1 Ragazzi, ‘mprusare non deriva da proso ma da prosa...
2 Professore, maschio o femmina, che cambia?
3 Professore, non è che ci stai imbrogliando, no?
Voglio parlare di quella che si avvia ad essere, forse lo è già, l’attività più praticata in Italia, anche perché non comporta alcun rischio di infortunio e, se uno ci sa fare, si possono guadagnare pure molti soldi. Avete mai visto un mago, un finto medico, un faccendiere, un politico che non abbia mantenuto nemmeno parzialmente una promessa, una ragazza avvenente che in cerca di notorietà (altro non dico) abbia manifestato interesse, anche fisico, per un attempato ranocchio e, per finire con me stesso (o, spero, solo con la mia categoria…), un professore che abbia raccontato come una verità scientifica una balla colossale frutto della sua ignoranza, avete mai visto uno di costoro essere condannato a pagare una multa adeguata o qualche ora di galera o rischiare un licenziamento in tronco?
Sono tutti (ma chissà quanti ne avrò dimenticato…) ‘mprusatùri, cioè ingannatori, truffatori e, come in tutti quelli che ingannano e truffano, la malafede trova in loro il suo strumento ideale di espressione nell’uso abile, seduttivo, a volte ipnotizzante della parola (e di qualcos’altro per quanto riguarda la ragazza avvenente…).
Ma, da dove deriva ‘mprusàre, di cui ‘mprusatùri è voce derivata?
Partirò dal solito maestro, il Rohlfs, il quale tratta così il lemma in questione:
Speriamo di non essere ricordati come la generazione che ha assistito impotente alla disfatta del Paesaggio rurale!
di Antonio Bruno L’8 ottobre a Lecce, in occasione della quarta Conferenza economica, i presidenti diCia-Confederazione italiana agricoltori, da Confagricoltura e da Copagri Giuseppe Politi, Federico Vecchioni, Franco Verrascina hanno sottoscritto un documento unitario sulla Pac post 2013. In questa nota le obiezioni sollevate da un dottore agronomo.
Tre delle quattro organizzazione delle imprese agricole hanno presentato a Lecce un documento per la Politica Agricola Comune del dopo 2013 che, tutto sommato, ripropone i tre assi della PAC 2007 – 2013 ovvero pagamenti diretti, misure di mercato e assi dello sviluppo locale.
Inoltre secondo Cia, Confagricoltura e Copagri la Pac del dopo 2013 dovrà contenere nuovi e, rispetto ad oggi, più’ efficaci strumenti per favorire la ricomposizione fondiaria, il ricambio generazionale e l’ingresso dei giovani in agricoltura.
Il dibattito di Lecce ha decretato la convinzione che la Pac non potrà’, da sola, aiutare i produttori agricoli a superare le criticità’ della nostra agricoltura ed a valorizzare e consolidare le tante eccellenze ed i punti di forza. A Lecce pare sia stato detto a chiare lettere che i produttori agricoli italiani hanno bisogno di un progetto per l’agricoltura perchè le imprese agricole, soffrono la concorrenza esercitata da paesi che hanno il vantaggio di minori costi produttivi o di più’ efficienti dimensioni strutturali ed organizzative.
Scrivo ciò che penso e quindi mi chiedo e chiedo ai produttori delle organizzazioni Cia, Confagricoltura e Copagri sono a conoscenza che le risorse che l’Unione Europea destinerà all’agricoltura dopo il 2013 saranno inferiori a quelle del 2007. Ecco perchè le richieste del documento di Lecce mi sembrano un atto dovuto, nella consapevolezza che non potranno essere soddisfatte.
Un po’ come se le organizzazioni convenute a Lecce partissero dalla convinzione di salvare quanto più è possibile dei fondi che vengono da Bruxelles destinati ai produttori agricoli.
Che cosa dire agli agricoltori che già quest’anno si sono visti tagliare risorse per oltre un miliardo di euro, e che hanno subito la soppressione degli interventi per le imprese come la fiscalizzazione degli oneri sociali e il ‘bonus gasolio’?
Possiamo impedire a questi produttori di rivendicare? Io non penso!
Il Prodotto interno lordo dell’agricoltura si è ormai attestato da anni intorno al 2 -3 % e nonostante questo Cia, Confagricoltura e Copagri sostengono che gli interventi di mercato devono continuare ad esser previsti, rafforzandoli notevolmente rispetto alla situazione attuale, al fine di garantire minore volatilità’ dei prezzi e maggiore equilibrio tra domanda e offerta, quindi sempre secondo queste organizzazione dei produttori agricoli vanno sostenuti gli investimenti aziendali (innovazione tecnologica), il ricambio generazionale, l’integrazione di filiera e la promozione all’export.
Che altro potevano scrivere i rappresenti dei produttori agricoli? Mi chiedo e vi chiedo se gli imprenditori agricoli, quelli che producono per il mercato, siano i proprietari di tutto il paesaggio agrario nazionale. Per esempio lo sapete che nella provincia di Lecce ci sono la maggior parte di tutti i proprietari delle province pugliesi? Nel Salento leccese ci sono circa 200 mila proprietari! La provincia di Foggia ha solo 80 mila proprietari. Ma dei 200 mila proprietari del Paesaggio agrario solo pochissimi producono per il mercato invece la totalità eroga servizi ecosistemici a tutta la collettività! Molti di questi proprietari del Paesaggio agrario sono costretti all’abbandono e questo accade nel Salento leccese ma anche nelle aree di Montagna dove non è più conveniente coltivare. L’abbandono del territorio comporta l’aumento del rischio idrogeologico e per conseguenza un costo altissimo per la collettività in termini di perdite vite umane e capitali.
L’interesse pubblico dei servizi ecosistemici è ormai pacifico e il messaggio che tento di lanciare è finalizzato a concentrare l’attenzione dei proprietari del Paesaggio rurale che poi è il 95% dell’ambiente dell’Europa si riponga sui “servizi ecosistemici” e sulla relazione tra rischio idrogeologico, conservazione dei servizi ecosistemici ed economia. Nel dibattito sulla PAC, anche quello che si è appena concluso a Lecce, nessuno ha evidenziato il collegamento tra danni al territorio e servizi ecosistemici resi dai proprietari del Paesaggio rurale. Ogni azione politica che
intenda sostenere lo sviluppo sostenibile, sia nel breve che nel lungo periodo, deve riconoscere il valore economico dei servizi ecosistemici.
In letteratura si ritrovano numerose definizioni di servizi ecosistemici (Costanza et al. 1997; Daily
1997; Scott et al. 1998; Luck et al. 2003). Nel contesto della PAC per servizi ecosistemici intendo le
condizioni e i processi attraverso i quali gli ecosistemi del paesaggio rurale e le specie che vi appartengono, sostengono e mantengono la vita umana. Essi sono fondamentali per la vita, ma gravemente minacciati dalle attività umane (Daily 1997; Costanza & Folke 1997; Heal 2000) e dall’abbandono dell’attività di manutenzione dei proprietari del paesaggio rurale europeo.
La mia proposta è quella di calcolare il valore in Euro dei servizi ecosistemici resi alla collettività dal paesaggio agrario in possesso di ogni proprietario e di riconoscere agli stessi un pagamento economico per una parte utilizzando i fondi che invece in questa PAC 2007 – 2013, sono stati utilizzati per i pagamenti disaccoppiati. Le stesse organizzazioni dei beneficiari ritengono che i pagamenti disaccoppiati sono compensativi di una situazione pregressa che concedeva garanzie di prezzo e di mercato. Inoltre il criterio di assegnazione delle risorse economiche, sempre a detta delle stesse organizzazioni dei produttori, non risulta del tutto giustificabile dopo diversi anni di applicazione. Il tutto sarebbe risolto dal pagamento dei servizi ecosostemici a tutti i proprietari del Paesaggio agrario infatti tra i proprietari del paesaggio rurale ci sono anche i produttori agricoli.
I passaggi dovrebbero essere la valutazione annuale dei servizi ecosistemici erogati alla collettività che potrebbero essere pagati ai proprietari in parte con i fondi che prima venivano impiegati per il disaccopiamento e, per la parte restante, direttamente dai cittadini beneficiari dei servizi.
Rinnovo l’invito ad aprire un dibattito su questa proposta perchè c’è necessità di confrontarsi. Mi permetto di suggerire l’approccio partecipativo alla Politica Agricola Comune che implica il coinvolgimento attivo dei beneficiari potenziali nelle diverse fasi, a partire dalla sua ideazione. Mi meraviglia che Dacian Ciolos, nuovo commissario UE all’agricoltura e al Presidente della Commissione Agricoltura del Parlamento Europeo Paolo De Castro non abbiano attivato Processi decisionali inclusivi e di progettazione partecipata alla Politica Agricola Comune 2014 – 2020. Spero che leggano questa mia nota e che concordino sull’utilità di questi strumenti e di conseguenza spero di vederli attivarti al più presto.
Oggi è il 47° anniversario del disastro del Vajont che costò la vita a circa duemila persone: non si dette l’allarme per far allontanare la popolazione e la memoria di quella strage annunciata deve servire da lezione per i disastri che potrebbero continuare in funzione della mancanza di manutenzione del territorio che è per il 95% Paesaggio rurale. Oggi c’è un nuovo pericolo, il pericolo di assistere a alluvioni a ripetizione soltanto perchè si continua a guardare al territorio rurale con gli occhi di mezzo secolo fa, come se fossimo ancora l’Italia del dopo guerra. Le generazioni che ci hanno preceduto prima hanno perso la guerra ma dopo hanno vinto il dopoguerra! Speriamo di non essere ricordati come la generazione che ha assistito impotente alla disfatta del Paesaggio rurale!
Importanti documenti nell’archivio Caracciolo – de’ Sangro di Martina Franca
In relazione a quanto scritto in precedenza sull’archivio Caracciolo – de’Sangro di Martina Franca, tra i tanti documenti presenti se ne segnalano alcuni di particolare importanza:
Dal fondo Buccino Generale:
1648 – 1848
Rep. 25 in Ordinamento del Petter
F.3-n.4 in Ordinamento per Fasci
A.1-V.2-n.31 in Pandetta per armadi
Lettere di ringraziamento del re Filippo IV d’Asburgo a Francesco I e Beatrice Caracciolo, duchi di Martina, per la fedeltà dimostrata alla corona da parte della famiglia Caracciolo in occasione dei tumulti antispagnoli del 1647/48 verificatisi nel Regno di Napoli.
Estratti legali di patenti di nobiltà che comprovano di essere l’eccellentissima Casa ducale di Martina la primogenita, ossia il ceppo della famiglia Caracciolo dal 1292 al 1306
fascicolo cartaceo e membranaceo, 13 cc. e 7 pergamene
Giulio Cesare Russo, nasce a Brindisi i 22 luglio 1559, sul luogo in cui egli stesso volle che sorgesse una chiesa intitolata a S. Maria degli Angeli, da Guglielmo Russo ed Elisabetta Masella.
Frate Lorenzo Russo è a Piacenza malato grave; il duca Ranuccio I di Parma si fa già promettere dai Cappuccini la consegna della salma, da tenere come reliquia. Questo accade nel 1616. Nel 1619 il frate muore a Lisbona, in casa di don Pedro di Toledo, e questi vuole il suo corpo per mandarlo a un monastero della Galizia.
D’altra parte già nel 1601, alla battaglia di Albareale (in Ungheria) contro i Turchi, molti soldati imperiali lo credevano un essere soprannaturale, vedendolo passare disarmato e illeso tra frecce, pallottole e scimitarre, per soccorrere feriti e confortare morenti. Questo frate Lorenzo è principalmente uno studioso, ma le vicende del tempo fanno della sua vita un’avventura continua.
Orfano dei genitori a 14 anni, è accolto da uno zio a Venezia. Studia a Verona e a Padova. Si è fatto cappuccino, nel 1582 è ordinato prete, diventerà Generale dell’Ordine. Lui è uomo da libri, conoscitore eccezionale della Bibbia (che può citare a memoria anche in ebraico), e diviene famoso come predicatore, appunto per la vasta cultura, aiutata poi dalla bella voce e dalla figura imponente.
Lo mandano sulle prime linee più difficili: in Boemia dove in gran parte la popolazione si è staccata dalla Chiesa cattolica. Accolto ostilmente, si dedica a un’intensa predicazione, sostiene controversie, guida l’opera dei Cappuccini. L’evidente coerenza tra le sue parole e la sua vita lo fa rispettare anche da autorevoli avversari. Quando celebra la messa, poi, lo si vede davvero “rivivere” il sacrificio della Croce rinnovato sull’altare: si può
Se, in quaranta e più giorni, nonostante i potenti e mirabolanti moderni mezzi a disposizione e l’encomiabile impegno delle Forze dell’ordine, degli inquirenti e dei volontari spesisi nelle ricerche, a livello di collettività, di famiglia sociale del 2010, si è primeggiato soprattutto, se non esclusivamente, sotto forma di chiacchiere, parole ripetute, congetture, sbirciate sulle pagine di un diario personale, annotazioni e commenti circa frequentazioni di pub e rientri alle prime ore del mattino e, addirittura, con la cornice finale di un programma TV, tua madre ospite, recante la comunicazione in tempo reale del tristissimo epilogo.
Se, passo dopo passo, come il solito distrattamente, non si è avuta la capacità di scorgere alcun segno, nemmeno una qualunque sequenza di minuscoli sassolini in funzione di sentiero o tracce d’indirizzo utili a raggiungerti. Purtroppo, l’intuito, una volta permanentemente e normalmente all’erta in ciascuno e, sovente, maestro risolutore di dubbi, incognite e difficoltà, ha oramai finito con l’atrofizzarsi ai minimi termini, perdendo completamente efficacia.
Se, tanto vano cincischiare si è posto all’antitesi, autentico pugno nello stomaco, rispetto al tuo forzoso e scomodo sonno, crudelmente indotto in una misera manciata d’attimi, per giunta per opera di una mano tanto ostile e spietata, quanto al contrario, avrebbe dovuto muoversi buona e carezzevole.
E’ accaduto, Sara, come se i tuoi quindici compleanni, anziché assommare aiole di fiori di campo, boccioli promettenti, ramoscelli protesi alla crescita semplicemente sotto la spinta di una linfa naturale, abbiano vissuto e attraversato una modifica, uno stravolgimento transgenico, con il drammatico e misero sbocco in una repentina recisione, nell’appassimento della chioma verdeggiante, nell’abbassamento muto e irreversibile di due palpebre.
Se l’ammissione di quel familiare è veritiera, reale e sincera, è successo,
La lingua, si sa, è un organismo in continua evoluzione e, per quanto gli sviluppi siano imprevedibili, anch’essa obbedisce, comunque, a condizionamenti storici contingenti ma pure ad altri più antichi sottesi da regole, non solo fonetiche, consolidate, in base alle quali è da presumere che si verificheranno i futuri sviluppi.
Coinvolgerò in questo mio strano viaggio una parola, tisàna, ed un fenomeno, la paretimologia.
Comincerò proprio da quest’ultima e quando ne avrò dato la definizione sarà facile capire come questo fenomeno sia antichissimo: la paretimologia è, in riferimento ad un termine, la sua spiegazione etimologica arbitraria, non basata su tesi storiche o scientifiche, ma su assonanze ed associazioni di idee, spessissimo di origine popolare. Due soli esempi: emottisi è dal greco tardo haimóptusis, composto di àima=sangue e ptúsis=sputo; la variante emotisi è per paretimologia su tisi (dal greco fthisis=deperimento). Necromante è dal latino medievale necromànte(m), dal greco nekrómantis, composto di nekròs=morto e mantis=indovino; la variante negromànte rivela l’influssodi negro per accostamento paretimologico alla locuzione magia nera.
Passiamo ora a tisàna: la voce è dal latino tìsana(m)=orzo mondato, decotto di orzo, variante di ptìsanam, dal greco ptisàne con gli stessi significati del latino, da ptìsso=mondare orzo o grano; l’accento della voce italiana, più che ricordo di quella greca, probabilmente è dovuto ad influsso del francese tisane.
Quale potrebbe essere il suo futuro paretimologico? La previsione più ovvia è che sia spezzata nella locuzione tisana1 (affiancata al lemma unico, così come oggi tutti i dizionari registrano entrambe le varianti dei due lemmi che ho prima citato) per suggestione semantica del suo effetto finale; si verificherebbe, cioè, il processo inverso rispetto a nessi come non ti scordar di me, lecca lecca, fuggifuggi passati poi (senza perdere la registrazione della forma originaria) al lemma integrato nontiscordadimé, fuggifuggi (o fuggi–fuggi) e leccalecca (o lecca–lecca).2
Nessun rischio, invece, corre il corrispondente neretino pònciu, dallo spagnolo ponche, a sua volta dall’inglese punch, che è probabilmente dall’indi panc=cinque, perché composto in origine di cinque ingredienti: tè, zucchero, acquavite, cannella e limone; la bevanda neretina, nella sua versione povera, prevede come componenti: il vino (in sostituzione dell’acquavite), i fichi secchi (in sostituzione dello zucchero), la cannella, la buccia di limone e qualche guscio di mandorla secca.
