno potrebbero essere sufficienti a dimostrare che una lingua può essere più nobile di un’altra, che il dialetto (nella fattispecie il neritino, ma vale per tutti) è (accetterei, tutt’al più, “potrebbe essere in alcuni casi”) addirittura più corretto (più ricco si sapeva) della lingua nazionale. Continuo a non crederci, anche perché qui mi sono divertito a raccogliere le prove che depongono a favore del dialetto e continuerò ancora di più quando esibirò quelle a sfavore. Ma, per farlo, è necessario che i lettori manifestino il loro gradimento. Via al televoto!4

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1 L’etnologia, però, ha creduto di mettersi la coscienza a posto con la dicitura ambigua “popolazioni cosiddette primitive”, quasi scaricandone su altri la paternità.

2 Ogni lemma proposto consente un’agevole comparazione fonetica e semantica col corrispondente italiano; per motivi di spazio ho analizzato un solo lemma per ogni lettera dell’alfabeto (la v e la z non presentano casi degni di considerazione).

3 È un fenomeno frequentissimo in latino la nascita di una forma iterativa o intensiva dal supino di un verbo: per esempio, dal supino captum di càpere=prendere è derivato captàre=tentare di afferrare; da pressum, supino di prèmere=premere, pressàre=premere intensamente; nel nostro caso da volùtum, supino di vòlvere=far girare, volutàre=far girare ripetutamente.

4 Sono perfettamente consapevole che con questa espressione mi sono giocato almeno il 50% dei voti che presumibilmente avrei racimolato. Invito, perciò, l’unico lettore che si accinge a votarmi, a ripensarci… Chiedo scusa, ma io mi diverto soprattutto così.

Piccoli seminaristi crescono (IV parte)

 

LA DISCIPLINA NEL SEMINARIO DI NARDO’ NEL PERIODO 1960-1965 (Quarta parte)

di Alfredo Romano

Per ogni azione della giornata, per ogni pensiero, oserei dire, c’era una regola. Avevamo il privilegio della ‘vocazione’, eravamo stati chiamati per evangelizzare, eravamo dei prediletti scelti tra tanti. Non perché avessimo particolari attitudini: semplicemente i piani del Signore erano imperscrutabili. Privilegiati sì, ma la chiamata comportava di essere messi alla prova, sicché tutto bisognava sopportare, fosse anche un ingiusto rimprovero o una punizione inflitti da un superiore: era una prova della tua resistenza, dell’essere stato degno della ‘chiamata’.

Il rispetto del regolamento era la prova per eccellenza. Il Seminario Vescovile di Nardò aderiva al Regolamento per gli alunni dei pontifici seminari regionali d’Italia, opuscolo edito dalla Tipografia Poliglotta Vaticana nel 1950 (ristampa), regolamento per seminaristi dai 17 anni in su applicato, nel nostro caso, a ragazzi dagli 11 ai 16 anni.

Custodi del regolamento erano i superiori cosiddetti disciplinari: il rettore don Vincenzo Calcagnile e i vice rettori don Antonio Giaracuni e don Giorgio Crusafio. A questi si affiancavano il prefetto e il vice prefetto, che erano dei compagni più grandi di V e IV ginnasio. Poi c’era don Raffaele Mastria, il “superiore” della nostra anima cui confidare le nostre pene e le marachelle in confessione. Altre due figure che comparivano tra i superiori: l’economo don Aldo Garzia

Il faro di punta Palascia al comune di Otranto

 

Lo ricordiamo. Era Totò che stava vendendo la fontana di Trevi. Però era un film, divertente anche, e lui era un grande artista. Roba da ridere insomma. Mi è venuto in mente con l’apertura dei giornali di questa mattina. A futura memoria ricordiamo che oggi è il 28 giugno 2010. Il federalismo demaniale entra nel vivo. I comuni e le regioni potranno acquistare a prezzi di saldo alcuni scarti da magazzino. Qualche monte delle Dolomiti, l’ arcipelago della Maddalena, un pò di torrenti, fiumi, colline. Per quanto riguarda il Salento il comune di Otranto potrà entrare in possesso niente meno che del faro di punta Palascia. Ricordiamo che il faro è uno dei cinque del Mediterraneo tutelati dalla commissione europea. Gli altri sono quelli di Genova, Tunisi, Gibilterra e Alessandria d’Egitto.  Convenzionalmente il faro è il confine delle acque dello Ionio da quelle dell’Adriatico. Ed è anche il cuore del Parco Naturale Regionale Otranto-Leuca, il centro del Parco Marino, il fulcro di un’area IBA (Important Bird Area) tra le più importanti d’Europa.

Insomma, stiamo parlando di un patrimonio dell’umanità, anche tenendo conto che è l’estremo lembo d’Italia verso l’Albania.

Dobbiamo preoccuparci? Nell’immediato forse no, perchè è anche sede di un importante museo marino ed osservatorio. Però la storia insegna e ci mette in guardia. Non è lontano il 2006. Allora la Marina, presentò al comune di Otranto, senza richiedere pareri o autorizzazioni, un progetto di ampliamento della base militare già presente sulla scogliera. Cosa prevedeva il progetto? Costruzioni destinate ad alloggi per militari, due torri in cemento, la ristrutturazione di un edificio esistente. Il tutto a minacciare l’intera area. C’è, è vero, un comitato di cittadini intelligenti che si chiama “giù le mani da punta palascia.”  E ricordiamo anche alcuni tentativi di vendita della struttura a privati. Insomma, proprio tranquilli non possiamo stare.   Però ci sono luoghi, monumenti, che sono valori universali e non debbono essere ceduti per nessun motivo. A quando la vendita del Colosseo? E se un sindaco bizzarro un giorno decidesse di trasformare la Maddalena in Disneyland? E se, come già lamentano regioni, province e comuni, mancano i soldi per manutenere e valorizzare quei beni? Si cercheranno sponsor, ovviamente. Ma i privati che pagano vogliono qualcosa in cambio. Che so, un faro che proietta nel cielo un vasetto di marmellata, per esempio. No, veramente certi patrimoni sono di noi tutti. Attivarci per difenderli e farli rimanere tali è il minimo che la civiltà ci chiede.

da http://www.badisco.it/album/litoranea%20NORD/slides/391125(kk101).html

Lo Sturno e il brigantaggio meridionale

di Paolo Vincenti

Il brigante Giuseppe Schiavone

Sull’Unità d’Italia molte pagine sono state scritte, così come su quel gigantesco fenomeno sociale che va sotto il nome di Brigantaggio. All’indomani dell’Unificazione, si aprì una lunga fase di intensi dibattiti, che coinvolse moltissimi intellettuali del Sud, e che fu chiamata “questione meridionale”.

Quel che è certo è che, nel 1861, l’unificazione della penisola aveva lasciato molti nodi non sciolti, molte contraddizioni interne al Paese che, come una bomba sarebbero esplose e le cui conseguenze sarebbero state devastanti. Vennero uniformate la moneta, le dogane, i regolamenti di pubblica sicurezza e di sanità; un Governo centrale, con sede a Torino, governava per tutto il Paese ed un Parlamento nazionale legiferava erga omnes. Però, molti erano i problemi ancora da affrontare, sempre più forte il divario fra il Nord, avviato ad un futuro di ricchezza ed industrializzazione, ed il Sud, che invece si ripiegava su se stesso; miseria, analfabetismo e condizioni di vita molto precarie avevano esasperato gli animi e acuivano quelle tensioni sociali da cui, per buona parte della sua storia, la nuova Italia sarebbe stata dilaniata. Soprattutto nel Sud, si avvertiva una tensione sociale fortissima che da un momento all’altro poteva portare a dei conflitti non più domabili. E infatti, si arrivò ben presto all’inevitabile e il brigantaggio si trasformò in un grande sobillamento di masse, che scosse per alcuni anni a fondo la vita del Meridione d’Italia.

I vecchi governanti, i Borboni, erano stati destituiti e si era insediata una nuova classe dirigente che si apprestava a guidare il Paese in condizioni non facili. Vi era stato un processo di unificazione forzata, che non era partito dal basso, dal popolo, ma era stato calato dall’alto. Le plebi contadine erano affamate e chiedevano disperatamente una soluzione per il problema delle terre; il prelievo fiscale introdotto dal nuovo Stato finiva per oberare solo i ceti meno abbienti, che sprofondavano ancora di più nella miseria, mentre i “galantuomini” scesero subito a patti con i Savoia e si riciclarono nella nuova classe dirigente. La plebe non capiva e non si poteva adeguare ai modelli di vita imposti dai Piemontesi, i quali apparivano come dei nuovi “conquistatori”, con la conseguenza che il popolo era passato dai vecchi ai nuovi padroni. Si era aggiunta, cioè, la beffa al danno, perché gli arroganti e spocchiosi dirigenti piemontesi, pur parlando la stessa lingua, sembravano ancora più distanti dalla antica cultura del Mezzogiorno di quanto lo fossero stati i Borboni. Questi ultimi seppero coagulare, intorno alla disperazione e al malcontento, tutti i nostalgici dell’antico regime che si organizzarono in un vasto movimento di opposizione al nuovo Stato.

Molti di questi miserabili scelsero la lotta armata e si riunirono in bande che determinarono il triste fenomeno del brigantaggio.

Francesco II di Napoli

Francesco II, da Roma, dove si era rifugiato dopo la caduta di Gaeta, cercò di sfruttare a proprio vantaggio questo vasto malcontento delle plebi del Sud ed alimentare, anche grazie all’appoggio del clero reazionario, il brigantaggio, nel quale erano confluiti tutti coloro che erano rimasti senza lavoro dopo lo scioglimento dell’esercito borbonico e che erano chiamati “sbandati”. I governi della Destra nazionale cercarono di reagire a questo fenomeno, ma i rimedi adottati per combattere quel male furono assai più dannosi del male stesso. Ma dato che “le parole sono pietre”, per dirla con Carlo Levi, anche il termine “male” non deve avere un valore assoluto con riferimento al fenomeno del brigantaggio.

Bisogna, infatti, tener conto che, il più delle volte, questi briganti agivano con l’appoggio popolare e con l’appoggio tacito delle amministrazioni locali; che non tutti i briganti erano dei malavitosi e commettevano delitti; e ancora delle attenuanti storiche che aveva il brigantaggio.

Un tipico esempio di brigante galantuomo è proprio il nostro “Capitan Sturno”. Chi era lo Sturno? L’anno scorso, in occasione della terza Festa dei Briganti, organizzata a Parabita dalla compagnia teatrale Prosarte, in collaborazione con l’Archivio Storico Parabitano, diretto da Aldo D’Antico, è stata riscoperta la figura di questo leggendario personaggio parabitano, vissuto a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento. Questa figura di bandito gentiluomo era stata troppo a lungo dimenticata, probabilmente per un processo mentale imposto da fattori inibitori che avevano portato i discendenti di questo personaggio a rimuoverne la memoria. Molti briganti rubavano, uccidevano, assaltavano i municipi delle città, saccheggiando e depredando tutto quello che potevano. Ma quella dello Sturno è una figura che spicca, nell’ambito del brigantaggio salentino, perché del tutto originale.

Rosario Parata nasce nel 1831 a Parabita e, a causa dell’indigenza in cui versava la sua numerosa famiglia, decide di arruolarsi nelle file dell’esercito borbonico, giurando fedeltà alla Corona. Sciolto l’esercito borbonico dai Piemontesi, Parata ritorna nella sua Parabita che si trova in piena crisi, fra le tensioni opposte dei monarchici conservatori e i neo liberali di ispirazione sabauda. Il lavoro scarseggiava e i soprusi della borghesia locale, che aveva soppiantato la vecchia aristocrazia, erano evidenti. Parata si ribella a questo stato di cose. Egli, profondo conoscitore del territorio ed abile cavallerizzo, riunisce alcuni suoi amici, che condividevano il suo stesso disagio, e diviene il loro leader. Con il soprannome di “Capitan Sturno”, imperversa nell’entroterra salentino, negli anni fra il 1861 ed il 1864, e diviene molto famoso.

Il Governo ordinò una durissima repressione del fenomeno del brigantaggio e mandò la Guardia Nazionale, insieme alla polizia e all’esercito: una mobilitazione spaventosa per un totale di 120.000 uomini.

Fu presentata alla Camera, nel 1863, una Relazione, da parte della commissione parlamentare Massari, costituita per indagare sulle “ragioni sostanziali”, come si disse, e sulle “cause predisponesti” del fenomeno. Questa commissione, che dimostra la volontà da parte del governo centrale di andare a fondo al problema, additò le ragioni del brigantaggio nella distribuzione delle terre, che aveva penalizzato fortemente i contadini, nei patti agrari, onerosissimi per i contadini, e più in generale nelle tristi condizioni economiche e sociali del Meridione.

