Una visita a Melpignano, che non è solo Notte della Taranta

di Raimondo Rodia
la piazza di Melpignano
Melpignano è un piccolo paese della Grecìa Salentina, che negli ultimi dodici anni si è fatto conoscere per l’appuntamento agostano imprenscindibile per molti ” La Notte della Taranta “. Ma al di là del rito apotropaico, cosa sappiamo del piccolo centro ?
Nel territorio di Melpignano si segnalano un menhir nel centro urbano, su via IV Novembre, chiamato Candelora, ed un altro in periferia sulla via vicinale Vore in contrada Motta. Sul territorio si trovano, inoltre, un dolmen molto piccolo in contrada S. Sidero ed un altro sullo spartifeudo con Maglie.
Da visitare, il palazzo di Notar Zullino, realizzato agli inizi del XVI secolo, che reca sull’architrave un motto in latino alquanto interessante “ Stia in piedi questa casa finchè la formica abbia bevuto l’acqua del mare e la tartaruga compiuto il giro della terra ”.
Degno di una visita è anche il castello baronale del 1636, come risulta dalla iscrizione sul coronamento, sul quale, attualmente, si stanno effettuando lavori di restauro.
Nel paese segnaliamo anche palazzo Maggio, costruzione settecentesca simile al portale del castello di Martano .
Da visitare anche la masseria S.Aloia con torre colombaia.
Al centro di Melpignano è la bellissima piazza S. Giorgio, dove, oltre la chiesa matrice quattrocentesca con lo stupendo portale del XVI secolo e due iscrizioni, una latina ed una greca, con l’immancabile S. Giorgio che ammazza il drago lancia in resta. L’interno è a tre navate con alcuni affreschi presenti nell’abside, quasi ad imitare i polittici del medioevo.
particolare del portale della parrocchiale
La chiesa conserva, inoltre, una statua ed un dipinto di Nicolò Maiorano, vescovo di Molfetta, dotto grecista e già bibliotecario della vaticana e zio di Maiorano dei Maiorani, dotto teologo e grecista autore di molti codici greci, tra cui la Fisica di Aristotele. L’ opera rimase a Melpignano fino al 1606 mentre ora è conservata presso la biblioteca Ambrosiana.
Il resto della piazza è magnifica nella sua espressione con una serie di portici con fornici a tutto sesto, che la rendono unica nel contesto provinciale. Da segnalare accanto alla matrice la chiesetta di S. Anna ed il ristorante Kalì con il suo accogliente giardino d’estate e le sale in pietra locale voltate per un caldo rifugio invernale.
Più noti il convento degli Agostiniani e la chiesa della Madonna del Carmine, protagonisti da anni come vere e proprie quinte teatrali del concertone finale della ” Notte della Taranta “. Il monumento più interessante in paese resta il convento degli Agostiniani e la chiesa della Madonna del Carmine.
Il convento opera della seconda metà del 500 fu costruito per imporre, anche in questo caso, il rito latino nella zona. La mole dell’edificio costituisce, quasi sicuramente, il monumento in stile barocco più importante della zona. Il chiostro, ricostruito nel 1644, contiene diverse opere scritte in latino.
La facciata della chiesa della Madonna del Carmine, ricostruita nella seconda metà del ‘600 su disegni di Giuseppe Zimbalo, è un’ opera dell’ architetto di Corigliano d’Otranto Francesco Manuli, il quale terminò la parte superiore nel 1662. L’interno, con l’originale coro cinquecentesco, dopo decenni di abbandono è stato recentemente restaurato conservando in particolare opere scultoree, tra cui un altare dedicato a S. Nicola Tolentino del 1656 di Placido Buffelli di Alessano, uno dei grandi scultori del barocco salentino.

Il bersaglio morbido

di Pietro Gigante

Quel lunedì mattina i bambini dell’asilo infantile “Principessa Ildegarda” trovarono ad attenderli, come al solito, suor Cunegonda. Ma non un sorriso dal suo visone, non una parola di benvenuto o di incoraggiamento per la lunga settimana che iniziava. Anzi, agli squillanti “buon giorno” dei bimbi o a quelli sonori dei genitori che si sostituivano ai vergognosi figlioli seguiva in risposta un flebile monosillabo emesso a bocca chiusa ed intraducibile.

Le mamme si meravigliarono dello strano comportamento della suora, tornarono a casa prima; l’usuale logorroico scambio di notizie, quel mattino, non ci fu. Fu udito solo qualche dialogo fra signore avente per tema: l’umore delle nubili donne consacrate.

I bambini non dettero peso a quel clima, presero subito a giocare per impiegare al meglio il tempo prima della preghiera e delle attività scolastiche. Sembrava, anzi, che suor Cunegonda non udisse i naturali ed alti schiamazzi dei suoi alunni, non un richiamo, non un urlo per attirare l’attenzione ed imporre il silenzio.

Tutto quel chiasso, però, attirò l’attenzione della Superiora che si diresse verso l’aula trovando sull’uscio la consorella in lacrime, la quale, appena la intravide, finalmente aprì bocca ed affermò:

– Madre dovete far cambiare gli occhiali a suor Alfonsina, oppure diamo l’incarico della cucina ad un’altra sorella. Essa è troppo vecchia per questo incarico, non vede più, scrivete alla Madre Generale per mandarla all’ospizio.

Noci, via porta barsento, palazzo de luca-resta oggi sede dell’istituto delle figlie di sant’ Anna (ph Sandro Montinaro)

Cosa era successo?

Da successive indagini abbiamo appurato che: il giorno prima, domenica, suor Alfonsina, cuoca incaricata, aveva preparato il ragù usando abbondantemente la conserva che l’estate precedente la comunità aveva fatto in casa; era venuto un sugo denso e saporito, da leccarsi i baffi.

Quella saporita ambrosia era stata gustata da tutte: da chi aveva neri peli superflui fra il naso e la bocca ed alla punta del mento; da chi, rubiconda, aveva un viso sferico più liscio di una palla da biliardo e da chi, pur con viso emaciato, divorava tutto ciò che era commestibile, senza mai ingrassare. Ci fu chi fece la scarpetta; in particolare suor Cunegonda, approfittando del fatto che quel giorno c’era “deo gratias” (cioè c’era più libertà: niente lettura durante il desinare e dialogo sottovoce) si pulì bene il piatto usando forchetta e dita. Aveva da poco messo in bocca un bel pezzo di pane con la mollica tutta impregnata rossa, quando masticando, con le ganasce a caduta libera, incocciò in una pietruzza che le spaccò un dente, proprio un incisivo. Il male fu tremendo, l’imprecazione assente, ma uno sguardo fulminante colpì l’ignara cuoca che per la sua miopia non vide niente e non capì niente.

Suor Alfonsina aveva sempre cucinato, era andata via di casa perché la madre tesseva, a lei era assegnata la cucina e tutto il resto della casa, ma dopo il noviziato e già prima dei voti, invece, aveva solo la cucina.

Il pranzo di suor Cunegonda terminò lì, stoicamente resistette al dolore e nessuno capì per quale motivo la consorella avesse lasciato nel piatto le polpette d’uova[1], servite per secondo e avesse messo in tasca qualcosa.

La monaca non aveva in cella specchi per verificare il danno subito, si fidò della lingua che batteva sempre sul dente scheggiato, ferendosi a sua volta. Ella pensò che ormai la sua immagine era sfigurata e che tutte avrebbero guardato a quel mezzo dente, per giunta nero per la contusione.

Ma tornando al lunedì, la nostra storia prosegue così: la Superiora non capì niente; cioè non sapeva perché la suora piangesse e perché ce l’avesse tanto con la brava suor Alfonsina indicata con “essa”, né aveva notato alcunché di diverso sul volto della suora. Con la sua dolce voce e con un tono ancor più mellifluo disse:

– Sorella ci vuole pazienza, si confidi con me, il pronome essa si usa per indicare una cosa non una consorella, cosa è successo?

– È successo che per colpa di quell’Alfonsina sono sfregiata, mi ha fatto rompere un dente qui davanti – e lo mostrò con l’indice della mano destra – perché m’ha fatto mangiare una pietra, questa, Madre! – e mostrò il minuscolo sassolino.

La Superiora vide il dente scheggiato ad un angolo, perché dall’insieme di un giallo compatto emergeva un angolino bianco, e guardò anche l’oggetto, causa della differenza cromatica dei denti, quindi prendendo le mani della suora nelle sue disse:

– Sorella, perdoni come ci ha insegnato nostro Signore; forse quella pietruzza stava nel sale e non si è sciolta nell’acqua della pasta, lo diremo al tabaccaio quando andremo a comprare l’altro sale, e, per il dente, cerchi di lavarseli con il bicarbonato, se non ha lo spazzolino, gliene do io uno, così non si noterà la differenza di colore; altrimenti parleremo con il nostro medico.

Suor Cunegonda che voleva sempre avere l’ultima parola pur nel rispetto della gerarchia (chi ha il grado più alto una Superiora o una Direttrice della Scuola dell’Infanzia?), chiuse il discorso con:

– La pietra stava nel ragù, e nel sugo si mette il sale fino dopo averlo pestato nel pisasale[2], Madre i bambini aspettano, sia lodato Gesù e Maria!

I bambini mentre giocano, pur intenti in questo loro lavoro, hanno cento occhi e cento orecchi. Uno di essi, che aveva visto la pietruzza, si avvicinò alla suora e chiese:

– Mi dai la pietruzza perché mi serve? Io e mio cugino le raccogliamo e le conserviamo perché vogliamo fare come i nostri fratelli più grandi che la stagione passata[3] le lanciavano dalla nostra terrazza nei piatti di salsa che stavano al sole in quella dirimpetto. Mio fratello ha vinto per due a uno! È bello vedere i sassolini bianchi che affondano piano piano in quei piattoni tutti rossi.

Le due monache si guardarono in faccia; il bambino ebbe uno scappellotto dalla superiora che divenne più amara del fiele; il padre dell’alunno fu convocato per quanto prima possibile, tanto abitava di fronte…

GARE-GENTI-TOPI


[1] Per dispinguerle da quelle con la carne; in questo caso si impasta con le uova formaggio, pan grattato e aromi sminuzzati, quindi si friggono.

[2] Forma dialettale per indicare il pestello del sale.

[3] L’estate scorsa. In dialetto la stagione per antonomasia è la stagione calda.

Schifiltosi, incoerenti, ingrati e pure ignoranti…

di Armando Polito

Prima che la chimica applicata all’agricoltura facesse strage di parassiti e simili era tutt’altro che rara fino a vent’anni fa la presenza nelle nostre campagne delle cozze munaceddhe. Una ghiottoneria da intenditori che, tuttavia, non interessa al sottoscritto. Probabilmente le mie papille gustative si sono evolute a tal punto da diventare incompatibili col gusto del nostro animaletto; ma sono (anzi, ero) rimasto un primitivo sotto un altro aspetto, quello della caccia e della predazione, se a partire dalla metà di maggio, quando la munaceddha s’interra, puntualmente mi recavo alla sua ricerca. Per lo più bastava rivoltare le pietre presenti in un campo e, laddove si notava una leggera protuberanza del terreno (lu cappùcciu), a meno di due centimetri c’era il rifugio estivo della nostra preda. Bastava con la punta di un coltello far saltare quella specie di volta e immediatamente era visibile, per lo più, l’opercolo bianco che insieme col colore del guscio ha dato il nome alla munaceddha (piccola monaca). A quel punto la sua estrazione dal rifugio era un gioco da ragazzi e, messala da parte, si andava a rivoltare un’altra pietra per ripetere l’operazione. Per lo più la presenza di cappucci era direttamente proporzionale allo sviluppo della superficie della pietra, sicché non era raro trovare sotto una lastra di adeguata estensione anche sette o otto cappucci. E una di quelle lastre mi resterà impressa per tutta la vita. Era lì, ad un passo da me e nel rivoltare altre pietre mi ero ripromesso di chiudere la giornata in bellezza. Quando decisi di farlo sollevai la lastra abbastanza agevolmente perché nonostante le sue dimensioni era piuttosto sottile e, con un gesto collaudato, la ribaltai. Rimasi all’istante paralizzato da quello che si presentò ai miei occhi: una topolina stava allattando i suoi piccoli. Dopo la paralisi dei primi istanti subentrò in me lo smarrimento e la preoccupazione di rimediare al più presto possibile. La cosa incredibile era che nel frattempo la topolina mi guardava fisso negli occhi e continuava imperterrita la sua attività. Eroismo di madre o consapevolezza che non volevo assolutamente fare del male a lei e ai suoi figli? Evitando movimenti bruschi mi inginocchiai, presi due pietre e le collocai alla distanza giusta perché fungessero da brevi pilastri; poi, strisciando fino alla lastra, la sollevai con circospezione e la rimisi al suo posto. Un rapido sguardo, un “auguri!” silenziosamente rivolto all’intera famiglia, e mi allontanai. Fu l’ultima volta che andai a cercare munacèddhe

In onore di quella famiglia da me salvata e per la lezione da essa ricevuta spenderò qualche parola su quest’animaletto che alle signore (e non solo…) procura qualche ribrezzo. Lo farò a modo mio, cioè privilegiando, come al solito, l’aspetto filologico.

