Non ci sono alibi…

di Armando Polito

La tecnologia mette oggi a nostra disposizione strumenti preziosi per conoscere e conservare le testimonianze del passato. Indagini impensabili fino a qualche decennio fa sono rese possibili da sofisticatissimi strumenti che trovano nell’informatica il partner ideale per l’elaborazione e la comparazione dei dati, alla ricerca di verità nascoste o offuscate dalle offese del tempo. Da qui le ricostruzioni in realtà virtuale che consentono di rivivere il passato, sia pure con i rischi di spettacolarizzazione che nell’era dell’immagine sono sempre in agguato. E sul piano della conservazione? Il discorso qui è molto più complicato perché coinvolge risorse umane ma, soprattutto, finanziarie. In un paese, come l’Italia, che detiene una parte notevolissima del patrimonio culturale dell’umanità il problema non è stato mai particolarmente sentito, nemmeno quando erano i tempi delle vacche grasse, figuriamoci oggi! Se gli affreschi a Pompei lentamente ma inesorabilmente svaniscono (ma qualcuno è pure svanito in un istante nel nulla…), se ai graffiti antichi si sovrappongono quelli moderni di visitatori idioti, che importa? Ci sono ben altri problemi da risolvere! Se penso ai cassintegrati ed alla schiera di giovani in cerca di un lavoro che non comporti lo sfruttamento schiavistico delle loro competenze, finisco, non guardando alle responsabilità oggettive che stanno a valle della crisi, per essere anch’io d’accordo con questo atteggiamento. Allora, se Pompei è destinata ad andare in rovina, se è fatale che manoscritti e libri antichi siano oggetto dell’attenzione privilegiata dei topi e delle muffe, se un fabbricato antico diventato nel corso del tempo rudere fra dieci anni dovrà essere solo un ammasso informe, perché non procedere sistematicamente almeno alla riproduzione digitalizzata del suo stato attuale? Nell’era del decentramento basterebbe che ogni amministrazione comunale utilizzasse le stesse attrezzature riservate ad immortalare, per lo più,  le gesta della maggioranza di turno; gli operatori, poi, potrebbero essere, naturalmente a titolo gratuito, quei numerosi cittadini che in ogni centro danno prova di amore disinteressato per la loro città e per la sua cultura. Ogni riproduzione, poi, prima di essere immessa in un catalogo generale, dovrebbe essere certificata dalle istituzioni competenti per evitare il rischio dell’intrufolamento di qualche immagine falsa o ritoccata da parte del solito idiota. Tutto ciò comporta preliminarmente l’abolizione di tutti i lacciuoli e le esclusive che attualmente impediscono al privato cittadino di effettuare riprese fotografiche in edifici  aperti al pubblico di qualcosa che è, in fondo, patrimonio di tutti. Il consenso alla ripresa, insomma, resterebbe solo nel caso di edificio privato…non in palese stato di totale abbandono.

Per dare spessore concreto al mio discorso prenderò in esame l’epigrafe presente in un ambiente di quella che era la fabbrica della chiesa di Santa Maria della Grotta1, nell’immediata periferia di Nardò.

La mia foto in basso, elaborata per accrescerne la leggibilità, risale al 2006.

L’epigrafe consta di sette linee, delle quali sono ancora agevolmente leggibili le prime quattro contenenti, come vedremo, il nome dell’intestatario e la brava serie di titoli suoi e del suo “principale”; purtroppo le condizioni del manufatto degradano irrimediabilmente nella metà inferiore (molto probabilmente perché più soggetta alle conseguenze di qualche dissennata attività di tiro a segno o, addirittura, di sovrascrittura), proprio quella che doveva contenere le motivazioni che avrebbero potuto darci qualche ulteriore lume sulla storia della chiesa, sicchè pare un colpo di fortuna che nell’estremo lembo destro si sia  conservata appena leggibile l’indicazione dell’anno.

Eccone la trascrizione:

J(ESUS) H(OMINUM) S(ALVATOR)2 JOANNES GRANAPHEUS BRU(N)DIS(INUS)

U(NIUSCUIUSQUE) I(URIS) D(OCTOR) PROT(ONOTARIUS) AP(OSTOLICUS) PRA(EPOSITUS) RE(GULARIS) VIC(ARIUS) G(ENERA)LIS HOD(IE)

D(OMINI) FABII CHISII NERIT(ONENSIS) EPI(SCOPI) ET IN GER(MANIA)

HESPERIORI NUN(TII) APOS(TOLICI) HA(N)C ECCL(ESIAM)

……………A REPR……….O

…………..ANTE…….

AN(NO) DOM(INI)3 (?) MDCXL

Va subito detto che molto probabilmente la tendenza all’abbreviazione delle parole fu conservata anche nelle linee ora illegibili, sia pure in misura ridotta, dal momento che non vi dovevano comparire, come nella parte precedente, titoli ma solo indicazioni circa l’intervento effettuato sulla chiesa.

Traduzione:

GESÙ SALVATORE DEGLI UOMINI.  GIOVANNI GRANAFEI DI BRINDISI4,

DOTTORE DI ENTRAMBE LE LEGGI, PROTONOTARIO APOSTOLICO, PREPOSITO REGOLARE, OGGI VICARIO GENERALE

DEL SIGNOR FABIO CHIGI5 VESCOVO DI NARDÒ ED IN GERMANIA

OCCIDENTALE NUNZIO APOSTOLICO, QUESTA CHIESA

…………………

…………………

NELL’ANNO DEL SIGNORE(?) 1640

Lascio al lettore immaginare cosa sarà dell’epigrafe fra qualche decennio e cosa sarebbe stato possibile a quella data ricostruirne senza l’ausilio di una foto più o meno datata.

______

1 Il lettore che abbia interesse all’argomento può trovarne ampia e dettagliata notizia in Emilio Mazzarella, Nardò  sacra, a cura di Marcello Gaballo, Congedo, Galatina,  1999, pagg. 377-378 e figg. 116-122.

2 JHS è il trigramma, acronimo rivisitato dell’originale greco IHS, abbreviazione di IHSOUS (Gesù).

3 Il dubbio riguarda solo se la formula era riportata in modalità estesa o abbreviata.

4 Nativo di Mesagne, marchese di Carovigno, dottore delle due leggi e protonotario apostolico, inviato a Nardò dalla S. Sede quale vicario apostolico, fu poi fatto nominare vicario generale da Fabio Chigi e l’8 giugno 1635 prese possesso della diocesi. Nel 1636 fu nominato canonico della Cattedrale e nel 1639 preposito.

5 Ordinato sacerdote nel 1634, vescovo di Nardò dal  9 gennaio 1635 al 13/5/1652,  non mise mai piede nella diocesi né mai conobbe Nardò, impegnato a Malta come generale inquisitore e delegato apostolico, alla fine del 1640 nunzio apostolico a Colonia con potere di legato a latere. Mentre era a Colonia fu nominato prelato domestico ed assistente al soglio pontificio. Dal 1655 al 1667 fu Papa col nome di Alessandro VII.

AMARCORD: IL RIGOLETTO SU RAIUNO E QUELLO DEI CONCERTI BANDISTICI NELLE FESTE PATRONALI

di Rocco Boccadamo

Ho assistito con gusto e godimento, beninteso da non intenditore, alla recente messa in onda, su RAIUNO, del “Rigoletto a Mantova”, i tre atti “live” dell’opera verdiana.

E’ stato per me motivo di semplice e insieme grande emozione, il contatto, ovviamente mediato dal teleschermo, con il maestro Zubin Mehta, che molti anni fa ho avuto agio d’incontrare e salutare  di persona al Ravenna Festival, con il famoso tenore Placido Domingo, con la suggestiva ambientazione nel palazzo Te del capoluogo virgiliano.

Inoltre, dalla visione delle scene  e, soprattutto, dall’ascolto delle melodie e delle arie del capolavoro del Cigno di Busseto, ho tratto spunto e ispirazione per riandare indietro, con la mente, a stagioni lontane e a rappresentazioni del “Rigoletto” in un contesto logistico ben diverso e assai più circoscritto, e però contenenti un’anima e un fondo coinvolgenti, quasi sullo stesso piano e di eguale spinta penetrativa, rispetto alla freschissima presentazione in

Piccoli seminaristi crescono (undicesima parte)

Le passeggiate nel Seminario Vescovile di Nardò dal 1960 al 1965

 

di Alfredo Romano

Nel primo pomeriggio di ogni giorno si andava in passeggiata, l’unico contatto quotidiano col mondo esterno, una boccata d’ossigeno che ti apriva alla varietà dei colori, dei volti delle persone,  delle cose, della natura. Terminato il pranzo, si saliva in camerata per prepararsi all’uscita. Ai neretini bisognava dare un’immagine ordinata e pulita dei seminaristi, perciò si dava il lustro alle scarpe, si spazzolava il completino clergyman e anche quel po’ di ciuffo di capelli in fronte residuo di una tosatura mensile a tutto campo. I gruppi in uscita erano due, divisi per camerate dei grandi e dei piccoli, ognuno guidato da un vice rettore coadiuvato da un prefetto e un vice prefetto. Le destinazioni dei due gruppi erano diverse, ma la meta era sempre una periferia della città verso le strade per Lecce, Leverano, l’Avetrana, il camposanto, la Chiesa dell’Incoronata. La passeggiata durava un’ora; la domenica, invece, si allungava di mezz’ora con la possibilità di spingerci fino ai Pagani, località allora immersa in una distesa di ulivi e pajare (oggi un ammasso di case… che non lasciano l’erba, direbbe Celentano). Varcato il portone del Seminario, si attraversava il centro storico con regole ben precise: in fila per due, composti, ordinati e in silenzio. I neretini ci osservavano sempre con riguardo al nostro passaggio, facevamo loro tenerezza, piccini quali eravamo. Non così le bande di piccoli monelli che si divertivano un mondo a canzonarci con cori del tipo: Li papiceddhi! Li papiceddhi! Sta ppàssanu li papiceddhi! E giù risate a non finire. L’obbligo era d’ignorarli, ma dentro di noi albergava ancora quel vecchio monello che soffriva a dover frenare la voglia di rincorrerli e affrontarli rotolandosi per terra a suon di pugni. Ah! se poco poco il vice rettore, per dire, ci avesse dato libero spago… che botte da orbi! E invece, come se nulla fosse, si procedeva con malcelata indifferenza e quei monelli continuavano a riderci alle spalle. Finalmente in periferia e il vice rettore, col suo fischietto, dava ordine di sciogliere le file e anche il silenzio. Per 20 minuti circa si poteva parlare, ridere e scherzare. Era permesso portarsi anche un’armonica a bocca. Il primo a farci da colonna sonora con la sua armonica fu Antonio Tòzzoli, ma anch’io me ne feci procurare una da mio padre. I motivi da suonare erano quelli delle filastrocche popolari per ragazzi che apprendevamo dal vice rettore don Giorgio Crusafio durante le colonie estive a Villa Tabor delle Cenate. Alcuni titoli: Alla fiera di mastro Andrè, Cameriere porta mez slitte (filastrocca del Nord Italia), Chevaliers de la Table Ronde (filastrocca in lingua francese) e La nonnina bella, per scoprire, anni dopo, che non de La nonnina bella si trattava, ma de La Rosina bella. Certo che storpiare una filastrocca così innocua per non contaminare la cosiddetta virtù dei seminaristi era troppo. Basta questo per capire forse a quali e quante manomissioni e censure siamo stati sottoposti per essere preservati dal “maligno”. Che cosa sarebbe stato di noi, una volta sacerdoti, quando sarebbe scoppiata quella vita reale che avremmo dovuto

Cartoline da Tuglie

Largo Fiera, per memoria

di Luigi  Scorrano

Del Largo Fiera solo chi c’è nato e vi ha trascorso un bel pezzo della sua vita può coltivare la nostalgia da paradiso perduto che il luogo insinua nella memoria. È come dire che chi vi è nato ha aperto gli occhi sulla luce di quel quadrato di cielo sopra le case che il profilo degli edifici non riesce a contenere. E la luce sfugge allegra per le vie circostanti, a raggiera, come in una paesana e dolcemente improbabile Place de L’Étoile di casa nostra.

Per chi lo vede oggi, e non l’ha mai visto com’era quando in effetti vi si svolgeva la fiera dell’Annunziata, ch’è l’occasione che gli dette il nome, Largo Fiera è segnato da uno dei tanti pettinati assetti urbani che il tempo e nuove esigenze di vita comportano. Sicché pare che ricordarlo com’era, fra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, sia una sorta di privilegio. Certo è un segreto appuntamento con la malinconia delle cose perdute o di quella perduta parte di noi stessi che riaggalla a tratti nella mente e rende più pungente il senso del passato.

Un largo, come dice il nome: non una piazza. Un largo senza muretti di confine a segnare con decisione le strade. Uno spiazzo dove i bambini delle famiglie che vi abitavano intorno trovavano il luogo ideale dei loro giochi ed erano sotto l’occhio amorosamente vegliante delle madri. L’ingombrante Casa del Fascio, rimasta incompiuta ed in seguito utilizzata  in vario modo (scuola, municipio), tolse respiro al luogo; ma nello spazio dell’attuale “villetta” gli alberi del pepe (li chiamavamo così) scuotevano languidamente i loro molli rami, quasi travestendosi da salici al margine di uno specchio d’acqua inesistente.

Il toponimo, prima degli anni Ottanta divenuto Piazza Municipio, gli è stato provvidamente restituito, perché della funzione di quel luogo non si cancellasse la memoria. Il giorno della festa patronale, la Madonna dell’Annunziata, protettrice del paese, vi sostava un bel po’, ferma di fronte al luogo dove in suo onore venivano “sparate” fragorose “batterie”. Era in compagnia d’una teoria di santi, che le assicuravano scorta e facevano un bel vedere, nella luce fresca di marzo, con i loro gesti imperiosi o dolci, con le loro divise multicolori.

Largo Fiera era un luogo della gioia. A Natale vi si accendeva il più bel falò del paese, quello che durava per più giorni. Il calore di quel fuoco riscalda la mente, a ripensarlo. E le faville che ne scaturivano si sono attaccate alla volta celeste e sono le stelle che brillano nella notte di Natale.

Una nuova Babele?

di Armando Polito

Nella mia risposta al pregevolissimo post di Gianni Ferraris È possibile trasformare l’arte e la cultura in PIL? del 4 settembre u.s., ironizzando su PIL, ho fatto cenno ad un mio lavoro sugli acronimi formulando la speranza che il sito offrisse ospitalità ad un estratto dell’originale. Se la mia speranza non è andata delusa, il lettore sappia che io sono un tipo che generalmente mantiene le promesse, ma soprattutto le minacce…

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1 Zio rincoglionito, lo sai che questo libro che abbiamo scritto insieme sta avendo un grande successo?