______
1 Nella vignetta l’ho portata alle estreme conseguenze.
2 Lo stesso mi attendo che si verifichi, per coerenza, con i nessi gratta e vinci, mordi e fuggi e simili.
La Puglia è bianca… ma colorata come una tavolozza
“Pomeriggio da solo, in un po’ troppa Toscana…” così cantava un Vecchioni d’epoca. Il professore della canzone italiana, oltre che di greco e latino. “Due giornate fiorentine” era il titolo, non era una canzone allegra, come spesso accade agli introspettivi. Già, erano i cantautori degli anni in cui tutto si metteva in discussione.
Però De Andrè era pur sempre un poeta. Jannacci resta, comunque, un grande: “…faceva il palo nella banda dell’ortica, ma era guercio, non ci vedeva quasi più…”.
Beh, a costo di essere tacciato di plagio anch’io dico: “due giornate salentine”. Novembre tutti i santi e subito dopo i morti. Ricorrenze. Il primo novembre, uscendo dal bar, mi sento dire “auguri”, contraccambio e mi chiedo perché diamine mi fanno gli auguri? Ognissanti, perbacco. E si che io non sono rappresentato. Solo Giovanni, Gianni è una riduzione impropria.
Perché mai ricordare i defunti il 2 novembre? Ho sempre pensato che una persona si porta dentro le altre persone importanti, anche se sono andate via, a prescindere dalle giornate. Forse per questo non ho mai capito fino in fondo questa ricorrenza. Ad Alessandria, comunque, si mangiano ceci nel giorno dei morti. Messi in ammollo con il giusto anticipo. Mi piacciono i ceci, però ogni volta, memoria antica come tutti gli anziani, li abbino con il giorno del cimitero, dei crisantemi, e di una ricorrente, penetrante nebbiolina piemontese che mette malinconia… saudaji. Però è festa, diamine, quindi ben vengano due giornate salentine. Domenica 31 a Locorotondo, poi a passeggiare fra i trulli.
Il paese rotondo è stupendamente appoggiato in cima a un’altura, sopra di noi nuvole grigie, sotto la valle d’Itria. Viuzze nel centro storico, case bianche, nella miglior tradizione pugliese. “La Puglia è bianca…” pensavo un tempo guardando le fotografie. Poi ho scoperto che è colorata come una tavolozza.
Un ragazzino scivolava leggero con il suo scooter nei vicoli, era l’ora di pranzo, in giro eravamo in pochi, qualche turista instancabile e poco più. Tutti in religioso silenzio. Si parla a bassa voce nei vicoli deserti. Ogni tanto uno squarcio di sole fra le nuvole grigie, la chiesa era chiusa. Il vento impudente ci schiaffeggiava e fischiava nei meandri dei vicoletti. Mignani si affacciano sulla strada, porte basse, porte alte. E i tombini, come in buona parte del Salento, portano un fascio littorio fuso per essere immortale. Uno aveva solo lo stemma Sabaudo. A prescindere dalla simbologia che, incolpevolmente, pubblicizzano, pensavo che certi manufatti sono veramente eterni. Soprattutto se paragonati ai tre o quattro cellulari che mi si sono fusi dopo un utilizzo neppure troppo esigente. Non si ripara più nulla. E ripensavo alle montagne di rifiuti che incombono ovunque. E si che ne parla bene anche Luigi Viale della necessità di tornare al recupero anziché alla rottamazione. Si producono merci per creare nuove ricchezze. Si brucia la natura per creare merci. “Quando morirà l’ultimo animale e l’ultimo albero, mangeranno i soldi” diceva un saggio pellerossa americano.
Pensieri incombenti girando attorno alle mura antiche della città.
E manifesti di ogni genere appesi. Uno mi ha colpito. Era la riproduzione di un De Pero, stupendo futurista. Bello, peccato quello che, incolpevolmente, la carta portava scritto: “22 ottobre 1921 – 22 ottobre 2010, la marcia continua”. Chissà perché un abbinamento sibillino mi è venuto in mente: un telefono che squilla nella notte, quello della questura di Milano: “liberate l’egiziana”. Attualità, non c’entra con le giornate salentine. All’ingresso del centro storico di Locorotondo ci sono molte lapidi in ricordo di Garibaldi, dell’Unità d’Italia, di Vittorio Emanuele, dei caduti. Accoglienza salentina, anche verso i ricordi. Dell’invasione piemontese parleremo forse in altra sede.
Alberobello l’avevo visitata moltissimi anni fa, talmente tanti che quasi i ricordi sbiadiscono, risucchiati nel nero antro delle streghe (ecco fatto, anche halloween è servito, il sacro e il blasfemo).
Ora è più ordinata. Ora i parcheggi costano 2 euro l’ora, oppure 4,50 per tutto il giorno. È bello passeggiare fin su, alla chiesa/trullo. Anche a novembre è pieno di turisti, moltissimi i francesi, forse un tour organizzato. “Trullo con giardino panoramico. Ingresso libero” dice il cartello. Per arrivare al giardino si deve passare fra cascate di trullini “artigianali”, bottiglie di liquori dai colori bizzarri, fischietti e altro. Impossibile non guardare. Vabbè, il giardino è a due piazze, nel senso che ci stanno due persone alla volta. Sul concetto di “panoramico” potrei eccepire che, forse maldestramente, pensavo a qualcosa di diverso dalla visione dei muri di cinta, a meno che non si sia alti 2 metri circa. Comunque sono veramente belli i trulli. “Caldi in inverno e freschi in estate”, mi si dice. Poi si prosegue la salita dolce, sirene suadenti cantano i loro ritornelli: “entri ad assaggiare i prodotti tipici” “ingresso libero”, “liquori di Alberobello”, “fischietti”. È vero, comunque, di turismo si deve vivere. E lo deve fare anche quella ragazzina dall’aria annoiata che vende scialli e presine a forma di trullo. Infine siamo arrivati alla chiesa, recente, trullesca. Nulla più. Poi siamo ridiscesi e risaliti verso il “trullo sovrano”, tutelato dalle belle arti e dall’UNESCO. Attraversando il paese una piazzettina deliziosa, non si può passarci accanto senza rimanerne ammaliati. È incastrata fra due vie, ed è a pianta triangolare. In mezzo ha una piccola fontana rotonda. Gli alberi che la incoronano sono incredibilmente potati in forma quadrata, e tutti assieme formano un grande rettangolo. L’apoteosi delle figure geometriche. Pitagora ed Euclide sarebbero commossi.
Peccato che qualche sciagurato ha deciso di togliere una delle pochissime cose legali rimaste in questa mesta Italia, l’ora. Infatti imbrunisce esageratamente presto per passare nella selva di Fasano. Al buio non si vede nulla. Lo so, ho appena scritto un’ovvietà, però la lascio.
Il giorno dopo è nuovamente festa, si parte al mattino sul presto. “Dove andiamo?” “Boh, andiamo verso Taranto, poi decideremo”. Se ti trovi ad Alessandria, puoi muoverti nei 4 punti cardinali. Qui siamo in una penisola stretta e lunga, o vai a nord o a sud. Al massimo puoi andare negli intermedi nordest, sudovest ecc. Manduria, “ma si, vediamola”. Stupendo centro storico. Balconate in ferro o muratura. Molti stemmi che, mi si insegna, “dicono di una città importante”. E’ l’ora di pranzo, chiediamo informazioni ad un signore che, ci dice, “devo far passare il tempo”, così ci accompagna nel ghetto ebraico. Viuzze strette, una ex sinagoga che ora è casa privata “però hanno lasciato l’altarino”. E le vie, ribattezzate, portano anche il vecchio nome. Così leggi “Corte Modeo – già Sotto la fica” , oppure “Vico Messapico – già Vicolo cieco” , questo mi ha lasciato titubante, sarà pure messapico, però rimane cieco a prescindere.
Nel pomeriggio e fino all’imbrunire in riva al mare. Torre Colimena, bellissima, affacciata su un mare turbolento. Poi il tramonto. Vento sul mare, sabbia e acqua nebulizzata nell’aria. Sembra nebbia. Sembra il giorno dei morti.
Salento terra di santità. Beato Fra Silvestro Calia da Copertino
Giovanni Paolo Calia nacque a Copertino il 13 gennaio 1581 da Francesco e Laura Fortino. A 23 anni si recò presso il convento dei Riformati di Casole e chiese di entrare a far parte dell’Ordine. Fu accolto nel convento di Francavilla dove intraprese l’anno di noviziato. Il 26 febbraio 1605 emise i voti, cambiò il nome di battesimo in Silvestro e fu mandato nel convento dei Riformati di S. Maria del Tempio di Lecce. Visse in diversi conventi tra cui in quello di Bari, Lequile, Nardò e infine in quello di Casole a Copertino dove vi rimase fino alla morte che lo colse all’età di 40 anni, il 18 luglio 1621. L’esistenza di questo frate fu costellata di episodi che i suoi contemporanei definirono miracolosi.
A lui si devono molti prodigi che compiva attraverso l’uso del pane: “Ecco – diceva – questo pane è impastato col sangue dei poveri” e nello spezzarlo sgorgava sangue. A Giuliano, ospite del notabile Pietro Panzera, riappacificò la madre di questi con una sua cugina, facendo ricorso al prodigio del pane. Anche a Castellaneta fra Silvestro operò il prodigio del pane nei pressi della porta di un governatore violento e crudele.
Stesso prodigio si verificò nei dintorni di Napoli allorquando fu ospite di un cavaliere amico del feudatorio del posto. Qui fra Silvestro rifiutò categoricamente il pane e quando gli fu chiesto il perchè, rispose che quel pane era pieno del sangue dei poveri. E mentre pronunciava queste parole, strinse in mano un pezzo di pane dal quale colò tanto sangue da riempire il piatto.
Fra Silvestro ebbe anche il dono della profezia in quanto predisse alla marchesa Dè Monti che sarebbe guarita da una grave malattia se avesse accettato tutto per volontà di Dio. La marchesa accettò e guarì. Sempre a Castellaneta venuto a sapere di una relazione extraconiugale del governatore lo richiamò e lo invitò a smettere altrimenti sarebbe stato ucciso. Il governatore se la rise di gusto, ma un mese dopo fu ucciso con un colpo di pistola da Giovan Matteo Monaco di Montalbano. I contemporanei raccontano che fra Silvestro ebbe anche il dono della bilocazione, che sapeva ammansire gli animali e che riusciva a domare le forze della natura. Non mancarono nella vita di questo frate le visioni della Vergine.
Della chiesa di Collemeto a 50 anni dalla consacrazione e di don Salvatore Nestola
di Alfredo Romano
Torno ogni estate a Collemeto. Non nascondo che col tempo il viaggio si fa sempre più lungo, più faticoso: ti pare di non arrivare mai. Ma per nulla al mondo rinuncerei a quegli attimi di commozione che ogni volta mi prendono, quando, nei pressi della casa cantoniera, sulla Lecce-Gallipoli, il mio sguardo coglie la sommità delle case bianche in mezzo agli ulivi, e su tutto svetta la chiesa col suo campanile asimmetrico, il simbolo del mio paese.
Il ritorno è bello ed anche amaro a volte. Ci sono cose che hai lasciato e che non trovi più. Il paese va avanti, si trasforma, cambia; i luoghi della tua infanzia spariscono man mano; tanti volti di persone care non ci sono più; altri si affacciano, sempre più numerosi, tanto che a volte hai come l’impressione di essere un estraneo nel tuo paese.
Io, nel mio egoismo, vorrei magari che tutto restasse come prima, fermo a quel giorno lontano di 35 anni fa, quando un furgone mi strappò via per altre terre più feconde. Ma questo pensiero, lo so, è il difetto di tutti gli emigranti, ed io non sono da meno.
Una cosa che non cambia mai però c’è, e se ne sta lì immobile, maestosa: è la chiesa. È grande la chiesa, la… più grande del mondo, a guardarla con quegli occhi di quand’ero bambino, allorché le cose reali sfumavano nell’immaginario e spesso, come in tutti i bambini, assumevano dimensioni fantastiche, gigantesche.
È che io sono cresciuto con la chiesa; io e la chiesa siamo nati insieme, e insieme stiamo invecchiando. Mi conforta sapere che il giorno in cui non ci sarò più, la chiesa sarà sempre lì, con la sua maestosità, testimone della storia di un paese e delle piccole storie di ognuno di noi, che, intorno ad
Salento terra di santità. Beato Paolo Grasso da Salice Salentino
Con queste brevissime note storiografiche su Paolo Grasso ci piace presentare una pregevole vicenda spirituale sviluppatasi intorno all’umile figura di un francescano laico di Salice Salentino, piccolo paese in provincia di Lecce.
Visse, questi, fra il XVI e il XVII secolo per lo spazio di 54 anni, dei quali più della metà nel luogo nativo e gli altri nei primissimi conventi assegnati ai Francescani Riformati della Provincia Monastica pugliese dedicata a San Nicola di Bari.
Le ragioni di questa proposta si orientano nella direzione della Santità che fra’ Paolo seppe esprimere, condividendo a fondo l’ideale evangelico del Serafico d’Assisi e adattandosi perfettamente all’epoca della restaurazione post-tridentina, quando nel popolo cristiano si ebbe il risveglio della fede e negli ordini religiosi esplosero ideali entusiasmanti per la vita ascetica e apostolica, benissimo esemplarizzata dai frati laici. Nel tentativo di delinearne brevemente il profilo biografico, è conveniente consegnare ai lettori in forma schematica e col presente storico i momenti salienti della sua vita. Nel 1561 nasce in Salice Salentino (Le) quartogenito di un agricoltore di nome Luigi; gli viene imposto il nome di Lupo. I suoi fratelli,
Piccoli seminaristi crescono. L’igiene e sanità nel Seminario Vescovile di Nardò. 1960-1965
L’igiene e sanità nel Seminario Vescovile di Nardò. 1960-1965.
(Quattordicesima parte)
di Alfredo Romano
I seminaristi, in gran parte, provenivano da famiglie modeste. Ciò non nel senso di indigenti, dal momento che si campava con dignità e resisteva una cultura del vivere e del pensare che si tramandava da secoli; non mancava neppure la casa di proprietà col mobilio indispensabile, ma tutto il resto era un lusso: un lusso era l’acqua dentro casa, un lusso era il bagno, la doccia. Fuori, nel giardinetto, c’era la fossa biologica.
Entrati in Seminario, noi ragazzi trovammo dei servizi igienici che erano quasi un lusso rispetto a quelli di casa: ogni camerata disponeva di gabinetti e lavandini con acqua corrente. Mancava il bidet naturalmente, ma, a dire il vero, a quei tempi non era ancora entrato nelle case degli italiani (Non c’è da meravigliarsi, perché, pressappoco dieci anni dopo, nei 14 mesi di militare, 1974-1975, nelle caserme di Foligno e poi di Trento, in quanto a servizi igienici trovai una situazione analoga). C’erano anche le docce, ma si trovavano a pianterreno, adiacenti al cortile, e ne usufruivamo una volta la settimana, a volte anche ogni 15 gg. Nel cortile, invece, luogo della ricreazione, c’erano a disposizione due gabinetti con le turche, che, per quanto si vuole, erano più igienici di quelli in camerata con le tazze. Una novità per noi fu l’uso dello spazzolino da denti: stranamente, però, era d’obbligo usarlo solo la sera prima di mettersi a letto. La biancheria certo non abbondava, per cui i cambi non potevano essere frequenti. E dire che si sudava di brutto nel giocare in ricreazione. Adesso, a pensarci, mi meraviglio, se non addirittura resto incredulo, ma allora era considerato normale tutto ciò. I più, in ogni caso, per quel che potevano, ci tenevano a mantenere un certo decoro nella pulizia e nell’uso del vestiario. Certuni, però, non amavano l’acqua, né cambi vari di biancheria e, se ti capitava di averli prossimi in camerata, in studio, o a refettorio, venivi tramortito da certi ‘profumi’ che vi lascio immaginare. Per questo, a volte, si faceva intervenire il vice rettore. Chi non è stato mai in una comunità non può capire. Questo succedeva in ogni modo più quando si era ragazzini, ché, più grandicelli, si diveniva più responsabili.
