L’albero della manna ricompare dopo 800 anni

 
 
di Francesco Tarantino
Da oltre 10 anni cercavo questa pianta chiamata “albero della manna” nel territorio di Supersano.
Di fatto era nota la presenza fin dal ‘700 del Frassino meridionale (Fraxinus Oxycarpa) nel Bosco Belvedere di Supersano, pianta spontanea citata da alcune fonti sia a Supersano che nei canaloni dei Laghi Alimini; questa pianta ama i luoghi umidi e freschi, ma anche il caldo estivo. Tutto corrisponde all’habitat di Supersano, ma fin qui  nulla di nuovo sia da un punto di vista storico che archeobotanico.
In realtà vi è un altro albero di Frassino nel Meridione d’Italia: è il Frassino orniello (Fraxinus ornus), detto “albero della manna” coltivato e non spontaneo fin dal Medioevo (XII-XIV secolo) grazie ai monaci bizantini. Era coltivato perchè produceva dalla linfa una sostanza dolce e medicamentosa chiamata “manna”. E’ nota la sua presenza e coltivazione in Calabria, in Sicilia ed in Puglia in provincia di Bari e sul Gargano. Nulla sulla presenza e

Quell’antico suonatore di organo

 

Piccola caletta lungo la costa di Marittima (ph Rocco Boccadamo)

di Rocco Boccadamo

In silenzio, con discrezione, se n’è recentemente andato un tassello, uno spicchio d’anima dell’agorà natia e giovanile di chi scrive.

E’ successo come se fosse caduta un’arancia, delle tante che, appese con peduncoli e foglie, adornavano, illuminavano e rallegravano giovani alberi d’ulivo o di leccio o di pino, che, cinquanta/sessanta anni addietro, in luogo dei più classici e tradizionali abeti del tutto mancanti alle latitudini salentine, fungevano da alberi di Natale.

Giuseppe Nuzzo, classe 1916, dunque tempi lontanissimi, di famiglia abbastanza numerosa (5 figli), ad appena un anno, rimase vittima, sulla sua pelle di neonato, è proprio il caso di sottolinearlo, di una personale e pesante Caporetto: in un attimo di lontananza della madre, costretta da altre urgenti faccende domestiche, andò a ruzzolare dal seggiolone in un braciere di fuoco, rovinandosi gran parte del viso e pregiudicando gravemente l’efficienza di un occhio.

Tale fatto, ancorché, pian piano, clinicamente superato mercé i mezzi d’allora, lasciò, purtroppo, il segno, anche con riferimento al futuro e, se si vuole, al destino del piccolo infortunato.

Uno dei suoi fratelli proseguì gli studi, divenne maestro elementare, si impegnò ed emerse in politica, espletò, lungo molti anni, oltre a quella di educatore, la funzione, delicata e difficile, di Sindaco del Comune di appartenenza e si distinse anche a livello provinciale.

Giuseppe, invece, dopo la scuola dell’obbligo (all’epoca, le elementari) e in concomitanza con la prematura scomparsa del padre, fu avviato ad un mestiere, apprendendo l’arte del falegname. Di quei tempi, nelle botteghe artigiane, si costruivano infissi interni ed esterni, nonché mobili d’arredamento (di rado, si andava a comprarli, già pronti, in città), considerati, così fatti, più solidi e resistenti.

Trovandosi con le mani in pasta, Giuseppe, nei ritagli liberi dagli impegni con i committenti, prese a fabbricarsi i mobili per sé, per quando avrebbe messo su famiglia: nonostante che l’autore di queste note non li abbia mai visti, era risaputo che fossero integralmente di legno d’ulivo massiccio.

Santuario M .SS. di Costantinoli (ex convento) di Marittima (ph R. Boccadamo)

In parallelo, prese, da autodidatta, a strimpellare accordi musicali, sino a riuscire a conquistare la fiducia del vecchio arciprete e a divenire organista, sia nella chiesa matrice, sia al Convento. Esistevano, in detti sacri siti, due modesti strumenti, alla buona, con i fiati alimentati dall’aria prodotta mediante il su e giù dei “mantici”, piccole stanghe laterali che qualcuno, seduto appositamente lì vicino, doveva armeggiare e azionare.

Per un lungo periodo, come raccontato mirabilmente in un suo brano dal noto scrittore e compaesano Giuseppe Minonne, ci fu addirittura un addetto stabile ai mantici,  un anziano del posto di nome Gesufatto, mentre, successivamente, ai mantici, furono chiamati, di volta in volta, gruppi di ragazzini di buona volontà, fra cui lo scrivente. Da notare che il loro comportamento, talora, non era proprio ammirevole: succedeva, infatti, che, al fine di godersi l’impasse e la reazione dell’organista, gli addetti precari in erba abbandonavano improvvisamente armi e bagagli, con il conseguente, inevitabile black out dello strumento.

Nell’angusto vano dove era allocato l’organo, soppalco in muratura verso il soffitto della chiesa parrocchiale, a cui si accedeva attraverso una  striminzita scala di pietra a spirale realizzata a fianco dello stipo contenente la statua di S. Vitale “piccinnu”, in certe occasioni giungevano ad assieparsi alcune decine di ragazzi e giovani d’entrambi i sessi, vuoi in quanto cantori, vuoi da semplici spettatori che, per la verità, nel corso delle liturgie, indulgevano a badare a faccende non propriamente sacre.

Dall’area soppalcata dell’organo, partiva una seconda scaletta, ancora più striminzita della prima, per accedere alla terrazza della chiesa, passando dal localino in cui erano sistemate le apparecchiature dell’orologio pubblico: e, lì, i soliti monelli, quante volte a manomettere gli strumenti, a spostare con criteri inconsulti le lancette segna ore, lasciando suonare rintocchi a caso e inverosimili e, infine, a soddisfare impellenti piccoli bisogni, con l’auto giustificazione e assoluzione che “tanto, in questo posto, la pipì diventa acqua santa”.

Casa natia di Maestro Pippi a Marittima

La voce di Maestro Pippi (accezione dialettale e familiare di Giuseppe) non era da usignolo o da tenore, nondimeno egli, preso dal  ruolo d’organista, arrivava in qualche caso a correggere il diapason e il tono di noi ragazzi intenti a cantare la Messa degli Angeli.

Gli anni si susseguivano, Maestro Pippi viveva di bottega, casa e chiesa, muovendosi lesto, con addosso il suo bravo grembiulone da lavoro, su una bicicletta vecchia, ma efficiente. Intanto, al paese, un altro giovane aveva imparato il mestiere di falegname e aperto una sua bottega e, guarda caso, si chiamava anch’egli Giuseppe Nuzzo, cosicché, per distinguere i due soggetti, divenne regola riferirsi al nostro falegname/organista con l’appellativo di “Maestro Pippi ‘u casciaru”, con un’accezione integrativa che non rappresentava un banale soprannome, bensì il richiamo al paese di provenienza della di lui madre Luigia Ciullo, originaria, per l’appunto, di Castro.

Sovviene, ancora nitida, alla mente la figura di detta donna, vestita permanentemente di nero, giacché, oltre al marito, aveva perduto, in guerra, un figlio, lunghi capelli crespi, la quale si vedeva, di tanto in tanto, girare a piedi, magari per recarsi a casa della figlia, sempre sola e silenziosa.

Da parte sua, Maestro Pippi, malgrado la mobilia fosse da un pezzo pronta, restava scapolo. Fino a quando, intorno al 1960, quindi ultraquarantenne, non “si dichiarò” ad una bravissima giovane compaesana, Gina, figlia del vecchio portalettere del paese, Maestro Miliu, e della gentile e dolce Valeria.

In breve, la coppia si sposò ed ebbe due figli, prima una femminuccia e poi un maschietto, Diana e Albino.

Gina, in quel periodo, dopo che, al padre postino, era succeduta nelle funzioni la madre Valeria, prese a seguitare, a sua volta, il lavoro di quest’ultima e, ancora, aprì, in un minuscolo locale, il primo posto telefonico pubblico del paese.

Panorama costa da Marittima in direzione Andrano, Tricase e S.Maria di Leuca (ph R. Boccadamo)

Nel momento in cui,  di mobili d’arredamento,  finirono con  ordinarsene e fabbricarsene sempre di meno, Maestro Pippi, al quale, invero, bisogna riconoscerlo, non mancò mai un certo spirito imprenditoriale,  decise di abbandonare la vecchia bottega e l’attigua abitazione, già dei genitori,  e di spostarsi subito dopo la piazza, in un caseggiato acquistato da terzi, trasferendovi il centralino del telefono e, soprattutto, aprendo un nuovo negozio di ferramenta: oltre a vendere, egli non mancava, però, di proseguire nell’espletamento di piccoli lavori artigianali di vario genere.

Ogni fine anno, prese a farsi stampare, i primi calendari promozionali per i clienti e, da subito, generò un certo effetto leggervi in alto, a caratteri cubitali, la scritta “FERRAMENTA GIUSEPPE NUZZO, ORGANISTA”, segno inconfutabile che, sebbene, per via degli impegni di lavoro e di famiglia, le sedute davanti alla tastiera e ai pedali dell’organo andassero progressivamente rarefacendosi, il vecchio amore dell’uomo per lo strumento a canne permaneva sempre intatto.

La buona e brava consorte Gina, purtroppo, gli mancò ancora relativamente giovane e, subito dopo tale evento, la figlia Diana, da parte sua, si recò a cercar lavoro al Nord, dove è poi rimasta, sposandosi e inserendosi stabilmente.

Al paesello restarono, quindi, Maestro Pippi e il secondogenito Albino, il quale, pian piano ma sempre più incisivamente, prese in mano il negozio di ferramenta.