Comincerò dall’italiano:

topo è dal latino *taupu(m), dal classico talpa=talpa; il femminile topa è sinonimo di vulva. Lo stesso destino ha subito sorcio [dal latino sòrice(m), connesso col greco hurax (l’aspirazione iniziale è stata soppiantata in latino da s-], dalla cui forma letteraria obsoleta sorco è derivato sorca, sempre sinonimo di vulva. La connotazione negativa raggiunge il suo apice in zoccola [probabilmente da un latino *sòrcula(m), diminutivo femminile di sorex/sòricis, del quale il precednte sòrice(m) è il caso accusativo] che indica non solo il topo di fogna ma anche la prostituta, continuando nei nessi topo d’albergo, topo d’appartamento e far vedere i sorci verdi.

Passo ora al dialetto neretino: sòrice è tal quale dal citato latino sòrice(m); zzòccula ha lo stesso etimo dell’italiano zoccola.

Non mi soffermo nemmeno un attimo sulla prima parola del titolo (schizzinosi), ma, a dimostrazione della seconda (incoerenti), non posso non ricordare Il topo di città e Il topo di campagna, una delle più note favole di Esopo (VI secolo a. C.), il successo nazionale di Topo Gigio (il pupazzo) e quello universale di Topolino (il personaggio dei fumetti) e, rinnovato nel tempo, della Topolino (l’auto): tutte cose che non fanno schifo a nessuno…

E poi: l’italiano muscolo è dal latino mùsculu(m), diminutivo di mus=topo, per i movimenti guizzanti; alla stessa idea è connesso ratto [dal latino ràpidu(m)].

Non è finita: sorcino è un aggettivo che in zoologia indica il colore cenere scuro con le estremità nere del mantello equino e come termine comune è usato per ciò che ha il colore del sorcio; nel XVI secolo era una voce popolare per indicare il soldato di fanteria, probabilmente dal colore grigio del suo cappotto; Renato Zero adottò involontariamente la stessa voce (che al plurale si sarebbe pure prestata per indicare i componenti di un corpo non più militare ma musicale) per indicare i suoi fans soltanto perché negli anni ’80 in sella ai loro motorini in delirio per lui gli sembrarono tanti piccoli sorci. Cosa dire, poi, del topo di biblioteca (con riferimento all’uomo l’accezione, secondo me, non è completamente negativa)?

Per quanto riguarda la terza voce del titolo (ingrati) ricordo la cavia (dal portoghese brasiliano çaviá, letto erroneamente senza cediglia, dal tupì saviá=topo), roditore largamente usato nei laboratori scientifici come animale da esperimento e poi, per estensione, animale o persona usata come soggetto di esperimenti scientifici e non solo.

Quanto all’ultima (ignoranti), lascio spazio ai giornali:

 

 

Tacchino all’arancia

di Pino de Luca
Quando il numero di ricordi comincia a sorpassare quello dei progetti significa che gli anni che s’appoggiano sulle spalle sono più di quelli che spingono sul petto.
L’evidenza di ciò è determinata dai luoghi in cui si rincontrano volti noti anche se frequentati di rado. Da giovani ci si incontra ai matrimoni, da maturi ai funerali.
Nelle nostre terre vigeva, quando un parente si stancava di masticare, la nobile tradizione del “banchetto del consòlo” o, come si dice dalle mie parti, cùnsulu. Adesso non è più tempo e però, abitando in un piccolo paese dove la creanza ha ancora cittadinanza, il banchetto non si compie ma si regalano alimenti in ragione del grado di parentela.
Sicché, avendo perduto una vecchia zia, pace all’anima sua, la mia abitazione è stata omaggiata di frutta, caffé, e … fesa di tacchino, con la formula tipica che s’usa in questi casi: salute a bui e paraisu a iddhra e la generosità dimensionale tipica delle popolazioni mediterranee.
E così ti ritrovi una fesa di tacchino da quasi due chili e le primizie dell’agrumeto, ‘ccote moi moi, dalla buccia ancora bicolore e dal sapore leggermente acidulo.
Il lutto recente e la tradizione non permettono la condivisione festaiola e quindi bisogna industriarsi all’edibilità del fresco per rispettare la tradizione, e allora consultiamo gli antichi testi che, ovviamente, non avranno riferimento nel tacchino ma in qualcosa di simile: il cappone. E infatti la proposizione odierna riguarda una rivisitazione medievale tenendo presente anche la provenienza della bestia. Per fortuna è il mio giorno libero e ho il tempo sufficiente perché per il tacchino bisogna attrezzarsi alla cottura lunga.
Sistemati gli ingredienti: porri, arance, alloro, miele di mandorlo, sciroppo di acero (parentela d’oltre oceano), sale e OEVO, così procediamo: mescolare il succo delle arance con la scorza tritata finemente, il miele e lo sciroppo d’acero. Sulle quantità io mi regolo in questa maniera: per ogni arancia un cucchiaio di miele e uno di sciroppo, poi dipende da quanto sono dolci le arance, le mie sono ancora un po’ asprigne.
Con questa salsa abbastanza liquida “larderellare” la fesa. Si tratta di incidere con un coltellino un taglio profondo e versare in esso un cucchiaino di salsa. Ogni taglio si copre con una foglia di alloro e si lega con lo spago da cucina. Alla fine otterremo una specie di salsicciotto legato come un arrosto.
In una casseruola, se possibile di coccio o dal fondo pesante, fare soffriggere abbondante porro in abbondante OEVO, quando il porro è appassito ma sempre bianco, far rosolare la fesa da ogni parte, assunto il giusto colore abbassare la fiamma, regolare di sale, bagnare con la salsa rimasta, coprire e lasciar cuocere.
Di tanto in tanto rigirare la fesa in modo che sia sempre umida in ogni parte, dopo un’oretta di cottura possiamo spegnere il fuoco e lasciare intiepidire prima di affettare.
Si accompagna deliziosamente con una insalata di arance e olive nere che vi racconto un’altra volta.
Dal frigo tirare fuori quella bottiglia di Masserei, rosato di negramaro in purezza delle cantine Schola Sarmenti di Nardò, abbastanza fresco da sposarsi con gli agrumi e abbastanza robusto da reggere la carne e assaporato un boccone di fesa, si beva, tutti insieme, un sorso di vino recitando la frase di rito: paraisu a iddhra e salute a nui.

Curiosità antiquarie da una biblioteca conventuale (3)

Sono un laureato in diritto e ora ve lo dimostro…

di Marcello Gaballo e Armando Polito

 

 

Oratio mentalis fieri solet per haec quatuor capita

nempe per C. A. O. P.1 per C. id est contemptus sui et

ignobilitas, magnitudo dei et eius nobilitas et circa haec

meditaberis multa prout spiritus sanctus dabit et per

 A id est Gratiam actiones, redendo2 ac agendo Deo

Non se ne parla: la dipendenza dalla réclame

Eliseo Locci, Il Banditore

di Rocco Boccadamo

Nella classifica dei più indicativi comparti dell’economia, il settore della pubblicità ha ormai raggiunto, incredibilmente e sbalorditivamente, una posizione di tutto rispetto, sebbene, sino a cinquanta/sessanta anni fa, esso si poneva come una componente di pochissimo conto.

il riparatore degli oggetti in creta rustica

 

Basti pensare che nel 2006, secondo scrupolose analisi statistiche compiute dall’Università “La Sapienza”, le aziende italiane hanno investito in iniziative pubblicitarie e di comunicazione più di 19 miliardi d’euro, corrispondenti all’1,2% del prodotto interno lordo del Paese. Per l’esattezza, 9,5 miliardi attraverso i mezzi classici (quotidiani, periodici, TV, radio) e 9,8 miliardi sotto forma di componenti di comunicazione (direct reponse, promozioni, relazioni pubbliche, sponsorizzazioni, internet).Attualmente, si ha motivo di stimare la “voce” nell’ordine di 25/30 miliardi.

Alla strabiliante ascesa del business in questione, ha concorso, fuor d’ogni dubbio, l’abitudine, l’acquiescenza, l’assuefazione, da parte della popolazione, di qualsivoglia età e fascia di reddito, indistintamente ad ogni latitudine, tanto che, sul piano di condizione sociale e di fatto acclarata, non sembra azzardato parlare di vera e propria dipendenza dalla réclame.

Sul tema, ci sarebbero infiniti mezzi e modi di esemplificazione, osservazione, paragone e commento.

un manifesto di Johann Georg van Caspel del 1899

Qui, si ritiene di soffermare l’attenzione, in particolare, su un preciso scenario, uno spettacolo ricorrente e plateale.

Quando la nazionale di calcio italiana gioca in trasferta, qualunque sia la località e il continente, il perimetro di quegli stadi appare, se non

Olio d’oliva salentino. Tra i più utili doni della natura

L’olio del Salento protegge dal cancro e dall’infarto

 

di Antonio Bruno

I polifenoli sono molecole antiossidanti, hanno la capacità o l’abilità  di catturare e quindi bloccare i RADICALI LIBERI, chiamati anche “teppisti cellulari” per la loro capacità di attaccare il DNA (provocando le mutazioni genetiche) e i grassi polinsaturi (compreso il colesterolo LDL “cattivo”, che in tal modo genera l’aterosclerosi) e l’olio del Salento leccese è ricchissimo di questa sostanza sconosciuta a tutti. In questa nota i motivi che devono informarci nel consumo dell’olio d’oliva del Salento leccese.
Una telefonata da un amico, dobbiamo parlare di lavoro e lui è in campagna. Mi da appuntamento sulla San Pietro in Lama (Le) – Lecce al distributore di benzina. Ci vado e lui arriva con i suoi due figli, mi saluta e insieme andiamo in azienda.
I proprietari abitano in azienda e hanno circa 500 alberi di olivo di 20 anni circa, le varietà sono equamente divise tra leccino, cellina (saracena) e oliarola leccese. Quell’uomo e quella donna che vivono in questo pezzetto di Paesaggio rurale non fanno raccogliere, da quando l’hanno acquistato, tutte le olive, non gli conviene, ecco perché hanno chiamato una squadra di raccolta che in 6 ore hanno messo nelle cassette 20 quintali di olive circa raccolte da ottanta alberi. Avevano raccontato che gli altri anni avevano fatto raccogliere le olive dagli alberi di leccino, quest’anno invece avevano optato per una raccolta dagli alberi di cellina (saracena) e oliarola leccese.
La produzione media degli ottanta alberi è stata di 25 chili ad albero.
Il frantoio mobile noleggiato ha la capacità lavorativa di un quintale di olive ad ora e quindi sono state necessarie 20 ore di lavorazione per molire le olive. Dalla molitura si sono ottenuti 2,5 quintali di olio extra vergine con una resa del 12,5%.

Un dato caratterizzante della olivicoltura del Salento leccese è l’estensione colturale media che è inferiore ai 2 ettari per circa l’ 80% delle aziende con circa il 40% inferiori ad 1 ettaro ed è per questo che l’utilizzo della raccolta meccanizzata è la soluzione che le squadre di raccolta stanno adottando.

La  squadra chiamata per raccogliere le olive di questa azienda dispone di un trattore con un compressore e tre pettini con asta telescopica. Il compressore permette di utilizzare i sistemi pneumatici di potatura. Gli agevolatori portati dall’operatore permettono di non utilizzare le scale per raccogliere il prodotto in alto e risultano pienamente compatibili con il criterio di limitare l’altezza delle piante ai 4 metri. Vincoli sulla sicurezza hanno costretto all’abbandono delle scale con il raccoglitore a terra. La squadra che ha lavorato sei ore ha avuto un corrispettivo fatturato di 400 Euro.

Le olive sono state riposte in delle cassette e portate davanti al frantoio mobile disposto davanti al portico dell’abitazione. L’operatore prima di mettere nella tramoggia le olive raccolte provvede alla defogliazione, le olive vengono poi sottoposte in  automatico al lavaggio, molitura, gramolazione e quindi alla separazione e al filtraggio. Alla fine si è ottenuto un prodotto che ha stupito il produttore. Infatti avendo negli anni precedenti molito le olive della varietà leccino, che è meno ricca di polifenoli, sostanze che sono tra i componenti più preziosi dell’olio vergine di oliva, si era abituato a un gusto meno amaro dell’olio! Ma c’è da ricordare che l’unico fra i grassi vegetali a essere ricco di polifenoli è l’olio di oliva vergine! Quindi c’è una certezza di provenienza se ci sono i polifenoli, infatti in quel caso è un olio d’oliva vergine o extra. I polifenoli determinano il caratteristico aroma fruttato e il gusto piccante e amaro, e nello stesso tempo, siccome sono dotati di un elevato potere antiossidante, sono un vero e proprio alimento funzionale.

Ma questa capacità antiossidante totale dei poilifenoli che cos’è?
Perché è meglio abbandonare il consumo dell’olio delicato per usare esclusivamente l’olio vergine piccante perché ricco di polifenoli?
Siccome i polifenoli sono molecole antiossidanti, hanno la capacità o l’abilità  di catturare e quindi bloccare i RADICALI LIBERI, chiamati anche “teppisti cellulari” per la loro capacità di attaccare il DNA (provocando le mutazioni genetiche) e i grassi polinsaturi (compreso il colesterolo colesterolo LDL”cattivo”, che in tal modo genera l’aterosclerosi).

Quell’olio di ieri è un farmaco venuto fuori dalla terra di un proprietario che invece vuole un prodotto che non gli fa bene o che, per dirla meglio, ha nel contenuto di grassi la sua particolarità. Il mio amico Angelo tentava di spiegare queste cose al proprietario insoddisfatto che non vuole abituare il suo gusto al piccante dei polifenoli che lo proteggerebbero dal cancro e dall’infarto, un proprietario che all’elisir di lunga vita che la sua terra gli dona, e per il quale non chiede in cambio nulla, preferisce il gusto morbido e piatto di un olio non meglio identificato e di provenienza non certa.