Mi capitò, una volta, di trovarmi delle croste sul cuoio capelluto. Lo feci presente a don Giorgio Crusafio, il vice rettore, che, amorevolmente debbo dire, mi portò nel reparto docce, si munì di una bacinella d’acqua calda e con dei batuffoli d’ovatta strofinò pazientemente a lungo fino a farle scomparire. Ecco, questo è un ricordo dolce che ho di don Giorgio. Rammento anche quando scoprii di avere delle unghie incarnite. Stavo a colloquio col padre spirituale don Raffaele Mastria e non so come lo misi al
E’ opinione da tutti condivisa che indietro non si può tornare e questo concetto è nello stesso tempo il padre e il figlio (potenza del cervello umano!) di un’epoca in cui il concetto del sacrificio sembra essere lo strano prodotto cerebrale di pochi, stupidi illusi.
La capacità di adattarci alle circostanze e sfruttarle a nostro favore (la famosa intelligenza…), liberi da quei vincoli naturali che gli altri animali ancora oggi rispettano (ma loro sono meno intelligenti di noi…), ci ha portato al risultato (che rischia di essere la fine della nostra intelligente specie) che pure è sotto i nostri occhi e che fingiamo di non vedere.
Abbiamo pensato prima che la salvezza stesse nell’ideologia e che il capitalismo avrebbe risolto ogni problema sostituendo il comunismo con il consumismo (in fondo, si trattava solo di scambiare di posto alcune lettere, quella che in filologia si chiama metatesi:-muni->-numi– e aggiungere, per non farla troppo sporca, una –s– dopo la –n– di –numi-.). Poi, visti gli esiti non proprio felici dell’operazione, qualcuno ha pensato bene di affermare che è la religione quello che ci salverà; il problema è che ognuno è convinto che questa funzione salvifica è un’esclusiva della sua religione, con il risultato che al panorama delle vecchie guerre di religione (basti pensare alle Crociate), già abbondantemente inquinato da finalità non propriamente spirituali, si è sostituito quello delle nuove, che appare come un coacervo di torbidi interessi rimestati all’ombra della bandiera sempre più sanguinaria di un dio sempre più sbiadito.
E allora? Niente panico! C’è o non c’è la tecnologia? A parte il fatto che mi fa paura la sicurezza apodittica (ma, forse, è la disperazione nascente dalla inconscia consapevolezza che siamo ormai alla frutta e che questa è l’ultima spiaggia) con cui la scienza applicata (non è questo la tecnologia?) ci promette un futuro meno nero del presente (dopo il fallimento dei due precedenti espedienti escogitati dalla nostra mente un po’ più di prudenza sarebbe stata opportuna, perché almeno avrebbe dimostrato che forse sappiamo ancora far tesoro degli errori, che, cioè, non siamo scesi ad un livello inferiore rispetto a quello degli altri animali), mi vengono i brividi solo a pensare alla disinvoltura (che è poi la connivenza generalizzata e nefasta tra la ricerca e i suoi sponsor) con cui, per esempio, gli O.G.M. sono stati introdotti in agricoltura, senza un congruo periodo di osservazione: il profitto, si sa, non può attendere…
Il risultato è che indietro, ormai, non possiamo tornare, neanche se lo volessimo! Resta solo, per quelli tra noi che ancora sono attrezzati per fruirne, il conforto del rimpianto, la struggente nostalgia del ricordo, la testimonianza della memoria.
Così, mentre osservo un macchinario ipertecnologico che contemporaneamente ara il terreno e semina (non mi meraviglierei se fra pochi anni la versione evoluta mi consentisse anche a pochi secondi dalla semina di assistere al raccolto), non posso fare a meno di pensare alle vecchie tecniche di coltivazione (che io nel mio piccolo orto personale ancora pratico): zappare il terreno con una zappa pesante almeno tre kg. (zzappa ti scatèna1) e seminare a spaglio (spàgghiu) sementi, spero non geneticamente modificate…
Però, quando io, insegnante in pensione, semino aspagghiu2, i risultati sono disastrosi: appena le piantine (mettiamo di rapa) cominciano a spuntare, immediatamente si notano zone del terreno in cui ho seminato assolutamente deserte, altre con una elevatissima densità di popolazione; quel residuo di umiltà che ancora, almeno spero, mi caratterizza, mi fa capire che per fare certe cose non è necessaria la laurea, ma, oltre al cuore, un minimo di mestiere e, forse, non solo quello…
Il contadino che mezzo secolo fa lavorava la terra con la zappa aveva la possibilità, anche perché le distanze erano estremamente ridotte, di mantenere con la terra ma anche con la zappa, quando, per esempio, il manico (margiàle3) cedeva, un antichissimo rapporto affettivo di amore-odio, che si rinnovava ed intensificava ad ogni stagione; anzi era lui stesso che nelle giornate di pioggia si costruiva il manico sgrossando un ramo, per lo più di lezza4, con una piccola accetta e rifinendolo con un coccio di bottiglia5. La semina a spaglio, poi, aveva quasi una valenza religiosa e il seminatore agli occhi dell’ignaro spettatore assumeva movenze ieratiche, sembrava compiere un gesto rituale, quasi fosse consapevole delle speranze connesse a quel gesto, che non aveva bisogno, nella sua potente espressività, della recitazione di qualsivoglia formula augurale6. Conclusione: oggi, per seminare decentemente un po’ di rapa, ho bisogno di mio cognato Giuseppe, imprenditore agricolo, che, pur adeguatosi ai tempi, non ha dimenticato quelli in cui suo padre Mario e lui, che fungeva da assistente o, meglio, da apprendista, seminavano a spaglio.
Un’ultima osservazione: è noto che, proprio per mantenere un rapporto in un certo senso affettivo tra il prodotto e chi contribuisce alla fase finale della creazione, nelle catene di montaggio, prima dell’avvento della robotica, c’era il palliativo delle “isole” (io lo chiamerei assemblaggio parziale) e bisogna dire che restavano più fortunati, sotto questo punto di vista, l’artigiano e l’artista che avevano la possibilità di seguire la loro creatura dal concepimento allo svezzamento. Ora che l’artigianato è quasi in agonia, dopo i fallimenti dell’ideologia, della religione e della tecnologia sarà l’arte (quella vera) a salvarci? Ma perché Essa, pur essendo il fenomeno più antico, non si è mai arrogato il diritto o la presunzione di cambiare il mondo?
_______
1 Zappa più pesante del normale, in grado di spezzare in zolle anche il terreno più compattato (catene).
2 In italiano: a spaglio o alla volata, consistente nello spargere uniformemente il seme sulla superficie del terreno per interrarlo, poi, con una lavorazione molto superficiale. Spaglio è probabilmente da spagliare (detto di acque che straripano allagando il territorio), di etimologia incerta.
3 Per l’etimo il Rohlfs non avanza alcuna proposta e non ne conosco di altri autori. Riporto di seguito una serie di mie congetture in ordine di attendibilità:
a) da un latino *marciàle=da martello, aggettivo neutro sostantivato dal latino medioevale marcus=martello; per il suffisso confronta Martiàlis da Mars/Martis, mundiàlis da mundus.
b) forma aggettivale da màgghiu [(in italiano maglio, dal latino màlleu(m)], secondo latrafila: màgghiu>*magghiàle>*maggiàle (velarizzazione della g)>margiàle(dissimilazione –gg->-rg– poco convincente non solo perché non se ne vede la necessità ma anche perché è assente nel derivato (da màgghiu) màgghiàtu=caprone da riproduzione (alla lettera “fornito di maglio”) e, paradossalmente, anche caprone castrato (alla lettera “colpito col maglio”).
c) forma aggettivale da mergus=propaggine (da mèrgere=affondare, metter dentro); se è così sarebbe anche etimologicamente parente di margotta (metodo di riproduzione delle piante consistente specialmente nell’avvolgere una parte di ramo con terra umida per farne germogliare radici e metterlo quindi a dimora; estensivamente, il ramo di una pianta sottoposto a tale metodo), voce dal francese margotte, a sua volta dal latino marcus, variante del citato mergus.
d) forma aggettivale (*marriàle) dal latino marra, da cui la identica voce italiana indicante un attrezzo simile a zappa. Anche in questo caso, tuttavia, non si spiegherebbe la necessità della dissimilazione *marriàle>margiàle.
e) forma aggettivale dal sostantivo o aggettivo mas/maris=maschio, maschile (trafila: *mariàle>margiàle). Approfitto dell’allusione sessuale contenuta in questa etimologia per ricordare che nel Tarantino (Sava) la locuzione farsi lu margiàli equivale a masturbarsi e che nel neretino margiàle è usato pure (seguendo in questo il destino di tante voci attinenti alla sfera genitale) come sinonimo di stupido.
4 In italiano leccio, tipo di quercia diffusa nella macchia mediterranea, il cui legno è particolarmente duro e resistente. La voce italiana è, per aferersi di i-, dal latino ilìceu(m)=relativo alla quercia, aggettivo da ilex=quercia. La voce neretina, a conferma dell’uso di un unico nome, femminile, ad indicare sia l’albero che il frutto (la fica, la mèndula, la seta, la scèsciula, etc. etc.; uniche eccezioni che conosco sono chiàpparu e lamàscinu, giustificate dal genere neutro che esse avevano nelle lingue d’origine, rispettivamente càppari in latino e damàskenon in greco) deriva dall’aggettivo latino prima citato al femminile: ilìcea(m).
5 I manici di oggi, probabilmente non solo perché prodotti industrialmente con una materia prima meno “selvatica”, si spezzano facilmente di fronte alla prima resistenza opposta dal terreno o dall’oggetto che l’utensile è destinato a trattare.
6 Non a caso speranza deriva dal latino tardo speràntia(m), dal classico speràre=sperare, da spes=speranza; e speràre secondo alcuni filologi è connesso col greco spèiro=seminare.
GLI OMOFONI DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (13): cuèrpu
GLI OMOFONI DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (13): cuèrpu.
Imbroccare certe strade può essere pericoloso…
______
1 Chissà che aveva in corpo quell’uomo se con un colpo ti ha ridotto così.
2 Diciamo che non è stato quello che aveva in corpo ma quello che aveva in fronte…
Cuèrpu nel dialetto neretino può significare, con la stessa etimologia delle voci italiane, corpo e colpo ; il primo dal latino corpus, il secondo da un latino *colpu(m) variante del classico còlaphum=schiaffo, a sua volta dal greco kòlafos, da kolàpto=beccare.
Euprescio, così si chiamava San Leucio, visse verso la fine del II secolo in Alessandria d’Egitto. A dieci anni perse la madre e si ritirò, con il padre, nel monastero del Beato Ermete, dove fu istruito ed amato dai confratelli. Un giorno, durante la celebrazione della Beata Assunta, il padre ebbe una visione del Signore che gli preannunciò il destino del figlio: con il nome di Leucio sarebbe diventato vescovo di Brindisi per combattere l’idolatria e stabilire la vera fede nella città. Così Leucio, ordinato sacerdote e poi, arcivescovo di Alessandria, cominciò subito ad operare miracoli, a convertire e a battezzare. Lasciò Alessandria con i fedeli Eusebio e Dionisio e con altri 5 discepoli e sbarcò prima ad Otranto e poi a Brindisi dove compì il famoso miracolo della pioggia: perdurando la siccità da due anni, gli fu chiesto di far piovere e avvenne il miracolo. Iniziò la sua lunga opera di conversione presso i brindisini e gli altri popoli dell’Italia meridionale. Successivamente, fu colpito da pleurite e, prossimo alla morte, si fece sistemare a terra su della cenere e dei rottami di tegole. Fu sepolto a Brindisi e, quando la città fu distrutta dalle guerre, i tranesi, devoti al Santo trafugarono la salma, la
Tiscitàle nel dialetto neretino è, filologicamente parlando, la madre dell’italiano ditale. E lo è semanticamente e formalmente. Qualcuno potrà obiettarmi che la voce italiana più vicina a tiscitàle è digitale. Va notato, però, come quest’ultima voce nata nel XVI secolo come aggettivo sostantivato per indicare sinteticamente una specie botanica (digitale purpurea) e la sostanza medicinale che se ne estrae, nonché come aggettivo puro e semplice per indicare ciò che riguarda il dito, ha vissuto una seconda giovinezza nel XX secolo con l’adattamento formale all’italiano dell’inglese digital, da digit=cifra numerica, con riferimento, in elettronica e in informatica, ad un sistema o dispositivo che si serve di cifre numeriche per rappresentare dati e grandezze o per riprodurre impulsi fisici; questa voce, dunque, non ha attualmente il significato della corrispondente dialettale neretina. Ma non è stato sempre così, e vado a dimostrarlo.
Per fare onore al titolo dirò che tutte le voci fin qui messe in campo, comprese quelle inglesi, derivano dal latino dìgitum=dito (ancora oggi le dita servono, alla bisogna, per contare…), dalla stessa radice di decem (dieci, il numero delle dita) e, in greco, di deka=dieci e di dèikniumi=io indico.3
Ditàle, in particolare, è, per sincope di –gi– dal latino tardo digitàle (neutro sostantivato del classico digitàlis=della grossezza di un dito) che aveva inizialmente il significato sacrale di particolare reliquario4 e solo successivamente assunse quello di strumento protettivo del dito di un comune mortale…vivo.5 Proprio l’esistenza di digitale con quest’ultimo significato esclude la possibilità che l’italiano ditàle sia derivato in epoca più recente da dito (nato da dìgitum per sincope di –gi-) con aggiunta del suffiso aggettivale –ale.
Conclusione: ditale è nato da digitale per l’esigenza di evitare confusione semantica3, mentre tiscitàle (come tìscitu rispetto a dito) è rimasto fedelissimo alla voce originaria e chissà se non continuerà ad esserlo anche quando sarà coinvolto nel rischio di equivoco prospettato in vignetta e propiziato da quella che io chiamo “ignoranza generazionale reciproca” (la nonna non sa nulla di digitale in senso informatico, per la nipotina, molto probabilmente pure per sua madre, il ditale sarà un oggetto misterioso). E se la vignetta fosse, come temo, non avveniristica ma anacronistica di almeno trent’anni? Sento già qualcuno della mia età: “La seconda che hai detto”.
________
1 Debbo rammendare questi calzini ma non sto trovando il ditale. Esmeralda, per caso l’hai visto?
2 Nonna, queste sono tutte cose digitali. Prendi quello che ti serve…
3 Dopo il modo di dire che mi ha ispirato il titolo, il noto proverbio: Tra moglie e marito non mettere il dito; io ho obbedito e qui ho messo il dito tra due sistemi di numerazione, quello binario (basato su 0 e 1) o digitale e quello decimale, che, per quanto riguarda i nomi (digitale/decimale), hanno come s’è visto, lo stesso etimo.
4 Du Cange, Glossariummediae et infimae Latinitatis, Favre, Niort, 1883, pag. 116: DIGITALE Theca, in modum digiti confecta. Gloss. Gr,.Lat.: Daktiulèthra, Digitale. Acta inventionis S. Stephani Episcopi Calatini, in Sanctuario Capuano, ubi de articulo digiti manus benedictae, qui in Ecclesia Calatina asservabatur: Custodiebatur autem in sacrario sub Digitali argenteo modulo. Vide Digitabulum. (DIGITALE Contenitore modellato a forma di dito. Glossario greco-latino: Daktiulèthra, Digitale. Atti del ritrovamento di S. Stefano vescovo di Calatia, nel Santuario di Capua, dove circa l’articolo del dito della mano benedetta che si custodiva nella chiesa di Calatia: si custodiva inoltre nel sacrario sotto una custodia in argento a forma di dito. Vedi digitabulum)
E, nella stessa pagina, al lemma DIGITABULUM: Gloss. Lat. Gr. Digitale et Digitabulum, Daktiulèthra, id est, digitorum involucrum. Jaonn. de Janua: Digitabulum, instrumentum in quo digitus intromittitur, quod et Digitale dicitur. Apud Varron. lib. 1 De re rust. cap. 55 Digitale occurrit, ubi Scaliger ex MSS. Digitabulum reponendum scribit. (Glossario latino-greco Digitale e Digitabulum, Daktiulèthra, cioè protezione che avvolge le dita. Giovanni di Genova: Digitabulum, strumento nel quale viene inserito il dito, detto anche Digitale. Presso Varrone libro I De re rustica capitolo 55 ricorre Digitale, ma lo Scaligero ritiene di emendare con Digitabulum in base ai manoscritti)
5 Non c’è altra spiegazione, anche se la lingua spesso presenta nel comportamento, cioè nell’uso, le stesse incongruenze e stranezze che l’uomo rivela nella vita: non è raro il caso di varianti “inutili” dal momento che il contesto avrebbe facilmente consentito di evitare ogni equivoco e, sempre incongruentemente, quello opposto, cioè la mancata adozione di varianti laddove nemmeno il contesto consente di evitare fraintendimenti.
