I falsi prodotti alimentari italiani: l’imbroglione e l’imbrogliato

di Antonio Bruno
Era il 1969 quando un cantautore genovese profetizzava l’arrivo dei cinesi a milioni http://www.youtube.com/watch?v=Rc122rcx1_E e in quegli anni si andava alla ricerca della Cina perchè ritenuto il paese dell’uguaglianza dove il popolo aveva il potere e dove trionfava la giustizia sociale. Oggi la Cina è un paese che ha un tasso di sviluppo altissimo e che è uno dei maggiori esportatori di prodotti agroalimentari verso tutto il mondo e, quindi, anche verso l’Italia.
L’interscambio nel 2008 tra Italia e Cina vede l’Italia allo stesso tempo tra i principali clienti (import 23 mld Euro = 218mld Yen) e tra i maggiori fornitori della Cina: (export 6,4 mld Euro = 60,7mld Yen).
Secondo il Rapporto annuale WTO nel 2007 Import/export di merci nel mondo ha raggiunto il valore di 28.194 mld USA Dollari.
Si stima che la vendita di prodotti contraffatti rappresenti circa il 5-7% del commercio globale.
La contraffazione dei prodotto alimentari riguarda l’identità aziendale del prodotto con apposizione di un’etichetta falsa e l’ identità merceologica del prodotto (composizione o procedimento).

La falsificazione dell’origine geografica dei prodotti agroalimentari e delle bevande provoca ingenti danni economici ai produttori italiani e nel caso sia accompagnata anche da criminali interventi sulle loro identità merceologiche può provocare danni alla salute delle persone che consumano questi prodotti agroalimentari contraffatti.
Nel caso del pomodoro concentrato sono quasi triplicati (+174%) gli sbarchi nell’Unione Europea di concentrato triplo di pomodoro dalla Cina (gennaio-marzo 2010). E per di più con una forte riduzione dei prezzi industriali (-15%, con una punta di -30% rispetto a prodotti similari statunitensi) che trascina verso il basso il valore di tutti i derivati comunitari. In Cina operano 7 mastodontici impianti con tecnologia italiana.

Ma non c’è solo la Cina nella contraffazione stanno affiorando anche l’Africa e l’Albania da cui provengono tartufi scadenti e importati a prezzi stracciati ma poi rivenduti ai prezzi di quelli originali del Piemonte (famosa Alba per quello bianco) e da alcune zone del centro e del Sud tra cui la Salentina leccese Corigliano d’Otranto.

Dal Sud America e Sud Africa arrivano Arance e Limoni che attraverso ditte spagnole e olandesi diventano agrumi della CEE e poi con un vero e proprio miracolo si trasformano in Agrumi della Sicilia!
I funghi ormai arrivano tutti dall’Est Europeo e divengono italianissimi, venduti in ottobre vicino ai nostri boschi oramai privi di funghi italiani. Dall’Argentina, dall’Ungheria e dalla Cina arriva un prodotto di sintesi da riso o mais che somiglia moltissimo al miele e che viene venduto appunto come miele italianissimo!

Ci sono i cloni dell’olio, del parmigiano, del prosciutto, del caffè e del vino di marche importanti: la corte di giustizia europea vietò alla Danimarca di commercializzare il Danish Grana imitazione del Grana Padano e il Parmigiano Reggiano imitato dall’argentino “Reggianito” o dal “Parmisan italian type” fatto negli USA. Sempre la corte di giustizia europea vietò in Austria ad una ditta di chiamare il suo prodotto “Cambozola”perchè imitava il Gorgonzola.

Come difendersi? A Salerno l’Università ha istituito il Centro Studi sul Falso, una struttura attraverso la quale alcuni docenti e ricercatori dell’Ateneo, appartenenti ad aree scientifiche molto diverse tra loro (sociologi, antropologi, psicologi, archeologi, storici dell’arte, giuristi, merceologi, economisti e studiosi di discipline letterarie), hanno intrapreso una riflessione in comune attorno alle tematiche della falsificazione e da questa esperienza è nato un Museo che si chiama appunto: il museo del falso.
I principi dell’imbroglio. Gli eroi dell’inganno. I grandi artisti della frode. I verbali di polizia sono pieni: ogni anno migliaia di persone cadono nelle sottili reti tese da abili giocolieri della parola.

Ma cosa significa Falso? E’ notizia o affermazione logica che non corrisponde alla realtà, in contrapposizione con vero e per estensione indica ciò che non appare come è, qualcosa che è stato alterato o contraffatto, colui che manca di sincerità. I falsi prodotti italiani sono prodotti che appaiono italiani, ma non lo sono! Ma l’imbroglio si fa in due: l’imbroglione e l’imbrogliato. Ma si sa che l’imbrogliato è un imbroglione che si è fatto imbrogliare! Basta prendere le giuste decisioni e allora la frode diviene quasi impossibile.

La nostra vulnerabilità è strettamente collegata alla perdita del collegamento tra prodotto e luoghi in cui matura, viene preparato e confezionato per poi poter essere consumato. A ogni frutto corrisponde un albero o una pianta sulla quale è cresciuto. E tu, si dico proprio a te, sai qual’è l’albero che ha prodotto la mela che hai mangiato ieri? Conosci la pianta da cui è stato raccolto il pomodoro che poi è diventato la passata da cui ricavi il sugo per la tua pasta? Sai quel grano da cui è stata ricavata la farina della tua pasta e da quale campo è stato raccolto? E’ cambiato tutto e abbiamo affidato la nostra vita nelle mani di pochi sconosciuti. E si sa che chi non ti conosce ha meno problemi a rifilarti una fregatura! Non basta affidarsi alla legge, ai Nuclei anti sofisticazione all’autorità. C’è necessità di prevenire!

L’Ordine Nazionale dei Dottori Agronomie Forestali ha da poco istituito un dipartimento che dedica la propria attività alla sicurezza alimentare e alla tutela dei consumatori. I Dottori Agronomi e i Dottori Forestali del Salento leccese danno un eguale di attenzione ai consumatori del Salento leccese e vogliono partecipare a tutti i cittadini la figura professionale di Dottore Agronomo e del Dottore Forestale quale soggetto competente nella gestione delle azioni che coinvolgono l’intera filiera agroalimentare.

Abbiamo la fortuna di avere ancora un territorio con un tipo di agricoltura non intensiva ed a basso utilizzo di pesticidi, e questo fa del Salento leccese una delle aree più vocate per fornire al mercato ed ai consumatori un prodotto di grande genuinità e salubrità.
Le esperienze di accorciamento della filiera produttore consumatore attraverso la costituzione di Gruppi di Acquisto Solidale (GAS) che abbiano rapporti solo con i Dottori Agronomi e i Dottori Forestali consulenti delle aziende del Salento leccese che “mettono la faccia” garantendo il prodotto è una delle soluzioni che sicuramente mettono al riparo da frodi alimentari.
In tal modo si risolve anche quello che viene definito il “problema strutturale” dell’agricoltura del Salento leccese ovvero la circostanza che le aziende, per la stragrande maggioranza ,sono inferiori a un ettaro: i piccoli produttori agricoli attraverso la garanzia dei Dottori Agronomi e i Dottori Forestali del Salento leccese possono offrire ai Gas i loro prodotti di qualità.

Voglio concludere con Dante che nella Divina Commedia ha messo i truffatori nell’inferno più profondo , sotto alle prostitute e ai violenti e con San Tommaso che considerava il raggiro e la frode i frutti intossicati dell’intelligenza e della natura angelica dell’uomo, e perciò più gravi e condannabili. Noi Dottori Agronomi e i Dottori Forestali del Salento leccese consci di tutto questo smascheriamo i truffatori e gli imbroglioni che spacciano gli alimenti per ciò che non sono e lo facciamo proponendovi di farvi nutrire dalla bontà e dalla prelibatezza dei prodotti tipici garantiti da noi e provenienti delle migliaia di aziende di questa penisola immersa nel Grande lago salato.
Bibliografia
Salvatore Casillo, Il falso è servito. La falsificazione del nostro cibo quotidiano, Liguori Editore, 2001, pp. 96-97
ICE – Ministero per lo sviluppo Economico: Il DESK ITALIANO A TUTELA DELLA PROPRIETA’ INTELLETTUALE presso ICE Canton
La Nazione On Line 09-07-2001
Alla ricerca del tartufo del Salento http://www.thepuglia.com/2010/04/alla-ricerca-del-tartufo-del-salento/
Roberto Mattei: Allarme per l’import di pomodoro cinese 23/2010 • L’Informatore Agrario
Salvatore Casillo: IL MUSEO DEL FALSO GLI INGANNI “SMONTATI” Quando la ricerca scientifica sperimenta nuove forme di divulgazione
Antonio Bruno: Tu sei ciò che mangi e se è sano e genuino ciò che mangi sei sano e genuino pure tu!http://centrostudiagronomi.blogspot.com/2010/02/tu-sei-cio-che-mangi-e-se-e-sano-e.html
Antonio Bruno: Una filiera corta, anzi, cortissima… salentina!http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/06/07/una-filiera-corta-anzi-cortissima-salentina/

Muretti a secco, ecco le indicazioni tecniche per gli interventi di ripristino

Con la deliberazione n° 1554/2010 la Giunta regionale pugliese ha approvato le indicazioni tecniche per gli interventi di ripristino dei muretti a secco nelle aree naturali protette e nei Siti Natura 2000 in relazione al bando per i contributi previsti dall’azione 1, misura 216 del Programma di Sviluppo Rurale 2007-2013.

La delibera è stata pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione Puglia – n. 120 del 14-07-2010, il cui link è riportato in calce a questa nota.

Tra le motivazioni, che stralciamo dalla delibera in oggetto, ci piace riportare le seguenti:

CONSIDERATA l’importanza dei muretti a secco dal punto di vista della conservazione della natura e la loro importanza sotto l’aspetto idrogeologico, nel mantenimento delle connessioni biotiche
e nell’aumento della biodiversità;

CONSIDERATO che tali interventi sono assimilabili a quelli necessari al mantenimento in uno stato di conservazione soddisfacente delle specie e degli habitat presenti nel sito;

CONSIDERATO che l’art. 5, lett. c del bando pubblicato sul BURP n. 71 del 4-05-2009 prevede che il beneficiario del finanziamento dell’intervento
si impegna a “rispettare l’originale tipologia costruttiva del muretto a secco senza apportare elementi estranei come reti, malta cementizia, ecc.”.

http://www.regione.puglia.it/web/files/agricoltura/indicazionimuretti1554_2010.pdf

Il tesoro degli aragonesi: somiglianze tra la lingua catalana e la lingua salentina

 

Barcellona, Monumento de Colón immortala la statua dedicata a Cristoforo Colombo che si trova alla fine delle famose Ramblas, poco prima del porto

 

di Damiano Rotondo

Una bandiera sventola nella Plaça de Sant Jaume, dal palazzo di origine medievale che è oggi conosciuto come Palau de la Generalitat, sede della presidenza della Catalunya. Sullo sfondo color dorato son disegnate quattro bande di un vivido color rosso.

Una delle leggende sull’origine della “Senyera”, una delle bandiere più antiche d’Europa e forse la prima ad essere usata come bandiera di uno stato, afferma che, ai tempi dell’assedio di Barcellona da parte dei mori (IX secolo), il re Carlo il Calvo tracciò con le sue dita insanguinate quattro righe sullo scudo dorato del moribondo Goffredo il Villoso, conte di Barcellona e considerato fondatore della nazione catalana. Qualunque sia la vera origine e la datazione della Senyera (la leggenda è falsa in quanto contiene un anacronismo: Carlo il Calvo morì 20 anni prima di Goffredo il Villoso), venne adottata dai sovrani della corona d’Aragona ed utilizzata nei territori da loro conquistati. Un delfino guizzante fu aggiunto per formare lo stemma della circoscrizione della Terra d’Otranto, al quale venne messa in bocca una mezzaluna quando Alfonso d’Aragona fu protagonista di una nuova vittoria contro gli invasori islamici, in questo caso di etnia turca, nel 1481.

Bari, piazza A. Moro, stemma della provincia di Lecce (ph M. Gaballo)

Quello stemma, leggermente modificato, è usato ancor oggi, a più di mezzo millennio di distanza dalla vittoria degli aragonesi, come stemma della provincia di Lecce.

Il dominio aragonese non ha lasciato traccia di sè solamente nell’araldica

L’alimentazione nel Seminario di Nardò 1960-1965

di Alfredo Romano

Cinquanta anni fa, nella maggior parte delle famiglie del Salento, la gran parte del salario veniva speso per l’alimentazione. La carne si mangiava raramente, ma la cucina semplice delle nostre mamme, che si basava essenzialmente su verdura e legumi, la cosiddetta cucina mediterranea allora considerata povera, oggi la paghi cara al ristorante. Si era poveri, ma una pignatta te fave nette cu le cicore creste era pur sempre un gran piatto, anche se non lo sapevamo, per non dire che un bicchiere di rosato a tavola non mancava mai.

L’ingresso in Seminario cambiò radicalmente il nostro modo di mangiare. Ce ne accorgemmo fin da subito che potevamo dire addio alla cucina delle nostre mamme: una frisa, pane,  vino e zucchero, quei pansarotti caddi caddi, ‘na frittura te pupiddhi
Il refettorio era situato al piano terra, vi si accedeva dal cortile. Il secondo giorno, a cena, ci servirono una minestra te gnòcculi (oggi tubettini!). Il mio compagno di classe Rocco non immaginava quanto gli sarebbe costata cara quella minestra. Rocco era il nostro gigante, altissimo per la sua età, non 11, ma 16 anni gli avresti dato. Siccome in tanti non riuscivamo a mandare giù quella specie di brodaglia dal sapore di pesce nauseabondo, alcuni di noi candidamente alzammo il dito indice per attirare l’attenzione del superiore e dirgli candidamente che non riuscivamo a mandar giù quella roba. Il superiore si avvicinò dapprima a Rocco e gli intimò di mangiare senza tante storie, al che Rocco fece un gesto con la mano, quasi a dire “e come faccio!”, ma il superiore, con la coda dell’occhio, s’avvide del gesto, si voltò di scatto e gli mollò un ceffone memorabile intimandogli di uscire dal refettorio. Dopodiché, siccome anch’io ero uno di quelli che aveva alzato l’indice della

Il tormentone estivo. Grande Salento o Regione Salento?

di Gianni Ferraris

Il tormentone estivo è partito. Si chiama “Regione Salento”. Da  straniero,  cerco di essere il più possibile attento a cotanto dibattere. Cerco di comprendere. Da molto nord arrivano voci che parlano di  “autonomia”, che dicono: “padroni a casa nostra” e simili sciocchezze che hanno come scopo, negli intenti dei maggiori sostenitori di questa nefandezza,  la marginalizzazione ulteriore delle zone svantaggiate dell’Italia, spacciando il tutto con il nome altisonante di “federalismo”. Sentir parlare  di una nuova regione, mi rende perplesso e titubante. Anche perché sento rivendicazioni di autonomia da quello che, con un neologismo incredibilmente osceno, si chiama “baricentrismo”.  Pensare che, in fisica,  il baricentro ha una funzione insostituibile per gli equilibri, giusto per fare un esercizio lessicale.

“Noi siamo differenti dal resto della Puglia” o delle Puglie, come studiavo alle elementari. Questo si dice per giustificare la scelta di spaccare in due una regione che è, si, lunga all’eccesso, ma la cui divisione rischia di creare due  povertà e raddoppiare i problemi,  piuttosto che creare nuove opportunità.

E poi, diciamola tutta, dalla politica di questi giorni, ogni cambiamento sembra portare verso il peggio. Si sono succeduti governi, di ogni indirizzo politico, che avevano fra i punti del programma l’abolizione delle province, inutili carrozzoni che gestiscono denaro e pacchetti di voti. Nulla si è mosso in questo senso, soprattutto per l’opposizione di partiti localisti che pochissimo hanno da spartire con l’unità nazionale e con il buon senso. E le

Lontani ricordi di una maestrina a Gallipoli

 

La signorina Bracci: la mia Maestra delle elementari

di Luigi Cataldi

Erano i primi anni ’50, forse i primi giorni di ottobre del 1952, io avevo da poco compiuto i sette anni, e  di lì a poco saremmo tornati a scuola, nella classe terza elementare, quella della temutissima signorina Bracci.

La “Signorina”, come tenne a definirsi decisissimamente una volta, presumo a difesa della sua vetusta verginità, quando un padre osò chiamarla “signora”, era severissima, ma io sono molto onorato, e mi sono sempre detto fortunato di essere stato suo alunno.

Non ero l’alunno preferito perché a casa mia questo non si concepiva, e poi perché la “signorina” aveva già un alunno preferito, nipote di un prelato in carriera, che frequentava regolarmente la casa dell’insegnante, un po’ meno del nipote, che era quasi sempre lì, in casa della “signorina”, le faceva dei piccoli servizi, ma faceva pure i compiti sotto la sua guida (“dopo le elementari entrerò in seminario…”, mi aveva confidato una volta in gran segreto, col tono di chi voleva essere invidiato… “per diventare parroco come mio zio….”. A dire la verità questa prospettiva, anche se avevo sette anni, non mi dava nessuna emozione).

Mi interessava invece quella casa, al n. 11 di via ospedale vecchio, col grande portone metallico dipinto a quei tempi in grigio chiaro, che aveva un grande atrio con grandi curatissime piante amanti dell’ombra con la bocca di un pozzo e una scala che dava accesso all’abitazione del primo piano.

Come scoprii molti anni dopo, era appartenuta a una famiglia Cataldi, quella del poeta improvvisatore Pasquale Cataldi (1807 – 1867), nipote del canonico e anch’egli poeta gallipolino Nicola  Maria Cataldi. (1782-1867)

E se allora il mio interesse per la fulgida carriera ecclesiastica che attendeva il mio compagno di scuola Tonino, che mi arrivava appena al mento… allora si diceva popolarmente che era la “malizia” (concetto per me estraneo almeno quanto quello di “carriera ecclesiastica”) che rallentava la crescita…imparai ad apprezzare piuttosto i preziosi insegnamenti della mia maestra, la quale nel 1952 doveva già avere la sua età: a  me sembrava assai “vecchia”, anche in confronto coi miei genitori che erano molto “grandi” (36 anni mio padre e 38 mia madre), io ero nato quando mia  madre aveva ormai compiuto da alcuni mesi i 31 anni (la guerra aveva ritardato il matrimonio), quasi vecchia per il primo figlio (pensate  che oggi, a 31 anni la donna è una fanciulla, molto probabilmente alla ricerca del primo lavoro, e di sposare, e di fare addirittura un figlio, non le passerebbe nemmeno per l’anticamera del cervello…).

Ma piuttosto che lasciarsi inglobare dal “blob” di questa problematica, conviene tornare alla mia cara “signorina” Bracci. Secondo me,  alla nascita era già maestra, sapeva trattare con allievi e genitori, colleghi e bidelli, segretario e direttore, con grande capacità, anzi con maestria, è appena il caso di dirlo. Riusciva a far fare a tutti ciò che ella voleva e diceva. Potete immaginare che circa 60 anni fa, la maestra (il maestro esisteva, e nella mia scuola ce n’erano di bravi, si diceva) era istituzionalmente la “maestra”, unica e senza alcun supporto psicologico o altro, come oggi. La mia maestra era una maestra speciale… aveva 44 scolari, e così come, nella mia classe, c’erano dei bambini di famiglie benestanti , figli di professionisti, di insegnanti, etc., tutti ai primi banchi, c’erano anche, ed erano la maggior parte, molti figli di povera gente, gente che  viveva alla giornata, qualche “fabbracatore”, numerosi “piscatori”, pochissimi artigiani e “ccatta-bindi” (commercianti), uno o due contadini, financo due NN, che io non riuscivo a capire cosa fossero, ma che la mia mamma riuscì a farmi capire che qualche volta i bambini possono nascere non da una signora con marito, ma da una signorina, che non avendo marito, se ricordo bene il concetto, lo prendeva in prestito da una signora, che magari nemmeno se ne accorgeva…, e magari viveva addirittura in un’altra città! Questo concetto, per me che non avevo nemmeno cominciato ad andare al catechismo, era allora incomprensibile, un impenetrabile mistero che mettevo automaticamente da parte, essendo un problema troppo grande per i miei sette anni.

Buona  parte dei papà  dei miei compagni di scuola erano scaricatori di porto, questo mi era chiaro, erano per me ben identificabili in quanto, quando arrivava una nave carica  di sacchi di grano o di  cemento o anche di concimi chimici, nei pomeriggi assolati, subito dopo pranzo, qualcuno mi portava sul lungomare a poche  decine di metri da casa mia, e dall’alto delle mura, sopra al porto,  vedevamo quegli uomini,abbronzati,  nerboruti, che indossavano pantaloni lunghi, ma erano quasi sempre a torso nudo. Ricordo avevano un sacco di iuta piegato in modo da formare un grande cappuccio, che ponevano come riparo, sulla testa, mentre il resto del sacco scendeva giù a proteggere la schiena. Eh, si!, che ogni sacco non pesava meno di 50 chili, se non più. Durante le operazioni di carico è scarico non mancavano gli alterchi, e spesso scoppiava qualche lite tra i “vastasi” questo era la parola che in dialetto gallipolino definiva gli scaricatori di porto, come i “camalli”  del porto di Genova. Mio padre che era preside della scuola Media del Rosario, ma che era anche  professore di lettere classiche e conosceva e aveva insegnato il greco, mi avrebbe spiegato  qualche anno dopo, che il termine “vastasi” deriva dal verbo ßastazw, che  significava appunto “scaricare le navi”. Dopo anni di studio (non proprio appassionato) di greco antico e di paterni insegnamenti, mi tornavano chiarissime le parole della mia maestra quando, non riuscendo sempre a tenere a bada alcuni di quelli che lei chiamava”ciucci longhi” (e a quei tempi ce ne erano che dopo aver fatto due anni di prima, due di seconda, e così via, arrivavano alla quinta elementare che avevano quasi 14 anni e che erano “spicati”, e con le gambe pelose, cioè fisiologicamente sviluppati come nel Salento normalmente avviene a quell’età.

Quando la mia  maestra non riusciva ad ottenere la disciplina che pretendeva da questi scolari che lei definiva “ciucci longhi” e “vastasi de basciu allu portu”, allora mandava a chiamare il padre dello scolaro in questione: ricordo perfettamente che uno di questi padri, non era uno scaricatore, ma un pescatore, venne in classe, rispettosissimo,  con la “coppula” in mano, e quando ebbe ascoltato il panegirico e la serie di rimproveri della maestra, poggiò la “coppula” sul primo banco, si tirò via la cinta dei pantaloni e prima che qualcuno osasse fermarlo, con un sottofondo di irripetibili epiteti che coinvolgevano l’onore di tutte le donne della famiglia e degli avi defunti, in un paio di minuti trasformò le gambe muscolose e già piuttosto pelose, ma irrimediabilmente nude, del figlio adolescente, in un pigiama fantasia a strisce asimmetriche del modello “vitte-vitte” che rimase evidente per non pochi giorni.

Certo i tempi sono cambiati, e quasi certamente oggi sarebbe la maestra ad essere aggredita, ma vi assicuro che l’intervento spontaneo di quel padre fu oltremodo dissuasivo nei confronti di qualsiasi altro scolaro che volesse disobbedire a una così terribile Maestra.

Mare, mare, mare… quel salentino mare da favola

MARE DA FAVOLA

 

di Rocco Boccadamo

Stamani, la tonalità cromatica della distesa d’acqua, parimenti familiare e cara, si mostra così tanto intensa, uniformemente intensa, di un azzurro eccezionale e straordinario che nessuna mescola, anche la più abile, potrebbe mai creare.

E’ un colore che dà l’impressione di disporre di una voce propria, di voler comunicare e raccontare rosari di emozioni e d’incanti, diffusi su ogni triangolo di quella superficie, e/o serbati, invisibili e intangibili e però accattivanti allo stesso modo, nell’imo, dentro le profondità della massa liquida.

La specialissima nuance richiama la tinteggiatura delle volte di talune basiliche e la tonalità delle vesti di antiche e artistiche figure di Madonna, su cui non solo lo sguardo, ma finanche l’omaggio del contatto delicato della mano del visitatore devoto, si volgono e si pongono con riguardo, delicatezza.

Al di sopra di tale magico e avvincente strato, vanno alitando refoli di vento da nord, intensi, vivaci, continui, senza strappi, quasi il respiro profumato dei sapori del miglior luglio che si appresta a compiersi.

Neppure l’ombra, la minima ombra, di nubi.

In siffatto contesto, prende l’abbrivio il minuscolo e slanciato battello sormontato da altrettanto piccole vele, colorate d’amaranto.

Andar per mare così, è un tripudio in grembo alla natura, col sussultare leggero dello scafo, il taglio carezzevole della pinna lungo lo spessore delle onde che, festose, si lasciano cavalcare, una sinfonia composta di suoni d’aria e di mare che s’instaura e si diffonde tutto intorno.

Si guadagnano spazi verso l’orizzonte con rara sveltezza, assecondata dall’obliquità dello scafo, si svaria fra la Torre d’Andrano e Porto Miggiano, mentre i due magnifici capi che si pongono a colonne delimitanti il Canale sembrano scrutarsi e sorridersi l’un l’altro nella loro interezza nitida.

Nel frattempo, sullo sfondo dell’accennato orizzonte, prendono a stagliarsi, via via meglio definiti, i contorni e poi i rilievi particolari della costa di fronte, delle altre terre, tanto prossime, quanto, fino a ieri, distanti, oscure e inaccessibili.

I pescatori, sollevando gli occhi sull’apparizione a portata di mano della riva al di là, sono soliti, e non si sbagliano, configurare ormai prossimo il mutamento del vento, il cambio di quadrante.

E difatti, ora che è sera, si annusa già il soffio molle dello scirocco.

Giochi di bimbi salentini… altro che la vuvuzela di recente memoria!

La sciumbarèddha

di Armando Polito

Era una specie di zufoletto che i ragazzi di un tempo si costruivano con lo stelo cavo di specie vegetali selvatiche; ma i risultati musicalmente più spettacolari venivano raggiunti, a patto che avesse un fiato allenato da lunga pratica, da chi utilizzava una foglia di cipuddhàzzu (Scilla maritima) opportunamente arrotolata; altro che la vuvuzela di recente memoria!

Non perdo tempo a sputare sentenze sull’opportunità di conservare anche memorie di tal fatta o a sottolineare l’ingegnosità dei ragazzi del tempo che fu: un vecchio proverbio dice che il bisogno aguzza l’ingegno, ma la mia preoccupazione aumenta sapendo che anche il cervello, come qualsiasi organo, si deteriora per il cattivo uso e si atrofizza per il non uso…e dalla sciumbarèddha ad altre realizzazioni più importanti il passo è più breve di quanto a prima vista possa sembrare.