Questa è la situazione delle persone del Salento leccese che usano l’olio d’oliva. Uomini e donne di questo territorio non sanno cosa sia un olio genuino che fa strar bene, preferiscono quell’olio che non ha queste caratteristiche e che quindi, potrebbe essere un miscuglio, blend o melange di olii che non sono d’oliva perché l’unico tra i grassi vegetali ad avere i polifenoli è l’olio vergine d’oliva.

Io mi chiedo e chiedo a te che mi leggi come facciamo a fare gustare e apprezzare agli Umbri o ai Toscani che hanno un olio piatto e con pochi polifenoli il nostro olio che invece è ricco ed è un vero e proprio elisir di giovinezza se nemmeno noi del Salento leccese sappiamo cosa sia un olio buono e genuino in quanto quando ci danno l’olio proveniente dall’oliarola leccese o dalla cellina (saracena) senza taglio non riusciamo ad apprezzare il piccante dei polifenoli?

Né è pensabile che siano gli assaggiatori, quei pochi che imparano a distinguere i diversi olii, ad essere gli ambasciatori dell’olio del Salento leccese buono, piccante, saporito e genuino perché molto ricco di polifenoli.

Io, Angelo Amato e tanti altri mangiamo olio piccante ricco di polifenoli, olio del Salento leccese ottenuto dalle piante di oliarola leccese e di celline (saracene), olio genuino! Noi e tanti altri  quando ci propongono un olio che non presenta il piccante dei polifenoli, facciamo un atto potentissimo: non l’acquistiamo!

Abbiamo un potere immenso! Acquistare un prodotto è il risultato di un successo di chi lo fabbrica, solo così chi non riesce più a vendere olio povero di polifenoli si metterà a produrre olio buono e genuino com’è l’olio del Salento leccese.
Si tratta di capire, di provare e di acquistare solo l’olio piccante perché così saremo sani, difesi dal cancro e dall’infarto frutto del consumo dei grassi senza i polifenoli.

Un’ultima annotazione circa i costi di produzione tra raccolta e trasformazione l’olio degli amici di San Pietro in Lama è venuto a costare 3 Euro, ora mi chiedo e vi chiedo: come fanno a vendere l’olio nella bottiglia negli Ipermercati a 2,5 Euro? Chieditelo anche tu.

Anonimi e desueti paracarri nel centro storico di Brindisi…

di Antonio Mingolla*

Percorrendo alcune vie del centro storico di Brindisi solo pochi osservatori più attenti possono notare la presenza di massicci blocchi di pietra, solitamente in marmo, aventi la funzione, fino a diversi anni fa, di proteggere gli angoli e i margini dei palazzi dai carri che percorrevano queste antiche vie, chiamate nel medioevo ruè. Ma quasi nessuno è a conoscenza che questi blocchi affondano le proprie origini in tempi molto più remoti. Infatti in molti casi si tratta di antichi resti romani.
Fra i tanti si possono riconoscere cippi marmorei e rocchi di colonne, a volte scanalati, come ad esempio quello che si trova sull’angolo di un palazzo dei primi del ‘900 di Via Villanova, sul quale si nota il foro centrale, tipico dei rocchi che formano il fusto delle colonne.

In altre parti della città possiamo notare altri rocchi , questa volta completamente lisci, come ad esempio quello che si trova ad angolo tra via Montenegro e il Lungomare Regina Margherita, oppure l’altro posto all’angolo della chiesa Medievale di Sant’Anna.
Altri paracarri sono cippi marmorei, come quello esposto nel cortile del Museo Archeologico Provinciale “Francesco Ribezzo” di Brindisi, sul quale vi sono delle iscrizioni latine.
Un tempo, ben lontano dal consumismo odierno, i materiali “pregiati”, come il marmo, proveniente solitamente dall’oriente, non erano cosi facili da reperire. Proprio per questo motivo nel medioevo molti edifici furono costruiti riutilizzando i materiali provenienti da resti romani.
Pertanto non c’è da meravigliarsi se fra un blocco e l’altro di molti monumenti medioevali brindisini si intravedono marmi romani.
E’ un esempio di reimpiego il Tempio di San Giovanni al Sepolcro, dove si possono ammirare elementi architettonici – decorativi come: capitelli, colonne, trabeazioni ecc. , di epoca romana. Per la realizzazione di uno dei leoni stilofori posti all’ingresso fu usato un cippo marmoreo. Nella parte posteriore del leone, infatti, si può notare una parte di epigrafe in latino.
Anche alcuni resti marmorei dell’abbazia di Sant’Andrea, ora custoditi nel museo, mostrano segni di riutilizzo, come ad esempio un capitello in stile romanico realizzato su un epigrafe romana visibile nella parte posteriore. Come noto, nel 1485, quando venne distrutta l’abbazia di Sant’Andrea dell’isola per costruire il castello Alfonsino, molti elementi decorativi marmorei di epoca romana, riutilizzati nel medioevo per la costruzione dell’eremo, vennero trasportati in città. Questi furono reimpiegati ancora una volta per edificare la chiesa del Carmine (distrutta nel XVIII secolo) che si trovava sull’omonima via.
Altri reperti sono ancora visibili, come parte di un architrave decorato con foglie di acanto spinoso inglobato nel Calvario, il grande blocco di marmo che giace al margine di porta Mesagne, un tempo con funzione di paracarro dell’ arco stesso, probabile base per un leone stiloforo messo a guardia del portone di ingresso della chiesa di San’Andrea.

Piccole riflessioni scaturite dal mio peregrinare tra vicoli e stradine della parte più antica di Brindisi. Resti di antiche colonne che un tempo sorreggevano il tetto di templi o sontuose dimore che forse hanno avuto l’onore di ospitare illustri personaggi: Giulio Cesare, Pompeo, Ottaviano, Marcantonio,Virgilio, Orazio, Traiano, Cicerone, Lenio Flacco, Marco Pacuvio… non lo sapremo mai con certezza.

*Gruppo Archeologico Brindisino

Impressioni di un viaggio settembrino nella Terra d’Otranto

ph Anna Sterpone

di Lucia Gualandi

Un viaggio organizzato nel Salento, parte in treno e parte in bici, poche settimane fa, mi ha particolarmente colpita e ben volentieri vorrei condividere alcune sensazioni con i lettori di questo blog.

Prima di tutto i paesaggi bellissimi, fino ad allora per me sconosciuti, che l’organizzazione ha messo sotto i nostri occhi:

Nelle Murge gli uliveti curati come giardini zen, con ulivi centenari dai tronchi attorcigliati e le piante gigantesche di fichi d’India; le stradine delimitate dai muretti a secco, che separavano i campi e sulle quali era bellissimo pedalare. Come non ricordare i dolcissimi  fichi che mangiavamo lungo la strada, allietando la fatica delle salite.

ph Anna Sterpone

La valle d’Itria, da mozzafiato, con estensione di campi accuratamente coltivati e deliziosamente punteggiata dai  trulli, come particolarmente offriva la vista da Cisternino.

La costa del Salento  con le sue acque cristalline, tra piacevolissime ed inaspettate  scogliere, nelle quali ho fatto bellissimi bagni. Pittoresche insenature, misteriose grotte, inusuali torri costiere pluricentenarie. Un territorio incontaminato la cui terra ha gradazioni cromatiche uniche, tipiche di questa terra baciata dal sole, che offre sapori particolarissimi, tra i quali indimenticabili quelli offerti dal panzarotto,  fritto o rustico, che mangiavamo a pranzo.

ph Anna Sterpone
ph Anna Sterpone

Impossibile elencare le bellezze delle tante cittadine e borghi visitati, ma non posso esimermi dall’accennare a quei luoghi che ancora porto dentro di me:

  • Matera: le abitazioni rupestri sono segno tangibile di una vita difficile ed integrata negli anfratti della natura; ma anche il ricordo di quello che è stato il cambiamento importante che è avvenuto in questa zona con la Repubblica Italiana, quando  De Gasperi in  particolare si occupò e si preoccupò, non compreso, di questa condizione di vita.
  • Gioia del Colle con il castello di Federico II che ci ricorda il suo genio e l’importante contributo dato a  questa terra.
  • Alberobello e i suoi trulli, chiaro segnale della “antropizzazione” di questa terra dura e bellissima (il vocabolario dà questo significato: antropizzazione n.f. [pl. -i] trasformazione delle caratteristiche di un territorio o di un paesaggio precedentemente intatto per effetto dell’intervento umano ). Deriv. del gr. ánthropos ‘uomo’.
  • Locorotondo: eccezionali i suoi vini e le sue cantine… il primitivo e il negroamaro…
  • Cisternino e Ostuni, città bianche ad impianto arabo, dai vicoli suggestivi ed affacciati sulla valle.
  • Gallipoli, la “città bella” (kalè polis in greco), una rocca sul mare, avamposto sullo Ionio  e antico presidio commerciale che ha conosciuto la fortuna con il commercio dell’olio lampante fabbricato nei frantoi ipogei.
  • Copertino e Galatina meta di tutti i tarantolati  per le  quali ho il rimpianto di non essere riuscita a visitare a fondo il castello di Copertino e la chiesa di Santa Caterina a Galatina
  • Otranto: capitale del Salento in epoca bizantina  e porto più orientale d’Italia, con il suo centro storico le sue chiese. La cattedrale, il cui splendido pavimento purtroppo era coperto, e la chiesa di San Pietro, segno tangibile della presenza  greca e della sua influenza nell’area.
  • San Nicola di Casole, del quale abbiamo solo visto da lontano il luogo dove  era situato il monastero basiliano: i suoi resti sono su un fondo privato e inaccessibile e così ci siamo limitati ad immaginare,  ricordando l’ importanza storica  culturale e religiosa dello scriptorium monastico, ponte fra Occidente e Oriente, fra cultura cattolica  latina e  greco ortodossa, centro  da cui si irradiò la cultura bizantina nell’Italia merdionale,  in cui si formavano i giovani e in cui si preservava la cultura greca o “ grica”, che ha segnato in modo indelebile il Salento.
  • Lecce, detta Firenze del sud, con le sue chiese barocche (in particolare  Santa Croce), veri ricami in pietra leccese, con l’arte della cartapesta,  i suoi locali anima della vita notturna della città… e il pasticciotto con il caffè in latte di mandorle.
ph Anna Sterpone
ph Anna Sterpone
ph Anna Sterpone
ph Anna Sterpone

Ed infine,  ma non meno importanti,  voglio ricordare  gli incontri con le persone che sempre si sono dimostrate accoglienti, disponibili e gentili:  l’accompagnatore, di origini leccesi, che ci ha trasmesso il suo amore per la sua terra, i suoi amici che ci hanno accompagnato nelle serate al suono della pizzica,  gustando l’ottima cucina pugliese e tutti coloro che ci hanno mostrato i tesori artistici e le tecniche produttive locali.

Rimane il ricordo delle risate che ho fatto ed il senso di benessere che ho avuto in quei giorni nonchè l’eco del vocìo dei miei compagni di viaggio – in particolare una-  che gridavano sempre “ che bello… che meraviglia…”.

Ci tornerò…

ph Anna Sterpone

Salento terra di Santità. Beato Giulio da Nardò


di frà Angelo de Padova

È da secoli chiamato così “Beato Giulio” e  aspetta la glorificazione in terra, come quella che già gode in cielo.  Nacque nel XVI secolo a Nardò (Le) da nobile famiglia, la quale secondo le consuetudini del casato, lo fece educare nelle lettere e nelle scienze e musica, a cui il giovanetto era particolarmente inclinato. Divenuto giovane, si raccolse nella preghiera e nella meditazione, per decidere la scelta della sua vita; illuminato dallo Spirito Santo, distribuì i suoi beni ai poveri, lasciò la casa paterna e la sua città e vestito con il saio del pellegrino, si avviò verso la Campania, per trovare un posto adatto per il suo desiderio di solitudine.

Dopo un certo tempo, lo trovò in una piccola valle nel massiccio del Partenio in Irpinia e insieme ad un altro eremita di nome Giovanni, prese a condurre una vita di mortificazione, nella contemplazione, dediti alla preghiera. La loro presenza e santità di vita, attirò molte persone, compreso i nobili Carafa, feudatari del luogo, i quali ammirati, fecero costruire per i due eremiti un eremo e una chiesa dedicata alla Vergine Incoronata. A lavori ultimati Giulio e Giovanni si adoperarono affinché l’eremo e il nascente Santuario, fossero affidati ad un Ordine religioso e il papa Gregorio XIII vi mandò i Benedettini Camaldolesi.  Ma ormai Giulio era diventato troppo noto e in più si prospettava la possibilità che diventasse Superiore; allora per ritornare nel nascondimento e sconosciuto a tutti, lasciò l’eremo e andò a bussare all’abbazia di Montevergine, non tanto lontana, accolto con

Piccoli seminaristi crescono (ultima parte)

Con questo di oggi si conclude l’itinerario che per mesi ci ha proposto il caro Alfredo. Pagine di vita, inedite, scritte con pazienza, e forse anche con sofferenza, nel rivangare un trascorso che ci ha tenuti con il fiato sospeso. Grazie Alfredo, a nome di tutti i lettori, che senz’altro hanno apprezzato il lungo e meditato lavoro di composizione di queste pagine vibranti. Non potevi concludere meglio di come hai fatto oggi, con quest’ultima emozionante e delicata parte, che con te dedichiamo volentieri alla memoria dei tuoi cari e di tua madre in particolare. Grazie ancora!

 

Civita Castellana, estate 1965: un seminarista verso la “libertà”.