Purtroppo, sulla volontà di capire ed interpretare il fenomeno, prevalse la linea della fermezza e della repressione armata e il Parlamento votò, nel maggio del 1863, la Legge Pica – voluta dalla maggioranza moderata e duramente contestata dall’opposizione democratica- che prevedeva la competenza dei Tribunali militari a giudicare i briganti e i loro complici, mentre l’esercito andava compiendo la difficile opera di “normalizzazione” e di riduzione all’ordine dei ribelli.

Fra il 1 giugno e il 31 dicembre 1865, i briganti uccisi in combattimento o fucilati furono 5212, quelli arrestati e condannati 5044, quelli costituitisi alle autorità 3597. Le bande dei briganti erano costituite, in media, da 100-150 elementi ed avevano una organizzazione di tipo militare, una casacca comune e combattevano con la tecnica della guerriglia. Accanto a queste grosse bande, animate da un ideale politico, vi erano le piccole bande, che potevano essere composte anche da una decina di elementi, ed erano ladri ed assassini che praticavano il brigantaggio comune.

In occasione della riscoperta della figura di Rosario Parata, Aldo D’Antico ha pubblicato un opuscoletto, che fa parte della sua collana “Documenti” (Il Laboratorio editore), dal titolo Lo Sturno.

Il Parata, come scrive D’Antico, indossava la divisa dell’esercito borbonico e irrompeva nei vari centri sventolando la bandiera bianca gigliata dei Borboni. Molte furono le sue imprese, che gli fecero guadagnare la fama indiscussa di leader del brigantaggio salentino. Con la sua banda di 50-60 elementi, metteva lo scompiglio nei centri salentini. Egli si faceva annunciare da uno squillo di tromba e, al grido “Viva Francesco II”, dava la carica insieme ai suoi accoliti, lasciando spesso a bocca aperta la Guardia Nazionale. Egli era sì spavaldo, ma leale e coraggioso e non si macchiò mai di delitti. Nel 1864, viene catturato. Processato, viene condannato a sette anni di reclusione e a due di lavori forzati. Un anno dopo, a soli 34 anni, viene trovato morto in carcere: probabilmente avvelenato, come accadeva a molti briganti dell’epoca per essere eliminati silenziosamente.

In seguito alla atroce campagna di polizia voluta dal Governo Minghetti, vennero eliminati non solo i criminali ma anche tanti innocenti; vennero perfino bruciati molti ettari di boschi per scovare i briganti: questa giustizia sommaria coinvolse, oltre ai ribelli, anche i cosiddetti “manutengoli”, cioè preti, monaci e parenti dei briganti, gregari, insomma, che davano il loro appoggio, spesso solo ideale, ai ribelli. Insieme a questi straccioni affamati, vi erano anche le famiglie dei grandi proprietari terrieri che non di rado ispiravano clandestinamente il brigantaggio locale, pur chiamandosi ufficialmente fuori dai contrasti politici. Questi signori riuscirono sempre a farla franca e ad evitare le condanne che i tribunali dello Stato infliggevano invece ai “cenciosi”, come lo Sturno, brigante atipico, che Parabita ha ora riscoperto.

Pubblicato su “Città Magazine”, 7-13 aprile 2006 e poi in “Di Parabita e di Parabitani” di Paolo Vincenti, Il Laboratorio Editore 2008.

Ancora una tela cinquecentesca torna a vivere

Carpignano Salentino, 4 luglio 2010

Il restauro conservativo della tela della Madonna di Costantinopoli tra Santa Caterina e San Francesco

 

di Sandro Montinaro

 

Dopo circa 6 mesi di lavoro, si è concluso il restauro della tela della Madonna di Costantinopoli nella chiesa parrocchiale di Carpignano Salentino. Si tratta di un’operazione di restauro conservativo portata a conclusione dalla dott. ssa Francesca Romana Melodia e dal suo staff e fermamente voluta dal gruppo di ricerca Olim ecclesia Carpiniani nell’ambito delle celebrazioni dei Trecento anni della Chiesa Parrocchiale di Carpignano Sal. (1709-2009).

Da circa un anno, infatti, il Gruppo è in prima linea per sensibilizzare i cittadini e coinvolgerli nella tutela del proprio patrimonio storico-artistico, nonché nella raccolta fondi per il restauro del fonte battesimale del 1594 e il coevo altare con la tela raffigurante la Madonna di Costantinopoli con la chiesa in fiamme tra Santa Caterina e San Francesco, risalente alla fine del XVI secolo.

Carpignano, grazie al suo patrimonio culturale, storico, artistico e architettonico, rappresenta una delle mete turistiche più attraenti del Salento e recuperare e preservare dalle insidie del tempo questo grande patrimonio è un obiettivo nobile, perché significa lasciare a beneficio di tutti qualcosa di unico.

Il gruppo Olim Ecclesia Carpiniani, che si identifica nel nome e nella storia del paese, ha quindi aderito con piacere a questo importante progetto di restauro e vi invita a partecipare, domenica 4 luglio 2010 alle ore 20.00, presso la Chiesa Matrice Assunzione di Maria Vergine, alla presentazione del restauro.

Nel corso dell’incontro, dopo l’inaugurazione della tela, sarà presentato il lavoro di restauro realizzato da Francesca Romana Melodia.

La manifestazione porta il patrocinio del comune di Carpignano Salentino, dell’Arcidiocesi di Otranto, della Parrocchia Assunzione di Maria Vergine di Carpignano Salentino e il sostegno di diverse aziende locali.

Tra le autorità presenti Roberto Isola, sindaco del comune di Carpignano Salentino, mons. Giuseppe Colavero parroco della parrocchia Assunzione di Maria Vergine di Carpignano Salentino e mons. Quintino Gianfreda, direttore dell’ufficio diocesano per l’arte Sacra e i beni culturali.

Oggi parliamo di “caldo”. Tutta colpa del verbo latino “calère”!

Il responsabile del caldo e di altri inconvenienti a Nardò e non solo

di Armando Polito

 

 

CÀUTU

(in italiano caldo): o si ipotizza la derivazione (come per la voce italiana) dal latino càlidu(m) (dal verbo calère=aver caldo) attraverso i passaggi càlidu(m)>cadu(m) (sincope di -li-), càudu(m) (passaggio -à->àu per compenso dell’avvenuta sincope)>càutu, oppure bisogna pensare ad una derivazione dal francese chaud (meno probabile per la presenza di due fenomeni contrari: a) -au- letto com’è scritto; b) -ch- letto come -c- (senza aspirazione). Voci derivate: cautùsu (non esiste corrispondente italiano formale; semanticamente focoso esprime solo il primo dei due significati che la voce dialettale ha : sessualmente caldo oppure insensibile al freddo) e scautàre (da notare che il dialetto si rivela estremamente economo, dal momento che per esprimere lo stesso concetto l’italiano ha messo in campo scottare (da un latino *excoctàre, intensivo di excòquere=cuocere), mentre scuttàre (=eliminare l’acqua o altro liquido) in neritino corrisponde all’italiano sgottare (dal latino ex=fuori da+guttum=vaso molto stretto; per me non è da escludere come secondo componente il latino gutta=goccia).

SCARFÀRE (in italiano scaldare): dal latino excalefàcere=riscaldare, a suo volta composto da ex con valore intensivo+la radice cal– del già citato calère=esser caldo+fàcere=fare, rendere; la trafila è stata: excalefàcere>*xcalèfàcere>*scalefàcere>*scarefàcere>*scarfàcere> scarfàre. Di scarfàre esiste anche la forma incoativa-intensiva scarfisciàre=iniziare a fermentare, in riferimento al cibo avariato e, al solo participio passato (scarfisciàtu), anche a persona che dà fastidio, antipatica.

QUATÁRA (in italiano caldaia): da càutu attraverso la trafila: *cautàra>*cuatàra>quatàra. Diminutivi di quatàra, in ordine decrescente di dimensione, sono: quatarèddha, quataròttu e quataruttièddhu, attrezzi in dotazione alle cucine “economiche” di un tempo; oggi abbiamo pentole di ogni forma e dimensione, lucidate a specchio, con maniglie aerodinamiche, magari con doppio o triplo strato antiaderenza che non fa incollare i cibi ma ti accolla prima o poi malattie varie, cancro compreso. Da quatàra è derivato ache il verbo ‘nquatàrare=sporcare di fuliggine o sporcare in genere, da in+quatàra, con aferesi di i-.

CARDARÌNA (in italiano il corrispondente solo formale è caldarina che, con la variante calderina, indica una piccola caldaia a vapore ausiliaria delle caldaie principali): stessa etimologia della voce italiana, che è diminutivo di caldara, forma obsoleta di caldaia, che è dal latino tardo calidàri(am)=che scalda, dal classico più volte ricordato calère=esser caldo. Cardarìna in dialetto neritino indica il mastello metallico usato dai muratori nonché (unito o no a ti li mundèzze=dell’immondizia) la pattumiera.

Ora sappiamo con chi dobbiamo prendercela se il caldo comincia a darci fastidio, se il cibo non sa proprio di fresco, se siamo costretti a sgrassare manualmente le pentole (anche quelle col triplo rivestimento antiaderenza…) prima di affidarle alla nostra ipertecnologica lavastoviglie, se le pattumiere cominciano (o continuano?) a non essere sistematicamente svuotate: con il padre di tutti questi inconvenienti, il verbo latino calère.

E gli uomini (a cominciare da noi stessi…) e le istituzioni? Basterà scomodare lo stesso verbo nella forma (l’unica) in cui si è perpetuato in italiano (dal significato originario di esser caldo a quello di essere inquieto, eccitato, in vigore, spinto con slancio fino a quello finale di importare) e che sarebbe obsoleta se non fosse stata rivalutata (!) nella canzone Cicale cicale (di Tony De Vita, Franco Miseria, Antonio Ricci e Alberto Testa, cantata a Fantastico 1981 da Heather Parisi) in un gioco di parole che rasenta il nonsense (cicale/ci cale). Ricordiamoci, però, di premettere la negazione: non ce ne cale; e la frittata sarà pronta…

Tuglie. Un paese, un racconto

di Luigi Scorrano

Ogni paese ha una storia. Ma questa storia è fatta non solo degli avvenimenti, grandi o piccoli, dei quali un paese è teatro; è fatta anche dalla fisionomia del paese, dai suoi luoghi, dalle generazioni che vi impressero un segno distintivo e lo passano ai posteri. Si può fare storia di un paese anche così, osservando quanto ci circonda nel luogo in cui viviamo, ripensando alla nostra collocazione nella piccola società che esso ospita… Il racconto ‘storico’ di un paese può attingere anche in un percorso inconsueto la sua visibilità, il suo carattere.

Il paese di cui qui parliamo è Tuglie. Per ‘cartoline’.

Ritrattino di Tuglie

Con le sue case, con la sua piazza al centro di un abitato più lungo che largo, con la sua collina di Montegrappa che fa da belvedere su un ampio tratto di territorio, Tuglie, nella sua raccolta fisionomia, non manca di attrattive. Sembra quasi d’obbligo, quando si vogliano vantare origini illustri, rifarsi ai Romani (in Italia, almeno!) o anche più lontano: anche Tuglie non sfugge a questa specie di regola. Qualche traccia, per quanto incerta, una parentela potrebbe stabilirla. Ma è dal Medioevo che abbiamo qualche notizia più

Mostre/ Uniformi, decorazioni e cimeli dei cavalieri dell’Ordine Equestre del S. Sepolcro di Gerusalemme

a cura di Massimo Perrone

Il 20 giugno 2010 si è inaugurata presso la Galleria della Biblioteca Provinciale “N. Bernardini” di Lecce  la mostra storica “ Uniformi, decorazioni e cimeli dei cavalieri dell’Ordine Equestre del S. Sepolcro di

I rimedi polivalenti della farmacopea popolare in tre proverbi

di Armando Polito

Nella nostra era scienza e tecnologia mi appaiono asservite al profitto e ad un edonismo sfrenato che si esprime nelle forme più disparate e contraddittorie che finiscono per creare nuovi bisogni e nuovi problemi. Tre soli esempi: l’allungamento della vita degli anziani e dei vecchi è un fenomeno drammaticamente grave per i giovani (il mio non è cinismo…masochistico) che procrastineranno fra poco ai cinquanta anni la nascita di un figlio probabilmente non tanto normale, il che creerà ulteriori problemi, anche di natura economico-assistenziale, per la nostra traballante società; l’illusione di fermare, o addirittura far arretrare, il tempo, splendido (?) dono del culto dell’immagine, cioè di ciò che appare, non di ciò che è, prontamente sfruttato dalla chirurgia estetica, peraltro benemerita per la correzione di difetti congeniti o acquisiti a seguito di incidente, che ha la presunzione in molti casi di far prevalere la discutibile attrattiva di un astratto, asettico e massificante canone di armonia su una imperfezione il cui portatore non è riuscito, per unica, imperdonabile sua colpa, a portare al nobile ruolo di tratto distintivo, caratterizzante, irripetibile, irrinunciabile; risale solo a qualche mese fa la notizia che i soliti ricercatori americani (bisogna riconoscere che i nostri, nonostante tutto, dedicano, magari all’estero, il loro talento a questioni meno banali) sono giunti alla geniale conclusione che la frutta prodotta fuori stagione presenta rispetto a quella stagionale una riduzione al (non del) 30% dei principi attivi più importanti per la salute umana, in primis gli antiossidanti (quella transgenica, invece…). In questo quadro parlare di farmacopea popolare potrebbe sembrare una nostalgica operazione passatista. Così non è, non solo perché la scienza ufficiale, propende, purtroppo solo a parole pronunziate fra l’altro a denti stretti, per un uso meno violento e manipolato, insomma più rispettoso della natura e meno asservito alla chimica, delle sostanze terapeutiche, ma anche e soprattutto perché in passato, tanto per fare un solo recente esempio di cronaca, nessuno aveva preteso di guarire il cancro col bicarbonato, naturalmente da pagare a carissimo prezzo, nell’immediato al momento dell’acquisto (si sa, per i maghi, e solo per loro, il bicarbonato ha un costo elevatissimo…) e un po’ più in là al momento della dipartita…

E’ tempo di far parlare il passato:

“L’uègghiu ti ulìa: ogni mmale pìgghia ia” (l’olio d’oliva: ogni male se ne va). Oltre che entrare come ingrediente nella preparazione di innumerevoli rimedi, era, da solo, il farmaco per eccellenza (dal rinforzo dei capelli ai dolori articolari); seguivano, a distanza notevole, gli unici concorrenti appresso citati.