Però, siccome al passato non so rinunciare, mi rifugio nell’etimologia. La voce non compare nel dizionario del Rohlfs, che, però, registra (pag. 155) nel Leccese per Latiano ciummarèddha e in coda allo stesso lemma, sempre per il Leccese, ciumbarèddha per Gallipoli e per il Brindisino la variante di Mesagne ciamarèddha, senza rinvii e senza etimologia. Chiunque, però, sarebbe colto quanto meno dal sospetto che le tre voci siano diminutive; infatti, scorrendo nella stessa pagina, s’incontra per il Tarantino a Manduria e per il Brindisino a Brindisi ciumàra, con rinvio a ciumbarèddha; siccome la variante ciamarèddha, poi, mi appare diminutivo di ciamàra, a pag. 145 incontro il lemma ciamàrra per il Tarantino  a Grottaglie e, in coda a questo, per il Brindisino ciamàra a Mesàgne, ciamàrra a Ceglie Messapico e cimàra a Erchie, per il Leccese cicimàrra a Parabita; alla fine del lemma c’è un rinvio a ciumarrrèddha (da leggersi, evidentemente ciummarrèddha). Di etimologia, ancora,  nemmeno l’ombra. Ma nel terzo volume (pag. 921) al lemma ciamàrra registrato per il Leccese a       Cutrofiano e a Tricase, dopo le varianti, sempre per il Leccese, ciummàrra a Castro  e cimmàrra a Ruffano, per il Brindisino ciamàra (già vista per Mesagne) ad Oria,  cimàra (già vista per Erchie) a Francavilla Fontana e a S. Vito dei Normanni, si invita ad un confronto con il calabrese e siciliano zammàra, dall’arabo zammara. Dopo questo cammino così tortuoso saremmo arrivati alla meta. Ma è veramente così? E se, invece, tutte le voci avessero la stessa etimologia dell’italiano ciaramella o caramella o cennamella [dal francese antico chalemelle (con dissimilazione –l->-r-), dal latino tardo calamèllu(m), diminutivo del classico càlamus=canna, dal greco càlamos con lo stesso significato]?; in particolare, la voce brindisina ciamarèdda potrebbe derivare da ciaramella [per metatesi –ram->-mar– (ciaramella>*ciamarèlla> ciamarèdda)] ed aver dato vita alla leccese ciumbarèddha (attraverso i passaggi ciamarèdda> *ciammarèddha> *ciambarèddha> ciumbarèddha, in cui –u– dovrebbe essere il frutto di un incrocio di non facile identificazione, problema che, però, pone anche la derivazione dall’arabo), dalla quale, per passaggio c->g– (ciumbarèddha>* giumbarèddha) (avvenuto nella voce tarantina giammàrra) sarebbe derivata, per ulteriore normale passaggio gi->sc– (come in gibbum>sciùmbu=gobba), la neritina sciumbarèddha.

A questo punto qualche lettore che ha avuto fin qui interesse e pazienza a seguirmi starà già rimpiangendo la mia nostalgica e passatista predica di cui parlavo all’inizio…

Il geco e la coccinella

di Rocco Boccadamo

Scorrendo queste righe, provi, il volenteroso lettore, ad immaginare di trovarsi di fronte, misteriosamente ma armonicamente assemblati, tre piccoli squarci ispiratori: di favola, di racconto, di vita reale.
Di certo, la prima reazione potrebbe essere: “Ma come è possibile una roba del genere?”. Però, se non avrà fretta e si sforzerà di immedesimarsi nello scritto, arriverà da solo a fornirsi rassicurazioni in merito.

La scena di ambientazione del testo che segue coincide con un comprensorio turistico residenziale, vasto ma elegante e raffinato, un sito di vacanza per gente d’élite (almeno, così dovrebbe essere).

Si è a ridosso del litorale adriatico dell’alto Salento, contraddistinto da incantevoli arenili e masse d’acqua dai colori vivi e cangianti. Appena più indietro, brevi macchie di pini mediterranei e, immediatamente dopo, sconfinate distese di oliveti, dalle chiome argentee che brillano sotto i riverberi del sole e che, nelle fasi crepuscolari, assumono invece nuance così tenere, delicate e riposanti, da conquistare appieno il cuore di visitatori e di passanti
Il comprensorio appare punteggiato da tante ville, grandi e piccole, edificate con un certo stile e gusto, circondate da bei giardinetti ombreggiati e impreziositi con praticelli vezzosi e curati, alcune dotate anche di piscina.

Nelle stradine interne del complesso, contraddistinta dal n. 32, ecco la residenza, ampia e sontuosa, che si pone al centro della presente narrazione.

Corre un periodo fuori stagione, il silenzio e la quiete risultano assoluti o pressappoco, si avverte solamente lo scricchiolio di leggere foglie che

Oggi parliamo di sale, con un intruso, forse due…

di Armando Polito

Sorvolo sul toponimo Salento, le cui più che probabili connessioni col sale ho trattato nel post “Fiero, nonostante tutto, di essere salentino”; aggiungo solo che ho evidenziato in rosso il territorio nella carta d’Italia anziché riportarne una raffigurazione separata, in omaggio alla celebrazione del 150° anniversario (sento già affibbiarmi da qualcuno l’appellativo   di comunista…) della cosiddetta unità della nostra nazione. Il cosiddetta la dice lunga sul mio pensiero, ma la rabbia maggiore è che, a un secolo e mezzo da una situazione polito-territoriale ormai consolidata, ora si rimescolano le carte e a vincere saranno sempre i bari…

È meglio, perciò che passi a salissìa, voce che designa nel Leccese a Melendugno e a Ruffano (ad Alessano salassìa), nel Brindisino a Mesagne e a San Pietro Vernotico, nel Tarantino ad Avetrana la salicornia1. Il nertitino ricorre alla perifrasi erba ti mare. Sull’utilizzo di questa specie selvatica rinvio al post “Il finocchio marino” a firma di Massimo Vaglio, dove sono riportati altri nomi in uso nel Salento aventi, però, altra etimologia.

erba di mare

E la nostra voce? Sembra incredibile, ma il Rohlfs, dal quale, se non si era capito, ho tratto le varianti riportate, non avanza alcuna proposta. La mia meraviglia nasce dal fatto che, in fondo, il lemma non dovrebbe porre eccessiva difficoltà nemmeno ad un dilettante come me; evidentemente per l’insigne studioso la questione era così semplice che, poi, si è dimenticato di chiarirla a beneficio del lettore nemmeno dilettantescamente addetto ai lavori.

In greco mare si dice in dialetto attico thàlassa, in dialetto dorico sàlassa. Tra i suffissi aggettivali greci c’è (rispettivamente per il maschile, per il femminile e per il neutro) –ios/-ìa/-iov.  Da thàlassa con l’aggiunta di questo suffisso sempre in greco è nato l’aggettivo thalàssios/thalassìa/thalàssion col significato di marittimo. Analogamente dalla forma dorica sàlassa è nato salàssios/ salassìa/salàssion. Basterebbe a questo punto prendere in considerazione il femminile salassìa e la voce di Alessano: sono assolutamente identiche.

Ma c’è di più: un sostantivo thalassìa è attestato in Dioscoride (un farmacologo del I° secolo d. C.), De materia medica, 3, 141, come sinonimo di androsàkes, un’erba di cui dà questa descrizione: L’androsàce. C’è chi la chiama picràda, chi lèuca, chi thalassìa. Nasce in Siria in luoghi vicino al mare. L’erba è bianca. Ha dei riccioli sottili, è amar e senza foglie. In cima ai riccioli ha un follicolo che contiene il seme. Due dracme2 infuse nel vino possono indurre abbondante urina in caso di idropisia. Giovano anche il decotto di quest’erba e il seme. Gli empiastri combattono la podagra.

Quella descritta da Dioscoride non sarà proprio la nostra salassìa (soprattutto per via del colore) ma è chiaro che thalassìa era un termine generico per indicare un’ampia gamma di specie marittime, per cui non c’è da meravigliarsi se la stessa voce, a seconda dei luoghi, veniva usata per indicare specie diverse tutte legate tra loro dalla caratteristica fondamentale: quella di nascere in vicinanza del mare.

Quanto fin qui si è detto è più che sufficiente per escludere per la nostra voce un incrocio (che pure sarebbe venuto facile e naturale) con sale e per rendere conto dell’intruso del titolo, che, non certo per motivi etimologici, anche il Salento si appresta ad assumere con il fatale sviluppo in escluso, dopo essere stato parte non indifferente di un territorio più volte incluso.

L’appetito vien mangiando, perciò passo a sardìzza. Il corrispondente italiano è salsiccia, forse incrocio di salsus=salato con insìcia=polpetta; la variante popolare salcìccia probabilmente ha subito un ulteriore incrocio con ciccia. Per comprendere, però, come sardìzza è sorella di salsìccia bisogna ricorrere alle varianti: per il Brindisino sazìzza ad Oria e satìzza a San Pietro Vernotico, per il Leccese satìzza ad Andrano, Miggiano, Salve, Spongano e Vernole. Illuminante è la voce di Oria sazìzza che in tutta evidenza è dal brindisino saza/sàusa=salata (corrispondente al femminile dell’italiano salsa). Per sardìzza, perciò, è agevolmente ipotizzabile l’influsso combinato di sazìzza e di satìzza, nonché l’incrocio con sarda (che etimologicamente non ha nulla a che fare col sale, ma che lo evoca come sostanza indispensabile alla sua conservazione), attraverso la trafila: sazìzza>satìzza>*sartìzza> sardìzza.

Sazza è la variante neritina (usata anche a Seclì) del già citato brindisino saza/sàusa (sàusa è voce usata pure nel Leccese a Taurisano e nel Brindisino a San Pietro Vernotico); altra variante è per il  Tarantino Sàuza a Sava e per il Brindisino zaza a Mesagne.

 
salnitro

Salamùra

(corrispondente all’italiano salamòia) è usato a Nardò non solo nello stesso significato della voce italiana ma anche in senso appena appena traslato per indicare le fastidiose efflorescenze di salnitro sui muri. Come si fa a non riconoscere alla voce dialettale maggiore fedeltà al latino tardo sallamòria, composto da sal=sale e mùria=acqua salata?

Proprio adesso mi ricordo che il sale fa male. E oggi ne abbiamo assaggiato a sufficienza…

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1 Dal francese salicorne, a sua volta dall’arabo sala al-qarah, con influsso di corne=corno, per la forma delle inflorescenze.

2 Unità di peso equivalente a mezza oncia; l’oncia era la dodicesima parte dell’asse (circa 320 g.); due dracme, dunque, dovrebbero corrispondere a circa 25 g.

Per quei giovani salentini che vivono la stagione più gioiosa lontanissimi dalla Puglia, nell’Afganistan

Fa ormai molto caldo qui nel Salento, un caldo che invita a spostarsi sui lidi e che annuncia l’inizio dei festosi riti della colorata e vivacissima terra d’Otranto, un caldo che invita a rigeneranti bagni di giorno, a vivere le piazze e affollare le strade nelle lunghe nottate da passare in spensierata compagnia. Entra nel vivo la più tumultuosa stagione in questa terra di sud e può avvenire, di tanto in tanto, che il pensiero corra solidale verso chi non ha modo di stare tra queste piazze in festa, tra queste spiagge animate e tra questa folla allegra, pur volendolo, pur appartenendovi. Tra questi assenti il nostro pensiero va a tutti quei giovani salentini che vivono la stagione più gioiosa lontanissimi dalla Puglia, nell’Afganistan del conflitto, delle contraddizioni, della guerriglia, della paura, del dolore e delle missioni internazionali di pace.

Con uno di questi giovani soldati di pace, il salentino Caporal Maggiore Quarta Simone, siamo riusciti a stabilire un contatto attraverso la rete, sfociato ben presto nell’idea di predisporre un’intervista da rivolgere al giovane, ai nostri occhi rappresentante ideale di ogni italiano convocato in missione in quelle zone critiche, lontanissimo dalla propria terra. Speriamo che la pubblicazione di questa intervista – autorizzata dal Cap. Antonio CALIANDRO (pugliese anch’egli), cui va un sentito ringraziamento per la disponibilità e la cordialità dimostrate nel corso della mediazione –  possa in qualche modo rappresentare un ponte ideale di vicinanza tanto con questi ragazzi impegnati in una pericola missione, quanto con la gente di ogni sud del mondo, non solo quelli della festa estiva e del mare, ma anche quelli dell’incertezza, dello stento e della speranza di un futuro migliore.

Invitiamo i lettori a percorre questo ponte ideale con il medesimo entusiasmo e la medesima spontaneità con cui è venuto alla luce, contribuendo a rinforzarlo con la propria partecipazione tramite commenti, domande e interrogativi da inserire nella sezione appositamente riservata in basso.

Ci sia concesso infine lo spazio per un grosso “in bocca al lupo” e un sentito ringraziamento ai nostri ragazzi da parte di tutti noi!

 

 

 

  

INTERVISTA AL CAPORALMAGGIORE QUARTA SIMONE DEL 9° REGGIMENTO ALPINI


D – Quanti militari salentini (Lecce, Brindisi e Taranto) sono con te 

R – Siamo in 16

 

D – Come si svolge la giornata-tipo

R – Dipende dalla giornata e dal tipo di lavoro da svolgere. Comunque la mattina ci alziamo presto, spesso usciamo in pattuglia. Nei ritagli di tempo ci occupiamo delle sistemazioni logistiche della base o si prova a riposare, caldo permettendo, si legge un libro, navighiamo su internet per vedere i vari fatti che accadono in Italia e a Lecce.

 

D – Che accoglienza vi riservano i locali

R – La maggior parte delle volte i locali ci accolgono bene. I bambini spesso ci salutano e si mettono a “giocare” con noi quando possibile. Sono rare le occasioni in cui l’accoglienza sembra più fredda, in quei casi la gente sembra “intimorita”.

 

D – Come trascorrete le serate, se non si è di servizio

R – Le serate si trascorrono guardando la TV o collegandosi su internet, telefonando o videochiamando la ragazza e a casa. Oppure ci riuniamo in una tenda per giocare a carte o per parlare di quello che ci aspetta al nostro rientro in Patria, o parlando di lavoro e di quello che è successo in giornata.

 

D – Quanto è sopportabile il caldo afgano rispetto al caldo estivo salentino

R – Poco. Fino alla metà di maggio la temperatura era sopportabile visto che era molto simile alla nostra in piena estate, ma poi l’aria è diventata irrespirabile con temperature che superano i 50°

 

D – A parte gli affetti personali, cosa manca di più

R –  Tutto. Il mare, i prodotti tipici salentini, l’aria che si respira a casa. Credo di aver reso l’idea, no?

 

D – In quale momento della giornata manca particolarmente la propria terra

R – Sempre, soprattutto ora che siamo in estate

 

D – Quale incarico ricopri. Ci dai qualche tua notizia biografica?

R – Mitragliere di bordo. Sono nato il 29 aprile 1984, vivo a Carmiano ma presto servizio a L’Aquila dal 2007. Mi sono arruolato a novembre del 2005 e sono in Afghanistan da fine marzo. Questa è la mia seconda missione qui, anche se due anni fa ero di stanza a Kabul, e la terza all’estero (Kosovo nel 2006, anche se di soli 45 giorni). Sono fidanzato da quasi 4 anni con una ragazza del mio paese di nome Ilenia.

 

D – Quali sentimenti ti spingono a restare in Afghanistan o è solo un obbligo

R – Oltre il dovere di andare quando si viene chiamati c’è il sentimento che un giorno grazie al nostro lavoro torni la pace in questa terra martoriata da tanti anni di guerra. Quando la si osserva con i propri occhi questo sentimento cresce.

 

D – Incontri mai dei salentini? Se si, parlate mai della vostra terra d’origine? Cosa ricordate in particolare?

R – Li incontro spesso e quando ci mettiamo a parlare l’argomento principale è il salento. Ricordiamo tutto della nostra terra e quando parliamo si sente la malinconia nelle nostre parole e nel nostro dialetto.

 

D – Hai trovato niente di salentino in questa terra? C’è qualcosa in comune? 

R – No, niente.

D – Ci fosse la possibilità di un pacco aereo che raggiunga la tua destinazione in poche ore, cosa vorresti trovarci dentro?

R – Lu sule, lu mare e lu ientu!!! Oltre alla mia ragazza e ai miei genitori, sia chiaro (loro sono i primi).

D – Un mercato afgano in cosa differisce da uno salentino?

R – In tutto. I mercati innanzitutto si trovano nelle loro case lungo le vie principali dei paesi. Non c’è molta varietà di prodotti. I prodotti venduti sono principalmente frutta e verdura, bevande e alimenti, il macellaio con la carne appesa all’aria aperta e il venditore di animali, principalmente galline. Inoltre nel “BAZAR” (è questo il nome del mercato) possiamo trovare delle attività poco inerenti con i prodotti venduti come il meccanico, il gommista e il negozio di tessuti.

D – Potrebbe mai verificarsi che decidessi di restare per sempre in Afghanistan?

R – Mai dire mai, certo abituato alla vita italiana troverei molte difficoltà ad ambientarmi in questa terra a causa delle differenze culturali, linguistiche e per quanto riguarda i servizi offerti. E’ un altro mondo dove il tempo sembra essersi fermato parecchi decenni fà.

La Madonna della Coltura di Parabita e l’incendio del campanile

di Paolo Vincenti

La venerazione della  Madonna della Coltura di Parabita è una delle più forti e sentite nel Salento e da molto tempo impegna studiosi ed appassionati nell’inestricabile eppur affascinante ricerca storica, antropologica, linguistica sulle origini di tale culto. Ortensio Seclì, in un suo saggio del 2001, apparso su “La Madonna della Coltura”, pubblicazione annuale sulla fede, la storia e la tradizione, a cura del Comitato Festa Patronale, in collaborazione con la Pro Loco e l’Archivio Storico Parabitano, ci riferisce della più remota testimonianza della leggenda parabitana sul ritrovamento del monolito della Madonna della Coltura; leggenda che,modificata con l’aggiunta di alcuni particolari fantasiosi, fu stampata nel 1896 per i tipi di Luigi Carra in Matino: “E’ tradizione che nella spianata Le Pane della Corte del territorio di Parabita, nel sito detto Cutura fu trovata,arandosi,la mozza lapide, su cui è dipinta a fresco l’immagine della nostra Protettrice, che si chiamò della Coltura, perché rinvenuta coltivando nel Campo Cutura”.

Sul significato dell’intitolazione della Vergine a Cutura, ci viene incontro Aldo D’Antico che, in un suo saggio comparso sempre su “La Madonna della Coltura”, ci dice che il termine, secondo le due ipotesi che si sono affermate nel corso dell’ultimo secolo, potrebbe derivare da cuddhrura, relativo alla Madonna del Pane, alla quale diversi altri paesi dedicano un culto, oppure da cuddhrura inteso come antica unità di misura del terreno seminativo. D’Antico propone poi un’altra ricostruzione.

Nell’iconografia orientale, questa Madonna era detta Hodegitria, perché considerata protettrice dei viandanti. Ed anche la Madonna della Coltura di Parabita era inserita nel percorso dei pellegrinaggi mariani per arrivare a Santa Maria di Leuca, attraverso Alezio (Santa Maria della Lizza), Parabita, Casaranello (Santa Maria della Croce) e Taurisano (Santa Maria della Strada).

A ridosso delle mura dell’antica Bavota, sita in contrada della Corte, e distrutta nel 927 dai Turchi, era probabilmente situata una laura basiliana nella quale era affrescata una Madonna Hodegitria, appunto “vigilatrice dei viandanti”, presso la quale i pellegrini sostavano per guadagnare le indulgenze promesse. Con la persecuzione che i Bizantini subirono tra il 1000 ed il 1300, i monaci furono costretti ad abbandonare la laura.Questa venne col tempo completamente sepolta sotto detriti ed altro materiale, fino a quando il vecchio contadino della leggenda, arando con i suoi buoi, non la riportò alla luce. Il luogo in cui avvenne il rinvenimento si chiamava “contrada la corte seu la cutura”, ed all’immagine venne quasi spontaneamente dato il nome di quel posto, da cui Madonna ta Cutura. La Madonna, patrona dei viandanti, trovata in una cutura, diventa così la protettrice delle coltivazioni e del mondo agricolo in genere, della cultura e della civiltà contadina. Questo culto poi si espande anche nei paesi limitrofi e in tutto il Salento, partendo proprio da Parabita, che si identifica totalmente nel culto della sua Patrona.

La festa per la Madonna ta Cutura si svolge verso fine maggio a Parabita. La giornata più importante è la Domenica,quando, in  mattinata, si ripete la tradizione dei Curraturi: secondo la leggenda, il meravigliato agricoltore, come scrive Mario Cala, altro noto studioso di storia parabitana, nel volume sopra citato, dopo avere prestato le prime dovute cure all’immagine della Vergine con Bambino, corse verso il paese per annunciare il prodigioso ritrovamento e il sacro monolito venne portato in trionfo dagli eccitati concittadini nella chiesa matrice. E dal XIV secolo, ancora oggi, si ripete questa bellissima tradizione, la domenica mattina della festa civile della Madonna della Coltura, a ricordo della corsa che gli antenati avevano fatto dopo il ritrovamento del monolito. Da segnalare ancora il suggestivo incendio del campanile della basilica, grazie ad una felice intuizione che ebbe nel 1971 padre Carlo Viviani,rettore dei Domenicani di Parabita, mutuando questa iniziativa da Santa Maria dell’Arco a Napoli, sede centrale dei Domenicani. Questa tradizione è stata poi ripresa sei anni fa con grande successo. Viene chiamato appositamente un gruppo pirotecnico, specializzato in simulazioni d’incendi di strutture architettoniche, e il campanile sembra davvero bruciare, tra gli applausi e gli sguardi sbalorditi del foltissimo pubblico che riempie Piazza Regina del Cielo, e, quando il campanile sembra ormai essere divorato completamente dal fuoco al suo interno, ecco accorrere la Madonna a spegnerlo e a salvare la sua casa, tra i rintocchi delle campane che suonano a festa.

Anche il lunedì successivo sarà festa, con una processione in ricordo della traslazione del monolito dalla chiesa al Santuario.

Mofificato da: “Il Tacco d’Italia” maggio 2004 e poi in “Di Parabita e di Parabitani” di Paolo Vincenti, Il Laboratorio Editore 2008.

Piccoli seminaristi crescono (VI parte)

LA SCUOLA DI CANTO GREGORIANO NEL SEMINARIO DI NARDÒ

1960-1965 (Sesta parte)

di Alfredo Romano

Forse nessuno sa che nei primi anni ’60 del secolo scorso il Seminario Vescovile di Nardò poteva vantarsi di avere una schola cantorum di canto gregoriano di eccellenza come non ce n’erano in tutta la Puglia. Merito dell’allora vescovo di Nardò Corrado Ursi, futuro cardinale di Napoli e anche papabile nel conclave dove fu eletto papa Giovanni Paolo II.

Ursi era un grande predicatore dotato di una potente voce oratoria, ma non tutti sanno che era anche un esperto di canto gregoriano. Fu lui a volere la schola cantorum. La dirigeva don Antonio Giaracuni di Aradeo, un maestro di canto che rivestiva anche la carica di vice rettore e insegnante di storia e geografia nelle medie. Su 65 seminaristi, solo una decina potevano meritare, per così dire, di essere scelti: occorreva un buon timbro di voce e una giusta intonazione. Ma solo intorno ai 13-14 anni, col passaggio della voce da bianca a nera, cioè grave, si diventava gregorianisti.
Far parte del gruppo significava doversi sottoporre a estenuanti prove canore per le quali dovevi sacrificare la ricreazione, le passeggiate pomeridiane e anche il sonno talvolta. Erano i tempi in cui nella Cattedrale di Nardò, il vescovo, nel corso dell’anno, celebrava una serie di festività

Il palazzo ducale dei D’Amato a Seclì (Lecce)

Seclì, palazzo ducale

di Marcello Gaballo

Qualche anno addietro l’ Amministrazione Comunale di Seclì ha concluso una lunga trattativa per l’ acquisizione di uno dei più bei complessi esistenti in questo Comune, indissolubilmente legato alla sua storia ed alle sue vicende feudali: il palazzo dei duchi D’ Amato, poi dei Severino, quindi dei Papaleo, che hanno favorevolmente concluso la trattativa.

E’ lungimirante il gesto compiuto dagli Amministratori, che certamente avrebbero potuto investire in nuovi faraonici progetti, magari conclusi dopo decenni e senza il sapore dell’ antico e del vissuto, trascurando dunque le proprie radici e le motivazioni profonde che hanno portato all’ attuale.

L’ occasione è motivo di riflessione per tutti, cittadini e non del piccolo centro, per meditare sui beni culturali, specie in questi momenti di risveglio che sembrano attuarsi nel letargico Salento.

Il godimento e l’ uso responsabile di un bene come il palazzo d’ Amato, che dovrà essere adibito a sede municipale e centro polivalente, è un monito per molti altri centri, considerati assai più all’ avanguardia e poco sensibili al fascino dei propri centri storici.

Non è per niente copiosa la bibliografia di Seclì e le poche notizie storiche che la riguardano e sinora pubblicate sono spesso incerte e dubbie. Occorreranno appassionati cultori delle proprie memorie storiche andare alla ricerca delle fonti, per capire finalmente che non si tratta poi di un borgo così insignificante, come spesso si lascia intendere.

Posseduta per più secoli dai baroni Sambiasi di Nardò, Seclì nel 1399 era stata tolta al filofrancese Mello Sambiasi per essere ceduta a Nicola Pezzullo di Lacedonia, dal quale fu ricomprata dalla stessa famiglia e quindi venduta per 1000 ducati, nel 1567, a Sigismondo, capostipite salentino di una facoltosa schiatta napoletana, i d’ Amato, giunti in Terra d’ Otranto per motivi di parentela e feudatarii.

Da Sigismondo il possesso passa al figlio primogenito Guidone (detto anche Guiduccio o Guido), che in un atto dello stesso periodo si dichiara utili domino et patrono terre Secli, residente anch’ esso, come il padre ed il fratello Cesare, a Nardò nel vicinio di S. Maria della Misericordia.

Fu quest’ ultimo ad iniziare i lavori di costruzione del palazzo di famiglia, probabilmente servendosi delle celebri ed assai valide maestranze neritine, senza escludere possibili interventi dell’ ormai noto Giovanni Maria Tarantino.

Se il palazzo fosse sorto sulle rovine di un preesistente fortellitio è difficile da appurare, ma è possibile ipotizzarlo, vista la sua ubicazione nel centro di Seclì, nelle immediate vicinanze della chiesa matrice dedicata a S. Maria delle Grazie, che lo stesso Guidone fece ampliare. Per volontà della moglie Giulia Spinelli fu invece eretto nel 1592 il monastero di S. Maria degli Angeli, extra moenia, officiato dai frati Minori Osservanti [1], sebbene la coppia, residente a Nardò, già cinque anni prima avesse donato ai frati Domenicani della stessa città 100 ducati per la costruzione e ornamento di una cappella dedicata sempre a S. Maria degli Angeli.