Pur tuttavia, malgrado gli acciacchi di vario genere e la perdita completa della vista, Maestro Pippi pretese, ogni giorno, che fosse accompagnato nella bottega, restandosene  a lungo seduto dietro l’uscio, seguendo, senza vedere, il flusso dei clienti e le contrattazioni e non esitando, talora, a intervenire con osservazioni e suggerimenti da vecchio del mestiere.

Panorama costa da Marittima verso Castro (ph R. Boccadamo)

Lo scrivente era colpito dal particolare che, ogni qualvolta aveva occasione di accedere alla ferramenta, succedeva immancabilmente che Maestro Pippi lo riconoscesse dalla voce e chiedesse conferma, scontata, al figlio, che si trattava del “ragioniere”, evidentemente memore del primo titolo di studio di quell’avventore (del resto, nel 1960, al paese, di ragionieri, c’era il sottoscritto e solamente un’altra persona).

Avanzando cospicuamente l’età, il menage domestico padre/figlio, ha finito  col divenire vieppiù precario, quantunque lo spirito, la forza di sopravvivenza, a Maestro Pippi non siano mai venuti interamente meno.

Dall’inizio del 2010, la situazione si è, in certo qual modo, deteriorata del tutto  e, perciò, si è reso necessario il ricovero dell’anziano nella Casa di riposo “S. Giuseppe” (come Giuseppe, come Pippi) di Castro.

Il nostro amico personaggio ha così avuto agio di completare il suo lungo cammino tra cure specifiche e assistenza specialistica: in più, talvolta, sarà sicuramente stato allietato dai riecheggi sonori di vecchie pellicole date, decenni prima, in un’attigua arena cinematografica estiva, poi chiusa, e dalla voce del bellissimo mare, appena sottostante alla casa di riposo.

Lo scorso 22  novembre, festa di S. Cecilia patrona dei musicisti, Maestro Pippi, non più in sella all’antico e sgangherato velocipede, ma sospinto dalle possenti e inarrestabili ali del decorso finale, è asceso oltre le nuvole.

E’ da ritenere che, lassù, il suo viso sia ritornato liscio e disteso come nella tenerissima età e che la sua vista si sia rinnovata viva per continuare a dare un’occhiata ai figli e nipoti, nonché al paesello di nascita, in cui, di certo, non ha vissuto inosservato.

Buon proseguimento, Giuseppe Nuzzo, organista, compagno di primavere lontane, che, nella semplicità e nella contentezza rispetto al poco a disposizione, erano intrise di ricchezze interiori, di animi pulsanti.

Piccoli, barocchi e saporiti… gli struffoli

di Pino de Luca

Fra le pene accessorie che l’Italia ha dovuto scontare per aver provocato quella immane tragedia che fu la seconda guerra mondiale una riguardò il cinema. Obbligati per mezzo secolo ad avere nelle sale il 90% di pellicole americane.

Intere generazioni cresciute a western, film di guerra e commedie dai telefoni bianchi: pura colonizzazione culturale. Scontata la pena, anche se la cultura di questi tempi non è alla testa del pensiero di chi comanda, qualcosa si muove. Un libro e un film: “Terroni” e “Noi credevamo” provano ad uscire dalla retorica risorgimentale e a raccontare alcuni pezzi di una guerra di conquista per quello che è stata: ogni guerra che si rispetti ha sempre dichiarazioni di cause nobilissime e obiettivi veri assai meno narrabili. Ieri come oggi e come domani. E i vincitori hanno sempre bisogno di scrivere la loro storia spingendo al massimo la colonizzazione culturale. Devono trascorrere anni, forse secoli, per ritrovar traccia di una qualche ragione dei vinti.

Oggi, venerdi 17, giorno che la càbala reputa reietto, sfido la sorte: cucina meridionale, di scuola napoletana preunitaria, per sorprendere ospiti di italica stirpe che transitano per ospitali case durante le feste natalizie e combattere il colonialismo culturale anche sulle tavole.

La seconda edizione (1839) del libro: Cucina Teorico-pratica del Duca di Buonvicino precede di pochi decenni la manovra Sabaudo-Garibaldina che abbatterà il Regno di Napoli.

Preciso e meticoloso, Ippolito Cavalcanti, discendente del più famoso Guido, si giunge a raccontar per calendario cosa preparare giorno per giorno. E, secondo il Duca, la vigilia di Natale non possono mancare gli Struffoli.

Gli struffoli sono il dolce più meridionale che esiste. Sono piccoli, barocchi e saporiti e per farli e per gustarli ci vuole gusto, tempo e pazienza. Qualcuno li fa provenire dalla Grecia altri dalla Turchia. I Romani già usavano mangiar pasta fritta condita … Di certo la linea che parte dallo struffolo del Tirreno e

Sappiàtelo, la dieta mediterranea aiuta la psiche!

La dieta mediterranea aiuta la psiche

 

Un nuovo studio, pubblicato su Archives of General Psychiatry, dimostra in maniera chiara che seguire regolarmente una dieta mediterranea ricca di vegetali, frutta, cereali, legumi e pesce riduce il rischio di ammalarsi di depressione
Non solo il sole ma anche il cibo a disposizione delle persone che vivono in Paesi mediterranei potrebbe favorire condizioni mentali migliori rispetto a coloro che risiedono nel Nord Europa. Un nuovo studio, pubblicato su Archives of General Psychiatry, dimostra, infatti, in maniera chiara che seguire regolarmente una dieta mediterranea ricca di vegetali, frutta, cereali, legumi e pesce riduce il rischio di ammalarsi di depressione.

In particolare, l’indagine ha considerato 10mila studenti universitari spagnoli che al momento del reclutamento non mostravano alcun disturbo dell’umore e non assumevano farmaci antidepressivi. I partecipanti sono, quindi, stati suddivisi in due gruppi e sottoposti a un regime dietetico mediterraneo oppure caratterizzato dal consumo prevalente di carne e prodotti lattiero caseari. Dopo circa 4 anni di follow-up, attraverso specifici questionari, negli individui che consumavano principalmente e con frequenza giornaliera frutta, verdura, legumi e pesce è stata osservata una diminuzione di circa il 30% del rischio di depressione rispetto a coloro che si alimentavano costantemente con proteine e grassi animali. Gli autori sottolineano, inoltre, che l’associazione inversa tra dieta mediterranea e depressione continua a sussistere anche dopo le opportune correzione per altri stili di vita. “L’interpretazione dei nostri dati ci spinge ad affermare che abitudini alimentari sane possono favorire migliori funzioni cerebrali e, conseguentemente, consentire di far fronte in maniera molto più efficace alle frustrazioni giornaliere, allo stress e alle insoddisfazioni personali” ha dichiarato Almudena Sánchez-Villegas dell’Università di Navarra a Pamplona in Spagna.

Archives of General Psychiatry 2009, 66, 1090-1098

(da Nutrizione33)

Breve rassegna delle opere e autori esposti nella mostra leccese "Echi caravaggeschi in Puglia"

di Nicola Fasano

La mostra inaugurata il 6 dicembre, si inserisce nel contesto delle numerose celebrazioni per il 400° anniversario della morte di Michelangelo Merisi.

La Puglia non ha voluto essere da meno e Lecce in particolare, che aveva già ospitato una mini-esposizione sull’enigma dei due San Francesco, si rivela città sensibile ed attenta alle iniziative culturali.

Quando parliamo di “Echi caravaggeschi in Puglia”, dobbiamo ripercorrere brevemente le tappe del “secolo d’oro” della pittura napoletana che corrisponde al “600”: Napoli aveva visto all’opera un Caravaggio fuggiasco che in due distinti periodi, nel 1606 e nel 1609, rivoluzionò la pittura del regno vicereale ancorata al tardo-manierismo di tipo devozionale del Borghese, del Curia, del Pino etc.

Nel 1606, il pittore lombardo con le “Sette Opere di Misericordia” in Pio Monte della Misericordia getterà i semi per quella che sarà considerata la scuola napoletana. L’opera pagata la sbalorditiva somma di 400 ducati[1], fornirà un modello di riferimento sulla quale si eserciteranno artisti del primo naturalismo napoletano quali Battistello, Vitale, Sellitto e Finoglio.

La dirompente forza del Merisi, continuerà indisturbata a Napoli fino al 1640, quando in altri centri quali Roma si era ormai sopita[2].

In Puglia la presenza caravaggesca maturerà con i suoi seguaci, attraverso le opere commissionate in prevalenza da un’aggiornata aristocrazia feudale, dagli alti prelati che avevano contatti con la capitale  partenopea e dagli ordini religiosi. Proprio due esponenti dell’aristocrazia quali il marchese di Polignano Radolovich (Radulovich) ricco commerciante e il marchese di Taviano, Tommaso De Franchis commissionarono al Merisi due importanti opere: “la Madonna del Rosario” di Vienna e la “Flagellazione di Cristo” di Capodimonte (già in S. Domenico a Napoli).

Tralasciando la seconda opera, la prima, proprio in occasione di questa mostra, è stata riconosciuta nella Madonna del Rosario conservata al

L’albero della manna a Supersano

frassino meridionale (ph Francesco Tarantino)

Studenti del «Capece» trovano il mitico  albero della manna

di Angela Leucci

Gli studenti del liceo “Francesca Capece” scoprono l’albero della manna. È accaduto nel corso di un laboratorio di biologia, che ha coinvolto due corsi dello Scientifico Brocca, per un totale di 60 studenti, guidati dal docente Francesco Tarantino, quando nelle campagne intorno a Supersano si è verificata la scoperta scientifica, ma anche storica.