Taranto. Intriganti e magici vicoli nella città vecchia
Le postierle: strette scalinate…verso Mar Piccolo, i vicoli, gli archi
di Daniela Lucaselli
Il borgo antico della storica città dei due Mari, in particolare la cosiddetta parte bassa della città vecchia, è caratterizzato da intriganti e magici vicoli e vicoletti, da case sgarrupate che rendono suggestivo questo particolare pezzo di mondo. Viene spontaneo chiedersi se tale opera, che potremmo definire semplice, ma nello stesso tempo ricercata, sia stata realizzata per far fronte solo ad esigenze di carattere urbanistico o architettonico.
Sfogliando la storia di Taranto l’attenzione si ferma al 927, quando la città fu distrutta dai Saraceni che non lasciarono in piedi alcun edificio, ma solo un polveroso cumulo di pietre. Passarono molti anni e nessun intervento fu fatto. S’avvicinava intanto il tanto temuto anno Mille, in quanto erano tanti coloro che credevano che in quella data sarebbe avvenuta la fine del mondo (Millenarismo). E proprio mentre c’era chi impotente aspettava la fatalità distruttiva, c’era chi invece sentiva dentro di sé affiorare l’energia della vita e sognava una nuova città fiorente.
Fu Niceforo Foca, siamo sempre nel secolo X, ad inviare qualificati tecnici greci per guidare la ricostruzione della città, pianificò l’intervento tenendo conto dell’esperienza, delle circostanze e della tipologia del territorio. L’area dell’antica acropoli, la parte alta della città vecchia, venne ampliata verso Mar Piccolo. L’isola, doveva essere strutturata e di conseguenza
Salento terra di santità. Santi Oronzo, Giusto e Fortunato
Sant’Oronzo, era un pagano di Lecce, il padre era il tesoriere dell’imperatore. Avrebbe dovuto prendere il posto del padre come tesoriere, ma mentre insieme al nipote Fortunato andava a caccia lungo la spiaggia di San Cataldo incontrò San Giusto che San Paolo aveva inviato a Roma per portare alcune lettere apostoliche. Oronzo si convertì al Cristo per mano di San Giusto che lo battezzò insieme al nipote Fortunato. Giusto e Oronzo cominciarono a predicare e furono denunciati dai sacerdoti pagani al pretore romano, che li impose di offrire incenso al dio Giove nel tempio dedicato allo stesso.
A questa imposizione Oronzo e Giusto professarono la loro fede e la statua di Giove si frantumò facendo sprigionare un demone che annunziò che quello dei due cristiani era il vero Dio. A quel punto, il pretore condannò Oronzo e Giusto alla flagellazione e li fece rinchiudere in carcere.
Successivamente altri eventi miracolosi convinsero il pretore ad abbandonare la persecuzione dei due martiri, così Giusto andò a Roma da San Pietro e tornato a Lecce fu accompagnato a Corinto da Oronzo e Fortunato, giunti lì furono accolti amorosamente da San Paolo che nominò Oronzo vescovo della città di Lecce e il nipote Fortunato suo successore. Nerone intanto inaspriva la persecuzione dei cristiani e mandò a Lecce un suo ministro, Antonino che fece imprigionare Oronzo e Giusto
Lecce. L’ex ospedale dello Spirito Santo e la sua chiesa
I due edifici leccesi che ospitano gli eventi delle Giornate Europee del Patrimonio 2010 sono carichi di storia. In primo luogo hanno in comune il fondatore: tal Giovanni d’Aymo, un ricco commerciante fiorentino residente a Lecce, che a fine Trecento devolse una congrua somma per erigere una chiesa e convento domenicano ed un ospedale per poveri infermi, gestito sempre, dai domenicani.
Chiesa e convento, fondati con bolla Bonifacio IX del 9 novembre 1389, presentavano forme gotiche, riscontrate, per quanto riguarda la chiesa, dalla descrizione di Giulio Cesare Infantino «tutta à volta con le crocere al modo Francese»[i] e, nel convento, dal rinvenimento di alcuni reperti.
Probabilmente il sito dell’attuale ospedale non è quello originario. Questa osservazione si desume dal fatto che l’Ospedale fu fondato con bolla di Bonifacio IX del 1392. In una delle divisio murorum contenute nel Codice di Maria d’Enghien, però, è citata la portam jardeni iohannis de aymo (attuale Porta Rudiae)[ii]. Leggi e regolamenti sono ascrivibili al periodo successivo al soggiorno napoletano della regina, così come si desume dal titolo dell’opera «Statuta et capitula florentissimae licitati litii ordinata et imposta per inclita Maiestatem Mariae de enghenio ungariae jerusalem et siciliae reginae litique comitissae foeliciter incipiunt»[iii].
Sono databili, quindi nell’arco di tempo che va dal 1406 al 1446, anno di morte di Maria d’Enghien. In un isolario del 1508, inoltre, la consequenzialità dell’elenco delle isole collocherebbe l’antico ospedale nelle vicinanze della chiesa di San Giovanni dello Vetere[iv].
Il nuovo Ospedale dovrebbe essere sorto (o ricostruito) quando, passata nel 1514 la gestione dell’ente alla Città, si decise di ingrandirlo su progetto dell’architetto Gian Giacomo dell’Acaya – Mastro dell’ospedale.
La costruzione era già terminata all’epoca della stesura dell’Apologia paradossica, redatta tra il 1576 e il 1586, dov’è descritto: in «detto Spedale si veggono magnifiche, e sontuose fabbriche con bellissime e comodissime stanze»[v]. All’interno dell’edificio vi era un «cortile principale», ove si affacciavano vari ambienti e «di più canto di detto cortile sta attaccata la chiesa sotto il titolo dello Spirito Santo»[vi].
Nella seconda metà del Cinquecento, nello slargo antistante porta Rudiae, dunque, si fronteggiavano il complesso gotico di San Giovanni d’Aymo e la compatta fabbrica dell’Ospedale, la cui facciata è scandita da coppie di paraste scanalate e arricchita dal bugnato, entrambi elementi architettonici tipici di dell’Acaya.
Il nuovo assetto urbanistico durò poco più di un secolo, anche se c’è chi presume un intervento dell’architetto di Carlo V anche nel convento. Nel 1652, vi fu traslocata da Andria la sede del Centro di Studi filosofici e teologici dei Padri Predicatori, i domenicani decisero di adeguare al nuovo stato chiesa e convento, non più consoni all’importanza del nuovo status. La chiesa fu ricostruita tra il 1691 e il 1728 su disegni di Giuseppe Zimbalo, morto durante i lavori, nel 1710. Nel Seicento anche il convento, fu ristrutturato, così come denotano le cornici delle porte murate al piano terra. L’edificio fu ulteriormente rielaborato nella seconda metà del Settecento, quando Emanuele Manieri e le sue maestranze, cui viene dai più attribuita l’opera, realizzarono gli ambienti superiori, il nuovo chiostro e l’elegante facciata racchiusa da due portali sormontati da balconcini e scandita da paraste di ordine gigante. Qui compare la conchiglia: “firma” sia di Mauro, sia di Emanuele Manieri.
Riguardo la chiesa dell’Ospedale, secondo Infantino, fu « fabricata non sono molt’anni da limosine, con una porta incontro la Sala dove dimorano l’infermi»[vii]. Si tratterebbe di una ristrutturazione, riconducibile, secondo Michele Paone, al gusto di Giuseppe Zimbalo[viii]. L’impianto, a navata unica, è scandito da quattro arcate da cui si accede alle nicchie, riccamente realizzate in pietra e stucchi, che racchiudevano sei altari e le porte di accesso alla strada (murata) e ad una delle corsie. Nella chiesa, sulle chiavi di volta delle nicchie sono scolpiti gli scudi che racchiudono le armi del’Ospedale (prima a destra, e terza e quarta a sinistra), dei dell’Antoglietta (quarta nicchia a destra) e quella partita Verardi – Prato (prima nicchia a sinsitra)[ix]. Sulle altre nicchie compare lo stemma dell’Ospedale (La colomba dello Spirito Santo dalla cui coda escono tre fiammelle)[x]. Le due chiavi di volta del soffitto sono decorate con lo stemma dell’Ospedale (differente da quello che si riscontra sugli archi) e con quello di Lecce.
Nel corso dell’Ottocento nuove vicende accomunano i due edifici. A causa della soppressione degli ordini religiosi durante il Decennio francese (1806 – 1815), il convento fu incamerato dal Demanio Regio e destinato, nel 1812, a sede della Manifattura dei Tabacchi: l’edificio fu soggetto a profonde modifiche, atte ad ospitare gli impianti per la produzione del tabacco. Nel 1898 l’ospedale fu trasferito nella nuova sede (il vecchio ospedale Vito Fazzi) e il Demanio decise di adibire l’edificio a sede della Direzione compartimentale dei tabacchi. Successivamente le due “infermerie” sono state trasformate in sala cinematografica. L’ex convento ha ospitato la Manifattura dei Tabacchi, sino agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso. Dal 1970 vi ha sede l’Accademia di Belle Arti ed è stato restaurato. L’Ospedale dello Spirito Santo è stato recentemente destinato a futura sede della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Lecce, Brindisi e Taranto.
[i] G. C. INFANTINO, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), p. 19.
[ii] Cfr. M. PASTORE, Il Codice di Maria d’Enghien, Galatina 1979, p. 56. Il Codice è una raccolta di norme e regolamenti amministrativi e fiscali, compilata nel 1473 per volontà di Antonello Drimi (Cfr. Ivi, p. 25).
[iv] Cfr. A. FOSCARINI, Lecce d’altri tempi. Ricordi di vecchie isole, cappelle e denominazioni stradali (contributo per la topografia leccese), in “Iapigia”, a. VI, 1935, pp. 425-451.
[v] J. A. FERRARI, Apologia paradossica della città di Lecce (1576-1586 ca.), Lecce 1707 (riedito a cura e con introduzione di A. Laporta, Cavallino 1977) p. 481.
[vi]Ibidem. Secondo Ferrari dal cortile si accedeva a due infermerie (corsie) per gli uomini e alla spezieria, vi era poi l’infermeria per le donne, il collegio e, al piano superiore le stanze predisposte per le trovatelle. L’ente, infatti, dal 1568 gestì l’Ospedale di San Nicolò degli Espositi, eretto nel 1544 nelle case di Giovanni Francesco de Noha, su sua disposizione testamentaria del 1490.
[viii] Cfr. M. PAONE, Chiese di Lecce, Galatina 1981, II ed., voll. 2: vol. I, pp. 310-311.
[ix] Riguardo l’arme della terza nicchia a destra, che compare anche in facciata, sul portone d’accesso all’Ospedale, Luigi Antonio Montefusco la attribuisce agli Angrisani, Amilcare Foscarini ai Palmieri e Michele Paone all’ Ospedale (cfr, P. BOLOGNINI – L. A. MONTEFUSCO, Lecce Nobilissima, Lecce 1998; A. FOSCARINI, La chiesa dello Spirito Santo e i suoi stemmi, Lecce 1921; M. PAONE, op. cit.). Nella didascalia a p. 314, però Michele Paone la attribuisce ai d’Aymo.
[x] P. BOLOGNINI – L. A. MONTEFUSCO, op. cit., Lecce 1998, p. 113.
Veniva da Lecce la bella maestrina: come divenni un leccese
di Alfredo Romano
Vestiti d’un grembiulino nero, un po’ lacero ma pulito, con un colletto bianco inamidato allacciato da un grosso fiocco azzurro, stavamo affacciati col naso schiacciato contro il vetro alla finestra della scuola elementare. Attendevamo tutti con ansia l’arrivo della bella maestrina. Era puntuale. Ad un minuto dal suono della campanella sopraggiungeva sul piazzale una fiammante 600, color verdino, con le portiere che dall’interno si aprivano sul davanti.
Accompagnata da un fusto di fidanzato, vestito in doppiopetto grigio con i baffetti alla Fred Buscaglione, la maestrina, nell’atto di scendere dall’auto, divaricando le belle gambe, lasciava involontariamente scoprire un pezzo della sua carnagione bianca. A quel punto per un posto in prima fila alla finestra succedeva di tutto: spintoni, gomitate, cazzotti e colpi bassi. Poi tra un fuggi fuggi generale ognuno al suo banco a far finta di niente al sopraggiungere in classe della maestrina.
Portava generalmente delle scarpe bianche a punta con tacchi alti, un tailleur classico chiaro con gonna che scendeva oltre le ginocchia, una camicetta bianca con colletto smerlato alla quale dava risalto una collana di perle a triplo giro che ornava un collo gentile, a reggere un viso dolce e bianco, di una bellezza non sovrastante ma delicata, pulita, sfumata da una punta di rossetto che sprigionava un profumo vagamente di violetta, profumo che faceva svenire anche quelli dell’ultima fila di banchi che a quel tempo erano i gli asini della classe.
La bella ed elegante maestrina veniva da Lecce. Ma la maestrina non poteva che venire da Lecce. Tutto ciò che era signorile, tutto ciò che era bello, che era grande, che era diverso, tutto quello che noi non conoscevamo, che non avevamo mai visto, veniva da Lecce.
Per noi bambini di Collemeto, una frazione allora abitata in gran parte da contadini, Lecce era un sogno. La maestrina leccese non perdeva occasione di parlarci con dovizia di particolari dei grandi palazzi baronali, delle bellissime chiese barocche, delle ville liberty, dei negozi fantasiosi dove si poteva trovare merce indescrivibile, mai vista, che magari arrivava dall’America o dall’Oriente lontano; ci deliziava facendoci mentalmente entrare in quel bazar che doveva essere il mercato coperto dove c’era tutto il ben di dio: potevi trovare pesci dai mille colori, e alcuni lunghi anche un metro; c’erano montagne di cozze, di ostriche, di polpi; c’erano cataste di agnelli, carni di tutte le specie; c’era gente addirittura che cucinava per strada.
E poi sacchi e sacchi di verdura, di cicorie, finocchi, rape che la gente comprava a bracciate e chi aveva le braccia più lunghe ne portava a casa di più. E c’erano traini pieni di quintali di mandarini, di aranci, di noci. E poi era tutta una festa, Lecce era tutta una festa, con le belle strade illuminate di
La chiesa dell’Addolorata di Galatina nei suoi trecento anni
Il patrimonio artistico, storico e culturale di Galatina, nel corso dei secoli, si è arricchito di numerosi edifici sacri, molti dei quali dedicati alla Beata Vergine nelle Sue varie denominazioni, a testimonianza della grande devozione del popolo galatinese verso la Madre del Cristo, corredentrice alla salvezza del genere umano. In questo contributo si vuole ricordare il terzo centenario dalla costruzione della chiesa dell’Addolorata, situata lungo il lato nord delle antiche mura, nel cuore pulsante della città, su quella strada prima denominata, appunto, dell’Addolorata o dei Dolori, ma che oggi porta il nome dell’illustre filosofo pedagogista galatinese Pietro Siciliani. La devozione verso l’Addolorata, che si discosta da tutti gli eccessi di teatralità tipici di alcune manifestazioni della Passione del Cristo presenti nel Sud d’Italia, è penetrata sempre più nell’animo e nella pietà del popolo, che numeroso vi accorre e partecipa, con profondo raccoglimento, al Solenne Settenario in onore alla Beata Vergine Dei Sette Dolori (tradizionalmente il venerdì antecedente la domenica delle Palme o della Passione), divenendo, la chiesa, il centro vitale per tutta la Settimana santa e, in particolare, nel triduo pasquale.
Diciamo subito che mentre la chiesa è dedicata alla Vergine Addolorata, l’Arciconfraternita ivi presente è denominata “Beata Vergine Maria dei Sette Dolori”, perché appartenente, fin dalle origini, all’Ordine dei Servi di Maria, e di questo abbiamo traccia sull’altare maggiore, dove sono raffigurati alcuni dei fondatori e seguaci dell’Ordine stesso. Della storia dell’Arciconfraternita si avrà modo di parlare, ricorrendo il prossimo anno il terzo centenario dalla sua costituzione (agosto 1711), anche se la sua storia si intreccia con quella della chiesa. È con lo scioglimento della
Ritorno sul post di Antonio Bruno (https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/03/20/unum-tantum-edo-uno-e-basta-questo-e-il-corbezzolo/) e, in particolare, sul mio relativo primo intervento per procedere alla dovuta autoflagellazione. Mi era, infatti, sfuggito un pezzo della Naturalis historia di Plinio precedente a quello da me citato (XV,99): Pomum inhonorum, ut cui nomen ex argumento sit unum tantum edendi. Duobus tamen his nominibus appellant Graeci comaron et memaecylon, quo apparet totidem esse genera; et apud nos alio nomine arbutus vocatur (Frutto senza onore, sicché il suo nome deriva dal fatto che vale la pena mangiarne solo uno. Tuttavia i Greci lo chiamano con i nomi di comaron e mamaecylon, per cui pare che altrettante siano le specie; e presso di noi è chiamato con altro nome arbutus).