A Guidone successe nel titolo di baroni di Seclì il figlio Ottavio, da cui il primogenito Francesco, che col suo strategico matrimonio celebrato nel 1612 con Caterina d’Acugno dei signori della Foresta di Gallipoli, accresce il prestigio della sua famiglia e, forte degli appoggi a livello centrale, riesce ad ottenere il titolo ducale su Seclì.

Dai due nacquero Antonio, primogenito, Blasco, Livia, Anna, clarissa, Adriana e Isabella, anche questa clarissa a Nardò, più nota come suor Chiara d’ Amato di S. Caterina da Siena dei duchi di Seclì, morta nel 1693 in concetto di Santità.

Già di Francesco nel 1639, Antonio d’Amato nel 1659 riceve conferma del titolo ducale con Real Privilegio ed a lui succede il fratello Blasco, da cui passò alla nipote ex sorore Porzia, duchessa di Seclì nel 1693.

Forse per il matrimonio di quest’ ultima con un esponente della nobile famiglia Severino o per vendita, il titolo passò a questi ultimi, che lo tennero sino al 1796, quando il feudo diventò dei Rossi, signori della terra di Caprarica, la cui ultima discendente, Angiola Rossi, lo trasmise al consorte Giacomo Papaleo da Bagnolo.

Le stringate vicende storiche sono occasione per meglio comprendere il palazzo di nostro interesse, prossima sede municipale, che risulta tra i più interessanti del territorio per l’ originale e bella soluzione angolare esterna, ubicata sul piano superiore, e fortunatamente sopravvissuta con ben poco altro.

particolare del palazzo con lo stemma di famiglia (ph M. Gaballo)

“Ardito montaggio di due arcate marcatamente ogivali -scrive l’ arch. Mario Cazzato- che dovevano contenere altrettante aperture balaustrate; in prossimità dello spigolo dell’ edificio l’ arcata relativa poggia su una cornice sostenuta da colonne ravvicinate impostate su un unico piedistallo. Questa soluzione gira sull’ altro lato dello spigolo realizzando una specie di edicola composta da un’ apertura quadrata, ora murata, inquadrata da due colonne per lato analoghe anche per le cornici e i piedistalli alle precedenti”.

Nell’ interno del palazzo, alla singolare soluzione corrispondeva una loggia tardo-cinquecentesca, le cui aperture, nonostante le varie modifiche apportate in più riprese, sono ancora identificabili e sottolineate da un fregio coevo scolpito che attraversa anche tutta la volta.

Sovrasta la cornice angolare esterna un importante stemma elmato, quindi nobiliare, purtroppo mutilo per un terzo, sul quale campeggiano due leoni controrampanti, di buona fattura.

Quasi certamente esso fu aggiunto in successivi lavori di ristrutturazione del palazzo, non coincidendo con l’ arme della famiglia ducale dei D’ Amato, dipinta in inquarto su una delle volte lunettate ed affrescate nell’ interno.

Qui, in ambiente completamente stravolto dai rimaneggiamenti di epoche diverse, fino a poche mesi fa era conservata un’ interessante tela raffigurante S. Oronzo, restando invece i soffitti di due delle stanze, affrescati, anche se ormai scoloriti e bisognevoli di importante restauro. Uno dei soffitti riporta lo stemma anzidetto, policromo ed inquartato, inserito centralmente tra decorazioni classiche ed arabeschi; l’ altro, lunettato, riporta i ritratti dei duchi d’ Amato e di numerosi imperatori dell’ antica Roma e di Spagna, inseriti in medaglioni tra figure allegoriche e putti, sempre dipinti.

mangiatoie recuperate di recente a pianterreno del palazzo

Piuttosto integri sono rimasti il bellissimo basolato dell’ atrio interno e gli ampi locali voltati a botte, sempre a pianterreno, di recente recuperati, un tempo adibiti a frantoio, palmento e deposito, nei quali potrebbero trovare posto uffici o esercizi di vario genere, magari collegati con l’ esteso giardino retrostante. Tra questi vani merita particolare studio quello situato, sempre a pianterreno, a lato della scala in muratura, che al suo interno lascia intravedere parte di un affresco policromo, ricoperto da incrostazioni e pitturazioni successive, raffigurante la Vergine col Bambino e con alcune iscrizioni da interpretare.

Seclì, recenti restauri del palazzo ducale e rinvenimenti nel pavimento del salone a pianterreno

Degna di menzione infine è pure la cappella privata al primo piano, di cui in vero resta ben poco dell’ originario, fatta eccezione per delle colonne con capitelli delimitanti l’ altare, pitturate di verde e probabilmente traslate da altre parti del palazzo. Su di esse risaltano enigmatici volti semivegetali, uno per parte, già visti per tre volte all’ esterno, ed in particolare sulla facciata del S. Domenico di Nardò.

L’ inevitabile richiamo alle similari decorazioni in carparo del più noto edificio neritino, sollecitano ipotesi su cui occorrerà certamente lavorare ed indagare, per meglio definire l’ attività del magister Jo: Maria Tarentino de Nardo, che, come accennato sopra, potrebbe avervi prestato la sua maestranza.

Sempre in questa cappella si conserva una imponente e piuttosto recente statua in cartapesta policroma raffigurante la Madonna degli Angeli, che, come ricorda l’ epigrafe marmorea collocata a destra entrando dai Papaleo, sarebbe apparsa alla predetta suor Chiara.


[1] gli anni passati era guardiano del monastero padre frà Giuseppe da Seclì. Il convento possedeva in Galatone una casa in loco detto Spirito Santo, che poi vendette a Pietro Marini (atti not. De Magistris di Galatone (39/2) 1647, c.95). Nell’ atto si legge che il convento, extra moenia, è dell’ Ordine di S. Francesco d’ Assisi degli Zoccolanti.

[2] Cedolari di Terra d’ Otranto , vol.21, f.32.

Taranto: su alcune sue rappresentazioni favolistiche

ph Francesco Lacarbonara

di Daniele Chiffi

Ė molto frequente leggere vuote disquisizioni sul mancato sviluppo della città di Taranto, sulle sue bellezze naturali poco conosciute e sull’idea che seppure sia vero che Taranto è sede del centro siderurgico più grande d’Europa, ciononostante esisterebbero cose buone da salvare ed è un problema dei tarantini non saper valorizzare la propria città. Penso che sia sbagliato scrivere cose simili in riferimento alla città di Taranto.

A Taranto esistono problemi veri e il semplice fatto di cercare la pagliuzza d’oro nel mare di problemi della città è un atteggiamento non sufficiente a smuovere il corso delle recenti vicende (per lo più nefaste) del territorio jonico. Le percentuali di morti per tumore – tra le più alte in Italia – non sono dovute a deficienze nella rappresentazione soggettiva della città di Taranto da parte dei tarantini: queste morti sono un dato di fatto. “Non abbiamo superato l’acciaio, stiamo morendo dentro di esso” potrebbe essere uno slogan che rende bene l’idea della situazione tarantina.

Solo un analista disincantato può ritenere che la riscossa di Taranto possa arrivare dal nulla dalla comunità tarantina attuale. Una città dove la parola “cultura” è quasi cancellata da ogni dizionario non ha molte speranze di migliorare. Taranto e la sua provincia, inoltre, vorrebbero ergersi a meta turistica, dimenticando che mancano tante infrastrutture essenziali e che, ad

Tra rovi e more selvatiche

Quando al Rohlfs diede alla testa il lùmbaru della scràscia

di Armando Polito

Resiste disperatamente ai diserbanti e alle trasformazioni del paesaggio, ma temo che abbia gli anni contati la salentina scràscia cioè il rovo (Rubus fruticosus), un tempo presenza puntuale non solo ai margini delle stradine di campagna o dei muretti a secco, ma anche in pieno campo.
Oggi, addirittura, ne viene coltivata una varietà con spine meno pungenti del “modello” originale, ma il suo frutto (vedremo a breve le varianti con cui nel Salento viene chiamato), utilizzato fresco o per la preparazione di marmellate, gelatine, sciroppi, ha un sapore… lasciamo perdere.
Non lascerò perdere, invece, l’occasione di spendere qualche ulteriore parola sulle voci dialettali, in particolare su quella del frutto che sembra aver ereditato, dal punto di vista dell’etimologia, tutte quelle spine che, nella realtà ed etimologicamente, contraddistinguono la pianta, dalla quale comincio.
Per scràscia il Rohlfs recita: ”da una base preromanica *scaràgia o *scràja”. La ricostruzione è perfetta dal punto di vista fonetico (il gruppo –sci– in salentino è l’esito normale di un originario –dj- o –j-); tuttavia, come tutte le forme ricostruite, anche questa lascia l’amaro in bocca, destinato a durare finchè non comparirà, magari su uno sbiadito graffito pompeiano, una sua inequivocabile attestazione1. E con scràscia chiudo ricordando il derivato scrasciàre=escoriare, nonché il toponimo Scrascèta2 (in basso l’omonima masseria) la cui terminazione –èta sembra il plurale del suffisso latino –ètum designante insieme di piante (cannètum, castanètum, etc. etc.) e conservatosi nell’italiano –èto.

villa Scrasceta in agro di Nardò

Da una pianta simile ci si poteva aspettare un frutto il cui nome non ponesse pure lui almeno qualche problema? Come succede nei casi più complicati, il primo passo da fare è lo studio delle varianti; per brevità non riporto il nome dei singoli paesi: a) nel Leccese: lùmbaru, ùmmaru, caròmbulo, cararòmbulu, coròmbulu, caravòmbulu, caratròmbulu, cròmbulu, ròmbulo, rùmbulu, rùmbulo; b) nel Brindisino: alùmmiru, lumbru, lùmmiru, rùmmele, rùmulu; c) nel Tarantino: alùmbre, alùmmire, alùmere, lumbra, lumbru, lùmmere, lùmmiru, lùmmuru, rùmulu. L’etimologia del nome del frutto in questione il Rohlfs la riporta alla voce alùmmire: dal greco agriòmoron=mora selvatica; agriòmoron nel testo del Rohlfs è scritto in caratteri greci (che qui, al pari di quelli diacritici, non è possibile riportare pena la visione di segni strani) con la penultima o corrispondente alla lettera greca omega; la voce esiste ma è un aggettivo che significa “duramente folle” (da àgrios=selvatico, violento+moròs=folle); in realtà Rohlfs avrebbe dovuto scrivere: “dalla locuzione greca àgrion moron (con la prima “o” di questo secondo componente corrispondente alla lettera greca omicron); àgrion=agreste, moron=mora. Dopo questo rilievo che rende, ove ce ne fosse stato bisogno, più umano e, dunque, simpatico uno studioso forse unico, cerco di rimediare dicendo subito che, pur con l’aiuto della biogenetica, senza di lui io non sarei giunto all’etimologia del nome del nostro frutto nemmeno nel 3050. Posso solo, come mi accingo a fare, ripercorrere all’inverso la strada da lui tracciata: tra le varianti sopra riportate la più vicina ad àgrion moron è caròmbulo attraverso i passaggi :*agriònmoro>*gariònmoro (metatesi ag->ga-)>*cariònmoro (passaggio g->c-)>*carònmoro (sincope di –i-)> *caròmmoro (assimilazione progressiva –nm->-mm-)>*caròmboro (dissimilazione –mm->-mb-)> *caròmburo (passaggio –o->-u-)>caròmbulo (passaggio –r->-l-). Non a caso mi pare che da caròmbulo derivino (per vari fenomeni fonetici) tutte le altre varianti e anche ùmmaru, attraverso la trafila caròmbulo>ròmbulu (aferesi di ca-)>rùmbulu>*rumblu (sincope di –u-)>lumbru (metatesi tra r-e –l-),>lùmbaru (epentesi di –a-; è la variante di Nardò, almeno quella riportata dal Rholfs, perché io, sinceramente, non la conoscevo)>l’ùmbaru (errata discrezione di l– come componente di articolo)>*ùmbaru> ùmmaru (assimilazione –mb->-mm-).

Con tutti questi passaggi comincia a girarmi la testa e chi ha avuto la pazienza di seguirmi avra già fatto indigestione di more selvatiche. Meglio smettere…per oggi.

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1In realtà scaragia comparirebbe in un testo latino (traduzione di un originale etrusco)  che Curzio Inghirami dice di avere rinvenuto a Scornello presso Volterra il 9 ottobre 1635 (Etruscarum antiquitatum fragmenta, Francoforte, 1637, pag. 177): Publicam pecuniam, aut sacram si quis abstulerit scaragia morte damnabitur  [Se qualcuno avrà sottratto denaro pubblico o sacro sia condannato a morte col rovo (?)]. Il punto interrogativo posto accanto a rovo in  traduzione era doveroso e perchè non sono a conoscenza di simile supplizio nel mondo etrusco e perché il testo di cui ci dà notizia l’Inghirami è andato perduto, il che rende impossibile anche datarlo. Nella migliore delle ipotesi potrebbe il traduttore dall’etrusco aver operato una semplice trascrizione in caratteri latini (anche perché si tratta di una locuzione tecnica) e perciò scaragia potrebbe essere di origine etrusca. Poi, come se non bastasse, non è da negare assolutamente, vista la congruenza semantica e fonetica, un rapporto con l’albanese škjer o škjir=strappare (G. Rohlfs, Nuovi scavi linguistici in Magna Grecia, Palermo, 1972, pag. 139. Per finire, la nostra voce è apparsa, pur nella variante del caso, in altro distretto territoriale: scraja=scheggia (Giuseppe Cremonese, Vocabolario del dialetto agnonese, Bastone, Agnone, 1893, pag. 109; Agnola è una frazione di Carro, comune in provincia di La Spezia).

2 La più antica testimonianza del toponimo (in pheudo Scraiete) compare in un atto del 1376 (Angela Frascadore, Le pergamene del Monastero di Santa Chiara di Nardò 1292-1508, Società di storia patria per la Puglia, Bari, 1981, pag. 48), la successiva (in feudo Strageti) in un atto del 1427 (Angela Frascadore, op. cit., pag. 84), una terza (in loco nominato la Scraseida) nella visita pastorale del 1460 [C. G. Centonze-A. De Lorenzis-N. Caputo, Visite pastorali in diocesi di Nardò (1452-1501), Congedo, Galatina, 1988, pag. 168].

Il potere e la pensione

ANCHE SE NON E’ UN PROBLEMA SOLO  SALENTINO…  

 Il potere e la pensione

 di Armando Polito

In qualche blog recente e nei relativi commenti è emerso il grido di dolore di giovani e meno giovani impegnati nel mondo della scuola. Da ex insegnante ho già manifestato tutta la mia solidarietà ma oggi voglio fare qualcosa in più, a modo mio, nell’analisi di un fenomeno che, aggravato dalla precarietà, non è, purtroppo, solo salentino, come recita il titolo principale, ma ha il suo principale responsabile, secondo me, nel primo dei due sostantivi che compaiono nel sottotitolo.

I concetti di potere e di pensione hanno avuto, fino ad ora, un destino completamente diverso, nel senso che, mentre quello di potere ha conservato nel tempo il suo ventaglio di definizioni tanto vasto da andare dai pannoloni (potere assorbente) alla religione (potere temporale), pensione, invece, ha percorso una strada più tormentata, perdendo, per giunta, alcuni pezzi…

Vale la pena ricordare che in passato la voce indicava il salario che veniva corrisposto ai funzionari in servizio o l’onere di cui erano gravati i benefici ecclesiastici o il tributo che veniva pagato dai sudditi al signore o dagli stati sconfitti allo stato vincitore. Solo la cosidddetta pensione di grazia, cioè il vitalizio concesso per magnanimità dal sovrano a chi l’aveva servito con diligenza, può essere assimilata all’attuale significato di pensione: somma di denaro corrisposta periodicamente da un ente pubblico o privato a chi cessa la propria attività lavorativa per aver superato un dato limite di età, per aver prestato un certo numero di anni di servizio, per invalidità, ecc. e che, in caso di morte del titolare, può essere trasmessa a determinati congiunti. Dal concetto di onere, di peso [(non a caso pensione deriva dal latino pensiòne(m)=peso, pesatura, da pèndere=pesare] si è passati poi, per completare il quadro delle definizioni, ad indicare anche la prestazione di vitto e alloggio, dietro pagamento di un prezzo stabilito (ecco il peso) o la somma versata per tale prestazione (sempre questo è il peso) o, estensivamente, l’esercizio pubblico di tipo alberghiero che fornisce prestazioni comprensive di vitto e alloggio, naturalmente a pagamento (il peso è sempre quello)1.

Va anche ricordato a tal proposito che effetti in pensione sono dette le cambiali cedute ad una banca per ottenere l’anticipazione di una somma e per le quali è previsto il riscatto prima della scadenza, mediante il rimborso della somma e pagamento del relativo interesse; pensione di titoli, invece, è detta l’anticipazione su titoli che dovranno essere riscattati col rimborso della somma e il pagamento degli interessi.

L’idea della sofferenza investe anche le locuzioni di uso comune quali il fondo pensione (in cui fondo più che come sostantivo è da interpretarsi come  prima  persona  singolare  del  presente  indicativo  di  fondere)  e  la pensione d’annata (per la quale propongo, per avvicinarci al senso autentico, l’eliminazione dell’apostrofo).

E quella che un tempo veniva detta liquidazione e ora pomposamente TFR (acronimo di trattamento di fine rapporto) sfugge a questo destino infame? Neppure per sogno! Sono convinto che chi ha inventato questa nuova locuzione  è  un assiduo frequentatore di puttane; infatti, il trattamento di fine rapporto è ciò che finisce nelle mani della prostituta dopo la prestazione e lo stesso avviene per il TFR: finisce a puttane. E pensare che già la parola liquidazione sarebbe andata bene: bastava aggiungere un apostrofo (liquid’azione) per dare un’idea del povero lavoratore smerdato, pardon pisciato, oppure dare nuova vita al suo sinonimo più ricorrente, buonuscita, da interpretrarsi come l’unica uscita buona per il governo, cioè la morte del pensionando. A proposito di TFR, chi ci garantisce che i fondi relativi non saranno dirottati a risanare il bilancio di qualche carrozzone statale o, addirittura, privato?  Perché, dico io, non si è risparmiato almeno sulle sigle, visto che fra poco una sola potrà avere almeno cinque significati, scrivendo sui treni TFR in sostituzione di FS ? Per i soliti maligni sarebbe valso come Trasferimento Fondi Rubati, per i nostri governanti, invece, come Time Real Full=tutto in tempo reale, a sottolinearne la velocità, in concorrenza con il TEE (Trans Europe Express); il vecchio FS, poi, poteva essere riciclato passandolo ai pensionandi (per i maligni di prima sarebbe valso Fessi Scemi)2.

Per farla completa, l’aggiornamento semantico dovrebbe riguardare anche i lavoratori attivi, per cui bustapaga è da interpretarsi, ormai, come un invito a pagare la busta, ora più che mai virtuale, cioè vuota, che un tempo conteneva la retribuzione mensile.

Si diceva all’inizio che la pensione rispetto al potere ha percorso una strada più accidentata, divenuta oggi quasi impercorribile con i mezzi di una volta: fuor di metafora, l’innalzamento del livello medio della vita e la stagnazione dell’incremento demografico stanno facendo scoppiare il vecchio sistema rendendo  improrogabile il ricorso, da un lato, all’ innalzamento  dell’età    minima  pensionabile, dall’altro  a  varie  forme  di integrazione di una pensione che è destinata via via a calare fino a ridursi forse al (non del!) 30% di quella attuale.

Se sulle forme integrative è in corso un animato dibattito ed è forse troppo presto (soprattutto per un profano come me) per valutarne i pro e i contro, voglio dire la mia sull’innalzamento dell’età minima.

Chi propone incentivi per il lavoratore che, potendo andare in pensione,  decide di restare a lavorare, non può permettersi, secondo me, la spudoratezza di ergersi, come fa, a tutore dei giovani e del loro diritto ad un lavoro degnamente retribuito e che garantisca loro di vivere dignitosamente, come, peraltro, sancito dalla Costituzione; né, tantomeno, pretendere che gli stessi giovani, non in grado di sfamare nemmeno se stessi, sfornino (naturalmente, dopo essersi sposati indebitandosi fino al collo!) figli solo per il piacere di innalzare il tasso di natalità.3

E allora, cosa fare? Non sta a me dirlo. Sta ad altri, cosiddetti esperti, studiare prima il fenomeno e delle soluzioni che non trovino l’alibi del loro fallimento nella storia ormai consunta della coperta troppo corta; sta ad altri, poi, i cosiddetti politici, mettere in atto quelle soluzioni, senza riguardi per il proprio orticello non solo ideologico, possibilmente con provvedimenti, come oggi si dice, bipartisan.

Ma torniamo a noi. La strada della pensione risulta accidentata anche da risvolti di carattere psicologico di non poco conto.

In passato nemmeno tanto lontano esisteva un fenomeno che potremmo chiamare con un gioco allitterativo depressione da pensione: era la condizione del pensionato che non solo non accettava di buon grado il cambiamento, per così dire, ambientale, ma, quel che è peggio, avvertiva una sensazione di inutilità sociale, quasi di parassitismo, tanto più intensa quanto più soddisfacente era il suo stato fisico. E, se non si dava ad un altro lavoro  (era  difficile  ricominciare, a meno che, uscito  dalla porta  come pensionato non rientrasse dalla finestra come consulente, ma questo non riguardava certo l’operaio…) o non aveva nessun hobby da coltivare, erano guai, guai seri. Addirittura c’era chi si dava da fare, pur avendo raggiunto il limite massimo d’età,  per ottenere eccezionalmente una proroga (anche questo non era il caso dell’operaio…).

Pure allora non mancavano le eccezioni: i pensionati baby che, potendosi permettere un altro lavoro, erano immuni da qualsiasi rischio depressivo.

La situazione poi, si sa,  è cambiata radicalmente e, di fronte all’idea di dover lavorare fino ad ottant’anni, i lavoratori, che idioti non sono, si sono precipitati, non appena possibile, in una frenetica corsa verso la prima finestra disponibile stando ben attenti a non inciampare nel famigerato scalone.4

E chi, pur potendolo fare, non si è nemmeno posto sui blocchi di partenza è un idiota? No, è un furbo o, più precisamente, un disonesto e ora spiego perché.

Il posto di lavoro non assume per tutti gli stessi connotati: c’è chi fa il minimo indispensabile, c’è il cosiddetto lavativo, c’è chi, addirittura, lavora più del dovuto o per eccessivo senso di responsabilità (fenomeno, ad onor del vero, in via di estinzione) o per quella passione che non ti fa sentire la fatica (gli uni e gli altri sono, per me, i veri eroi del nostro tempo); in questi casi, pur con le dovute distinzioni, il posto sempre (lavativo a parte) di lavoro è.

Per altri, invece, e arrivo al dunque, il posto più che di lavoro è di potere, di un potere che si esercita  in  modo molto variegato, legato alle varie opportunità di sfruttamento a fini personali, dunque illegittimo ed illegale, disonesto e perverso, della funzione connessa con questo posto che, di lavoro, lo è solo nominalmente.

Per essere più chiaro (ma chi deve capire ha già capito), se un operatore della scuola, un professore di italiano ad esempio, è diventato più esperto nella pratica della raccomandazione piuttosto che in quella dell’analisi logica, come pensi che possa (praticamente illicenziabile com’è) andare in pensione e rinunciare, così, non solo a una parte dello stipendio che in servizio, sia pure indegnamente, percepisce ma, quel che più  per lui conta, ai proventi delle raccomandazioni che, se praticate in modo sistematico, garantiscono un profitto mensile infinitamente superiore a quello dello stipendio? Se lo facesse, lo dico persino io, sarebbe un idiota.

E che pensare, invece, del professore che, conoscendo l’analisi logica e ignorando la  raccomandazione, dopo  essere  andato  in pensione  chiede  di rientrare col rischio consapevole di beccarsi una sede disagiata?

Non è una figura immaginaria, anche se il fenomeno è piuttosto raro; ma, rifaccio la domanda: che pensare di lui? Che sia un irriducibile romantico, ma sostanzialmente un idiota che conoscerà pure l’analisi logica ma manca di qualsiasi logica? No, non è un idiota: la sua decisione sarà pure il tentativo di rimediare alla depressione da pensione ritornando nell’ambiente che forse è l’unico in cui si sente realizzato e gratificato; ma un fatto è certo: si tratta, a differenza del caso precedente (e la differenza non è da poco!), di una persona onesta, di un uomo che considera il posto di lavoro come un servizio (magari mal retribuito, ma senza arrotondamenti, diciamo, esterni e  non  ufficiali, accettati o imposti) e  non come un potere da sfruttare in modo preponderante, se non esclusivo, per vantaggi personali.

Così tra potere e pensione si è instaurato un rapporto di proporzionalità inversa: più pensione=meno potere, meno pensione=più potere.

La pensione per molti, dal livello più alto al più basso, è, perciò, da rimandare perché rappresenta la fine del loro potere, nella cui gestione sono diventati preparatissimi, continuando, magari, ad essere incompetenti (le due cose non sono in contrasto) proprio nelle funzioni per cui, almeno sulla carta, hanno occupato quel posto.5

E ora avanzo una proposta allo studioso di statistica prima, poi ai politici, successivamente  alla Guardia di finanza e ai Carabinieri e infine alla Magistratura.

Allo statistico dico: facciamo il conteggio di quelli che, pur avendo maturato il diritto alla pensione, restano ancorati al loro posto, magari con approfondimenti e distinzioni di carattere settoriale, lasciando fuori, naturalmente, i nostalgici del rientro di cui ho parlato prima, fra l’altro numericamente irrilevanti.

Ai politici dico: stendete, con accordo bipartisan, leggi chiare ed inequivocabili in cui sia penalmente rilevante non solo la grossa tangente ma anche la più o meno piccola regalia, senza nessuna differenza tra quelle accettate  (corruzione)  e  quelle    richieste   (concussione), stabilendo   come sanzione principale la destituzione e la perdita di pensione e indennità di fine rapporto (ciò risolverebbe di botto il problema delle pensioni da pagare agli onesti e nel contempo metterebbe a disposizione dei giovani in trepida attesa chissà quanti posti di lavoro).

Alla Guardia di Finanza e ai Carabinieri dico: utilizzando gli studi fatti dallo statistico, organizziamo una bella indagine sull’onestà presente e pregressa di questi indefessi lavoratori; non dovrebbero essere indagini molto complicate, dal momento che, per lo più, essi si vantano addirittura in pubblico del loro modo di lavorare come se fosse un merito, quando non ne esibiscono sfacciatamente i frutti.

Alla Magistratura dico: applicate la legge senza sconti per nessuno. In fondo, ne siete o non ne siete voi gli interpreti? E allora, una volta tanto, fate prevalere la vostra maggiore considerazione per gli onesti, al di là di contorsionismi giuridici e bizantine acrobazie.

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1 La stessa etimologia ha pigione (somma pagata per l’affitto di un bene immobile), voce diffusasi dai dialetti settentrionali nel XIV secolo attraverso una precedente (XI secolo) forma pisone.