(Diciottesima e ultima parte)

 

di Alfredo Romano

La casa di compagna dove alloggiavano i miei era distante 1 km da Civita Castellana, paese di 16 mila abitanti. Non era una casa comoda, era stata ricavata da una stalla. La casa lasciata a Collemeto, al confronto, era una reggia. Ma si sapeva che si stava lì per lavorare e si stringevano i denti. Tutta la famiglia era dedita alla coltivazione, anche i miei fratellini: Aldo di 14 anni, Angelo di 13, Eugenio di 11. Dopo il lavoro dei semenzai (le ruddhe), nei mesi di maggio e aprile, i miei avevano trapiantato 150 mila piantine su un terreno di 1 ettaro e mezzo. Nel mese di giugno, quando arrivai, le piantine erano già cresciute e mancavano due settimane all’inizio della raccolta. Nel frattempo, c’era da pulire e sarchiare tra i filari. Naturalmente, benché seminarista, non ero esentato dal lavoro, né mi sarei mai sognato di tirarmi indietro. In qualche modo era anche una novità per me e la fatica manuale mi distoglieva dai tanti e ingombri pensieri. Sul campo, ovviamente, non portavo la tonaca, la qual cosa mi faceva assaporare la vita di una persona normale. Certo non potevo dimenticare i miei obblighi di seminarista, come andare a messa tutte le mattine e svolgere le mie pratiche di pietà. Unico mezzo di locomozione era una bicicletta “scassata”, che usavo per andare alla messa delle otto. Nella mia prima uscita per andare in città mi presentai al parroco della Cattedrale don Silvano Francola. Dopodiché anche al vescovo mons. Roberto Massimiliani. Dico subito che fui preso a cuore sia dall’uno che dall’altro. Si dà il caso che nel viterbese, come nel Centro e Nord Italia era già cominciata la crisi delle vocazioni, fenomeno allora ancora sconosciuto nel Sud. Sicché fui il benvenuto fin dal primo giorno, venivo considerato come manna dal cielo. Sapendo don Silvano che non ero mai stato a Roma, decise di dedicarmi un giorno intero per farmi conoscere la Città Eterna. Nella sua Volkswagen alla volta di Roma

Una voce sfuggita al Rohlfs

Quella t in più.

di Armando Polito

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Spratticàre nel dialetto neretino significa impratichire, rendere esperto. La voce stranamente non compare nel dizionario del Rohlfs ma pure ad uno scalcagnato come il sottoscritto è facile individuarne l’etimologia: la voce risulta composta da s– intensiva (dal latino ex) e da pratticàre (il neretino usa praticare, tal quale la forma italiana) che dal XIII secolo fino alla prima metà dell’800 si alternò nell’uso, insieme con prattica, rispettivamente a praticare e a pratica.

In alto prattica in tre frontespizi rispettivamente del XVI°,  XVII° e XVIII° secolo.

Sicuramente, però, prattica è la giovane madre di pratica come dimostra la più diretta filiera etimologica: dal latino tardo pràctica(m), femminile sostantivato (per eliminazione del sostantivo artem che l’accompagnava) dell’aggettivo pràcticus/pràctica/pràcticum, dal greco praktikós, da praksis=azione, a sua volta dal verbo prasso=fare; da pràctica(m), poi, per assimilazione –ct->-tt-, nacque pràttica e da lei la forma (con lo scempiamento di –tt-), intesa probabilmente come più elegante, pràtica destinata (definitivamente?) ad imporsi.

E spratticàre continua a conservare in sé il ricordo del passato. Ma per quanto ancora se le giovani generazioni hanno già sostituito pratica con l’anglofilo (in realtà, senza che nessuno glielo dica, neolatinissimo1) experience?

­­­­­­­­­­­­­­_________

1 Dal francese experience, che è dal latino exeperièntia, a sua volta dal verbo experìri (per il quale vedi la nota 2 del post La marcia in più del dialetto del 26 ottobre u. s.).

Curiosità antiquarie da una biblioteca conventuale (2)

 Il compito di latino

di Marcello Gaballo e Armando Polito

 

Ille ego qui quondam

gracili modulatus avena

Omnia vincit amor et

nos cedamur amori    

 

At tuba terribile so-

nitum procul excidat       

horrida

sive

At tuba terribile  so-

nitum procul exci

tarattara dixit

 

È molto probabilmente un’esercitazione scolastica del ‘700 consistente nella trascrizione o, meglio, nella citazione a memoria di versi di autori

La creatività in un termine dialettale

Spramintàre: La marcia in più del dialetto, ovvero un modo particolare, nell’educazione di altri tempi,  di applicare il metodo di Galilei…

di Armando Polito

Non mi avventuro, anche se potrei farlo con abbondanza di documentazione, sulle vexata quaestio della presunta inferiorità del dialetto nei confronti della lingua nazionale e, in base a quella documentazione, potrei agevolmente sottolinearne, addirittura, la maggiore nobiltà di origini e non solo.

Oggi mi limiterò a metterne in luce un aspetto che nemmeno il più schifiltoso potrà negare: l’espressività che, il più delle volte, raggiunge la creatività della parola poetica riuscendo ad addensare attorno ad una voce, che pure ha il corrispondente nella lingua nazionale, significati allusivi e carichi di valori sentimentali in grado di conferirle, partendo dal suo significato etimologico,  una vitalità diacronica.

Basta con le ciance! La parola su cui mi soffermerò è spramintàre che nel dialetto neretino è usata assolutamente nel senso di “aver capito la lezione, aver fatto tesoro di un’esperienza negativa e maturato l’intento di non ripeterla” (per cominciare: una miriade di parole in italiano, una sola parola in dialetto per  esprimere esattamente lo stesso concetto). Eppure l’esatto corrispondente italiano di spramintàre è sperimentare, le cui definizioni

Uccio, un pezzo di storia, la nostra storia

di Daniela Lucaselli

Non si smette mai di essere figlio dei propri genitori“, così Biagio Panico, giovane artigiano originario del Salento, che si prodiga nella diffusione della musica popolare salentina e della pizzica, ci presenta la figura di Uccio Aloisi.

Nato l’1 ottobre del 1928 da una famiglia contadina di Cutrofiano, paese agricolo della provincia di Lecce, è stato l’elemento di unione tra la tradizione orale e la  musica salentina di questi ultimi anni. Testimone attento e vigile della cultura orale del Salento, ha dimostrato come il canto aiuti l’uomo ad affrontare le vicissitudini del quotidiano. Antonio, questo il suo vero nome, da cui il diminutivo Antoniuccio e quindi Uccio, è l’ ultimo di una numerosa e povera famiglia contadina, soggetta alle dure leggi della sopravvivenza. Il faticoso lavoro nei campi veniva alleviato da  note di allegria, tra cui il canto, a voce spiegata per spezzare la stanchezza; le feste popolari riuscivano a compensare le fatiche giornaliere a cui la famiglia era incessantemente sottoposta, infondendo coraggio, amore e serenità. La storia dei canti del lavoro era il comune denominatore di tutte le classi lavoratrici umili del mondo.

Grande lavoratore, ha “zappato” la terra, ha estratto il tufo nelle cave, ma uomo  instancabile non ha mai trascurato il canto e la voglia di trasmettere usanze e costumi.

Nella sua Autobiografia si legge: “Alli puzzi, alle tajate, alle fogge de l’argilla, alle fondazioni, iu l’aggiu chine, iu tabaccu, iu…vignetu, iu cu bau… alli disoccupati, iu aggiu coddu letame de menzu la strada… Ma l’aggiu  fatte tutte ma sempre de la fame aggiu mortu”.

Partecipa  alle feste di paese e alla sagre affollate finché riscopre la musica popolare salentina. Il cantastorie Uccio, attraverso la sua appassionata e genuina voce popolare, ha voluto trasmettere alle nuove generazioni, esattamente come ha fatto il padre prima di lui, l’amore per il suo luogo natio e per le tradizioni della sua terra. L’eco delle sue parole,  del suo canto e dei suoi cunti, arrivano direttamente al cuore di chi l’ascolta, coinvolgendolo  emotivamente. Al ritmo di suggestive danze, tamburelli, stornelli,  ha voluto esprimere, con la sua pura e calda voce,  i sentimenti più intimi dell’animo umano e le storie legate al sudore e alle fatiche della terra del sud. Rinvigorisce il corpo ma anche lo spirito, emoziona, coinvolge e suggestiona.

Intorno alla metà degli anni ’70,  insieme ad alcuni amici, tra cui Uccio  Bandello, e Uccio Melissano, forma un gruppo musicale di cantori, denominato “Li Ucci“; suona anche con Gigi Stifani, il celebrato violinista-barbiere-terapeuta di Nardò. Iniziano una serie di serate e di manifestazioni musicali. Il suo gruppu dà un volto nuovo e moderno al repertorio contadino con palco, microfoni ed amplificazioni. Durante gli anni ’90 la crescente curiosità ed interesse per la musica della terra del  Salento dà forza al gruppo che si ripropone al pubblico esibendosi in Italia ma anche all’estero. Il tempo trascorre inesorabilmente e, dopo la scomparsa nel 1998 dell’amico Uccio Bandello , Aloisi, testimone intramontabile  della pizzica e della melodia popolare salentina, si esibisce con il  gruppo di musicisti e cantori  Uccio Aloisi Gruppu nelle piazze del Salento, coinvolgendo soprattutto i giovani. All’età di 74 anni pubblica il CD “ Robba de smuju” (edito nel 2003).  Uccio, accompagnato dal suo “gruppu” continua ad esibire davanti a migliaia di persone, al suono di tamburelli, mandolino, chitarre, organetto, il suo repertorio, dagli stornelli ai canti di lavoro, ai canti d’amore, ai canti alla stisa, fino a concludere con la frenetica Pizzica-pizzica,“…lassatila ballare ca è tarantolata…“.

Riesce sempre a  coniugare  singolari momenti di profondo lirismo musicale, come quando canta la canzone di Tito Schipa “Quannu te la lai la facce la matina”, con suggestivi e coinvolgenti motivi ritmati con arte dal tamburello. La popolarità non influenzerà mai  la sua semplicità e la sua  fedeltà alla cultura contadina, da cui attinge i contenuti del suo vasto repertorio.

Nonostante le sue precarie condizioni di salute, ha partecipato anche all’ultima edizione (XIII) della “Notte della Taranta” a Melpignano il 28 agosto; a lui, “grande mattatore della pizzica e della melodia popolare salentina” è stato dato l’onore di “aprire le danze“.

Nel corso della sua carriera artistica ha anche collaborato e duettato con i “Buena Vista Social Club”, artisti di fama internazionale.

Addio  indimenticabile Uccio!

 

 

Bibliografia

  • V. Santoro, L’addio a Uccio in “Corriere del Mezzogiorno”, 23 ottobre 2010;
  • Wikipedia, l’enciclopedia libera.

Castro val sempre una gita

 

di Rocco Boccadamo

Sorridente e promettente mattino di fine ottobre.

BJ110BS, Golf color argento metallizzato ormai ultra decenne, copre, al solito, d’un fiato i quarantotto chilometri di nastro d’asfalto che separano la capitale del Barocco dalla specialissima e amata località marina, eletta a luogo dell’anima, di Castro.

Il giro a sinistra della chiavetta sul cruscotto arresta il rombo del turbo, come sempre, all’altezza di un posteggio della Piazzetta, a pochi passi dal portone della “Cooperativa Adriatica”, ovvero la pescheria storica e per antonomasia della Perla del Salento.

La “fama”, meritata non a caso, nasce dal fatto che, in detto esercizio di vendita al dettaglio, le specialità ittiche, dalle varietà più ricercate e pregiate sino alle gustose e salutari specie di pesce azzurro, approdano qui con appena un salto – dice proprio il vero, l’attuale gestore Donato – direttamente dal porticciolo: non è raro, infatti, scorgere, nelle cassette allineate sul bancone, scorfani, lucerne, “parasaule” e anche saraghi ancora vivi e guizzanti.

V’è, non solo in loco, un diffuso attaccamento alla cooperativa di che trattasi, a partire dalla sua costituzione, legame particolarmente sentito anche per via del ricordo della tragica scomparsa, intorno al 1950, del Presidente fondatore Luigi R, sorpreso da una violenta mareggiata mentre era intento a pescare nei pressi della Grotta Zinzulusa.

Quella odierna, sembra una giornata speciale per la Cooperativa, alcuni soci aderenti stanno scaricando consistenti quantitativi di pescato, si registra un susseguirsi di veloci passaggi fra selezione di cassette, pesatura, conteggi, rilascio di ricevute.

Gli stessi avventori presenti si mostrano presi dagli abbondanti arrivi, assistono di buon grado allo spettacolo, rinunciando, per una volta, alla frenesia e alla fretta di scegliere ed essere serviti subito per i propri singoli acquisti.

L’eccezionale “raccolto”, purtroppo non quotidiano, degli operatori del mare castrensi, si pone in concomitanza di una distesa d’acqua, poco distante laggiù, che è proprio il caso di definire d’incanto.

Per soppalco, un cielo azzurro senza ombra di nubi, strato calmo, tratteggiato da linee orizzontali a dividere zone di bianco perlaceo da altre di colore intenso blu, carezze scintillanti per opera dei raggi solari, aria cristallina e leggera, orizzonte nitido, temperatura dolce e tendente a lievitare lentamente verso l’alto con il progressivo innalzarsi del mattino.

Davvero un immenso schermo in cinemascope intessuto di meraviglie, gioie, bozzetti incantevoli della natura.