“La marva: ti ogni mmale ti sarva” (la malva: da ogni male ti ti salva). Impacchi di cotone idrofilo inzuppato di infuso di malva tiepido, rinnovati ogni tre o quattro minuti, erano utilizzati per la cura delle emorroidi, dell’herpes zoster (fuoco di sant’Antonio) dell’orticaria (nel dialetto neritino “foca”, da un latino *foca, plurale collettivo di *focum, dal classico focus=fuoco), del mal di denti; impiastri di foglie fresche o secche, tenuti in loco per almeno un’ora, favorivano la maturazione di ascessi anche multipli (nel dialetto neritino “fau”; il corrispondente italiano è favo, dal latino favum, per evidenti analogia di forma), di paterecci e la riduzione dell’edema; l’estratto di malva era efficace anche contro la congiuntivite e la tosse, efficace come diuretico, rinfrescante delle vie urinarie.

“La ruta: ogni mmale stuta” (la ruta spegne ogni male); efficace contro i dolori di stomaco, per far maturare gli ascessi e come antielmintico (contru li ièrmi). Colgo l’occasione per ricordare l’etimologia di “stutare”: da un latino *extutàre, dal classico ex=lontano da+tutàri=proteggere (intensivo di tuèri=guardare, vigilare), con chiara allusione al fatto che il fuoco, se non vigilato, in passato si spegneva (ed era una iattura); non posso fare a meno di notare che, invece, oggi, il fuoco, se non vigilato (o volontariamente appiccato e non solo per eliminare le erbacce…) si estende (ed è, per motivi diametralmente opposti, una iattura).

Eventi/ Caravaggio a Lecce

di Marcello Gaballo

Si titola “Caravaggio? L’enigma dei due San Francesco” la mostra itinerante che celebra i 400 anni dalla morte dell’artista e che cerca di svelare il nuovo ma non ultimo segreto che chiama in causa il celeberrimo Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610), uno dei più grandi artisti di tutti i tempi.
Patrocinata dal Ministero dell’Interno, promossa dalla Provincia di Lecce, è allestita nel complesso museale leccese di San Francesco della Scarpa, dal 4 luglio e per tutto il mese di agosto 2010 (ogni giorno, dalle 10 alle 20, ingresso libero). L’inaugurazione si terrà venerdì 2 luglio, alle 19,30.

Lecce, unica tappa del Sud Italia, è una delle città che ospiteranno il ghiotto evento culturale, avviato il 28 ottobre scorso al Viminale, proseguito il 7 novembre per il castello di Masnago a Varese, per poi approdare a Washington (in ottobre, presso la sede dell’Ambasciata d’Italia, in concomitanza con le celebrazioni del Columbus Day), all’Expo di Shanghai 2010, per concludersi a Milano.

(immagini tratte da http://caravaggio400.blogspot.com/2009/10)

La mostra porta da Roma due tele quasi identiche, restaurate qualche anno fa da Rossella Vodret, raffiguranti entrambe “San Francesco in meditazione”.

C’era la luna sul mare di Castro

di Gianni Ferraris

C’era la luna sul mare di Castro. Ed era il primo giorno d’estate. La notte scendeva lentamente, si portava appresso stupore e voglia di lasciarsi andare. Quasi come se tutto fosse stato detto e ascoltato.  Poi di nuovo i ricordi che si inseguivano. Abbiamo mangiato acciughe e bevuto birra in riva al mare. “Li portate via o li mangiate qui vicino al mare?” ci chiedeva la signora che stava friggendo. “Qui, vicino al mare, è meglio”. Di fronte a quello spettacolo che le parole non riescono a dire, che commuove per la sua prepotente imponenza e maestosa bellezza era bello ascoltare le onde e la luna. Ma si sa,  spesso si vive ieri.  Oggi è talmente strano da sembrare incomprensibile.

“Devo andare ad Alessano domattina, mi accompagni? Poi ci fermiamo a Castro”. Mi aveva detto l’amica con la quale stavo condividendo birra e acciughe. Così ci sono andato, mentre lei era presa dai suoi impegni, io sono salito sull’auto e me ne sono andato in giro. Erano le otto e trenta circa quando entravo nel cimitero di quel paese. Non sono un frequentatore di cimiteri. Di solito li evito,  perchè  ritengo che i ricordi siano nel cuore e nella testa. Parlo con un tramonto, con la luna magari. Non mi riesce farlo di fronte ad una lapide con una fotografia che ha fermato un attimo, un momento. Non necessariamente dei migliori. Magari vedo quella posa in giacca a cravatta: “proprio lui che detestava le cravatte…”.  Ma era la foto buona, quella per le grandi occasioni.    E’ come il vestito della domenica di quando ero piccolo. Era magari bello, l’avevo scelto con cura, però non lo indossavo che in poche occasioni. Che perdita di tempo. Forse per questo il mio guardaroba è ridotto al minimo. Solo cose che mi piacciono. O con le quali mi sento a mio agio. Finchè le logoro.  Però ad Alessano mi sono sentito in dovere di entrarci, nel cimitero. C’è una specie di piccolo anfiteatro rotondo. Con gradoni dove ti puoi sedere. Al centro, in un’aiola, rotonda anch’essa, con erba tagliata e curata, c’è la grande lapide di Don Tonino Bello. Mi sono seduto su quei gradini. Non ho pregato perchè non lo so fare. Neppure so, e non compete a me sapere, se è giusto santificare una persona. Ritengo però sia indispensabile ricordarne la figura in ogni momento. Perchè la vera santificazione è questa. Ricordare. Sopratutto in questi tempi. Dove per troppe persone la vita è una scommessa. No, veramente non so se la santificazione lo renderà più santo di quanto già non sia. Ero solo in quel cimitero, a quell’ora. Unica presenza, lo zampillo dell’acqua che rendeva più verde l’erba intorno alla lapide. Ripensavo al grembiule e alla stola  uscendo. Camminavo leggero per non disturbare. Di nuovo l’auto,  sono andato fino al Ciolo. Così, per ricordarmi la bellezza. Per farmi rapire. Così, giusto per sapere di essere vivo. Poi, la sera, quella luna che abbiamo visto sorgere, alzarsi piano piano, e illuminarsi sempre più mentre dall’altra parte il sole calava. Le luci là in fondo erano l’estremo lembo d’Italia. Il giorno prima ero in piazza Sant’Oronzo a Lecce. Mi ferma un signore, era in compagnia della moglie e del figlioletto di pochi mesi. Mi ha chiesto dove fosse il duomo. Pantaloni corti come si conviene ai turisti. Accento veneto. “Lei è veneto vero?” “Si sente eh? Anche lei non è di qui”. Poi abbiamo parlato un pò mentre gli spiegavo il duomo e la strada per arrivarci. “Come mai lei vive qui?” mi chiede. “Vede la luce? Ecco, forse è per quella” Non so se ha capito. Ma come è possibile spiegare un profumo? O un lampo di luce? O quella luna? Come si può parlare delle pagghiare e della via del sale senza sentire le voci dei contrabbandieri di sale? Come è possibile dire il perchè, io che non so muovere due passi di qualunque ballo, rimango affascinato dalla taranta? E dalla pizzica?  “E’ stato a Nardò?” “Si, bella cittadina”. Però nulla sapeva della repubblica neritina, neppure della fame dei contadini. Nulla dei murales ebrei. Conosceva le chiese e qualche dipinto, le apprezzava anche. Ma accidenti. L’anima mancava. Guernica non è solo un quadro. E’ un pezzo di storia narrato incredibilmente da Picasso con tratti decisi, con sofferenza. Munch e quell’urlo che è un quadro magari non bello in senso assoluto, ma con un pathos, una forza evocativa, una violenza inaudite.

Accidenti alla luna e al mare. Accidenti al silenzio di Castro.

Simone de Beauvoir diceva in non ricordo quale libro, che quando arrivava in una città sconosciuta la visitava di giorno, ma non poteva non passeggiarci tutta la notte. Per coglierne l’anima, i silenzi. Per vederne il passato. Perchè la notte i muri parlano, parlano le chiese e i monumenti. La notte accompagna e avvolge le storie lette o ascoltate. Mi mancava Chopin davanti a quel mare. Sarebbe stato perfetto. Contaminare Chopin con acciughe, birra, la luna, il suo riflesso nel mare  può sembrare blasfemo. Penso lo avrebbe apprezzato però.

Terminare così una giornata iniziata davanti ad una lapide, in fondo, è la vita che per ora procede con lentezza, con fatica. Con il pensiero fisso che torna: “E se tutto fosse stato già detto veramente?” –

Tarantolismo, il più noto esorcismo salentino

di Raimondo Rodia

ll tarantismo (o tarantolismo) è una sorta di esorcismo popolare che, sin dal lontano dal medioevo, spinge uomini e donne, che si ritengono morsi dalla tarantola ( grosso ragno ancora esistente nel territorio), a recarsi il 29 giugno in pellegrinaggio al pozzo presso la chiesetta di San Paolo a Galatina per essere liberati definitivamente dagli effetti del veleno che provoca nel malcapitato un languore mortale da cui si può essere liberati solo per mezzo della musica e dei colori.

Da qui l’uso di nastrini colorati (chiamati zagarelle) da legare al polso e di una musica ossessiva (la pìzzica) che induce ad una danza sfrenata intorno al pozzo la cui acqua è considerata simbolo di purificazione. La musica è suonata da un’orchestrina con chitarra battente, mandolino, violino e tamburello. Gli orchestrali ingaggiati dai familiari dell’invasato recano normalmente a casa del tarantolato, per suonare e fargli venir fuori il veleno del ragno con la danza. Verso la soluzione della crisi la musica che accompagna il tarantolato ha suoni ora cupi, ora struggenti, che culminano in un crescendo di straordinario effetto.

Le tarantolate un tempo, si recavano di buon`ora nella cappella di S. Paolo vestite di bianco e bevevano, almeno fino a quando il pozzo non è stato chiuso per ragioni igieniche sanitarie, l’acqua del pozzo dove c’erano anche dei serpenti.

Si lanciavano in una danza sfrenata al suono del tamburello fina a stramazzare al suolo vinte dalla fatica. La cura poteva durare anche diversi giorni. Il ricorso a S. Paolo è effetto della sovrapposizione del culto cristiano a quello molto più antico pagano dei serpenti.

Anche la tarantola rappresenta un animale totemico le cui origini si perdono nella notte dei tempi e sono anteriori al menadismo, al coribantismo ed alle feste dionisiache a cui il tarantismo rimanda per gli aspetti orgiastici. Il tarantismo è un fenomeno che emerge su tutti.

Nella storia della medicina popolare salentina, esiste una connessione tra tarantati e i santi Pietro e Paolo che ricorda le visite ai templi asclepei dell’antica Grecia: anche in quel caso i malati si recavano al tempio dei protettori per essere guariti.