A questo punto, però, non mi somministro altre frustate, poiché rimangono confermate tutte le altre mie riflessioni relative all’impossibilità, almeno per me, di accettare l’etimologia pliniana. Non tutti sanno, infatti, che le etimologie proposte dagli antichi sono molto traballanti e in non pochi casi sono delle paretimologie, vale a dire etimologie popolari che nulla hanno di scientifico. Tutti i dizionari di latino concordemente attribuiscono alla e di unedo la quantità di lunga, compreso il Forcellini2 che, evidentemente accortosi dell’incongruenza della e lunga di unedo con l’etimologia pliniana, salomonicamente e troppo decisamente afferma: “Unde et cognoscimus, corripere paenultimam” (Donde conosciamo pure che abbreviavano la penultima)3. La conclusione mi appare affrettata e, come tutte quelle legate all’uso parlato e non scritto del latino (o di altra lingua antica), documentabile solo da qualche forma (finora non emersa) presente in qualche epigrafe pompeiana.
Un’ultima annotazione: la scarsa considerazione in cui gli antichi tenevano questo frutto quasi certamente è alla base, nel neretino, del suo significato traslato di stupido, anche perché non riesco a capire di quale altra voce possa essere deformazione eufemistica (come succede, solo per fare un esempio, in cacchio per cazzo). E questo, oltre che a necessaria integrazione, pure ad esplicitazione del titolo.
1 Ma sono proprio un cretino se mi son lasciato sfuggire questo pezzo!
2 Totius Latinitatis lexicon, tomo IV, Giachetti, Prato, 1845, pag. 700, lemma unēdo.
3 Pronunziavano cioè ùnedo la voce unēdo (che correttamente andrebbe letta unèdo), come se fosse unĕdo.
I nomi sono presagi. Lo scrive e lo dimostra Armando
Il titolo è la forma abbreviata della locuzione latina nòmina sunt òmina (i nomi sono presagi) che rifletteva la credenza dei Romani che nel nome della persona fosse indicato il suo destino. Non è una credenza originale perché è presente già nel mondo greco con Platone e Teofrasto e a me sinceramente sembra una forma rozza e primitiva di prevedere il futuro non diversa da quella con cui in passato pretendevano di farlo la Pizia, la Sibilla e gli aruspici e oggi maghi e fattucchieri. Questa volta, però, sono costretto anch’io a fare il mago (sfruttando un apposito software on line…) e a dedicarmi a qualcosa che definisco puro e semplice gioco (il mio, però, è innocuo e gratuito…) perché ne sono profondamente convinto e non per difendermi da un’eventuale accusa di calunnia. Il gioco consiste nell’anagrammare il nome e cognome di personaggi quotidianamente alla ribalta, e unicamente per motivi di spazio vi coinvolgerò solo pochi protagonisti della politica governativa (salvo un fuoruscito…) e mi limiterò solo nei casi più ermetici, facendo concorrenza agli interpreti di Nostradamus, a commentare il responso del computer.
1) GIANNI LETTA (sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio) tentai lagni.
2) CARLO GIOVANARDI (sottosegretario Famiglia, droga, servizio civile) giovani col radar oppure adorava gin.1
3) PAOLO BONAIUTI (sottosegretario Informazione, comunicazione ed editoria) io punto al boia.2
21) ANGELINO ALFANO (ministro giustizia) anelano il fango.13
22) IGNAZIO LA RUSSA (ministro Difesa) urlo assai, ganzi!
23) GIULIO TREMONTI (ministro economia e finanze) urlo ignoti temi.14
24) GIANCARLO GALAN (ministro politiche agricole, alimentari e forestali) a galla con grani.
25) SILVIO BERLUSCONI (presidente del Consiglio) unico visir sbolle oppure lisci viso burlone oppure bel culoso, rivinsi.
Assumo fin da ora l’impegno a dedicare la mia attenzione futura a chi dovesse subentrare nel governo attuale e, se sarà la sinistra, avrò rispettato pure la par condicio… Per ora un assaggio: PIERLUIGI BERSANI rigiri plebe suina.
E, per scoraggiare quei milioni che senza dubbio hanno già deciso di votarmi prima ancora che io, in un empito di follia, mi presenti candidato, si sappia che ARMANDO POLITO, dopo anagramma, è trama dopo il no.
_____
1 Il primo risultato è in linea con la situazione demografica attuale (tra poco bisognerà cercare i giovani col radar), il secondo vede nell’imperfetto un ridimensionamento del suo contenuto inquietante che, però, pare in linea con una tendenza abbastanza diffusa (vedi più avanti nn. 5 e 15 con le relative note).
2 Riferimento alla legge sulla libertà di stampa e di informazione?
3 Se l’espressione è riferita al suo principale è difficile dire se è dettata da ammirazione, piaggeria o invidia.
4 Ecco, forse, perché certe decisioni…; comunque il vizietto, se di vizietto si tratta, è in comune coi nn. 2 e 15).
5 Avrà preso lezioni dal suo principale?
6 Quell’omertoso del computer si è rifiutato di dirmi chi sarebbe questo re; ma io ho la mia idea…
7 Debbo riconoscere che neppure il freddo computer è rimasto insensibile alla sensualità della nostra, a meno che “gara” non si riferisca non a una gara di bellezza ma a qualche gara d’appalto…
8 Sarà lo stesso vizietto dei nn. 2 e 5?
9 Sen=se ne; i merli sono i precari…e non solo.
10 Razzismo in comune col n. 20?
11 Qui debbo indossare i panni del sacerdote-interprete per ricordare che tallo sta per base, fondamento e che gli Orobi erano una popolazione preromana stanziata nel territorio attorno al lago di Como.
12 Razzismo in comune col n. 17?
13 Anche qui il computer ha fatto l’omertoso, ma credo che il soggetto della frase sia ”i giudici di sinistra”.
14 Con riferimento al fatto che, almeno secondo lui, sarebbe stato il primo al mondo a prevedere l’attuale crisi e, cosa più importante, le cause scatenanti.
24 settembre 2010, 19,30
Fondo Verri, via S. Maria del Paradiso 4, Lecce
Ambienti tra le righe
Moderatore: Stefano Donno
Presentazione del volume
Il Vento e le Pietredi Dario Stornati
(Lupo editore).
Dario Stomati è un neurologo di Mesagne, che poco ha a che fare con
la storia, anzi, con la preistoria, e men che meno con pietre,
megaliti e reperti archeologici. Eppure è lui la voce narrante di
questo viaggio tra i megaliti del salentino e sulla cultura che li ha
prodotti. Il libro da lui scritto – tra le numerose pubblicazioni
scientifico e a carattere medico – è Il vento e le pietre, edito dalla
Lupo (pp. 181, 15 euro), pubblicato nel 2010.
Questo libro si pone come un percorso tra pietre, popoli e territori.
Proposta per una nuova coltivazione nel Salento. Il sesamo
Quella TV che nel 1983 mandava in onda la trasmissione “OK il prezzo è giusto” quando la nonna di mia moglie, una nonnina arzilla e mitica di nome Maria Capone, osservava la postazione davanti alla quale Sabani conduceva parte della trasmissione: ricordate? Era costituita da un piccolo palco con a fianco una pedana girevole che celava gli Oggetti-Invito che poi il conduttore ribattezzò “Apriti, Sesamo!” La nonna di mia moglie alla vista di quella pedana coprendo la voce di Sabani , con enfasi, con gli occhi furbetti e il sorriso sulle labbra diceva:“Apriti, Stefano!”. La nonna di mia moglie era stata amica d’infanzia di mia nonna Domenica detta “Memmi” e non penso immaginassero, mentre erano intente nei giochi dell’infanzia, che due loro nipoti si sarebbero poi sposati.
Sembra ieri ma sono volati trent’anni senza che nemmeno me ne accorgessi e con la nonna di mia moglie che adesso non c’è più. Però, ogni volta che ascolto la formula magica “Apriti, Sesamo!” rivedo la sua casa, il suo viso e il suo sorriso.
La nonna Maria chiedeva a Stefano di aprirsi in una sorta di “parodia” della formula magica “Apriti, Sesamo”, che viene dritta dritta dalla Persia dove viene usata nella fiaba di Alì Baba e i 40 ladroni perchè esclamando “Apriti, Sesamo” questi briganti avevano accesso alla caverna del tesoro. E sapete perchè i persiani usavano questa formula magica? Perché fa riferimento alle “incredibili” proprietà nutritive e vitali del sesamo, che aprirebbero all’uomo le porte della forza e della vitalità.
I suoi semi vengono usati per aromatizzare i prodotti da forno del Salento leccese: i taralli al sesamo, o il pane al sesamo, e il suo olio ha preceduto l’uso dell’olio d’oliva. Semi e olio di sesamo hanno caratteristiche forse uniche per il nostro sistema nervoso, immunitario e motorio.
L’olio di sesamo copre il 75% della produzione mondiale di grassi.
In India ed Egitto diversi millenni fa, l’olio di sesamo accompagnato da rituali magici, era bevuto contro mal di testa ed emorragie.
I Babilonesi gli attribuivano proprietà cosmetiche, ma è nella letteratura antica che si riporta l’usanza di spargere con semi di sesamo i sedili dei commensali, per cacciare i demoni che potrebbero impossessarsi del cibo.
Il sesamo ha semi ovali e piatti dai quali i nostri antenati estraevano l’olio che era usato come condimento. Per questo motivo le donne di 10.000 anni fa l’hanno coltivato anche se la prima testimonianza dell’olio di sesamo è in alcune tavolette d’argilla sumeriche, risalenti al 2300 a. C.
Anche in un testo Mesopotamico in lingua aramaica in onore del dio Hadad, si legge di un olio alimentare diverso da quello d’oliva : “…ho dedicato loro offerte funerarie di buoi, pecore ingrassate, pane, birra di qualità, vino, olio di sesamo, miele e ogni altro prodotto dell’orto…”.
Il nome scientifico della pianta “Indicum” è la conseguenza della circostanza che vede l’India maggiore produttrice mondiale. Arrivano informazioni sulla presenza del Sesamo in India da autori e viaggiatori greci come lo storico Ctesia o il geografo Strabon. Comunque c’è il ritrovamento di un grumo di semi carbonizzati nel sito archeologico di Harappa in India che può essere ricondotto all’arrivo degli Ari nel Subcontinente circa il III millennio a. C.
Il sesamo Sesamum Indicum (LINN.) appartiene alla famiglia delle Pedaliaceae. Ti dico due cose che possono interessarti: la prima è che l’olio di sesamo si vende a a 15 – 25 Euro al litro e la seconda è il prezzo del seme che va da 8 a 10 Euro al chilo.
Poi mi chiederai quanti quintali di seme produce un ettaro di terreno coltivato a sesamo. E io te lo scrivo così cominci a farti due conticini: la produzione è da 10 a 20 quintali di seme per ettaro. Un quintale di seme di sesamo lo puoi vendere ricavando sino a 1.000 Euro e se ne produci 20 quintali ottieni 20.000 Euro ad ettaro. Come dici? Non ci credi? Vai a fare una ricerca di mercato e vedrai che converrai con me su questi numeri. E l’olio? Dal seme si ottiene da un minimo del 40% a un massimo del 63% di olio. Tradotto avrai dai 20 quintali di seme 12 quintali di olio! E se lo vendi a 20 Euro al litro ecco che 24.000 Euro non te li toglie nessuno!
Non ci credi vero? E cosa devi fare per coltivarlo nei campi incolti del Salento leccese? Lo semini a maggio a righe e ti bastano 3 – 4 chili di seme per ettaro. Il 13 giugno, per la festa di Sant’Antonio da Padova, eccolo fiorire e, prima di ferragosto, lo potrai raccogliere! La cosa bella è che devi raccogliere la pianta intera prima che si aprano le capsule che contengono il seme e poi, queste piante devi lasciarle stagionare su una superficie liscia, perchè il seme uscirà da solo. A quel punto non ti resta che ammucchiarlo e metterlo nei sacchi. Le spese? La seminatrice per la semina,un paio di sarchiature, un diradamento a 30 centimentri da una pianta all’altra sulla fila e qualche irrigazione di soccorso di non più di 500 metri cubi di acqua per ettaro.
Insomma il sesamo essendo tra le prime piante coltivate nel neolitico, scelta dalle nostre antenate perchè facile da coltivare, rende gustoso il pane e regala l’olio ottenuto con la spremitura a freddo dei semi della pianta, con ottime proprietà emollienti, antiossidanti e seborestitutive.
Fammelo sapere come è andata la coltivazione del tuo campo di sesamo, chiama i tuoi figli, mostragli la pianta dei nostri antenati, quella che ha dato semi e olio per lungo tempo e che a te che hai un seminativo nel Salento leccese, con una spesa minima, in 100 giorni con ogni probabilità ti darà un buon reddito. Mi raccomando quando vedrai le piante di sesamo devi ripetere “Apriti, Stefano!”: la formula magica di Maria Capone, vedrai che funzionerà!
Bibliografia D. BEDIGIAN – J. R. HARLAN, Evidence for cultivation of sesame in the ancient world, in «Economic Botany» XL (1985), p. 137.
J. W. MAC CRINDLE, Ancient Indian as Described by Ktesias the Kuidian, rist. Dehli 1976, p. 16; B. N. PURI, India as Described by Greek Writers, Allahabad 1939, p. 88 sgg.
M. S. VATTS, Excavations at Harappa, Calcutta 1940, p. 466, S. PIGGOTT, Pre-Historic India, New York 1950, p. 153; R. E. M. WHEELER, The Indus Civilization, Cambridge 1953, p. 62.
Aldo Quindo Lazzari: Storia dell’uomo attraverso il suo cibo
Wikipedia: Sesamum indicum
Saverio Sani: Il Sesamo nell’India Antica
Prezzi Olio di Sesamo: http://www.twenga.it/dir-Gastronomia,Olio-e-Aceto,Olio-di-sesamo
Enrico Pantanelli: Il Sesamo
La prima considerazione che scaturisce spontanea lasciando scorrere sul lenzuolo della memoria immagini antiche di mezzo secolo e passa, e però tuttora nitide e vive, è che, mai, nome di battesimo fu più beffardo.
Difatti, da bambino, Felice – venuto al mondo in seno ad una famiglia poverissima e, se il ricordo è fedele, anche numerosa, dove si viveva di gran lunga al di sotto della condizione d’indigenza, ossia a dire che non v’erano nemmeno lacrime per piangere – non si portava appresso la soavità distesa del viso e il disincanto negli occhi, connotati propri di tale scala d’età, bensì una sorta di ghigno, una smorfia stampata e spessa, trasparenza epidermica, senza mezzi termini, di un dramma di sofferenza, miseria nera, fame.
Andava in giro coperto da quattro stracci, talvolta in compagnia di un fratello d’età appena minore, l’un attaccato all’altro, non soltanto per le strade paesane, ma anche spingendosi, a piedi scalzi, sino alle località contermini.
L’espressione della faccia minuta e smunta costituiva, già di per sé, una scena forte, che ti prendeva dentro; in più, veniva addirittura a materializzarsi una vera e propria saetta di struggimento interiore, quando, poi, s’aggiungeva una mano, insieme palmo e piattino, per l’implorazione di un aiuto materiale, di un’elemosina ancorché povera.
Sequenze che, nel sentire profondo – nessuno sforzo a riconoscerlo nonostante la notevole distanza temporale – trasudano ancora cruda attualità, quasi che si materializzassero, fossero riprese e girate con lo sguardo, giusto oggi.
Come accade lungo gli incontrollabili percorsi esistenziali, il coetaneo autore di queste righe, durante le lunghe stagioni successive della giovinezza e della maturità piena, snodatesi peraltro in giro, tra varie residenze lontane, non ha avuto modo di seguire il gemello divenire di Felice.
Finalmente, tornato, da pensionato, a ricalcare questi lidi, l’ha riscoperto, rivisto, ritrovato: l’incavato, l’anima della faccia, richiamanti sempre l’originale, tutto il resto, è ovvio, aggiornato all’avanzamento degli anni, pochi capelli, più bianchi che grigi, barba leggermente folta e di analoga tonalità cromatica.
Insomma, un uomo ormai “antico”, sposato, padre e nonno, esattamente al pari dello scrivente.
Particolare bellissimo che risalta immediatamente all’osservazione, l’assenza, adesso, di qualsiasi traccia di ansia, di disagio, di miseria, quel triste coacervo che, nella indimenticabile figura del bambino di ieri, sembrava dettare disperazione.
Lieto epilogo della rievocata “rinascita”, sgorga un sentimento di sincera contentezza, ad ogni scambio di saluto con Felice, incontrandolo a piedi, oppure alla guida del suo “Ape” o della motoretta, come anche nel notarlo seduto ad un banchetto con gli amici, intento a gareggiare in una serena partita di tressette.