2 Gloria, non mi distrarre, perché devo compilare prima Unico, poi F24, poi devo telefonare all’FDB (si tratta dell’acronimo di un’azienda locale per la manutenzione degli impianti di riscaldamento, acronimo che non sciolgo perché pare che la pubblicità palese sia più grave di quella occulta…) perché domani deve venire l’ASEA (vale quanto detto per FDB) per controllare il BTZ (Basso Tenore di Zolfo, con riferimento agli oli combustibili usati negli impianti di riscaldamento urbani). Intanto passami un foglio formato A4…

Probabilmente il più grande progresso fatto dall’uomo nell’uso onesto del linguaggio consiste nella formulazione di frasi quanto più possibile sintetiche ma chiare, non suscettibili di interpretazioni difformi; è questa un’apparente involuzione che sembra percorrere il cammino inverso rispetto alle forme espressive dell’uomo primitivo di cui, naturalmente, non abbiamo le prove (è fantascientifico, a tal proposito, immaginare in un futuro più o meno lontano la possibilità di captare questi suoni imprigionati nell’ambiente in cui furono emessi, sempre che noi uomini del duemila siamo in grado di conservare intatto quell’ambiente a beneficio di chi potrà studiarlo forse meglio di noi?), ma che supponiamo composto sostanzialmente di articolazioni elementari, magari di carattere onomatopeico, cioè imitante i suoni e i rumori connessi col concetto da esprimere e col messaggio da mandare; poi, proprio come avviene nel bambino, sarebbe avvenuto il passaggio, attraverso la liberazione dall’imitazione e l’elaborazione personale,  verso forme comunicative sempre più sofisticate, in grado addirittura (è quello che io chiamo uso non onesto del linguaggio, anche questo ben presto manifestatosi, secondo me, in epoca primitiva…) di mascherare i nostri reali stati d’animo, perfino le nostre emozioni e i nostri affetti. E’ indubbio, comunque, che un modo di esprimersi chiaro e sintetico è per sua natura vincente, non fosse altro perché non fa scattare nella mente di chi ascolta la prima pericolosa domanda:” Ma questo, che vuole dire?” e la seconda, fatale: “Ma questo, quando la finisce?”.

La sintesi va senz’altro bene, ma anche in questo campo il troppo storpia. Ne è una prova inconfutabile, con cui ognuno di noi in tutti i campi, da quello professionale a quello sentimentale, deve oggi fare i conti, la serie sterminata di sigle giornalmente impinguata da nuovi arrivi, sicchè non mi meraviglierei se fra qualche anno almeno i due terzi di ogni vocabolario fossero occupati proprio dalle sigle, dalle loro sorelle, le abbreviazioni, e dai loro fratelli, i simboli.  E’ un fenomeno, direbbero i sociologhi, strettamente connesso con la rapidità che caratterizza il nostro tempo in ogni sua manifestazione e alimentato anche da quelle che un po’ troppo pomposamente vengono chiamate nuove tecnologie, telefonini e SMS (Short Message System) in primis, tutte accomunate dall’uso di un linguaggio (sono costretto mio malgrado a mediare un termine dal settore informatico) compattato.

Questa indagine non riguarda sigle che col tempo sono diventate nella

Le sagge considerazioni di un agronomo

 

 

inconfondibile Salento!

 

 

di Antonio Bruno

Quando la prima guerra mondiale volge al termine, a Giugno del 1918 a Lecce c’è una discussione che appassiona i viticultori: lo zufolo. L’innesto a zufolo si pratica sia sulla vite che sul fico, l’olivo e il noce. Si asporta un cilindro di corteccia dal ramo con una gemma (occhio) della pianta che vogliamo innestare sul selvatico. Sul selvatico asportiamo una parte di corteccia lasciando un lembo. Miglietta ne fece un articolo per spingere tutti a praticare questo semplice giochetto che portava ad avere la pianta innestata con un successo del 96 – 98%.
Il Prof. Ceccarelli Direttore dei Consorzi antifillosserici di Lecce e Galatina frena l’entusiasmo e rincara la dose ricordando che i tralci che vengono usati per lo spacco inglese, che si fa in autunno, vengono dalla potatura e perciò si ha solo l’imbarazzo della scelta, invece i tralci verdi che sono necessari per l’innesto a zufolo non dovrebbero essere tolti dalla pianta perché sono la vegetazione che dovrebbe dare luogo alla produzione dei grappoli.
I testardi viticultori del 1918 impipandosi dei risultati sperimentali andavano dritti per la loro strada, un po’ come gli agricoltori di oggi che bastano a se stessi senza richiedere la direzione del Medico della terra ovvero di noi Dottori Agronomi o Forestali che potremmo essere pagati solo in caso di successo ed incremento della produzione oppure in caso di mancato danno.

“Abbracciami amore mio!”, disse l’olivo

di Antonio Bruno

Da sempre il problema di vendere i prodotti è stato l’assillo che toglie il sonno. L’olio è un prodotto che va venduto entro l’anno altrimenti la sua qualità decade. Il punto è riuscire a far provare un prodotto di qualità come l’olio al consumatore. All’estero poi c’è il passaparola che aiuta nelle vendite ed è la qualità che ci differenzia dai prodotti locali. Insomma bisogna per prima cosa informare, fare assaggiare e poi vendere. Nel caso dell’olio d’oliva moltissimi all’estero ne hanno sentito parlare, ma occorre insegnare come deve essere consumato.
E’ semplice i produttori di olio d’oliva del Salento leccese devono fare cultura al consumo. Dopo avere condotto delle campagne d’informazione organizzando test d’assaggio sicuramente si raccoglieranno risultati positivi. Insomma i produttori di olio d’oliva del Salento leccese prima dovrebbero fare informazione e poi, se serve, pubblicità.

I mercati che si dovrebbero raggiungere con questi semplicissimi accorgimenti sono Germania, Francia e Spagna e tutti i mercati d’Europa, ma i test d’assaggio andrebbero fatti anche a Mosca, in Giappone, in Nuova Zelanda e a Taiwan. Ogni settimana si dovrebbe spedire in quei lontani paesi del prodotto.
Ma la ricetta per sfondare sui mercati esteri è proporsi alle catene della gdo internazionale con delle azioni di supporto alla vendita direttamente nei supermercati. La stessa strategia che ha premiato il Parmigiano-Reggiano, dopo che negli ultimi anni insieme al cugino Grana Padano è stato al centro di un rally dell’export.
Nel 2008 hanno proposto per sostenere azioni di marketing diretto agli esportatori di introdurre azioni di marketing direttamente nei punti vendita. Il primo anno hanno messo a disposizione 3,5 milioni di euro, nel 2009 altri 2,5 anche se erano in attesa dei finanziamenti erogati nell’ambito dell’agenzia Buonitalia dal ministero delle Politiche agricole. Fondi arrivati quest’anno e che condividono con il Consorzio Grana Padano. A questi importi gli esportatori contribuiscono per un altro terzo. Nel 2010 il nostro budget dovrebbe aggirarsi intorno ai io milioni. I mercati interessati sono la Russia e si sta iniziando a guardare alla Cina.

Ma c’è un grande volano per far conoscere l’albero da cui si ricava l’olio d’olivo: abbracciarlo!
Milioni di anni fa siamo scesi dagli alberi, per poi passare gran parte del nostro tempo a tagliarli o bruciarli. Da diecimila anni abbiamo anche imparato a piantarli e ad accompagnarne la crescita, ma lo abbiamo fatto sempre di meno. E adesso che avremmo bisogno di loro per mantenere gli equilibri ecologici, ci accorgiamo che sono troppo pochi. Abbiamo già tagliato almeno la metà delle foreste del pianeta, nonostante i loro alberi abbiano reso il suolo fertile e l’aria respirabile, mitigato gli eccessi del clima, fornito legna, frutti, ombra, bellezza per mille usi indispensabili e piacevoli.

Ci sono molte buone ragioni per abbracciare gli alberi: fa bene allo spirito e all’istinto materno. Aiuta a ritrovare l’equilibrio interiore, a recuperare la dimensione del sè, ad essere genitori migliori, più armonici, per i propri figli.
Il Comune di San Casciano ha deciso di prendere in prestito un’antica tecnica orientale proponendola in forma sperimentale alle neomamme in un programmma di prevenzione della depressione post parto. In realtà la tecnica è antichissima: gli aborigeni australiani lo facevano per assorbire energia vitale. Tra questi alberi c’è l’olivo: l’olivo diventa tutor ‘naturale’ a sostegno delle mamme, in cerca di energia e dello spazio di donna perduti dopo l’esperienza di rinascita fatta insieme al proprio piccolo.

Abbracciare un albero significa stabilire un contatto con l’origine della terra, una fonte generatrice di energia che può essere paragonata a quella della donna mentre dà alla luce una nuova creatura. L’incontro con l’albero è l’incontro con l’ambiente.

Io vi voglio raccontare di come si fa l’olio nel Salento leccese e degli alberi che sono qui ad aspettarvi per essere abbracciati.
Si! Tra gli alberi che potete abbracciare ci sono quelli del Fondo “Polisene” in agro di Ugento del mio amico Vincenzo Pezzulla Un ettaro di oliveto (Ha 1.00.00) con 110 alberi di olivo, 50 dei quali hanno 200 – 300 anni e 60 alberi appena 20 anni (mazzareddre) tutti della Varietà Oliariola. Mi ha anche raccontato come cura i suoi alberi, non mi ha chiesto una consulenza, mi ha solo narrato un’altra agricoltura che c’è, reale, che si incarna nelle paratiche che vi riferisco.

Il mio amico, intorno al 15 Marzo, interviene sui suoi alberi con un Trattamento contro l’ occhio di pavone (fungo che attacca le foglie dell’albero di olivo) utilizzando una miscela che spruzza sulla chioma di concime fogliare 20 – 20 – 20; anticrittogamico, insetticida.
Poi ai primi di Maggio il mio amico Vincenzo interviene sul terreno pieno di erbe spontanee con un Trincia erba oppure con il decespugliatore. Alla fine dell’intervento è possibile vedere la formazione di un tappetino giallo su tutto il terreno.
A fine giugno Vincenzo interviene con l’ Irrigazione di 150 metri cubi d’acqua in media ogni albero ha 4 spruzzatori terminali che sono a lui poggiati alimentati da un impianto aereo fisso. Vincenzo ripete l’ irrigazione in media ogni 15 giorni con 8 interventi irrigui per un massimo di 1.200 metri cubi per ettaro.

Poi sia a Luglio che a settembre fa sciogliere nell’acqua che serve da irrigazione 3 quintali di urea , realizzando la fertirrigazione.
A fine fine settembre primi di ottobre trattamento insetticida contro la mosca (Diptera Brachycera Schizophora Acalyptratae Tephritidae è una specie carpofaga, la cui larva è una minatrice della drupa dell’olivo). È considerata l’avversità più grave a carico dell’olivo, per questo Vincenzo effettua un intervento spruzzando sulla chioma degli alberi di olivo una miscela di concime fogliare 20 – 20 – 20; anticrittogamico, insetticida.
A questo punto a fine ottobre effettua una Prima raccolta che ha anche la funzione di pulizia delle aree impiegando il soffiatore sul terreno. Con il soffiatore si accumulano le olive, poi con le scope si fanno i cumuli, a questo punto con un coperchio di plastica tagliato in due si raccolgono le olive e si ripongono nelle tinelle.
Le olive raccolte dalla tinella vanno nella cernitrice con defogliatore a motore.
Una volta che si è finita la cernita si mettono le olive nelle cassette da 33 Kg o in cassoni di 3 quintali e 40 e vengono trasportate con un carrello al Frantoio, qui il pesatore provvede alla pesa e solo a questo punto le olive vengono scaricate e poi molite.
Si ottiene un olio Olio che ha un acidità da 1 a 5 – 6 gradi (olio lampante); la Resa delle olive è del 6% (da 100 chili di olive si ottengono 6 chili di olio).
La Prima raccolta delle olive che poi daranno olio di qualità Vincenzo la effettua dopo il 2 novembre. Il mio amico prima mette la rete sotto l’albero dopo di che sale con le scale sulla pianta e poi con il pettine di plastica fa distaccare le olive dal peduncolo.
L’orario di lavoro dalle 8 alle 13 per ogni albero di olivo. Ma Vincenzo si è organizzato e chiama un conto terzista che con lo scuotitore riesce a impiegare solo 10 minuti al massimo per ognuno dei 110 alberi di olivo. Il Conto terzista per la sua prestazione chiede intorno ai 170 Euro al giorno e riesce a raccogliere 50 – 80 quintali di olive.
Sia che siano spurgate a mano che con lo scuotitore si raccolgono ogni 20 giorni 30 – 40 quintali di olive che daranno una resa 6% di olio che avrà un’ Acidità da 0,2 a 1 grado.
Il raccolto delle olive avviene ogni 20 giorni ovvero Vincenzo effettua circa sei raccolti l’anno per una produzione totale di 180 quintali di olive di cui 60 quintali raccolti da terra (olio lampante).
Prima di ogni raccolta stessa operazione di prima del 2 novembre e si ottengono 25 quintali di olive alla resa del 6%.
Dai 180 quintali di olive Vincenzo ogni anno ottiene in media 7 quintali di olio extra vergine e 4 di olio lampante.
Voglio sottolineare che Vincenzo da anni fa così il suo olio ma voglio anche dirti che se tu vorrai adottare un suo albero, per abbracciarlo e per assaporare il suo olio potremo stabilire insieme a lui come far stillare da quelle olive l’olio dei tuoi sogni e come trattare la pianta che abbraccerai!

Bibliografia

Anche con il passaparola si conquistano nuovi mercati – Il Sole 24ore del 10 maggio 2010
E’ importante proporsi alle catene della gdo – Il Sole 24ore del 10 maggio 2010
Giuseppe Barbera: Abbracciare gli alberi – Mondadori
A Cerbaia le mamme abbracciano… gli alberi
http://www.gonews.it/articolo_55088_Cerbaia-mamme-abbracciano-alberi.html

Tuglie. Un paese, un racconto

di Luigi Scorrano

Ogni paese ha una storia. Ma questa storia è fatta non solo degli avvenimenti, grandi o piccoli, dei quali un paese è teatro; è fatta anche dalla fisionomia del paese, dai suoi luoghi, dalle generazioni che vi impressero un segno distintivo e lo passano ai posteri. Si può fare storia di un paese anche così, osservando quanto ci circonda nel luogo in cui viviamo, ripensando alla nostra collocazione nella piccola società che esso ospita… Il racconto ‘storico’ di un paese può attingere anche in un percorso inconsueto la sua visibilità, il suo carattere.

Il paese di cui qui parliamo è Tuglie. Per ‘cartoline’.

Ritrattino di Tuglie

Con le sue case, con la sua piazza al centro di un abitato più lungo che largo, con la sua collina di Montegrappa che fa da belvedere su un ampio tratto di territorio, Tuglie, nella sua raccolta fisionomia, non manca di attrattive. Sembra quasi d’obbligo, quando si vogliano vantare origini illustri, rifarsi ai Romani (in Italia, almeno!) o anche più lontano: anche Tuglie non sfugge a questa specie di regola. Qualche traccia, per quanto incerta, una parentela potrebbe stabilirla. Ma è dal Medioevo che abbiamo qualche notizia più sicura; ed è soprattutto tra il Sei ed il Settecento che Tuglie comincia ad acquistare un preciso profilo di paese, di comunità urbana.

Gli studiosi locali hanno illustrato aspetti generali o parziali di questo luogo; ci hanno raccontato, anche, la storia dei suoi abitanti, umili o eminenti che fossero. Un paese è fatto di tutti coloro che ci vivono e in

Una misteriosa parola composta: Ariacorte

L’ARIACORTE E’ CAMBIATA,

UN MARITTIMESE A MILANO, INVECE, NO

di Rocco Boccadamo

Nel caso di cui si tratta, “Ariacorte” non è una misteriosa parola composta, slogan o sigla di chissà che, ma, semplicemente, l’antica denominazione di un rione, piccola isola situata nella periferia di un altrettanto piccolo paese del sud Salento, delimitato e costituito da appena cinque viuzze: Francesco Nullo, Giacomo Leopardi, Pier Capponi, Isonzo e Piave.

Riandando con la mente a circa sessanta anni addietro, un fazzoletto costellato di case generalmente al livello della strada, salvo poche elevate sino al primo piano, con sottostanti locali adibiti a rimessaggio del traino o a laboratorio di tessitura a mano o a deposito di attrezzi agricoli. Dimore modeste, eppure smaglianti nel loro biancheggiare da latte di calce, soprattutto nido e culla per 35 nuclei familiari, con più di 150 componenti.