L’analogia non è casuale: profonda deve essere stata l’influenza della medicina greca nel Salento. Sotto l’aspetto diagnostico è difficile definire il tarantismo come fenomeno, anzi si è riusciti a classificarlo. E’ forse una specie di isteria, oppure la sua origine è da ricercarsi non in lesioni organiche neurologiche, ma in elementi antichi che hanno logorato e distrutto una psiche già debole a causa di fattori storico-sociali.

Gli attacchi si manifestano in maniera molto simile all’isteria e, secondo la leggenda, sarebbero provocati dal morso della tarantola. Non si riesce a spiegare però la periodicità delle crisi che durano anche decine di anni.

Si può dire che il tarantìsmo è un male culturale. Una volta, infatti, le donne che subivano frustrazioni per eccesso di fatica, povertà o tabù sessuali, non potevano fare altro che rivolgersi a S. Paolo per liberarsi dal male.

San Paolo, in particolare, era considerato il Santo dei poveri e il protettore dagli animali striscianti (serpenti, scorpioni, ragni, e quindi anche la tarantola).

Similare nel Salento, la danza delle spade un antico duello rusticano, un tempo eseguito con coltelli che oggi viene riproposto. I duellanti, mimando i coltelli con l’indice della mano nella piazza di fronte al santuario di San Rocco a Torrepaduli di Ruffano, si mettono in cerchio formando le cosiddette ronde e si fanno accompagnare dal sottofondo incalzante della pizzica. Si suona e si balla dal tramonto del 15 agosto per tutta la notte fino all’alba del 16 giorno dedicato al santo.

Albicocche salentine. Verso la fine?

 albicocche

di Massimo Vaglio

Fortunatamente, l’arnacocchia a Galatone si coltiva ancora e chi le volesse assaggiare da fine di maggio sino a quasi tutto il mese di giugno le può trovare ancora con una certa facilità presso i produttori e i fruttivendoli del luogo, non si rischia il bidone, se quando le assaggerete le troverete subblimi, saranno di sicuro loro. SEMPLICEMENTE SPETTACOLARI!!!

Se invece di fare chiacchere, qualche ente territoriale pronto a parole in qualunque momento a dichiararsi paladino della biodiversità… bla, bla, bla, e parlo di: Comune, Provincia, Regione, volessero salvaguardare questa meritevole cultivar (di cui ho scoperto esistono almeno tre cloni differenti, tutti strepitosi) basterebbe che investissero qualche migliaio di euro e il gioco sarebbe bello che fatto.

Basterebbe che facessero innestare qualche migliaio di astoni da un vivaio specializzato e certificato per poi consegnarli a dei coltivatori custodi. Ma evidentemente un investimento di poche migliaia di euro non “alletta” nessuno, e prima o poi la nostra arnacocchia si estinguerà!!!

La prima locomotiva salentina

di Cesare Paperini

L’ACQUISTO DELLA PRIMA LOCOMOTIVA DI PROPRIETA’ FERROVIE SALENTINE S.A.I Sede in GENOVA.

Ditta costruttrice BORSIG, numero commessa 7874, data di entrata in servizio il 30 settembre 1911.

La prova a freddo fu eseguita il 29/9/1911, a caldo il 30/9/1911.

Il Presidente della società gli attribuì il n°8. La corsa di prova fu eseguita il 29 luglio del 1911:
TRICASE (dai verbali del Capo Stazione di Tricase Anchora Clodomiro)
Vi giunse in rappresentanza del Governo l’Ing. Umberto Nevvoni e per la Società l’Ing. Francesco Silo alle ore 9.30 sotto un caldo infernale.

La locomotiva iniziò la corsa di prova da TRICASE a SPONGANO e da

Piccoli seminaristi crescono (terza parte)

I seminaristi, terza-puntata

di Alfredo Romano
Alfredo Romano con la sua cotta nella Chiesa di Collemeto

I seminaristi erano divisi in cinque classi di studio, dalla I media al V ginnasio. Nel mio primo anno scolastico, 1960-1961, eravamo in tutto 65. Terminato il ciclo formativo nel Seminario Vescovile, c’era poi il passaggio al Seminario Regionale di Molfetta dove lo studio si protraeva per altri otto anni: tre di liceo, uno di filosofia e quattro di teologia. Ogni anno entravano nel Seminario di Nardò una ventina di ragazzi, un numero che, per via degli abbandoni e delle bocciature, in V ginnasio si assottigliava della metà circa. Le camerate erano quattro per via che IV e V ginnasio, di numero più esiguo, formavano un’unica camerata.

Provenivano i seminaristi dai paesi della diocesi di Nardò che si estendeva da Porto Cesareo fino a Racale, una striscia di territorio che confinava a ovest con la diocesi di Gallipoli (oggi accorpata

Dai funerali di paese a Totò

Dal carru fuci-fuci a Totò

di Armando Polito

In passato i meno abbienti, già in difficoltà di fronte alla vita, non potevano certo permettersi per i loro familiari un servizio funebre normale e perciò sfruttavano quello che, in contrapposizione al funerale di Stato, potremmo chiamare funerale di paese. L’associazione di queste due idee, però, riguarda  solo il fatto che in un caso e nell’altro è la collettività ad assumersi le spese (almeno credo…), restano fuori tutti gli altri riferimenti esclusivi del funerale di Stato (importanza istituzionale del defunto o, in caso di normale cittadino, eccezionalità delle cause della morte; solennità; partecipazione di autorità; immancabili discorsi…).

Dunque, per i poveri c’era il carru fuci-fuci (a questa formazione sono analoghe le più moderne ed allegre gelato lecca-lecca, tagliando gratta e vinci, vacanza mordi e fuggi, etc.) che aveva (lo dice lo stesso nome) una funzione opposta a quella dei treni delle nostre ferrovie: portare al più presto possibile a destinazione il viaggiatore.

Naturalmente il carro in questione era molto simile al modello base delle moderne automobili che fino a un decennio fa avevano di serie  solo il motore e le quattro ruote (già quella di scorta era un optional): una sorta di traballante carretto tirato da un malandato cavallo e manovrato, a ritmo di uno sgangherato rock and roll diretto dalle innumerevoli buche che allora, proprio come oggi, erano il comune denominatore delle strade cittadine, da un conducente preoccupato solo di far durare il meno possibile la vergognosa e scomoda (per il suo sedere) operazione.

Tutt’altro carro e tutt’altra musica accompagnavano, invece, nel suo ultimo viaggio chi poteva permetterselo: insomma, era come passare dall’effetto comico di un filmato girato a 10 fotogrammi al secondo a quello, se non tragico, enfaticamente solenne di un altro girato a 50 fotogrammi al secondo, rappresentanti entrambi la stessa realtà, ma con ambientazioni, costumi e attori diversi.

E oggi? Il pagamento dilazionato a tasso 0 proposto anche dalle più oculate imprese di pompe funebri ha fatto fuori il carru fuci-fuci sostituendogli un vasto ventaglio di offerte (per rispetto della morte evito di scendere nei dettagli) la cui analisi e valutazione attenta è, oltretutto,  praticamente impossibile non solo per difficoltà di comparazione (come succede per le tariffe telefoniche) ma soprattutto per la deperibilità del caro estinto; anche la Chiesa, poi, come in passato, fa la sua parte mettendo a disposizione un numero variabile di preti e un’ampia tipologia di messe, che presuppongono, naturalmente un tariffario eufemisticamente chiamato libera offerta…

Di fronte alla morte siamo tutti uguali: affermazione, come tante altre con cui ci sciacquiamo la bocca, che alla luce di quanto appena detto, appare idiota, perché non corrispondente alla realtà dei fatti.  E allora è idiozia anche la sua rappresentazione artistica più popolare,  la poesia ‘A livella, di Totò? Se non è idiozia, dirà qualcuno, è senz’altro una contraddizione, un’incoerenza, pensando alle cifre pazzesche che il grande artista dovette spendere per vedersi riconosciuto, insieme con altri, il titolo di principe di Bisanzio.

Né idiozia né contraddizione, né incoerenza, nemmeno, aggiungo io, umana debolezza: Totò scrisse la sua poesia dopo (sottolineo dopo) essere riuscito ad ottenere   il  riconoscimento  ufficiale  della  sua  nobile  origine; dunque, è  la cronologia a fare giustizia di questa presunta contraddizione, conferendole il timbro di quella che secondo me è la forma primaria e forse più alta della genialità: l’autoironia, sincera e non strumentale.

Periodici salentini/ Anxa News

di Paolo Vincenti

“Cum Anxa pugnavimus”, si potrebbe dire, parafrasando il sottotitolo di una storica pubblicazione gallipolina, lo Spartaco, una delle numerosissime riviste che fiorirono a Gallipoli a cavallo fra i due secoli Ottocento e Novecento. Oggi, dopo un passato glorioso dal punto di vista editoriale, l’unico giornale di opinione a Gallipoli è Anxa News, periodico di cultura, attualità e storia gallipolina.

Questo giornale non ha paura di schierarsi e lo fa puntualmente ad ogni nuova uscita, con coraggio e chiarezza. Solo che il giornale non si schiera a favore di una  parte politica piuttosto che di un’altra ma,sempre, dalla parte della verità.

L’Associazione culturale Anxa, che edita la rivista, si propone di recuperare le radici e salvaguardare la memoria storica della città di Gallipoli, promovendo studi e ricerche di storia patria. Molti sono stati, infatti, in questi tre anni di vita del notiziario, gli interventi di eminenti studiosi e cultori di patrie memorie che, con i loro contributi, hanno ridestato

Il Salento di Francesco/ Orchidee salentine 4

Serapias cordigera (L.): genere spiccatamente mediterraneo, il nome Serapias fu dato da Diocoride a una non meglio identificata orchidea dalle presunte proprietà afrodisiache in riferimento a Serapis (Serapide), dio dell’antico Egitto il cui culto era propiziatorio per la fertilità. La cordigera

Quando il Rohlfs inciampò in un sassolino del Salento…

di Armando Polito

Tra i tanti giochi di abilità di un tempo c’era anche quello dei tuddhi.

Il gioco era praticato soprattutto dalle  bambine ed era  basato  sulla destrezza  della  mano: occorreva  munirsi, anzitutto, di  cinque tuddhi, cioè sassolini arrotondati; dopo la  conta (lu tuèccu=il tocco)  la prescelta dalla sorte prendeva i cinque sassolini e, dopo averli lanciati in alto, a circa 50 cm., li lasciava cadere su un piano che poteva essere la soglia  di  casa (lu limbitàru1) o il marciapiede; subito dopo ne prendeva uno, lo  lanciava in alto e  quasi  contemporaneamente, presone un altro da terra, afferrava al volo il  primo ricadente; quindi lanciava in alto entrambi e, presone  un altro da terra, li prendeva al volo mentre ricadevano e così via finchè  nelle sue mani restavano tutti e cinque; vincitrice era colei che non commetteva alcun errore.

Si tratta di un gioco antichissimo (quello degli aliossi o astragali) e che lo praticassero pure gli adulti lo testimoniano le due foto di testa. La prima

Proverbi e metereologia salentina

LE PREVISIONI DEL TEMPO DI UN TEMPO A NARDO’

di Armando Polito

I proverbi che seguono sono tutti di origine contadina e, frutto di osservazioni millenarie, hanno scandito per secoli, gli ultimi due in modo esclusivo per la citazione di un preciso punto di riferimento, la vita del nostro territorio. È in atto, come si sa, un mutamento del clima, fenomeno assolutamente normale, che in passato è avvenuto in tempi lunghissimi. Oggi anche il clima si adegua al ritmo frenetico della vita, anzi, probabilmente, ne è la prima vittima; e un controllo sull’attualità di questi proverbi potrebbe rappresentare la cartina di tornasole per quanti, abituati forse a vedere il bicchiere mezzo vuoto e non mezzo pieno, considerano il fenomeno in atto non di buon auspicio per la sopravvivenza del pianeta. Oltretutto, alcuni di questi proverbi hanno costituito il servizio meteorologico, quasi infallibile, del passato; quello attuale, invece, nonostante i satelliti…

 

Aria ‘nnigghiàta, acqua priparàta.

Aria annebbiata, acqua preparata.

Ci chiòe ti santa Bbibbiana chiòe ‘nu mese e ‘na sittimana.

Se piove di santa Bibbiana (2 dicembre) piove un mese e una settimana.

Cièlu russu: o acqua, o ientu, o frùsciu1.

Cielo rosso: o acqua, o vento o scroscio.

Ci vuèi cu bbiti la massara pumpòsa, Natale ssuttu e Pasca muttulòsa2.

Se vuoi vedere la massara pomposa, Natale asciutto e Pasqua umida.

Fibbràru, mienzu toce e mmienzu maru.

Febbraio, mezzo dolce e mezzo amaro.

L’arcu ti sera: o chiòe o ‘ncera; l’arcu ti matina: pigghia lu pane e ccamina!