2 Oggi, in sostituzione di FS è usato, come ognun sa, Trenitalia e debbo onestamente ammettere che tale sigla rende molto meglio della precedente la lentezza dei nostri treni e la conseguente durata del viaggio, anche se chi l’ha creata pensava solo alla sua (dico io vacuamente patriottica)  pomposità evocativa, in omaggio alla mania furbesca di cambiare il nome al servizio o all’istituzione quando l’una o l’altra non funzionano, lasciando, naturalmente, immutata la sostanza.

3 Un tempo, almeno, c’era quella che in dialetto siciliano si chiamava fuitina, tradizionale fuga prematrimoniale di giovani promessi sposi, in genere concordata con le famiglie, in virtù della quale, rendendosi indispensabile una rapidissima riparazione dell’onore femminile violato (ma, per lo più, il bebè era subito in arrivo), era giustificato procedere a nozze senza l’onere di costosi ricevimenti. Ora alla fuitina si è sostituita la convivenza, ma, in questo caso (grazie anche alla cultura anticoncezionale o, a seconda dei punti di vista, per colpa sua), di bebè per lo più non si vede nemmeno l’ombra, mentre i conviventi (fra l’altro, gli omosessuali che, almeno per ora, non possono, per motivi tecnici,  avere figli all’interno del loro rapporto) cominciano a reclamare diritti che certamente comporteranno ulteriori oneri per lo Stato. E non è finita, perché bisognerà mettere in conto i costi per l’assistenza a quei bambini che, magari, nati da coppie ultracinquantenni, avranno qualche problema. Bella situazione!

4 Politici e sindacalisti sono riusciti a riesumare e a rianimare questa voce (che fino ad allora indicava la scala grande e sontuosa presente all’interno di edifici monumentali) nel suo significato obsoleto di grado, livello; solo per questo andrebbe conferito loro il premio (ig)Nobel per la lette(a)ratura…

5 E’ il caso, per esempio (ma non è l’unico) di tanti professori (universitari!) che, diventati tali non certo per scienza, continuano imperterriti ad occupare il loro posto per poter sistemare (naturalmente come docenti) amanti, figli, nipoti e collaboratori domestici (più cernie, anzi trote, di loro), precludendo così la meritata carriera a tanti validi giovani.

Grottaglie, la città dalle tante grotte

 

di Raimondo Rodia

La grotta è il simbolo del paesaggio di Grottaglie, il cui territorio è disseminato da centinaia di anfratti abitati nell’antichità e fino al medioevo.

Ed è proprio dalle grotte che deriva il toponimo di Grottaglie cioè “Cripta Aliae”: dalle tante grotte, che caratterizzavano il territorio dove sarebbe sorto, in epoca romana, il casale chiamato proprio così dai romani allorquando qui si insediarono sottomettendo tarantini e messapi.

gravina Riggio a Grottaglie (grotta del sale) (ph Antonio Iacullo e Claudio Sannico)

L’origine del paese risale alla seconda metà del X secolo, quando la gente dei paesi limitrofi, a causa delle scorrerie saracene, aveva trovato rifugio nelle numerose grotte delle gravine presenti nella zona. L’abitato comincia quindi a svilupparsi intorno alle grotte e divenuto popoloso, viene assegnato in feudo agli arcivescovi di Taranto da Roberto il Guiscardo.

La profonda fedeltà verso gli arcivescovi di Taranto spinse gli abitanti di Grottaglie nel 1257 a ribellarsi agli svevi, scomunicati dal papa, subirono la rappresaglia ad opera di Manfredi. Alla fine del XVI secolo Grottaglie, ritornata sotto l’amministrazione arcivescovile, vi rimane per tutta l’epoca feudale fino al 1806 quando Napoleone abolì i diritti feudali.

Grottaglie cominciò ad essere munita di fortificazioni, dal 1388 il castello costruito dai vescovi tarantini feudatari del posto qui stabilirono la loro sede. Lo sviluppo del borgo subisce, in seguito, rallentamenti a causa dell’insorgere di aspri dissidi con i feudatari di Martina Franca che pretendevano l’usufrutto sulle rendite di tutto il territorio di Grottaglie arrecando pesanti disagi economici alla popolazione.

Ma come dicevo emblema della città il castello-episcopio (palazzo vescovile) presenta, all’esterno, tutti i caratteri della fortezza medioevale con una forma turrita e quadrata con al centro un severo mastio; alte torri sui lati terminano con una torretta merlata. Attualmente il castello è murato su tre lati con il fabbricato principale che funge da quarto lato ed una grossa torre maestra posta all’interno dei due cortili. All’estremità di sud-est, tra il fabbricato e la cinta muraria, vi è una cortina che si affaccia sul quartiere delle ceramiche. Il fabbricato principale, dove vi era la sede dell’episcopio, si sviluppa su due piani con parziale terzo livello nell’ala sud-est. La torre interna ha quattro piani tutti indipendenti fra loro e collegati con l’esterno mediante scale ormai dirute. Ad occidente del maniero si apre “porta castello” rivolta verso il paese in basso ed innestata con il palazzo consente di passare al lato opposto dove c’è la maggior densità abitativa. Ad est, scendendo per quelle che vengono chiamate “Le Camene”, si scoprono per intero tutte le mura.

il castello Episcopio (dal sito del comune di Grottaglie)

Il castello Episcopio ha subito nel tempo, almeno fino al 1649, vari ampliamenti. Attualmente è sede del museo della ceramica che nelle sue sale contiene pezzi unici dell’arte figula che ha fatto conoscere, nel corso dei secoli, le capacità di questi artigiani che con la qualità del prodotto hanno raggiunto i vertici per cui, giustamente, si può parlare di artigianato artistico.

Grottaglie è il più importante centro di attività ceramistica della Puglia. Qui la lavorazione della ceramica ha tradizioni secolari con testimonianze

Un’istantanea intrisa d’umanità

Vincent van Gogh – Ritratto di Patience Escalier, contadino (1888)

di Rocco Boccadamo

B., compaesano fra i settanta e i settantacinque, è vedovo ormai da lunga pezza.

Vive, da solo, nella vecchia, ancorché rammodernata, casa della “Rua” ,dove ebbe i natali (per inciso, a beneficio dei più giovani, merita di ricordare che una volta i parti non avvenivano in ospedale o in clinica, bensì nel “letto grande” domestico, con l’assistenza della levatrice e delle familiari e parenti di sesso femminile già mamme) e abitò a lungo insieme con i genitori e i numerosi fratelli e sorelle.

E’ solo, giacché l’unico figlio, per ragioni di lavoro, si è stabilito in una capitale estera e ritorna da queste parti esclusivamente in estate e in qualche altra sporadica occasione.

Indubbiamente, a B., memore della cospicua compagnia dei tempi andati e delle lunghe stagioni trascorse a fianco della consorte e del loro unigenito, deve pesare molto l’attuale solitudine, tanti e tanti pensieri e riflessioni gli suscita, di giorno e di notte.

E però, temprato alle difficoltà, talvolta finanche alla durezza, esistenziali, egli non si abbatte, non si lascia andare, snocciolando la rievocazione e alimentandosi dei ricordi lontani e vicini e sforzandosi di reagire con equilibrio e, per quanto possibile, serenità, una rotazione d’orologio dopo l’altra.

Stamani, mentre giravo in motoretta, ho colto B., riconoscendolo subito da tergo, nell’atto di procedere lentamente, in sella ad una vecchia bicicletta, forse della sua stessa anzianità, in direzione del locale camposanto, una mano appoggiata sul manubrio e la seconda reggente un piccolo vaso in plastica con una piantina verde fiorita.

Chiaramente, destinataria di quel viaggio e della semplice, carinissima attenzione era la moglie.

Sono sfilato oltre il compaesano ciclista speciale in assoluto silenzio, non senza, tuttavia, avvertire e immagazzinare, nel profondo, un intenso coinvolgimento.

Ecco il settimo numero di Spicilegia Sallentina

Domenica 25 luglio, ore 21,

nella Villa Comunale di Nardò,

accanto al Palazzo di Città (Piazza Cesare Battisti),

sarà presentato il settimo numero di

Spicilegia Sallentina,

Rivista del Caffè Letterario di Nardò.

240 pagine bianco/nero e colore, interamente dedicate alla Terra d’Otranto. Il numero esce con il patrocinio della Provincia di Lecce, Città di Lecce, Città di Nardò, Comune di Copertino, Comune di Leverano e GAL Terra d’Arneo.

 

Col sole di luglio, nel cuore dell’estate salentina, arriva il nuovo numero di “Spicilegia”. Più corposo del solito, si apre in grandangolo sul Salento, per spigolare in lungo e in largo nelle tre province di Lecce, Brindisi e Taranto.

Autori veterani e nuove firme regalano forti emozioni, chiarificando, forse in modo inconsapevole, l’identità salentina e collocandola nel variegato mosaico dell’Unità d’Italia, di cui ci si appresta a celebrare il 150° anniversario.

Il nuovo numero è il frutto di un più vivace e fattivo lavoro di squadra, condiviso tra i membri di un rinnovato Comitato di Redazione. Alla guida, con la solita perizia, il nocchiero-direttore Marcello Gaballo. A tutti – Autori, Curatori e Sponsor – un grazie dal più profondo del cuore.

Ai fedeli spigolatori e a quanti si accosteranno per la prima volta a Spicilegia Sallentina l’augurio di poter godere di queste pagine, compiendo una passeggiata virtuale nella Terra dei due mari.

Giovanni Zuccaro

Presidente del Caffè Letterario

Via Roma Onlus – Nardò

 

 

Sommario

Giovanni Zuccaro, Presentazione

Alfredo Sanasi, Per una storia del teatro a Lecce

Daniela Lucaselli, Galeso… un sogno… la vita

Marco Carlino, Menhir, questi sconosciuti. Uuna nuova ipotesi sui monoliti salentini

La poesia – Francesco Onorato, Terra Salentina

Marco Cavalera, La cripta di Santa Marina a Miggiano

Raffaele Onorato, Il carsismo sommerso del Salento

Old paper  

Angelo Micello, I tufi di Puglia

Livio Ruggiero, Spicilegia scientiae: un pesce e un’orchidea per due Baroni salentini

Fernando Scozzi, L’abbazia di Santa Maria di Civo  a pochi passi dalla Via Sallentina

La poesia – Nicola Manieri Elia, Chioe ti ‘state

Luciano Antonazzo, Intorno alla fondazione del monastero  e della chiesa di S. Maria della Pietà dei frati Minori Osservanti di Ugento

Alessandro Potenza, Musei di Terra d’Otranto. Il museo archeologico della civiltà messapica a Vaste di Poggiardo

La poesia – Andrea Calabrese, Il pescatore

Maria Aurora Trentadue, Torre Sabea: baluardo in pietra di età viceregnale a difesa della costa gallipolina

Giuseppe Resta, Cuneddhre: l’atlante dei poveri

Fabio Fiorito-Maria Vittoria Mastrangelo, Villa Scrasceta a Nardò (Lecce)

Lucia Lo priore, L’industria del freddo in Età moderna. Le neviere nel Salento

Fabrizio Suppressa, Il paesaggio nell’Arneo attraverso i segni e i luoghi dell’acqua

Old paper

Francesco Lacarbonara, Il cammino dei Perdoni, Il Pellegrinaggio ai Sepolcri nei riti della Settimana Santa di Taranto

Marco A. De Carli, La cripta e gli affreschi di Santa Maria degli Angeli in Poggiardo

Domenico L. Giacovelli, Il San Gennaro per la cattedrale di Castellaneta. Breve storia di un dono irrimediabilmente scomparso

Daniela De Lorenzis, La “sciarada estetica” dei d’Amore nel salone del castello di Ugento

Gianni Ferraris, Note di collezionismo salentino. Una scultura di Giovanni Maria Mosca “il Padovano” dalla Polonia nel Salento

Marino Caringella, Aggiunte alla fortuna di Girolamo Imperato e Fabrizio Santafede in Puglia

Emanuele Arnesano, (Giovanni) Andrea Coppola, Salvator Rosa e la cerchia dei falconiani

Dora Liuzzi, Della cappella di “Cristo alla grotta” a Martina Franca

Sandro Montinaro-Carla Calò, La famiglia Corina di Martano tra storia e leggenda

Rossella Barletta, La cappella del Sacro Cuore a Corsano

Gabriella Buffo, La città dei morti tra storia e memoria del passato. Gli esempi salentini

Angelo Onorato, Le alterne vicende di un’antica tradizione orale nel Salento: il Griko e “papa Mavro”

La poesia – Giulietta Livraghi Verdesca Zain, Contadina pugliese. Donna, cento volte donna

Maria Teresa Tafuri di Melignano, Un cartello sedizioso a Nardò nel 1850

Francesco Danieli, L’Italia all’ingiù. Puntini sulle “i” a 150 anni dall’Unità nazionale

Enrico Gaballo, Il Salento nella produzione letteraria di Luigi Corvaglia (Melissano 1892 – Roma 1966)

La poesia – Sonia Colopi, Agro salentino

Roberto Filograna, L’affresco del chiostro del convento di San Domenico in Nardò

Marcello Gaballo, La natura sull’acciaio celebrata da Rino Greco. Un incisore di armi di lusso tra Italia, Belgio e America

Armando Polito, La scapèce e una, forse indebita, illazione toponomastica

Angelo Diofano, Meravigliose sorprese nella pinacoteca di San Michele Salentino

Eugenio Giustizieri (1957-2010) “uomo del Sud di sempre”. Tre poesie inedite

Emilio Panarese, Sulla grafia del cognome del poeta del ‘Balzino’: Rogeri de Pacienza di Nardò

Pier Paolo Tarsi, Un inedito di Giulietta Livraghi Verdesca Zain. La ccota ti li culummi

Renato Rizzelli, Santa Cesarea tra leggende e ricordi

Oronzo Mazzotta, Il temporale

Melanton, Proverbi salentini

 

La foto di copertina è di Michele Onorato: interno della torre colombaia della masseria Nucci a Nardò (Lecce)

La rustica e parca gallina leccese, ottima covatrice e madre amorosa

La Gallina Leccese. Dopo il Commendatore Dott. Raffaello Garzia c’è il Prof. Gino Di Mitri

di Antonio Bruno

La gallina leccese è amata dal mio amico, direi fraterno amico, Prof. Gino Di Mitri. L’ultima volta che ci siamo visti mi ha mostrato le uova delle sue galline, quelle che aveva le doveva dare a chi gliele aveva richieste ma mi ha promesso che presto ne avrei avute anch’io.

Secondo il Jovino, la razza sarebbe derivata dalla schiusa di uova raccolte nel 1931 nelle campagne circostanti l’Istituto Tecnico Agrario di Lecce. La razza fu quindi purificata e selezionata presso il pollaio provinciale annesso a questo istituto.
Io invece voglio riportare le notizie della Cattedra ambulante di Agricoltura su questa razza scritte dal Prof. Attilio Biasco nel 1933. Queste parole sono scritte in onore del mio amico Gino, voglio contribuire alla sua ricerca appassionata, perché il suo amore per il Salento leccese e la sua dedizione si sta esprimendo nel portare avanti insieme a noi l’affermazione della tipicità dei prodotti unita alla professionalità dei Dottori Agronomi che assistono i produttori, alla sapienza dei Cuochi e dei Maître e alla sensibilità delle donne e degli uomini che decidono i destini del nostro territorio.
Nel 1933 era stato iniziato il lavoro di miglioramento dal Commendatore Dottore Raffaello Garzia. Alcuni soggetti di gallina leccese dell’allevamento di Torrepinta erano stati esposti alla Mostra del Littoriale di Bologna del 1933.
Il Dott. Attilio Biasco definisce la gallina leccese parca, rustica, resistente alle malattie, adatta all’ambiente, ottima covatrice e madre amorosa.
Secondo il Dott. Attilio Biasco la razza era stata guastata dai liberi e irrazionali incroci e dalla malnutrizione a cui era sottoposta unita a un cattivo allevamento.
La assidua e sapiente selezione del Commendatore Dottore Raffaello Garzia nell’allevamento di Torrepinta che aveva buoni ricoveri e che apportava alle galline una buona alimentazione ha reso la gallina leccese una razza che gareggia alla pari con le altre di pregio alla Mostra del Littoriale di Bologna del 1933. La Gallina leccese allevata a Torrepinta presentava fuse insieme in buona proporzione le attitudini della buona ovaiola e di buona produttrice di carne che è era nota nel Salento leccese per la sua sapidità.
A conferma di quanto affermato riporto il confronto tra la Gallina leccese con quella di Livorno, la Rhode Island Red, la Piymonth Rok Barrata e la Australorps.

Come è facile rilevare dalla tabella nei riguardi del peso dei soggetti considerati la Gallina leccese selezionata dal Garzia eguaglia la
Rhode Island Red, la Piymonth Rok Barrata e la Australorps; per numero di uova è inferiore della Livorno ma come peso medio di uova supera tutte le razze.
La deposizione annua di 200 uova era facilmente superata da alcuni capi e il peso delle uova poteva giungere sino agli 80 grammi.
Interessanti anche le forme che presentavano le selezioni del Commendatore nell’allevamento di Torrepinta.
Cominciamo con il gallo della razza leccese che ha la testa piccola ma proporzionata, fiera, portata arditamente un po’ in avanti. Il becco di giusta lunghezze ricurvo, di colore giallo rame sfumato in nero. Gli occhi grandi, vivaci, neri, contornati da un giro giallo arancio. La cresta semplice, diritta, carnosa, molto ricca e alta a forma di fiamma, con sette denti ben staccati, volti all’indietro, di tessuto granuloso, ben colorito in rosso. Il lato posteriore si spande per buona parte verso il collo, formando con questo un grazioso angolo acuto. Le guance nude, di un bel rosso. Gli orecchioni ovali in senso verticale, ben marcati, piuttosto grandi, bianchi largamente bordati di rosso. I barbigli molto allungati, di tessuto fine, carnosi, rosso vivo. Il collo piuttosto lungo, ma proporzionato al corpo, graziosamente arcuato, con ricchissimo collare di piume elegantemente ricadenti sulle spalle. Il dorso largo, piuttosto corto, descrivente una graziosa curva insellata fra il collo e la coda. Lancette dei reni larghe, fini, lucidissime, ben ricadenti ed abbondanti. Il petto spazioso, sporgente, pieno. La coda magnifica, formata da numerose, larghe e lunghissime falcette, portate in alto e ricadenti a pioggia, in modo da formare un ricco ed elegante ornamento. Le ali piuttosto corte, ben serrate al collo, coperte in buona parte dal ricco collare e dalle abbondanti falcette dei reni. Le cosce ben coperte e molto robuste. I tarsi e le zampe di larghezza media, robuste, nude, con quattro dita ben divaricate. Il portamento maestoso, elegante, ardito, bellissimo, quasi provocante.

da Wikipedia (ph Andrei Niemimäki from Turku, Finland)

Il Dott. Attilio Biasco passa a descrivere la gallina della razza leccese. La testa piuttosto piccola e ben fatta. Il becco di media grandezza ricurvo, gli occhi grandi, vivaci, neri, contorìnati, come nel gallo, da un giro giallo arancio. La cresta è semplice, grande, rossa, ricadente sulla guancia, con cinque punte ben staccate. Le guance in gran parte nude e rosse. Gli orecchioni ovali in senso orizzontale, ben marcati, piuttosto grandi, bianchi. I bargigli grandi, allargati, poco più piccoli di quelli del gallo. Il collo lungo, lievemente arcuato, portato in avanti, ben coperto di penne piuttosto larghe e fini. Il dorso largo, lungo, perfettamente orizzontale. Il petto ampio e sporgente. La coda molto folta, formata da lunghe e larghe penne, portate quasi a ventaglio e situate ad angolo retto con il dorso. Le ali piuttosto grandi, ricche di penne situate orizzontalmente. Cosce molto robuste, ben coperte, provviste di abbondante e fine piumino. Tarsi delle zampe di misura media, nude, provviste di quattro dita ben divaricate. Portamento tranquillo.

La livrea del gallo presenta le caratteristiche che illustro qui di seguito. Lancette del collo giallo ramato lucente. Il dorso color mogano brillante e sfumato in rame. Le falcette dei reni color rosso rame lucidissimo. Le ali remiganti primarie di colore marron tenuissimo metallico; le remiganti secondarie, longitudinalmente color metà nero metallico e metà marron rossastro; le copritrici delle ali alcune color mogano brillante altre nere e riflessi metallici. La coda nera con riflessi metallici bleu verdastri. Sottopiuma grigio cenere e tarsi e zampe grigio scuro.
La livrea della gallina presenta le caratteristiche che illustro qui di seguito. Il colore generale camoscio più o meno scuro, spesso le penne sono bordate di nero. Il collo di tinta uguale ma di tonalità diversa. Le ali remiganti primarie, longitudinalmente, metà bionde e metà nere.Punta della cosa nera. Sottopiume del dorso color grigio cenere, del petto bianche. Tarsi e zampe color grigio scuro.

Il Dott. Attilio Biasco precisa che l’allevamento del Commendatore non utilizzava il metodo dell’incrocio con razze di pregio perché quando lo aveva praticato aveva ottenuto risultati disparati ed incerti. Invece il Garzia aveva intrapreso la via più lunga, meno facile, ma più sicura, della selezione metodica e razionale, ed i magnifici risultati gli avevano dato ragione.
Insomma il Dott. Biasco dà il merito al Commendatore di aver dato al Salento una razza di galline che è assurta all’onore nazionale.

Oggi il prosecutore di tale appassionate avventura è il Prof. Gino Di Mitri che ha il compito che fu del Commendatore Garzia, ma che è ancora più attuale in questo 2010, anno mondiale della biodiversità

Bibliografia
L’agricoltura salentina n. 6 1933
Andrea Mangoni : Appunti di Avicoltura: la Leccese http://oryctesblog.blogspot.com/2009/06/appunti-di-avicoltura-la-leccese.html
Gino Di Mitri: Pollo Leccese……il suo recupero http://www.nsgs.it/leccese.htm
Dr Raffaello Garzia La razza Leccese “Bassa Corte” – maggio 1934 –
http://www.ibs.it/libri/di+mitri+gino+l./libri+di+di+mitri+gino+l..html

Polpo o polipo? risolto l’arcano!

Polpo o polipo? Purpu!

di Armando Polito

Le recenti vicende di Paul, reali o organizzate ad arte, hanno reso il mollusco più noto dello stesso Nelson Mandela, ma un merito, secondo me l’unico, l’hanno avuto, quello di riproporre la vexata quaestio: è più corretto dire polipo oppure polpo?

La televisione, che è più spesso veicolo di strafalcioni che di cultura, non ci aiuta e, complice il calcio, in questi ultimi giorni abbiamo assistito allo spettacolo di più giornalisti che nell’ambito del loro intervento alternavano disinvoltamente polpo a polipo o che, addirittura, per precauzione, usavano il nesso polpo o polipo oppure polipo o polpo; si vedrà come la scelta, peraltro  dettata molto più probabilmente da strategica ambiguità che da consapevoli ragioni, almeno per questa (?) volta ha premiato.

Digitando in Google le due voci vengon fuori (ad oggi, 14 luglio) 433.000 ricorrenze per polipo e 1.010.000 per polpo. Pur senza fare  la dovuta tara ai polipo riferiti alla forma tumorale benigna (analoga operazione, naturalmente inversa, non va ovviamente fatta per polpo), il risultato è eloquente. Non mi basta certo questa operazione per sputare la sentenza definitiva.

Polipo nasce (cito dal Dizionario De Mauro) prima del 13331 dal latino pòlypu(m), a sua volta dal greco poliùpus, composto da poliùs=molto e pus=piede.

Polpo nasce nella seconda metà del XIII secolo2  dal latino tardo pulp(um), a sua volta da pòlypus con influsso di pulpa=polpa.

Polpo, dunque, in italiano è più antico di polipo.

Ma, a parte il tardo pulpus, come stanno le cose per pòlypus?

Comincio dal conterraneo Ennio (III°-iI° a. C.), anche se nella fattispecie può apparire un traditore perché in Phagetica, dopo aver detto che Brundusii sargus bonus est (il sarago di Brindisi è buono) cita non il polpo di Santa Caterina di Nardò, di Portoselvaggio o, al limite, di San Foca ma il polypus Corcyrae (il polpo di Corfù).

La voce è poi presente in ben tre commedie di Plauto (II° secolo a. C.), nella prima nel senso metaforico rimasto proverbiale:

Aulularia (v. 188): Ego istos novi polypos, qui ubi quidquid tetigerunt tenent (Conosco questi polpi che si attaccano a qualsiasi cosa abbiano toccato).

Rudens (v. 1010): Tange! Adfligam ad terram te itidem ut piscem soleo polypum (Prova a toccarmi! Ti sbatterò a terra come son solito fare con il pesce polpo).

Ad Ovidio (I° a. C.-I° d. C.) il mollusco doveva essere particolarmente simpatico, se lo cita due volte: in Halieutica, vv.  31-32: At contra scopulis crinali corpore segnis/polypus haeret (Ma al contrario il polpo se ne sta attaccato pigro agli scogli con il suo corpo munito di tentacoli come se fossero capelli); in Metamorfosi, IV, vv. 366-367: utque sub aequoribus deprensum polypus hostem/continet ex omni dimissis parte flagellis (e come il polpo trattiene sott’acqua il nemico catturato con i suoi tentacoli tesi da ogni parte).

Ma più che il poeta Ovidio poté il naturalista Plinio (I° a. C.-I° d. C.) che a più riprese se ne occupò nelle Naturales quaestiones (per brevità riporto solo l’indicazione del libro e del capitolo: IX, 40, 71, 73, 83, 85, 89, 92, 158, 163, 164, 185; X, 194, 195; XI, 133, 199, 258; XII, 37; XXV, 71; XXVI, 58; XXXII, 12; con riferimento al tumore benigno: XXIX, 146.

E col significato di tumore benigno (evidentemente più adatto alla satira feroce di quello di polpo) compare pure in Orazio (I° d. C.), Sermones, I, 3, vv. 38-40: …amatorem quod amicae turpia decipiunt caecum vitia aut etiam ipsa haec / delectant, veluti Balbinum polypus Hagnae (…poiché i turpi difetti dell’amica ingannano l’innamorato cieco o addirittura proprio loro lo fanno felice, come il polipo di Agna fa felice Balbino).3

Questo doppio significato del latino pòlypus propiziò per lungo tempo l’uso in campo letterario di polipo per designare il mollusco, tant’è che ancora il Monti4, il Leopardi5, il Manzoni6, il Boito7 e lo Slataper8 lo usano (ma secoli prima il Pulci9, Lorenzo dei Medici10 il Tasso11 e successivamente il  Marino12 e il Reni13 avevano usato polpo, mentre Boiardo14 polipo ).

Polipo nel significato di tumore benigno compare per le prima volta in un volgarizzamento quattrocentesco del De viribus herbarum di Macer Florus15, ma per vederlo nella nomenclatura medica ufficiale bisogna attendere L’arte di ben conoscere e distinguere le qualità de’ cavalli di Marino Garzoni, uscito a Venezia per l’editore Novelli nel 1692, opera in cui un intero capitolo, il XII, è dedicato alla descrizione ed alla terapia del polipo nasale.