Popolo di età eterogenee, da ottuagenari e oltre a neonati e pargoli. Senza retorica, 35 famiglie dal punto di vista della mera numerazione anagrafica, in realtà, nel quotidiano divenire delle azioni e cose, alla luce dei vincoli di amicizia spontanea e disinteressata, di fraternità e di solidarietà, un solo, grande desco allargato.

E, così, a più di mezzo secolo di distanza, quali e quanti, per lo scrivente, i ricordi, ancora vivissimi, di quei volti, di quelle voci, delle lunghe e straordinarie stagioni, giorni e notti, snodatesi e trascorse indifferentemente dentro o all’esterno di quegli usci, porte prive di campanello o di nome, naturalmente dischiuse. La sensazione è di seguitare ad avvertire, saper distinguere e riconoscere i passi di ciascuno, compreso il ticchettio, sullo sterrato, di qualche bastone d’ulivo che accompagnava i più vecchi.

Il rione Ariacorte, nella toponomastica della minuscola località urbana e secondo la tradizione della moltitudine, c’è, sopravvive anche nel presente terzo millennio, e però, senza bisogno di aggiungere altro per porre in risalto la differenza, ora non ha più anima.

E’ vero, residuano 9 delle richiamate 35 famiglie, tuttavia si tratta di termini sparuti, in totale 10 persone, si è praticamente esaurita la continuità e la permanenza dei nuclei originari, circa l’80% delle stesse case è passato di mano, divenuto proprietà di turisti arrivati da fuori. Tanti soggetti nuovi, per la verità tranquilli, quieti e silenti, con prevalenza di giovani, aggraziate ed eleganti donne, le quali soggiornano e si ritemprano da sole oppure con compagno o barboncino a fianco.

Se l’Ariacorte, insomma, pullula di visi e figure nuove e, ad ogni modo, ormai non contiene alcunché della sua essenza pregnante di ieri, v’è, invece, nel medesimo paese, qualche singola sfaccettatura, che non muta, dà anzi l’impressione di travalicare il tempo.

Peppino F, classe 1932, se n’è partito da qui ventenne, dal 1955 vive e risiede nel capoluogo lombardo e, dunque, ha pienamente maturato la cittadinanza e il titolo di milanese. Ciononostante, mai che abbia saltato, d’estate, la vacanza nel borgo d’origine, a dirla con precisione, ora che è in pensione, vi si ferma un paio di mesi.

Ecco, difatti, Peppino, che tutti i giorni, intorno alle sette del mattino, in sella al suo motorino zainetto in spalla, si reca all’Acquaviva per “prendere” il bagno e, verso le 9.30, è già di ritorno a casa.

Inframmezzando l’arco della giornata con contatti e chiacchiere con amici compaesani, nel pomeriggio è poi solito portarsi nel boschetto delle querce della vicina Castro oppure al belvedere lungo la strada per l’Arenosa per qualche parentesi di tranquilla lettura.

Un esempio di bella semplicità di vita, non si è d’accordo?

Se è permesso, si vorrebbe, concludere accennando che in Via Piave, rione Ariacorte, qualche tempo fa, nasceva l’autore delle presenti righe.

capasòne è il capofamiglia, capàsa la mamma, capasièddhu il figlio

UNA SIMPATICA FAMIGLIA

CON UN RAGAZZINO PIUTTOSTO PRECOCE…

La capàsa, lu capasòne e lu capasièddhu.

 

di Armando Polito

Chi avrebbe potuto immaginare appena cinquanta anni fa che un oggetto molto diffuso soprattutto nel mondo contadino e per questo poco pregiato sarebbe diventato un cult, proprio come un film di Totò o, forse meno meritatamente, di Alvaro Vitali, il mitico Pierino?

Il miracolo operato dalla famiglia dell’oggetto del quale tra poco parlerò è ancora più sensazionale perché il valore artistico di Totò, anche se snobbato lungamente dalla critica, c’era già all’origine ed era fatale che prima o poi venisse riconosciuto; il nostro oggetto, invece, non ha mai avuto velleità artistiche ed era nato per assolvere ad una funzione esclusivamente pratica, quella della conservazione di alcune derrate alimentari: olio o vino o fichi secchi o altro sotto sale o sotto aceto, in ordine progressivo di dimensione e, correlativamente, almeno in parte, di forma.

Poco prima ho usato la parola famiglia perché mi sembrava la più appropriata per esprimere quel rapporto affettivo che in passato si instaurava con gli oggetti, ancora ravvisabile nei loro nomi, ma che oggi, nell’era dell’usa (più spesso non usa) e getta, appare come pura follia ripristinare.

Passo alla presentazione: capasòne è il capofamiglia, capàsa la mamma, capasièddhu il figlio (il maschilismo imperante anche in campo linguistico relegava capasèddha ad un ruolo marginale, per lo più sostituita dal fratello). Spesso, però il maschilismo linguistico deve fare i conti con l’etimologia ed è il nostro caso: è evidente che il nome primitivo è capàsa, mentre capasòne e capasièddhu sono derivati, rispettivamente accrescitivo e diminutivo.

Basterà, perciò cercare solo l’etimo di capàsa. Il Rholfs invita solo ad un confronto con l’analoga voce calabrese e con il neogreco kapàsa. Antonio Garrisi4 lo fa derivare dal latino càpax/capàcis, aggettivo che significa capace. In Wikipedia leggo “ dall’aggettivo dialettale capase (capace)”. Procederò con ordine obiettando al Garrisi che, siccome tutte le voci, comprese quelle dialettali, di origine latina derivano dall’accusativo e che capax è un aggettivo ad una sola uscita, dobbiamo partire dall’accusativo maschile e femminile (capàcem) o neutro (capax): nel primo caso, ipotizzando la consueta caduta della consonante finale, l’esito sarebbe stato capàce (proprio come in italiano); nel secondo dovremmo immaginare, oltre alla regolarizzazione della desinenza (aggiunta di -a) il passaggio -x>-s invece del normale -x->-ss (luxus>lussu) o -x->-sc- (molto più raro e sostanzialmente limitato allo sviluppo di un ex- iniziale: exclamàre>scamàre)5. Quanto al capase di Wikipedia sarei curioso di sapere da quale dialetto è stato preso. E allora? Giacché ci sono me la prendo pure col Rohlfs, anche se a qualcuno il mio potrà sembrare un lancio senza paracadute. L’obiezione che rivolgo all’insigne studioso è che l’oggetto di cui stiamo parlando è troppo antico perché sia stato mediato dal neogreco e non dal greco antico. Infatti il greco antico registra un kàbasa o Kabàsas che compare in alcune iscrizioni5 relative ad inventari di templi e che indicano un oggetto non identificato. La kabàsas potrebbe, sottolineo potrebbe, essere l’antenata della neogreca kapàsa e della nostra capasa, dal momento che è notorio come nei templi le offerte venissero custodite in appositi contenitori.

Dopo il parziale fallimento del tentato miracolo etimologico (ne è spia il condizionale “potrebbe”),  chiudo con quello ricordato all’inizio: la nostra brava famigliola è diventata un pezzo di antiquariato (naturalmente mi riferisco agli esemplari antichi, che hanno un notevole valore di mercato), ma anche la nuova generazione se la spassa abbastanza bene, visto che è diventata un oggetto quasi privilegiato dell’arredo di ville anche di un certo prestigio.

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1 Mi sono stancata a stare sempre piena di olive.

2 Io, se devo essere sincero, col vino mi trovo bene…

3 Ma meglio di tutti sto io, sempre pieno di fichi…

4 Dizionario leccese-italiano, Capone, Lecce, 1990; è doveroso ringraziare l’Autore e l’Editore che hanno immesso in rete per la libera ed integrale consultazione, tra le altre, anche quest’opera.

5 Inscriptiones Graecae, Berlino, 1902-1957, passim.

Toponomastica salentina

di Gianni Ferraris

Viaggiare in Salento è percorrere strade e paesaggi fatte anche di profumi e colori. Di questo ho già detto e probabilmente ancora dirò. Sarebbe importante per queste terre, avere un turismo qualificato e non il mordi e fuggi estivo, fatto di pochi giorni e via.

E’ terra da vivere in ogni mese dell’anno. Però ci sono aspetti che il viaggiatore assetato non solo di mare deve sapere. Chi, come me, ha un senso dell’orientamento carente, si troverà sperso fra ulivi e vigneti, fra mare e campagna se è sprovvisto di navigatore satellitare.

Il centro storico di Maglie nei paesi nordici europei

Cogliamo l’occasione della presentazione dell’evento “Maglie città giardino” per pubblicare l’articolo del prof. Emilio Panarese “Il centro storico di Maglie nei paesi nordici europei” apparso dapprima nel dicembre 1999 su «InformaCittà», periodico di informazione dell’Amministrazione Comunale di Maglie, e successivamente nel 2002  in appendice alla  «Guida di Maglie. Storia, arte, centro antico» di E. Panarese-M. Cazzato (Congedo editore).

Diversamente da quanto riportato da taluni autori (V. D’Aurelio, G.L. Di Mitri), fu infatti per primo Emilio Panarese a dare notizia di ceramiche raffiguranti uno scorcio del centro storico magliese con i suoi monumenti più rappresentativi, valorizzando questa rilevante scoperta, indicando i due principali marchi di fabbrica (“Victoria Ware” e “T.KOPEN AGHEN”) che utilizzarono la veduta settecentesca di Maglie del Desprez come modello iconografico per decorare oggetti fittili di varia foggia che vennero poi diffusi nei paesi del nord Europa e, in ultima analisi, aprendo quindi la strada ad ulteriori studi al riguardo.

L.J. Desprez, Vue du Bourg ou Village de Moglié dans la Terre d’Otrantes

 

Il centro storico di Maglie nei paesi nordici europei

di Emilio Panarese

Può sembrare poco credibile che una ‘veduta’, un disegno di un paese dell’estremo Salento, vada a finire sui vasi di fine porcellana, vetrificata, traslucida, fabbricati, tra ‘800 e ‘900, in paesi dell’Europa settentrionale (Svezia, Danimarca, Inghilterra, ecc.). Poco credibile, ma vero.

Vaso di fiori: alt. cm. 35; porcellana bianca, forma esagonale, periodo 1920 ca., provenienza Roma; marchio di fabbrica con le parole “T.KOPEN AGHEN”; propr. Massimo Lionetto

Questa felice veduta (insieme con poche altre salentine come la leccese Piazza di S. Oronzo, Otranto, Soleto, Gallipoli), che riguarda proprio Maglie, è, secondo il parere degli esperti d’arte, tra le più belle e meglio riuscite del secondo Settecento salentino. Si deve al geniale architetto e pittore francese Jean Louis Despréz, che la schizzò a Maglie nel settembre 1778 e la rifinì poi, l’anno dopo a Roma, per l’incisione da realizzare con la tecnica dell’acquaforte.

Si ammira in una delle pregevoli pagine in folio di carta forte, vergellata a mano, della monumentale opera, in cinque grandi volumi, del peso di circa mezzo quintale, «Voyage pittoresque, ou Description des Royaumes de Naples et de Sicile», Paris, 1781-’86, ossia «Viaggio pittoresco o descrizione dei regni di Napoli e di Sicilia», realizzata dall’abate Richard de Saint-Non con la collaborazione di esperti: scrittori, architetti, disegnatori, pittori e incisori.

Brocca da lavabo: alt. cm. 22; lungh. cm.24; porcellana inglese, Londra, periodo 1880 ca., marchio di fabbrica con le parole “Victoria Ware”; provenienza Modena; propr. Lello Di Gioia

Con questa opera straordinaria, ma costosissima, destinata solo alle famiglie reali e alla grande nobiltà, si concludeva la fase tardosettecentesca dei viaggi eruditi in Puglia e nel Sud d’Italia da parte di colti viaggiatori (tedeschi, francesi, inglesi) attratti in questi paesi, quasi sconosciuti, dai monumenti classici dell’Italia meridionale (Magna Grecia) e dalle recenti scoperte di Ercolano e di Pompei. L’autore della veduta Maglie (“Vue du Bourg ou Village de Moglié dans la Terre d’Otrantes”) si trovava a Roma nel 1777 presso l’Accademia di Francia in qualità di borsista (pensionnaire du Roi), quando venne scelto e assunto dal Saint-Non come architetto-disegnatore del “Viaggio pittoresco”. A Napoli, il 16 dicembre, ritrae – è questo il suo primo lavoro dell’opera grandiosa – l’animata e popolaresca festa di S. Gennaro; poi la carovana si sposta in Puglia, quindi nel Salento e a Maglie e a Soleto. Lo schizzo originale a matita, che reca in alto l’antica grafia del toponimo (‘Mallia’) e che ritrae, con l’armonioso equilibrio dei volumi, alcuni monumenti della città (colonna in primo piano, chiesa della confraternita delle Grazie, matrice) è oggi conservata presso l’Accademia di Belle Arti di Stoccolma, dove l’artista morì nel 1804. Delle tavole acquerellate che ricordano la vita di quel giorno settembrino del tardo settecento a Maglie, sulla strada e presso gli edifici del centro storico, esistono tre versioni: nella prima, la più conosciuta (n. 31, G.de Grèce) si vedono in primo piano una squadra di sedici muratori al lavoro presso una casa con balcone in costruzione presso la colonna e delle persone che conversano sui gradini della chiesa vicina; nella seconda, i tre monumenti citati, in basso a destra una carrozza tirata da due cavalli e gruppi di persone qua e là; nella terza, persone singole o in gruppo nella via di mezzo; a sinistra due uomini a cavallo; in fondo, in piazza, la grande croce di pietra di fronte alla chiesa greca di S. Pietro.
Dopo aver compiuto il giro delle esplorazioni archeologiche, l’équipe francese tornò a Roma. Qui il brillante ed affascinante re Gustavo III di Svezia nel 1784 invitò l’eclettico architetto J.L. Despréz, della cui arte era invaghito, a lavorare presso la sua corte come paesaggista, disegnatore, scenografo e coreografo di feste.

 

Gli schizzi originali che l’artista aveva fatto in vari paesi dell’Italia meridionale furono da lui portati nella capitale svedese: alcuni vennero donati all’Accademia delle Belle Arti, altri invece, negli ultimi miseri anni della sua vita, furono da lui venduti, come vendute furono alcune varianti acquerellate, montate in passe-partout, che circolarono in vari paesi del Nord Europa (Inghilterra, Norvegia. Danimarca. Olanda, Belgio, Russia settentrionale).
E proprio a queste varianti acquerellate che ritraggono, con l’aggiunta in verità di alcuni stravaganti particolari architettonici, il centro storico di Maglie si sono ispirati i ceramisti inglesi e danesi autori delle porcellane qui riprodotte. Vivace e animato il paesaggio specialmente nel vaso di fiori T. KOPEN AGHEN, in cui tra figure di cavalli, cavalieri e pedoni, c’è pure, davanti al basamento della colonna, ora finalmente restaurata, un cane che scappa. Preziosa la brocca da lavabo di fine Ottocento con ansa lucida e becco merlettato da corolle di fiori, che nel cerchio del “piede d’appoggio” mostra la ‘marca’ di fabbrica con l’impresa reale (‘Victoria Ware’) sostenuta e difesa da tre agguerriti leoni. La fine struttura granulosa, di solito usata per lavori artistici, richiama alla mente le più famose porcellane di Sèvres, di Sassonia, di Worchester, della napoletana Capodimonte.
Così le figure di tre monumenti magliesi, felicemente disegnati nel tardo Settecento da un geniale architetto francese, finirono, per le sue vicende personali, in paesi lontanissimi dal Salento e adornarono alcune case della gente del Nord europeo. in «InformaCittà», periodico di informazione dell’Amministrazione Comunale di Maglie,
A.IV(4), dicembre 1999, pagina 9
e
in «Guida di Maglie. Storia, arte, centro antico» di E. Panarese-M. Cazzato,
Appendice 4 (di Emilio Panarese), pp. 202-203
in “Le guide verdi”, n. 41, 2002, Congedo editore.