L’arcobaleno di sera: o piove o il cielo assume il colore della cera; l’arcobaleno di mattina: prendi il pane e cammina (parti, vai a lavorare)!

La tramuntàna è ssignùra: si azza tardu e ssi corca prestu.

La tramontana è signora: si alza tardi e si corica presto.

Luna cupèrta, piscatore allerta!

Luna coperta, pescatore allerta!

Quandu lu sole ponge l’acqua è bbicìna.

Quando il sole punge la pioggia è vicina.

Quando lu tiempu è ffattu a llana ci no cchiòe osce chiòe sta sittimàna.

Quando in cielo ci sono gli alticumuli se non piove oggi piove questa settimana.

Quantu cchiù fforte chiòe cchiù pprestu scampa3.

Quanto più intensamente piove più presto smette.

Quandu ‘ntrona lu Rinàru4 fuci fuci allu pagghiàru.

Quando tuona in direzione del Rinàru scappa scappa verso il pagliaio.

Quandu si ggnòrica la Matonna ti l’Addu l’acqua è bbicina.

Quando il cielo diventa nero in direzione del santuario della Madonna dell’Alto la pioggia è vicina.

______

1 Improvviso e breve scroscio di pioggia. Corrisponde all’italiano flusso.

2 Aggettivo da muttùra=rugiada; muttùra è da ‘mmuttàre (voce salentina, però non usata a Nardò)=intingere, corrispondente all’italiano imbottare.

3 Corrisponde all’italiano scampare, ma il significato di smettere di piovere è mediato dallo spagnolo escampar.

4 Località a nord-nordest di Nardò, sulla litoranea S. Caterina-S. Isidoro.

Musei/ Il Museo Civico di Paleontologia e Paletnologia Decio de Lorentiis di Maglie

Il Museo Civico di Paleontologia e Paletnologia Decio de Lorentiis di Maglie (seconda parte)

a cura di  Medica Assunta Orlando

Decio De Laurentiis

Decio de Lorentiis, figlio di Pasquale , il primo direttore del Museo di Maglie, era approdato all’esperienza museale passando attraverso un’infanzia e una giovinezza vissuta, al fianco del padre e del di lui fraterno amico Paolo Emilio Stasi – lo scopritore di Grotta Romanelli –, nell’orbita degli scavi  di Gian Alberto Blanc in questa importante cavità preistorica.  Ne respirò l’atmosfera di grandi entusiasmi e di fervida ricerca, crescendo all’ombra di uno tra i più illustri maestri della preistoria italiana, qual’era il barone Blanc – uno studioso di fama internazionale, formatosi nel Gabinetto parigino di Marie Curie – e prese parte alle diverse esplorazioni dell’Istituto Italiano di Paleontologia Umana anche in

A A A… Abbronzantissimi con l’alimentazione

«In occidente spesso si pensa che abbronzarsi al sole sia il metodo più valido per migliorare il colore della propria pelle, ma le nostre ricerche suggeriscono che seguire uno stile di vita sano, combinato a una buona dieta, sia in realtà la soluzione più efficace.»

Ad affermarlo è Ian Stephen, psicologo e autore di un interessante studio condotto in Inghilterra presso l’Università di Bristol.

La ricerca spiega che il colore scuro della pelle, quello a cui molte persone aspirano durante l’estate, è determinato da due pigmenti: la melanina e i carotenoidi. Ma mentre la formazione del primo pigmento è dovuta all’esposizione al sole ed è responsabile del colorito scuro, i secondi (una famiglia che si compone di oltre 600 membri) si ritrovano in determinati tipi di frutta e verdura e donano alla pelle una colorazione dorata.

Zucche, carote, angurie, peperoni, pomodori, albicocche e meloni: dotati di un caratteristico colore giallo-arancione, sono gli alimenti che contengono la maggior quantità di carotenoidi.

Oltre a donare evidenti benefici estetici, questo gruppo di alimenti contrasta in modo efficace i principali responsabili dell’invecchiamento cellulare (i cosiddetti radicali liberi) oltre ad aiutare a prevenire alcune forme di cancro.

I carotenoidi sono esattamente gli stessi pigmenti attraverso cui uccelli e pesci molto colorati mostrano il proprio stato di salute e appeal nei confronti dell’altro sesso, e i ricercatori pensano che meccanismi biologici simili possano agire anche nell’uomo (questi pigmenti infatti sono le sostanze precursori della vitamina A, importante per la salute della vista, della pelle e dei capelli).

Secondo gli autori dello studio sarebbe sufficiente una dieta di trenta giorni ricca in questi alimenti per osservare i primi risultati sulla pelle, con un effetto estetico migliore, e più gradito, di quello ottenuto con la semplice abbronzatura. Un’occasione in più per non far mai mancare sulla tavola frutta e verdura, specialmente in estate.

Fonte: Skin colour gives clues to health. University of Bristol 2010.

Musei/ Il Museo Civico di Paleontologia e Paletnologia di Maglie

Cultura e Salento. Il Museo Civico di Paleontologia e Paletnologia Decio de Lorentiis di Maglie (prima parte)

 

a cura di  Medica Assunta Orlando

 

Il Museo Civico di Paleontologia e Paletnologia di Maglie è l’unico Museo salentino completamente dedicato alla ricostruzione della storia più antica di questo territorio.

Sorto in un periodo in cui il maggiore interesse per le collezioni di epoca classica realizzava, nel Meridione, nuove strutture museali in cui la Preistoria veniva confinata al ruolo minore di “esposizioni di epoca precedente”, una sorta di antefatto o di prefazione al vero fulcro di questi musei: le collezioni magnogreche, esso è il solo – e spesso anche in solitudine – a fare della Preistoria l’obiettivo fondante delle sue esposizioni e delle sue azioni educative, rivendicando il ruolo disciplinare e conoscitivo della più antica storia del territorio, certamente nei confronti degli studiosi e degli appassionati del settore, ma principalmente verso la collettività

Da Specla Presbiterorum a Specchia. Note sul grazioso centro salentino che merita una visita

di Cesare Paperini

Il paese trae il proprio nome dal termine specchie, il quale stava ad indicare un accumulo di pietre piatte (anche di notevoli dimensioni) risalenti all’età del ferro, destinate alla difesa e a fungere da postazione di vedetta.

La lontananza dal mare e l’essere posizionata su una dolce collina, in un territorio totalmente pianeggiante, fecero di Specchia un luogo sicuro per gli uomini del primo Medioevo, tanto che la popolazione aumentò in breve tempo. Specchia Preti venne anche chiamata dal 1400 sino al 1700 e l’appellativo era una corruzione di Petri, ad indicare appunto gli enormi cumuli di pietrame che caratterizzavano il centro salentino, forse derivati da operazioni di sbancamento del terreno sassoso oppure da improvvisate postazioni di vedetta.

Antiche leggende trasmesse nelle calde serate estive le volevano sepolcri di antichi eroi morti in battaglia.

Il suo nome era conosciuto sino al 1700 quale “Specla Presbiterorum”, per essere appartenuto a sacerdoti regolari e secolari ed ospitava un convento voluto e sostenuto economicamente da nobili della Lombardia e del ducato Toscano, in cui trovarono rifugio nel corso dei secoli perseguitati politici ed esiliati, tra cui, si racconta, nel 1498, Pandolfo IV Malatesta.

Le origini della città sembra intorno all’anno Mille. Sottoposta nei secoli alla dominazione dei Normanni, ebbe tra i feudatarii discendenti dei Montoroni, Orsini, del Balzo, Guarini, Artus, Protonobilissimo, de Capua, della Ratta, Astore, Falcone, Pignatelli, Ripa e Risolo.

Il termine Preti venne eliminato dopo l’Unità d’Italia, grazie ad un regio decreto con il quale, nel 1873, Vittorio Emanuele II accoglieva la richiesta del consiglio comunale di adottare per il paese solamente il nome di Specchia.

Lo stemma civico di Specchia rappresenta un mandorlo che cresce su un cumulo di pietre. Questa rappresentazione rimanda agli alberi di mandorlo, una coltivazione tipica della campagna specchiese e che in passato costituì una discreta fonte di rendita per il paese, tanto che il nome completo del casale era “Specchia Mendolia”, per distinguerlo da Specchia Gallone, frazione di Minervino.
GLI ILLUSTRI:
Bernardino Colella (XVI-XVII secolo) grande filosofo e medico pubblicò molte opere.
Ignazio Balsamo (1543 – 1614) filosofo gesuita insegnò lettere in Francia a Tour, Tolosa ed Avignone.
Ercole Balsamo (1543-1518), gesuita, insegnante di filosofia e uomo di grande spiritualità, passò buona parte della sua vita in Francia dove ottenne vasti consensi anche da parte delle autorità ecclesiastiche
Giovanni Antonio Santoro, arciprete, istituì le Figlie della Carità, fondò l’ospedale e molte altre opere umanitarie; morì nel 1874.

Specchia oggi:
Popolazione: 4966 abitanti
Altitudine: 131 s.l.m.
Superficie: 24.74 kmq
Distanza dal capoluogo: 51 Km

Ancora oggi il centro storico di Specchia rivela un tipico impianto medievale, ampliato nel XV sec. – il periodo di ricostruzione delle mura – intorno al primitivo nucleo costituito dal castello. Si ritiene che la data della ricostruzione di Specchia, dopo le devastanti guerre tra Angioini e Aragonesi, sia il 1452, e che il merito vada a Raimondo del Balzo. Ma poiché la strada principale si chiama ancora “rua”, il francesismo riporta alla dominazione angioina, cioè al XIV sec., quando doveva già esistere un nucleo organizzato.

Delle antiche mura che cingevano il paese rimangono solo alcuni frammenti lungo la via che lo circonda ad occidente, mentre nelle mura di levante si nota uno dei più antichi esempi dello stemma di Specchia. Le mura più recenti risalgono a 150 anni fa e sono state da poco ristrutturate.
Il centralissimo castello Risolo è una struttura fortificata di impianto cinquecentesco, originariamente isolata e ora congiunta ad altre costruzioni, tra le quali emergono due torrioni alti e quadrati posti sugli spigoli dell’antica costruzione quadrangolare.
Il fronte orientale su piazza del Popolo è occupato da una cortina settecentesca a due livelli, mentre al centro si apre il portone bugnato sovrastato da uno stemma muto e da due statue. Appartenuto a importanti famiglie, si devono ai Protonobilissimi, marchesi di Specchia nei sec. XVI e XVII, gli interventi di trasformazione da castello a palazzo marchesale.
La parte più suggestiva del borgo è quella dietro il castello, dove tra scalinate e strade brevi e strette, tra i vicoli e le corti, si svolge la vita della gente, quasi sempre all’aperto, lasciando i sogni dietro le finestre socchiuse.
La chiesa e l’annesso convento dei Francescani Neri hanno una data certa, il 1531, quando si svolse nel convento il Capitolo dei Francescani Neri, come riportato in una iscrizione. Del 1532 è la costruzione della cappella di S. Caterina Martire, splendidamente affrescata con scene della vita di S. Caterina e del suo martirio. La cripta, scavata nella roccia è sorretta da 36 colonnine su quattro linee e porta sulle pareti tracce di affreschi.
La chiesa Parrocchiale fu edificata nel 1605 ma ha subito molti rifacimenti. I pilastri sono in pietra leccese, stuccati alla veneziana, mentre gli archi trionfali sono decorati con motivi floreali.
Di costruzione secentesca sono anche le chiese dell’Assunta e di S. Antonio, con annesso convento dei Domenicani.
Più interessante è la chiesa di S. Nicola, edificata nel IX-X sec. e nel 1587 restaurata ed adattata al rito latino, come ricordato dalla lapide posta sulla facciata.
Era di rito greco anche la chiesa di S. Eufemia, la cui abside è disposta verso oriente, secondo l’uso bizantino, perché da questo punto cardinale sorge il sole, simbolo della divinità di Cristo. La pianta è rettangolare mentre l’abside, costituita da blocchi regolari di pietra locale, ha forma poligonale. Su di essa si apre una grande bifora che illumina l’interno. La chiesa, databile fine IX-inizi X sec., è un brandello di medioevo che rivive in questo angolo di Salento.
Da vedere, infine, il frantoio ipogeo, recentemente restaurato, testimonianza storica dell’importanza per Specchia della produzione dell’olio.