E, parallelamente, sembrano sorridere, intorno, le macchie di verde, le case, le antiche mura e le torri del Borgo.

Intanto, poco al largo, molti i gusci di piccole imbarcazioni, cullati lievemente, con pescatori di mestiere e diportisti alle prese con lenze, “conzi”, traine e reti.

Non c’è che dire, per l’affezionato visitatore in Golf, un appagamento fuori stagione che penetra fin dentro, imprimendo un dolce e piacevole stacco e stordimento nel menage della giornata.

La qual cosa accentua, rende unico e imperdibile il gusto della scelta e dell’acquisto, sul bancone della Cooperativa, di un bell’esemplare di “palamita” e, ancor maggiormente, dopo un buon caffè,  la sosta al sole con la rada di fronte e, nella mente, un’ideale nassa di pensieri, immagini e ricordi, di quelli che fanno bene.

Curiosità antiquarie da una biblioteca conventuale (1)

 Nardò vista da un anonimo della seconda metà del ‘700

 

di Marcello Gaballo e Armando Polito

 

Sigh! Sigh!! Sigh!!! Neriti morantibus (.)

Et tu, Amice, si vis beatos ducere annos, fuge e Nerito, noli unquam

Neritum concupiscere, quia

omnia mala illuc patiuntur, quia

domestica gens illic perniciosa est, eritque semper

             Bonis (.)

Et ego  NV(?)2 undecim mensibus ibi moravi velut in exilio.

 

Sigh! Sigh!! Sigh!!!3 a coloro che vivono a Nardò.

E tu, Amico,se vuoi trascorrere felicemente i tuoi anni, fuggi da Nardò, non

desiderare mai Nardò, poiché

lì tollerano tutti i mali, poiché

la gente del posto lì è pericolosa, e lo sarà sempre

per i Buoni.

Ed io N. V. là son vissuto undici mesi come in esilio.

 

Sembra quasi la trascrizione moderna di un graffito di Ercolano (CIL IV, 10640) e non solo:
VENIMUS / VENIMUS / HOC CUPIDI / MULTO MAGIS IRE CUPIMUS

Siamo venuti. Siamo venuti qui volentieri. Molto di più desideriamo andar via4.

Un messaggio di pubblicità negativa al momento di lasciare il luogo, allora come nel nostro caso; ma, mentre il messaggio antico nella sua contingenza (evidentemente opera di qualche turista deluso), laconicità, stereotipicità e diffusione perde vigore, quello moderno consente di cogliere un sentimento di ostilità se non di rancore, diremmo personale5, in una serie di dettagli di

Vendemmia

di Pino De Luca

Ancora cusì ‘sta vindemi?”
Da lontano è arrivata la domanda di un confinante ad un contadino che aveva portato “le donne” e i mezzi in campagna per vendemmiare.
Terra pesante e impastata, pampini bagnati. La pioggia non è amica della vendemmia, raddoppia la fatica delle “donne” che tagliano i grappoli. Un tempo ne pativano anche i “ragazzi”, gli “uomini” e le “bestie”.
Ne pativano e ne gioivano, insieme, perché la vendemmia era una festa, una grande festa collettiva: la chiusura di un intero ciclo di produzione della terra, ciclo che dura quattro stagioni, necessariamente. La vite attecchisce solo alle latitudini che prevedono quattro stagioni. Quella del sonno, quella del risveglio, quella della maturazione e quella della raccolta.
Le fatiche di un anno si condensano in un giorno soltanto, e quando la vendemmia è buona è festa per tutti, ci sarà un altro anno di vita, per la vite e per le vite.

La vite, in questa terra, è stata per secoli uno dei fondamenti della civiltà. La vite ha dettato i tempi e le relazioni umane, l’educazione e la consapevolezza, financo lo sviluppo sociale e procreativo di intere comunità.
Le grandi distese di vigna e le “squadre” di donne che con il loro secchio e la loro cesoia tagliavano i grappoli, le più esperte e rapide che si mettevano di fianco le più giovani e meno avvezze, madri, zie, madrine, educatriici. E il giovane che “buccava e caricava”, ovvero che svuotava i secchi nelle cassette o nelle mastelle e caricava questi ultimi sulle spalle del “cofanatore”, un uomo esperto, forte e resistente che per tutta la giornata faceva la spola tra il filaro e il mezzo di trasporto.

Il giovane doveva essere svelto di gambe e di mano, doveva far “camminare” le donne che accudiva, farle muovere sempre con il secchio vuoto per ridurre la loro fatica e, possibilmente, trovare il tempo di “spampinare” i ceppi, ovvero scoprire i grappoli in modo che fosse più agevole la raccolta. Trattamento che il “ragazzo”, spesso, riservava alla più giovane delle donne anche per dimostrare la propria “balentìa” e il proprio interesse.
E, al primo sole, l’aria si riempiva dei canti, canti di campagna, alcuni d’amore altri di lotta e di lamento, altri ancora di sfotto’, e poi il rito della colazione di mezza giornata e i piccoli segreti che insegnava l’esperienza …
Tante storie sono raccontate e tante da raccontare sulla vendemmia, sui braccianti che andavano a Piazza Cairoli ad aspettare che qualcuno li chiamasse a giornata, sulle mani nere di mosto che duravano per tutta il periodo della vendemmia e venivano mostrate con orgoglio (lo facevo anche io quando andavo al Monticelli), sui ceppi di uva rosa tenuti in gran segreto in mezzo ai filari e sulle storie d’amore che s’intrecciavano nelle giornate di lavoro.

Era il tempo della produzione di alta resa, 130-150 quintali ad ettaro, a produrre uva e mosto che andava a cambiare nome. Ne ha prodotto di Barolo e di Chianti la terra brindisina e anche di Bordeaux … Vino potente, uve dolci da terreni caldi e grandi quantità di mosto muto e di vino da taglio sgorgavano dalle terre generose della provincia, s’imbarcavano sulle navi e raggiungevano porti lontani.
Quanto era preziosa l’uva di Brindisi e Tuturano, e prosperosa quella di Mesagne, Francavilla, Latiano fino a San Michele, e la collina di Ostuni e Carovigno. Quanto era pregna la “fascia colonica” di alberelli possenti e stracarichi, per terreno fertile e fatica di braccia. Da Torchiarolo a San Pancrazio si articolavano distese immense di vigneti inframezzati da uliveti secolari e interi paesi poggiavano la loro economia sulla “campagna”, ovvero il periodo di tempo che s’inerpicava tra sole cocente di fine estate e i temporali improvvisi di inizio autunno. Primitivo e negramaro, “taglia, taglia, taglia, taglia…” ripete ossessivamente il coro in una canzone bellissima di Domenico Modugno che si chiama “Vendemmia giorno e notte”.. Così era ossessiva la vendemmia nella ricerca della massima produzione e del massimo grado zuccherino.

Artigiani e commercianti partecipavano al rito con grande attenzione, i primi spesso con interesse diretto (bottai, fabbri, falegnami, ) e i secondi con la sicurezza che le “giornate” avrebbero saldato vecchi conti aperti in tempo di carestia.
Poi, all’improvviso, le parole che il padre dice a Mimì nella canzone “Mimì, tuo padre ti può dare soltanto una chitarra, un nome e queste mani pulite …” che erano le parole di un mondo concreto hanno perduto significato, il mondo ha cambiato vocabolario. Avidi lestofanti inquinarono il vino, lo taroccarono usando robaccia, financo veleno. Perdemmo la faccia tutti o quasi. Questa terra fu abbandonata e la vigna diventò il rifugio di pochi coraggiosi che resistettero alle politiche che spingevano all’espianto, alla distruzione di una civiltà.

I pochi rimasti hanno dovuto cambiare metodo e finalità. Ognuno produce la sua uva, qualcuno anche il suo vino, con la qualità e la bontà che sa fare. E questa terra ne produce di eccellente, chiamandolo per nome: Negramaro, Malvasia, Primitivo, Susumaniello, Ottavianello, di Brindisi, proprio di Brindisi.

Produrre in qualità significa investimenti e tecnologia, tanti investimenti e tanta tecnologia. Anche nella vendemmia. Impianti con sesti e tipologie nuove anche in prospettiva della raccolta. Fatta da macchine che non sanno moltissime cose, che non sanno che l’uva acerba dei racemi può essere utile per levarsi dalle mani il nero del mosto, che non sanno nulla dei fatti che si raccontano in campagna e non sanno cantare.
Macchine che non sanno se è giorno o notte, vendemmiano e basta. Grappoli interi in cassette ordinate pronte da mandare alla vasca. Senza terra e senza pampini e senza perdere acini. Macchine rapide e veloci, disinteressate alle zolle dure della terra secca o alla mota che s’attacca alle scarpe, insensibili al sudore che lascia la pelle per trapassare i vestiti e alla rugiada che invece li bagna per raggiungere la pelle. Macchine efficienti e precise che non fanno nemmeno colazione. Macchine per un vino che rispetta uno standard..

“Ancora cusì ‘sta vindemi?”
Domanda di chi ha capito tutto e, al disporsi delle “donne” sul campo, si guarda la sua macchina perfetta e obbediente con un sorriso di sufficienza. Scuotendo la testa a chi ancora usa mani di donne, di ragazzi e di uomini per portare l’uva dal campo alla cantina.
Dimentico che sono mani di chi vive la vita e la vite. Sono mani che conoscono i ceppi, li hanno visti riposare, risvegliarsi e fruttificare. Uva di qualità, che si porta dentro il cielo e la terra, il sole e la pioggia ma anche le storie e le canzoni di donne e uomini che hanno cantato e raccontato in mezzo ai filari. Ogni vino sarà un vino d’annata, perché ogni annata avrà le sue storie da raccontare.

La vigna e la sua cultura sopravvivono in enclave che raccontano un passato e una prospettiva di percorso futuro, non lasciamo che specchi di stupidi narcisi facciano rinchiudere in polverosi musei la vita della vite, pianta che vive solo dove esistono quattro stagioni.

Carosino, la città del vino e la sua identità arbëreshë

di Daniela Lucaselli

La storia non è solo ricostruzioni di eventi, anche le tradizioni tengono in vita i sentieri della storia. Continuare a raccontare il passato per  conoscere le proprie radici e riconoscere il senso di appartenenza alla propria terra è un cammino esistenziale di partecipazione alla storia del territorio. Cogliere il senso sacrale è l’insegnamento che ci viene dal passato. Inebriante, entusiasmante è vivere le manifestazioni e gli eventi folcloristici della nostra terra, quali sagre, feste e fiere, momenti durante i quali  i prodotti tipici locali sono i protagonisti. La città, il paese, il borgo si anima; manifestazioni culturali, come concerti e spettacoli teatrali all’aperto, vengono organizzati con scrupolosità e competenza. Si respira lo spirito accogliente e fiducioso della gente del Salento.

Questa atmosfera la rivivo ogni anno in una fertile ed accattivante vallata situata tra i comuni di San Giorgio Ionico, Monteparano, Monteiasi e Grottaglie e precisamente a Carosino, distante da Taranto solo 15 km. Le bianche masserie di campagna immerse nella lussureggiante vegetazione e  le fresche sorgenti di acqua dolce fungono da cornice al singolare centro,  nevralgico punto di scambio commerciale che, posizionato nella parte settentrionale della penisola salentina, in particolare nel cuore della zona occidentale delle Murge tarantine, ha offerto nell’antichità ospitalità e ristoro a mercanti e gente di passaggio.  

Una singolare manifestazione, la Sagra del Vino, si svolge puntualmente tra la fine di luglio e l’inizio di agosto e dall’artistica fontana (realizzata nel1894) della piazza principale del paese, di fronte al Palazzo Ducale, scenicamente zampilla del profumato e gustoso vino locale. Una mostra mercato dei vini pugliesi nel mese di ottobre ricorda nostalgicamente questo evento tipicamente estivo. Tutti i presenti, invitati a degustare i  prodotti tipici di questa terra, sorseggiano deliziosamente la bevanda di Bacco, di cui questa terra gode i suoi frutti.
Il clima dolce e mite infatti favorisce l’agricoltura, che dona raccolti sempre abbondanti. Questo piccolo paesino di pianura, posto a 70 metri sul livello del mare, occupa oggi, nel settore