Ulteriori contenuti sono consultabili in “Maglie …fuori del comune” http://emiliopanarese.altervista.orgpg014.html 

Mostre/ Paolo Finoglio. Un maestro del Barocco napoletano

Paolo Finoglio, L’angelo appare a San Giuseppe

Tra realtà e leggenda

di Alessandra Boccuzzi

Un ambizioso progetto vede l’Italia e la Francia protagoniste del panorama culturale europeo. Si tratta di due mostre inquadrate in un’ottica di scambio artistico-culturale di altissimo livello tra la Pinacoteca “Paolo Finoglio” di Conversano e il “Palais des Beaux-Arts” di Lille, promosse dal Comune e il Polo Museale di Conversano “MUSeCO”, la Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Puglia e il Palais des Beaux-Arts de Lille.
La mostra “Veronese, Tintoretto e la pittura veneta. Capolavori del Palais des Beaux Arts di Lille” – inaugurata il 9 maggio e in programma sino al 21 luglio 2010,  allestita nelle sale della Pinacoteca “Paolo Finoglio”, all’interno del prestigioso Castello Aragonese di Conversano – è stata curata da Fabrizio Vona (Soprintendente ai Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Puglia) e Saverio Pansini (Direttore dell’Area Politiche Culturali del Comune di Conversano, Direttore “MUSeCO”).

L’evento mira non solo a mettere in evidenza la consistenza e la qualità dei manufatti artistici prestati dal museo di Lille, da considerare tra i musei francesi più importanti, ma anche a ricreare percorsi e sollecitazioni utili ad operare un’efficace contestualizzazione del fenomeno tardo cinquecentesco e dei primi del Seicento in ambito pugliese. La collezione di Lille – afferma Saverio Pansini – risulta particolarmente ricca di opere venete e la sua

Gli omòfoni del dialetto neretino a fumetti: ‘ncarnare

OMOFONI DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (10): ‘ncarnàre.

Come dare torto al cane?

1 Esci immediatamente da qui, sennò faccio che ci pensi Rex!

2 Con quella faccia di cane che hai perchè stai prendendo gusto ad aizzarmi il cane e non vieni tu?

3 Veramente qui l’unico che ha una bella faccia sono io…

‘Ncarnàre (usato riflessivamente) nel dialetto neritino può significare prendere gusto verso qualcosa [corrisponde all’italiano incarnarsi (nel significato letterario di penetrare nella carne), dal latino tardo incarnàre, composto da in=dentro e *carnàre (da caro/carnis=carne] e aizzare [corrispondente all’italiano obsoleto accanàre=inseguire con i cani (composto da ad=verso+*canàre da canis=cane) con sostituzione di in– con ad-; prova ne siano le varianti ‘ncanàre (usata nel Leccese a Squinzano e a Vernole e nel Tarantino ad Avetrana) e ‘ncanàri (usata nel Brindisino ad Oria); l’epentesi di –r– nella voce neretina può essere dovuta, per motivi semantici facilmente intuibili, ad incrocio con la voce corrispondente al primo significato.

Gli omòfoni del dialetto neretino a fumetti: stunare

GLI OMOFONI DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (9): stunàre.

Reazione a catena.

1 L’attrezzatura è di lusso, il cantante non solo è bello e bravo ma ha pure uno sguardo molto intelligente… peccato che i musicisti stonano tanto che mi hanno già stordita!

Stunàre nel dialetto neritino è usato nel senso di stonare [da s– (dal latino ex=fuori) privativa e tono, che è dal latino tonu(m), dal greco tonos=cinghia, tensione, da tèino=tendere] ed in quello di stordire, assordare,  forse dal francese antico estoner=sbalordire, dal latino*extonàre, composto da ex =fuori e tonàre =tuonare.

Salento: sole, mare, jentu e rischio incidentabilità (sic)

di Gianni Ferraris

Siamo in spiaggia. Finalmente è passato il ferragosto. Meno persone. Bimbi giocano. Due di loro hanno appena finito un capolavoro di sabbia. Mura di cinta che racchiudono un anfiteatro, due piramidi piccoline e una cosa che assomiglia ad un tempio. Bello veramente, mi sono fermato ad osservare.  A pochi metri da noi quattro ragazzi ed una ragazza. Che siano  universitari lo si capisce dai discorsi che fanno. Non è che vado al mare per origliare, parlavano  tra loro a voce normale, era inevitabile ascoltare. Raccoglievo discorsi su esami prossimi venturi in informatica e simili. Poi commentavano anche  quella signora in topless. Senza molta ammirazione, anzi. Non mi dilungo su considerazioni estetiche sulla stessa  per amore di pacatezza, e perché dovrei forse entrare in un labirinto su buon e cattivo gusto. Comunque rimango del parere che ognuno è libero di fare come meglio crede se non limita la libertà altrui. E’ arcinoto che in spiaggia si vedono programmi e fuori programmi di ogni sorta, declinati sia al maschile che al femminile, ed è il luogo per eccellenza dove ci si mette a nudo.

Comunque erano proprio belle persone, i ragazzi, almeno così pareva. Mi faccio una nuotata, anzi una nuotatina. Mica ho energie a iosa. Quando torno, se ne sono andati. Guardando il posto che occupavano il primo pensiero che mi balenò in testa era: “i cretini di oggi saranno i dirigenti di domani”. Già, perché asciugamani, pinne e tutto il resto era sparito. Rimaneva una bottiglia d’acqua vuota e qualche tovagliolino lasciato lì. Ho guardato il bicchierino di plastica che qualcuno ha portato per me, pieno di sabbia a metà per le cicche. Annoto che il posto dove stavamo è, si, spiaggia libera, però a distanza esattamente di venti metri ci sono tre cestini al confine con uno stabilimento e a disposizione di tutti. Sopra c’è scritto: isola ecologica: carta, plastica, vetro. Per giusta informazione dirò  che i cinque idioti avevano accento settentrionale. Ah Salento Salento. Sarebbero sufficienti i criminali autoctoni  che lasciano immondizie dovunque, macchè, arrivano anche dal nord.

La sera si torna casa e mi fermo al solito, eterno semaforo. Siamo in territorio di Vernole. Ne avevo già parlato in queste pagine, di quella sera in cui andammo ad Acaja (frazione di Vernole), il sei per tre campeggia ancora davanti alla mia finestra, “Lune d’Acaja – Lo spettacolo ha inizio”. Si si, proprio quello che è stato annullato senza motivi noti. E sponsorizzato da: Comune di Vernole,  Regione Puglia, Provincia di Lecce, Camera di Commercio di Lecce. A parte il primo, gli altri enti hanno contribuito in solido alle serate mai iniziate?  E sanno che è stato tutto annullato?

E avevo detto della segnaletica di quel paese, che ti fa girare come un imbecille per tutto il paese senza possibilità apparente di uscirne più. Solo una coraggiosa e repentina scelta di andare a intuito potrà esserti d’aiuto.  E della viabilità salentina molto si dibatte. Chi arriva in Salento non può ignorarla. Né può rimanerne indifferente.

Si, lo so, i comuni hanno bisogno di fare cassa, però c’è qualcosa di inquietante in alcune   modalità. La differenza fra necessità di incassi rapidi e veloci e accattonaggio a volte è sottile.  Una sorta di perversione sintattica e lessicale, l’inno al non sense per quanto riguarda Vernole.   Il  Dali più surrealista non  ci sarebbe mai arrivato. Qui però non è un quadro che puoi guardare e leggere, compenetrarti o meno. Qui si tratta di un segnale stradale.    Tutto si risolve in quello che chiamerei “Il paradigma della presa per il ….. (traducasi con “in giro”)”. Forattini, Vauro, Staino, sembrano dei dilettanti a confronto.   Intanto annoto che il malefico cartello è messo sul palo del semaforo, se è verde non lo leggerai mai, perché   è logorroico e scritto piccolo piccolo. Se è rosso, invece, potrai tranquillamente leggere tutto, magari fare un paio di telefonate e se hai un bisognino impellente puoi scendere con tutta calma. Perché il rosso è eterno. Ancora più lungo in inverno. Ci sono passato una domenica novembrina, per andare  a vedere il mare. Era primo pomeriggio, in strada c’era la nostra auto e poi…. Il nulla. Il semaforo inquietantemente rosso. Per attimi eterni. “Lo fanno apposta!” ho pensato.  Così ti stanchi, passi, e… zac, la foto è fatta. Al ritorno,  sera, c’eravamo noi e poi… il nulla. Stesso interminabile tempo di attesa.

Ma veniamo al testo. Per dire che hanno messo fotocamere per multare chi passa con il rosso ho contato 83 parole. Guardando la foto noterete che la parola FOTOCAMERA (italiano) non viene mai citata neppure per sbaglio, al suo posto compare una non meglio identificata: “Apparecchiatura per il controllo elettronico della velocità (photored F17A). Il tutto benedetto dall’Art. 146, comma 3 del C.D.S.

Ora, è arcinoto a tutti cos’è il C.D.S. Chi non lo sa è un mentecatto e un disinformato. I turisti tedeschi vengono a frotte per vedere il C.D.S. Pare   ne parlino anche all’ O.N.U. – Due olandesi discutevano su chi di loro aveva il C.D.S. più bello.

Tu che leggi e non lo conosci non sai cosa ti sei perso.

Tutto il notevolissimo testo è condito con le dovute omologazioni, con tanto di numeri e date.   Uniche parole che si leggono, sia pure tra lo stupore generale,   forse sono  giuste e corrette, quanto meno dovevano esserlo  nei primi anni del secolo scorso. “STRADA AD ALTO RISCHIO DI INCIDENTABILITA’”. A volte ci sono tavole rotonde nei prati vicini per parlarne. Pare che gli esperti del Devoto Oli e del Garzanti ne abbiano discusso giornate intere. La Treccani ha inviato in loco i suoi esperti.

Ho memoria di viaggiatore, pensate, ci sono luoghi dove, molti metri prima, c’è un grande cartello con su scritto “a 150 metri incrocio pericoloso”, oppure “moderare la velocità” oppure, “incrocio video sorvegliato”. Quante banalità, imparino dai vernolitani.   E poi che senso ha non poter fare accattonaggio in un incrocio? Prevenzione? Ma per favore, non scherziamo, noi i segnali di “rischio incidentabilità” li mettiamo all’ultimo momento, e scritti piccoli. Mentre leggi “incidentabilità” ti sei già schiantato contro un trattore.   E io che pensavo che i segnali e cartelli stradali dovessero essere intuitivi, che bastasse guardarli di sfuggita per capirli. Mal me ne incolse. Ho capito comunque, perché l’hanno messo sul palo del semaforo, se lo mettevano prima,   per leggerlo ci si doveva distrarre e si rischiava di spalmarsi contro un ulivo secolare. Questione di salvaguardia del territorio, insomma.

E’ vero che ci piace ridere e sorridere, però immagino il povero turista tedesco o inglese che arriva lì e cerca disperatamente sul dizionario la parola “incidentabilità”. Soprattutto mi piace pensare ai commenti dopo che hanno telefonato a Bonn o a Londra, alla cugina laureata in lingue. Lanciamo loro da queste pagine un messaggio: Noi non c’entriamo. E’ stato uno spirito burlone.

Gli omòfoni del dialetto neretino a fumetti: casu

GLI OMOFONI DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (8): casu.

Un giudice corrotto (se di corruzione si tratta…) che assolve un pecoraio non può essere che di sinistra…

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1 E per questo caso (o cacio?) che ho studiato fino a due minuti fa il pecoraio Armando è assolto.

Nel dialetto neretino casu può significare caso [dal latino casu(m), da càdere=cadere] oppure cacio [(come questa voce italiana, dal latino càseu(m)].

Sapori e profumi mai tramontati: le conserve

Sapori e profumi mai tramontati: le conserve

le melanzane sott’olio

di Daniela Lucaselli

Gustare nuove e vecchie pietanze. Rivivere i momenti nei quali si sente autenticamente il calore del focolare domestico è  riscoprire il valore genuino della terra e i sapori veri del cibo.

Sulla tavola ogni giorno si schiude una vera opera d’arte. Le forme originali presentano svariati colori che prendono corpo in suggestivi, armoniosi ed accattivanti sapori e profumi.

La natura in estate con la sua luce, il caldo, il sole appaga il lavoro duro e faticoso del contadino offrendogli copiosamente i suoi frutti nella loro genuinità. Ma l’estate è anche il tempo delle conserve. L’uomo, come la formica, prudentemente e saggiamente, in questo caso anche golosamente, pensa all’inverno arido e gelido.

Si rivive per incanto la gestualità domestica del passato quando la massaia sceglieva al momento giusto le melanzane, uno degli alimenti più sani e nutritivi della dieta mediterranea, da mettere sott’olio. Già questa prima operazione richiedeva oculatezza, in quanto l’ortaggio doveva essere maturo e al suo interno non doveva avere il seme.  Dopo di ciò le mondava, le asciugava delicatamente con un panno bianco, le sbucciava e le affettava tonde o le tagliava a listelli. Accuratamente le poneva strato  su strato, cospargendole con abbondante sale grosso ed arricchendole con ciuffetti di menta profumata, spicchi d’aglio e peperoncino tagliato a pezzetti, in una capasa. Su di esse veniva adagiato un tagliere di legno  della forma e della dimensione della bocca della capasa sul quale si poneva  il capapisasale, cioè  una grossa pietra, che aveva  la funzione di far  espellere tutta l’acqua amara che l’ortaggio conteneva. Le melanzane rimanevano così “a riposo” per 24 ore. Trascorso tale tempo, con sorprendente abilità, senza scomporre il tutto, la donna rivoltava la capasa facendo fuoriuscire, premendo se necessario il composto, tutta l’acqua nerastra che le melanzane avevano cacciato. A questo punto vi aggiungeva un buon aceto di vino bianco e  lasciava  riposare il tutto per altre 4-5 ore. Passato tale periodo la donna ripeteva il rituale della capasa rivoltata. L’ultima operazione consisteva nel versare del profumatissimo olio extravergine d’oliva che copriva il prelibato ortaggio come un mantello, pronto per essere gustato dopo una mesata come contorno vegetariano, con una croccante frisella col

Da Caravaggio, al Parmigianino, a Tamara de Lempicka…

a cura di Stefano Donno

 

Da Caravaggio, al Parmigianino, a Tamara de Lempicka: sì ma …tutti rigorosamente “falsi d’autore”
Rassegna di Marina Andrenucci

Cibus Mazzini dal 1 al 30 settembre 2010
Via Lamarmora 4 – Lecce

Inaugurazione il 1 settembre h. 19,30.  Introduce l’artista Francesca Leone

Cibus Mazzini ha attivato un percorso di promozione culturale ed
artistica con l’organizzazione di eventi che spaziano dalla
presentazione di libri alle esposizioni di arte. Continua dunque la
sua attività di promozione della cultura, con la rassegna dall’1 al 30
settembre 2010 dal titolo “Da Caravaggio, al Parmigianino, a Tamara de
Lempicka: sì ma …tutti rigorosamente falsi d’autore!”. I grandi
personaggi che hanno fatto grande il nostro patrimonio artistico
mondiale, ora “rivisti” dall’artista salentina Marina Andrenucci .
Dice di lei: “L’amore per l’arte nelle sue infinite forme mi ha
indotta a perfezionare la pittura nel suo aspetto tecnico attingendo
esclusivamente alle mie doti personali. L’ispirazione artistica,
decisamente figurativa, la trovo in ogni pensiero, in ogni immagine
così da spingermi a creare un filo conduttore tra la mente e la tela
al solo scopo di trasmettere quelle emozioni che provo nel riprodurre
i grandi Maestri. Le loro scelte, la ricerca dei particolari, ogni

Gli omòfoni del dialetto neretino a fumetti: scriddhare

GLI OMOFONI DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (7): scriddhàre.