La raccolta delle Angurie “Sargenischi” nel Salento leccese


di Antonio Bruno

Avevo 9 anni nel 1966 e frequentavo la IV elementare della Scuola “Michele Saponaro” di San Cesario di Lecce quando scrissi queste parole per il giornale parlato che il maestro Alberto Tangolo ci faceva fare parlando al microfono di un registratore “Geloso” a bobina:
Ecco,
se ne vanno,
tristi,
sono gli emigranti del mio paese…
e poi non ricordo che altro scrissi, ma al mio maestro, uno dei Magister che ha segnato la mia vita, socialista fino all’osso, ricordo che i miei versi di bambino compito, disciplinato e con il fiocco blu, piacquero molto.
Alla stazione delle Ferrovie del Sud Est di San Cesario di Lecce negli anni 60

Piccoli seminaristi crescono… (seconda parte)

Le azioni del giorno scandite da una campanella

di Alfredo Romano

Noi pivellini di 1a media dovemmo fare innanzitutto conoscenza delle regole che avrebbero governato la nuova vita. Se ne incaricò il rettore stesso, don Vincenzo Calcagnile, a delucidarci in merito: una campanella avrebbe scandito le nostre azioni quotidiane, dalla sveglia al sonno.

Nardò 1963. Foto di gruppo dei seminaristi del IV e V gennaio (coll. priv. Alfredo Romano)

Sopra ogni regola, il silenzio, sempre, eccettuati i momenti di ricreazione nel cortile. Inoltre, per muoversi da un posto all’altro dell’edificio, sempre in fila per due.

La campanella ci svegliava alle 5,30 del mattino: 20 minuti per lavarsi, vestirsi e rifare il letto in tutta fretta: quindi, in camicia bianca senza colletto, 20 minuti di ginnastica giù in cortile: d’inverno con i fari accesi e, in

Il Salento di Francesco/ Orchidee salentine 3

Anacamptis coriophora (L.) subsp. fragrans (ph. Francesco Lacarbonara)

Anacamptis coriophora (L.) subsp. fragrans: il nome Anacamptis viene fatto derivare dal verbo greco “anacámptein”; chi lo traduce con “incurvare, ripiegare” vede l’origine della parola nella forma dei tepali incurvati in alto, chi invece traduce con “piegare verso l’alto” attribuisce l’origine del nome Anacamptis alle due lamelle rialzate e piegate verticalmente alla base del labello in A. pyramidalis. Nel vecchio inquadramento al genere Anacamptis veniva assegnata una sola specie per l’Italia, per l’appunto l’A. pyramidlis (L.), ma in seguito alla riorganizzazione del genere Orchis, diversi taxa già assegnati a questo sono confluiti in Anacamptis, che comprende adesso una trentina di specie, tra cui l’A. coriophora (L.). Il nome specifico coriophora deriva dalle parole greche “kóris” (cimice) e “phéro” (porto), alla lettera quindi: “portatrice di cimici”, ma la pianta ha a che fare con le cimici solo per lo sgradevole odore dei fiori nell’entità tipo (nella vecchia nomenclatura era indicata anche con il sinonimo di Orchis cimicina (Crantz), it. Cimiciattola, Orchidea cimicina) diffusa in Europa centrale e orientale, zone basse della Regione alpina. In Italia la sottospecie tipo è presente al Nord, mentre nella penisola predomina la più xerofila subsp. fragrans (Pollini), i cui piccoli fiori, da verdastri a porporini, emanano un gradevole odore di vaniglia (da cui il nome). La subsp. coriophora ama i prati freschi e umidi e un suolo debolmente acido, mentre la nostra fragrans preferisce terreni basici, luoghi secchi, prati magri, cespuglieti, radure, margini di strade e sentieri. Fiorisce tra aprile e gli inizi di giugno ad altitudini comprese tra il livello del mare e i 1500 m circa.

Il profumo del tiglio selvatico

di Antonio Bruno

da http://www.legambiente-sudvarese.org/CassanoM/documenti/AlberiCassano/1.htm

Non capivo come mai a Berlino vi fosse un viale “Unter den Linden” (sotto i tigli) voluto da Federico Guglielmo I di Prussia piantati in questo viale nel 1647, e come mai ad Aosta ci sia un tiglio di 400 anni nella piazzetta adiacente alla cattedrale di S. Orso, albero che fu introdotto dai Burgundi sostituendo il faggio. Il tiglio di Sant’Orso è il simbolo della città di Aosta e di tutti gli alberi monumentali della regione. La storia di questo patriarca risale al 1530-1550; si narra infatti che questo albero fu messo a dimora per sostituire un altro monumento naturale: un olmo, vecchio di quasi 500 anni, che era stato distrutto dagli eventi atmosferici.

Non capivo perchè mai i Longobardi avessero piantato il famoso Tiglio di Cava dei Tirreni in provincia di Salerno. Si parla di un tiglio di Cava sotto la cui chioma il poeta Torquato Tasso avrebbe scritto mentre studiava alla Badia. L’albero si trovava nella frazione di S.Cesareo (nome molto simile alla mia adorata San Cesario di Lecce), alto 30 metri, con una circonferenza di 4 metri e mezzo con una chioma di 16 metri e mezzo; fu distrutto da una bomba nella seconda guerra mondiale e forse questa similitudine mi ha spinto a desiderare di poter avere un bel viale con i tigli proprio nel paese in cui vivo.
Poi il caso ha voluto che mi recassi il13 giugno 2010 a San Giovanni Rotondo http://www.comune.sangiovannirotondo.fg.it/ e proprio li il profumo di quella pianta mi ha stregato. Ovviamente a nessuno venga in mente di raccogliere parti della pianta lungo le strade urbane!

Del resto, proprio la capacità di vivere nelle città presuppone trattarsi di specie del genere Tilia, più versatili e frugali, quali il Tiglio americano (Tilia americana L.) e le numerose varietà ornamentali coltivate originarie del Nord America.

Michele Fiorentino mi mette in guardia perchè le varietà di tiglio spontanee sono Tilia cordata Miller noto col nome di Tiglio selvatico, albero di media statura con altezza fino a 25 m, e Tilia platyphyllos Scop. conosciuto, invece, come Tiglio nostrale o Tiglio nostrano, alto fino a 40 m.

Entrambi appartengono alla flora italiana; nel Gargano, però, si rinviene solo il secondo. I tigli sono tra gli alberi caducifogli più belli e più alti delle zone temperate. Il Tiglio selvatico è autoctono in tutta l’Europa e la Russia Occidentale, mentre il Tiglio nostrano viene dall’Europa Centrale e Meridionale.

In natura si ibridano frequentemente, dando origine al cosiddetto Tiglio intermedio o Tiglio comune (Tilia x vulgaris Hayne) con caratteristiche intermedie tra le specie originarie, diffuso nell’Italia centro-settentrionale. In tutte e tre le entità la corteccia è dapprima liscia e grigia, poi imbrunisce e si screpola in numerose placche.

Il legno del tiglio non è idoneo né per fare da combustibile né per la costruzione ma è molto apprezzato dai tornitori e dagli intagliatori. Il carbone di tiglio veniva impiegato per la fabbricazione della polvere da guerra. La corteccia interna è filamentosa e si usava per fare corde, stuoie o le scarpe che usavano i contadini russi. Nell’antichità i foglietti di corteccia di tiglio si usavano come il papiro per scriverci sopra.
E’ davvero un grande albero il tiglio, la sua corteccia è liscia, le foglie a forma di cuore e di un bel verde luccicante. Ma ciò che a san Giovanni Rotondo mi ha colpito di più sono i suoi fiori, il colore bianco giallastro raccolti in una infiorescenza e soprattutto il buonissimo profumo che emanano.
Quel profumo attira le api da cui si ha un miele molto apprezzato ed usato per medicinali e liquori.

Secondo Culpeper http://www.culpeper.co.uk/ i fiori sono un buon rimedio cefalico e nervino, eccellenti per l’apoplessia, epilessia, vertigini e palpitazioni cardiache. I fiori di Tiglio sono citati nella Farmacopea erboristica britannica, indicati per emicrania, isterismo, ipertensione arteriosclerotica e raffreddori febbrili.

Ripeto ciò che ha scritto Michele Fiorentino e cioè che dai Tigli che sono presenti nelle nostre città non possiamo prendere i fiori, essiccarli e pretendere di ottenere dall’infuso gli effetti di cui ho precedentemente riferito.

Bibliografia

Giovan Battista Pellegrini: Toponomastica italiana: 10000 nomi di città, paesi, frazioni, regioni
Gaius Plinius Secundus,Christophorus Landinus: Historia naturalis
Boris Biancheri: Il quinto esilio
Julia Lawless: Enciclopedia degli olii essenziali
Michele Fiorentino: TIGLI NOSTRANI (Tilia cordata Miller e Tilia platyphyllos Scop.)

Riflessioni filologiche su un toponimo neretino: Li Cinàte

di Armando Polito

 

La più antica testimonianza di questo toponimo risale, a quanto ne so, al 1427 [Angela Frascadore, Le pergamene del monastero di S. Chiara di Nardò (1292-1508), Società di storia patria per la Puglia, Bari, 1981: pg. 84: …item in feudo Cenate vinearum desertarum ortos septem…(…parimenti nel feudo della Cenata sette orti di vigne abbandonate…)]; la forma Cenata è confermata da un altro documento del 1443 [Angela Frascadore, op. cit., pg. 116: …in predictis casali et pheudo Cenate…(nei citati casale e feudo della Cenata)], da un altro del 1456 [Centonze-De Lorenzis-Caputo, Visite pastorali in diocesi di Nardò (1452-1501), Congedo editore, Galatina, 1988: pg. 158: Item in pheudo Cenate terrarum ortos due…(parimenti nel feudo

Il duomo della città di Taranto

di Raimondo Rodia

Il duomo della città di Taranto, dedicato a San Cataldo, fu edificato intorno al 1070 per volere dell’arcivescovo Dragone sulla vecchia cattedrale dedicata a Maria Santissima che nel 927 i saraceni avevano rasa al suolo unitamente a tutta la città.

La vecchia chiesa a sua volta era stata costruita , con una struttura modificata, al posto del tempio della Vittoria. Nel sottosuolo del duomo e più precisamente sotto l’abside sono stati ritrovati numerosi resti umani di epoche anteriori: ciò dimostra che quella parte dell’edificio era riservata a cimitero. Resti umani sono stati ritrovati anche nel sottosuolo degli edifici sorti intorno alla cattedrale e questo per il fatto che nella zona vi era stato il cimitero almeno fino all’editto napoleonico di Saint-Cloud del 1804 che aveva trasferito le sepolture fuori dalle mura.

Di recente, durante gli scavi che si stanno operando sono state scoperte due colonne che potrebbero appartenere alla preesistente chiesa di Maria Santissima che, come detto, era stata distrutta dai saraceni.

L’edificio, nel corso dei secoli, è stato rimaneggiato più volte in particolare nel 1596 e nel 1657 a causa di un incendio. La facciata conserva eleganti forme barocche, apportate da Mauro Manieri nel 1713. Alto il tamburo della cupola quasi bizantineggiante con un campanile che risale probabilmente al 1413 rifatto completamente da recenti restauri.

L’interno preceduto da un vestibolo quattrocentesco dove a sinistra si accede al battistero con fonte battesimale che consiste in una vasca monolitica bizantina rimaneggiata in epoca barocca sormontata da un baldacchino, formato da elementi medioevali ricomposti nel XVI secolo su colonne anticamente appartenenti al altare maggiore.

La chiesa si presenta a pianta basilicale a tre navate divise da sedici colonne di marmi policromi con capitelli bizantini e romanici, le navate laterali hanno il tetto a travi scoperte mentre il pavimento conserva parte dell’originario mosaico a grosse tessere, il transetto voltato a botte, da cui si eleva la cupola rifatta nel 1657.

Sull’altare maggiore c’è il ciborio risalente al 1653 e poggiante su quattro colonne di colore giallo antico.

A destra dell’abside si apre la ricca cappella di San Cataldo (detta anche del Cappellone) i cui lavori di rifacimento iniziarono nel 1657 e si protrassero fino all’inizio del XIX secolo in forme riccamente barocche. La cappella è chiusa da una ricca cancellata di ferro e bronzo.

Nel duomo vi sono un vestibolo quadrato ed una cappella ellittica coperta da una cupola affrescata da Paolo De Matteis nel 1713 con la “Glorificazione di San Cataldo”; nel tamburo sono affrescate sette storie della vita del Santo.

All’interno della cappella un ricco altare adornato da uno stupendo paliotto a tarsie marmoree, custodisce le reliquie di San Cataldo morto a Taranto nel VII secolo. Una statua in argento raffigurante il Santo durante le celebrazioni solenni viene illuminata da preziosi candelieri in corallo.

In fondo alla navata di sinistra della cattedrale si apre come fosse un corpo aggiunto il cappellone del Santissimo Sacramento. La manutenzione della cappella è a cura della confraternita del Sacramento, presente in cattedrale dal maggio del lontano 1540.