“Da oltre dieci anni – spiega il docente, che è anche agronomo – cercavo questa pianta, chiamata albero della manna. Era nota la presenza fin dal ‘700 del frassino meridionale nel Bosco Belvedere”.

ph Francesco Tarantino

Si tratta una pianta spontanea citata da alcune fonti, che ama i luoghi umidi e freschi, oltre che il caldo estivo: tra i luoghi privilegiati secondo le fonti, Supersano e i laghi Alimini. “In realtà – continua Tarantino – vi è un altro

Foglie di vite dal Salento in Oriente

200 tonnellate di foglie di vite da Martano del Salento leccese a Riyad dell’Arabia Saudita

di Antonio Bruno

 

Nelle Puglie ci sono circa 100mila ettari di vigneti e nel Salento leccese ne sono rimasti poco più di 13mila! Già poco più del 5% della superficie del Salento leccese è un vigneto! Ma oggi si è accesa una speranza! Ci potremo svegliare la mattina, dopo una nottata trascorsa piacevolmente nel fresco naturale delle case rurali, affacciarsi alla finestra e godere delle dolci bellezze delle immense distese dei vigneti del Salento leccese e decidere, con invidiabile calma, come passare un’altra giornata in luogo dove il rapporto salubre con la natura viene conservato con cura infaticabile. Se queste sono le condizioni che desiderate allora oggi, il dott. Giuseppe Lamacchia responsabile Ice ha reso noto che la Cooperativa Nuova Generazione di Martano del Salento leccese lavorerà 200 tonnellate di foglie di vite l’anno con l’invio in Arabia Saudita di un container al mese di foglie di vite in salamoia!

L’Arabia Saudita, è un Paese strategico per l’Italia ha una cultura che, anche se è molto diversa dalla nostra, è nello stesso tempo molto vicina ai nostri modi di vivere nel salento leccese. Se non ce lo dovessimo ricordare ecco che è bene tenere presente che è dall’Arabia Saudita che viene la cassata siciliana e sempre dagli uomini e dalle donne di quel paese vennero i nomi delle città di Marsala e Palermo.
Il Salento leccese deve puntare sull’Arabia Saudita perchè le foglie di vite sono utilizzata nella cucina araba. Ma cosa significa cucina araba? In quali paesi si cucina arabo? La cucina araba è l’insieme delle cucine dei paesi del mondo arabo, che spazia dal Golfo Persico (Arabia Saudita, gli Stati del Golfo, lo Yemen, l’Iraq, la Siria, il Libano, la Palestina, la Giordania) alle nazioni Nord Africane (Marocco, l’Algeria, la Tunisia, la Libia, Sudan ed Egitto). Una delle pietanze dedicate di questa cucina sono le foglie di vite ripiene di riso e carne.
Anna B. riferisce che ad Alessandria in Egitto ha mangiato al ristorante GAD, in centro, nei pressi della Borsa. Cucina casalinga: shawerma al tavolo (la carne tagliata dallo spiedo girevole) con riso stufato, falafel croccantissime (polpette di fave), pasta al forno, zuppa di pollo e involtini di foglie di vite.
Nella cucina turca si chiamano foglie di vite ripiene di riso (yaprak dolması). Le troviamo anche in vendita su internet arca le Dolmas – foglie di vite ripiene di riso: Rapunzel – Formato: g 280 – Prezzo: 4,99 euro. Gli ingrediati riportati in etichetta sono Cipolle, foglie di vite 28%, riso 17%, olio extra vergine di oliva 8%, acqua, sale marino, aneto, acidificante: acido citrico, menta e pepe nero.
In Grecia si mangiano quasi sempre come antipasto e si possono condire con yogurt greco o limone.
Ingrediente imprescindibile delle dolmades è la foglia di vite, mentre il ripieno può variare: di solito è fatto di riso, carne macinata o verdure.
Un mercato enorme! Tutto il mediterraneo ha gli involtini di foglia di vite che siccome sono cucinati nel mediterraneo mi chiedano se siano uno dei piatti tipici della Dieta Mediterranea.
Comunque le foglie di vite devono essere molto morbide e tenere. Possono essere conservate in salamoia tutto l’anno.
Io sono molto curioso e desidererei assaggiare questo piatto profumatissimo.

Un mercato enorme per le foglie di vite del Salento leccese, quella vite che è stata oggetto dello scempio dei continui premi per lo snellimento potrebbe tornare a sfavillare non per i grappoli e per il vino ma per le foglie, tenere e gustose, fresche o in salamoia!
Domenica 12 dicembre 2010 vedrò i Dirigenti della Cooperativa Nuova Generazione di Martano del Salento leccese per l’incontro tecnico sulla lebbra che si terrà nella loro sala convegni, parlerò a questi coraggiosi che lavoreranno le foglie di vite per farle arrivare in Arabia Saudita paese arabo molto simile a noi del salento leccese che potrebbe rappresentare il trampolino di lancio per l’esportazione in tutto il Mediterraneo.

E chi dovrebbe commercializzare le foglie di vite? Ma proprio noi! Perché siamo noi che viviamo nel Salento leccese, la penisola che si immerge per essere proprio al centro del Grande Lago Salato.

Si! Noi della Terra dei due mari che invece di trasformare il sole in vino, trasformeremo il sole in foglie di vite per i popoli di tutto il Mediterraneo.

Bibliografia
I numeri del vino http://inumeridelvino.it/category/3-produzione-di-vino-e-superfici-vitate/page/3
Ristorante GAD Alessandria d’Egitto
http://www.google.it/maps?q=GAD+alessandria+egitto&fb=1&gl=it&hq=GAD&hnear=Alessandria,+Alexandria,+Egitto&ie=UTF8&hl=it&view=map&cid=17171180218530367627&iwloc=A&ved=0CBcQpQY&sa=X&ei=ZY8CTcPqNIe9_gbM4cjCCA
Dolmas – foglie di vite ripiene di riso http://www.biosee.it/cgi-bin/scheda_prodotto.cgi?sid=7bee707f6f2e43d64f1b740f2ea781fc&id=4145

Oria. Non si può!

chiesa di s. Francesco d’Assisi – Oria (ph Franco Arpa)

di Franco Arpa

Oria ha una storia di oltre tremila anni ed è uno dei centri della provincia di Brindisi che vanta numerosi Beni Culturali, Archeologici, Architettonici, etc. Purtroppo l’azione dell’uomo nel corso dei secoli è stata in molti casi dannosa per detti Beni. Molte volte si è trattato di incuria più o meno colpevole. Altre volte in modo consapevole sono stati perpetrati dei veri e propri scempi.

L’esempio più eclatante si è verificato nel 2002 allorquando è stata distrutta un’antica necropoli messapica, in area ex conventuale e sottoposta a tutela

Il filosofo e il matematico

 di Pier Paolo Tarsi

“Ma poi, in definitiva, a cosa serve la filosofia?” chiese un logico matematico a un filosofo. “Beh, per esempio, a domandarsi a cosa serva la logica” rispose il filosofo. “Ma questo – replicò il matematico, un po’ punto – non dovrebbe essere soprattutto affar nostro, cruccio di noi matematici insomma?”. “Credo proprio di si”, rispose il filosofo. “E allora, mio caro, a cosa servano nello specifico i filosofi non è affatto chiaro!” obiettò prontamente l’altro. “Come avrai appena constatato – riprese serafico il filosofo – servono almeno a ricordare ai matematici che pur avendo qualche risposta da cercare, si attardano in inutili questioni come quella che mi poni…”. “Dunque mi par di capire – approfittò il matematico, argomentando compiaciuto – che i filosofi servono solo affinché spronino tutti gli altri a dedicarsi in autonomia e attivamente a certi propri crucci, rendendo così inutili e superflui i filosofi stessi! La loro bizzarra funzione consiste insomma semplicemente nel cercare di estinguersi!”. “In un certo senso si, in un altro senso no” accordò il filosofo. “Perdonami, ma non comprendo affatto…” insistette il matematico non ancora pago. “Cosa non comprendi, mio caro?” domandò calmo il filosofo. “Non afferro i vari sensi a cui alludi…- si apprestò a chiarire il matematico – se i filosofi servono a portare gli altri a occuparsi da sé dei

C’è Aria di Limone

di Pino de Luca
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Credo che quando si scrive l’inclusione di elementi strettamente autobiografici sia sostanzialmente inevitabile. Qualunque sia l’argomento. Qui discettiamo settimanalmente dell’arte del mangiare, ovvero di questioni che nella comune vulgata sono archiviate come “leggère” e sicuramente leggère sono. Capita che quando a lèggere siano occhi avvezzi riconoscano tracce sottovalutate anche a chi ha scritto. Devo dar atto di ciò a Marcello che mi ha fatto notare l’alto grado di autobiografia spontanea che traspare dai miei modesti contributi.
E allora, per una volta, voglio esser esplicitamente autobiografico. I miei nonni materni sono stati estremamente prolifici così anche molti dei loro discendenti. E la nonna Giorgina spesso doveva dar udienza a frotte di marmocchi d’ogni età, a volte anche da mangiare.
Il pesce, si sa, fa bene ai bambini ma si sa anche che già allora non era per tutte le tasche. E però, in autunno, era tempo di “pisce cagnulu”, di Spinarolo in italiano (Squalus acanthias) unico squaloide con carni di qualche pregio. Questo pesce date le sue dimensioni e il costo non eccessivo ben si presta alla, come dire, nutrizione collettiva e può esser preparato in molti modi.
lo spinarolo

 

Lo Spinarolo fresco ha costo basso perché la sua conservabilità non è molto longeva. Se degrada è facilmente riconoscibile perché assume un odore pungente di ammoniaca.
La mia nonna lo preparava in umido con olive e patate ma vorrei provare a

Ed ecco la borragine…

Io, la burràggine e la dichiarazione dei redditi

 

di Armando Polito

 

Nome italiano: borraggine o borragine

nome scientifico : Borago officinalis L

famiglia: Boraginaceae

nomi dialettali salentini: burràggine (Nardò), burràcciu (Spongano e Manduria), burràccia (San Giorgio sotto Taranto).