1 Leva di mezzo tutte queste cianfruaglie, cominciando da te…
2 Fa’ conto che me ne sono già andato; alle altre cianfrusaglie pensaci tu!
3 È diabolico! Pure oggi ha trovato il sistema per non pulire lo studio…e per voi devo pure far finta di ridere.
Stracuènzi nel dialetto neretino è usato nel senso di cianfrusaglie, attrezzi inutili e ingombranti. Al lemma straquènzi (dopo dirò perchè la grafia più esatta per me è con la c e non con la q) il Rohlfs si limita a rinviare a strafìzi. In realtà questa voce non è registrata, al contrario di strafìzie, ove rinvia a strafìzzu1 e a sarvìzie. A strafizzu1 non compare etimologia, mentre a sarvìzie rimanda a servìzzie ove rinvia da capo a strafizie. Al di là di questa estenuante serie di rinvii probabilmente per il Rohlfs sarvìzie/servìzzie corrisponde all’italiano servizi, mentre strafìzie per lui è deformazione di sarvìzie o frutto di incrocio tra quest’ultimo e strafìzzu1.
Meno male che stracuenzi è al di fuori di questa battaglia perché nemmeno un ammutinamento spinto e folle alla fonologia potrebbe portare a dire che stracuènzi è deformazione di strafìzi (tra l’altro, in neretino, strafìzzu significa rovina, distruzione e il Rohlfs, senza etimologia, lo registra come strafìzzu2). In altra occasione proporrò la mia etimologia di strafìzzu, ora mi interessa stracuènzi.
La voce è usata pure al singolare con riferimento a qualcosa di ingombrante ma anche a persona che impaccia. Per me è da extra (dalla voce latina che significa fuori)+cuènzu. Da solo cuènzu indica uno strumento per pescare (si tratta di una lenza lunghissima con molti ami e galleggianti che richiede molta cura nella sua fabbricazione e ancora più esperienza nel suo uso, ad evitare che a partire dal momento della sua calata in acqua tutto si riduca ad un groviglio inutilizzabile). Per il Rohlfs, e condivido pienamente, corrisponde all’italiano concio nel suo valore di participio passato sostantivato di conciare che nel basso uso significa sistemare, aggiustare, mettere in sesto e che è da un latino *comptiare, dal classico comptus, participio passato di còmere=unire, acconciare, adornare. Stracuènzu, perciò, è sematicamente l’esatto contrario di acconcio e va scritto, rispettando il consonantismo di origine, con la c e non con la q.
I giochi nel Seminario Vescovile di Nardò dal 1960 al 1965
(Tredicesima parte)
di Alfredo Romano
Il gioco in Seminario rappresentava una disciplina come le altre: c’erano dei tempi, dei modi, delle regole da rispettare. Giocare, soprattutto, era obbligatorio: non potevi esimerti, non potevi addurre scuse, dire oggi non mi va. Era obbligatorio, ma, al tempo stesso, in caso di mancanza disciplinare, venivi punito restando fuorigioco. Il gioco si svolgeva in cortile durante le quattro ricreazioni giornaliere della durata di 10-15 minuti l’una. Nell’area scoperta del cortile c’erano due campetti per la pallacanestro; il biliardino e il ping-pong, invece, stazionavano all’interno del porticato. A rotazione giornaliera, ognuna delle quattro camerate era coinvolta in uno dei tre sport. Nel giocare non ci si cambiava d’abito, si tenevano gli stessi indumenti di tutti i giorni, scarpe comprese. Addosso avevi sempre lo spolverino che serviva a evitare l’usura dei pantaloni, della camicia bianca senza collo, oppure del maglione nelle stagioni fredde. Il nostro corredo era modesto, misurato, l’abito doveva durarti più a lungo possibile. Sessantacinque seminaristi a giocare tutti insieme nel cortile facevano un gran baccano, gridavano soprattutto quelli della pallacanestro. Eravamo dei ragazzi e giocavamo con tanto impegno e tanta e tanta foga. Dal quarto d’ora di gioco si usciva sfiniti e sudati per poi tornare ai nostri doveri ancora accalorati e col fiato addosso.
Il gioco veniva interrotto dalla campanella e, incredibilmente, in un attimo si smorzava tutto quel vociare e gridare, quasi l’ordine fosse stato dato dalla bacchetta di un direttore d’orchestra. D’improvviso come catapultati un silenzio surreale. Ci piaceva giocare e forse il gioco ha rappresentato per noi quella valvola di sfogo senza la quale non avremmo sopportato di sottoporci per anni a un sistema educativo così rigido. Dopo cinque anni di pallacanestro, di biliardino e di ping-pong, eravamo ormai diventati nel campo dei maestri imbattibili.
Molti anni dopo, durante una vacanza estiva a Collemeto, mi capitò di entrare in una sala giochi dove c’era un tennis da tavolo. Un mio cugino, ben ferrato in questo tipo di sport, mi sfidò. Non giocavo da anni, per cui la prima partita mi servì per riprendere un po’ di confidenza con la racchetta, battute e schiacciate varie. Ma persi clamorosamente. Seguirono altre partite e, con mia sorpresa, le vinsi tutte, e mio cugino che non si rassegnava
Gli omòfoni del dialetto neretino a fumetti: spirdare
GLI OMOFONI DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (12): spirdàre.
Non sempre il rapporto tra causa ed effetto
è interpretabile univocamente.
________
1 Papà, perché stai facendo quella faccia da spiritato? Era normale che lo zucchero perdesse di peso cinque chili in tre giorni.
2 Il problema è che il diabete in tre giorni se ne è salito a cinquecento…
Spirdàre nel dialetto neretino può significare assumere un atteggiamento da spiritato (deformazione dell’italiano di basso uso spiritare, con sincope di –i– e passaggio –d->-t-) e perdere di peso [da sfridu=calo fisiologico del peso della merce, probabilmente da un germanico *fridu=pace, ammenda con aggiunta di s– intensiva; il passaggio semantico sarebbe giustificato dal
Chi sono questi personaggi inquietanti e bizzarri di Cortazar? Quelli che stanno nel libro giudicato da molti il suo capolavoro assoluto?
Italo Calvino era uno che quando scriveva lo sapeva fare veramente. Allora lo faccio dire a lui chi sono i cronopios e i famas. Sono tesi e antitesi, volo e cammino faticoso, sorriso e triste consapevolezza dell’oggi. E mentre scrivo, invidio Calvino, forse lo detesto anche un po’ perché lui sa scrivere. E’ uno di quelli che quando l’hai letto ti tocca dire “ma perché non l’ho scritto io?” Però… a ciascuno il suo. Accontentiamoci del nostro orticello.
«I cronopios e i famas, due geníe d’esseri che incarnano con movenze di balletto due opposte e complementari possibilità dell’essere, sono la creazione piú felice e assoluta di Cortázar. Dire che i cronopios sono l’intuizione, la poesia, il capovolgimento delle norme, e che i famas sono l’ordine, la razionalità, l’efficienza, sarebbe impoverire di molto, imprigionandole in definizioni teoriche, la ricchezza psicologica e l’autonomia morale del loro universo. Cronopios e famas possono essere definiti solo dall’insieme dei loro comportamenti. I famas sono quelli che imbalsamano ed etichettano i ricordi, che bevono la virtú a cucchiaiate col risultato di riconoscersi l’un l’altro carichi di vizi, che se hanno la tosse abbattono un eucalipto invece di comprare le pasticche Valda. I cronopios sono coloro che, se si lavano i denti alla finestra, spremono tutto il tubetto per veder volare al vento festoni di dentifricio rosa; se sono dirigenti della radio fanno tradurre tutte le trasmissioni in rumeno; se incontrano una tartaruga le disegnano una rondine sul guscio per darle l’illusione della velocità. Del resto, osservando bene, si vedrà che è una determinazione degna dei famas che i cronopios mettono nell’essere cronopios, e che nell’agire da famas i famas sono pervasi da una follia non meno stralunata di quella cronopiesca».
“Quando i cronopios cantano le loro canzoni preferite, il loro rapimento è tale che più d’una volta sono finiti sotto un camion o una bicicletta; cadono dalla finestra, perdono quel che avevano in tasca e persino il conto dei giorni.”
Meditazione del cronopio:
«È tardi, ma meno
Tardi per me che per i famas,
per i famas è cinque minuti più tardi,
andranno a letto più tardi.
Io ho un orologio con meno vita, meno casa
E meno andarmene a letto
Io sono un cronopio disgraziato e umido».
“…Mentre beve il caffè al Richmond di Florida, bagna il cronopio il suo biscotto con le sue lacrime naturali…”
Sentirsi cronopios o fama? Essere qui ed ora o vivere oggi svolazzando fra ieri e dopodomani? Vedere il mondo con gli occhi di uno di quelli che si dicono “pragmatici”, e quando sente quella parolaccia, un cronopio qualunque pensa ad una brutta malattia che cancella le emozioni, oppure vedere le cose chiudendo gli occhi? Con la forza dei ricordi che addolciscono i colori e le emozioni? E’ vero, poi cammini ad occhi chiusi. E’ vero, sbatti contro l’albero che sta sta corteggiando spudoratamente il cespuglio lì vicino. E’ vero, è tutto vero. Però vuoi mettere la visione della realtà distorta. Forse solo contorta. Forse meno irreale di quell’altra, quella fatta di numeri e caselle incasellate?
E poi, alla fine, quando anche i famas scoprono che spesso, troppo spesso “il vero è inverosimile”? Quando scoprono, giusto per fare un esempio banale, che un paese esporta armi nei territori in cui manda guerrieri con armature e archibugi e dire che vanno a “fare la pace”? Ah il realismo dei famas…..
Salento… Voi salentini per grazia ricevuta o per casta, pensate di esserne esenti? Anche qui cronopios e famas. Il maestrale può essere un fastidioso vento, oppure un’opportunità per vedere il cielo terso standosene, nelle notti d’inverno, in campagna a farsi congelare senza sentire freddo e guardare le stelle allungando la mano per toccarle una ad una. E riuscirci. E
Mi ha spinto a stilare queste poche righe il recente post Nardò. Un comitato spontaneo per dire “basta” alla scriteriata amministrazione della città. Poche le righe che mi accingo a scrivere, ma troppe per trovare ospitalità nello spazio dedicato alle risposte, a costo di far pensare a qualcuno che sono un maniaco della visibilità (basta che me lo faccia, pubblicamente, sapere e scomparirò…). Rimbocchiamoci le maniche è la traduzione italiana del titolo in dialetto neretino, anzi, più alla lettera, rimbocchiamone le maniche. Il lettore mi perdonerà se a questo punto dovrà sorbirsi (ma non è, neppure questo, un obbligo…) la solita tiritera etimologica, in questo caso frutto, più che di deformazione professionale, del bisogno di stemperare la rabbia prima delle considerazioni finali. Allora: ‘nfurdicàre deriva secondo il Rohlfs (la sua proposta, per quanto possa valere il mio parere, è ineccepibile) da un latino *infulticàre, composto da in=dentro+ *fulticàre, forma frequentativa dal supino fultum del classico fulcìre=rafforzare. L’espressione italiana (come quella dialettale) dal significato letterale (piegare le maniche attorno al braccio significa rafforzarle con pieghe multiple) ha sviluppato quello metaforico di darsi da fare (la manica costituisce un impaccio, perciò va ridimensionata). Non va dimenticato, però, che il gesto, scherzosamente o non, prelude pure al venire alle mani. È questa la situazione in cui l’Umanità si è sempre cacciata (lo dimostra la storia) di fronte al potere che non agisce per il bene concreto della collettività, ma è prevaricatore dell’interesse collettivo in difesa di quello di pochi. Lo stesso regime, la democrazia, che fa della libertà la sua bandiera ha solo determinato uno spostamento dei gestori del potere (Rivoluzione francese, tanto per citare un solo esempio, docet) mantenendo le antiche velleità di esportazione anche in culture diverse: e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Meglio non parlare delle religioni, di tutte, che sulla paura della morte hanno costruito le loro fortune, offrendo ognuna le sue lusinghe consolatorie: in particolare, poi, quella cattolica, continua ad avere la spudoratezza di pretendere di esportare il Vangelo presso popolazioni primitive dalle quali dovremmo, al contrario, imparare, visto che in non poche di queste culture chi delinque è costretto spontaneamente a uscire fuori dal contesto sociale, senza bisogno di indagini e vari gradi di processo…
Sicché appaiono eroi Socrate, Cristo, Gandhi, Martin Luter King, Falcone, Borsellino, Ambrosoli e tanti altri noti e anonimi, rei di avere solo fatto il proprio dovere in una società per la quale, secondo il pensiero di cui si è fatto recentemente degno portavoce Andreotti, “se la sarebbero cercata”.
Ma, in rapporto al post che mi ha ispirato, cosa possiamo fare? Data l’inutilità dell’intervento violento (come ho detto prima ampiamente dimostrata dalla storia) non rimane che darsi da fare: ma come?
Io non credo minimamente, e da tempo, alla verginità politica e strumentale nemmeno delle formazioni cosiddette spontanee, tant’è che non mi vergogno di dire che non mi reco ad esercitare il diritto di voto da più di trent’anni (chiunque può controllare…): ho rinunciato, paradossalmente, ad un diritto fondamentale per preservare quello che è alla base di tutti: la libertà.
Chi ancora crede che una trota e simili (la metafora è offensiva per i relativi animali) debbano guadagnare infinitamente di più rispetto al più geniale dei ricercatori (evito volutamente di parlare della innumerevole schiera di giovani e meno giovani senz’altro intellettivamente ed intellettualmente superiori a trote ed affini) è libero di continuare a votare. Io continuerò nel mio atteggiamento perchè credo che solo l’astensione massiccia potrà portare qualcosa di pacificamente rivoluzionario. Ne ho piene le scatole di individui (e sto usando un eufemismo) di destra, sinistra e di centro che non hanno (indipendentemente dalle legge elettorale in vigore) problemi di elezione, mentre credo che abbiano problemi di erezione proprio quelli che, direttamente o indirettamente, vogliono far credere di avercelo duro…
Chissà se, in un empito di presunzione, dopo L’elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, non vedrà la luce, a distanza di secoli, sulla scia dell’Uomo qualunque, il mio Elogio del qualunquismo…
E questa volta la mia fantasia vien meno nel concepire la solita vignetta: l’ironia (soprattutto l’autoironia) nasconde, in fondo un sorriso di umana comprensione e di larvata, più o meno sana, complicità. Qui non mi è riuscita la dissacrazione che tanto amo: per me è brutto segno!
In molti la ricordano ancora, col suo aspetto biancastro o ingrigito, con le tracce della stanchezza che il tempo lascia sui monumenti oltre che sulle facce delle persone. Appena restaurata, la facciata della Chiesa Matrice provocava un effetto choc, con il suo colore che poteva risultare troppo acceso, con la quasi sfacciata evidenza della sua mole subito tornata ad imporsi nello spazio della piazza. Ora, però, anche quel colore così vivo sì è un poco velato, o forse l’occhio vi si è abituato e l ’effetto è quello di collocare la facciata della chiesa tra le immagini familiari; non più staccata dagli edifici circostanti ma con essi in colloquio pacato e cordiale come s’addice allo spazio urbano d’una piazza cordiale anch’essa, con un aspetto quotidiano che non incute soggezione.
Una facciata è come un volto: vi si stratifica la memoria degli anni e degli avvenimenti. La si può assumere come testimone di eventi che sono ormai lontani dal nostro tempo; si può facilmente immaginare che resterà, anche dopo la stagione della nostra vita, a vegliare sulla vita del paese.