Attraverso una scala posta dinanzi all’Altare maggiore si accede alla cripta che si presenta a grandi arcate con volte a crociera a sesto rialzato rette da basse e tozze colonne. Nella penombra della cripta è possibile ammirare un sarcofago cristiano e mentre sulle pareti sono visibili i resti di affreschi bizantineggianti. Sovrapposta ad un affresco emerge una bella raffigurazione di San Cataldo dipinta forse nel XI secolo che rappresenta il santo vestito da vescovo che indossa un manto rosso ricoperto dal pallium crociato con al dito splendente l’anello vescovile.

Nel duomo è custodito un interessante tesoro: una crocetta aurea trovata nell’arca di San Cataldo attribuita al VII secolo, un bel crocifisso medioevale in avorio, un evangelario in pergamena, alcuni candelieri a croce in rame dorata e coralli rossi forse di fattura siciliana del XVII secolo nonché diversi reliquari.

Dallo ‘ntartièni alla playstation

di Armando Polito

 

Mi rendo conto che la definizione sintetica di intrattenimento attribuita a ‘ntartièni è parziale, generica, inesatta. D’altra parte, raramente si può condensare il significato di una parola in uno scarno sinonimo (in poesia, addirittura, saremmo bravi quanto lo stesso poeta) e la stessa definizione è, in un certo senso, un atto necessario di violenza che critici e interpreti, tuttavia, quotidianamente commettono, quando sono in buona fede, per fini divulgativi. Mi accingo, perciò anch’io ad un atto di violenza per giustificare l’autocritica iniziale.

La voce ‘ntartièni era usata in passato per tenere impegnato un bambino (in realtà, per toglierselo momentaneamente dalle scatole e scaricarlo su un altro membro della famiglia), in espressioni del tipo: và ddha llu nonnu e ffatte tare ‘nu picchi ti ‘ntartièni!=và dal nonno e fatti dare un po’ di intrattieni!

‘Ntartieni evocava alla candida ingenuità del  bambino (ingenuità che, col tempo, pur meno candida, veniva utilitaristicamente mantenuta per l’effetto in qualche modo gratificante della voce in questione) qualcosa di misterioso  che non assumeva mai  corpo e che poteva essere utilizzato all’infinito in questa sorta di gioco in cui il bambino diventava complice, coprotagonista e non più parte passiva.

Mi pare già di sentire qualche educatore moderno che, sulla scorta di altrettanto moderne notazioni psicologiche, lancia fulmini contro lo ‘ntartieni mettendo in campo paroloni come inganno, imbroglio, abuso della credulità infantile e simili.

Ribatto dicendo solo che la mia generazione, pur tra favole, Befana, ‘ntartièni, repressione sessuale e spauracchi vari di cui, magari, parlerò in altra occasione, anzi, grazie a loro, ha conservato ancora la capacità (dicono tutta umana…) di stupirsi e sognare, di tenere i piedi per terra senza rinunciare per questo ai voli della fantasia e dello spirito in un’epoca in cui contano da un lato solo l’apparenza, l’immagine, dall’altro il risultato immediato e apparentemente concreto, cioè superficiale e ingannevole…con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.

E al bambino dei nostri giorni, non potendo essere “scaricato” con lo ‘ntartieni anche perché il nonno o è morto (per forza, se adesso ci si sposa a quaranta anni e si decide di avere il primo figlio a cinquanta!) o è all’ospizio, vengono propinate dosi massiccie di attività per valorizzare, secondo le aspettative dei genitori suggestionati in un loop infernale dai valori televisivamente trasmessi, fantomatici talenti o, peggio, somministrate lunghe sedute di cartoons o di playstation, che lo rincoglioniranno prima del tempo, stimolando in lui comportamenti emulativi pericolosi per sé e per la società, in attesa che la scuola rinormata e riformata prima e l’ultima serie del Grande fratello poi completino l’opera…

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1 La voce non esiste nel vocabolario italiano, ma sfido chiunque a trovarne una più vicina formalmente e semanticamente a qiella dialettale; d’altra parte, ci scandalizziamo di fronte a nessi del tipo usa e getta, tira e molla, mordi e fuggi, gratta e vinci e simili?

La frisella… mistero risolto!

di Armando Polito

Accolgo l’invito fattomi dall’amico Marcello nel suo recente post dedicato alla frisèddha e chiedo scusa se, per motivi di spazio, per rispondere non mi avvarrò della casella allo scopo destinata ma lo farò attraverso questo post e se, almeno all’inizio, mi attarderò su qualche voce connessa, prima di affrontare la questione etimologica della voce in questione.

La frisèddha, prodotto tipicamente meridionale, è un pane di piccole dimensioni confezionato (una volta solo in casa) esclusivamente con farina di grano duro o di orzo o entrambe (oggi sovente mescolate l’una e l’altra con quella di grano tenero), impastata con acqua, lievito e sale in forme circolari che subiscono una prima cottura nel forno a legna (oggi, solo a livello artigianale); estratta, la còcchia1 (in italiano coppia, e subito si capirà il perchè) viene tagliata a metà trasversalmente con un filo e le due parti vengono cotte una seconda volta (mpiscuttàte, in italiano biscottate) a forno tiepido.

La trascrizione italiana della voce (presente, però, fino a qualche anno fa solo nei dizionari gastronomici) è frisella o frisa; quest’ultima variante è nata dalla prima che, pure, sembra il suo diminutivo, ma nella realtà gli ingredienti, le dimensioni, il metodo di cottura, le modalità di consumo di entrambe coincidono perfettamente: il mistero sarà svelato tra poco. Frisella, poi, è madre non solo di frisa, ma anche dell’ulteriore diminutivo frisellina (in questo caso con riferimento alle dimensioni più ridotte dettate da moderne esigenze di marketing e non solo…).

Riprendiamo il mistero lasciato in sospeso all’inizio: frisa che nasce da frisella, contro ogni regola grammaticale che vorrebbe il derivato originato dal primitivo. Vedremo quant’è vero, anche in questo caso, che l’eccezione conferma la regola. Procediamo con ordine.

Se frisèlla è trascrizione di frisèddha (foneticamente più di quanto non lo sia rispetto alla sua variante napoletana fresèlla) significa che essa è nata dopo. E frisa? La voce compare in due espressioni differenti appartenenti al dialetto di due regioni geografivamente relativamente vicine tra loro rispetto alla distanza che separa entrambe dalla nostra terra:

a Torino: dame na frisa del to temp (dammi un po’ del tuo tempo); na frisa = mm. 0,18-1,9; a Udine: guarda che frisa!   (guarda che pezzo di ragazza!).

Dalle tre espressioni si deduce che frisa è usata nella prima nel senso di pezzo, nella seconda come range di misura, senza alcun riferimento (nemmeno traslato) alla gastronomia o ad altro (a differenza di quanto succede, secondo me, nella terza espressione e, come  vedremo, nel napoletano fresèlla in uso metaforico). E’ evidente, comunque, che frisa qui deriva dal latino fresa(m) [o fressa(m)], participio passato femminile di frèndere=digrignare i denti; triturare. E’ altrettanto evidente che dalla stessa voce latina deriva, con aggiunta del suffisso diminutivo –èddha [(corrispondente all’italiano –èlla, dal latino -ella(m)] la nostra frisèddha3.

Ciò, a mio parere,  sembra confermato da voci simili che si incontrano in altri dialetti: per esempio, in Sardegna, il logudorese e campidanese fresa che indica un particolare tipo di pane duro di forma molto appiattita e con la crosta molto screpolata [l’atto del dividere la pasta in pezzi rotondi è detto (a)frèsare in logudorese e frèsai in campidanese, dialetto in cui i pezzi così ottenuti sono chiamati fresas], nonché un particolare tipo di formaggio di forma piatta e rotonda, che nel territorio del Gennargentu si chiama anche paneddha per la somiglianza con il pane denominato con lo stesso vocabolo.

Dà, oltretutto,  sicurezza a questa etimologia l’indiscussa autorità del Rohlfs, il quale, però, forse perché troppo ovvio, non specifica l’eventuale riferimento o alla materia prima (il grano macinato, il che sarebbe troppo banale nella sua genericità perché riguarderebbe una fase di vita comune a tutte le varietà di pane) o, piuttosto, al fatto che per consumare il prodotto  senza bagnarlo bisogna prima frantumarlo in piccoli pezzi.

In conclusione, la voce settentrionale frisa ha la stessa etimologia di frisèddha e il frisa che oggi compare sulle  etichette, se  non è  voce  settentrionale, è  da  considerare  una particolare forma di ipercorrettismo (probabilmente di natura commerciale) che ha portato alla nascita (etimologicamente corretta), meglio alla rinascita con slittamento semantico, di frisa dal suo alterato frisèddha.

La proposta etimologica avanzata trova, oltretutto, una suggestiva conferma nell’uso metaforico di fresella nel dialetto napoletano come sinonimo di mazzata, ma anche di vulva (Chella guagliona teneva sotto na fresella….); in particolare, il secondo nesso ricorda la frisa udinese di cui si è parlato prima.

Una prova, infine, della suggestione che la voce ha continuato ad esercitare in tempi moderni in zone diverse da quella di origine è data, per esempio, dalla fondazione nel 1976 a Firenze della compagnia teatrale (di livello internazionale) Pupi e Fresedde ad opera di Angelo Savelli, gruppo che, non a caso, negli spettacoli della sua prima fase [La terra del rimorso (non è casuale l’omonimia col titolo dello studio di Ernesto De Martino sul tarantismo uscito nel 1961), Sulla via di San Michele] coniugava folklore meridionale ed antropologia, mondo contadino e psicanalisi, facendo della musica, del canto, della danza, del dialetto, del rapporto con la cultura meridionale gli ingredienti privilegiati della sua poetica; tuttavia, bisogna aggiungere che il nome venne assunto come una sorta di traduzione di quello della famosa compagnia americana Bread and Puppet (Pane e Burattini) con cui il gruppo agli albori della sua attività aveva prodotto La ballata dei 14 giorni di Masaniello di Peter Schumann, replicata poi in Italia.

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1 Còcchia (in italiano coppia) è dal latino còpula=corda, laccio, catena, legame, da con– (da cum=insieme) e àpere=attaccare, attraverso la trafila còpula>copla (sincope di –u-), passaggio –pl->chi e raddoppiamento espressivo di -c-.

2 Il diminutivo, lungi qui dall’assumere qualsiasi riferimento più o meno pietistico ad una situazione di limitatezza, senso della misura, povertà o, addirittura, bisogno, è, al contrario, specchio del consumismo, cioè dell’opulenza e, paradossalmente, dello scarso sentimento della misura. In passato, infatti, la frisèddha costituiva per la maggior parte dei contadini (e non solo per motivi di praticità,)  la colazione, il pranzo e forse anche la cena: poteva chi se ne nutriva, pensare alla vezzosa frisellina? Non gli avrebbe fatto nemmeno il solletico…

3 Mi pare meno praticabile, per questo, l’ipotesi, per prima venutami in mente, che derivi dal francese fraise, forse dall’antico francese fraiser=pieghettare, oppure dalla voce di origine francese frisé (acconciatura con capelli leggermente crespi), participio passato di friser=arricciare (questa voce, secondo me, è connessa con la prima), con riferimento alla sua superficie increspata, rugosa che caratterizza una delle sue facce.  Che poi la prima o emtrambe le voci francesi siano connesse con la voce latina fresa (per increspare o arricciare bisogna pur sempre passare da un segno continuo ad uno spezzato) è un’altra questione che, se risolta, insieme  con il mancato influsso della pronuncia francese  sulle due voci settentrionali riportate, darebbe ulteriore credito alla mia proposta etimologica conclusiva.

Altrettanto impraticabile mi pare l’altra ipotesi, pure venutami in mente,  che derivi da fritìlla (variante poco credibile della fitilla, specie di focaccia votiva] che, tutt’al più, può aver dato vita al medioevale fritèlla che (Du Cange,  Glossarium ad scriptores mediae et infimae latinitatis, Zunner, Francoforte, 1710, pg. 607)significherebbe tipo di focaccia fatta a Cartagine o crosta del pane e che potrebbe essere collegata, secondo me, ad un precedente *friatìlla, dal classico friàre=sminuzzare (evidente parente del già citato frèndere].

Per completare il quadro cito anche altre proposte secondo me ancora meno accettabili:

a)dal salentino frisìllu (nastro decorativo) che ha il suo corrispondente italiano parzialmente formale in friso (negli scafi in legno il corso più alto e robusto del fasciame esterno), forma veneziana del toscano fregio, che è dal latino tardo Phrýgiu(m) (opus)=(lavoro) frigio, da Phryges, dal greco Friùghes, nome degli abitanti della Frigia, regione dell’Asia Minore;  non credo che l’aspetto certamente decorativo della frisèddha sia sufficiente a giustificare questa etimologia né l’altra, sempre legata alla Frigia, che, in un percorso etimologico secondo me farneticante, sostiene che sarebbe stato Enea ad introdurre nel Salento la friseddha in occasione del suo sbarco a Porto Badisco;

b) da fresa, proposta che mi pare insostenibile per evidenti motivi cronologici;

c) dallo spagnolo frisoles=fagioli; bisognerebbe supporre che la pratica di inzuppare la frisèddha nell’acqua di cottura dei fagioli fosse in passato la più diffusa, tanto da trasferire  il nome dei fagioli alla galletta.