La voce italiana secondo il De Mauro1 è nata nel 1342 ed è “dal latino medievale borràgine(m), di origine incerta”; non è da escludersi, secondo alcuni autori, che essa sia connessa col latino tardo burra(m)=lana grezza, con riferimento alla pelosità delle foglie e del fusto. Trovo la proposta convincente non solo sul piano semantico ma anche su quello formale, per il suffisso (già ampiamente presente nel latino classico) che è entrato nella formazione di molte parole. Esso, aggiunto produttivamente ad aggettivi, e meno frequentemente a sostantivi, forma sostantivi femminili indicanti qualità, condizioni, considerate negative, riferite specialmente a persone (cocciutaggine, leziosaggine, sbadataggine, sgarbataggine, somaraggine, testardaggine, tetraggine); a volte indica un atto manifestante queste qualità (spiritosaggine, stupidaggine); è presente in un numero limitato di sostantivi deverbali (scelleraggine); nel campo della botanica, infine, ha dato vita a capraggine, favaggine, lentaggine, tussilagine, plantaggine.

Secondo altri borraggine deriverebbe dall’arabo abu araq (= padre del sudore), di cui il latino medioevale borrago/borràginis sarebbe deformazione, forse per le proprietà sudorifere della pianta. Può sembrare strano a prima vista che il latino medioevale abbia costruito, per la trascrizione della voce araba, un sostantivo della terza declinazione, notoriamente più complicata rispetto alla seconda (alla quale sembrerebbero collegarsi le salentine burràcciu e burràccia); la cosa, però, non mi sorprende più di tanto se penso al toponimo Nardò per il quale convivono in epoca medioevale le forme Neritum/Neriti (seconda declinazione) e Nerito/Neritonis (terza declinazione).

Nella letteratura classica questo nome (o sua forma più o meno vicina) non compare, anche se più di un autore in ogni epoca ha creduto di identificare l’erba nella buglossa (presso gli autori greci bùglosson, composto da bus=bue e glossa=lingua, nei latini buglòssos o buglòssa) citata, tra gli altri, da Plinio2. Questa identificazione mi lascia perplesso perché ho il sospetto che sia sia confusa la nostra borraggine con un’erba appartenente alla stessa famiglia, la buglossa appunto (Anchusa officinalis), cui somiglia vagamente e con cui condivide molte proprietà. Me lo fa pensare non solo il nome dialettale neretino (lèngua ti bòe) ma soprattutto quanto sul tema è scritto in un’opera di botanica del XVII secolo3: “Che la Borraggine sia la Buglossa degli antichi lo negano i monaci dist. 6 cens. 146 in Mesu. Che cosa certamente sia quella volgarmente detta Borraggine non è descritto da nessuno degli antichi. Invece molti degli autori recenti ritengono con sicurezza che si tratta della Buglossa degli antichi. Noi al contrario (dicono loro), esaminate accuratamente tutte le descrizioni, abbiamo stabilito che la Borraggine non è la Buglossa degli antichi”4.

Comunque stiano le cose (debbo dire, però, che in questo campo dei monaci mi fido…), l’opinione di Plinio sull’effetto principale della reale o presunta borraggine sarà ripresa dieci secoli dopo dalla Scuola medica salernitana4: “O borraggine buona! tanto dolci sono i tuoi doni! Dice la borraggine: apporto sempre gioia. La borraggine porta via le pene del cuore, apporta gioia.”

Chiudo con una mia riflessione, per quello che possa valere: dopo aver constatato l’inefficacia afrodisiaca della rùcula, debbo confessare che le cose non sono andate diversamente con la burraggìne. Può darsi che la mia abitudine di consumare in quantità industriali ogni specie vegetale più o meno commestibile abbia reso refrattario il mio organismo ad ogni effetto. In particolare ho gustato questa erba in tutte le salse: lessa (non è un granché, almeno per il mio gusto), come componente nella preparazione di pasta verde (buona), fritta (una delizia!). Peccato che la coincidenza tra il tempo della sua maturazione e quello della dichiarazione dei redditi per me sia irrilevante, tant’è che in quel periodo, per quanta ne consumi, il mio umore non cambia di fronte al modello Unico, la cui compilazione ogni anno mi angustia più degli stessi relativi versamenti. A furia di mangiare tanta verdura son diventato, evidentemente, simile ad un caprone. Mi auguro solo che prima o poi non mi spuntino le corna; e questa volta il riferimento al mancato effetto della rùcula sarebbe causale e non casuale…

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1Dizionario italiano, Paravia e Bruno Mondadori, Milano, 2000.

2 Naturalis historia, XXV, 81: “Iungitur huic buglossos, boum linguae similis, cui praecipuum, quod in vinum deiecta animi voluptates auget et vocatur euphrosynum” (Si aggiunge a questa [la piantaggine] la buglossa, simile alla lingua dei buoi, che immersa nel vino intensifica le sensazioni piacevoli ed è chiamata eufrosino [dal greco eufròsunon=allietante]).

3  Historia plantarum universalis di Jean Bauhin, Jean-Henri Cherler, Dominique Chabrey,  Embroduni, 1651, vol. III°, pag. 576: “Borraginem esse Buglossum Antiquorum negant Monachi dist. 6. cens. 146 in Mesu. Quid certe fit Borrago vulgo dicta, a nemine priscorum describitur. Iuniorum autem plurimi firmissime tenent esse Buglossum antiquorum. Nos autem (aiunt illi) diligenter examinatis omnium descriptionibua, Buglossum antiquorum non esse Borraginem statuimus”

4Nella stessa opera a pag. 577 gli autori, a proposito dell’origine del nome avanzano questa ipotesi: “Veterum est Buglosson, quod Latinis Lingua bubula, Lingua bovis, Buglossus et Libanium dicitur, Apuleio et Corago: unde fortassis Borraginis nomen C in B mutatum nisi apud Apuleium Borrago pro Corago legendum fit” (È degli antichi Buglosso, quello che dai Latini è detto Lingua bovina, Lingua di bue, Buglosso e Libanio, da Apuleio pure Coragine: donde forse il nome della borraggine col cambiamento di C in B, a meno che in Apuleio non si debba leggere Borrago invece di Corago). Per completezza di informazione va detto che l’Apuleio citato non è quello di Madaura (II° secolo d. C.) ma un autore posteriore di almeno due secoli il cui Herbarius compare in parecchi codici medioevali. Già un secolo prima dell’opera citata all’inizio della nota precedente e di questa Adam Lonitzer in Naturalis historiae opus novum, Francoforte sul Meno, 1551-1555, pag. 64r alla voce Borago aveva rimandato a Buglossum, ove, a pag. 63 v, così aveva scritto: “Buglossum, Lat. Lingua bovis. Gall. langue de bouc, baillant couroge: est Borrago seu Corago. Ital. Boragine. Ger. Buries. Naturae est calidae et humidae. Urinam ciet, sitim sedat, cor exhilarat” (Buglosso, in latino Lingua di bue, in gallico langue de bouc, baillant couroge: è la Borraggine o Coraggine, italiano Boragine, germanico Buries. È di natura calda e umida. Stimola l’emissione di urina, placa la sete, rallegra il cuore).

5 G. E. T. Henschel, Charles Daremberg, Salvatore De Renzi, Collectio salernitana, vol. I°, articolo IX, § 4, pag. 458, Tipografia del Filiatre-Sebezio, Napoli, 1852: ”O borrago bona! Tam dulcis sunt tua dona! Dicit borrago: gaudia semper ago. Cardiacos aufert borrago, gaudia confert”.

Mostre/ Lecce. Echi caravaggeschi

 

Echi caravaggeschi in Puglia 

 

 di Nicola Fasano

 

Lunedì 6 dicembre si inaugura a Lecce, in San Francesco della Scarpa, la mostra “ Echi caravaggeschi in Puglia”, essa vedrà l’esposizione di circa 60 opere provenienti da chiese, da musei, e da collezioni private del territorio pugliese e del territorio materano. L’evento è a cura dal museo provinciale Castromediano in collaborazione con la Soprindentenza per i Beni Storici-Artistici ed Etnoantropologici della Puglia.

Scopo della mostra è quello di indagare la portata del naturalismo del grande pittore lombardo in Puglia, attraverso i suoi primi seguaci quali Battistello, Sellito, Vitale, Finoglio, che da Napoli capitale vicereale, diffusero lo stile del Merisi nel nostro territorio grazie ad un’attenta e aggiornata committenza laica e religiosa. Vale la pena sottolineare il caso singolare di Paolo Finoglio che, legato affettivamente a Lecce (aveva sposato la leccese Teresa Lolli) operò in molte chiese del Salento e, seppure con qualche incertezza alternò e integrò la propria radice tardo-manierista con esiti caravaggeschi.

Non mancheranno opere inedite appartenenti a privati, oltre a due opere provenienti dal territorio lucano quali la “Natura morta” della collezione D’Errico e la splendida “Madonna delle Grazie” di Aliano del Sellitto. Molte delle tele esposte sono state riportate ad antico splendore dal Laboratorio di Restauro della Soprintendenza della Puglia e, questo ha permesso agli

Antichi sistemi di copertura per le abitazioni salentine

Nardò nel 1732

di Fabrizio Suppressa

 

I motivi di una così diffusa tecnica di copertura sono da ricercarsi esclusivamente nell’esiguo costo dei materiali impiegati, rispetto alle ben più costose e complesse volte in muratura; ma ciò non significava affatto che tale tecnica sia stata in passato appannaggio delle architetture più semplici e povere. Sovente, anche i palazzi nobiliari possedevano all’ultimo piano tali coperture, anche se mascherate da alti frontoni, come ad esempio Palazzo Castriota a Melpignano, Palazzo Rescio a Copertino o tanti altri esempi, riconoscibili ai giorni nostri per l’ultimo piano a “cielo aperto”.