Un ordine apparentemente contraddittorio.

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1 Totò, vieni a togliermi i semi a questi pomodori…e non strillare!

2 Dico io se è possibile che, con due donne, debba essere un maschio a togliere il seme ai pomodori!

3 Fratello mio, è possibile, è possibile. I tempi sono cambiati.

Scriddhàre nel dialetto neretino può significare strillare e togliere i semi (in dialetto criddhi, plurale di criddhu). Nel primo significato scriddhare può essere considerato deformazione di strillare (che è di origine onomatopeica) e non connesso, invece, col canto del grillo (pure esso in dialetto criddhu). Nel secondo  significato entra in campo l’omofono criddhu (il seme), per il quale il Rohfs si limita ad un confronto col calabrese arìddhu senza proporre, neppure per quest’ultimo, alcun etimo. Eppure non avrebbe comportato spreco di molto spazio aggiungere che nel glossario del Du Cange  è attestato quanto segue:

(ARILLI sono i chicchi secchi dell’uva, così detti dall’aridità. Glossario del medico Simone Genovese, dal codice regio 6959).
Rimane da spiegare la c– di criddhu. Ci vengono in soccorso le varianti in uso in altre zone del Leccese: riddhu a Lecce e riddu a Tricase. Risulta evidente che esse derivano per aferesi da arillo. In criddhu è intervenuto un fenomeno inverso rispetto a quello manifestato da vocaboli tipo crasta (vaso da fiori) che è, con metatesi, dal greco γάστρα (leggi gastra). Crasta diventa in altre zone rasta. Criddhu, perciò, è frutto di un processo imitativo inverso, di carattere ipercorrettivo.

Gli omòfoni del dialetto neretino a fumetti: mbaccare

GLI OMOFONI DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (7): ‘mbaccàre.

Magro è bello.

 

1 Che vi è successo? Vi vedo tutti e due sciupati…

2 Con questa crisi è da un mese che non ci becchiamo nemmeno un tozzo di pane.

3 Confermo…mamma mia che fame!

Mbaccare nel diletto neretino può significare essere sciupato, sfiorire e, per traslato mediato dall’immagine del fiore che reclina sullo stelo, addormentarsi (corrisponde all’italiano ammaccare, forse da un latino *macca, variante del classico màcula=macchia, con dissimilazione –mm->-mb-); può significare anche mangiare avidamente, divorare (in questo secondo significato non è riportato dal Rholfs, ma credo che corrisponda all’italiano imbeccare, con aferesi di i– e passaggio –e->-a-).

Il castello di Carovigno


di Marcello Gaballo

 

Una monografia dedicata ai restauri del castello di Carovigno, già della famiglia Dentice, conti di Frasso, e dal 1973 di proprietà dell’ amministrazione provinciale di Brindisi.
Il restauro, eseguito dall’ Autore del volume, ha restituito la preziosità ad una delle monumentali testimonianze delle fortificazioni in Puglia. Le vicende feudali di Carovigno inevitabilmente si ripercuotono sul complesso, che dal XIV secolo in poi registra interventi diversi, tra i quali il penultimo dovuto all’ ing. Gaetano Marcschizek (Napoli 1857-Lecce 1924).
Per gustare il recente restauro è stato fondamentale l’ apporto dell’ A. del volume nonchè progettista Fernando Russo, che descrive le diverse fasi dei lavori con esauriente e chiara documentazione iconografica.
Ne risulta un volume gradevole e ben impostato per la lettura del monumento, oltre che di buona qualità tipografica.

Castello Dentice di Frasso. Da fortezza a residenza. “Il Restauro”, Fernando Russo, Capurso (Bari), Edizioni Romanae, 2003, 132 pagine, album con 99 fotografie (colore, b/n di cui disegni, foto intere e particolari).
Presentazione del sindaco di Carovigno Angelo Lanzillotti e del sovrintendente per i beni architettonici e il paesaggio della Puglia Gian Marco Jacobitti. Testi di Fernando Russo, mentre il capitolo primo è di Marisa Milella.

 

Gli omòfoni del dialetto neretino a fumetti: mpicciare

GLI OMOFONI DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (5): mpicciàre.

Due verbi pericolosi…

1 E adesso che hai visto chi ha appiccato il fuoco è meglio per te non impicciarti…

2 Mi son messo già l’acqua in bocca…

‘Mpicciàre (di etimologia incerta, forse da un latino *adpiceàre, composto da ad=verso e *piceàre, da pìceus=di pece, da pix=pece, dal greco pissa) nel dialetto neretino è usato nel significato di accendere e come corrispondente dell’italiano impicciàre (dal francese antico empedechier, dal latino medioevale impedicàre=legare i piedi, dal classico in=dentro e pèdica=laccio per i piedi, a sua volta da pes=piede.

Gli omòfoni del dialetto neretino a fumetti: mazzu

GLI OMOFONI DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (4): mazzu.

Che cosa non si fa per una donna…

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1 Per questo mazzo son diventato più magro di dieci chili e ho rischiato che mi facesse un mazzo così ikl padrone del giardino da cui li ho colti.

2 Che uomo! Per me sarebbe capace di correre qualsiasi rischio…

Mazzu in dialetto neretino può significare mazzo (fascio) e, come in italiano, sedere, oltre che magro.

Il primo significato è dal latino medioevale màciu(m)=covone, a sua volta dal latino *màttea da cui è derivato l’italiano mazza. Per il secondo significato i vocabolari si limitano a dire che l’etimologia è incerta; per me è illuminante la locuzione farsi o fare (ad un altro) un mazzo così: è il lavoro dei mietitori che affaticava le spalle e anche le parti più in basso. Certo,  se poi penso che mazzo è collegato etimologicamente con  mazza (per somiglianza di forma) e che mazza è metaforicamente usato come sinonimo di pene, arrivo per metonimia (l’effetto per la causa, o, se preferite, il passivo per l’attivo) al significato di sedere: proposta etimologica diversa, nel senso che a priori sarebbe condivisa dagli omosessuali…

Gli omòfoni del dialetto neretino a fumetti: la corsa

GLI OMOFONI  DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (3): la corsa.

Il cane è sempre migliore del suo padrone.

di Armando Polito

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1 Questa che ho trovato io e che sto tenendo bloccata da un’ora è una grancevola, non quei granchetti che prendi tu, babbeo!

2 Bravo, Jimmy! Oggi ti meriti dieci polpette! Ora che catturiamo questa grancevola dobbiamo telefonare a Massimo (Vaglio), perché lui sa come dobbiamo prepararci la zuppa.

Corsa 1=grancevola; la voce dialettale non è registrata nel dizionario del Rohlfs; potrebbe essere deformazione di *cauressa, femminile di caùru=granchio (dal greco bizantino càburos, probabilmente, per l’accento, attraverso un intermediario latino *cabùrus, con sincope di –b-, mentre la variante di Manduria càuru è direttamente dal greco) oppure derivare dal greco eolico corse=mandibola.

corsa 2: identico all’italiano, da corso, dal latino cursu(m), da cùrrere.

IL BARDO DI COPERTINO

di Paolo Vincenti

da http://www.elamilmago.com/world/taverna.htm

I bardi, presso i popoli celtici, erano dei poeti cantori che, come gli aedi nella Grecia antica, accompagnandosi con l’arpa, cantavano, in versi, fatti epici e avvenimenti leggendari, inni religiosi e genealogie. Poeti di corte, nei secoli successivi, celebravano nella  poesia le gesta dei loro signori. Non sappiamo se Maurizio Leo, nel 1991, si sia  ispirato a queste figure semileggendarie di poeti oppure ai canti di guerra degli antichissimi popoli germanici per il titolo della sua creatura editoriale, Il Bardo, appunto, che, partendo da Copertino, è stato pian piano distribuito  in tutta la provincia di Lecce. Ne ha fatta di strada, da allora, questo giornale dal titolo così accattivante, che ci evoca le misteriose atmosfere dei “Canti di Ossian” di James Macpherson, il quale, nel XVIII secolo, dall’Inghilterra, con questa sua opera (tradotta in Italia da Melchiorre Cesarotti) diffuse la moda della poesia bardita in tutta Europa. Forse il direttore- editore del Bardo si è ispirato proprio alle storie ossianesche dell’opera di Cesarotti del 1763, oppure è stato ispirato dall’ “Arminio” di Ippolito Pindemonte (1804), o da “Il Bardo della Selva Nera” di Vincenzo Monti (1806). Comunque sia, è proprio una bella avventura  quella del Bardo che, partito in sordina e con pochi, pochissimi mezzi finanziari, si è ritagliato uno spazio sempre maggiore nell’ambito della pubblicistica salentina e si è accreditato presso gli addetti ai lavori come un foglio culturale di alto valore, per la serietà dei suoi collaboratori e il rigore scientifico di tutti i loro contributi.Tutto questo mai rinunciando a quell’appeal che la rivista ( come tutti i prodotti della carta stampata, per noi incalliti bibliofili) reca in sè.  Probabilmente, Maurizio Leo non sarebbe andato oltre i primi numeri, se non avesse trovato sulla sua strada un gruppo di amici disposti ad aiutarlo, credendo fortemente nella sua iniziativa, e a coadiuvarlo nella redazione del giornale. Al  primo gruppo di lavoro, formato essenzialmente da Maurizio Leo e dalla moglie, sua inseparabile e silente compagna d’avventura, si sono poi aggiunti numerosi amici intellettuali, che hanno garantito allo squattrinato editore un supporto morale ed anche economico, ciascuno con i propri mezzi e secondo le proprie possibilità.

Free press, senza una cadenza regolare, ma contando, più o meno, tre uscite l’anno, Il Bardo, Fogli di culture si distingue dalle altre riviste, innanzitutto per il suo formato gigante ( “lenzuolo” nel linguaggio giornalistico), poi per le copertine, sempre molto originali e senza alcuna didascalia, di Caterina Gerardi, e per il bianco e nero al quale il giornale è rimasto caparbiamente fedele (e sia perciò lodato) in tutti questi anni. Anche il numero delle pagine può variare da 6 a 10, a 12,  in base alla mole dei materiali che arrivano in redazione per i vari numeri.

Grazie al Bardo, che va a completare la nostra emeroteca ideale, la storia di Copertino è stata riscoperta ed indagata a fondo dai collaboratori di questa rivista.  Sono state così scritte pagine nuove ed interessanti della antichissima storia di questo casale centrosalentino, quel  Convertino o Conventino patria di San Giuseppe Desa e di Frà Silvestro Calia, di cui si sono occupati, fin dal primo numero, studiosi come Giancarlo Vallone, Giovanni Cosi, Mario Cazzato, Giovanni Greco, Alessandro Laporta, Fernando Verdesca e Vittorio Zacchino. Si aggiungano i nomi di Luigi Manni, Luciano De Rosa, Antonio Edoardo Foscarini, Alvaro Ancora, Antonio Errico, Giuseppe Conte, Pierpaolo De Giorgi, Giovanni Greco, con pezzi di ricerca storica, letteraria, filologica, antropologica, recensioni, segnalazioni e cultura generale, sempre appassionati e originali. Ma addirittura, sul Bardo, hanno scritto Mario Marti, Ennio Bonea, Gino Pisanò, Donato Valli; insomma si è mosso lo stato maggiore della Repubblica delle Lettere salentina. A metà giornale, si trova un inserto, “Allestimento- prove di poesia”, che ospita liriche edite ed inedite di svariati autori. Non si potrebbe dare una definizione unitaria di questo inserto poetico per la eterogeneità dei brani che vi appaiono, anche se tutti, grossomodo, percorsi da una certa vena di sperimentalismo.  Scrive Maurizio Leo: “Ho voluto dei fogli dal vivo dove chiunque (poeti scrittori o altri ARTisti, purchè attraversino il valore della scrittura in pura e semplice ricerca) possa esprimere creato e/o rappresentato, il di-segno che è tutta un’esistenza”. Fra gli autori che si sono avvicendati su questo foglio “allestito”  da Leo a mo’ di silloge poetica, scorriamo i nomi di Walter Vergallo, Arrigo Colombo, Giuseppe Conte, Carlo Alberto Augeri, Elio Coriano, Antonio Tarsi, Tatàr Sàndor, Pierpaolo De Giorgi, Nicola De Donno, Vincenzo Ampolo, Florio Santini, Mauro Marino, Piero Rapanà, Maurizio Nocera, Kavafis, Marilena Cataldini, Michelangelo Zizzi, ed altri. La  poesia di Leo è molto vicina al beat, per il culto che  egli ha per autori come Allen Ginsberg e Jack Kerouac, e per una certa ricerca nella scrittura che lo porta, in alcuni casi, ad una forte tensione e ad impennate del senso, mentre, in altri, ad una deriva non sense.

Se pensiamo al Bardo, ai tantissimi contributi  su San Giuseppe Desa, il santo dei voli, amatissimo protettore della città,  e ai tanti interventi sul patrimonio artistico, archeologico, paesaggistico di Copertino, Conventio Populorum,  come recita lo stemma civico del paese,  subito  ci vengono incontro nella mente il suo magnifico Castello con il Torrione medievale e la Porta di San Giuseppe, L’Arco dei Pappi e la Cripta di San Michele con l’epigrafe dedicatoria del Cavaliere Sourè, la Colonna di San Sebastiano e la Chiesa di Santa Chiara,  il magnifico complesso della Grottella, che ci accoglie all’entrata del paese, e la Chiesa di Santa Maria di Casole, la ecc. Maurizio Leo, questo “piccolo Barone di Munchausen del suo paese”, come è stato definito da Stefano Donno, che per vivere fa il pizzaiolo e rincorre i suoi sogni letterari, è anche il fondatore di una indipendente casa editrice, “I quaderni del Bardo”, con la quale, da molti anni, porta avanti il suo discorso culturale. Sotto questa etichetta, Maurizio Leo ha pubblicato Dogmaginazione(1992),  L’albergo di latta (1994), Fobia ( 1995), Non suona più il jukebox nell’appartamento di allen (1998), Il bazar delle parole scomposte (2002), per citare solo alcuni titoli comunque rappresentativi del suo “agire poetico”. Ma sono stati pubblicati anche affermati autori, come Vittorio Zacchino, con Religiosità e tradizione nelle poesie di S.Giuseppe da Copertino (1993), Paolo Valesio, con Anniversari (1999), Vittore Fiore, con Nicola a Copertino (2003), Giovanni Cosi, con Sette lustri di vita lequilese (2003), Maurizio Nocera, con Figli vostro padre uccidete! (2004), Elio Coriano, con Dolorosa impotenza il mestiere delle parole (2004), ed altri.  