 

La pittura sacra nella diocesi di Lecce dal Concilio di Trento all’inizio del XVIII secolo

La nostra amica e collaboratrice Valentina Antonucci ha conseguito nei giorni scorsi, con il massimo dei voti, il dottorato di ricerca in Storia dell’Arte Meridionale tra Medioevo ed Età Moderna nei rapporti col Mediterraneo Orientale ed Occidentale, presso l’Università degli Studi del Salento, Facoltà di Beni Culturali – Dipartimento dei Beni delle Arti e della Storia, discutendo la tesi “La pittura sacra nella Diocesi di Lecce dal Concilio di Trento agli inizi del XVIII secolo”.

Ci ha fatto dono dell’abstract del suo pregevole lavoro, che volentieri pubblichiamo sul nostro spazio, e gioendo con lei per l’ambita meta, formuliamo vivissimi auguri.

ph. Valentina Antonucci

La pittura sacra nella diocesi di Lecce dal Concilio di Trento all’inizio del XVIII secolo

di Valentina Antonucci

Partendo da una ricognizione sistematica dei dipinti a tutt’oggi esistenti negli edifici sacri della diocesi (considerando anche quelli musealizzati, ma di documentata provenienza ecclesiastica diocesana), il presente studio ricostruisce il panorama della pittura sacra a destinazione pubblica nell’ambito storico-topografico della città sede vescovile e del suo territorio ecclesiastico tra gli anni che seguono la chiusura del Concilio di Trento e il primo decennio del XVIII secolo, scegliendo come criteri d’indagine e come descrittori della situazione studiata: il ruolo della committenza, le figure artistiche e le tendenze pittoriche emergenti, la ricorrenza di temi, soggetti e iconografie nonché la loro corrispondenza con le istanze della Chiesa controriformata.

Ampio spazio viene dedicato, in sede introduttiva, al problema della dispersione degli arredi mobili negli ultimi due secoli, fenomeno che, durante la campagna di ricognizione sul territorio, lavorando in parallelo con l’indagine documentaria, la dott.ssa Antonucci ha potuto registrare in tutta la sua gravità, descrivendone le origini storiche e le diverse cause che si sono sovrapposte nel corso del tempo fino ad oggi.

I tre capitoli del testo sono dedicati allo studio delle diverse componenti della committenza, alla definizione di un profilo delle personalità e delle tendenze artistiche emergenti, all’analisi dei filoni tematici e iconografici che risultano nettamente prevalenti quanto a ricorrenza, sia in senso sincronico che in senso diacronico.

Due volumi di Catalogo corredano il testo: in essi sono state raccolte le immagini, appositamente realizzate per la presente ricerca, di circa duecentocinquanta opere appartenenti al patrimonio di pittura sacra della diocesi di Lecce risalenti al periodo tra la metà del XVI e il primo decennio del XVIII sec.

Ogni opera è stata schedata in modo dettagliato, con l’indicazione di soggetto, autore, epoca, tecnica, dimensioni, stato di conservazione, nonché con una relazione storico-critica e la bibliografia di riferimento. 

Piccole storie italiane: scarpe da riparare

ciabattino salentino (ph M. Gaballo)

di Rocco Boccadamo

Questa mini vicenda ruota intorno a tre paia di calzature, il che parrebbe uno strano esordio espositivo, ma evidenzia, in pari tempo, tre volti, assai diversi fra loro, del nostro Paese.

Si immagini una famiglia italiana, logisticamente non compatta, bensì caratterizzata, come succede di frequente il giorno d’oggi, da ramificazioni di residenze per i suoi componenti: nel caso in specie, Milano, Monza, Monaco e Lecce.

Di tale nucleo, fa parte una giovane donna, diciamo «in carriera», la quale vive e lavora abitualmente nel capoluogo della Baviera, ma ha pure modo di viaggiare e di muoversi. In occasione di una visita resale dalla madre, dimorante invece a Lecce, ecco (del resto è un classico) che nel mini appartamento spuntano fuori tre paia di scarpe, ancora buone ma leggermente ammalorate, nel senso che hanno tutte bisogno di nuovi soprattacchi.

Primo contatto con un calzolaio a Milano, corrispettivo richiesto € 18 per paio, cifra che sembra subito esosa: viene, comunque, fatta eseguire la riparazione di una coppia di calzature. Spostatasi, di lì a qualche giorno, a Monza per trovare un altro figlio, la paziente genitrice contatta un ciabattino del posto, sperimentato da molti anni, il quale si dimostra più «economico» domandando appena € 13 per il secondo paio di scarpe che provvede a rimettere a posto. Rientrata infine nel Salento, l’amorevole mamma (sempre con scarpe appresso) passa a completare l’opera e, in questo ultimo caso, trova un trattamento che definire «provvidenziale» è poco: il calzolaio di Lecce, a fronte di un lavoro addirittura meglio rifinito dei precedenti, esige in pagamento, sentite un po’, € 7.
A prescindere dall’esempio circoscritto e dalle sue modeste dimensioni in termini monetari, non vi sembra una fotografia emblematica delle contraddizioni e degli incomprensibili contrasti esistenti in Italia?

E, per favore, lasciamo stare le solite, fumose e dolciastre argomentazioni del genere «lì (Milano e dintorni) i fitti sono più alti, la manodopera costa una cifra, eccetera»! Nella situazione presentata, vera e concreta, si stagliano, nel ruolo di protagonisti, tre puri e semplici artigiani, tre ciabattini; però, con la differenza che, operando una trasposizione da stadio calcistico, in due casi ci troviamo nel settore tribuna d’onore o centrale, nel restante siamo, in piedi, in area curva scoperta. Ma come è possibile? Con discriminazioni del genere non si va proprio da nessuna parte. Giacché, ai distratti, e agli stessi artigiani protagonisti, va ricordato che l’utenza di un calzolaio è costituita, non marginalmente, da dipendenti statali, insegnanti, poliziotti, finanzieri, carabinieri, altri militari, ferrovieri, bancari, pensionati, cioè da milioni di persone che percepiscono introiti sempre identici, qualunque sia la località dove lavorino o prestino servizio. Mentre, al contrario, per rimettere i soprattacchi ad un paio di scarpe, a seconda che ciò avvenga a Milano oppure a Lecce, è un po’ come scalare una cima oppure compiere una breve passeggiata.

La vendemmia negli anni ’50 nel Salento meridionale

di Luigi Cataldi

I meccanismi della memoria sono veramente straordinari: eppure oggi dovrebbe essere meno difficile di ieri (lo “ieri” degli anni ’60-’70) trovare risposta ad alcuni interrogativi, legati alla cosiddetta memoria a lungo termine: come possa nella mente di una persona anziana, farsi innanzi un ricordo di quasi sessanta anni prima, vivido ed attuale come se l’evento fosse avvenuto pochi giorni o poche ore prima.

Le immagini della vendemmia scorrono come in un documentario dei famosi film Luce che venivano proiettati al cinema prima dell’inizio del film, negli anni in cui questa era la modalità abituale, per la diffusione delle notizie di attualità, oltre la carta stampata.

Forse ciò è dovuto all’importanza che io medesimo, bambino di 7 anni, davo al mio ruolo in quelle occasioni. Esse ebbero inizio, ricordo perfettamente, nei primi anni cinquanta del secolo scorso: anzi, specificatamente, nel mese di settembre del 1952, e mi portano alla memoria ricordi chiarissimi ed amabili, che mi trasportano con dolcezza estrema a quei tempi relativamente lontani.

Avevo da poco compiuto 7 anni e ai primi di ottobre iniziava la scuola, frattanto in tutto il Salento, con variazioni di giorni comandate dall’andamento climatico, dalla permanenza del caldo secco, dal tasso di umidità, e non ultimo dalla possibilità di non previsti ma prevedibili cambiamenti dei tempi con l’arrivo delle piogge autunnali, si decideva, di solito con pochissimi giorni di anticipo, il giorno della vendemmia.

Bisognava ovviamente trovare disponibili almeno tre carri trainati da buoi o da muli, i nostri antichi “traìni” completi di trainiere, e poi gli “òmmeni e le fìmmene”, ma alla vendemmia, festa del raccolto, partecipavano spesso i bambini, che davano aiuto ai genitori, anche approfittando che la scuole erano ancora chiuse. Credo anzi, a questo proposito, che il tempo della vendemmia sia stato per molti anni concausa della persistenza, in tutto il Sud Italia, della data relativamente tardiva di riapertura delle scuole.

Se le mie tre vecchie zie “di Ugento” (così erano definite da tutti i nipoti), sorelle minori della mia nonna materna, che col matrimonio aveva seguito lo sposo a San Cesario, centro limitrofo a Lecce, dove si avviava a compiere gli 80 anni), se esse, le “signorine” Giannelli, come amavano definirsi e come erano note al paese, dovevano far si che tutto fosse pronto e organizzato per la vendemmia, fin nei minimi particolari (tramite un uomo di fiducia), in realtà era il mio zio “giovane”, nemmeno quarantenne, che correva da una parte all’altra con il motocarro, dal vigneto alla cantina sociale, al palmento di casa delle zie. E il motocarro costituiva il terzo mezzo, oltre ai due “traini”, anzi era in grado di trasportare, non solo due, ma tre botti colme di grappoli d’uva, era assai più veloce dei “traini”, e non necessitava della persona di “controllo”. E si! In effetti il ruolo di noi due fratelli e degli altri nipotini, tutti in età compresa tra 8 e 5 anni, ancora nell’età dell’innocenza, quando toccava a loro, era quello di accompagnare ogni traìno con due botti ciascuno colme di grappoli maturi, dalla vigna al palmento della Cantina Sociale cui doveva afferire il carico, evitando con la nostra innocente presenza, che l’intero carico di uva venisse afferito altrove. Solo una parte del raccolto, veniva, sul finire della vendemmia, avviato al palmento di famiglia, situato nella stessa proprietà delle zie, dove subiva tutti i processi di vinificazione e trasformato in un certa quantità di vino per il consumo delle nostre famiglie.

Noi bambini contribuivamo in qualche maniera a guardare gli interessi della famiglia. Così raccoglievamo, e, non senza qualche difficoltà, riempivamo i tradizionali (piccoli i nostri) panieri di canne tagliate sottili e intrecciate, che le vendemmiatrici ci aiutavano a colmare con solo pochi grappoli staccati da i “cippuni” con pochi sapienti colpi di cesoia.

I panieri venivano svuotati nei grandi e pesanti tini in legno che gli “òmmeni” portavano a spalle tra i filari di vite fino a raggiungere “lu traìnu”, o il motocarro dello zio a depositare nelle botti il preziosi grappoli.

Ricordo vagamente i racconti del “trainiere” durante il relativamente breve per corso dal vigneto alla cantina sociale, ma ciò che ricordo con particolare vivezza sono due cose: il rosario recitato tutte le sere affacciati al balconcino della nostra camera da letto a piano terra, con la partecipazione delle donne del vicinato che si portavano le sedie da casa; e il fatto che, dopo una frugale cena a base di verdure, un’insalata di pomodori e una fettina di formaggio locale, andavamo a dormire alle sette e mezzo (e pur non essendoci in quegli anni l’ora legale era ancora chiaro), in un gran letto di ferro battuto con le incrostazioni di madre perla sulla testata, e che pur essendo in tre, io, mio fratello e anche lo zio, nel lettone restava ancora tanto spazio.

Una volta poi, ero in costume da bagno e mi avevano abbondantemente lavato i piedi per pigiare tutti insieme l’uva appena arrivata dal vigneto di “Porchiano” (località non lontana dal santuario della Madonna della Luce risalente al 1576), quando mentre pigiavo sentii un dolore terribile sotto la pianta del piede destro, era veramente un dolore terribile… Una vespa trovandosi costretta tra il mio piede e il pavimento dolce e profumato fatto di chicchi e succo d’uva, per liberarsi mi aveva punto proprio sotto la pianta del piede, dove, dopo l’estrazione del pungiglione della povera vespa ormai condannata a morte, mi applicarono, seguendo il consiglio di una delle contadine presenti, uno spicchio di aglio allo scopo di lenire il dolore, ma ricordo che mi fece male per alcuni giorni.

Negli ultimi 50 anni i numerosi progressi tecnologici ci hanno certamente privato di momenti ricchi di umanità, e per lo più ci hanno gratificato con un apparente miglioramento della qualità della nostra vita… attenti all’inquinamento, cari amici e conterranei salentini.

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