Anche la campagna non era da meno; nel libro dei conti della masseria S. Chiara in agro di Nardò, leggiamo infatti che nel 1684 si ebbe modo di rifare l’acconcio delle capanne, e per tale scopo venne chiamato un mastro dalla vicina città di Veglie[1]. Le capanne, ovvero gli elementi pertinenziali, quali abitazioni e magazzini, non erano i soli elementi realizzati con tali semplici tecniche costruttive. In alcuni casi, anche la torre, l’elemento fortificato al centro di ogni complesso masserizio, possedeva alla sua sommità due falde inclinate, anche se ciò comprometteva un’abile manovra di difesa piombante. Per rimanere in ambito neretino, questo è il caso della masseria Nucci; dove purtroppo dobbiamo constatare l’introduzione durante i lavori di ristrutturazione di tegole non appartenenti alla nostra tradizione costruttiva, stese al di sopra di una vistosa soletta in cemento armato su di una torre del XV sec. Un ultimo esempio è una particolare architettura spontanea nata dalla fusione degli elementi tipici di città e campagna: la caseddhra. Una costruzione a secco a pianta rettangolare con una stretta somiglianza all’immagine dei nostri trulli, ma al contrario di questi ultimi, non coperta da una falsa cupola bensì da un tetto formato da una rustica struttura di legno, canne e tegole.

caseddhra
Caseddhra (dis. F. Suppressa)

 

Le caratteristiche di deperibilità e fragilità dei materiali impiegati erano tali che ciclicamente si doveva provvedere allo smontaggio e alla ricostruzione del tetto. E’ difficile quindi trovare ai giorni nostri opere che abbiano più di cento anni. Forse l’unica eccezione è racchiusa all’interno delle mura del Santuario di San Giuseppe da Copertino; la costruzione eretta dal maestro Adriano Preite nel 1754 conserva intatta l’umile stalletta dove nel 1603 il Santo venne alla luce.

La tecnologia, come già detto, era semplice e rapida. Un sistema di travi di legno chiamati murali poggiante sulle esili pareti di tufo, ospitava in senso ortogonale un assito di tavole su cui gravitava il manto di tegole. Solitamente a causa del costo più elevato, si ricorreva ad un “surrogato” delle tavole di legno, ovvero un cannizzo su cui veniva posta della malta (mista a paglia o pula di grano) per uno spessore di circa cinque centimetri. Nonostante la tecnica era ad uso di ambienti più umili, la copertura incannucciata garantiva un apprezzabile isolamento termico (le canne palustri e la malta mischiata con paglia, sono infatti materiali sostenibili impiegati oggi nella bioedilizia). In caso di ampia superficie da coprire, la struttura lignea diveniva molto più elaborata, l’Arditi nel suo “L’Architetto in Famiglia”, edito a Matino nel 1894, ci ricorda le varie parti dell’intelaiatura, che a seconda della funzione prendono il nome dialettale di monaco, braccia, razze, asinello e panconcelli.

Copertura Incannucciata
Copertura incannucciata, masseria Sarparea de’ Pandi (ph. F. Suppressa)

 

Altrettanto curioso è il termine dialettale usato per indicare la tegola, ovvero l’imbrice (irmice o ‘mbrice in alcune varianti). L’assonanza ricorda la parola embrice, tegola piatta diffusa nell’area tirrenica nella tradizionale copertura alla romana, eppure la nostra tegola dalla forma concava corrisponde alla parola italiana coppo. In soccorso interviene il Marciano (anch’egli abitava in una casa con tetto a capanna), che nel capitolo del suo libro dedicato al regno minerale ci scrive quanto segue:

“Si trova anche in questa Provincia la Rubrica Sinopia eccellentissima, e la fabbrile dell’una e dell’altra specie in abbondanza, e l’argilla, ovvero creta bianca, della quale si lavorano e fanno i tetti per coprire le case, che il volgo chiama imbrici, imitando l’etimologia ed il nome latino Imbrices, ab imbrium defensione, (..)”[2].

Tali laterizi venivano realizzati in centri urbani specializzati nelle produzioni ceramiche, come Cutrofiano, Grottaglie, Lucugnano e San Pietro in Lama; non a caso, quest’ultima località era conosciuta in passato anche con il nome di San Pietro degli èmbrici[

A fine Ottocento, con l’aumento dell’attività estrattiva dei materiali edilizi e il perfezionamento delle tecniche costruttiva inizia la rapida scomparsa dallo scenario urbano di questo tipo di copertura. Il cocciopesto, un impasto di malta e cocci finemente triturati, utilizzato per secoli per impermeabilizzare i terrazzi di edifici di notevole importanza, viene rapidamente sostituito dalla tecnica del lastrico composto da chianche in pietra di Cursi e cemento; tuttora abilità fiore all’occhiello delle maestranze salentine.


[1] Antonio Costantini, Le masserie fortificate del Salento meridionale, Galatina, 1984, p. 74

[2] Spero in una conferma Prof. Polito!

 

La Puglia terra di Papi e Santi (terza parte)

LA PUGLIA TERRA DI PAPI E SANTI (3)

 Benedetto XIII

 

di Giuseppe Massari

La matematica dice che il numero tre è il numero perfetto, attingendo, con ogni probabilità, dai latini che dicevano: “omne trinum est perfectum. Tre, per un caso o una coincidenza sono finora i papi pugliesi. Degli altri abbiamo ampiamente scritto e descritto, in precedenza, da queste stesse colonne, la loro vita, le loro opere pastorali, il loro servizio alla Chiesa, fra ombre, luci, consensi e dissensi.

Ora è la volta dell’ultimo della serie, Benedetto XIII, della nobile famiglia degli Orsini. Nato Pierfrancesco, a Gravina in Puglia, come primo erede del casato, dal duca Ferdinando III e Giovanna Frangipane della Tolfa, a diciassette anni veste l’abito domenicano, assumendo il nome di Vincenzo Maria. Una scelta difficile e travagliata, perché osteggiata dalla madre, la quale stava preparandogli, essendo il primogenito, un bel partito matrimoniale. Lui incurante dei piaceri mondani e dei privilegi di corte e di casta, abbandona tutto e segue la chiamata vocazionale al sacerdozio, intraprendendo una rapida carriera ecclesiastica, tant’è che a 22 anni, ad appena un mese dalla sua ordinazione sacerdotale, tra resistenze, pianti, dinieghi, da papa Clemente X, è creato cardinale, del titolo di San Sisto, e non perché raccomandato o per una sorta di privilegio che gli derivava dalla sua discendenza e dai suoi avi, ma perché apprezzato modello di santità, dottrina, cultura, sapienza e scienza. Questo incarico, inaspettato, lo turbò parecchio, perché egli voleva continuare a vivere la vita del chiostro che aveva scelto. Purtroppo, per lui non fu così, tanto che fu costretto all’obbedienza da parte del suo Maestro generale dell’ordine a cui apparteneva. Chinò il capo, convinto di fare la volontà di Dio e assunse, con dignità e decoro tutti gli impegni che gli furono assegnati. Dapprima nei panni di uomo di curia, presso alcuni dicasteri vaticani, e, successivamente come vescovo di Manfredonia, Cesena e Benevento. In queste tre sedi vescovili spese, fino alla morte, tutte le sue energie spirituali, morali e materiali. Restaurò a sue spese chiese, ospedali, se non addirittura costruendoli dalle fondamenta. E’ il caso di Manfredonia, dove pure non esitò, sotto la spinta del Concilio di Trento, a costruire un seminario per la formazione del clero. In questa terra garganica il suo episcopato durò poco meno di cinque anni, perché fu trasferito a Cesena. Anche qui, nella brevità della sua permanenza, non fece mancare il suo apporto, le sue intuizioni

Fra Taranto, il Canton Ticino e il Sud Tirolo, una piccola, bella storia italiana

di Rocco Boccadamo

veduta di Taranto

Non v’è dubbio, lungo lo Stivale sono evidenti e purtroppo diffusi i segni e
gli effetti della grande crisi economico-finanziaria mondiale, esplosa circa
tre anni addietro e non ancora superata.
E però, ciononostante, permangono, sono vivi e si manifestano palesi e
peculiari, antichi e tradizionali tesori, cioè a dire il sentimento, il calore
umano, la fantasia, la predisposizione al trasporto affettivo, l’iniziativa e
il coraggio.
In termini sintetici, checché si arrivi a configurare attraverso
un’osservazione epidermica, i cuori delle genti italiche seguitano a pulsare, a
inventarsi, costruire e generare incontri e relazioni, nuove coppie e nuove
vite.
Siffatte considerazioni di premessa non scaturiscono casualmente, trovandosi bensì, in un certo senso, specchiate in una storia comune e nello stesso tempo emblematica, il cui racconto nasce e si articola durante un viaggio sull’Eurocity in servizio da Verona a Monaco di Baviera, appena compiuto dall’autore delle presenti righe per andare a trovare la figlia e la nipotina, residenti, giustappunto, nella città tedesca.
Compagna di scompartimento, una giovane psicologa, Lucia, la quale è diretta a una località alto atesina, nei pressi del confine del Brennero.
Sorride, la ragazza (in fondo, ha 27 anni), nell’apprendere che il ragazzo di
ieri del sedile accanto è pugliese di Lecce e, con spontanea e istintiva
naturalezza, sempre sorridendo, passa quindi a confidare di avere, per compagno di vita, un pugliese di Taranto.
Come in ogni approccio di “racconto”, spuntano d’incanto una serie di lucine
lampeggianti, ansiose di illuminare ulteriori dettagli e contenuti, insomma i
capitoli successivi della vicenda.
Lucia, dopo aver frequentato l’università e conseguito il diploma di laurea a
Padova, inizia a lavorare a Bolzano, ovvero a due passi dalla casa natia.
Sennonché, nell’estate 2009, durante un fugace fine settimana di passaggio ad  Abano Terme, i suoi occhi s’imbattono, nell’hotel, in quelli di un altro
ospite, a sua volta arrivato nella medesima stazione di soggiorno per una breve parentesi rinfrancante.