Sfogliando le pagine del Bardo, ancora, incontriamo i nomi di Lucio Romano, Ermanno Inguscio, Marcello Gaballo, Salvatore Muci, Giovanni Giancreco, grazie ai quali approfondiamo la nostra conoscenza della antica Terra Hydrunti. Ma un foglio di cultura è sempre solo un foglio di cultura. Non può fare rivoluzioni, non può spostare le opinioni della gente, non dà notizie di cronaca o di attualità, può essere del tutto ignorato dal grande pubblico dei lettori. Chi si approccia a questo foglio, magari attirato dal  grande formato o dal fatto che non costi nulla, però, sia avvisato: può ritrovarsi rapito dagli approfondimenti che offre questa miscellanea e

e può magari appassionarsi a tal punto da scoprire una sensibilità nuova, nei confronti della cultura, che non sapeva di avere. Il gusto di scoprire cose nuove ed interessanti della nostra storia patria può portare anche il semplice amatore a misurarsi con la ricerca, dapprima da neofita,  in maniera discontinua ed inesperta, e poi sempre più accuratamente, mano a mano che acquisisce un metodo di analisi, fino a diventare anch’egli un roditore di vecchie carte, al pari di quegli affermati studiosi che lo avevano primieramente entusiasmato. La conoscenza del passato, infatti, non siamo i primi a dirlo, porta consapevolezza del presente, ci rende più forti e fieri della nostra identità, ci aiuta a comprendere meglio quel patrimonio culturale di cui è depositario il nostro territorio, e , naturaliter, a diventarne  promoters, ossia divulgatori, cosicchè tutti  possiamo intraprendere un affascinante percorso a rebòurs,  all’indietro nella nostra storia, e, grazie a questa appassionata riscoperta delle nostre radici,  farci infine anche noi  bardi della salentinità.

PAOLO VINCENTI

Pubblicato su  “Espresso Sud”,  Giugno 2007 e poi in “A volo d’arsapo. Note bio-bibliografiche su Maurizio Nocera”, Il Raggio Verde Editore, Lecce 2008

Mayno della Spinetta

Mayno della Spinetta

(a ognuno i suoi briganti)

 

di Gianni Ferraris

Quando ci sono invasioni ed oppressori, c’è sempre chi si ribella. Come giustamente accade. Così i piemontesi arrivati in terra di Salento trovarono anche i briganti ad accoglierli. Se si stupirono era solo perché avevano la memoria corta.   Quando Napoleone arrivò in Piemonte, fu occupazione militare, sociale e civile .

Spinetta Marengo è sobborgo di Alessandria. Oggi un museo celebra la vittoria del piccolo duce corso nella battaglia omonima. Che proprio in quei territori si combattè. Napoleone era praticamente sconfitto quella volta, solo l’intervento e il sacrificio del generale Desaix diedero la svolta alla battaglia.

E a Spinetta   nacque Giuseppe Mayno intorno al 1785. Figlio di un carrettiere, Giuseppe, e di Maria Roveda, e secondo di sei fratelli, frequentò il seminario, ma la sua indole inquieta lo portò ad arruolarsi  nel regio esercito.  Nel 1794  era di stanza a Tortona (AL). Ma la disciplina evidentemente era un abito troppo stretto per lui. Litigò ferocemente con un ufficiale e, per salvarsi la pelle, disertò e si rifugiò   presso una comunità valdese del cuneese,  dove rimase fino al 1796, anno in cui si arruolò nell’Armata d’Italia. Congedatosi nel 1803, il 19 febbraio dello stesso anno sposò Cristina Ferraris, nipote del parroco di Spinetta.

Il giorno stesso del matrimonio, però, dovette fuggire latitante. Leggenda dice per non aver osservato il divieto di portare armi. Pare che la realtà fosse  perché era braccato per diserzione. Con i suoi fratelli, fuggì infatti dalla legge sulla coscrizione obbligatoria del 20 aprile 1802, imposta dai napoleonici occupanti.

Cosa non si fa per conquistare la libertà dall’invasore nemico e forestiero. Subito le sue azioni fecero di lui un  mito.  Fiero capo di una banda, si dice, di

Gli omòfoni del dialetto neretino a fumetti: la cagge

GLI OMOFONI  DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (2): la cagge.

Il Socrate neretino.

di Armando Polito

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1 La Corte ha appurato che il professore Polito ha rovinato gli studenti abituandoli a ragionare con la propria testa. Perciò lo condanna a morte e ordina al boia scelto Benedetto Sadico di scaraventarlo domani mattina con un bel calcio nella calce viva.

2 Ragazzi, bisogna che mi inventi qualcosa…

3 Sbrigati a mangiarti quelle quattro polpette perché devo andare a vedermi la puntata del Grande fratello.

4 Va’ dove devi andare, che nella calce mi butto solo, senza il tuo calcio….

5 Tanto la calce di oggi non serve nemmeno per imbiancare…

6 Ragazzi, sto facendo un viaggio e due servizi: è da un mese che non mi faccio il bagno e ora mi ripulisco ben bene. E voi che pensavate di esservi liberati di me…alla prossima!

Cagge 1=calcio è dal latino calce(m), accusativo di calx/calcis=calcagno; cagge 2=calce è dal latino calce(m), accusativo di calx/calcis=calce, a sua volta dal greco chalix=pietruzza. Da notare come il dialetto, a differenza dell’italiano, ha conservato perfettamente l’originaria omofonia latina.

Piccoli seminaristi crescono… (decima parte)

La ragazza sulla terrazza dirimpetto. Una storia d’altri tempi nel Seminario Vescovile di Nardò

(decima parte)

di Alfredo Romano

Per lunghi quattro anni, sotto lo studio del Seminario in Corso Giuseppe Garibaldi, avevamo visto sfilare quasi soltanto funerali. L’ora era del primo pomeriggio. Il corteo proveniva dalla vicina Cattedrale ed era accompagnato dalla banda locale che insistentemente suonava la marcia funebre di Chopin (http://www.youtube.com/watch?v=3E-U4NtGpDs). Della banda faceva parte anche il nostro barbiere, famoso per tosare ogni seminarista in soli tre minuti e poi sotto a chi tocca. Si chiamava Antonio Stìfani, fratello del più famoso Luigi (anche lui barbiere) che suonava il violino nella pizzica tarantata registrata a Nardò da Diego Carpitella e Roberto Leydi nel 1966. Giusto in tempo di carnevale, oltre ai cortei funebri, captavamo in tarda serata il vociare allegro e sguaiato della gente mascherata giù nel Corso, mentre noi eravamo affaccendati a edificare lo spirito e la mente nel

Cresciuti a frise e menuncelle

di Antonio Bruno

Io dopo Carosello non sono mai andato a nanna! Lo confesso i miei genitori erano molto clementi e mi concedevano di vedere la trasmissione in prima serata, quando non pioveva. Come dici? Che c’entra la pioggia con la TV? Se fosse il 1963 e abitassi a San Cesario di Lecce, sapresti che appena una goccia di pioggia fosse apparsa ecco che d’incanto l’energia elettrica sarebbe stata staccata! E un lume a petrolio avrebbe illuminato una serata di “cunti”… ”azzate Giuvanni e nu durmire , visciu na nuveia scire e benire una te acqua , l’addrha te ientu , l’ addrha te triste maletiempu…”.

Ma Carosello non è mai stato nella mia infanzia; la menunceddrha si che invece ricordo molto bene come gustosa merenda estiva!

Ecco la mail in cui un nipote e figlio del Salento leccese che vive lontano da questa terra che si immerge nel grande lago salato mi scrive che ha il padre che è di Lecce e che suoi nonni lo hanno allevato a frise e menuncelle.
Poi guardate che scrive: Ora “menuncelle” è la pronuncia del termine da loro utilizzato per descrivere una specie di cetriolo tondo-melone che pare cresca solo laggiù in Puglia. Mio nonno è morto da anni, qui nessuno me le coltiva più e io vado in crisi d’astinenza. Ho fatto ricerche in internet e non trovo nulla, probabilmente il nome è sbagliato. Qualcuno mi sa dire come caspita si chiamano??? E poi conclude con un’offerta che non si può rifiutare ovvero:
Una birra virtuale a chi lo sa, una cena a chi me ne manda una cassetta.
Cominciamo con il collega Dottore Agronomo Francesco Serio dell’Ispa-Cnr francesco.serio@ispa.cnr.it che ci narra del Carosello e del Barattiere, due tipi di melone (Cucumis melo L.) tipici della Puglia. Pianta rustica erbacea annuale delle cucurbitacee a rapido sviluppo con fusto angoloso, flessibile, strisciante e rampicante. Il Carosello ha i frutti cilindrici ad estremità arrotondata, dalla buccia di colore verde chiaro con protuberanze, la polpa compatta con pochissimi semi che si mangiano immaturi, in alternativa al più comune cetriolo, crudi e cosparsi di sale o in insalata. Poi ci spiega il profilo di qualità di questi peponidi da cui si evidenzia una ridotta presenza di sodio rispetto al cetriolo e un minore contenuto di zuccheri semplici. Per tali peculiarità, continua il collega Serio, la diffusione e il consumo di carosello e barattiere, inizialmente limitata ad alcuni areali del territorio pugliese, sta uscendo dai confini regionali, interessando anche la grande distribuzione organizzata.
Il Salento leccese è ancora un centro di biodiversità per i meloni anche se le nuove cultivar hanno sostituito progressivamente le varietà locali tradizionali. Nel nostro territorio si coltiva la “Meloncella” “Menunceddrha” “Spureddrha” (Cucumis melo L. var. Chate (Hasselq.) Filov), che è stata tradizionalmente coltivata per i suoi frutti acerbi. Questa coltivazione è uno degli ecotipi pugliesi che potrebbe anche essere l’epigono di una coltivazione più ampia.
Voglio subito dire subito per chi si diletta a coltivare nel suo orto urbano oppure sul balcone come si coltiva: la “Meloncella” predilige i climi temperati o caldi con umidità costante e soprattutto per quelli che sono a nord penso che debbano tenere in debito conto la circostanza che teme il freddo e le brinate. Prima della semina il terreno deve essere ben lavorato, profondo, di medio impasto, ben concimato e con pH leggermente acido. La semina se fatta all’aperto si può effettuare da marzo a luglio se invece si utilizza una serra può essere effettuata da gennaio-febbraio per poi effettuare il trapianto in marzo-aprile su file distanti 40-60 cm l’una dall’altra. Per la semina in pieno campo si fanno le buche a un metro una dall’altra e si lasciano cadere quattro semi per buchetta.
La raccolta avviene in modo scalare a comincia dopo 74 giorni dalla semina.

Nel periodo da febbraio a giugno del 2003 è stata condotta una ricerca in serra fredda su quattro selezioni di popolazioni locali di Melone da consumo verde che sono coltivate in Puglia e specificamente il Barattiere, la Menunceddrha o Spureddrha Bianca, il Carosello di Polignano e il Carosello di Manduria. I ricercatori hanno valutato la morfologia delle piante, le caratteristiche della produzione e la quantità di peponidi delle quattro selezioni di popolazione. La differenza maggiore dal punto di vista Morfologico è tra il Barattiere da una parte e la Menunceddrha o Spureddrha Bianca, il Carosello di Polignano e il Carosello di Manduria dall’altro e anche tra queste ultime tre popolazioni ci sono differenze.
La popolazione più precoce è risultata la Menunceddrha o Spureddrha Bianca mentre la più tardiva e la meno produttiva è risultata la popolazione di Barattiere.
Dal 1996, gli scienziati del Istituto di Genetica Vegetale (IGV) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) di Bari ( Italia) e il Crop Science Institute dell’Università di Kassel (Germania) hanno studiato la conservazione e l’uso di agrobiodiversità nella Grecia salentina.
I risultati di queste indagini hanno indicato una forte erosione genetica delle varietà locali autoctone e l’urgente necessità della loro protezione sia in situ e ex situ.

La zona del Salento (Grecia salentina inclusa) è famosa per il Carosello melone cetriolo, meloncella o menuceddha (Cucumis melo L. subsp. melo convar. adzhur ( Pang. ) Grebenšc . var. Chate (Hasselq. ) Filov ). Sono stati raccolti dodici campioni di questa coltura. Sette varietà tipiche locali di melone (C. melo) tra cui la vecchia “Minna te moneca “( seno della monaca), Bianco Melone d’Inverno (poponia in Griko ) e Malune ZUCCARINO (melone dolce) , un tipo caratteristico con frutto lungo e profumato. Purtroppo non sono stati trovati esempi di vecchie varietà locali di cocomero (Citrullus lanatus (Thunb.) Matsumura et Nakai ) già coltivata in questa zona e caratterizzata da polpa gialla , e questi con ogni probabilità possono essere estinti.
Bibliografia
Coltivazione degli ortaggi e salvaguardia della biodiversità: il caso del carosello e del barattiere http://roma.cilea.it/plinio/Iniziative/iniziativa.asp?codIniziativa=IC82&Dettaglio=RC84#dettaglio
G. Laghetti , R. Accogli and K. Hammer: Different cucumber melon ( Cucumis melo L.) races cultivated in Salento (Italy)
Anna Bonasia, Francesco Montesano, Angelo Parente, Angelo Signore, Pietro Santamaria: Morfologia e produzioni di quattro popolazioni di melone da consumo verde
F. Martignano V. Falco B.R.G. Traclò K. Hammer: Agricultural biodiversity in Grecìa and Bovesìa, the two Griko-speaking areas in Italy ( Hammer et al. 1992; Laghetti et al. 1998; Hammer et al. 1999; Laghetti et al. 2003; Hammer et al. 2007a , 2007b , 2007c ; Hammer- Spahillari et al. 2007; Laghetti et al. 2007a , 2007b ; Miceli et al. 2007).

Gli omòfoni del dialetto neretino a fumetti: la carza

GLI OMOFONI DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (1): la carza.

Quando sarebbe bene curare prima la memoria…

di Armando Polito

Si definiscono omofoni quelle parole che hanno suono e grafia identici ma etimologia e significati diversi. Questa loro caratteristica ne propizia l’uso in frasi ad effetto in cui al doppio senso è affidato il raggiungimento della finalità comica. Nel normale uso della lingua è il contesto a decretare il significato particolare con cui l’omofono è usato. Però, non sempre è così…

poco dopo a casa…

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1 Dottore, mi è spuntato un foruncolo su una guancia. Che mi consiglia di fare? 

Carza in dialetto neretino può indicare la parte inferiore della guancia, la superiore del collo (deformazione dell’italiano gàrgia/gòrgia, dal francese gorge, a sua volta dal latino tardo gurga=gola), nonché, sempre con la stessa etimologia, la branchia del pesce; indica anche la garza (di etimologia incerta, come la voce italiana).

2 Si applichi questa garza sulla guancia.

3 Ho dimenticato se devo mettere la garza sua sulla guancia mia o la guancia mia sulla garza sua.

Notizie utilissime per chi possiede alberi di olivo

 

Un olivo è come un bimbo che deve essere ben guidato e non costretto… nella sua crescita

di Antonio Bruno

L’olivo del Salento leccese non produce ogni anno e ciò accade quando i frutti vengono lasciati sull’albero sino a gennaio, febbraio in maniera da sovramaturare per poi essere raccolti dopo la caduta spontanea.
La raccolta precoce effettuata con il distacco forzato delle olive dalla pianta con l’ausilio degli scuotitori o di altre macchine ed una potatura leggera annuale, riducono il fenomeno dell’alternanza di produzione.
Se abbiamo una pianta di olivo e vogliamo fare in modo di correggere i sistemi sbagliati di allevamento e di potatura ci sono tanti studi che contribuiscono ad ottenere questo obiettivo. E nel 1928 il collega Benvenuto Murri si avventura a dare dei suggerimenti per consentire l’esecuzione di una potatura razionale dell’olivo.