Una facciata, quella della nostra Chiesa Matrice, senza pretese, aperta, fraterna alla dimensione della quotidianità nella quale siamo immersi. L’orizzontalità dei suoi piani è bilanciata dalla verticalità di rilevanti elementi architettonici; il sagrato-terrazza, con la sua balaustra di confine, piccolo balcone dove sostare in piacevoli incontri, costituisce un sorridente
Credo sia legittimo ogni tanto uscire dal seminato salentino, anche se qualcuno potrebbe obiettarmi: “E così, come spigoleremo?”. Obiezione respinta: la cultura non è fatta di compartimenti che all’occorrenza possono diventare stagni impedendo (o consentendo…si tratta di punti di vista) agli occupanti di uscire e a chi è fuori di entrare, ma di celle perennemente intercomunicanti e fruibili da chiunque, per depositare qualcosa o per prelevarla. Solo pochi giorni fa nella miriade di argomenti oggetto di una conversazione telefonica con l’amico Marcello venne fuori, non ricordo più come, una riflessione sulla capacità diagnostica dei clinici di un tempo e su come la semeiotica, complice una sempre più spinta (forse troppo…) frantumazione della conoscenza (si chiama specializzazione…) e una fiducia (forse eccessiva…) nelle nuove tecnologie (ma indietro, questo è sicuro, non si torna), tenda nei casi peggiori a ridursi ad una passiva serie di dati su cui la macchina esprimerà il giudizio assumendosene, magari (mi auguro che a questo non si arrivi mai…), pure la responsabilità. Sono convinto anche che i casi peggiori di cui parlavo prima costituiscono un’esigua minoranza e che, nonostante tutto, i medici italiani sono forse i migliori interpreti di quel felice convivere di creatività, fantasia, preparazione ed abnegazione (le quattro cose non sono in contraddizione, anzi vicendevolmente rendono possibile l’una l’incremento dell’altra non solo nella poesia che è, forse, la forma più alta di conoscenza, ma in ogni attività umana, anche in quella apparentemente più insignificante) che, in fondo, non rendono inutile questo nostro passaggio sulla terra. Nel secondo capitolo dei Promessi sposi il Manzoni scriveva: “I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi”. Questa massima si può tranquillamente applicare, secondo me, all’esigua minoranza di cui parlavo prima. Intrepretando, infatti, in quel modo la loro professione, essi sono anche responsabili, forse inconsapevoli, di tutta una serie di conseguenze legate fondamentalmente al progressivo venir meno del contatto umano e preparano il terreno su cui tanti imbroglioni criminalmente sguazzano. Sta emergendo, infatti, in tutta la sue estensione e gravità, il fenomeno di coloro che esercitano l’attività medica senza averne titolo. Sul piano giuridico sono del parere che è della massima urgenza un provvedimento legislativo, che, almeno questo, sia chiaro e non suscettibile di interpretazioni difformi, che comporti sanzioni certe e pesantissime, che, anzitutto, non preveda in casi come questi che l’indagine sia legata essenzialmente a qualche provvidenziale querela di parte (ho il sospetto che pochissime siano state quelle di cittadini resisi conto della situazione e che la maggior parte siano strumentali, cioè “soffiate” o indotte da desiderio di semplice vendetta). Mi ha fatto piacere che un clinico, intervistato in occasione dell’ennesimo scandalo, abbia stigmatizzato proprio il fatto che a monte del fenomeno ci sia il distacco umano di cui parlavo prima, tant’è che metteva in rilievo come i pazienti turlupinati manifestassero, scoperto l’inganno, la loro grande meraviglia non tanto per l’avveniristico arredo dello studio e per la serie di titoli che ne tappezzavano le pareti (la forma e l’immagine prima di tutto…) o per l’avvenenza di svettanti infermiere e atletici infermieri, quanto piuttosto per la gentilezza e affabilità, insomma, “umanità” del sedicente medico, nonché per la sua bravura. Delle due, una: o siamo in presenza di tanti novelli Leonardo (non mi riferisco all’allenatore di calcio… può anche darsi, poi, che qualche “autodidatta” sia veramente bravo, ma bisognerebbe, dopo l’esemplare condanna, somministrargli, comunque, un adeguato corso di formazione…tenuto da medici autentici), oppure siamo in presenza di individui in possesso di un culo gigantesco (sarebbe interessante indagare se mai, proprio mai c’è scappato il morto…). Voglio chiudere con una piccola incursione in casa mia. Non è un caso se oggi non si incontrano più filologi del calibro del Rohlfs, dal momento che pure la filologia si è frantumata in una serie infinita di specializzazioni minori e lo studio sicuro di un lemma richiede che esso sia aggredito da una caterva di specialisti (storici della lingua, glottologi, etc. etc.). Non è un caso se, a tal proposito, parecchi si improvvisano etimologhi, magari senza ombra di preparazione, nemmeno autodidatta, specifica, sputando verità inesistenti: io farò pure la stessa cosa, ma almeno, per stare in pace con la mia coscienza e per rispetto mio e del lettore, infarcisco le mie scemenze di “probabilmente” e “forse”. Mi auguro che, pur essendo uscito dal campo salentino, la spigolatura non ne abbia risentito…
Insieme con la capàsa, il capasòne e il capasièddhu anche lo mbile appartiene alla categoria di contenitori di origine ed uso contadini divenuti, quelli di realizzazione moderna, oggetto di arredamento e, i più antichi, di antiquariato. Si tratta di un recipiente di terracotta per acqua, dalla bocca molto stretta, corredo fondamentale del contadino che si recava al lavoro, perché la creta, trasudando, consentiva all’acqua all’interno di conservare la sua temperatura più bassa rispetto a quella esterna. Sembrerà incredibile, ma il nostro oggetto ha in comune l’etimologia con la voce comparsa in italiano nel XVII secolo ad indicare un vaso per liquidi di vetro o metallo, lungo e senza collo; questa accezione è ormai obsoleta ma la voce in questione, bombola, ha successivamente vissuto una seconda giovinezza ad indicare un contenitore metallico di forma cilindrica per fluidi compressi, dando vita anche all’accrescitivo bombolone. Fra qualche decennio, molto probabilmente, anche questi contenitori saranno obsoleti e a ricordarne l’etimologia sopravviverà, paradossalmente, solo mbile, anche perché bombole e bomboloni non sembrano avere canoni estetici tali da farne oggetto di arredamento o di antiquariato.
Ma chi è il padre delle voci fin qui messe in campo? Altrettanto incredibilmente, si tratta di un insetto. Vero è, infatti, che quelle voci derivano tutte dal greco bombiùle=boccetta, ma quest’ultima deriva da bombos, voce onomatopeica che può significare rumore sordo, rimbombo, sibilo, ronzio delle orecchie, borborigmo (gorgoglio dello stomaco o dell’intestino) e, addirittura, canto. Parallelamente a bombiùle in greco era nato pure bombiùlios=insetto ronzante, calabrone, ape, larva di baco da seta, vaso gorgogliante. Tra i tanti significati solo quello di bozzolo è legato ad un rapporto di somiglianza formale con la boccetta ma è chiaramente posteriore a tutti gli altri (boccetta compresa) legati alla primitiva valenza onomatopeica. Il collo stretto, infatti, quando si versa il liquido, crea un gorgoglio, che nel caso dello mbile è tutto particolare. Per quanto riguarda la fedeltà alla parola originaria la partita tra l’italiano e il neretino questa volta si chiude in parità: partendo, infatti, da bombiùle, bombola presenta il mantenimento della sillaba iniziale ma la regolarizzazione della desinenza (-e>-a), mbile la perdita di bo– ma la conservazione della desinenza antica. In mbile, infine, la conservazione della m mi fa pensare ad una forma intermedia *ombìle (da *bombìle con aferesi di b-, fenomeno frequentissimo), dalla quale per errata discrezione dell’articolo (*l’ombile>lo mbile>lu mbile), altro fenomeno molto frequente non solo nel dialetto, è nata la nostra voce.
Dopo 200 anni rischia di scomparire la Manifattura Tabacchi del Salento leccese
di Antonio Bruno
Nel 1812 viene istituita per speciale privilegio la Manifattura Tabacchi del Salento Leccese che lavorava dagli 11 ai 12 mila quintali di foglia di tabacco che veniva prodotta nei migliori terreni di 24 Comuni del Salento leccese. Oggi è la British American Tabacco l’erede di quell’opificio che è l’azienda anglo-americana unica in Italia a produrre tabacco e confezionare sigarette: le Ms, annuncia lo stop della produzione nel Salento.
In questa nota alcune considerazioni sulla distruzione della coltivazione del Tabacco del Salento leccese.
Fìmmene, fìmmene ca sciati allu tabaccu
(Donne, Donne che andate a lavorare nei campi di tabacco)
‘nde sciati dhoi e ne turnati a quattru
(quando andate siete due e dopo ritornate in quattro)
ci bu la dice cu chiantati lu tabaccu
(chi è che vi dice di piantare il tabacco)
la ditta nu bu dae li taraletti
(la ditta non vi da i telai su cui mettere le foglie per l’essiccazione)
ca poi li sordi bu li benedicu
(benedico i vostri soldi)
bu ‘nde cattati nuci de Natale
(con cui comprare le noci a Natale)
te dicu sempre cu nu chianti lu tabaccu
(te lo dico sempre di non piantare il tabacco)
lu sule è forte e te lu sicca tuttu
(il sole è forte e lo fa seccare)
Ricordate le nostre mamme o nonne che ci raccontavano del lavoro che facevano nelle “Fabbriche del Tabacco”? A San Cesario del Salento leccese di queste fabbriche ce n’erano parecchie anche se adesso non ce ne sono più da decenni. E cosa dire dei nostri nonni, sino ai nostri padri e fratelli che hanno coltivato il tabacco nel Salento leccese sino a qualche anno fa? Era estate quando si lavorava il tabacco e il sole salentino ardeva le campagne e la pelle delle donne e degli uomini che lavoravano in campagna. Giuseppe Abatianni di San Cesario del Salento leccese rimane turbato quando scopre che il tabacco, anche se non si coltiva più, produce il premio agli agricoltori, un premio in soldi! Mi chiede che ne facciano di quei soldi, mi chiede se li investono nelle campagne, io gli rispondo che non so… Giuseppe Abatianni è uno dei 500 dipendenti della British American Tabacco, l’azienda anglo-americana, l’unica in Italia a produrre tabacco e confezionare sigarette (le Ms), Giuseppe Abatianni mi racconta delle manifestazioni che sta facendo perché ha il suo posto di lavoro a rischio. Le cronache di questi giorni raccontano degli incontri tra azienda e sindacati per trovare soluzioni alternative allo stop della produzione annunciato nel Salento.
La tabacchicoltura del Salento leccese degli anni 2000 era ridotta ai margini tanto che nel 2006 rappresentava lo 0,36% dei 157.720 ettari coltivati. Nel 2006 dal tabacco venivano poco più di mezzo milione di Euro ovvero lo 0,2% dei 281 milioni di Euro che rappresentavano la Produzione lorda vendibile ottenuta dall’agricoltura del Salento leccese.
Eppure sino al 1996 si coltivavano 5.180 ettari di tabacco ed i 5.500 ettari di tabacco davano lavoro a 30 mila braccianti agricoli che lavoravano per 1 milione e 600 mila giornate agricole con 172 miliardi delle vecchie lire tra salari e contributi e con una produzione di tabacco di 14mila Tonnellate.
Ma non finisce qui, nella fase successiva della trasformazione c’erano 11mila addetti con 220mila giornate lavorative e 25 miliardi di lire tra compensi e contributi.
Nel 2004 dopo le varie crisi cancellano posti di lavoro e redditi mettendo al tappeto l’agricoltura del Salento leccese e, in questo 2010, appena sei anni dopo, rischia di accadere la stessa cosa per la Manifattura Tabacchi di Lecce.
Era l’anno 1561 quando il Cardinale Prospero Pubblicola di Santa Croce (1513-1589), Nunzio Apostolico in Portogallo, al ritorno da una missione diplomatica presso la Corte di Lisbona, portò i semi di tabacco in dono al Papa Pio IV che li fece coltivare dai monaci Cistercensi nei dintorni di Roma.
Proprio per questo motivo la coltivazione del Tabacco nel Salento leccese fu affidata per lungo tempo ai frati mendicanti. Nel 1800 la “polvere leccese” è considerata alla pari della “Siviglia di Spagna” come un prodotto di gran lusso che riesce a penetrare prepotentemente nelle Corti dei Re di tutto il Mondo, insomma il Tabacco del Salento leccese diviene un bene raffinato e costosissimo. Nel 1810 la coltivazione e il commercio del Tabacco diviene una “privativa di Stato” e per questo motivo subisce nel Salento leccese una temporanea contrazione: la quantità di prodotto si riduce perché vengono introdotte razze esotiche per la coltivazione. Nel 1812 viene istituita per speciale privilegio la Manifattura di Lecce che lavora dagli 11 ai 12 mila quintali di foglia di tabacco che viene prodotta nei migliori terreni di 24 Comuni del Salento leccese. E’ nel 1870 – 75 che la produzione riprende a crescere in quantità e in qualità. Infatti con l’unificazione del Regno d’Italia, nel 1870 c’è un nuovo orientamento dell’attività di produzione agricola determinato dalla maggiore sicurezza delle campagne e dai più facili mezzi di comunicazione. In quegli anni c’è anche un allargamento del mercato e un’ampia applicazione del contratto ventinovennale (di 29 anni) di “Colonia a miglioria” che si rivelò uno strumento formidabile per valorizzare terreni marginali e poco produttivi in quanto coniugava il vantaggio di nessun costo per il proprietario con un equo compenso per il lavoro del conduttore del fondo.
Sono passati appena cinque anni dal 2005 dalla nascita del Programma dell’Unione Europea denominato Coalta ovvero Colture alternative al Tabacco che aveva l’obiettivo di favorire la riconversione della tabacchicoltura del Salento leccese attraverso l’introduzione delle coltivazioni del Farro, l’artemisia, il muglolo (un cavolo del Salento leccese), l’asparago e le patate e ricordo vennero avviati campi sperimentali a Monteroni del Salento leccese nell’Azienda Agricola dell’Istituto sperimentale tabacchi e a Sternatia e Maglie sempre nel Salento leccese.
Dal 2006 c’è il disaccoppiamento totale che ha provocato l’abbandono in massa della coltivazione del tabacco e i titoli storici maturati dai tabacchicoltori non sono stati più investiti nella coltura e nessuno in questi anni ha registrato investimenti di questi capitali nell’agricoltura del Salento leccese.
Abbiamo perso tutti! Più di 40 mila tra braccianti e addetti alla trasformazione non guadagnano più e non spendono più i quasi 200 miliardi di vecchie lire ovvero i 100 milioni di euro. Un danno enorme per l’Economia di questo territorio perché i 100 milioni di Euro sono spariti e nessuno è riuscito a cavarli da qualche altra “coltura del Salento leccese”. Adesso anche la Manifattura dei Tabacchi del Salento leccese, l’ultimo baluardo costituto quasi 200 anni fa, nel 1812 , rischia di scomparire. Il Tabacco, la “polvere leccese” il prodotto di gran lusso del Salento leccese ovvero la “Ferrari” del Tabacco non è che uno sbiadito ricordo lontano, il Tabacco del Salento leccese è l’ennesima vittima della mancanza di una politica in grado di competere in questo tempo della globalizzazione! Abbiamo un compito nuovo, siamo chiamati a un’ impresa entusiasmante: c’è da ricostruire l’agricoltura del Salento leccese perchè di quella che è stata l’economia agricola rimangono solo macerie.
Bibliografia
Vincenzo Rutigliano: Puglia, dal Tabacco nasce il farro Sole 24 ore del 1 febbraio 2007
Valentina Marzo: Produzione «Ms» in Romania La vertenza diventa nazionale Corriere della sera del 9 settembre 2010
Bat: fumata nera in Regione, si attende il vertice di venerdì a Roma – Il Paese Nuovo
Le gite nel Seminario Vescovile di Nardò 1960-1965
(dodicesima parte)
di Alfredo Romano
Come per tutte le scuole che si rispettino, anche in Seminario c’era la gita annuale sul finire dell’anno scolastico. Durava un giorno soltanto, ma abbastanza per aspettarla con un po’ di euforia.
La prima gita, aprile del 1961, ebbe come meta Monte Sant’Angelo in provincia di Foggia. Ci alzammo prestissimo, visto che il pullman doveva macinare quasi 400 km per giungere alla meta. Io non mi ero allontanato mai fino a tanto da casa mia (immagino anche i miei compagni), e ricordo, arrivando sul Gargano, l’impressione che ebbi alla vista dei primi monti. Il mondo conosciuto per me allora era una distesa piatta di case bianche, di uliveti e vigneti, era il mare di Santa Maria al Bagno dove ad agosto di ogni anno affittavamo una casetta nei pressi della Cuzzara. I monti d’Italia li avevo studiati sull’Atlante scolastico, ne avevo memorizzato anche i nomi, per non dire che erano lo sfondo di tanti racconti per ragazzi quasi sempre ambientati nelle regioni del Nord: i luoghi delle fate, dei nani, dei cavalieri, dei boschi, delle foreste, dei laghi, di re, regine e principesse che regnavano in un castello sperduto su qualche cucuzzolo. Ma, per la prima volta in vita
2 Io so solamente che ti complichi la vita pure con la merda!
3 Io sto col mio padrone e perciò gli preparo altro materiale perché approfondisca i suoi studi!
Rrumàtu (nel Brindisino e nel Tarantino rummàtu) è il nome con cui si indica il letame. Il plurale (li rrumàte) è sinonimo, forte e pittoresco, di spazzatura. Voce derivata: rrumatisciàre=letamare. Per quanto riguarda l’etimologia Il Rohfs nel suo Vocabolario dei dialetti salentini si limita solo a dire che è “identico al toscano rumato=fango”.