da Wikipedia

Il suo nome è Luigi, è originario della città dei due mari, fa, da diversi
anni, l’infermiere in una struttura sanitaria del Canton Ticino, già sposato,
separato, un figlio adolescente a lui affidato.
Secondo il più classico canovaccio romantico che, talvolta, ricorre ancora
oggi, le prime fiammelle dell’incontro prendono ad ardere insieme e, piano
piano, a fondersi: ne nasce intesa, affetto, amore e passione.
Tanto che, nel volgere di pochi mesi, la giovane psicologa, sulla base di
preventivi contatti, ricerche e approfondimenti, compiuti con l’ausilio del
fresco partner, circa la disponibilità per lei di un adeguato collocamento
professionale lavorativo ex novo, si determina a lasciare l’impiego di Bolzano, oltre che la famiglia, e a trasferirsi a Bellinzona.
Un esempio di quando i sentimenti sfociano in iniziative coraggiose, scelte di
vita forti sotto ogni profilo.
Sicché, ora, Lucia, nata e cresciuta tra le montagne e in ideale comunione e
consuetudine con la loro immagine amica, è sì circondata da un habitat naturale non dissimile, ma vive le sue albe e i suoi tramonti accanto a Luigi, la cui pelle, non v’è emigrazione ancorché prolungata che valga a mutarla, ha il sapore di salsedine e di scirocco del Grande Salento.
Nell’attuale “mondo”, ella si sente, e tale dà a vedere di essere, serena e
contenta, quantunque le tocchi di dover conciliare le sue giornate, le sue
aspettative e i suoi progetti, sia alla luce dei turni di lavoro, tra lei e il
compagno, talvolta differenti e sballati, sia in rapporto alle cure e ai
bisogni del giovanissimo figlio dell’uomo.
Lucia è già stata accompagnata da Luigi a Taranto per la presentazione ai
genitori di lui e, con l’occasione, ha avuto modo di effettuare un po’ di giri,
visitando, ad esempio, Alberobello, Castellana Grotte e il Gargano. Traendone piacere ed entusiasmo, al punto da non veder l’ora di poter, nel 2011, ritornare al Sud, con due obiettivi prevalenti: passare alcuni giorni alle Tremiti e altri a Lecce e nel Salento.

Aspettandovi, auguri, Lucia e Luigi!

Cartoline da Tuglie. Un luogo ideale

di Luigi Scorrano

C’è un’aria fina di primavera e vi si sveglia dentro il desiderio di una bella passeggiata? Il paese non offre molto sotto questo punto di vista. Qualunque passo pone il problema dell’incolumità personale: il pedone è sempre a rischio.

Lasciate pure le solite strade del centro e cercate un luogo appartato ma non proprio nascosto. C’è! Vi svettano alberi superbi, comodi viali vi permettono di camminare senza rischi, una gran quantità di piante fiorite e ben curate rallegra la vista: insomma, c’è quanto si può desiderare per andarsene a braccetto dei propri pensieri. Il luogo spira calma e serenità. Camminandovi, anche se siete da soli, vi sembrerà di essere in buona e numerosa compagnia. Non correrete il rischio che qualche seccatore vi capiti tra i piedi. Coloro che vedete hanno tutti un sorriso benevolo, vi guardano con simpatia e si rallegrano di vedervi. Forse soffrono un poco di solitudine e non gli par vero che nelle loro case silenziose di tanto in tanto risuoni il rumore d’un passo diverso dal loro, ch’è felpato e quasi inaudibile.

Si respira, qui. E vi si gode un panorama stupendo, tanto che quasi quasi nasce un po’ d’invidia per coloro che son venuti ad abitare qui dal momento che godono d’una visione che altri luoghi del paese non potrebbero offrirvi

Una gustosa verdura di stagione, tipica della mensa salentina

“Mùgnuli” del Salento leccese, li vedi, li ami, li mangi e ti salvi!

di Antonio Bruno

 “Mùgnuli” sono un broccolo cavolo del Salento leccese che cresce spontaneo e che viene coltivato da sempre. Lo mangiamo solo nel Salento leccese, è gustoso e genuino e fa bene alla salute perché in questa verdura sono presenti gli “ INDOLI” sostanze la cui assunzione permette di prevenire certi tumori a carico dell’apparato digerente.

Musei di Terra d’Otranto. Il Museo Archeologico della Civiltà Messapica

 

Musei di Terra d’Otranto

Il Museo Archeologico della Civiltà Messapica

Vaste di Poggiardo

 

di Alessandro Potenza

Tra le tracce lasciate dalle antiche genti vissute in Terra d’Otranto, numerose sono quelle dei Messapi, che ne testimoniano la presenza e la storia.

Gli scavi effettuati nella città di Vaste, frazione di Poggiardo, anticamente denominata Basta, hanno portato alla luce reperti interessanti sia per quantità che per qualità, che testimoniano l’epopea di questo antico popolo il cui nome, attribuitogli dai greci che colonizzarono la penisola salentina a partire dal IV secolo a.C., significa “popolo tra i due mari”.

Diversi esemplari di questi reperti sono conservati nel Museo Archeologico della Civiltà Messapica allestito nelle stanze del cinquecentesco palazzo baronale di Vaste.

Il museo offre un interessante percorso con scansione temporale che va dal VI sec. a.C. al IV sec. d.C. e permette al visitatore di collocarsi virtualmente nella quotidianità dell’antico popolo dei Messapi.

Lungo il percorso espositivo, tra un susseguirsi di testimonianze, si potranno osservare i ricchi corredi delle tombe a sarcofago, i bellissimi crateri, i bacili, gli strigili così come le trozzelle a decorazione floreale o geometrica rinvenute nelle sepolture

Spigolando in trasferta: una targa, un manifesto e una littorina

aia salentina

di Rocco Boccadamo

Da settimane, come è noto, si vanno leggendo e vedendo tristi cronache e
immagini relative alle eccezionali precipitazioni  e agli straripamenti di
alcuni fiumi su vaste aree del Veneto, incluse, purtroppo, nel rendiconto,
alcune vittime fra gli abitanti, incommensurabili stragi di animali
d’allevamento, seri danni ad abitazioni, esercizi commerciali, aziende e
fabbriche. Insomma, una grave e pesante emergenza.
E però, l’odierno pomeriggio in una località dell’Alta Padovana è
eccezionalmente illuminato da discreti raggi di sole e caratterizzato da clima mite. Ciò, con chiara gioia e tangibile godimento per il “foresto”, curando
alle terme, che si trova a soggiornare temporaneamente nei paraggi, essendogli finanche dato agio di compiere passeggiate a piedi e di rimirare intorno.
In prossimità di un deposito del Consorzio Agrario, ora inattivo, incastonata
su un vetusto ma sempre solido muro, s’affaccia una targa in marmo, recante,  incisa, la dizione “ASS.NE TREBBIATORI E MOTORATORI” (proprio motoratori, non motoaratori secondo dizionario).
Tale insegna risale, probabilmente, a molti decenni, chissà se non a più di
mezzo secolo fa, allorquando il settore dell’agricoltura era il prevalente e

determinati atti o fasi, nel suo contesto, costituivano autentici riti e/o
missioni. All’epoca, non a caso, si ponevano, vivi, forti e saldi, sentimenti,
segni, principi e valori, sopra ai quali poggiava un’autentica civiltà,
giustappunto la civiltà rurale o contadina, abito di prezioso riferimento per
le comunità coesistenti.
Poi, piano piano, tutto è venuto cambiando, si sono gradualmente imposti altri mondi e altre storie.

Nondimeno, la targa in questione vale a rimandare la sensibilità del “foresto”  alla sua terra d’origine, dove, prima che arrivassero le macchine con motori a  scoppio, la cerimonia della trebbiatura, solenne come poche, si svolgeva su basolato delle aie campestri, con l’insostituibile ausilio di baldi e robusti cavalli trainanti grosse pietre per lo sbriciolamento delle piante e delle spighe, e, ancora, di braccia, forconi e badili. Completata la “ientulatura”, la cernita a mano e la conservazione dei preziosi chicchi in sacchi di iuta, il rito finale di ogni turno consisteva in una spartana riunione a tavola, la  sera, nell’abitazione del proprietario della messe, per una mangiata di pasta asciutta, va da sé, fatta in casa, condita con pomodoro e basilico.
Non distante dalla targa rievocatrice della coppia di categorie di operatori
dei campi, ecco sorridere, invece, un grande manifesto multicolore con
l’annuncio “FESTA DEL BACCALA’, DAL 19  NOVEMBRE AL 5 DICEMBRE” .
Non più il grembo dell’agricoltura, ma pur sempre un corollario/proposta di cibo, alimentazione, leccornie a base ittica, fa niente se con prodotti
provenienti dal Nord Europa. Si pensi, quasi tre settimane di festa, si
immagini quanta goduria di assaggi, mangiate, abbuffate, magari alla sera e nei giorni festivi.
Anche in questa ultima fattispecie documentale, si materializza, d’incanto,
l’accostamento ad un’antica e tradizionale usanza del sud e, propriamente, del Salento, che tuttora resiste. Il 7 dicembre, vigilia della Festa
dell’Immacolata, si è soliti caratterizzare i pasti in modo particolare, ovvero
puccia con olive o uva passita, imbottita o non di tonno sottolio, a
mezzogiorno, mentre, alla sera, pastina in brodo con baccalà per pietanza.
Una volta tanto, perciò, affinità e vicinanza ideale, almeno sulla tavola, fra
Veneto e Tacco.
Approssimandosi il tramonto, volge a compimento anche la puntatina del ragazzo di ieri a contatto dei paesaggi dell’Alta Padovana, con il rientro in città in treno, precisamente su una littorina. Il mezzo non è dissimile da quelli che si vedono circolare sui binari delle Ferrovie Sud Est, salvo che, qui, lo sguardo dello scrivente coglie una inopinata, gradevole connotazione distintiva: nella cabina di guida, regno del mitico macchinista, siede e opera una donna giovane e carina.
Terminando, si può forse chiosare con il quadretto “tradizioni e immagini che permangono, accanto a innovazioni che avanzano”.
Piace, in fondo, il mondo che si muove, è un segno positivo.