Dalle testimonianze riportate si direbbe che polpo, voce popolare nata prima di polipo, lo abbia sostituito a designare il mollusco quando esso cominciò ad indicare, per traslato, la formazione tumorale; la definirei  un’ operazione apotropaica perfettamente in linea con la psicologia semplice del popolo, mentre il mondo colto, come abbiamo visto, solo parzialmente fu coinvolto. Il fatto paradossale, poi, è che pure coloro che per estrazione culturale avrebbero dovuto usare polpo furono attratti, per quel fenomeno linguistico che va sotto il nome di ipercorrettismo, dal più aristocratico ed elegante, anche foneticamente parlando, polipo.

Conclusione: teoricamente si può dire polipo o polpo (come il giornalista televisivo, di cui si parlava all’inizio, che non si assume responsabilità) ma, ad evitare ogni rischio con gestori di ristoranti che potrebbero essere più ammanicati con qualche società che gestisce i rifiuti ospedalieri  che con una pescheria, è meglio ordinare, a scanso di equivoci e dando un calcio all’ipercorrettismo e alla presunta eleganza, un’insalata di polpo e non di polipo.

Se ho detto una o più bestialità, ben mi sta: lu purpu si cucina cu ll’acqua sua stessa…ma ho fatto controllare tutto da Giacomino,

E, per farmi perdonare per aver servito prima del proverbio un’immagine da vomito, invito l’amico Massimo (Massimo Vaglio, e chi sennò?) a darci una delle sue ricette; mi guardo bene dal dirgli: “E,  magari, facci fare pure un assaggio!”, perché la risposta, visto in quanti siamo, potrebbe essere “Armà, certi purpi…”.

______

1 Compare per la prima volta nella traduzione che Arrigo Simintendi da Prato fece in quell’anno delle Metamorfosi di Ovidio.

2 Tuttavia credo che si possa agevolmente operare una retrodatazione dal momento che in un atto del 1250, custodito nell’Archivio di Stato di Genova, del notaio Bartolomeo Fornari (in Rosanna Urbani- Guido Nathan Zazzu,The Jews in Genoa 507-1681, Brill, Liden, 1999, pag. 21) compare tra i testimoni un Ottolinus Pulpus de Mari. Che fosse un antroponimo abbastanza diffuso lo dimostrerebbe un Obertus Pulpus de Mari, che compare, addirittura con la variante Purpus per Pulpus, in un altro atto del 1260 (in Michele Giuseppe Canale, Storia civile, commerciale e letteraria del Genovesi, Grondona, Genova, 1844, volume II, pag. 399); che lo stesso antroponimo fosse presente anche in territori lontani da Genova lo dimostrerebbe un terzo atto steso a Brindisi in cui compare un Guillelmus Pulpus Brundisi notarius (in Gianna Marcato, I dialetti e il mare, Unipress, 1997, pag. 206). È azzardato supporre che il pittoresco Pulpus de Mari fosse in origine un soprannome tanto efficace da entrare, addirittura in un atto ufficiale? e che, perciò, pulpus fosse il corrispettivo popolare del paludato pòlypus? e che polpo fosse una forma volgare già in uso da parecchi anni?

3 Il Manzoni (Poesie giovanili, una traduzione da Orazio): …che de l’amante al guardo/sfugge il difetto de l’amata, o piace,/siccome d’Agna il polipo  a Balbino.

4 Epistolario, II, 526.

5 Crestomazia italiana, LXII; Zibaldone di pensieri, passim.

6 Vedi la nota n. 3. nella traduzione riportata l’uso di polipo non può essere minimamente dovuto ad esigenze metriche.

7 Senso. Nuove storielle vane.

8 Il mio Carso, parte I.

9 Morgante, XIV.

10 Poemetti in ottava rima, selva I.

11 Il Conte overo delle Imprese; Il mondo creato, V giorno.

12 Rime marittime, 19; Adone, IX, 47.

13 Osservazioni intorno agli animali viventi.

14 Timone, atto II.

15 L‘è a la fià ch’el ven uno male al naso el quale se chiama polipo. Di Macer Florus non si a nulla, anche se gli studiosi tendono a collocarlo nel secolo XI.

Tuglie. Una cartolina da Largo Fiera

Largo Fiera, per memoria

di Luigi Scorrano

Del Largo Fiera solo chi c’è nato e vi ha trascorso un bel pezzo della sua vita può coltivare la nostalgia da paradiso perduto che il luogo insinua nella memoria. È come dire che chi vi è nato ha aperto gli occhi sulla luce di quel quadrato di cielo sopra le case che il profilo degli edifici non riesce a contenere. E la luce sfugge allegra per le vie circostanti, a raggiera, come in una paesana e dolcemente improbabile Place de L’Étoile di casa nostra.

Per chi lo vede oggi, e non l’ha mai visto com’era quando in effetti vi si svolgeva la fiera dell’Annunziata, ch’è l’occasione che gli dette il nome, Largo Fiera è segnato da uno dei tanti pettinati assetti urbani che il tempo e nuove esigenze di vita comportano. Sicché pare che ricordarlo com’era, fra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, sia una sorta di privilegio. Certo è un segreto appuntamento con la malinconia delle cose perdute o di quella perduta parte di noi stessi che riaggalla a tratti nella mente e rende più pungente il senso del passato.

Un largo, come dice il nome: non una piazza. Un largo senza muretti di confine a segnare con decisione le strade. Uno spiazzo dove i bambini delle famiglie che vi abitavano intorno trovavano il luogo ideale dei loro giochi ed

L’eremita della Pastorizza

di Rocco Boccadamo

Sembra accadimento di ieri, eppure ben dodici calendari si sono succeduti dal mio passaggio, diciamo così, a vita privata, dopo circa un quarantennio di attività lavorativa, e dal contestuale ritorno nel minuscolo e defilato mondo dove sono nato. Pastorizza sta per denominazione del fondo su cui insiste la mia casetta con pineta, dimora stabile in primavera e d’estate, approdo del weekend durante le restanti stagioni. E’ Pastorizza per tutti i compaesani, giacché su questo triangolo di terreno, gli antichi proprietari, fino a mezzo secolo fa, solevano mandare a pascolare la loro piccola mandria, in gergo dialettale murra, di ovini. Per la precisione, ve ne erano quattro, di murre, facenti capo ad altrettante famiglie benestanti, materialmente affidate a “pecorari”, i quali ultimi, in contropartita della cura continuativa agli armenti, ricevevano – unico loro salario – una quota (non ricordo se la metà o una misura diversa) del formaggio prodotto dalle mandrie e del ricavato dalla vendita della lana e degli agnellini.

Serbo ancora vivi nella memoria i volti e i nomi dei “pecorari”, Rocco, Saverio, Luigi e compare Tommaso, anche se i medesimi, da un bel po’, si sono insediati su pascoli ben più in alto, ma sempreverdi.

Da quando ho scelto di divenire eremita – tale, almeno per via dell’isolamento e della lontananza dai figli – ho avvertito un nuovo bisogno, ossia a dire disporre della compagnia di un gatto. Così, se ne sono già alternati sei, maschi e femmine, in prevalenza di pelo nero e occhi da favola, e però con due eccezioni, esemplari parimenti fantastici, rappresentate da un persiano e un certosino.

Non impongo un nome ai miei gatti, sono e li chiamo semplicemente micio o micia; do loro, bensì, affetto, attenzione, compagnia, assistenza e, a dir la verità, i cari amici mi contraccambiano oltre misura. Alla loro presenza e vicinanza, ho trascorso momenti lieti e meno, ho visto ovviamente venire alla luce micetti e ho sofferto di qualche misteriosa sparizione e/o epilogo tragico. Mentre, in precedenza, erano i miei figli e i nipotini più grandi – durante le vacanze estive – a partecipare alla coabitazione con i simpatici e giocherelloni felini della Pastorizza, quest’anno, nella casetta al mare, è presente un batuffolo biondo, la nipotina ultima nata, la quale festeggerà la sua candelina numero uno a fine agosto, insieme ai genitori e ai nonni.

E’ immediatamente e con naturalezza spuntata una bella, semplice e simpatica amicizia, intesa e complicità fra E. e l’attuale amico a quattro zampe, dal solito pelo nero e dotato di due azzurre e vispissime pupille da sbirro. Così, gli occhi del ragazzo di ieri che scrive, adusi nel tempo ad allietarsi di fronte a cascate di fusa, salti, scalate agli alberi, rincorse, capriole, goffi e avventurosi agguati alle farfalle, hanno al presente un motivo in più, speciale, per tendere a sorridere ed illuminarsi, ciascun mattino segna una nuova e insolita scoperta di compagnia e giocosità.

E, intanto, va scorrendo anche l’estate 2010, aggiungendo un ulteriore petalo al già consistente bouquet di stagioni calde e piene che si trovano ormai alle mie spalle. Nondimeno, per buona sorte, la vita racchiude ancora un senso e un significato: valori che avverto e percepisco dentro, con eguale intensità e nitidezza, come specchiati sulla trasparente distesa di questo mare che dà la sensazione di volerti parlare e sullo sfondo blu intenso del cielo, particolarmente alle prime luci dell’alba e tra i lumicini scintillanti della sera.

Lo sfizio di vedere in/finito

di Lino Manca

Una voce chiede: “Cosa c’è nell’ocra?”. Lino, come un punto, si guarda attorno. E vede il paese. Il suo contesto. Le cose nella luce. Stanno le case nell’ocra, ma non sono fisse, sembra che si siano fermate in attesa di qualcosa. Lino osserva le case di calce. Appare il sole, uno spicchio di sole spia dalle terrazze. Le guarda per tutto il giorno. Le case si guardano in faccia una di fronte all’altra. In fila come bambini. La luce si spande sull’asfalto. E sulle sponde del fiume di luce vengono a stare altre case. Si dispongono attorno al sole come una rosa. Le strade si incurvano, ed anche esse stanno ad aspettare qualcosa. Sopraggiungono altre case nuove come verdi brattee di carciofo. Si fermano nel viola della sera. Lino s’incammina verso il paese, e guardandosi da una parte e dall’altra, vede che c’è attesa a stormire come le chiome degli ulivi.

La voce chiede di nuovo. Lino non conta i passi. Comincia un altro giorno. Si sente il rumore di carri sui ciottoli della strada. Dalle case di tufo, dagli orti di giuggiole, dalle strade di polvere sbucano donne come formiche. Entrano

Per il polpo Paul anche l’archeologia della parola

IL POLPO GIACOMINO

di Armando Polito

 

Se il polpo Paul non è una montatura,

per maghi e indovini è fregatura!

Signori, vi presento Giacomino:

al suo confronto Paul è un salamino.

Non sono quattro versi (?) dell’ultimo motivo rap scritto da vattelappesca ma solo un pretesto di mia invenzione per  introdurre il discorso sulla voce neritina mbistìre che in italiano ha un corrispondente formale in investire ed uno semantico in indovinare.

Cercherò di analizzare questa divaricazione partendo dall’italiano.

L’investitura nel Medioevo era l’assegnazione di un feudo, di un beneficio ecclesiastico, di una carica e simili da parte del sovrano o di altra autorità avente titolo; la voce per estensione indicava anche la cerimonia solenne che accompagnava tale atto, in cui il momento culminante era quello in cui il concedente toccava la veste del beneficiario.
Ai tempi nostri investitura viene usato, spesso in senso sarcastico, per indicare il passaggio di consegne da un personaggio molto rilevante (dal campo politico a quello economico) che per motivi di età consegna il potere nelle mani del suo delfino (se fosse meno rincoglionito lo consegnerebbe nelle mani, pardon nelle pinne del cetaceo, visti i risultati che sortiscono certi passaggi tra gli umani…).
Connesso con investitura è investire, che nel Medioevo significava insignire qualcuno di un feudo, di un beneficio, di un titolo e simili, oggi porre ufficialmente qualcuno nella condizione di esercitare un ufficio o una carica: investire un giudice dei pieni poteri.
Da questo significato deriva per investire anche quello economico di impiegare un capitale in qualcosa: è come se l’investitore ufficialmente ponesse il capitale, affidandolo ad un altro, nella condizione di produrre un profitto (almeno nelle intenzioni!); lo stesso, naturalmente, per il sostantivo correlato: investimento.
Ma investire significa anche assalire qualcuno con gesti o parole minacciose (investirono l’arbitro di insulti) o urtare violentemente qualcosa o qualcuno: non credo che alla base di questi due concetti (e del sostantivo correlato col secondo: investimento) sia il medioevale tocco (per quanto energico) della veste, ma, piuttosto il significato militare di attaccare (avvolgendo il nemico da ogni parte, come fa una veste) che il latino medioevale investìre aveva accanto all’altro di attribuire un beneficio feudale.
Comunque, è fuori discussione che investire è dal latino investìre=coprire, adornare, composto da in=su+vestìre=vestire, da vestis=veste.
Quali voci sono usate nel dialetto neritino per esprimere tutti questi concetti?
Può sembrare strano, ma l’unica voce che è il corrispondente formale dell’italiano investire, cioè ‘mbistìre, è usato nel senso di indovinare, azzeccare; da investire, con passaggio –v->-b– (*inbestìre), –n->-m– (*imbestìre), –e->-i– (*imbistìre) e aferesi di i-, attraverso i seguenti passaggi concettuali: ricoprire>cogliere nel segno>azzeccare.

Quali voci, a questo punto, si usano, sempre a Nardò, per gli altri significati di investire?

Per il concetto di urtare violentemente qualcosa o qualcuno c’è ‘rrunzàre (che usato assolutamente, cioè senza complemento oggetto, significa fare un lavoro in malo modo); il suo corrispondente italiano è arronzare (nel significato marinaresco di speronare per una manovra errata), da ad (dal latino ad=presso) e ronzare, forse variante di rombare, da rombo, dal latino rhombu(m), dal greco rombos=movimento, da rembo=vagare, agire a caso; la voce neritina è da arronzare, con aferesi di a-, passaggio –o->-u– e ampliamento del campo semantico.

Per il concetto di impiegare un capitale il neritino usa il generico ‘ccattàre=comprare (àggiu ccattàtu sti tìtuli=ho comprato questi titoli); il corrispondente italiano formale è accattare, dal latino *accaptàre, composto da ad=presso e captàre=cercare di prendere, intensivo di càpere=prendere; ‘ccattàre è da accattare, con aferesi di a-.
Negli ultimi tempi, però, dopo le note disavventure corse dai piccoli azionisti, cattàre ha lasciato il passo a minàre=buttare (àggiu minàtu li sordi sobbra a ‘stu tìtulu=ho investito con risultati fallimentari i miei soldi su questo titolo); il corrispondente italiano formale è menare, dal latino minàre=spingere innanzi a sé con grida o percosse, da minari=minacciare; da notare come la voce neritina è tal quale l’originale latino; e non posso fare a meno di ricordare come l’uso letterario di menare nel senso di trascinare, travolgere, spostare con forza, se volto al passivo, ricorda la situazione di coloro che hanno investito, anzi minàtu i loro risparmi.

Spero di non aver detto troppe sciocchezze; ad ogni modo si può sempre sottoporre il tutto al controllo del polpo Paul: per lui, che indovina il futuro, la conoscenza del passato (che cos’è la filologia se non l’archeologia della parola?) dovrebbe essere uno scherzo. E poi, ci siamo dimenticati di Giacomino?

Gazze nel Salento, un delicato rapporto tra avifauna e agricoltura

 
da Wikipedia, Creative Commons ShareAlike 1.0 License

Danneggiata dalle Gazze l’Agricoltura del Salento leccese

 

di Antonio Bruno

Ce ne sono troppe, sono voraci, mangiano le uova degli altri uccelli e fanno danni ai frutti e agli impianti di irrigazione: sono le Gazze (Pica pica, Linnaeus 1758) in leccese Mita o Picalò è un uccello della famiglia dei corvidi.

Il Salento leccese e il suo paesaggio essendo un’area prevalentemente agricola, deve confrontarsi con il rapporto tra agricoltura e fauna selvatica. Ecco perchè secondo la mia opinione sarebbe opportuno iniziare una ricerca sulle interazioni ecologiche tra avifauna e agricoltura.

L’articolo 19 della Legge Nazionale 157/92 e successive modificazioni definiscono i motivi che possono portare all’autorizzazione di piani di controllo di specie selvatiche all’interno di aree vietate alla caccia. I piani di controllo per le Gazze sono quindi possibili per la migliore gestione del patrimonio zootecnico, per la tutela del suolo, per motivi sanitari, per la selezione biologica, per la tutela del patrimonio storico-artistico, per la tutela delle produzioni zoo-agro- forestali ed ittiche ragione quest’ultima che giustificherebbe l’adozione per la Provincia di Lecce visti i danni che questi corvidi provocano all’agricoltura.

Ma faccio immediatamente una proposta: per cominciare si potrebbe effettuare un rilevamento, da realizzare di concerto con l’Università del Salento, l’Istituto Tecnico Agrario “G. Presta” e l’Amministrazione Provinciale, per iniziare una forte collaborazione con i proprietari agricoli del Salento leccese, per individuare sia le specie di uccelli presenti che utilizzano prodotti agricoli quale propria risorsa trofica, sia quello di valutare l’entità del danno provocato alle coltivazioni.

A scopo preventivo sarebbe opportuno mettere in atto vari sistemi di dissuasione in collaborazione con gli agricoltori, come i palloni “Predator”, i cannoni a GPL, l’electroscare mobile e la recinzione elettrica.

Detto questo si potrebbe elaborare un piano di controllo della Gazza (Pica pica) che dovrebbe essere esercitato selettivamente, praticato mediante l’utilizzo di metodi ecologici e autorizzato dalla Provincia di Lecce sentito il parere ISPRA (ex INFS http://www.apat.gov.it/site/it-it/ISPRA_-_ex_INFS/L’Istituto_-_ex_INFS/ ) .

Ma la domanda che pongo è se si possano contenere i danni provocati dalla fauna selvatica e specificamente dalle Gazze.

Ricordo a me stesso che la Legge 11 febbraio 1992, n. 157 avente per oggetto le Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio pubblicata sulla G.U.. 25 febbraio 1992, n. 46 – S.O. n. 41 all’Art. 26 prevede il risarcimento dei danni prodotti dalla fauna selvatica e dall’attività venatoria recita che “Per far fronte ai danni non altrimenti risarcibili arrecati alla produzione agricola e alle opere approntate sui terreni coltivati e a pascolo dalla fauna selvatica, in particolare da quella protetta, e dall’attività venatoria, è costituito a cura di ogni regione un fondo destinato alla prevenzione e ai risarcimenti, al quale affluisce anche una percentuale dei proventi di cui all’articolo 23”

Secondo la mia personale opinione una misura da applicare in questo caso è un premio forfettario che sostituisce un eventuale indennizzo per risarcimento danni almeno sino a quando il piano di controllo della Gazza (Pica pica) non sia stato messo in atto. Tale premio dovrebbe essere dato per promuovere la valorizzazione delle colture, pratiche colturali, prodotti tradizionali e per promuovere il recupero di manufatti e infrastrutture di valore paesaggistico. Per questi motivi il premio avrebbe finalità ambientale e quindi sarebbe esonerato dall’obbligo della notifica alla Commissione Europea.

Agli agricoltori che hanno subito i danni da Gazze suggerisco di presentare una domanda di risarcimento danni al Comitato in cui siano presenti rappresentanti di strutture provinciali delle organizzazioni professionali agricole maggiormente rappresentative a livello nazionale e rappresentanti delle associazioni venatorie nazionali riconosciute maggiormente rappresentati (articolo 26 Comma 2 Legge 11 febbraio 1992, n. 157)

Il Comitato tecnico provinciale per la tutela faunistico-venatoria previsto dalla L. R. n. 27/98 risulta così composto: Salvatore Perrone (presidente Comitato ed assessore Attività Venatoria), Francesco Bruni (presidente Commissione Ambiente e Risorse Naturali), Renato Stabile e Gianfranco Coppola (consiglieri provinciali), Sandro Panzera (responsabile Osservatorio Faunistico Provinciale), Donato Puzzovio (Federcaccia), Giorgio Colucci (Libera Caccia), Luigi Prato (ANUU), Tiziano Simone (Unione Nazionale Enalcaccia Pesca e Tiro), Antonio Lillo (Arci Caccia Lecce), Alessandro Capani (Italcaccia), Mario Rizzo (CPA Sport), Bartolo Ravenna (Ente Produttori Selvaggina), Francesco Trono (Unione Provinciale Agricoltori), Massimo De Pascali (Confederazione Italiana Agricoltori), Vito Greco (Ispettorato Dipartimentale delle Foreste), Massimo Nisi (Raggruppamento Interregionale Appuro-Lucano di Ornitologia), Raffaele Palmieri (Anci Puglia), Orazio Muratore (Ente Nazionale Cinofilia Italiana), Francesco Geusa, Massimo Cera, Vittorio De Vitis e Cosimo Gaspare Giannuzzi.

Fiero, nonostante tutto, di essere salentino

di Armando Polito

Ognuno comprende che in modo particolare nello studio dei toponimi e derivati il primo passo da cui non si può prescindere è il reperimento delle fonti. Mi rendo conto,  però, che in un testo che ha la pretesa di essere soltanto divulgativo la loro presenza dev’essere discreta ma non ossessiva, invadente e soffocante. Mi limiterò, perciò, a riportare solo le più significative, traendole da un mio lavoro, in cui compaiono in numero enormemente più ampio, per la cui stesura mi sono avvalso del testo  di grande rigore scientifico I Messapi e la Messapia nelle fonti letterarie greche e latine di Mario Lombardo, Congedo Editore, Galatina, 19921.

Per il mondo greco:
DIONISIO DI ALICARNASSO (I secolo a. C.), Antiquitates Romanae I 51, 3
Enea e i suoi compagni non sbarcarono in Italia tutti nello stesso punto, ma la maggior parte delle navi approdò al Capo di Iapigia, che era allora chiamato Capo Salentino, le altre…


STRABONE (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Geographica

VI 3, 1 (C 277) Confinante con essa (Metaponto) è la Iapigia, che i Greci chiamano anche Messapia, mentre le popolazioni limitrofe una parte la chiamano terra dei Salentini, quella intorno al Capo Iapigio, l’altra terra dei Calabri.
VI 3, 5 (c 281)
Dicono che i Salentini siano coloni dei Cretesi….Vereto è sita sulla punta estrema della regione salentina….La regione che si circumnaviga andando da Taranto a Brindisi somiglia a una penisola. La via interna da Brindisi a Taranto, percorribile in un giorno di marcia da un corriere, segna come l’istmo della suddetta penisola che i più chiamano con un unico nome Messapia o anche Iapigia o Calabria o Salentina…
POLIBIO (II secolo a. C.), Historia, XXXIV, fr. 15, 4 nella citazione di PLINIO IL VECCHIO (I secolo d. C.), Naturalis historia, III 5, 75: Polibio chiama mare Ausonio quello che si estende al di là della Sicilia fino alla terra dei Sallentini2.
TOLOMEO (II secolo d. C.), Geografia

III, 10: (sulla costa) dei Salentini: il Capo Iapigio o anche Capo dei Salentini…
III 1, 67: città dei Salentini nell’interno sono: Rudia, Nereto, Alezio, Bausta, Ouxenton, Vereto.
Per il mondo latino:

Risale al 280 a. C. il trionfo celebrato dal proconsole Lucio Emilio Barbula su Tarentini, Sanniti e Salentini [Fasti Triumphales Capitolini (Inscr. Italiae XIII 1), II XVII]: Lucio Emilio Paolo, figlio di Quinto, nipote di Quinto, Barbula, nell’anno 473 (dalla fondazione di Roma) (trionfò) da proconsole su Tarentini, Sanniti e Sallentini il 10 luglio.
Risale al 267 il trionfo sui Salentini di Marco Attilio Regolo e Lucio Giulio Libone [Fasti Triumphales Capitolini (Inscr. Italiae XIII 1), II, XX]: Marco Attilio, figlio di Marco, nipote di Lucio, Regolo, console, nell’anno 486 (dalla fondazione di Roma) (trionfò) sui Sallentini il 25 gennaio; Lucio Giulio, figlio di Lucio e nipote di Lucio, Libone, console, nell’anno 486 (dalla fondazione di Roma) (trionfò) sui Sallentini il 25 gennaio.
Risale al 266 a. C. il trionfo del console Fabio Pittore sui Salentini e sui Messapi [Fasti Triumphales Capitolini (Inscr. Italiae, XIII 1) II, XX]: N. Fabio, figlio di Gaio e nipote di Marco, Pittore, per la seconda volta (trionfò), da console, nell’anno 487 (dalla fondazione di Roma) sui Sallentini e i Messapi il primo febbraio.
A distanza di una settimana il trionfo del console Decio Giunio Pera: Decio Giunio, figlio di Decio, nipote di Decio, Pera, per la seconda volta (trionfò), da console, nell’anno 487 (dalla fondazione di Roma) sui Sallentini e i Messapi il 7 febbraio.
CATONE (III-II secolo a. C.), De agricoltura, 6, 1
…in terreni grassi e caldi pianta soprattutto l’olivo che produce olive da conservare, quello che produce l’oliva allungata, il sallentino, …
Lo stesso testo, con irrilevanti differenze non coinvolgenti, comunque, il toponimo argomento del nostro discorso, è confermato da Varrone (I secolo a. C.), Res rustica, I, 24, 1 e Plinio il Vecchio (I secolo d. C.), Naturalis historia, XV, 4, 20; lo stesso sembra, sia pure in parte, ripreso da Macrobio (IV-V secolo d. C.), Saturnalia, III, 20, 6: si enumerano queste varietà di olivo: l’Africana, l’Albigera, l’Aquilia, l’Alessandrina, l’Egizia, la Culminia, quella che produce olive da conservare, la Liciniana, l’Orcea, l’Oleastro, la Pausia, la Paulia, quella che produce olive allungate, la Sallentina, la Sergiana, la Temuzia.
VARRONE (I secolo a. C.) Antiquitates rerum humanarum, fr. VI, presso PSEUDO PROBO, In Verg. Buc., VI 31 (forse V secolo d. C.)

Varrone…riferisce nel terzo libro delle Antichità umane:”Si dice che la nazione salentina si sia formata a partire da tre luoghi, Creta, l’Illirico, l’Italia…”

LIVIO (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Ab Urbe condita

IX, 42, 3-5

…divenuto console, avendo decretato i nemici Sallentini una nuova guerra per il collega…
XXV 1,1
Mentre si faceva questo in Africa e in Spagna, Annibale passò l’estate nel territorio sallentino, nella speranza di impadronirsi per tradimento della città di Taranto. Nel frattempo, tuttavia, defezionarono per passare dalla sua parte alcune città non degne di nota degli stessi Sallentini.
XXVII 15, 4
Il console Quinto Fabio prese con la forza la città di Manduria nel paese dei Sallentini. Vi prese prigionieri circa tremila uomini e vi fece inoltre un cospicuo bottino.