Avetrana e il suo centro storico

di Raimondo Rodia
Continuiamo a darvi notizie sul centro storico di Avetrana. Oggi accenneremo all’architettura civile. Palazzo Imperiale, prende nome dagli ultimi signori che amministrarono i beni feudali “mero et misto imperio” dell’Università antica, denominazione al posto di “Comune”.  Michele Imperiale, IV marchese di Oria, lo fece restaurare, ampliandolo, nel 1693, come si legge in un vecchio atto.
Alla luce di detto documento appare plausibile la vetustà del palazzo stesso, che risale ad epoche precedenti e verosimilmente alla signoria dei Pagano. Sappiamo inoltre che altri interventi furono operati dai conti Filo, dei quali campeggia lo stemma nel portale di ingresso all’androne. Dopo il 1905 i Filo, abbandonata Avetrana per trasferirsi a Napoli, cedono, dietro corresponsione di un canone, il palazzo ad alcuni amministratori delle loro proprietà.
Da allora inizia la decadenza ritrovandosi oggi suddiviso fra ben 13 famiglie. Con premesse simili risulta al momento assai difficile una lettura delle superfetazioni operate nel tempo. Certamente il massimo splendore, come ci informano altri studiosi, fu raggiunto proprio sotto gli Imperiale.
Un dovizioso inventario parla di numerosa e pregevole mobilia, carte geografiche, tele, arazzi e quant’altro poteva rendere fastoso un palazzo principesco. Dopo quasi vent’anni di abbandono (1782-1804) il palazzo richiese nuovi restauri da parte dei Filo. Oggi appare svilupparsi attorno ad un ampio cortile, cui si accede dall’androne che segue un ricco portale bugnato.
Cadente appare l’ampio scalone fatto costruire da Michele Imperiale per accedere al piano nobile. Inglobata al palazzo è la cappella della Madonna del Carmelo, che recentemente ha restituito degli affreschi risalenti al XVI sec. durante i lavori di restauro avvenuti circa dieci anni fa.
Al suo interno si conserva un’acquasantiera, forse del Cinquecento, che richiama motivi tra il paleocristiano e il gotico.
Lasciatoci alle spalle il portale bugnato del Palazzo Imperiale, ci immettiamo, nell’antica strada dei Caniglia (oggi via Crispi). Proseguendo attraversiamo via V. Emanuele (già strada della Lezza come detto) e poco più avanti, a destra, troviamo Corte Caniglie, da vedere dall’interno per il suo suggestivo portale forse quattrocentesco. Il nome prende, anche se in forma erronea, dai Caniglia, che per quanto ci risulta provengono da Oria, forse al seguito degli Imperiale ed attestati in Avetrana nella seconda metà del XVII sec. con Teodoro Caniglia.
Uscendo su Via Garibaldi ( già strada del Forno baronale e poi Strada dell’Ospedale) e svoltando a sinistra per riuscire su piazza Vittorio Veneto troviamo l’imbocco di Via Ronzieri (o Ronzier, famiglia giunta da Praga con Matteo nella prima metà del XVIII secolo, che diede un sindaco ed un notaio) un tempo strada dei Maramonti (i Maramonte famiglia notabile, apparve nella prima metà del XVII sec. legata ai Romano, Signori di Avetrana).
Al crocevia sorge una recentissima costruzione al posto dell’antico forno Baronale e al fianco una finestrella del XVII sec., forse un’antica caffetteria e probabile casa dei Maramonte.
Proseguendo, all’angolo della piazza un palazzotto che fa il verso al ” Liberty ” si sostituisce alla antica osteria. Di fronte troviamo Palazzo Torricelli.
Il palazzo prende il nome dalla famiglia sotto la quale raggiunse l’unità catastale. “Leggendo” i vecchi muri che si affacciano sulla Piazza Vittorio Veneto è facile accorgersi come esso sia costituito dalla aggregazione di varie unità insediative. Solo con l’acquisto di Arcangelo Torricelli ( la cui famiglia proveniva da Gallipoli ) concluso sul finire del secolo XIX, si riunisce sotto un unico proprietario. Al piano superiore colpiscono due graziose finestre che ricordano, quella a destra con le semicolonne il barocco,  quella a sinistra il gusto rinascimentale.
Bella anche la balaustrata d’angolo, certo barocca.
In fondo alla piazza, a destra, svetta la Torre Civica. La torre fu fatta costruire ove sorgeva la bottega di un calzolaio. Le finestrelle e la porta, seppure assimilabili al gotico, nulla con esso hanno a che fare. Si tratta di un’opera di fine ‘800, creata  per rimpiazzare l’alloggiamento del pubblico orologio che si era perso con l’abbattimento della Porta Grande.
Divenne quindi sede del corpo delle guardie municipali e carcere di transito. L’antico meccanismo che muoveva l’orologio fu fornito dalla stessa ditta che lo fornì al Teatro Petruzzelli di Bari.
All’imbocco di Via della Chiesa, sulla sinistra, una balaustrata che sulla base di una prima ricerca potremmo definire la casa dello speziale, giungiamo così alla Chiesa Madre. Ma di questa chiesa ne parliamo più approfonditamente nella prossima lettera.

Salento terra di santità. San Giustino De Jacobis

vincenziano

da www.vincenziani.it

San Giustino De Jacobis da San Fele,

 

 

di frà Angelo de Padova

 

Corre i suoi primi rischi nel 1836 curando i colerosi di Napoli, nell’epidemia che provoca quindicimila morti. Giustino De Jacobis appartiene alla “Congregazione della Missione” di san Vincenzo de’ Paoli.  Settimo dei 14 figli di una famiglia lucana, Giustino è stato ordinato sacerdote a Brindisi nel 1824. Nel 1839 arriva come missionario in Etiopia e il suo campo di lavoro è il Tigré: principalmente Adua, e poi Guala (Adi Kwala) dove pensa subito a formare preti etiopici, dando vita a un seminario.

Questo è già territorio cristiano: c’è la Chiesa copta, che non è stata mai unita a Roma. Giustino De Jacobis avvicina i copti con rispetto e amicizia; ne porta alcuni con sé in un viaggio a Roma e in Terrasanta, senza chiedere conversioni.

Uno di essi, però, Ghebré Michaïl, si fa cattolico, diventa sacerdote, pubblicando una grammatica e un dizionario della lingua locale. Valorizzare le culture che incontra: anche questo fa parte della “linea De Jacobis” in missione. Nella regione cresce la popolarità di Abuna (padre) Jacob, come lo chiamano, e si sviluppa la comunità cattolica, che entra però in conflitto col vescovo copto Abuna Salama, specie quando De Jacobis viene nominato vescovo e vicario apostolico nel 1849.

Il contrasto diviene persecuzione quando un piccolo capo della zona di Gondar, Kasa, sottomette i ras proclamandosi imperatore col nome di Teodoro II. Spinto dall’Abuna Salama, fa poi imprigionare De Jacobis con i suoi sacerdoti; e uno di essi, il dotto Ghebré Michaïl, muore di stenti in catene (sarà beatificato nel 1926). A questo punto Salama scrive a Teodoro: “Devi cacciare l’Abuna Jacob. Ma non lo uccidere: è un santo“. Così il vescovo Giustino viene espulso con un gruppetto dei suoi fedelissimi, e muore di sfinimento nella zona più torrida dell’Eritrea, presso Zula, mentre

Lo spazzacamino è approdato al web

 

Uno spazzacamino nel 1913

 

 di Rocco Boccadamo

Tra i vari mestieri e attività utili, vecchi e nuovi, esercitati in seno alla società civile, quello dello spazzacamino riecheggia connotati e pensieri un tantino particolari, quasi mitici, e, in ottica visiva, richiama l’insolita figura di artigiano ricoperta – sul volto, sul capo, sul corpo, ovunque – di carbone e fuliggine, dalla colorazione della pelle  nero fumo.

Eppure, il ruolo di questo lavoratore è sempre stato presente e attivo, specialmente sino a cinquanta – cento anni addietro, allorquando di condomini e palazzoni ne esistevano pochi e i centri urbani risultavano costellati, più che altro, di abitazioni a uno o due piani, tutte dotate di un bel fumaiolo/camino che si dipartiva dalla bocca del focolare alimentato a legna o a combustibile fossile e si innalzava sino al tetto.

Ma, è proprio vero, i tempi si sono evoluti e hanno subito mutamenti in ogni senso, ivi compresi i criteri e  le modalità con cui, giustappunto, lo spazzacamino, attualmente, si propone all’utenza e svolge la sua stessa attività.

Difatti, fra le migliaia di annunci pubblicitari che promanano dalle radio locali, poco tempo fa mi è capitato di coglierne uno, almeno per me, inedito: ”Per qualunque esigenza c’è Caio, lo spazzacamino che fa per voi, dotato di elevata professionalità, l’unico con marchio di fabbrica registrato, in grado di effettuare gli interventi di ripulitura più adatti onde evitare pericolosi incendi delle canne fumarie e odori cattivi. Affrettatevi a contattarlo al numero telefonico 0836……, oppure (nota di chi scrive: sentite un po’!) all’indirizzo elettronico info@Caiospazzacamino.it.

Visto che roba? Al che, spinto dalla curiosità, ho agevolmente trovato e guardato un efficiente, moderno e completo sito web intestato al nostro spazzacamino, con foto del personaggio, per niente dipinto di nero fumo, e immagini di avanzati mezzi di trasporto e attrezzature per l’espletamento del lavoro.

Volendo innestare, a cotanta e positiva evoluzione, una piccola punta di malizia (solo questa), viene da domandarsi se alla figura professionale in questione, al giorno d’oggi, si dischiudono ancora, in corso d’opera, incontri e interventi di genere “collaterale”, come recitano i testi di un famoso canto popolare, intitolato esattamente “Spazzacamin”.

Uno spazzacamino nel 1913

Una malattia di stagione (?): la fursiòne

di Armando Polito

È il raffreddore comune o, semplicemente, raffreddore1, un’affezione, generalmente non grave delle prime vie respiratorie, in particolare del naso e della gola, con sintomi essenzialmente a base di catarro e mal di gola, mal di testa, senzazione di stanchezza, tosse, starnuti e, soprattutto, produzione abbondante di muco.

Proprio la dominanza di quest’ultimo sintomo ha dato vita alla nostra voce dialettale, che è dal latino fluxiòne(m)=lo scorrere, a sua volta da fluxus=flusso, e questo da flùere=scorrere; trafila: fluxiòne(m)>fulxiòne(m) (metatesi di –l-)>furxiòne(m) (passaggio –l->-r-)>fursiòne2.

Fluxio/fluxionis non è attestato nel senso di raffreddore nemmeno una sola volta dagli autori classici, nemmeno nel latino medioevale; probabilmente il particolare significato risale al latino volgare, cioè parlato, per il quale, come è intuitivo, siamo nel campo delle forme (nel nostro caso del

Piccoli seminaristi crescono (diciassettesima parte)

Gli ultimi mesi, la crisi. Seminario Vescovile di Nardò 1965.
(Diciassettesima parte)

di Alfredo Romano

Mi capita dopo tanti anni di dire a me stesso: Ma come hai fatto a resistere cinque anni in Seminario? Sinceramente ero entrato con l’idea di diventare prete, anzi sognavo di fare il missionario in terre lontane, portare il Vangelo e la carità alle genti bisognose. Certo, a 11 anni, quanti ne avevo quando entrai, come si poteva decidere della propria vita? Che senso aveva la mia “vocazione” a quell’età? Eppure tutti a dirmi, superiori e padre spirituale in primis, che io, proprio io, ero stato “chiamato”, scelto dal Signore in mezzo a tanti. Quindi dovevo sentirmi fortunato: non accettare significava rifiutare un dono inestimabile. Sarei diventato l’“Ecce Sacerdos Magnus” cantato dai profeti, colui che si doveva far carico della salvezza delle anime e della redenzione di quelle perdute. Ecco, entrando in Seminario folgorato da così nobili ideali, proprio da questi ho tratto nel corso dei primi anni almeno la forza per sopportare la severa e quanto mai dura disciplina. Mi sentivo fortunato rispetto ai ragazzi della mia età, questi erano destinati a una vita normale, io a vette inesplorate, quali quelle di assolvere, redimere, consacrare, rinnovare quotidianamente il miracolo dell’eucaristia. Ero un ragazzo diverso e in questa diversità mi adagiavo dondolandomi tra sogni, speranze, illusioni.

Ma poi arrivò la pubertà, quella che scatena rivoluzioni nel corpo e nell’anima, ed ecco il tarlo che ti rosicchiava dentro pian piano, e quando t’affacciavi alla finestra e scorgevi gruppi di ragazzi della tua età che correvano spensierati per le vie del paese e schiamazzavano e ridevano di cuore… E perché io non potevo correre e ridere e scherzare come loro? Tutto si capovolgeva e io non ero più il “chiamato”, ma solo lo sfigato sbattuto in un carcere duro. Naturalmente questi erano solo pensieri, “tentazioni” avrebbero detto i superiori e, per resistere alle tentazioni, occorreva solo pregare e pregare. E che dire delle pulsioni inconsce quando t’imbattevi nell’universo femminile durante le passeggiate o le vacanze

Avetrana. Uno stupido ed allucinanante tour dell’orrore

il castello di Avetrana

di Raimondo Rodia

Pochi cenni su Avetrana, il piccolo paese in provincia di Taranto ed  incuneato tra le provincie di Brindisi e Lecce, di cui tanto si parla nelle cronachew nazionali. Lo faccio per reazione allo stupido ed allucinanante tour dell’orrore dei luoghi che hanno visto protagonista Sarah Scazzi. In questo mia prima lettera vi faccio accenno ad un pò di storia .
Il territorio di Avetrana, immerso un tempo nella grande foresta oritana di cui oggi rimangono residui il Bosco di S. Martino e quello di Motunato, fu certo un luogo ideale per favorire i primi insediamenti umani: le grotte che si affacciano sulle sponde del canale di S. Martino e la grotta di Villanova-Spècchia Rascìna testimoniano, con quanto in esse rinvenuto, presenze umane fin dal VI-V millennio a.C. e forse provenienti dal materano. Si giunge poi fino all’età del bronzo (XI- I millennio a.C.) senza apprezzabili soluzioni di continuità (vedi Monti della Marina, Masseria Sinfaròsa, Spècchia Crocècchia oggi localmente nota col nome di “Turrinu” ed altri).
chiesa parrocchiale di Avetrana
Resta ancora inspiegabile una struttura in cima ai Monti della Marina che alcuni vogliono essere i resti di una antica torre d’avvistamento messapica. Chiusasi la fase protostorica si giunge alla presenza della espansione latina (in genere tra i secoli. IV e I a.C.) come ad esempio in contrada S. Francesco, poco a nord di Avetrana, ove si sono rinvenute le fondamenta di un’antica fattoria romana, oggi obliterate in attesa di un piano di recupero turistico .
All’alba dell’alto medioevo il territorio appare occupato da alcuni villaggi, tra i quali emergono, per citarne alcuni: S. Maria, S. Giorgio e Motunato (corrispondenti ai tre colli rappresentati nella stemma comunale).
Fatti più o meno fantasiosi o più meno leggendari vogliono che l’antica Avetrana sia stata fondata dal concorso di gente proveniente dai casali circumvicini, assaltati dalla furia distruttrice delle invasioni saracene del IX sec. d.C. e per trovare qui riparo all’ombra del grande “Torrione”. Varie osservazioni ci permettono di dissentire. Basti considerare che il Torrione è certamente di epoca non anteriore al XIV sec.; ancor più striderebbe l’ evento se fosse avvalorata l’ipotesi che i vani ipogei posti alla base della torre rotonda e che si aprono sul fossato fossero in realtà antichissimi abituri.
Da allora vari signori si succedono nel possesso del piccolo “casale” che, solo con l’avvento dei Pagano (1481, secondo altri nel 1507), diverrà “Terra”, ossia borgo fortificato da mura di cui oggi sopravanzano pochissimi monconi.
Ai Pagano succedono gli Albrizi e nel 1651 (?) i Romano. Con l’estinzione di quest’ultimo casato il feudo di Avetrana passa agli Imperiale, già signori del suffeudo di Modunato.
Gli Imperiale, famiglia di origine genovese. sono signori di vastissimi feudi a cavallo tra le province attuali di Taranto e di Brindisi (in merito, vale la pena visitare Francavilla ed Oria) tanto che si fregiano del titolo di Prìncipi di Francavilla e Marchesi di Oria.
La storia feudale di Avetrana termina con l’estinzione degli Imperiale-Francavilla (1782).