“La qualità nasce nel campo” questo detto è riferito a quei prodotti alimentari che dopo essere stati raccolti vengono trasformati, ed questo il caso delle olive che dopo la raccolta vengono portate al frantoio per essere sottoposte alla molitura da cui si ricava l’oro giallo, l’olio della sapienza e dell’amicizia.
Il Salento leccese possiede un patrimonio immenso di oliveti, e tra questi vi sono gli olivi millenari che rappresentano l’adattamento delle varietà di olivo all’ambiente del Salento leccese. Purtroppo la carie del legno, che falcidia gli alberi di olivo e che viene combattuta con i tagli inferti dall’opera dell’uomo, fa si che non ci sia il legno vecchio, ovvero il cuore dei tronchi contorti dell’albero di olivo, purtroppo tale circostanza ci impedisce di datare con esattezza l’età delle piante. Ma se facessimo uno studio per mapparle geneticamente avremmo la gioia e la meraviglia di osservare il percorso dei coloni che vennero dalla Grecia, dei Cartaginesi, dei Saraceni, degli Svevi, dei Monaci Basiliani, dei Borboni e dei Francesi.

La presenza di tutti questi popoli nel Salento leccese e il loro legame con la pianta dell’olivo è la prova che l’uomo ha portato con se quelle piante e le ha messe a dimora e quando si è spostato di nuovo se l’è portate con se. Questa opera paziente e piena di attenzione dell’uomo ha fatto si che oggi siamo in possesso di un enorme patrimonio genetico.

L’olivo del Salento leccese non produce ogni anno e ciò accade quando i frutti vengono lasciati sull’albero sino a gennaio, febbraio in maniera da sovramaturare per poi essere raccolti dopo la caduta spontanea.
In tali condizioni la pianta non differenzia in inverno le gemme a fiore e, nell’annata successiva, sulla pianta ci saranno pochi frutti e quindi poca produzione di olio.
Se poi effettuiamo una potatura energica dopo l’anno di carica ecco che il fenomeno viene accentuato.

La raccolta precoce effettuata con il distacco forzato delle olive dalla pianta con l’ausilio degli scuotitori o di altre macchine ed una potatura leggera annuale, riducono il fenomeno dell’alternanza di produzione.
Gli scienziati del primo Novecento dicevano “L’olivo si pota con il temperino” e tra questi scienziati c’è anche il collega Dottore Agronomo leccese Benvenuto Murri.

Se abbiamo una pianta di olivo e vogliamo fare in modo di correggere i sistemi sbagliati di allevamento e di potatura ci sono tanti studi che contribuiscono ad ottenere questo obiettivo. E nel 1928 il collega Benvenuto Murri si avventura a dare dei suggerimenti per consentire l’esecuzione di una potatura razionale dell’olivo. La questione è tutta racchiusa nelle nozioni di fisiologia che dovrebbero essere il dominio incontrastato dei professionisti che guidano le squadre di potatori. In quegli anni il collega Murri si imbatté in specialisti potatori dell’olivo che seguivano i dettami prescritti da un antico proverbio “ulia te cimatura e fica te basciatura”.
Il collega afferma che tale proverbio induce a fare un gravissimo errore. Se è facile osservare che i nostri alberi hanno più frutto sulle cime rispetto agli altri rami dobbiamo avere la consapevolezza che tale comportamento dell’albero di olivo deriva da modo sbagliato di potare. Infatti potando in modo da favorire le cime dove erroneamente riteniamo avvenga in maniera esclusiva la fruttificazione e quindi tagliando sotto, la linfa affluisce più facilmente alle cime, lasciando poco alimentati gli altri rami inferiori.

Tenuto conto della fisiologia ne deriva che la potatura deve essere eseguita adottando il sistema dello svasamento, con il risultato di avere i rami non tutti perpendicolari ma obliqui tendenti a terra. In tal modo si ottiene il risultato di una uniformità di distribuzione della linfa che determinerebbe un minore aborto fiorale e in definitiva un prodotto uguale su tutti i rami.
Tutto questo deriva dall’applicazione della scienza agraria che proprio perché adotta il metodo scientifico arriva a conclusioni dopo pazienti esperimenti e prove comparative continue.

Come è noto la potatura si compone di interventi di potatura di formazione e di interventi di potatura di produzione o RIMONDA DEGLI ULIVI.
La prima e cioè la potatura di formazione o di allevamento, ha lo scopo di dare alla pianta dell’olivo una forma razionale, che in questa pianta nel 1928 era soprattutto quella a vaso. Come consiglia di eseguirla il collega Murri? Secondo il collega la prima operazione che il potatore deve fare è quella di stabilire bene l’altezza del futuro tronco, qui nel Salento leccese nel 1928 l’altezza che suggeriva l’esperienza doveva essere di metri 1,50 – 1,70 e non oltre e la ragione di questa scelta era collegata nell’esecuzione agevole dei lavori di potatura, rimonda, raccolta delle olive, irrorazioni. Il collega precisa che altezze maggiori del tronco rende più difficili e quindi costosi questi interventi sull’albero oltre che costituire una dispersione di materiali nutritivi.
L’olivo così costituito tornava ad essere interessato da interventi di potatura dopo due o tre anni quando, così come già scritto, si taglia il tronco all’altezza di metri 1,50 – 1,70 e su tre ramoscelli si impalca l’albero di olivo avendo l’accortezza di sceglierli in maniera tale che siano opposti ed equidistanti tra loro.
L’anno successivo i tre rametti lasciati l’anno precedente si tagliano a 60 centimetri dal loro punto di inserzione al tronco e su due gemme laterali ed opposte.
Allo stesso modo si continua nei 3 – 4 anni che seguono ottenendo alla fine il risultato di una pianta composta da 24 rami.

La potatura di produzione è corrispondente alla rimonda. Questa potatura è importante perché e dalla suo corretta esecuzione che dipende il successo produttivo dell’albero di ulivo.
Secondo il collega Murri è un errore madornale trascurare di fare questa potatura ogni anno. Infatti potando ogni anno si ha il risultato di equilibrare la produzione ottenendola costante ed inoltre non si sarebbe costretti, così come avviene quando pratichiamo la potatura discontinua, a fare grossi tagli che come sappiamo sono sempre dannosi.
In quegli anni si effettuava la potatura discontinua perché i proprietari, con il prodotto in rami e legno della stessa, pagavano la mano d’opera e magari ci guadagnavano anche qualche cosa.
Solo che tale guadagno accecava i proprietari dalle conseguenze della potatura forte che ha come naturale epilogo di vedere la pianta dell’olivo impegnata dopo tale intervento alla sua ricostituzione, e solo dopo che ciò sia avvenuto, destinare le energie a fare le olive.

Ma se la potatura è di produzione l’azione dei potatori dovrebbe essere informata dalla esigenza di mantenere l’equilibrio fra la parte aerea e le radici, operazione altamente delicata, perché bisogna anche proporzionare i rami fruttiferi, togliere i succhioni, il secco e quei rami torti che non hanno una posizione regolare e che impediscono il passaggio della luce e dell’aria e oltre a tutto questo necessita distribuire uniformemente tutta la ramaglia.

Un intervento particolare che si pratica sull’olivo è la slupatura, che consiste nell’eliminazione del legno morto generato dalla lupa o carie dell’olivo e che come ho già scritto impedisce di datare l’albero.
L’operazione si esegue a fine inverno con una sgorbia, utensile per intagliare, utilizzata per questi lavori dove si ravvisa la necessità di rimuovere grandi quantità di legno. Le sgorbie usate per operazioni di sgrossatura, in genere con l’ausilio del mazzuolo, presentano una lama prossima a 4 centimetri, con una curvatura lieve. Con la slupatura si asporta il legno malato e si mantiene quello sano.

Infine voglio ricordare che sull’olivo possono essere necessari degli interventi quando durante la potatura si sono notati attacchi di “rogna dell’ulivo” un batterio che si insedia su ferite dovute anche a grandine o gelate e provoca delle escrescenze di colore marrone scuro o nero che portano al deperimento del ramo.
L’intervento che si deve fare per risolvere il problema consiste nel potare i rami malati e bruciarli e di non lasciare le ferite esposte ma di proteggerle con apposito mastice.

Voglio concludere con delle considerazioni affermando che è bene fare in modo che la quantità massima della chioma dell’albero di olivo asportata sia un terzo tanto che da pochi metri di distanza non si dovrebbe notare che l’olivo è stato interessato dalla potatura.
Infine c’è anche da fare una considerazione della Professoressa Fiammetta Nizzi Grifi che da mamma sostiene che “Un olivo è come un bimbo che deve essere ben guidato e non costretto … nella sua crescita!”

Bibliografia
L’Agricoltura Salentina del 1928
Adriano Del Fabro Coltivare l’olivo e utilizzarne i frutti
Adriano Del Fabro Il grande libro della potatura e degli innesti
Cosimo Ridolfi Lezioni orali di agraria date in Empoli: Raccolte …, Volume 2
Giornale agrario toscano …, Volume 4 anno 1830
Glauco Bigongiali Il libro dell’olio e dell’olivo: come conoscere e riconoscere l’olio genuino
Accademia economico-agraria dei georgofili (Florence, Italy) I Georgofili: atti della Accademia dei georgofili
Casini, Marone L’imprenditore agricolo professionale. Testo di preparazione all’esame per l’iscrizione all’albo
Gino Capponi Antologia: giornale di scienze, lettere e arti, Volume 23
Gualberto Giorgini Come si coltiva l’olivo
Ada Cavazzani L’olivicoltura spagnola e italiana in Europa
Scipione Staffa da Vincenzo L’ Italia agricola industriale
Fiammetta Nizzi Grifi La potatura dell’olivo in Toscana Riflessioni tecniche

Suor Chiara D’Amato dei duchi di Seclì

di Raimondo Rodia
Seclì, chiesetta annessa all’ex convento francescano

Nella seconda metà del 500 (1550) divennero feudatari di Seclì con il titolo di duchi i D’Amato, nobili spagnoli venuti in Italia al seguito degli aragonesi, padroni dell’Italia meridionale. Con la famiglia D’Amato Seclì visse un periodo di sviluppo e benessere, trasformandosi da antica fortezza in residenza signorile, “la fortezza diventa palazzo”.

Del primo duca si hanno poche notizie. Il suo successore, Guido, fu un uomo coraggioso e colto. Partecipò alla battaglia di Lepanto, dove la flotta cristiana inflisse una durissima sconfitta alla flotta turca. Tornato nel suo feudo fece costruire il convento dei frati minori osservanti con l’annessa chiesa dedicata alla Madonna degli Angeli. Diede inizio alla costruzione del palazzo feudale ed ingrandì la chiesa matrice dedicata a S. Maria delle Grazie. Verso il 1610 a Guido successe Ottavio e a questi, verso il 1615 il figlio Francesco. Nel 1647, quando il popolo si ribellò alle numerose imposte dei signori spagnoli (rivolta di Masaniello a Napoli), l’ultimo dei D’Amato, Antonio, fu coinvolto in un episodio di rivolta popolare scoppiata nel Salento contro i signori locali. A seguito della rivolta scoppiata a Nardò, il duca neretino fece imprigionare don Antonio Bonsegna, alleato dei rivoltosi. II popolo neretino allora per ottenere la liberazione del Bonsegna mandò due frati francescani, del convento di Sant’Antonio da Padova di Nardò, dal barone di Seclì, Antonio D’Amato, minacciandolo che avrebbero sequestrato e poi bruciato la sorella Suor Chiara, se non avesse convinto il duca di Nardò, suo cugino, a rilasciare il Bonsegna. Questa rivolta ebbe fine con la liberazione del Bonsegna. Antonio era fratello di Suor Chiara, al secolo Isabella D’Amato duchessa di Seclì nata il 14 marzo 1618 e morta a Nardò il 7 luglio 1693, figlia del duca Francesco.
Isabella crebbe a Seclì nel palazzo paterno segnalandosi, fin dalla prima infanzia, per dolcezza, pietà e semplicità. Decisivi per la sua formazione furono i rapporti con i frati minori osservanti del locale convento di S. Antonio, dai quali apprese la narrazione degli eroici martìri subiti dai missionari francescani. A dieci anni la bambina aveva già deciso di dedicare la propria vita a Cristo e, di giorno in giorno, rafforzava il suo ardore cristiano e la sua spiritualità, che accompagnava con digiuni rigorosi e severe pene corporali. Trascorreva la sua giornata raccogliendosi in preghiera nella cappella di famiglia dove ebbe l’apparizione della Madonna. Era vestita di bianco e aveva una collana d’oro. Da allora le visioni non si contarono più.
Nel 1636, all’età di 18 anni, Isabella entrava nello storico monastero di S. Chiara a Nardò insieme alla sorella minore Giovanna. Dodici anni più tardi, il 10 agosto 1648, ella poteva finalmente prendere i voti con il nome di Suor Chiara. Ispirandosi a S. Caterina da Siena di cui assume il nome, Suor Chiara conduce la sua vita di clarissa all’interno della comunità monastica neretina, in preghiere, veglie penitenziali, autoflagellazioni, ratti, deliqui, bassi sfaccendamenti a favore delle consorelle, febbri a rischio mortale, e insperate guarigioni. Le sue estasi, aggiungendosi a costanti digiuni, le causavano forti debilitazioni e spossatezze che la gettavano solitamente in uno stato di profonda prostrazione. Esse arrivavano improvvise, “alle volte con il boccone in bocca”, e suor Chiara scoloriva e impietriva per ore, ridestandosi solamente quando la superiora la richiamava all’obbedienza.
Seclì, statua della Vergine conservata nella chiesetta

Durante l’estasi Suor Chiara si assentava dal mondo e senza rendersene conto, veniva assorbita completamente dalle visioni in cui si immergeva la sua mente. Talvolta mentre era in trance manifestava straordinarie qualità divinatorie e profetiche che le permettevano di vedere in anticipo eventi anche personali, come la sua stessa morte, in ogni dettaglio. Ma anche vicende fuori della sua portata relative a persone che non conosceva. Quelle estasi non di rado si accompagnavano alla levitazione, esattamente come succedeva al conterraneo San Giuseppe da Copertino. Ad una di quelle estasi fu presente il Cardinale Vincenzo Maria Orsini, il futuro Papa Benedetto XIII, nel corso di una sua visita a Nardò all’amico vescovo Orazio Fortunato.

Suor Chiara morì martedì 7 luglio 1693, dopo aver ricevuto l’estrema unzione e la benedizione papale “in articulo mortis” dal vescovo. Si aprì subito il processo di beatificazione che purtroppo non fu mai concluso. In una visione a Suor Chiara le appariva Gesù con due cuori nelle mani, uno era di carne, l’altro era di materiale lucente come il cristallo. Suor Chiara diceva di non avere il cuore perché le era stato tolto da Gesù ricevendo il suo che era lucente come il cristallo.
Erano trascorsi sette anni dalla morte di Suor Chiara ed il vescovo Mons. Orazio Fortunato ordinò la traslazione della salma dalla cripta alla sepoltura comune delle monache. Il vicario Orazio Giocoli, ricordandosi della confessione di Suor Chiara, volle accertarsi se tutto ciò fosse vero. Ordinò al medico De Pandis di aprire il petto e ricercare il cuore. Tutti gli organi erano al loro posto, il cuore non c’era.
Dopo la sua morte si diede inizio al processo di beatificazione, avendo Suor Chiara vissuto tutta la vita dedicandosi interamente a Dio e al prossimo e avendo compiuto numerosi miracoli. Si dice che qualche giorno dopo la sua morte, non avendo della defunta alcuna immagine, le consorelle decisero di riesumare il cadavere, conservato nella cripta del convento per far eseguire ad un pittore il ritratto.
Erano trascorsi oltre 8 giorni dalla morte, eppure il cadavere, estratto dal sepolcro, non era rigido, non presentava il “rigor mortis”, anzi il corpo si prestava facilmente ai movimenti che le suore gli facevano fare per metterlo seduto sulla sedia della cella, davanti al tavolo in adorazione del crocifisso, per il ritratto.
Quando il pittore cercò di mettere in una posizione più corretta il volto di Suor Chiara, questo si ritrasse quasi disapprovando di essere toccato dalle mani di un uomo. Fatto il ritratto, il processo di beatificazione ebbe inizio. I prelati incaricati per il processo dovevano vedere il corpo della suora, per questo si decise di riesumare nuovamente il cadavere di Suor Chiara. Ma aperto il sarcofago si vide, con grande stupore, che le spoglie di Isabella D’amato erano sparite e non avendole più trovate il processo di beatificazione non potette procedere.
Questo mistero fu spiegato solo molto tempo dopo, quando una suora del convento, in fin di vita, disse che Suor Chiara era stata sepolta dalle consorelle, dopo la riesumazione, in un luogo nascosto che sarebbe stato individuato dal ritrovamento di una lapide con il nome della defunta e la data della sua morte. Ma la lapide descritta dalla suora non si è ancora trovata.
Ancora oggi nel ristrutturato castello di Seclì, oggi di proprietà comunale, in quella che era la cappella di famiglia c’è come una macchia, sembra quasi di umido, accanto alla finestra, un ombra inginocchiata che non trova pace.
Molte storielle di fantasmi vengon raccontate sull’austero castello di Seclì ieri della nobile famiglia d’Amato ed oggi tornato a far parlare di sè.