VERRIO FLACCO (I secolo a. C.-I secolo d. C.), De verborum significatu (frammento conservato da Festo (II secolo d. C.)
Verrio dice che i Salentini traevano il loro nome dal mare e che erano Cretesi e Illiri, i quali in mare avevano fatto amicizia e alleanza coi Locresi…
EUTROPIO (IV secolo d. C.), Breviarium ab Urbe condita, II 17
Sotto i consoli Marco Attilio Regolo e Lucio Giunio Libone venne dichiarata la guerra contro i Sallentini in Apulia, e vennero sconfitti e conquistati con la loro città e nello stesso tempo anche i Brindisini. E venne celebrato il trionfo su di essi.
A questo punto m’immagino il lettore che si chiede:  perché mai costui non si limita a citare solo il nome dell’autore e il testo, senza indicare il titolo dell’opera, il capitolo o libro e l’eventuale paragrafo o verso? forse per patologica esibizione di erudizione? La verità è che troppo spesso nelle mie dilettantesche indagini mi sono imbattuto in citazioni imprecise, vaghe o, addirittura, errate o inventate; non mi posso, perciò, permettere il lusso (a parte il fatto che mi troverei in disagio con me stesso) di cadere nello stesso errore e di lasciare l’amaro in bocca a qualche lettore di palato appena più fine rispetto alla media. E poi, questa era un’occasione troppo ghiotta per rendere partecipi non solo i conterranei (almeno, credo) della magia di una terra troppo spesso immeritatamente bistrattata e di un popolo altrettanto spesso considerato  da qualcuno come, storicamente parlando, calabrache: illuminanti, a tal proposito, fra le altre, le notizie sull’olivo (un albero meraviglioso, simbolo, dico solo culturale, e dico tutto, della mia terra) e quelle relative ai numerosi trionfi (dopo adeguati saccheggi) di Roma padrona (lascio la ladrona al precedente qualcuno che fino ad ora, se ladro non è stato, continua ad essere ricettatore e connivente dei, sempre presunti…, ladri), che la dicono lunga, secondo me, sul coraggio e l’eroismo di una gente impegnata in un confronto improbo (da tenere presente che alcune testimonianze, e mi riferisco soprattutto a quelle liviane, in cui sono presenti concetti come quello di defezione, dagli alleati ostili ai Romani, e di resa, sono chiaramente di parte e vanno assunte con ampio beneficio d’inventario).

Ma è tempo di passare all’etimologia di Salento. Secondo Mario Cosmai (studioso biscegliese) (Antichi toponimi di Puglia e Basilicata, Levante, 1991) il toponimo è connesso col sale, con riferimento alle paludi acquitrinose che si addensavano intorno al golfo di Taranto; io penso, invece, che il riferimento sia meno specifico e più banale, cioè al mare che lo bagna (come, d’altra parte, bagna tutte le penisole) da tre lati. Colgo l’occasione (il lupo perde il pelo ma non il vizio…) per ricordare che sale è dal latino sale(m)=sale, mare, brio, a sua volta connesso col greco als che al singolare (femminile) significa mare e al plurale (maschile) arguzie, facezie (anche in italiano il plurale sali ha lo stesso significato traslato). Il lettore, però, potrà facilmente controllare come questo riferimento al mare sia presente già in Verrio Flacco (I secolo a. C-I secolo d. C.), che sembra, a sua volta, sviluppare con l’idea dell’ “amicizia ed alleanza in mare di Cretesi, Illiri e Locresi ”, la testimonianza del contemporaneo Varrone che si limita a parlare della convergenza di tre popolazioni, una cretese, una illirica ed una italica.

Forse questa è la ragione storica, divenuta col tempo genetica, di quel senso di ospitalità e di quel calore umano che, lo dicono gli altri, ci contraddistinguono?  sarà stato, paradossalmente,  proprio il nostro contatto col sale a preservarci da quella forma di arteriosclerosi che sembra aver colpito chi ha avuto dimestichezza solo con l’acqua dolce? dipenderà da questo se noi, indipendentemente dallo spirito cristiano e da un cattolicesimo più o meno blandamente praticato, anziché gettare in mare i disperati, li salviamo e li accogliamo?

Questo post, se ancora non fosse chiaro, vuol essere, anzi è, la continuazione di La Puglia parla alla Padania con un suo dialetto del 3 luglio u. s., che, come il lettore può controllare, ha avuto un solo commento, al quale ho risposto per le rime; mi auguro che, almeno questa volta, il contraddittorio tocchi livelli più alti.

E con le rime, quelle vere, di Lu sule, lu mare, lu ientu, una canzone degli Après la classe, voglio chiudere in allegria:

Contorni colorati sfumano in un cielo più blu,
dove la parola pace è nella mente dei più.
Penisola fatta di sole e mare,
terra che in ogni momento è sempre pronta ad amare.

Volti scuri come roccia,
misteri di una danza che cela spade nelle braccia;
cadenza ipnotica, stregati da questa terra magica
Intra ‘stu Salentu lu sule lu mare lu jentu…
Intra ‘stu Salentu lu sule lu mare lu jentu…
Intra ‘stu Salentu lu sule lu mare lu jentu…
Guardo il cielo che trapuntato di stelle
fa sfondo alla luna che ride e colora la pelle.
Non puoi scordare le notti passate
tra canti sfrenati, tra fuochi fatati e poi
tanti insediamenti; fin dai tempi grandi
combattenti vanno a segnare
il fato di questa terra,
che a tutti fa sentire,
l’energia resa dai passati eventi.
Intra ‘stu Salentu lu sule lu mare lu jentu
Intra ‘stu Salentu lu sule lu mare lu jentu
Intra ‘stu Salentu lu sule lu mare lu jentu…….

_____

1 Riporto, per brevità, solo le traduzioni, con le quali, salvo qualche dettaglio irrilevante per il tema qui trattato, convengo.

2 La traduzione salentino/sallentino tiene conto della presenza o meno della doppia l della parola nella lingua originale.

“Il Sud… dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie”

 
Jean-François Millet – Uomo con la zappa

Le stoppie del Salento leccese devono essere bruciate oppure è meglio interrarle?

 

 
di Antonio Bruno*

I campi hanno dato il grano, la trebbia è passata per raccogliere le cariossidi che forniranno la farina e la paglia. Restano le stoppie, come ogni estate, da cui giungono notizie che riferiscono di vittime, come quella del cinque luglio 2010 riguardante un uomo di 86 anni, Giovanni Gurrieri, morto carbonizzato in un terreno di sua proprietà nei pressi della Provinciale Ragusa-Chiaramonte Gulfi. L’anziano, titolare di un’azienda agricola, stava bruciando delle stoppie ma, a causa del vento, non è riuscito a controllare le fiamme, rimanendone intrappolato.

Il problema di rimanere uccisi per le ustioni di incendi incontrollati delle stoppie è già presente nella Bibbia “Poiché, ecco, il giorno viene, ardente come una fornace; allora tutti i superbi e tutti i malfattori saranno come stoppie” (Ml 4,1) “Ecco, essi sono come stoppia; il fuoco li consuma” (Is 47, 14).

Sono i seguaci della pratica del “Debbio”, metodo arcaico di concimazione delle terre attraverso la cenere prodotta dall’incendio degli steli e delle foglie (le stoppie) dei cereali rimasti sui campi dopo la mietitura.

Il Debbio è una delle operazioni tradizionali che ha radici nel periodo neolitico e che in passato coinvolgeva tutta la comunità agricola del Salento leccese per il controllo del fuoco in modo che non causasse incendi coinvolgendo boschi o altri coltivi e soprattutto per evitare le vittime.
E non è difficile avventurarsi in descrizioni suggestive della pratica del Debbio: “Il sud…..dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie” (Salvatore Quasimodo: Lamento per il sud).

Le stoppie presenti a Roma, la città di Romolo con povere capanne di canne e terra, col tetto di rami e stoppie; tombe dai corredi modesti: questo è tutto ciò che l’archeologia documenta delle origini di Roma.

Per eliminare le stoppie oggi sono disponibili in commercio macchine tritura stoppie che permettono il loro interramento con benefici effetti per il suolo e per l’ ambiente in genere. Ma c’è anche Virgilio che parla della pratica del Debbio:

A volte poi è bene dare fuoco
ai campi isteriliti
e bruciare al crepitio delle fiamme
ogni minima stoppia:
sia che così il terreno acquisti
forze misteriose e nuovo alimento
o che nel fuoco si dissolva ogni suo guasto
e trasudi l’umidità superflua,
sia che il calore schiuda nella terra
altri passaggi e spiragli invisibili
da cui gli umori giungono ai germogli
o che indurisca e restringa le vene aperte
impedendo all’insidia della pioggia,
alla violenza troppo forte e impetuosa del sole
e al gelo penetrante della bora
di procurarle danno.
(VIRGILIO – OPERE BUCOLICHE EGLOGA PRIMA MELIBEO, TITIRO).

grano in maturazione (ph Riccardo Schirosi)

Nel Salento leccese la pratica di bruciare le stoppie è antichissima. Maria D’Enghien in “Banni e Capitoli” della metà del XV secolo così scrive: “chi incendia le stoppie prima della metà di agosto de fore la cità de Lese sopra lo tienimento de la dicta cità” (avanti la festa de Sancta Maria de mezzo augusto) fosse punito con la pena di once quattro e che dopo tale epoca bisognasse “chiedere licentia del Capitanio e portare persone sufficienti a spegnere il fuoco per evitare i grandi danni successi negli anni passati…”.
Se nel Salento leccese sia più conveniente bruciare o sovesciare le stoppie è una questione che è stata affrontata nel XVIII secolo dal medico di Martano Cosimo Moschettini che è anche autore di un trattato di olivicoltura. Cosimo Moschettini dichiara di preferire “l’abbruciamenro delle stoppie… perchè promuove lo sviluppo dei semi delle biade le quali si debbono disporre in quel terreno e li fa germogliare con il maggiore vigore e gagliardia, perchè purga il terreno dai semi e dalle radici di piante infestanti perchè infine distrugge ovaie ed insetti devastatori delle biade”.
La considerazione del Moschettini trova un obiezione nel mancato apporto di sostanza organica nel terreno dovuto al Debbio. Ma se invece si interrassero le stoppie, quanta sostanza organica forniremmo al terreno?

La risposta è che con il sovescio delle stoppie si interrerebbero dai 4,5 ai 5 quintali di sostanza organica per ettaro. Se consideriamo che le stoppie agirebbero nei primi 30 centimetri di terreno esse costituirebbero meno dello 0,1 per mille in peso del terreno.
Il prof. Martelli della Facoltà di Agraria di Bari con la guida del Prof. Baldoni e del allora suo aiuto Prof. Cavazza condusse una ricerca che dimostra l’effetto dannoso dell’interramento delle stoppie nell’ambiente del Salento leccese perchè determina una carenza di azoto determinato dal sovescio delle stoppie e contemporaneamente dall’interramento nel terreno di microorganismi denitrificanti che sottraendo azoto dallo strato attivo generano una forte carenza.
La pratica del debbio consente il controllo di due parassiti vegetali che se lasciate comportano gravi danni per il grano. Le due fanerogame sono conosciute nel Salento leccese come “Spurchia del grano” e “Cacalupo” che sono due specie appartenenti alla famiglia delle Scrofulariacee e propriamente ai generi Rinanto (Rinanthus major) e Melampiro (Melampirium pratense ed avrense). Sappiamo tutti che è vietata la vendita dei semi di grano imbrattati da questi semi che danno prodotti di sapore ed odore cattivo.
Riferisce il Dottore Agronomo Attilio Biasco che “In tutta la penisola salentina queste due specie crescono vigorose su terreni di mezzano impasto di colore rossastro; i loro semi, che grosso modo somigliano nella forma a quelli del frumento, ma di color nero carbone, germogliano e sviluppano in un primo stadio senza l’appoggio di piante ospiti. I primi segni di parassitismo si manifestano dopo lo sviluppo della radice primaria dalla quale prendono origine numerosissime radici secondarie he si dirigono in ogni senso e si fissano sulle radici del frumento con succhioni piuttosto grandi, rotondeggianti, che le circondano quasi totalmente.”
I danni causati sono davvero notevoli, nelle piante attaccate alcune volte si salva la spiga principale o se rimangono quelle dei culmi secondari sono svuotate.
Per 25 anni l’allora Ispettorato provinciale dell’agricoltura di Lecce, di cui oggi rimane solo un ufficio, istituì campi di orientamento delle varietà di frumento e campi di concimazione quando l’Italia durante il periodo fascista era impegnata nella “Battaglia del grano” che cominciò quando lo Stato prese coscienza che si importavano dai 15 ai 20 milioni di quintali di frumento. Durante quegli anni nell’Arneo alcuni seminati vennero attaccati dal Rinanto e dal Melampiro così come riferisce il Dottore Agronomo Attilio Biasco che riferisce la circostanza della evidenza della presenza dei due parassiti dopo la mietitura per la presenza nel campo degli scapi fiorali anneriti tanto da far apparire le stoppie picchettate di nero.
Dalle esperienze millenarie riportate pare che nel Salento leccese la pratica del debbio sia necessaria stando attenti a NON BRUCUARE , SENZA LE DOVUTE MISURE DI SICUREZZA, LE STOPPIE, LA PAGLIA E ALTRI RESIDUI AGRICOLI perchè in pochi minuti potrebbe sfuggire il controllo del fuoco. L’accensione delle stoppie, nei territori della Regione Puglia, è regolamentata dalla L.R. n. 15/1997 e all’art. 41 della L.R. 27/97 modificato dall’art. 37 della L.R. n. 9/2000. Secondo questa legge le operazioni di accensione e bruciatura delle stoppie nei campi a coltura cerealicola sono vietate nel periodo compreso tra il 1° giugno e il 31 luglio, tranne che per le superfici irrigabili utilizzate per le colture di secondo raccolto, per le quali le operazioni di bruciatura possono essere anticipate, previa autorizzazione del Sindaco, a partire dal 1° luglio. Le operazioni di accensione e bruciatura devono in ogni caso essere effettuate nei giorni di non eccessivo calore e privi di vento, nelle prime ore del mattino e nelle ore del crepuscolo. La bruciatura delle stoppie può essere praticata a condizione che lungo il perimetro delle superfici interessate sia tracciata, subito dopo le operazioni di mietitrebbiatura e comunque entro il 15 luglio, una “ precesa” o “ fascia protettiva “ per tutta l’estensione direttamente confinante con boschi o foreste, o con altre proprietà per una larghezza non inferiore a dieci metri e comunque, tale da assicurare che il fuoco non si propaghi alle aree circostanti e/o confinanti. Le medesime operazioni praticate su terreni lungo linee ferroviarie o strade devono rispettare una larghezza delle fascia di precese di cinque metri dal confine ferroviario o stradale. L’operazione di bruciatura deve essere effettuata a cura degli interessati , dotati di mezzi idonei al controllo e allo spegnimento delle fiamme, e assistita fino al totale esaurimento della combustione.

Bibliografia
Ragusa, anziano muore carbonizzato mentre brucia stoppie http://www.gds.it/gds/sezioni/cronache/dettaglio/articolo/gdsid/117831/
Stefania Arcara: Messaggere di luce: storia delle quacchere Katherine Evans e Sarah Cheevers
Piero Bevilacqua: Breve storia dell’Italia meridionale: dall’Ottocento a oggi
Chiara Melani,Francesca Fontanella,Giovanni Alberto Cecconi: Storia illustrata di Roma antica: dalle origini alla caduta dell’impero
Angelo Massafra: Problemi di storia delle campagne meridionali nell’età moderna e contemporanea
La bruciatura delle stoppie: http://www.oseap.it/Lupo/La%20bruciatura%20delle%20stoppie.htm
Maria D’Enghien “Banni e Capitoli” XV secolo
Cosimo Moschettini: Trattato di Olivicoltura
Vittorio Villavecchia,Gino Eigenmann: Nuovo dizionario di merceologia e chimica applicata, Volume 2
Attilio Biasco: Un antica pratica che ritorna agli onori della ribalta – Salento Agricolo Agosto 1959
“NORME IN MATERIA DI BRUCIATURA DELLE STOPPIE ” http://www.provincia.foggia.it/files/File/Caccia%20e%20Pesca/stp.pdf

Piccoli seminaristi crescono… (V parte)

1961. Scogli di Santa Caterina. Don Giorgio Crusafio, Alfredo Romano. Più in basso, Pierino Manca e Salvatore Tundo

RICORDI SCOLASTICI E LETTURE AMENE NEL SEMINARIO DI NARDÒ. 1960-1965 (Quinta parte)

di Alfredo Romano

La mole di libri necessari per affrontare la scuola media ci impressionò: il sussidiario e il libro di lettura delle elementari appartenevano ormai a un passato remoto. Prof. d’italiano e latino il vice rettore don Giorgio Crusafio, un giovane sacerdote appena ordinato, alto e longilineo, sportivo anche, lo stesso che tutte le mattine alle ore 6,00 ci faceva trottare e fare ginnastica per 20 minuti. Era un superiore disciplinare, a volte severo anche, ma durante le ore di lezione si trasformava: era come se cercasse di trovare nell’insegnamento quel piacere che non gli dava la carica di vice rettore. L’amore per l’Iliade e l’Odissea me lo ha trasmesso lui, e in modo singolare direi. Quando leggeva i brani dei grandi poemi sfoggiava un tono, una cadenza, un timbro, un ritmo tali che in classe non fiatava una mosca. In 16 si parteggiava per Ettore, in 5 per Achille: del primo piaceva l’umanità, del secondo la forza. Io stavo con Ettore, ma anche don Giorgio. Che non si limitava alla lettura dei canti, ci imponeva di imparare dei brani a memoria e recitarli coram populo con tutti i crismi di una corretta dizione. Diceva che

Tuglie. Una cartolina dalla Stazione

di Luigi Scorrano

“Stazione” vuol dire, letteralmente, “luogo di sosta”. Ogni stazione lo è. Meglio si potrebbe dire “luogo d’attesa”. Ci si fermi in procinto di partire o, al momento del ritorno, il tanto che basta a passare dal predellino d’una locomotiva al marciapiede, il sentimento che si prova è quello non di uno “stare”, come la parola vorrebbe, ma d’un tendere verso qualcosa. Tendere a un luogo perché vi sospingono particolari circostanze della vita; tornare al luogo natale, alle note pareti di casa, alle vie percorse tante volte con disattenzione e che ora sembrano muovere incontro a chi torna mostrando un volto festevole.

La stazione, anche “questa stazione”, è un luogo in cui s’incrociano destini, in cui storie dolorose o liete si appoggiano per un attimo come valige piene di doni inattesi o di misere cianfrusaglie. Non c’è bisogno di grande movimento per evocare tutto questo: basta oggi osservare gli scarsi viaggiatori in attesa che un lenta littorina scivoli in frenata sui binari o riprenda il suo calmo cammino attraverso irti blocchi di case o dolci tratti di campagne. Basta questo, però, a rievocare la “nostra” stazione com’era  – per esempio – alla metà degli anni Cinquanta, o poco più oltre?

La memoria talvolta arricchisce un’impressione… Di certo c’era il vocio allegro degli studenti, il professionale incedere del personale, il tentativo di recupero d’un po’ di sonno da parte dei passeggeri le cui facce s’intravedevano dietro i finestrini. In alcuni anni la stazione si è presentata un po’ troppo povera nell’aspetto, un po’ trascurata; in altri, lavori e risistemazioni le hanno conferito la fisionomia dignitosa, non senza un’ombra di civetteria, che oggi ha.

La riguardiamo, qualche volta, con un pizzico di nostalgia. I treni si fermano ancora: partono, arrivano… I viaggiatori sempre più radi. Non per questo la stazione perde di fascino. Rimane un luogo simbolico: un luogo dell’incontro o del distacco, ma pur sempre un luogo stampato nella nostra mente con il film di tante vicende, di tante storie personali.

L’emigrazione ne affollò il marciapiede, ora così agevole e allora un po’ sconnesso. Case crebbero sui due lati della ferrovia; la campagna cedette a qualche insediamento industriale. E in anni remoti una coppia di barbagianni costruì nella stazione il proprio nido famigliare. Ma il canto notturno di quei volatili spaventò creduli e superstiziosi. Per i due sposi alati la stazione divenne il luogo dal quale fuggire in cerca d’un nido più accogliente.

Non sempre le stazioni sono felici luoghi di sosta!

(pubblicato da Felice Campa su  www.tuglie.com)

  

Profumi di infanzia: giochi di strada a Taranto in un caldo pomeriggio di luglio


di Daniela Lucaselli

In un pomeriggio caldo di luglio la voglia di esser sola con me stessa mi inoltra nei vicoli del Borgo antico. Una silente solitudine mi avvolge, solo il rumore dei miei passi rimbomba sulle chianche lucide e corrose dal tempo.

Mi piace godere di questi momenti, osservo ciò che si offre al mio sguardo scrutatore che indaga e va cercando una risposta a questo mio stato d’animo.

Di subito schiamazzi di ragazzi mi riportano alla realtà e guidano i miei passi verso una piazzetta. Un’ilarità generale mi strappa alla mia malinconia. Un silenzio imbarazzante e gelido subentra impavido. Il gruppo si è accorto di una presenza estranea.

L’incantesimo è infranto.

Mi avvicino al capo, gli porgo la mano e viene suggellato un patto di sangue: ad uno ad uno si avvicendano e pronunciano il loro nome timidamente in segno di fratellanza, facendo svanire in una nube quella vena di scetticismo e di titubanza che avevo letto pochi istanti prima nei loro occhi.

Sono di loro.

Orgogliosi di ergersi a maestri di strada e di vita, di scatto Pietro, al grido di Marco, toglie di testa a Giacomo il berretto, che poi passa, come se si trattasse di una palla, da un ragazzo ad un altro. Giacomo corre disperatamente, come se fosse un ubriaco, nel vano tentativo di riprendersi quello che gli appartiene, mentre tutti gli altri in coro ridono e si divertono alle sue spalle. Stremati da un’affannosa corsa, ci sediamo, con le ginocchia incrociate, in cerchio a terra. Il più spavaldo inizia a raccontare barzellette mimandole con perspicacia e astuzia. Ma all’improvviso Sonia dà uno scappellotto a Luciana che, una volta ricevutolo, cerca al più presto di scontarlo verso il compagno che ha di fianco. L’allu scùonde continua tra grida e riso. Presi dal fiatone si condivide a canna un sorso d’acqua fresca. Ed è la volta de lu sckaffe. Anche qui il rituale si ripete: dopo il consueto tocco, uno del gruppo va sotto, dà le spalle ai compagni ed è pronto a ricevere lo schiaffo, mentre copre la guancia designata ad essere martoriata con una mano. Quando lo ha ricevuto, si gira per indovinare l’artefice e trova che tutti agitano l’indice, come se tutti fossero colpevoli. Solo quando il malcapitato indovina chi è stato, viene da questi sostituito a passare sotto. E il giro ricomincia per essere a breve sostituito da l’ a botta ‘ngule. Colui che va sotto, questa volta pone la testa in grembo alla “madre”, che è seduta. Riceve lo schiaffo nel “sedere”, si rivolge alla donna dicendo: “Signora maèstre, so stète abbattùte”. Quella risponde : “Pigghie pe rècchie a ci è stète”. Dunque il maldestro deve anche questa volta indovinare chi è stato per essere da lui sostituito.

E così fino a penombra inoltrata si alternano questi giochi di strada, che mi hanno fatto rivivere,  in quel caldo pomeriggio di luglio, l’emozione di un’infanzia non ancora perduta.

Bibliografia

F. Laterza. Giochi tradizionali della strada in territorio tarantino, Taranto
(1980).

Discorrendo di maestri, insegnanti, professori… e minestre

O TI MANGI ‘STA MINESCIA O TI FUTTI TI LA FINESCIA

di Armando Polito

pico della mirandola di Thevet

E’ un vecchio proverbio neritino che, però, credo abbia il suo più o meno coevo e più o meno fedele, e non solo nel concetto, corrispondente in tutti i nostri dialetti, oltre che nella lingua nazionale; ragione buona per non fornirne, almeno una volta, la “traduzione”.
Mi soffermerò, tuttavia , sulle singole parole la cui etimologia mi offre l’opportunità di fare considerazioni, purtroppo amare,  di più ampio respiro.

Minèscia corrisponde all’italiano minestra, dall’obsoleto minestrare =portare in tavola una vivanda, versare nel piatto, a sua volta dal latino ministràre=servire. Questa voce latina è da minìster=servitore, esecutore, strumento, complice; minìster, e siamo sulla dirittura d’arrivo, è composto da minus=meno+il suffisso –ter indicante contrapposizione tra due, per cui la parola, sostanzialmente designa chi, nel rapporto con un altro, vale (almeno sul piano del potere) di meno. Il suo contrario, formale e concettuale, è magìster=capo, maestro, istigatore; la voce, val la pena sottolinearlo, è da magis=più + il già detto suffisso –ter.
Mi sia consentito aprire una parentesi su un mondo, quello della scuola, del quale sono stato parte, spero dignitosamente integrante, per alcuni decenni: in questo mondo fino a qualche anno fa (ho perso i contatti con quell’ambiente, ma non con i miei ex alunni…) c’era una tacita intesa nell’affibbiarsi il titolo di competenza, sicchè chi insegnava nelle elementari era maestro, chi nelle medie inferiori insegnante, chi nelle superiori professore; stranamente, poi, esisteva, nell’immaginario collettivo ma anche in quello dei diretti interessati, un rapporto diretto tra l’età dei discenti e il prestigio del docente e questo non era legato solo al fatto che il maestro (mèsciu), tra i tre, era l’unico a non avere una laurea. Con queste premesse il ruolo di maestro viveva, a torto, quello stato di disagio psicologico che si suole definire complesso di inferiorità. Frequentavo ancora le medie (allora l’insegnamento del latino non era diventato ancora quella barzelletta oscena che ormai si racconta anche nelle superiori…) e un pomeriggio mi recai in casa di un compagno il cui padre insegnava nelle elementari, era, insomma, maestro; rimasi sorpreso quando sulla targhetta lessi prima del nome e cognome la dicitura “insegnante”. Certo quella brava persona aveva perpetrato, secondo l’opinione corrente, un’appropriazione indebita di titolo e un magistrato particolarmente solerte nella circostanza, ma inerte di fronte ad una targhetta con su scritto “guaritore”, l’avrebbe pure incriminato per millantato credito…

Come potevo, io ragazzino, che già all’epoca era patito di etimologia, esprimere ad un adulto la mia comprensione umana per la sua debolezza che si era fermata in mezzo, senza invadere il territorio dei professori, ma nello stesso tempo rammentargli che per me, in fondo, era come se avesse rinunciato alla sua etichetta DOP sostituendola con una DOC?

Ma torniamo a minèscia: da notare lo sviluppo nel dialetto del gruppo –str– in –sci-, come (coinvolgo un’altra parola del titolo) in finèscia (da fenèstram), ma anche nel già citato mèsciu (da magìstrum>maìstrum> mèsciu). Minestra e ministro, dunque, hanno una comune origine ma carriere diametralmente opposte. Infatti, mentre minestra ha conservato la sfumatura di deprezzamento del minus di partenza (amplificata nel nesso “la solita minestra”, anche in senso traslato),  ministro, invece, è riuscito ad arrampicarsi fino a giungere ai livelli (così, almeno, si dice…) più alti, sia pure con varie gradazioni: il ministro del culto e chi, tra i cosiddetti onorevoli, ha coronato il suo sogno di assunzione di responsabilità (?) e di amor patrio (?).