Avetrana e dintorni

di Rocco Boccadamo

Un’evoluzione improvvisa e imprevedibile, una metamorfosi impensabile.

Da località agricola pressoché sconosciuta, ad una sorta di Mecca di comunicazioni e di immagini, impostasi in ogni angolo del pianeta cosiddetto civile, televisivo e informatico. In più, con richiamo di vere e proprie moltitudini, non di pellegrini, bensì di visitatori, curiosi, turisti della cronaca e del gossip.

E dire, che, sino alla metà del ventesimo secolo, al nome Avetrana era abbinata, addirittura, l’idea di lontananza, di altra parte lontana, di mistero. Ciò, almeno nel sentire e nella suggestione dei leccesi, forse a motivo degli oltre trenta chilometri che separavano, e tuttora separano, la località dalla cittadina di Nardò in direzione sud.

Meglio che di Avetrana di per sé, si sapeva della limitrofa Terra d’Arneo, un comprensorio ricadente su ben cinque comuni, ossia  Porto Cesareo, Nardò, Veglie, Leverano e, giustappunto, Avetrana.

Terra d’Arneo, a quell’epoca, stava per feudo, latifondo, in capo a ricchi possidenti che se ne curavano poco e niente da lontano e sulla carta, al punto da lasciare l’immensa area sotto forma e in condizioni di fitta macchia mediterranea, frequentata da greggi e, purtroppo, anche da malintenzionati, predoni, grassatori, piccoli briganti.

Un comprensorio, conseguentemente giudicato di estrema pericolosità da chi doveva transitarvi, tanto è che i trasportatori di merci (in specie generi alimentari, derrate agricole, olio, vino, farine, ma non solo) di allora, i quali, spesso, si avvalevano semplicemente di carri di legno, dalle alte ruote a raggi e dalle lunghe stanghe, trainati da cavalli, per prudenza e paura, non compivano il percorso da soli o in due o tre, preferendo, invece, formare consistenti carovane, in modo da poter fare massiccio e adeguato fronte difensivo e protettivo comune nell’evenienza di agguati e attacchi da parte dei delinquenti.

E, quando realizzabile, evitavano di coprire la tratta durante la notte.

Poi, fortunatamente, arrivarono le lotte delle popolazioni contro il latifondo, la riforma agraria, le operazioni di bonifica e la distribuzione delle terre, in piccole porzioni, ai contadini e, in tal modo, i malintenzionati furono indotti a disperdersi.

Come sopra, la sfaccettatura di un certo antefatto storico sociologico.

E adesso, da due mesi in qua, ancora in questi giorni, che cosa si va registrando nell’aria di Avetrana?

Fatto vivamente salvo e con tutto il rispetto per un dramma spietato, la risposta che ricorre o per lo meno domina sembra constare essenzialmente di una sola parola: bulimia.

Di cronache, servizi video, notizie, indagini, sospetti, pettegolezzi, pressioni sui protagonisti e sugli inquirenti, si tratta pur sempre di un’accezione, uno stato, che non dovrebbero piacere ad alcuno.

Una proposta etimologica, anche per l’italiano

‘MBRATTA: una proposta etimologica, anche per l’italiano imbrattare

di Armando Polito

dopo qualche minuto…

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1 Professore, guarda avanti altrimenti oggi ci ammazziamo!

2 Anche oggi un altro schifo di lezione…

3 Questo pensa sempre a una cosa…

4 Adesso sto capendo il senso della scritta che ha messo sulla fiancata…

5 A questo fagli una bella multa perché ieri mi ha appioppato un 2 in latino…

Nel dialetto neritino la voce in epigrafe è sinonimo di disegno confuso, sgorbio e, per traslato, imbroglio, ma è del tutto evidente che il suo corrispondente italiano è imbratto (cui si limitano a rimandare sia il Rohlfs che il Garrisi) coi significati (cito dal Dizionario De Mauro): sudiciume, sporcizia; pessima pittura o scrittura; cibo per maiali, cibo poco appetitoso. Lo stesso dizionario fa derivare imbratto da imbrattare (1342) e per quest’ultima voce registra un’etimologia incerta, forse dall’antico e dialettale (ligure) bratta=sporcizia, di origine ignota. Le stesse informazioni

Rivolta delle Uve a Sandonaci

Cinquant’anni dopo…

di Pino de Luca

Ci siamo quasi. Tra due giorni inauguriamo la mostra sul cinquantenario delle vittime della “Rivolta delle Uve”. Eventi lontani nel tempo eppure molto vicini. Le Istituzioni allora furono lontane dai bisogni della popolazione, addirittura ostili e nemiche. Così maturò l’eccidio. Uno Stato che guardava al Sud come i nuovi schiavi da deportare nel nord industrializato e povero di manodopera.
Bisognava schiacciare quella voglia di riscatto, un filo unico che da Portella delle Ginestre attraversa tutto il mezzogiorno d’Italia, tenuto per decenni sotto il tallone del sottosviluppo, delle mafie cresciute con il silenzio e la complicità delle classi dirigenti, con personale politico pronto a vendere l’anima non per promuovere la propria terra ma solo se stessi.
A quella condizione si ribellavano i contadini ed i braccianti, chiedendo che il frutto del duro lavoro dei campi fosse considerato nel suo valore. Per questo scoppiarono i moti e vennero i morti.
Mario e Alfredo hanno promosso l’iniziativa nel paese di quei morti. Perché non bisogna dimenticare il proprio passato se si vuole comprendere il presente e capire da che parte è il futuro. Cosa abbiamo oggi? Il disinteresse più ampio di quella che si autodefinisce “classe dirigente”. Le adesioni che sono venute appartengono per lo più a persone che hanno scelto di mantenere il rispetto per il proprio territorio e per se stessi, e a persone che mantengono intatta la primarietà di una sfera ideale alla quale non sanno o non possono rinunciare.
Ma stiamo parlando di esigue minoranze, qui si partecipa, si ascolta, si studia. Non ci sono prebende, poltrone o strapuntini, e nemmeno battute salaci o volgarità gratuite. Qui si fa memoria e impegno, lavoro e seria concretezza, e allora la gran parte degli organi di informazione si estrania.

Non fa audience la vicenda di tre braccianti che cinquant’anni fa rimanevano a terra. E chi se ne frega delle lotte contadine, cose vecchie, passate. Adesso

Chattare, incontrarsi e poi… sia quel che sia

di Rocco Boccadamo

Sabato scorso, ho viaggiato in “Freccia d’argento” da Lecce a Roma. Seduta accanto a me, una bella ragazza dai capelli rossi raccolti a coda, sulla ventina, la quale, poco prima dell’orario di partenza, era giunta nel vagone “scortata” dal padre e da un giovane amico o parente.

Avviatosi il convoglio, la predetta ha tirato fuori il suo bravo cilindro, non so bene se in carta stagnola pestata o in materiale simil plastica, contenente, impilate, ostie di patatine fritte. Etichetta a tutto campo e dai colori sgargianti, con la scritta snack alla paprika, prodotto in Germania per conto della ditta xxx di Casalecchio di Reno e l’effige di due peperoni, uno verde e l’altro rosso.

E da lì, via a trangugiare le ostie di buona lena; sennonché, dopo averne mangiato un po’, la mia vicina dichiara di avvertire un forte mal di stomaco e di essere, perciò, pentita di aver acquistato quel prodotto.

Semplice, e forse ingenuo, interrogativo dello scrivente: come è possibile che dall’Italia, produttrice in abbondanza di patate e ancora più di peperoni, si spediscano le materie prime, per la lavorazione ed il confezionamento, addirittura in Germania? A voler approfondire, che tipo di olio, nella fattispecie, sarà stato adoperato per la frittura?

La confidenza sulla piccola – comunque, rivelatasi passeggera – disavventura alimentare, mi dà l’estro per chiedere qualcosa alla mia compagna di viaggio: è di Lecce, lavora in un call center, è finanziariamente autonoma, si sta recando a Roma su invito di un amico, conosciuto un anno fa in una località marina del Salento. Costui è già venuto a trovarla da Roma a Lecce un paio di volte e ora ha pregato lei di raggiungerlo nella Capitale.

Situazioni e discorsi, il giorno d’oggi, normali e comuni, soprattutto riguardo ai giovani.

Il treno va e, intanto, si instaura una lunga serie di conversazioni telefoniche via cellulare tra la fulva salentina e l’altro che l’attende a destinazione.

Devo francamente ammettere che, a causa dell’estrema contiguità, ben oltre la classica situazione del contatto di gomito, non posso fare a meno di

Salento terra di santità. Beato Bartolo Longo

Beato Bartolo Longo

di frà Angelo de Padova

L’avvocato Bartolo Longo nacque a Latiano (Br) il 10 febbraio 1841, di temperamento esuberante, da giovane si dedicò al ballo, alla scherma ed alla musica; intraprese gli studi superiori in forma privata a Lecce; dopo l’Unità d’Italia si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza a Napoli.

Fu conquistato dallo spirito anticlericale che in quegli anni dominava nello Ateneo napoletano, al punto da partecipare a manifestazioni contro il clero e il papa. Dubbioso sulla religione, si lasciò attrarre dallo spiritismo, allora molto praticato a Napoli, fino a diventarne un sacerdote che celebrava i riti imitando quelli della Chiesa. Per sua buona sorte era legato da una solida amicizia con il prof. Vincenzo Pepe, suo compaesano e uomo religiosissimo, il quale saputo del suo tormento interiore lo avvicinò, convincendolo ad avere contatti con il  domenicano padre Radente, che con i suoi consigli e la sua dottrina, lo ricondusse alla fede cattolica e alle pratiche religiose.

Intanto nel 1864 si era laureato in Diritto, ritornò al paese natio e prese a dedicarsi ad una vita piena di carità e opere assistenziali; rinunziò al matrimonio, ricordando le parole di Emanuele Ribera redentorista: “Il Signore vuole da te grandi cose, sei destinato a compiere un’alta missione”. Superati gli indugi, abbandonò la professione di avvocato, facendo voto di castità e ritornò a Napoli per dedicarsi in un campo più vasto alle opere di

Ulivi di Puglia

 

PREGHIERA DI RAMSESS III AL DIO RA

“Ho piantato olivi nella tua città di Eliopoli

con giardini e molta gente;

da queste piante si estrae

olio, un olio purissimo,

per mantenere accese le lampade del santuario”

Papiro Harris (1198-1166 a.C.)

Piccoli seminaristi crescono (sedicesima parte)

1965. Quando arrivò la contestazione nel Seminario di Nardò
(sedicesima parte)

di Alfredo Romano

Il ’68 era di là da venire, ma la protesta sociale e politica dei giovani, come la rivoluzione nei costumi, non nacque all’improvviso, ma fu preceduta da un periodo di incubazione in cui si annunciavano le prime avvisaglie. Le canzoni di cantautori come Luigi Tenco e Fabrizio De André, per es., per la prima volta in Italia affrontavano temi scottanti come la guerra, la libertà dei popoli, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la falsa morale borghese, l’ipocrisia della società perbenista; l’idea, inoltre, che il potere dovesse essere inteso come servizio e non fine a se stesso. La parola amore poi non faceva più rima con cuore: “… sembra che intorno ci sia solo gente / che oltre al grande amore / non pensa a niente” cantava Tenco in La ballata dell’amore. Era in atto il miracolo economico e ci si avviava verso un diffuso benessere, la televisione arrivava in tutte le case, le idee e le persone circolavano di più e niente era scontato e tutto veniva messo in discussione, dal taglio dei capelli, al vestiario, dalla libertà di movimento al libero pensiero. Ecco, qualcosa cominciava a smuoversi, seppur timidamente, anche tra noi seminaristi dell’ultimo anno, adolescenti di 16 anni, che cominciavamo a non sopportare più certe regole vigenti da secoli nei seminari.