Una giornata di novembre e l’affaire Avetrana

di Gianni Ferraris

Non c’è sole oggi. Malinconica malinconia. Rumori di fondo dalla strada, ma chi diavolo suona quel clacson così insistentemente? La TV manda notizie sulla Carfagna e su Fini. L’altra TV manda lo scempio dell’intelligenza, l’apoteosi del giornalismo spazzatura, quello da buttare in qualche cloaca: l’affaire Avetrana. Da agosto siamo sommersi da plastici, colpevoli, incolpevoli, violenza carnale su un cadavere detta, smentita, ridetta, rismentita. E sedicenti giornalisti che frugano nei meandri della disinformazione. Manca solo una cosa: Sarah e la sua morte così assurda. Manca solo il rispetto per la cosa più intima che io conosca: il dolore per il lutto. Era un pomeriggio stanco che si trascinava fra un libro che devo leggere e commentare e la Tv accesa. RAIUNO: Avetrana. RAIDUE: Avetrana. Stessi orari, stesse parole, stesso sforzo di capire se alle 14,32 o alle 14, 45 è successo qualcosa. “Ci sono importanti novità”. Poi scopri che l’unica novità è l’assoluta mancanza di novità. Ho spento la TV. Meglio buona musica. Meglio De Andrè e Jannacci.

Perché succede tutto questo? Sembra quasi che qualcuno voglia scippare alle persone la capacità di pensare. La capacità si indignarsi. Perché esattamente questo si ottiene: pensare ad altro, a come si sono svolti i fatti senza porsi il problema della dignità della vita di una persona.  A me interessa sapere che la magistratura e gli inquirenti faranno il loro lavoro. Tutto sommato chi è colpevole e chi non lo è sono affari della giustizia. Mi interesserebbe di più sapere perché la vita umana è considerata così poco. Perché un lavoratore precario che perde quei quattro soldi di stipendio si getta giù da un balcone. Mi interessa sapere come mai sei immigrati stanno giornate intere su una gru solo per essere considerati “persone”. Neppure un piccolo plastico per quella gru. C’è un sottile filo che unisce Sarah al precario che si getta dal balcone. E fra questo e gli immigrati: la considerazione delle persone che viene a mancare. Innocentisti e colpevolisti si stracciano le vesti per dire la loro.  Improbabili commentatori televisivi che si spacciano per psichiatri giudicano senza possibilità di discussione e incasellano i “tipi” psicologici.

No, quel filo unisce vite sbandate o tranciate dallo spettacolo, dal Grande Fratello. L’altra faccia della TV.  “Bene, ora lasciamo le cronache di Avetrana per andare a vedere cosa succede nella casa….”  Quasi fosse ovvio e scontato che ci sia continuità fra le due cose. Me lo vedo lo spettatore tipo “Maledetti assassini…. Chissà se nella casa fanno l’amore chiusi dentro un armadio… Ops, di nuovo RAIDUE: maledetti assassini… Chissà se la zia di Sarah dormiva veramente… Ma scopano ora nella casa?”  e così via. E in qualche programma di approfondimento scopriamo tutto, ma proprio tutto, sulla Carfagna. “Se ne va” “me ne vado” “non me ne vado più” “forse me ne vado” “Se discutiamo discuterò se me ne vado e meno”. Un bel plastico sul viavai dei politici a quando? Aspettiamo fiduciosi il 14, solo allora sapremo se la maggioranza farà cadere la maggioranza. Non è un gioco di parole, se aspettiamo  l’opposizione, stiamo freschi. Anche qui la mancanza di rispetto per le persone è abissale.  Chi ascolta chi? Il “popolo sovrano” è evocato in ogni dibattito, ma qualcuno sa cosa pensa? I sondaggi? Beh, in 59 anni nessuno mai mi ha sondaggiato. E poi, diciamola tutta, chi parla a quelli che i loro sondaggi danno al 40% del “popolo sovrano”? Parlo degli astenuti, sfiancati da tanta idiozia. Questi calpestano anche il lutto per la democrazia. Mentre scrivo ascolto un pezzo antichissimo, quasi archeologia: “la libertà non è star sopra un albero, non è neppure il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione…” Mi spiace Giorgio, ti abbiamo seppellito senza neppure soffrire molto. Tu e la tua folle voglia di cantare di libertà. Che ne sai tu di Avetrana? Che ne sai dei pazzi su una gru? Che ne sai del precario dal balcone? Soprattutto, che ne sai del grande fratello?

Partecipiamo sempre, ogni giorno, senza sosta, aiutati a comprendere se Cosima dormiva o era sveglia. Soprattutto a capire come mai quei dieci imbecilli chiusi in una ricca casa e strapagati per farlo, scopano dentro un armadio.

Della dignità di Sarah, degli immigrati, non ci può fregare meno, la prima è morta, gli altri sono solo immigrati che, come diceva un solerte primo cittadino “procurano un notevole danno economico, la gru non lavora da giorni e costa”.

E va bene, torno al  libro che parla di politica e che, in questa giornata grigia, non ho nessuna voglia di prendere in mano. Anzi, quasi quasi mi rileggo Cyrano.