I punti interrogativi appena apposti dicono chiaramente qual è la mia opinione in merito, nonostante senta (o, più correttamente, proprio perché sento) proferire spudoratamente nelle campagne elettorali locuzioni tipo “priorità morale” o “spirito di servizio” o, sempre astrattamente (lì sta il trucco…), la “concreta riduzione dei costi della politica”.

Come farei ora, da grande, a spiegare, questa volta ad un ministro, che alla lettera il suo titolo designa uno che nei confronti dell’ultimo, sottolineo ultimo, dei cittadini “vale” meno e che il minister a Roma, quella di due millenni fa, guadagnava certamente meno, ma molto meno del suo dominus?

E’ tempo di tornare al nostro proverbio e di chiudere, al mio solito, con una serie di interrogativi: esso è veramente espressione di saggezza, oppure una dichiarazione di impotenza, di passiva rassegnazione, non tipicamente meridionale, questa volta, vista la sua diffusione?

Rocco Cataldi, l’uomo, il poeta

di Paolo Vincenti

L’anno scorso è scomparso Rocco Cataldi. Parabita ricorda un suo figlio devoto ed uno dei più rappresentativi poeti dialettali pugliesi degli ultimi anni. Uno dei temi ricorrenti nella sua poetica era il mondo degli umili, quella civiltà contadina alla quale egli si sentiva profondamente radicato e dalla quale mai volle staccarsi, rivendicandone orgogliosamente l’appartenenza in tutti i suoi scritti. Una civiltà contadina che era, però, al suo crepuscolo e questo determinava in Cataldi un senso di profonda nostalgia ed amarezza.

Il filo che lo teneva legato a quel mondo in dissoluzione era quello della memoria, del ricordo del buon tempo antico, un tempo fatto di semplicità di gesti e di parole, un tempo in cui bisognava certo tirare la cinghia per andare avanti alla meglio, ma in cui vi era una genuinità di sentimenti ed una bontà di intenti che, nella società ipertecnologica del 2000, Cataldi vedeva irrimediabilmente compromessi. Di qui, l’amaro sfogo contro le brutture e la tristezza dei tempi.

Poesia della memoria, la sua, quindi, e poesia pedagogica, cioè poesia che vuole insegnare, sul modello del Parini, che Cataldi amava, nel tentativo, da lui stesso dichiarato, di una restaurazione di quei principi morali ai quali era legato per formazione, come ad un “Pansieri fissu”. Quegli stessi valori che suo padre, uomo umile ed illetterato (che ricorda nella poesia “ Ci dici tà?”, una delle sue più belle), gli aveva trasmesso, e che lui voleva trasmettere ai suoi allievi, insieme alla “Speranza” di un domani migliore: “Quardati annanti… nu’ bbe scoraggiati! A rretu ‘lla nuveja, nc’è lu sule”.

Come ci riferisce la moglie, Signora Marisa, aveva paura di non riuscire a trasmettere ai suoi ragazzi il buon esempio, quei valori su cui, diceva, si costruisce la società. La scelta del dialetto ha questa valenza, quasi di una battaglia civile in difesa di quei principi di cui la sua storia era maestra (solo una raccolta, “Riflessi opachi” è in lingua italiana).

La sua, secondo Antonio Errico, è “poesia costruita sulle macerie di miti e deità che come ogni mito ed ogni deità esistono finchè esiste l’uomo che ci crede” (introduzione ad “Arretu ‘lla nuveja nc’è lu sule”).

La morale di Cataldi viene da Gino Pisanò, nell’introduzione ai suoi “Culacchi”, definita “esiodea”, “quindi millenaria come il messaggio dell’antico poeta greco, medesima epperò nuova, perché mai fuori tempo e fuori luogo: lavora e sii giusto”.
Rocco Cataldi era nato a Parabita il 9 gennaio 1927. Maestro elementare a Matino, Lecce, Racale e Parabita, dove era diventato una vera istituzione, nel 1985 era stato insignito dal Presidente Pertini dell’onorificenza di “Cavaliere al merito della Repubblica”, ma Cataldi non amava sbandierare ai quattro venti questo importante riconoscimento, anche se ne andava fiero e, ci confida Ortensio Seclì, nel privato amava condividere le sue gioie e gratificazioni con gli amici più cari, fra i quali lo stesso Seclì .

La prima raccolta di poesie risale al 1947, “Robba noscia” (Editrice Bruzia), poi “Storria t’à Madonna t’à Cutura” (Paiano Galatina, 1950, poi ripubblicata dall’Adovos di Parabita, nel 1987, con prefazione di Padre Giuseppe Parrotta). Nel 1956, è la volta di “Riflessi opachi” (Gastaldi Milano) e, dopo una lunga pausa, “Lu Ggiudizziu ‘niversale” (Adovos Parabita, 1975), con prefazione di Aldo D’Antico.

Da piccolo, Cataldi aveva conosciuto un poeta dialettale di Taviano, Oronzo Miggiano il quale, cieco dalla nascita, ospitava volentieri il giovane Cataldi nella sua casa, dove viveva solo; un giorno, il Miggiano ascoltò alcune composizioni di Rocco, che aveva trovato il coraggio di leggergliele e, dopo un lungo silenzio(come ricorda lo stesso Cataldi in un aneddoto raccontato a Guido Pisanello su NuovAlba, aprile 2001), il Miggiano disse: “E bravu lu scettu” e lo incoraggiò a continuare sulla strada intrapresa: quella frase divenne il titolo di una poesia di Cataldi dedicata proprio al Miggiano.

A proposito della poesia dialettale del Cataldi, Donato Valli, nell’ultimo numero di NuovAlba (aprile 2005), tracciando un profilo del grande amico perduto, precisa il posto in cui si colloca Cataldi nel panorama della poesia dialettale in generale; spiega Valli, “nell’ambito di quella che Croce chiamava poesia dialettale “riflessa”, esistono almeno due livelli: uno è quello della poesia dialettale dotta (è il caso del poeta di Ceglie Messapico, Pietro Gatti e del poeta magliese Nicola De Donno), l’altro è quello dei poeti che rimangono legati, nella lingua e nei contenuti, alla matrice originaria di una popolarità sentimentale ed espressiva (ed è il caso di Cataldi)”.

Il nostro rientra, dunque, nel filone popolaresco della poesia in dialetto, ma non nel senso di poesia di origine popolare, come spiega ancora Valli, ma nel senso che essa muove da colori, umori e sapori che sono radicati nel popolo ritenuto, in una visione romantica e mazziniana, come depositario della bontà e della saggezza.

Nel 1977, viene pubblicato “Pale te ficalindie” dalla Editrice Salentina di Galatina, proprio con prefazione di Donato Valli. Nel 1982, è la volta di “Li sonni te li pòviri” (Congedo Editore), con prefazione di Luciano Graziuso e, nel 1989, “A passu t’ommu” (Congedo), introdotto e commentato da Gino Pisanò. Nel 1988, viene pubblicato dal Laboratorio di Aldo D’antico “A rretu ‘lla nuveja nc’è llu sule”, con introduzione di Antonio Errico.

Aldo D’Antico fa notare che, in un mondo colmo di “nu tumunu te moja e de mundizza”, rivolto solo all’interesse ed al profitto, “l’ironia, il sarcasmo, il paradosso sono le vendette morali con cui il poeta ripaga il mondo e gli altri della loro falsità” Nel 1996, esce “Culacchi”, con prefazione di Gino Pisanò, e il ricavato della vendita di questo libro, dedicato “Ai buoni perché si mantengano tali; agli altri perché lo diventino”, stampato in numero limitato, il poeta volle che fosse devoluto a favore dell’erigendo monumento a Padre Pio, a Parabita. E questo ci porta ad una altro aspetto del poeta Cataldi, cioè la sua forte religiosità; come conferma ancora la Signora Marisa, “avrebbe voluto fare il missionario”, ci dice “ e importantissimi erano questi sentimenti di umana pietà, senso del dovere e della famiglia, onestà intellettuale, che ha voluto trasmettere ai suoi quattro figli”. Si era adoperato per la costruzione di una piazza a Parabita dedicata a Padre Pio. A capo del Comitato Promotore, dovette combattere per anni contro la burocrazia, prima di vedere avverato il suo sogno: finalmente una piazza, all’interno della zona di espansione di Parabita, lungo la strada per Collepasso, con al centro una imponente statua bronzea di Padre Pio da Pietralcina, realizzata dai maestri scultori Donato e Carlo Minonni, grazie anche alla generosità di tanti parabitani e soprattutto del suo grande amico Raffaele Ravenna. “Un’occasione per contribuire alla crescita spirituale della nostra gente”, scriveva Cataldi in un articolo apparso su NuovAlba nel marzo 2002, “per guardare in alto”, “in un momento in cui si è assediati dal materialismo che costringe a guardare in basso” e pubblicava sulla rivista una poesia inedita che aveva scritto in onore del Santo, in occasione di una visita a San Giovanni Rotondo nel 1992, “Quell’unica, umilissima, campana…”.

L’ultimo libro, del 2000, è “Parole terra terra” (Congedo editore), con prefazione di Donato Valli e note esegetiche di Gino Pisanò. A questo bisogna aggiungere tutte le poesie scritte su cartoncini, per i suoi allievi, nelle più svariate occasioni dell’anno scolastico, come il Natale, la Pasqua, la festa della mamma, la festa del papà, sempre amorevolmente illustrate da Mario Cala e che si trovano ancora in molte case dei parabitani che sono stati allievi del Maestro Rocco. Rocco Cataldi- Mario Cala era diventato negli anni quasi un marchio di fabbrica: “la penna e il pennello”, come lo stesso Cala afferma in un commosso ricordo dell’amico e parente, “lu zì Rocco”, sull’ultimo numero di NuovAlba. Di prossima pubblicazione, è una raccolta di poesie inedite del maestro Rocco, a cura dell’Adovos di Parabita, “Mirando al cuore”, con una nota introduttiva di Aldo D’Antico. “E, òsci, ntorna sule. Comu ieri./ Comu nu stierzu. Sule Salentinu!/ Nù ‘ ccusta nensi, mancu te pansieri./ Cusì nc’è scrittu susu ‘llu bullinu…/ La mmane, s’aza prestu. E’ mattinieri./ E, gentirmente, s’offre pè spuntinu:/ ‘nu stozzu caddu caddu e ‘nnu bicchieri/ te Lacrima te Luna a mmatutinu./A cquai, lu sule è ffrancu. Nd’ave tentu!/ Lu poi truare, specie a mmenzatìa,/ mmiscatu a vere lacrime te chiantu/ te tanta ggente, ca nu’ ttròa la via/ pe ‘ nnu lavoru unestu e ssacrusantu./ E mangia sule, lu Salentu mia…/”.“

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE DI ROCCO CATALDI

Robba noscia , Bruzia Editore, Castrovillari 1949, con Prefazione di Francesco Russo

Storria t’a Matonna t’a Cutura, Paiano Editore, Galatina 1950

Riflessi opachi, Gastaldi editore, Milano 1956

Lu Ggiutizziu ‘niversale, Adovos Parabita, 1975, con Prefazione di Aldo D’Antico

Pale te ficalindie, Editrice Salentina, Galatina 1977, con Prefazione di Donato Valli

Li sonni te li pòviri, Congedo Editore, Galatina 1982, con Prefazione di Luciano Graziuso

Storria t’ ‘a Matonna t’ ‘a Cutura (ripubblicazione), Adovos Parabita, 1987, con Prefazione di P.Giuseppe Perrotta o.p.

A rretu ‘lla nuveja nc’è lu sule (Antologia 1948-1982), Il Laboratorio, Parabita 1988, con  Introduzione di Antonio Errico

A passu t’ommu, Congedo Editore, Galatina 1989, con Prefazione di Gino Pisanò

Culacchi, Parabita 1996, con Prefazione di Gino Pisanò
Parole terra terra , Congedo Editore, Galatina 2000, con Presentazione di Donato Valli
e Note esegetiche di Gino Pisanò

Mirando al cuore (postumo), Adovos Parabita, 2005, con commento di Mario Bracci, Prefazione di Mario Cala e Presentazione di Aldo D’Antico

Sue poesie ed articoli sono stati pubblicati, fra le altre, sulle seguenti riviste: “A Parabita due notti d’estate” , “Il Donatore”, “Paesenuovo”, “Sagra della patata”, “NuovAlba”.

Pubblicato su “Anxa news”, ottobre 2005 e poi in “Di Parabita e di Parabitani”, di Paolo Vincenti, Il Laboratorio Editore 2008.

La maturità dei precari

di Dario Vadacca

I precari della scuola, in particolare quelli provenienti dall’Italia meridionale, rappresentano la manovalanza di base per lo svolgimento di quel rito di passaggio oggi noto come esame di stato ma conosciuto nel linguaggio comune col nome di maturità. Il docente precario che affolla le graduatorie permanenti degli USP del nostro paese proviene generalmente dal sud Italia (fino a pochi anni fa nelle province del Nord i neoabilitati riuscivano ancora a lavorare in sedi non troppo lontane da casa) un tempo partiva con un treno lentissimo e sovraccarico, acquisiva punteggio e diritti e tornava dopo pochi anni stabilizzato e trasferito. Oggi vola con le compagnie low cost, paga ogni anno cifre di iscrizione importanti ai corsi on-line per il conseguimento di punti extra  e si augura soltanto che l’anno prossimo non sia peggio di questo.

L’esame di stato o maturità comincia molto prima della data della prova d’Italiano scritto, il suo primo atto ufficiale si consuma quando, in un pomeriggio di gennaio non stabilito da un preciso calendario, il Ministero annuncia ai mezzi d’informazione l’elenco delle materie scritte e orali per il corrente anno scolastico, specificando quali saranno assegnate a docenti interni e quali agli esterni. Nella quasi totalità dei casi si tratta di scelte ampiamente previste, nel pieno rispetto della consuetudine dell’alternanza. È in quel momento che si mette in moto una serie di meccanismi che porterà alla formazione delle commissioni in tutta Italia. In ogni scuola superiore, i docenti non designati come membri interni saranno obbligati a compilare la domanda per l’assegnazione ad una  commissione, e ciascuno di loro lo farà con modalità e stati d’animo differenti a seconda della posizione occupata all’interno dell’istituzione.

Il preside e il docente con un curriculum importante si presterà volentieri a ricoprire l’incarico di presidente, l’unico con una retribuzione interessante, il docente di ruolo pago della sua posizione si limiterà a richiedere una sede nel proprio comune di residenza, augurandosi che la domanda non venga accolta e che le incombenze istituzionali si concludano al più presto. Il precario sceglierà di norma più di un distretto, magari anche oltre la provincia di appartenenza.

Far parte della commissione d’esame è infatti una prospettiva interessante in quanto può significare un mese di stipendio in più, rispetto ad un contratto che di norma cesserebbe al termine dell’attività didattica o, nel migliore dei casi, il 30 giugno.

Le scelte definitive in materia vengono effettuate dagli Uffici Scolastici Provinciali, che di norma le comunicano a maggio. I criteri seguiti non sono sempre chiari e sembrano comunque assecondare le volontà dei richiedenti. Così ci si trova sempre più spesso ad avere a che fare con commissari alle prime armi, vogliosi di imparare ma timorosi di sbagliare e presidenti che si assumono il compito di fare da tutori delle nuove leve, mandate a gestire dinamiche complesse, legate all’attribuzione di voti conclusivi di un intero ciclo, spinti dal miraggio di raggiungere il punteggio che non si è riuscito a racimolare durante l’anno o di aggiuungere giorni di servizio utili per l’ottenimento dell’assegno di disoccupazione.

Il precario della scuola è una figura professionale che vive le contraddizioni del conflitto generazionale nella quotidianità: pur essendo legalmente e professionalmente alla pari con i suoi colleghi più anziani, si ritrova a desiderare come una benedizione, ciò che per loro sarebbe un fastidio. La differenza di fondo negli atteggiamenti sta nel fatto che per i più anziani il periodo estivo senza lavoro si chiama vacanza, per i più giovani si chiama disoccupazione, e viene vissuta sempre con il timore che questa volta la pausa possa non finire a settembre.

Ed eccoci di nuovo a giugno con i ragazzi pronti a sostenere la prova che li consegnerà al mondo degli adulti e, dall’altra parte, una sempre più nutrita schiera di ex ragazzi, non più con la chioma brizzolata ma sempre più spesso con l’orecchio bucato, il tatuaggio nascosto e quel look apparentemente serio che serve a nascondere la più dura verità alle nuove generazioni: il fatto che quell’esame non mette in palio nulla, che oltre quel gradino non c’è niente di garantito ma solo un’estate che vedrà accomunati giovani commissari e neo-maturati dalla prospettiva di dover inventare un senso per il proprio futuro.

Da Bergamo nel Salento per offrirci l’insalata

La produzione delle verdure del Salento leccese “Jentu” : un modello di sviluppo

di Antonio Bruno
Manifesti che tappezzano la città di Lecce, non sono i soliti che pubblicizzano il saggio di Danza di fine anno o il Concerto per l’Estate, i manifesti annunciano di un gruppo di piante che noi umani mangiamo fresche, anzi freschissime: le insalate http://www.agroleaf.com/Jentu_Invito_Mail.pdf .
L’iniziativa è un confronto tra due dei tanti possibili attori che ruotano intorno alle insalate e specificamente i produttori di insalata e i distributori di insalata. E’ come se ti vedessi: ridacchi perchè sull’autostrada non hai mai visto un distributore di insalate, né hai mai saputo che esistono persone che invece di andare a “merendine” vanno ad insalata. Invece no! Te lo posso testimoniare io l’importanza dell’insalata che al plurale fa insalate, da quando c’è la nutrizionista che decide cosa devo o non devo mangiare.

La cosa che mi è accaduta nella sostanza è che, le insalate sono sempre sulla mia tavola, sia a colazione che a cena! Le parole sono importanti, allora che cavolo significa dire insalate?

Te lo spiego: è la pietanza composta da più cibi, principalmente di verdura, caratterizzati dal fatto di essere conditi con olio, sale e altri ingredienti opzionali come aceto o succo di limone e pepe e nel linguaggio comune il vocabolo “insalate” viene comunemente usato per indicare la materia prima del piatto, ossia le verdure stesse.
Allora per insalata si intendono le verdure. Ecco fatto! Semplice no?

Il 10 giugno alle 18.00 presso l’hotel Tiziano di Lecce si sono incontrati la Società di produttori di insalate di IV (quarta) GAMMA con quelli che poi le distribuiscono. E di nuovo! Che cos’è la quarta gamma? Stai tranquillo, te lo dico, un attimo di pazienza.

Per prodotti di IV gamma si intendono gli ortofrutticoli freschi lavati, tagliati, asciugati, confezionati in buste o vassoi e direttamente pronti per il consumo. Non solo le insalate! Tutti i prodotti ortofrutticoli!

Da bambino la mia mamma mi diceva che dovevo aspettare perché doveva sbucciarmi la mela! Che amore di mamma! Ancora oggi non posso dimenticare quelle mele sbucciate e poi tagliate a spicchi che mi venivano servite su un piatto d’argento. Antonio basta! Ti stai distraendo, e inoltre a 53 anni suonati sei patetico in questi ricordi di quand’eri piccolo che è più o meno un periodo tra il PALEOZOICO e il MESOZOICO! Comunque ci sono aziende che “campano” e che guadagnano davvero bene avendo preso a modello la mia mamma che ha inventato la Quarta gamma! Solo che la mia mamma, la mela non la metteva in vassoio o in busta prima di farmela consumare, la mia mamma me la dava subito la mia mela!
Cosa caratterizza la mia terra, questo meraviglioso Salento leccese? E dai lo so che non sei di qui e che ti aspetti che te lo dica, è il sole, poi il mare e infine? Come dici? Le insalate? Ma zitto non è questo! Il vento, c’è la prevalenza della tramontana, ma c’è anche quel vento che viene dalla Libia, il libeccio. Come dite da voi vento? Vento vero? Da noi diciamo Jentu? Con questa “u” finale che fa tanto Portugheise!

Ecco la società di produttori di insalate di IV gamma si chiama Jentu S.Agr.r.l http://agroleaf.com/ e anche se, come diceva la mia mamma, “rimane” nella Contrada Masseria Marini a Guagnano nel Salento leccese tutti quelli che hanno parlato nel Convegno non facevano finire le loro parole con la “u” Portugheisa del Salento leccese! Perché?

Ma perchè questi bravissimi tecnici non sono del Salento leccese ma di Bergamo.
E’ di Bergamo Alessio Guglielmo che è presidente di una Società che si chiama Agronomia http://www.agronomia.biz/ che prende i prodotti oltre che dal Salento leccese anche da Battipaglia, dalle Marche e dalla stessa Bergamo! E sono di Bergamo tutti gli altri!

Jentu è un paradigma, un modello per tutti i Dottori Agronomi ed i Dottori Forestali del Salento leccese perchè ciò che predichiamo a Lecce è stato realizzato a Guagnano dai Bergamaschi! A Lecce diciamo che è necessario che il prodotto sia certificato in termini di sicurezza e di qualità e i tecnici di Bergamo lo fanno a Guagnano! A Lecce diciamo che c’è necessità di un consumo del prodotto da parte degli abitanti del territorio? E i Bergamaschi lo fanno!

Insomma ciò che è scritto nelle mie note è già un fatto, qui, ora e questa esperienza di Jentu dimostra che è possibile realizzare quanto affermato da noi Dottori Agronomi ed i Dottori Forestali del Salento leccese.
Jentu è la dimostrazione che un prodotto agroalimentare che intercetta le esigenze delle persone umane è acquistato e pubblicizzato porta a porta, con il passaparola che ti fa partire alla volta di un paese sperduto per assaggiare la Pastinaca te santu Pati o il Pisello nano di Zollino.

Il paradigma Jentu è quanto potrà essere realizzato con l’Esperienza sulla Biodiversità che stiamo portando avanti a Zollino dove è presente un paniere di prodotti tipici del Salento leccese, selezionati dall’Università del Salento e dai Dottori Agronomi ed i Dottori Forestali di questo territorio.

Io desidero ringraziare questi tecnici della lontana Bergamo a dimostrazione che questo pianeta deve dare la possibilità a tutti di muoversi liberamente perchè l’insediamento di persone che hanno cultura diversa, lingua diversa e tradizioni diverse dalle nostre ha portato arricchimento al nostro territorio in termini di sviluppo sociale ed economico.

Adesso tocca a noi imitarli perchè l’imitazione ha consentito alle persone umane di conquistare questo pianeta per vivere tutti in maniera dignitosa e libera, spetta a noi questo compito per diffondere nel grande lago salato le produzioni sane e gustose del Salento leccese.

Nardò. Proposte per il recupero del suo centro storico

Piazza Salandra a Nardò, palazzo comunale, già Pretura (ph M. Gaballo)

Mi sia concessa una piccolissima soddisfazione personale, chiedendo scusa se approfitto di questo spazio, per sottolineare il raggiungimento di un obiettivo che da anni mi sono prefissato.

Sul blog dell’amico Salvatore De Vitis, vice-sindaco della Città di Nardò, leggo:

“Centro storico Nardò: tornano gli uffici pubbliciPosted on 22 maggio 2010 by Salvatore De Vitis

Un altro piccolo (grande) passo verso la rivitalizzazione del centro storico. La Giunta Comunale, nei giorni scorsi ha approvato il progetto per il recupero dell’antico Palazzo di Città (ex Pretura ) stanziando trecentomila euro. Il nostro obiettivo è quello di riportare gli uffici di rappresentanza del Comune nel cuore della città, in Piazza Salandra. Abbiamo ascoltato le richieste dei commercianti e dei residenti ed abbiamo immaginato uno sviluppo del centro storico che lo riporti ad essere (come si dice in questi casi) il “cuore pulsante” della città. In realtà, abbiamo fatto molto di più: vista la scarsità delle risorse a disposizione, stiamo agendo in modo da concentrare gli interventi, ci siamo fermati a “progettare” un nuovo centro storico ed abbiamo disegnato le linee dello sviluppo futuro.

Vi riporto le ultime tappe:

  • Accordo Comune di Nardò – Universita del Salento: info point dell’università nel centro storico di Nardò;
  • Iniziativa del Touring Club: visite guidate del territorio neritino;
  • Uffici pubblici in Piazza Salandra: trecento mila euro per il recupero dell’antico Palazzo di Città;
  • Completamento chiostro dei Carmelitani e di S. Antonio: finanziamenti di Area Vasta;
  • Il dialogo tra e con gli operatori: un comportamento virtuoso nuovo per il territorio.

La nostra idea di “Sistema Centro Storico” comincia a dare i primi frutti (http://salvatoredevitis.wordpress.com/2010/05/22/centro-storico-nardo-tornano-gli-uffici-pubblici/)”.

 

Da anni propongo quanto l’Amministrazione intende finalmente realizzare e non pochi attacchi mi furono lanciati da alcuni cittadini e tecnici, dandomi dell’incapace e visionario, scrivendo che addirittura sarei vissuto su un altro pianeta, senza alcun raccordo con la realtà, ignaro delle reali esigenze della popolazione. Documentai, con apposito articolo pubblicato lo scorso anno su Spicilegia Sallentina a proposito del Palazzo di Città, in piazza, che quell’edificio era stato realizzato agli inizi del ‘600 con il denaro pubblico e mi pareva giusto tornasse ai cittadini, liberandosi da quell’orribile denominazione di “Ex Pretura”.

Piccole soddisfazioni che il tempo, sempre galantuomo, regala a chi propone con lealtà ed amore per il proprio paese soluzioni innovative.

Ripropongo dunque quanto ebbi modo di scrivere già nel 1996 (Il Salento magazine), ripreso in più occasioni negli anni successivi.

La civica Amministrazione di tanto in tanto si ripropone il problema di come rivitalizzare il centro storico e questo non può che far piacere a quanti seguono con interesse le sorti di una plurisecolare città com’è Nardò.
Ai vagiti seguano però le grida, così che il risveglio non sia ulteriore motivo di inganno e delusione, ai quali, purtroppo, siamo abituati.

Condivisibile dunque quanto più volte manifestato da gruppi spontanei di cittadini o associazioni e fa piacere che qualche amministratore finalmente presti la dovuta attenzione ad una realtà che oramai non si può più negare. Il centro storico di Nardò esiste, piaccia o no, e quindi va salvato, recuperato, rivalutato, perché lo desidera il politico, ma soprattutto perché lo vuole la popolazione.

Lo auspicano anche i tanti turisti che ormai ci visitano con assiduità ed i numerosi commercianti che con grande sacrificio aprono quotidianamente le loro saracinesche sperando sempre che qualcosa di nuovo ci sia sotto il sole. Tutti dunque sono concordi e forse è arrivato il momento che le idee ed i suggerimenti da più parti proposti si concretizzino. Confidiamo, ancora una volta, nell’ entusiasmo di sparuti amministratori, che devono seriamente prendere a cuore il destino del centro storico.