Prendiamo la corrispondenza, per es., il fatto che le lettere in partenza e in

Cavoli a merenda…

GLI OMOFONI DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (16): mùgnulu.

Qualche giorno dopo…

1 È da una settimana che mi stai facendo mangiare sempre mùgnuli. Mi sa che oggi scoppio…

2 A furia di mangiarli prima o poi troverai quella etimologia che stai cercando da tanti anni. Perciò lascia stare questi mùgnuli (capricci) e mangiati quei mùgnuli (l’ortaggio).

3 Me lo diceva il cuore che manco morto sarei arrivato all’etimologia di mùgnulu. E quella me li sta portando pure qui…

4 Disgraziato di cane, vai a pisciare da un’altra parte, perché se seccano se la prenderà con me.

5 (Si tratta di una razza nuova: il cane pappagallo).

Nel dialetto neretino mùgnulu è il nome di un ortaggio tipicamente salentino (Brassica oleracea L., varietà botrytis, subvarietà italica) una cultivar del cavolo broccolo che secondo i botanici probabilmente rappresenta, insieme alle altre forme selvatiche di Brassica, un antenato delle attuali varietà di cavoli; ma mùgnulu è usato anche nel senso di capriccio, vezzo, moina, carezza e da questo è derivato l’aggettivo mugnulùsu=capriccioso.

Il Rholfs per il primo significato (quello dell’ortaggio) non avanza nessuna proposta etimologica1, idem il Garrisi1; per l’altro significato il Rholfs1 invita ad un confronto “con l’antico italiano mognine=carezze, italiano moine”, il Garrisi1 lo fa derivare “dall’italiano mu[gu]gnolo”.

In realtà l’antico italiano mognine è una voce veneziana attestata nel Dizionario del dialetto veneziano di Giuseppe Boerio, Cecchini, Venezia, 1867, pag. 423: “MONÌN o MOGNÌN, s. m., Mucino; Muscino e Mucci mucci, Termine del Gatto, o col quale si chiama il gatto”. Il VEI (Vocabolario etimologico italiano) al lemma Moina: “Voce di dubbia etimologia, ma è facile che faccia parte di quel gruppo di voci che probabilmente trovano il motivo nei vezzi propri del gatto e a cui spettano mognine (ant.)=carezze e mignògnole (trent.). Che il termine mognine fosse molto antico lo attesta il

Salento terra di santità. San Pelino

San Pelino, vescovo 

 

di frà Angelo de Padova

L’episcopato di Pelino va inquadrato nella temperie culturale  del settimo secolo, negli anni che immediatamente precedono la distruzione longobarda di Brindisi del 674.  Pelino, monaco basiliano formatosi in Durazzo (Albania), si trasferisce in Brindisi, coi siri Gorgonio e Sebastio e col suo discepolo Ciprio, in quanto non aderente al Tipo ossia all’editto dogmatico voluto dall’imperatore bizantino Costante II nel 648.

Durante l’anno successivo il pontefice Martino scomunica gli autori della nuova eresia; il papa deve, per questo, subire l’arresto, la deportazione a Costantinopoli e l’esilio a Cherson in Crimea ove muore fra il 655 e il 656. Ferme opposizioni al Tipo si ebbero anche in oriente. Pelino, coi suoi compagni, è anch’egli difensore dell’ortodossia e in Brindisi, i cui vescovi venivano confermati da Roma, pensa di trovare un asilo sicuro. Deve tuttavia accorgersi che non è così; il vescovo  Proculus pare sulle posizioni concilianti che già erano state proprie del pontefice Onorio I.

L’arrivo dei profughi albanesi, su posizioni molto radicali, non consente tuttavia una politica di mediazione. Pelino spinge su posizioni chiare in difesa dell’ortodossia. Proculus, con procedura inconsueta, associa allora il nuovo venuto nell’episcopato designandolo quale suo successore. A tal fine

GLI OMOFONI DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (16): critàzzu

GLI OMOFONI DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (15): critàzzu.

di Armando Polito

1 Voglio sapere quando la smetti di riempirmi tutta la casa con questa specie di creta!

2 E io quando la smetti tu con queste grida!

 

Critàzzu nel dialetto neretino può significare argilla grossolana (dal latino cretàceum=simile alla creta, forma aggettivale da creta) e grida, chiasso [(da critu, corrispondente all’italiano grido, da gridare, che è dal latino *critàre (tal quale nel dialetto neretino; nel latino medioevale è attestato il sostantivo critus=clamore), dal classico quiritàre= chiedere aiuto, gridare, che secondo Varrone (I° secolo a. C.) originariamente significava chiedere l’aiuto dei Quiriti (cittadini romani)].

GLI OMOFONI DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (14): stuccàre

di Armando Polito

E ai loro amici del quartiere Leo e Tigre raccontarono: “Ddhu rimbambitu ti lu patrunu nuesciu n’addhu picchi si stuccava cu stucca lu parete1”.

______

1 Poco c’è mancato che quel rimbambito del nostro padrone si rompesse per stuccare il muro.

 

Stuccàre nel dialetto neritino può assumere lo stesso significato della voce italiana (dal longobardo *stuhhi =crosta, intonaco) oltre a quello di rompere (Il Rohlfs si limita ad un confronto con il calabrese settentrionale stuccàte=rotto; credo che la voce potrebbe corrispondere all’italiano  stoccàre=colpire con lo stocco (corta spada), dal francese antico e provenz. antico estoc, a sua volta dall’olandese medio stoken =colpire; non mi sentirei, tuttavia, di escludere una derivazione da toccare (probabilmente di origine onomatopeica) con aggiunta di s– intensiva.

Sensazioni di un piemontese in terra salentina

 


di Gianni Ferraris

 

http://www.youtube.com/watch?v=5G1hvmMUxe0 (Lecce Mia – Tito Schipa)

…rusciuli russi ci ole rusciuli…

.. rusciuli russi carusi rusciuli…

Eggià, un altro autunno. Una passeggiata in una stradina che costeggia  un uliveto. Il territorio che sto calpestando è dalle parti di Vernole.

I colori del Salento e dell’autunno esplodono attorno. Corbezzoli… Rusciuli russi… Fiori che non conosco ma che sono belli, profumo intenso di rosmarino. Due funghi. Chi mi accompagna dice: “lascia perdere, di solito sotto gli ulivi non sono buoni”. Ma si, lascio perdere. Non conosco neppure i funghi. Incolto di un piemontese disinformato.

Poi lasciamo la stradina per addentrarci in un sentiero. La macchia prende il posto del pulitissimo uliveto, preparato per raccogliere le olive, spazzato, senza un filo d’erba. Qui è un’altra cosa, molti più fiori, cespugli. E quei corbezzoli illuminati da un sole quasi radente che esplodono nel loro rosso arancio. Stupendi, al limite dell’emozione. Non ho la fotocamera, peccato. E mirto…. mirto e ancora mirto.

Avevo ascoltato il suggerimento di un’amica ed avevo ascoltato Schipa nella sua dichiarazione d’amore per Lecce “…Rusciuli russi…” E immaginavo il carrettino passare nel centro storico. Spinto a mano da un contadino o dalla sua signora, chissà. Sulle chianche del centro storico, fra un barocco incombente e forse neppure osservato con attenzione.

Ed ora stavo in mezzo ad una natura prepotente. Dopo un cespuglio da togliere il fiato per i colori, improvviso, arriva un “alto rischio incedentabilità”. Già, siamo vicini a Vernole, si dice così nel dialetto locale. Una vera e propria discarica di calcinacci, ma soprattutto una quantità industriale di lastre di amianto smaltite a cielo aperto. In piena campagna. Hanno dovuto faticare per portarlo fin lì, non è raggiungibile quel luogo con mezzi meccanici, il sentiero è stretto. La bellezza del sole radente, dei colori, dei rusciuli russi. Tutto inghiottito dall’imbecillità. Improvvisamente. E fino alla fine del sentiero. Perché le ondulate lastre maledette sono impilate per tutto il percorso, accanto al sentiero. Quasi con cura. In linea d’aria siamo a poche centinaia di metri dall’aeroporto di Lepore. Non so quale sia il comune competente, però in quelle campagne si respira asbesto, fibre di amianto. Si respira lo scempio del territorio.

Sono passati quattro giorni. Oggi piove, appena potrò tornerò con la fotocamera. Perché non è plausibile sopportare una discarica a cielo aperto. Ancora meno è il sapere che qualcuno, con comportamento colpevole, si diverte a spargere cancro in giro per il mondo. Perché di amianto si muore.

In questi giorni poi. Le cronache ci dicono di molte, troppe morti assurde. Una ragazza di Avetrana dentro un pozzo. 4 ragazzi che si aggiungono agli altri trenta italiani ammazzati per una guerra assurda. Che qualcuno si ostina a chiamare “missione di pace”. Quando l’ipocrisia lascerà il posto alla logica? Soprattutto non c’è tragedia di guerra che non dica di almeno un salentino. “Quando ho sentito la prima notizia della strage mi sono chiesto a quale parte di questo Salento toccherà il lutto. E’ toccato a noi” dice il sindaco di Patù in televisione.

La bellezza dei colori dell’autunno e dei “rusciuli russi… Carusi rusciuli” lascia il posto a realtà prepotentemente assurde, irreali, incomprensibili. Innaturali.

Piccoli seminaristi crescono (quindicesima parte)

 

Quando i seminaristi di Nardò tornavano in famiglia per le vacanze. 1960-1965

(Quindicesima parte)

 

di Alfredo Romano

Tornare a casa per ritrovare il focolare domestico era per tutti noi una gioia che non si può descrivere. A Natale e a Pasqua si tornava a casa per cinque giorni, ma te li dovevi sudare: si dà il caso che i seminaristi erano impegnati in riti liturgici e canti gregoriani nel pontificale dei giorni di Natale e di Pasqua, che aveva termine alle ore 13, quando si ordinava il liberi tutti. Assistevano alla messa molti dei nostri padri venuti per portarci via, mentre le mamme a casa impastavano e arrostivano per il ‘lauto’ pranzo. Ricordo bene mio padre in cattedrale, in piedi, appoggiato alla colonna davanti, che muoveva impaziente la testa nel tentativo di scorgermi, mentre io, mezzo nascosto tra i gregorianisti, intonavo antifone, alleluia, introiti, gloria e offertori vari.
Ma le vacanze vere erano quelle estive: tre mesi, da luglio a settembre, roba da dimenticare di essere un seminarista. Ma, prima della partenza, ogni anno era d’uso per il rettore renderci edotti sulle regole che dovevano governare la lunga vacanza al paese, regole per le pratiche spirituali, ma soprattutto di condotta, cui era tenuto il seminarista. A tal proposito, a ognuno di noi veniva consegnato un foglio con l’elenco delle  norme da seguire. Il foglio poi, al rientro dalle vacanze, doveva essere riconsegnato al rettore debitamente firmato dal genitore che si faceva garante della buona condotta tenuta dal figlio. Ma la regola più bizzarra (questa però non scritta), recandomi a casa per la prima volta a Natale, fu quella del separé da imbastire intorno al mio letto: i familiari, in pratica, non dovevano aver accesso alla ‘mia riservatezza’. Avevo 11 anni e mia madre, pur incredula, alla bene e meglio montò un separé con un vecchio lenzuolo. I miei storcevano il naso, mio padre poi se ne usciva con un: ‘Stu fìjju miu a cce mmane hae ccappatu! I miei fratellini, che dormivano nella stessa stanza, giocavano invece a farmi dispetti intrufolandosi di corsa in quello che era il mio recinto per poi scappare con risa e strilli. Io fremevo, ma ero un seminarista e… dovevo sopportare pazientemente. Questa cosa, a dire il vero, durò qualche giorno, quando anch’io non ne potei più del ridicolo separé e fu smontato con buona pace di tutti.

Ma le regole riguardavano soprattutto le vacanze estive, quando, nel dolce far niente, il diavolo era lì sempre pronto a compromettere la nostra virtù. Gira e rigira il chiodo fisso era sempre quello: stare alla larga da ogni

Quando la definizione è facile e l’etimologia difficile: ‘mprusàre.

di Armando Polito

 

1 Ragazzi, ‘mprusare non deriva da proso ma da prosa...

2 Professore, maschio o femmina, che cambia?

3 Professore, non è che ci stai imbrogliando, no?

Voglio parlare di quella che si avvia ad essere, forse lo è già, l’attività più praticata in Italia, anche perché non comporta alcun rischio di infortunio e, se uno ci sa fare, si possono guadagnare pure molti soldi. Avete mai visto un mago, un finto medico, un faccendiere, un politico che non abbia mantenuto nemmeno parzialmente una promessa, una ragazza avvenente che in cerca di notorietà (altro non dico) abbia manifestato interesse, anche fisico, per un attempato ranocchio e, per finire con me stesso (o, spero, solo con la mia categoria…), un professore che abbia raccontato come una verità scientifica una balla colossale frutto della sua ignoranza, avete mai visto uno di costoro essere condannato a pagare una multa adeguata o qualche ora di galera o rischiare un licenziamento in tronco?

Sono tutti (ma chissà quanti ne avrò dimenticato…) ‘mprusatùri, cioè ingannatori, truffatori e, come in tutti quelli che ingannano e truffano, la malafede trova in loro il suo strumento ideale di espressione nell’uso abile, seduttivo, a volte ipnotizzante della parola (e di qualcos’altro per quanto riguarda la ragazza avvenente…).

Ma, da dove deriva ‘mprusàre, di cui ‘mprusatùri è voce derivata?

Partirò dal solito maestro, il Rohlfs, il quale tratta così il lemma in questione:

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
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