Un pugile suonato… ma non tanto

OGGI PARLIAMO DI SUÈNNU.

Un pugile suonato… ma non tanto.

 

di Armando Polito

1 Quasi quasi ora chiedo all’arbitro di continuare domani… con quel colpo che mi ha dato alla tempia mi sta calando il sonno. Speriamo che questo disgraziato non mi venga pure in sogno!

 

Suènnu nel dialetto neretino può significare tempia, sonno e sogno, si tratta, insomma, di una parola, come dicono gli addetti ai lavori, polisemica.  La voce è dal latino somnu(m) che in epoca classica significava sonno (mentre somnium, da somnum, significava sogno ed ha dato vita alla voce italiana) e in epoca tarda anche sogno. La polisemia della voce dialettale mi dà l’occasione di ricordare che, nonostante gli indubbi progressi, ancora oggi non si è riusciti ad individuare la zona del cervello nella quale avrebbero origine i sogni e per il sonno non mi pare che si sia andati al di là dell’individuazione delle sue fasi. Da qui per suènnu anche il significato di tempia quale parte del contenitore dell’organo che presiede ai due fenomeni, senza tralasciare il dato sperimentale noto da tempi immemorabili che una botta in testa (in generale) può far perdere i sensi dopo aver visto (già in sogno?) le stelle…

Piccoli seminaristi crescono… (nona parte)

 

L’AMICIZIA NEL SEMINARIO VESCOVILE DI NARDÒ DAL 1960 AL 1965 (Nona parte)

di Alfredo Romano

In Seminario era d’obbligo, tra compagni, chiamarsi per cognome. La cosa ci sembrò alquanto strana, ma non facemmo obiezioni: faceva parte di una serie di nuove regole di vita cui ci saremmo dovuti adeguare. Il termine amicizia era bandito, tra seminaristi non poteva darsi. Forse perché, mi sarei chiesto anni dopo, il termine, nella sua radice, viene da amore, a dire un intenso sentimento di affetto, un’inclinazione profonda verso qualcuno/a, recita lo Zingarelli. Ma, data la proibizione, era naturale che tra compagni si stringessero amicizie per questioni di carattere, per interessi comuni, per simpatia spontanea, perché trovavi l’altro generoso, allegro,

Castro, perle très pure du Salento

 

Castro, mon grand amour: perle très pure du Salento, entre lumineux feux d’histoire et rayonnements de modernité

de Rocco Boccadamo

On a pas l’impression de rêver, on perçoit la réelle sensation que la divine Pallas Athéna pour les Grecs ou déesse Minerve pour les Romains – dont le nom constitue partie intégrante du surnom original du petit bourg que je m’apprête a nommer justement Castrum Minervae – peut-être à cause d’une forte déception, elle aurait distillé aux alentours une petite pluie de larmes ; larmes qui, arrosant et pénétrant le terrain, se seraient transformées en humus particulier qui, à son tour, serait à l’origine d’une vaste gamme, ou mieux d’un concentré, de beautés naturelles extraordinaires et admirables qu’on note diffusées dans cette souriante et amène contrée du Salento.
Un point presque invisible sur les cartes géographiques, qui cependant donne, en soit même, l’avantage de ressembler à l’ombilic de l’accouplement entre les dernières épaisseurs du vert de l’Adriatique et les plus animées nuances de bleu intense, de la mer Ionienne.

Comme par l’effet d’un miracle étrange, mais il ne s’agit pas d’un miracle, Castro est une «vieille» ville sur les traces de son antique et glorieuse histoire, bourrée aussi d’épisodes de saccages et destructions à l’oeuvre de hordes de pirates et de garnisons conquérantes qui jetaient l’ancre depuis  les rives très proches du Canal d’Otrante. Castro se présente, en même temps, joyeusement jeune, du moment qu’elle a réussi à garder, de nos jours encore, une grande envie de vivre et de croissance: ici, on doit le souligner, le problème de la baisse de la natalité n’existe pas, si non dans des termes modestes, de sorte que les jeunes, les adolescents et les enfants sembles nombreux, du moins en rapport du nombre de personnes âgées.
Castro la minuscule, cependant centre important dans l’histoire de la chrétienté. Beaucoup, peut-être, ne savent pas, que pour plusieurs siècles

Ritiri ed esercizi spirituali nel Seminario Vescovile di Nardò

 

Ritiri ed esercizi spirituali nel Seminario Vescovile di Nardò dal 1960 al 1965.

(Ottava parte)

di Alfredo Romano

Verso la fine di ogni mese era d’uso la pratica del ritiro spirituale che iniziava il pomeriggio di sabato e finiva il giorno dopo di domenica a pranzo. Una volta l’anno, invece, c’erano gli esercizi spirituali. Se il ritiro durava quasi un giorno, gli esercizi, invece, tre giorni di fila e si tenevano a dicembre. Diciamo subito che il ritiro creava un inconveniente non da poco per noi seminaristi: una domenica al mese non era permessa la visita parenti. E noi che ogni domenica aspettavamo le nostre mamme come “anime sante”, per dirla alla maniera salentina. Il ritiro consisteva, oltre la messa, in un alternarsi di funzioni, canti, preghiere, rosari e in una sequenza di prediche, riflessioni e meditazioni tenute e dettate generalmente dal nostro padre spirituale; eccezionalmente anche da un padre dei frati minori conventuali di Copertino, padre Angelo Pino. Regola principale del ritiro era il silenzio assoluto. Nell’alternanza delle pratiche da eseguire spiccava la recita del rosario che aveva luogo più volte nel cortile (al posto della ricreazione) dove i seminaristi lo recitavano mentalmente col solo movimento delle labbra avendo una coroncina tra le mani e camminando ininterrottamente, ognuno per conto proprio, chi in un verso chi nell’altro, intorno al porticato. Il silenzio era rotto soltanto dal confuso calpestio delle scarpe, non dissimile da quello di un gregge. L’atmosfera era talmente surreale, che non di rado, scontrandosi con un compagno che girava nel verso opposto, ci scappava una smorfia, per non dire un improvviso scoppio di risa da frenare a tutti i costi serrandosi la bocca fino a mordersi. Poi si saliva in studio e lì, ognuno alla sua scrivania, doveva rispondere per iscritto a dei quesiti dettati dal padre spirituale sui quali invitava a riflettere e a meditare. Il quaderno poi veniva consegnato allo stesso padre che prendeva visione di quanto scritto. Sorprendentemente ho trovato, ammuffito dal tempo, uno di quei vecchi quaderni. Devo dire che l’ho riletto con fatica: è riemerso un mondo assurdo e oscuro che avevo dimenticato. Mi sono chiesto se fossi stato proprio io a scrivere quelle note. Sì, le avevo scritte io e ho provato un senso di cum passione da farmi tenerezza quasi. Certo, sarebbe facile giudicare oggi col senno di poi.

Se il periodo del ritiro mensile suscitava un certo sconforto in tutti noi, che

Uno strano modo per selezionare gli amici

di Armando Polito 

Nelle sere estive, si sa, è abituale cenare all’aperto da soli o in piacevole compagnia. A me capita spesso, anzi sfrutto tutti i pretesti per non mancare all’appuntamento con la geca Natalina (non capisco perché dovrei dire geco femmina, dal momento che perfino la compagna dell’asino si chiama asina). A Nardò la bestiolina, graziosa, lo ammetto, solo per me e per pochi altri, è chiamata lucèrta fracitàna o lucerta libbròsa. L’ultima denominazione è la più chiara ed inquietante, corrispondendo alla traduzione italiana lucertola lebbrosa; alla povera bestiolina è stato, così, appioppato un nome che evoca una terribile malattia infettiva unicamente perché la conformazione della sua pelle ne ricorda vagamente gli effetti orripilanti. Meno inquietante a prima vista lucèrta fracitàna in cui lucèrta è, come nel nesso precedente, nient’altro che la denominazione italiana antica, variante del latino classico lacèrta. E fracitàna? Non è altro che una forma aggettivale ottenuta aggiungendo il relativo suffisso all’aggettivo fracido, variante regionale centrale di

Non se ne parla: piccole quotidiane maratone del ricordo

di Rocco Boccadamo

Si suole sostenere che, relativamente ad una coppia, sebbene protagonista di un tranquillo e intenso sodalizio matrimoniale protrattosi per molti decenni, allorquando e dopo che scocca l’ora della dipartita per uno dei componenti, tutto finisce, si esaurisce e svanisce, anche per l’altro che rimane.

In realtà, non sempre accade propriamente così, anzi. Per averne conferma, basta soffermarsi un attimo su talune immagini o situazioni presenti nel paese natio e luogo delle vacanze estive di chi scrive.

Qui vi sono, difatti, alcune donne, fra loro, se ne citano ad esempio due, Lucia e Antonia, le quali, rimaste sole ormai da una quindicina d’anni e navigando pressappoco a latitudine d’età intorno agli ottanta, durante la precisata lunga parentesi temporale di tre lustri  – vuoi con il caldo torrido, vuoi con la pioggia o il vento, vuoi con i rigori dell’inverno – non hanno fatto passare una giornata senza recarsi, rigorosamente a piedi (del resto non sanno guidare e non posseggono né auto, né biciclette), dalla loro abitazione al sito in cui, alla fine, siano tutti destinati a trovare ospitalità.

Rimaste sole, dunque, dette donne, e però affatto isolate, nessuna interruzione del contatto, del colloquio, della complicità ideale, ma, al contrario, una vera e propria continuità d’affetto e sentimenti con il partner andatosene: giusto come ai tempi della convivenza fisica.

L’abito indossato da queste persone è permanentemente di colore nero, non sempre si portano appresso mazzetti di fiori o piantine verdi, quel che conta per la loro sensibilità è il permanere e il rivivere il bisogno della frequentazione, della visita giornaliera  ad un’immagine, ad un ricordo.

Magari le interpreti in discorso trascorrono, talvolta, notti inframmezzate dall’insonnia, ma la stanchezza e il torpore sono resi meno pesanti dall’attesa della nuova alba, dall’ansia di ritornare lì.

In tal modo, si perpetua idealmente e con immutata intensità il confronto, lo scambio di vedute con il compagno, sulle cose della famiglia, le attività e i programmi dei figli, la crescita dei nipotini, esattamente come se la vicinanza e la coabitazione fisica fra le mura della “casa degli sposi” non si fossero mai spezzati.

Non c’è che dire, figure semplici, senza grilli per la testa, cuori e sentimenti anch’essi semplici e però in certo senso esemplari, il quadretto può forse apparire fuori del tempo, mentre per fortuna così non è.

Anche il giorno d’oggi v’è posto, deve esserci posto, per gente di tale pasta: i loro passi e le loro abitudini, nella silenziosità che li contraddistingue, lasciano segni, ben più di tanti eventi eclatanti che si materializzano e si succedono d’intorno, alla stregua di meteore e, in quanto tali, svaniscono, poi, nel volgere d’un baleno.

La via dell’olio a Maglie

La “Via te l’oju” a Maglie

Ricostruito, grazie alle ricerche storiche del prof. Emilio Panarese, il percorso dell’antica “Via te l’oju” a Maglie.

Per iniziativa del dr. Francesco Tarantino (georgofilo, agronomo e paesaggista magliese), che ha avviato il progetto di recupero di questa antica carrareccia, riprende cosi’ vita anche una festa del ‘700.

Tra i lavori intrapresi sono di particolare interesse il consolidamento statico della chiesa rupestre di “San Donato” e l’installazione di un’apposita cartellonistica descrittiva ed informativa dello stato dei luoghi e delle presenze storiche, naturalistiche e paesaggistiche.

Protagonisti di questo lavoro di squadra, un gruppo di appassionati facenti parte del comitato organizzatore fra cui: Fabrizio Licchetta, Luca Leucci, Vincenzo Menavento, Massimo Minosi e Oliver Valentini.

 

 

L’antica carrareccia della “Via te l’oju” (ph Fabio Massimo Conte)

La “via te l’oju”, un’antica mulattiera larga appena due metri, iniziava dai fondi Mùrica e Kamàra (oggi attraversati dalle vie: E. Nisi, N. Macchia, E. Paiano, Ospedale M. Tamborino) col nome di ‘Via di San Donato’ saliva su e, all’inizio della via vecchia per Cutrofiano, volgeva a sinistra passando dietro l’antico (dal 1585) convento dei francescani (dietro l’attuale Ospedale) e davanti alla cappella della Madonna di Leuche[1] cioè all’inizio della via Clementina Palma (circa dov’è oggi la stele della Madunnina), poi di nuovo voltando a sinistra giungeva, per la vie oggi dette ‘Valacca’ e ‘Di Vittorio’, sulla Via vecchia per Gallipoli.

L’antica carrareccia della “Via te l’oju” (ph Fabio Massimo Conte)

Da qui si dirigeva verso la masseria Muntarrune piccinnu[2], dov’era la cappella di san Donato, e di là quindi verso il porto di Gallipoli dove veniva scaricato l’olio portato a dorso di mulo.

[…] « Nel ‘700 il Rev.do Capitolo di Maglie aveva l’obbligo di celebrare ogni anno una messa il 7 di agosto, giorno di san Donato, seguita da una festicciola e da fuochi di artificio»

La chiesa rupestre di “San Donato” (ph Fabio Massimo Conte)

[1] Santa Maria di Leuche, strada dalla cappella alla via vecchia per Gallipoli o “via te l’oju”, cfr. Catasto Onciario di Maglie, 1752, c.270 “Saverio Giannotta, dr. dell’una e dell’altra legge, possiede alli Conventi una chesura seminatoria e olivata nom.ta  la Madonna di Leuche  con cappella della Gloriosissima Vergine avanti”. La cappella, che esisteva ancora nella prima metà del ‘900, era nel luogo che corrisponde a quello dov’è oggi la stele votiva della Madunnina, in fondo alla via C. Palma.

Quella che erroneamente è detta ai nostri giorni chiesetta della Madonna di Leuca, sulla via omonima subito dopo le tribune dello stadio, era anticamente la chiesa di s. Andrea.

[2] «Notizie del 1752: san Donato grande seù Rio/ san Donato Piccinnu con cappella appresso e giardino / per le chiusure nom.te San Donato grande/ lo Palombaro / le Tagliate / li Càrdami / lo Balli / la chiusura seminatoria e olivata nom.ta Montarone nel luogo detto san Donato seù Rio.»

 

Notizie di Emilio Panarese, estr. da “Antica toponomastica salentina dal ‘400 al ‘700 (da fonti magliesi). Dizionario storico-filologico-etimologico” [in corso di stampa]

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