Due grossi contenitori di recente sono stati offerti alla città, ed entrambi in posti nevralgici, sui quali più volte ho proposto di impiantare la rinascita del centro storico. Mi riferisco in particolare all’ asse Piazza della Repubblica, Via Vittorio Emanuele, Don Minzoni, Lata e Nicola Ingusci, oltre a via Duomo. Niente di più intelligente poteva esserci offerto sin dal XV secolo, quando la città registrò il suo definitivo ampliamento, con la struttura urbanistica tuttora sotto i nostri occhi.
E’ da lì, ribadisco, che debba rinascere la città commerciale, politica, turistica ed artistica. L’ arte, grazie al cielo, è già presente ed è straordinaria (si pensi allo snodarsi del complesso del Carmine, del Teatro, della piazza, di S. Domenico).

 

In piazza ci sono due importanti strutture sulle quali conviene soffermarsi: l’ex “pretura”, già palazzo municipale, e il “circolo cittadino”, già Sedile. Su queste investirei molto: come in tantissime occasioni ho scritto alla prima ridarei la sua funzione storico-politica, impiantandovi gli uffici del Sindaco e dei suoi assessori, oltre la sala consiliare, all’ uopo trasformata in sala conferenze o galleria. La seconda, il Sedile, la adibirei a sede della Polizia UrbanaAlle varie associazioni riserverei locali più periferici.
Nel poco distante complesso dei Carmelitani troverebbero collocazione alcuni uffici, oggi ospitati in strutture prese in affitto.
Nel castello impianterei, oltre all’ assessorato al Turismo, con un adeguato servizio di informazioni ed accoglienza turistica, gli altri uffici. Emerge chiaramente la vicinanza fra tutto, con evidente risparmio di mezzi e di tempo, essendo molto più rapido spostarsi per esempio dalla piazza al castello, anziché dal castello a via Due Giugno o, ancor peggio, per recarsi all’ assessorato al Commercio.

Fin troppo evidente lo sviluppo immediato che si avrebbe e naturalmente l’ operazione richiamerebbe attività commerciali, recupero di immobili da decenni chiusi o sfitti, restyling degli edifici privati e così via. Ovvio che l’ asse in questione sarebbe interdetto dalla circolazione con automezzi, fatta eccezione per i veicoli autorizzati.

Non è fantascienza! Tutti i centri storici d’ Italia lo hanno fatto e noi siamo tra i pochi che ancora ci poniamo il problema se recuperare o meno il nostro e, ancor peggio, se chiuderlo o meno al traffico veicolare.
Non è facile, occorreranno degli anni e delle spese, ma una volta tanto sarebbe bello se anche Nardò ragionasse con lungimiranza. Così come i cittadini ancora oggi ricordano chi ha autorizzato la discarica o ha asfaltato il centro storico, allo stesso modo ricorderanno quanti hanno voluto la sua rinascita.
 

Con altro pezzo riproporrò la storia del Palazzo di Città, che senz’altro tornerà utile a quanti vorranno conoscerne le vicende architettoniche e la cronologia, desunta dagli atti notarili dell’epoca.

Galatina. Breve nota irriverente e fantasiosa su San Paolo e le tarantate

di Massimo Negro

Ho dei buoni motivi per ritenere che San Paolo in fin dei conti non abbia mai avuto vita facile a Galatina. Anzi forse avrebbe fatto anche a meno di essere presente in quella città.

Non che a Roma le cose fossero state tutte rose e fiori. Lasciamo perdere il martirio che nella vita di un Santo, specialmente nei primi anni del cristianesimo, era una scelta quasi obbligata. A preoccuparlo erano stati soprattutto i rapporti iniziali con il Santo pescatore.

Paolo pur con qualche difficoltà aveva alla fine accettato questa coabitazione come santo patrono della città eterna. Avrebbe preferito, in virtù della sua cittadinanza romana, che si dicesse “Santi Paolo e Pietro”, ma alla fine se l’era fatta passare.
Così come, pur se con qualche borbottio, aveva accettato che la sua Basilica venisse posta fuori le mura anziché in centro.
Più di qualche borbottio, riferiscono santi a lui vicini,  c’era stato quando il vescovo di Roma (per intenderci il Papa) aveva scelto come sede San Giovanni, ma qualcuno gli aveva fatto prontamente notare che trattavasi pur sempre del cugino del Maestro e del discepolo “che Egli amava”.
Dopo i primi momenti e le difficoltà iniziali, si può dire che a Roma era riuscito a trovare un suo spazio, una sua dimensione. Sempre pronto a sfoderare la spada, ma il suo carattere si era con il tempo ammorbidito.

Ma questo non accadeva quando pensava a Galatina. Lasciamo stare il fatto che il ritrovarsi anche nel Salento in compagnia di Pietro non l’avesse entusiasmato, e forse lo stesso Pietro, che per primo ci aveva messo piede, non era contentissimo. Ma dopo tanti anni di coabitazione romana alla fine i due conoscevano pregi e difetti l’uno dell’altro e sapevano come “prendersi” e come all’occasione evitarsi.
Chi non riusciva assolutamente a sopportare erano due donne. Due comuni mortali ma che non c’era verso di scalzare nel cuore della gente. Francesca e Polisena Farina.

Eppure, ripeteva ai suoi amici, lui poteva vantare miracoli provati e documentati, anzi nello specifico, un miracolo era stato anche riportato negli “ Atti degli Apostoli”. Lui a Malta era riuscito, pur se morso da una vipera, a non riportare alcuna conseguenza e, da allora, era invocato dalle genti di tutto il mondo a protezione dai morsi degli insetti e delle serpi. In tutto il mondo tranne a Galatina.
A Galatina accorrevano persone da ogni dove, morse da tarantole, scorpioni o serpi, non per chiedere a Lui la guarigione, bensì per rivolgersi a quelle due sorelle che, con pratiche ancestrali e arti magiche, tra sputi e rituali vari, riuscivano a far espellere il veleno dal corpo del malcapitato o malcapitata.
Alla fine dovette aspettare che morisse anche l’ultima delle due sorelle, senza che lasciassero discendenza femminile.

Ma proprio quando stava per gioire,  sia beninteso , non della loro morte ma per il semplice fatto che l’ordine naturale e sovrannaturale delle cose pareva essersi ristabilito, qualcuno gli aveva fatto notare qualcosa che, se possibile, l’aveva incupito ancora più di prima.
L’ultima delle due sorelle prima di passare a miglior vita si era preso il fastidio di sputare la propria saliva guaritrice nell’antico pozzo. Per cui accadeva che la gente tarantata, che ora accorreva in massa a chiedere la protezione a Santu Paulu miu de le tarante, dopo aver ballato, essersi contorti per terra o arrampicati sull’altare, alla fine del rito di espiazione si avvicinava al pozzo e beveva proprio quell’acqua benedetta dalla saliva della guaritrice.
Si mosse tutta la chiesa compatta ma non ottenne nulla. La gente continuava a bere l’acqua di quel pozzo.
Una vita da separati in casa. Lui da una parte, il ricordo delle due sorelle dall’altro.

Il quadro che un pittore parente delle due sorelle dipinse e che pose all’interno della cappella sembra quasi rappresentare questa situazione. Si nota un San Paolo in posa altera e maestosa e ai suoi piedi un poveretto malaticcio sorretto dalle due sorelle che cercano di far bere a questi l’acqua del pozzo. Se notate, San Paolo non degna di uno sguardo i tre, quasi a dire “ti sei rivolto a loro? ora sono fatti tuoi”. E delle due sorelle, una non lo degna di uno sguardo porgendo l’acqua del pozzo al malato, mentre l’altra sembra dire, guardando San Paolo, “che vogliamo fare?”.
Quando sul letto di morte, qualcuno chiese al pittore il perché di quella rappresentazione, questi, proprio mentre stava per esalare l’ultimo respiro, disse “non si sopportavano … non si sopportavano”.
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dopo 2

Le due sorelle Farina, Francesca e Polisena, sono le due sorelle descritte dall’Arcudi nel finire del ‘600 come le due guaritrici che alleviavano le sofferenze dei malati e in particolare dai morsi degli insetti. Il pittore Francesco Lillo che dipinse il quadro nel 1795 dovrebbe essere un discendente del marito di Francesca, Donato Lillo.
Le storie sul tarantismo si perdono nell’antichità dei tempi. Tra l’altro abbiamo letto in una delle mie precedenti note, come nel brindisino si ricorresse all’intercessione di San Francesco per guarire dai morsi della tarantola.
La chiesetta di San Paolo, i cui lavori iniziarono nel 1791, fu completata nel 1795. Molto dopo la morte delle due sorelle. Da quanto riferiscono studi condotti nel Salento, prima del ‘700 il culto di San Paolo era molto limitato e ristretto a poche chiese.
E’ probabile che, proprio in virtù del miracolo dal morso della serpe a Malta raccontato negli Atti degli Apostoli, la Chiesa abbia deciso di intervenire con tutto il suo peso non solo religioso ma anche culturale, ponendo San Paolo come santo protettore di questi malati, cercando di far scomparire o limitare, ma inutilmente, tutti gli aspetti non canonici legati ai riti di guarigione.
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La chiesetta dopo circa un anno di restauro, iniziati grazie all’Amministrazione Provinciale allora retta dal sen. Pellegrino e dall’Amministrazione Comunale allora retta dalla dott.ssa Antonica, è stata riaperta al pubblico nei giorni scorsi in occasione delle festività dei Santi Pietro e Paolo (o Paolo e Pietro!).
Non era mai stata sconsacrata per cui la riapertura è stata accompagnata dalla celebrazione di una messa all’interno della chiesetta.
I lavori di restauro hanno interessato, in particolare, il rifacimento del vespaio per cercare di arginare l’umidità di risalita e la posa della nuova pavimentazione. Riguardo l’altare, anch’esso attaccato dall’umidità, gli interventi son stati limitati a rafforzarne la struttura e a interventi di pulitura per eliminare dove possibile la calce che ricopriva i colori originali dell’altare. Non è stato effettuato un vero e proprio restauro dell’altare anche a causa della particolare friabilità della pietra usata nella sua costruzione.
La tela del pittore Saverio Lillo (1795) era stata già restaurato circa due anni fa; per l’occasione è stata posizionata nella sua collocazione originaria, cioè sull’altare, dopo esser stata per lungo tempo esposta all’interno del Museo cittadino.
La chiesetta restaurata merita una visita e vi consiglio di visitare anche il vicino Museo sul Tarantismo sito in Corso Porta Luce.

dopo 1

Un rifugio stagionale salentino: la pagghiàra (terza parte)

 

campagna salentina con costruzione a secco (ph M. Gaballo)

CIVILTA’ CONTADINA DI FINE OTTOCENTO

 

Un rifugio stagionale salentino: la pagghiàra  (terza parte)

 

  LA SERPE  SVUOTA LE MAMMELLE DELLA PUERPERA

 

 di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Nel suo intrico di rami, foglie e paglia, la pagghiàra offriva nascondiglio facile a bisce e a serpi che, sicure di potersi ben mimetizzare, spesso la sceglievano a loro tana. Soprattutto la sacàra, rettile descritto come particolarmente ghiotto di latte e perciò irresistibilmente attratto dal suo odore.

Dato il ritmo di procreazione allora in uso, che poteva dirsi biennale se non addirittura annuale, nelle pagghiàre non scarseggiavano certo i neonati e di conseguenza le donne in fase di allattamento: donne prosperose, spesso costrette a portare attorno al petto li filàzze, ossia due strisce di tela contenenti uno strato di bambagia atta ad assorbire il latte che, sollecitato dai movimenti impressi dal lavoro, traboccava dalle loro mammelle. Punto di orgoglio per le contadine, che giudicando tanta abbondanza segno visibile di particolare predilezione divina, si compiacevano di aggiungere alla definizione “filàzze” il patronimico “ti la Matonna”, nella convinzione che la Vergine Maria, per essere la benedetta fra le donne, chissà quale portentosa monta lattea aveva avuto e quindi si era trovata costretta, come loro, a indossare li filàzze.

Se da un lato si vantavano di tanto privilegio, a volte facendolo amaramente pesare nei confronti di qualche mana ssùtta (mamma asciutta, priva di latte), dall’altra però ne lamentavano i rischi, prendendo alla lettera il proverbio “Cinca latte énne / ti latte fete” (“Chi latte vende / di latte puzza”). In effetti, di notte, fra eruttini del neonato, emanazioni epidermiche dell’allattatrice e filàzze, che unitamente agli altri indumenti venivano appese a lli càpure ti furcéddhre (agli speroni dei tronchetti portanti della costruzione, fatti capitare all’interno per usarli appunto come appendiabiti), l’ambiente piccolo e male arieggiato della pagghiàra si saturava di afrore latteo. Esalazioni grevi che le donne cercavano di contrastare appendendo in alto, là dove i tronchetti convergevano a chiusura di volta, un panierino con dentro un bicchiere colmo d’aceto e spargendo qua e là foglie di basilico, utili anche a tenere lontane le zanzare. Né mancava chi, a ulteriore precauzione, sistemava all’imbocco della pagghiàra un recipiente pieno di cenere di mortella, alla quale si attribuiva la spiccata proprietà di assorbire i puzzi emanando in pari tempo un gradevole odore. Accorgimento suggerito dall’uso che di detta cenere si faceva nelle stanze degli ammalati gravi, sotto il cui letto si aveva la cura di deporne una cardarélla (caldaretta) affinché alleggerisse l’ambiente dalle sgradevolezze olfattive determinate da piaghe purulente, urine, aliti, sudori, ecc. Antico rimedio collaudato durante le veglie funebri, quando, in caso di esalazione da decomposizione, si circondava il tavolo-catafalco con limme e llimmicéddhri (bacili e piccole conche di terracotta) pieni di cenere reperita presso i forni pubblici dove,  per avere pane profumato, abitualmente si bruciavano rami di mortella.

La presenza di un neonato nelle pagghiàre metteva in apprensione anche i capifamiglia, i quali, pur fingendo di non dare peso ai timori delle mogli, anzi a volte prendendole in giro per quelle che definivano “fìsime ti fémmine ca no tténinu cce ppinsàre” (“manie di donne che non hanno a che pensare”), si sentivano in dovere di concorrere alla tranquillità delle notti, ricorrendo a rimedi generalizzati, propri della vita in campagna, quali quello di spargere tutt’intorno alla pagghiàra uno strato di tufo – capace di rivelare, nell’orma delle spire, un eventuale passaggio di serpe -, o bruciare, nell’approssimarsi della notte, un pezzo di cuoio (scarpe vecchie, otri rotti, cavezze inservibili), il cui puzzo metteva in fuga i rettili.

Non sempre però questi rimedi risultavano efficienti: la sacàra , per essere cummàre ti lu tiàulu (comare del diavolo), la sapeva lunga, e il suo comportamento, descritto come frutto di un ragionamento preciso, raggiungeva vertici paradossali, purtroppo pienamente godibili solo se assunti in diretta, ossia attraverso il coloristico resoconto dialettale che le vecchie contadine facevano dell’avventura notturna.

Acciambellata nel punto più impenetrabile allo sguardo, la signùra cacciòppula (la signora che per attestare la sua autorità si erge come carciofo fra le erbe) attendeva che la notte scendesse e la famiglia tutta, gravata da un’intera giornata di lavoro, piombasse nel sonno. La stanchezza era infatti il laccio traditore che giocava il suo ruolo anche sull’istintiva vigilanza della madre: dopo avere sistemato il proprio capezzolo nella bocca del poppante e arcuato il braccio per stringerlo a sé e quindi mantenerne il contatto, anch’essa cedeva al risucchio del sonno, sicché non avvertiva  lo strisciare della sacàra  che, “jàppiti jàppiti” (muovendosi al rallentatore per non destare sospetti), abilmente si faceva strada nel groviglio dei corpi, stesi per terra, l’uno accanto all’altro, sul semplice strato di paglia che fungeva da letto.

Scénnu sempre a strampìgna ti ndòre, misciàzza comu gghéra” (“Andando sempre a pista di odore, maestra di furbizia com’era”) riusciva a inserirsi fra mammella e neonato, e dopo avere con mosse accorte staccato il piccolo dal seno materno, gli infilava nella bocca l’estremità della sua coda, affinché non avesse a piangere e svegliare i genitori. Messo a tacere l’innocente, “éntre mia fatte capanna” (“ventre mio allargati come capanna”), si attaccava al seno della donna e, “sapénnu ca li campane sònanu a ccòcchia” (“sapendo che le campane suonano appaiate”), per meglio rimpinzarsi, passava dall’una all’altra mammella. “Sulu topu ca ja lliccàtu piàttu e ffirsòra lassàa

lu campanàru e a scanzu ti scarde si la tìa ti pete” (“Solo dopo aver leccato piatto e padella abbandonava il campanile, e a scanso di lische se la dava di piede”, cioè solo dopo aver spremuto l’ultima goccia di latte si staccava dal petto della donna, e a scanso di rischi si allontanava scappando).

     Privato del succhiotto-coda, che fino a quel momento lo aveva tenuto quieto, il piccolo esplodeva  in “ritàssi ti nfamàtu” (“strilli d’affamato”), svegliando di soprassalto “ddhra pòra scrucicchiàta ti fatìa” (“quella poveretta spezzata dalla fatica”, cioè la madre) che inutilmente cercava di correre ai ripari: “li menne sua mpinnìanu a cquaséttu, sbacantùte an funnu “ (“le sue mammelle pendevano come calze, svuotate completamente”). Non c’era altro da fare che alzarsi e preparare in fretta e furia nna pupatélla, ossia mettere un pizzico di zucchero in una pezzuola inumidita e con quel surrogato calmare, almeno per poco, la fame della creatura.

Al sorgere del sole,  il primo pensiero era quello di analizzare i contorni della bocca del neonato: “Ci ténta nc’era, còta nc’ìa stata ti certu!” (“Se colore c’era, coda c’era stata di certo!”). Nessuno si faceva venire il dubbio che le macchie di colore trovate sulle labbra potevano essere dovute a qualche grano di terra rossa o frammento di foglia verde, accidentalmente capitati nella pupatélla – preparata in fretta, magari al solo lume di luna – e che attraverso zucchero e acqua si erano fissati sulla pelle. Nel riproporne i particolari, le vecchie giuravano che la causa era da attribuire alle minutissime scaglie che rivestivano l’estremità della coda, nel loro dire paragonabili alla polverina che ricopre le ali delle farfalle.

Sperando si trattasse solo di una visita occasionale, non tutti chiamavano subito lu carmàtu ti santu Pàulu, ma ovviamente, dopo una notte simile, difficilmente la donna riposava tranquilla, “ora e mmumiéntu mmagginànnuse ddhra fìgghia ti puttàna mpìsa  a llu minnìcculu” (“ora e momento immaginandosi quella figlia di puttana appesa al capezzolo”). Se poi, nelle notti successive, le capitava di trovarsi ancora col seno svuotato, la sua paura non aveva più argini:

Subbugghiàta ti sangu e ddi core, ddiscità tuttu lu icinàtu, scamàannu intra lla notte comu jaddhrìna  sicutàta ti la orpe: la sacàra!… la sacàra!… fucìti fémmine! Jutàtime màsculi… pi ll’ànima ti li muérti ccitìti stu tiàulu ca mi ene am piéttu!…

“Agitata nel sangue e nel cuore, svegliava tutto il vicinato, starnazzando nella notte come gallina inseguita dalla volpe:la sacàra!la sacàra!… accorrete donne! Aiutatemi uomini… per l’anima dei morti uccidete questo diavolo che mi viene sul petto!…” (…).

 

Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994, (pagg. 74-78)

Ricordi invernali di Gallipoli e della sua indimenticabile tramontana

 
Gallipoli, la muraglia (ph M. Gaballo)

di Luigi Cataldi

A quei tempi (primi anni ’50) si portavano i calzoncini corti, ma corti, proprio “corti” (non “all’inglese” o tipo “bermuda”), e la tramontana fredda si infilava senza complimenti, anzi proprio con prepotenza, sotto le falde del cappotto, non appena uscivo dal portone di via Nizza, angolo via Tafuri1,ed io sentivo il freddo sulla pelle delle gambe, che diventava di uno strano colore.

La temperatura non era inferiore ai 6-7 gradi, ma a me sembrava facesse molto più freddo… La tramontana percorreva velocissima la stretta via Nizza, dritta come un fuso, e sembrava volerci sollevare via da terra tutti e due, io la ragazzetta (12-13 anni) che mi accompagnava a scuola.

Percorsi a fatica i primi 20-30 metri, ecco un angolo alla “mantagnata2”, poi sul lungomare Nazario Sauro, di nuovo un turbine di vento e qualche spruzzo salato portato dal vento. Un rapido sguardo al mare, incredibilmente punteggiato di bianche creste d’onda, a rischio di ricevere una salatissima goccia nell’occhio troppo ardito che si affacciava sopra il bavero del cappotto e sotto il basco “ngafatu an capu” e poi via di corsa rasente la muraglia. Tale era per la mia scarsa taglia di bambino di seconda elementare ciò che per tutti i “grandi” era il residuo della “Muraja”, l’alta cinta di mura che circondava la città vecchia di Gallipoli fino all’inizio del secoloXX e che, come diceva mio padre, ricordava quando fu ridotta all’altezza attuale3.

Così, camminando rasente al muraglione, raggiungevamo in pochi minuti lo spiazzo aperto davanti alla chiesa della Purità, dove però la tramontana batteva più forte, e facendo gli ultimi metri sempre di corsa, con la cartella di cartone4 che mi sbatacchiava sul fianco, la ragazzetta ed io ci infilavamo nel “portone trasi-essi”5, una certezza che ci permetteva di arrivare alla scuola elementare “Santa Chiara” in non più di 8-10 minuti, anche se in verità sembrava di passare nella casa “de li cristiani”.

All’interno del “portone trasi-essi” affacciavano infatti alcune porte di altrettante abitazioni, occupate da popolani che secondo le tradizioni del tempo avevano assai poco spazio nell’unico ambiente che costituiva la loro “casa”: lì infatti dormivano i numerosi componenti dell’intera famiglia, che includeva spesso anziani genitori e magari la classica zia zitella. Così a destra una madre cercava di spingere i figli appena approntati ad andare alla mia stessa scuola, e per arrivarci dovevano giusto percorrere non più di trenta metri. Un’altra giovane madre, forse appena trentenne, dopo aver inviato i primi due figli a scuola, provava a lavare sommariamente il viso del piccolo dei suoi cinque rampolli, dal cui naso fuoriusciva, anzi “spetterrava”, un’incredibile quantità di moccioli, con produzione di migliaia di bollicine che a me ricordavano lo schiumare disperato delle lumache che raccoglievamo subito dopo le prime pioggie, a fine estate.

Fuori la scuola il vento sembrava incredibilmente ammorbidito, solo qualche mulinello qua e là… Due fratellini ritardatari, che a casa erano stati costretti a trangugiare un tazzone caldo di caffè d’orzo, erano ancora alle prese con la parte masticabile della “colazione”, cioè una fetta di pane casereccio raffermo, bagnata di orzo e cosparsa con un paio di cucchiaini di preziosissimo zucchero bianco, comprato a “menzi-quinti”6 e conservato nella sua originale carta blu “carta da zucchero”. La madre metteva loro in mano la preziosa fetta zuccherata, buttandoli poi fuori di casa e accompagnando la consegna col suo “sciati, sciati…” concludendo poi con un affettuoso …“spenturati”.

Erano le otto e mezzo e “lu Tumasinu”, il bidello, figlio della per noi “vecchissima“ mamma, anche lei bidella, paludata con l’immancabile mantellina all’uncinetto a  nido d’ape “culore de cane quando fusce” e “nu mmaccaturu”7 di lana  in testa, stava chiudendo il portoncino della scuola, mentre la severissima signorina Maria Bracci, la mia maestra, dopo la breve preghiera iniziale stava già facendo l’appello e la vecchia bidella cominciava a fare il giro dell’inchiostro, grazie a un cucchiaio da minestra con cui rabboccava  riportava a livello l’inchiostro nei calamai dei nostri banchi.

Note

1La strada prende nome dall’omonima famiglia nobiliare, che si diceva ormai decaduta, proprietaria del palazzo (tanto incredibilmente deteriorato, quanto dimenticato). Lo stupendo fronte barocco, realizzato in pietra carparo locale, fu voluto, attorno al 1760, da un ricco e nobile giureconsulto della famiglia Tafuri, originaria di Matino, il dottore Donato Tafuri, trasferitosi in Gallipoli nei primi anni del XVIII secolo. Come scrive Elio Pindinelli (http://www.gallipolivirtuale.com/citta_vecchia/tafuri.asp consultato il 3 luglio 2010): Le sue linee barocche sono influenzate da uno spiccato gusto decorativo che si esprime in una minuziosa cura dei particolari, come nella lapidea frangia nappata flessuosamente cadente sui bordi dei semi frontoni del portale. Inusitata, nel contesto architettonico locale, la presenza di finestre ovali graziosamente corniciate al piano basso mentre spagnoleggianti sono le ferrate balconate. La proprietà di questo edificio restò in mani della famiglia Tafuri che la possedeva sul finire del XIX secolo, passò poi ai Renna ed oggi si detiene dal colonnello Vittorio Cantù”.

Il palazzo, attualmente disabitato, è stato residenza del pittore Giulio Pagliano, del quale ricordo con riconoscenza la gentile, signora, prof.ssa Maria Consiglio, mia autorevole, anziana, ma bravissima insegnante di francese alle medie e al ginnasio (anni 1956-1960), di molto più giovane del marito.

Il palazzo, ricordo, fu anche, per un breve periodo, abitato dalla famiglia del dottore Salvatore Coluccia,  mi pare tra fine anni ’50 e primi anni 60.

2“mantagnata” definisce il Rohlfs”    “  Vocabolario dei dialetti salentini vol.1 p 316

3Salvatore Cataldi, comunicazione personale (1955)

4Tutte uguali quelle cartelle, per ricchi, benestanti e poveri, ma questi ultimi se non l’avevano ereditata dal secondo o terzo fratello spesso non ce l’avevano proprio, ed eravamo ben lontani dagli zainetti firmati e più o meno supercolorati, anzi spesso luminescenti)

5 In realtà si trattava non di un portone perticolare, ma di un palazzo che aveva due entrate, una sulla ventosissima riviera Nazario Sauro, e l’altra sulla piazzetta Santa Chiara, proprio di fronte alla omonima scuola elementare. Era di proprietà di un conte “X”, che  non bisognava nominare perché pare portasse “spurchia”.

6 metà di un quinto di chilogrammo, quindi pari a 100 grammi

7 “lu maccaturu” era il grande fazzoletto da testa o da collo (termine presente anche in Calabria e in Sicilia “muccatori”)

http://www.logosdictionary.org/pls/dictionary/new_dictionary.gdic.st?phrase_code=6333732 (consultato il 3 luglio 2010)

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