Per la sua terminazione la voce ha tutta l’aria di essere il participio passato del verbo rumàre attestato a Lucugnano, Salve e Ugento (altre varianti nell’area salentina: riumàre, riumbàre, riumbàri, riumà, riummàre, reumbàre, rriumàri, rraumàre, rreumbàre) col significato di ruminare. Ma rumàre (con lo stesso significato) oltre che voce italiana obsoleta è anche forma regionale toscana dove assume il significato di rimescolare un liquido o un impasto; è dal latino ruma=gola.
È intuitivo che ruminare deriva da rumine, dal latino rumen, insieme con la variante rumis chiaramente connesso con ruma; nella inesattezza anatomica degli antichi le tre voci potevano significare ora esofago, ora rumine, ora stomaco e, addirittura, poppa (di animale).
Ma torniamo a rumàre; la voce non è attestata nel latino classico ma in quello medioevale nel significato di allattare1. Si noterà come nel latino medioevale la voce denota la perdita per ruma (da cui inequivocabilmente rumàre deriva) di quell’ambiguità semantica già rilevata (anche se gravitante, comunque, nell’ambito dell’alimentazione).
Se ci fermiamo qui, però, l’empasse semantica tra rumàre=allattare e rrumàtu=letame appare insormontabile.
Ci accingiamo, perciò a percorrere un viaggio le cui tappe nessuno avrebbe immaginato prima di intraprenderlo.
In latino il lemma irrumàre indica il sesso orale attivo e irrumàtor chi (sempre attivamente) lo pratica e irrumàtio la stessa pratica.
Leggo nel Calonghi-Badellino2: “irrumàre (in e rumo), aliquem=insero…in os alterius [ficco…nella bocca di un altro]3, Catullo (ed unda irrumata, dell’acqua insozzata della piscina, Marziale 2, 70, 3”).4
Più pudico appare il Castiglioni-Mariotti: “irrumàre trattare impudicamente,
La guerra continuava e la sua funesta azione portava lutti, distruzione, fame e miseria: bisognava arrangiarsi per sopravvivere il meno peggio possibile. In ogni paese di questa zona c’era un distaccamento di truppe, più o meno consistente a seconda del numero degli abitanti e l’importanza strategica del luogo. Queste truppe erano considerate d’occupazione dalla popolazione, perché occupavano le case migliori del paese; non si considerava affatto che fossero alleate, nemiche, ex alleate o ex nemiche.
Il mondo continuava ad alternare le notti ai giorni, gli uomini alternavano pensieri a preoccupazioni: il come procurarsi il cibo ed il vestiario cedeva spesso il posto a come far durare un bene il più a lungo possibile. Le case erano piccole ed i ragazzi per avere un po’ di spazio erano per strada; essi per rendere interessante la vita pattugliavano ogni angolo del paese e conoscevano tutto di tutti, specialmente i depositi dell’esercito.
Nel paese[1] dove hanno luogo gli avvenimenti che andiamo a raccontare era dislocato un drappello, a quel tempo il narratore non aveva alcuna cognizione militare e non sapeva quali funzioni questi militari avessero, udiva quello che i compagni di gioco dicevano e riferiva ad altri quello che aveva udito. Però sapeva che il comando di quello che per lui era l’esercito occupante aveva requisito ed occupato una casa patrizia appartenente a ricchi proprietari terrieri i quali volenti o nolenti si erano sistemati nella loro villa-masseria non lontano dal paese. La truppa, invece, aveva occupato il nuovo edificio scolastico intonso, come un libro di lettura, da poco licenziato dalle maestranze edili. Questi militari per la sistemazione, per il trasporto del vettovagliamento e per le pulizie si erano serviti e si servivano di gente del paese. Queste persone, forse per essere estremamente operative, forse per loro motivi, forse … non lo so, avevano impresso nella loro mente la pianta dettagliata dei luoghi, le vie di fuga ed ogni particolare, meglio di una esperta spia nemica. Tutto ciò che ai più sembrava essere un segreto, lo era di Pulcinella, perché negli incontri con amici e parenti tutti ci tenevano a far confidenze per stare sempre più nell’intimità, ma il tema obbligato era la guerra, quella che si combatteva (si fa per dire data la presenza dei militar-soldati) in casa cioè nel paese. Quello che succedeva al fronte interessava solo chi aveva un parente o un amico arruolato.
Anuccio[2] e Uccio[3] avevano avuto la soffiata: zio Catallo[4], che faceva il vastaso[5], aveva loro detto che aveva scaricato un camion di scatoloni che racchiudevano scatolette di carna bif[6] e di marmellata; poi c’era anche altra merce che egli non sapeva. Egli era certo di quelle derrate perché il
Quando il Rohlfs non si lasciò ingannare dal cielo nuvoloso salentino…
Anche l’anestesiologia, come ci confermeranno gli amici comuni Marcello Gaballo e Luigi Cataldi (la soppressione del titolo è un attestato di stima anche nei confronti del lettore: solo quando si parla con gli ignoranti si dice, per esempio, il poeta Dante Alighieri), ha fatto passi da gigante soprattutto se si pensa che fino a venti anni fa non tutti i pazienti potevano essere anestetizzati con rischi accettabili. La parola anestesia, però, non ha subito variazioni da quando Oliver Wendel Holmes , poeta e medico inglese del XIX secolo, la prese pari pari dal greco anaisthesìa=insensibilità, composto da a– privativo e aisthesìe=facoltà percettiva, a sua volta dal verbo aisthànomai=sentire, sviluppatosi da àio=percepire. Non è cambiata nemmeno la corrispondente voce dialettale neretina: nùbbiu. Questo lemma (nella forma nnùbbiu) il Rohlfs lo fa derivare da nnubbiàre, dove si limita ad un confronto con il calabrese òbbiu=oppio. Per lo studioso tedesco, anche se non lo dice espressamente, nnubbiàre dovrebbe derivare da *innubbiàre (alla lettera mettere nell’oppio) con aferesi di i-; a prima vista la proposta appare ineccepibile dal punto di vista semantico e fonologicamente suppone un raddoppiamento di n dovuto a compenso della caduta di i– (*inubbiàre>’nubbiàre>’nnubbiàre), fenomeno assolutamente normale. Tuttavia, la mancata geminazione di n nella voce neretina nùbbiu potrebbe indurre a formulare altra ipotesi: dal latino nùbilu(m)1=cielo nuvoloso. Nulla da eccepire sul piano semantico; qualcosa, invece, non quadra su quello fonetico; partendo, infatti, da nùbilu(m) dovrebbero essersi verificati i seguenti passaggi: nùbil(um)>*nublum (sincope di –i-)>nùbbiu. Ora, l’esito normale di bl nel dialetto neretino (ma anche in quello leccese) è gghi (per esempio: nègghia=nebbia, dal latino nèbula(m)>*nebla (sincope di –u-)>nègghia2; ssùgghia=subbia, dal latino sùbula(m)>*subla (sincope di –u-)>*sùgghia>ssùgghia (raddoppiamento di natura espressiva)3. D’altra parte non è un caso che nuvola deriva da nùbilam (a sua volta da nubes), femminile o neutro plurale con valore collettivo del precedente nùbilum, e che la voce neretina è tal quale quella italiana e non nùgghia). Il mancato sviluppo *nublu(m)>nùgghiu, perciò, dà ancora una volta ragione (al di là del mancato raddoppiamento di n- che, ad onor del vero, non sempre è chiaramente percepibile) al Maestro, con buona pace di coloro (sto appena cominciando a servirli, ne vedremo delle belle…4) che hanno la spudoratezza di metterne in dubbio l’acribia con affermazioni generiche e guardandosi bene dal contestare l’etimologia di un singolo, preciso lemma e ancor più dall’avanzare una loro proposta. Ma, si sa, la classe (a scanso di equivoci, quella del Rohlfs) non è acqua.
______
1 È l’opinione di Antonio Garrisi (Dizionario leccese-italiano, Capone editore, Lecce, 1990), che al lemma corrispondente afferma: “ dal latino nubi(l)um”, mettendo in conto, dunque, oltre a quello che dopo si dirà, il fenomeno inconsueto della sincope di –l– seguita da vocale; d’altra parte nell’intero suo vocabolario il fenomeno è evidenziato, questa volta correttamente, solo in quattro casi: mutu=molto, da multum, picolla=dislivello del terreno, da plica; sputare2=rivoltare, da svoltare; tapunara=talpa, incrocio fra talpone e topo (da notare che in tutti i casi –l- è seguita da consonante).
2 Il leccese nìgghia per il Garrisi (op. cit.) è “dal latino nica, il dim. nìcula>nicla, cl>gghi”; anzitutto questo latino nica, a quanto ne so, non esiste; se poi vado al lemma nicàre=nevicare, leggo: “dall’italiano antico nica e dal leccese nie”. A parte l’incongruenza di nica che una volta è latino un’altra italiano antico, faccio presente, anzitutto, che nicàre è dal latino medioevale nivicàre per sincope di –vi– e che nica (se esistesse) sarebbe da nicàre, come spiega da spiegare. E poi, se per assurdo fosse esatto quanto sostenuto dal Garrisi, semanticamente c’è una bella differenza tra la nebbia e la neve; ma quel che più conta è il fatto che nel dialetto salentino l’esito di cl è sempre chi, per esempio: chiaru dal latino claru(m), per cui il presunto nicla avrebbe tutt’al più dovuto dare nìchia. D’altra parte, lo stesso Garrisi nel suo altro lavoro Il dialetto leccese mostra di ben conoscere il fenomeno, se afferma che “i gruppi consonantici cl-, pl-, tl- si trasformarono in chi- e cchi” e quindi è inspiegabile come solo nel nostro caso ci sarebbe stato il passaggio cl>gghi.
3 Il Garrisi questa volta mette in campo un latino volgare *sùblia. Tutte le voci ricostruite (contraddistinte dall’asterisco) in filologia rappresentano l’ultima spiaggia, ma qui non era assolutamente necessario approdarvi sfracellandosi sul passaggio obbligato della fonologia, dal momento che l’esito in questione, come credo di aver dimostrato, è di una linearità e regolarità esemplari.
4 Non mi riferisco, anche se qualcuno a questo punto potrebbe pensarlo, all’autore più volte citato, che, d’altra parte, nella prefazione al suo lavoro dichiara che per “registrare i vocaboli, puntualizzandone l’aspetto fonologico sia dal punto di vista della ortoepìa che della ortografìa, risultante dalla più stretta aderenza alla pronunzia leccese-cavallinese,” gli è stato “di grande aiuto il vocabolario del Rohlfs”, anche se, per quanto riguarda l’etimologia, parla genericamente di “ausilio di dizionari etimologici”.
Ebbene, lo ammetto, benché agnostico, aconfessionale e ogni tanto anticlericale, anche io ho un rapporto particolare con un santo, precisamente un tale San Gasparre. Io, per la verità, non so molto di costui, anzi so nulla, costui invece di me qualcosa la saprà, se non altro conosce invero il mio indirizzo: già, altrimenti perché da sei/sette anni, ogni 15/20 giorni, mi ritrovo nella cassetta una busta lettera con mittente “Collegio dei missionari di San Gasparre”? Nella busta c’è sempre un foglio illustrativo sulle missioni e le attività dei frati di San Gasparre e una cedola semi-compilata per effettuare un versamento postale in beneficenza. Su quest’ultimo, oltre alle solite cose, come causale del versamento compaiono tre voci da crociare a scelta dell’offerente: missioni di San Gasparre, Santissime Messe, Opere di Evangelizzazione. Di queste ultime due manco a parlarne ovviamente, non pagherei mai un soldo per una messa né mi sognerei di mandare coi miei denari fraticelli in giro per il mondo a rompere i beneamati all’umanità con la loro evangelizzazione. Le missioni, invece, sempre cose buone sono no? E allora, che siano dei fraticelli o degli atei convinti a farle, a me poco importa se posso dar loro una mano.
Così, seguendo questo ragionamento, una volta che andavo con animo carico di mestizia a pagare non so quale bolletta e che, mentre facevo la fila in posta, mi ritrovai per caso tra le mani uno di questi bollettini di San Gasparre di cui avevo già piena la casa, non sapendo lì per lì che farmene dei pochi quattrini che mi restavano dopo aver pagato quanto dovevo ingentemente e urgentemente, decisi di fare un’offerta col resto. Non fu la mia certo un’opera di spirito pio e nobile, quanto piuttosto una questione di simmetria, un desiderio di completamento, come quando si cammina sulle righe dei mattoni senza mettere il piede dove caso vuole o come quando hai fatto trenta e allora, non si sa perché, bisogna far trentuno: e così feci dunque, senza un centesimo me ne tornai a casa e a San Gasparre mi affidai.
Da quel giorno il suddetto, avendo forse sopravvalutato il mio gesto e le mie intenzioni, non ha più smesso di farmi visita ogni due settimane al massimo e non ha mai scordato né il mio indirizzo né di inviare a questo il solito bollettino per il versamento (ma questo forse è un maligno dettaglio?). Ebbene, all’inizio la cosa mi dava non poco noia, sempre cartacce da buttar avevo infatti per casa, “sempre a me cerca sto San Gasparre” andavo rimuginando e lamentando, in special modo irritato e punto quando insieme al Santo a visitarmi veniva pure la Telecom, l’Enel e il resto di questa indesiderata trafila di gradassi. Una delle virtù dei santi però si sa è di certo la pazienza e, dopo anni da quella mia prima donazione, Gasparre non demordeva e continuava (così come fa ancora) a infilarsi nella mia cassetta della posta, tanto che, per farla breve, col passare dei mesi se trascorreva più tempo delle due/tre consuete settimane, alla fine iniziavo pure a preoccuparmi: “che sarà mai successo a Gasparre?!” andavo in quei giorni d’attesa meditando, tristemente temevo poi “non si sarà per caso dimenticato di me, dopo tutto sto tempo di carteggio epistolare!?”. E tanto mi struggevo oramai nell’attesa che quando, dopo non molto, arrivava lestamente San Gasparre, non potevo sopire la gaiezza che l’evento mi donava: “ecco -pensavo allora- per San Gasparre io ci sono, costui si che non mi dimentica e che crede ancora in me!”. Non vi dico poi la gioia quando, al ritorno da un lungo periodo d’assenza, ad accogliermi nella casa abbandonata da mesi pensate un po’ chi vi trovai? Beh, avrete inteso, era lui, il santo paziente che nel frattempo aveva persino indovinato sul mio ritorno e per festeggiare l’occasione, pensate, oltre ai familiari bollettini e ai foglietti illustrativi, m’aveva inviato pure un calendario del 2006! “Certo -pensai- poteva però aspettare un poco a farmi sto dono il santo!” (a mia discolpa si pensi che si era infatti in quei giorni ancora alla fine d’estate 2005!) ma a tali pensieri ingrati che subito scacciai vi sostituii la consapevolezza che per un dono ricevuto è sempre il momento giusto, per cui ringraziai sentitamente da parte mia e promisi che alla prima occasione mi sarei ricordato anche dell’amico santo e del suo gesto. Beh, non fu proprio così dato che di occasioni ne sono poi passate diverse ma, alla fine, poiché di bollettini di san Gasparre non resto mai sprovvisto in casa come potrete oramai congetturare, proprio in questo giorno che vi scrivo sono riuscito a mantenere fede alla promessa data. Certo non ho potuto ricambiare grandemente, il calendario non so quanto valore avesse ma fatto bene certo era. Ed ora a dirla tutta sono un po’ teso, io temo che la prossima volta San Gasparre, perdendo la pazienza, mi scriva due righe in più ben ricopiate sul foglio illustrativo accanto al VERSAMENTO: “ah morto de fame giusto cinque euro potevi mannà dopo tutto sto TORMENTO?!”
GLI OMOFONI DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (11): lièntu.
Il professore paragnosta.
_
_______
1 Professore, perché all’andata eri così lento ed ora te ne stai tornando in fretta?
2Da quella parte c’era una puzza di sudiciume che ti faceva morire.
3 Sarebbe stato meglio che fossi rimasto…
4 So che stai pensando…domani t’interrogherò.
Nel dialetto neretino lièntu può significare sia lento [come l’italiano, dal latino lentu(m)=pieghevole] che puzza di sudiciume: in questo caso la voce, per la quale il Rohlfs non propone alcuna etimologia, potrebbe essere dal latino olente(m), participio passato di olère=aver odore, con connotazione negativa, aferesi di o– (per errata discrezione dell’articolo: *l’olente>lo lente), normale passaggio –e->ie– (lente>liente) e consueta regolarizzazione della desinenza.
La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione
al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.
C.F. 91024610759 Conto corrente postale 1003008339 IBAN: IT30G0760116000001003008339
www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.
Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi: Gestione contatti e invio di messaggi MailChimp Dati Personali: cognome, email e nome Interazione con social network e piattaforme esterne Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo Servizi di piattaforma e hosting WordPress.com Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio Statistica Wordpress Stat Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo Informazioni di contatto Titolare del Trattamento dei Dati Marcello Gaballo Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com