Lu fattu te lu Nanni Orcu

di Alfredo Romano

Nc’era ‘na fiata ‘nu cristianu ca se chiamava Giuvanninu. Tenìa tanti fiji e lla mujère stia malata intra llu jettu. La fame era tanta mo’ e nnu’ ssapìa comu ia ffare cu ttroa quarche ppocu te mangiare. Ma ‘nu giurnu ca facìa friddu e mmutu jentu tisse:«Nnà! mo’ me piju la retrucàrica e bba’ bbìsciu ci pìju ‘nu pocu te auceddhi pe’ la mujère mia e ppe’ lli fiji mii ca sta mme mòranu te fame.»
Ia šcire mutu luntanu mo’, e ppe’ pruiste se mise ‘n poscia giustu do’ ove ddelessate. Camìna e ccamìna, camìna e ccamìna, rriàu intru ‘nnu fondu te ulìe, ma àrburi cusì erti mo’ ca parìa ca rriàvanu ‘n cielu. E llu jentu li facìa te cquai e de ddhai e nc’èranu tanti te quiddhi auceddhi ca se sentìa ci-cì! ci-cì!
«Beddhi mi’!» suspiràu lu Giuvanninu, «ca li fiji mii puru hanu mmangiare!» Tittu fattu e sse mise sparare sai? Ppim! ppum! ppam! Ppim! ppum! ppam! Catìanu ddhi sangu te auceddhi, sai? Tira te cquai, tira te ddhai, ‘nsomma, lu Giuvanninu se inchìu la borsa te auceddhi, e stia cu sse nde torna ccasa, quandu, tuttu te paru, ntise la terra ca ne rimbumbava sotta lli pieti: bum! bum! bum! bum! E quistu bum-bum se mbicinava sempre te cchiùi. Cce ggh’èra? Èranu li passi te lu Nanni Orcu ca te luntanu, sentendu sparare, era ssutu ‘n cerca te carne umana. Quandu lu pòveru Giuvanninu se ccorse ca era lu Nanni Orcu, addhu nu’ ppotte fare ca cu sse rràmpica susu ll’àrburu cchiù ertu ca nc’era. Addhai ca lu Nanni Orcu ne rriàu sotta e ffacìa cu sse rràmpica puru iddhu cu rria sse lu mangia. Ma era mutu crossu e scrufulava.
Ma lu Giuvanninu, a ddha ssusu a ddhunca stia, tenìa la retrucàrica sempre a ttirezione te lu Nanni Orcu.
Ma quandu lu Nanni Orcu tuccàu ccustata ca nu’ llu putìa propriu zziccare lu Giuvanninu, tuttu rraggiatu pijàu ccritare:
«Šcindi ca t’aggiu mmangiare! šcindi ca t’aggiu mmangiare!»
«Sì, ca era fessa mo’!» li rispundìa a ttonu lu Giuvanninu, facendu ddivedère ca nu’ llu timìa. E ntorna:
«Šcindi ca t’aggiu mmangiare! šcindi ca t’aggiu mmangiare!»
«Sienti, Nanni Orcu, cerca cu tte stai quetu quetu. Ca cce tte pensi? Ca iu su’ cchiù fforte te tie!»
«Comu sarebbe ddire ca si’ cchiù fforte te mie. E ffamme bbisciu comu sinti cchiù fforte!»
Lu Giuvanninu ‘llora cacciàu te poscia le ddo’ ove ddelessate e nne tisse:
«Sta lle viti ‘ste ddo’ palle te fierru?»
«Sta lle vìsciu! sta lle vìsciu!»
«Cuarda: iu cu ‘nna manu sula fazzu cu sse rùmpanu.» E nnu’ spicciàu te tire, ca le ddo’ ove ddelessate èranu già scrafazzate.
«Sangu te cusì!» castimàu lu Nanni Orcu «allora quistu è cchiù fforte te mie!» E sse vutàu a llu Giuvanninu e nne tisse:
«Sai cce ffanne? Šcindi ‘llora, nu’ mboju tte mangiu cchiùi, facìmu pace; anzi sciamu ccasa mia e nne facìmu’ ‘na beddha mangiata.»
«Parola ca nu’ mme mangi?»
«Parola!» tisse lu Nanni Orcu.
«Cuarda ca iu šcindu cu lla retrucàrica, cu stai ccortu. E poi vòju tte vvisu te ‘n’addha cosa, e ttiènila mmente senò su’ gguai pe’ ttie: se tieni la ventura cu mme tocchi puru cu ‘nnu tìsciatu, te nde uli ‘ll’aria e scumpari te la facce te la terra.»
«None none, nu’ tte toccu, nu’ tte toccu!» tisse lu Nanni Orcu. E ppoi tra de iddhu: «Sangu te cusì! Quistu hae béssere cchiù fforte te mie!»
E tutti toi te paru pijàra la strata ca scia a ccasa te lu Nanni Orcu, e quistu caminava e sse tenìa luntanu te lu Giuvanninu. Ca va’ ssacci… cu nnu’ ssia ia bulare ‘ll’aria!
Ma lu Giuvanninu lu tenìa sempre t’occhiu lu Nanni Orcu. Ca va’ sacci… quiddhu a llu meju se putìa menare sse lu mangia.
Quandu ca èranu ‘ppena rriati a lla casa te lu Nanni Orcu, la Nanni Orca, ca stia intru ccasa cu ffazza servizie, ntise già la ndore te carne umana. Sicché essìu te pressa e quandu vitte lu forastieru cu mmarìtusa, tisse sbabbata:
«Bongiornu, bon omu.»
«Bongiornu, bongiornu» rispuse iddhu mo’ cu nn’aria te omu benforte.
Ma la Nanni Orca, ccustànduse a ‘nna ricchia te lu Nanni Orcu, ne tisse cittu cittu:
«Beh, iu sta mmoru te fame: quandu ete ca ne lu mangiamu ‘stu cristianu?»
«Nu’ ccangi mai! Pe’ mmoi statte queta, àggi ‘nu pocu te canza: ca quistu è cchiù fforte te nui, tocca llu pijámu a ll’ampruìsa. Ma tie ‘ntantu cconza tàula, ca facìmu prima cu mmangia e ccu bbia, e ppoi, quandu ca s’hae binchiatu bonu bonu, lu mandamu sse curca. E quandu ca sta dorme ‘n chinu ‘n chinu, ne preparu ‘nu bbeddhu carizzu.»
E lla Nanni Orca giustàu tàula e tutti ttre se mìsera mmangiare. Li Nanni Orchi però mangiàra picca, ca sapìanu ca a llu cramatina s’ìanu binchiare te carne umana. Ca mo’ nu’ bbitìanu l’ora, no?
La Nanni Orca preparàu la stanza cu ddorma lu Giuvanninu e quistu, patrefijoluspiritusantu, sciu sse curca.
Quandu ca se fice notte funda, lu Nanni Orcu dišcitàu la Nanni Orca e nne tisse:
«Tie va prepara lu furnu, ca iu mo’ vau, lu fazzu a stozze e ccramatina ne lu mangiamu.» E lla Nanni Orca te pressa sciu cu dduma lu furnu.
Cce ffice lu Nanni Orcu? Pijàu ‘na sorta te ‘ccetta, crossa quantu osci-ccrai e šciu cu apre chianu chianu, senza ffazza rumore, la porta te la cambara a ddhunca sta’ ddurmìa lu Giuvanninu. Trasìu a llu scuru, sciu a ttirezione te lu jettu e nne zziccàu mmenare susu corpi te ccetta: tiritìnghi e tiritànghi! tiritìnghi e tiritànghi! E lle stozze se nde vulàvanu a ll’aria a ddhunca t’ete, ca ne catìanu puru ‘n facce.
«Ah, comu sta tte lu cumbinu,» facìa tuttu cuntentu lu Nanni Orcu «sta mme ddefriscu propriu. Cramatina vegnu mme ccoju ‘ste beddhe stozze: acchiàtu comu n’imu bbinchiare!» E llassàu tuttu comu se toa e scìu sse curca.
Ma se critìa iddhu mo’ ca lu facìa fessa lu Giovanninu! Lu fattu foe ca quistu l’ia pensata ca lu Nanni Orcu s’ia misu quarche ppianu ‘n capu cu llu ccite. Sicché cc’ia fattu? Ia pijàtu tante beddhe cucuzze ca ia truvatu intra ‘nnu canišcione e ll’ia giustate susu lu jettu, cu ffazza ccritìre mo’ ca iddhu stia ddha ssusu. Poi s’ia misu cu spetta a ‘nn angulu te la càmbara.
Quandu a llu cramatina lu Nanni Orcu trasìu intru lla stanza cu ‘nna canìšcia cu sse ccòja le stozze… e nnu’ bba tte vite lu Giuvanninu tuttu beddhu mpizzatu ca sta sse la passaggiava?
«Bongiornu,» tisse lu Nanni Orcu, ca nu’ ccritìa a ll’occhi soi, «hai turmùtu bonu stanotte?»
«Sì, sì, eccòmu! Àggiu turmùtu propriu bonu; sulamente ca a ‘nnu beddhu mumentu m’àggiu sentutu rriare ‘n capu scorze te nuci.»
«Sangu te cusì!» castimàu lu Nanni Orcu intra te iddhu. «Comu, l’aggiu fattu a stozze, l’aggiu fattu, e quistu tice scorze te nuci? Sangu! Ma quistu ‘llora è cchiù fforte te mie!»
Passàu tuttu lu giurnu. Alla sera ntorna mangiàra e llu Giuvanninu scìu sse curca. Ma a llu vutare te la menźanotte, lu Nanni Orcu tisse ‘n’addha fiata a lla Nanni Orca cu bbàscia pprepara lu furnu pe’ llu cramatina. Tenìa ‘n addhu pianu ‘sta fiata. Cce ffice? Sciu cu ppìja ‘na rota te trappitu, ca pisava quarche quintale, e sse mise cu lla spinge susu lle scale ca purtàvanu a lla làmmia te la càmbara a ddhunca turmìa lu Giuvanninu. Susu ‘sta làmmia nc’era ‘nu trabuccu ca tia luce e cca stia propriu terittu susu lu jettu. Sette camise sutàu lu Nanni Orcu cu lla pozza spingìre a ddha ssusu la rota. Aprìu ddhu sangu te trabuccu e scurumbulàu la rota susu lu jettu te lu Giuvanninu.
«Ah, mo’ sì ca l’àggiu ccisu! Cce mmangiata ca m’àggiu ffare cramatina!»
Iddhu mo’ se critìa…Lu Giuvanninu ia sciutu sine sse curca, ma cu ‘nn occhiu ia turmùtu e ccu ll’addhu ia statu ddišcitatu. Sicché, quandu ia ntisu lu rumore te quiddha sangu te rota, era sciutu sse scunde ntorna a ‘nn angulu.
Quandu a llu cramatina lu Nanni Orcu scìu cu sse ccòje ddha bbeddha carne umana, lu vitte ntorna tuttu mpizzatu, ca nu’ ccritìa a ll’occhi soi:
«Bongiornu» ne tisse.
«Bongiornu, bongiornu» rispundìu lu Giuvanninu.
«Beh, comu si’ statu stanotte?»
«Ah, bonu bonu! Sulamente ca a ‘nnu beddhu mumentu àggiu sentùtu ‘n capu do’ scorze te nuci.»
«Do’ scorze te nuci!» tisse intra te iddhu lu Nanni Orcu. «Sangu! N’àggiu menatu susu ‘na rota te trappitu e sta mme cunta te scorze te nuci? Quistu ‘llora hae béssere cchiù fforte te mie!»
Mo’ lu Nanni Orcu nu’ ssapìa cchiùi comu ia ffare cu sse mangia lu Giuvanninu. Pensa e pensa: «Mo’ sa’ cce ffazzu?» tisse «Lu portu intra llu boscu e bitìmu a cci è ccapace cu mmena ‘n àrburu ‘n terra cu lle mane sulamente. Ca… bonu bonu, pìju ‘n àrburu, ne lu menu susu e ffazzu cu mmora!»
«Vo’ tte mmisuri cu mmie?» tisse lu Nanni Orcu a llu Giuvanninu «Vitìmu ci è ccapace crai cu mmena ‘n àrburu ‘n terra te intra llu boscu.»
«Ca percé:» rispuse lu Giuvanninu «nu’ mme tiru rretu iu.»
Ma appena se fice notte, lu Giuvanninu scìu cu ‘nnu serrettu intra llu boscu e ccuminciàu sserrare ‘n àrburu, quiddhu ttantu però cu rresta ‘ppena ‘ppena tisu. Poi fice do’ busci a llu troncu quantu ‘nu tìsciatu e lli inchìu te ricotta.
A llu crai se ‘źara prestu tutti toi cu bbanu intra llu boscu, e llu Giuvanninu ne rripetìu ntorna a llu Nanni Orcu cu stèscia ttentu e ccu ccamina luntanu te iddhu: se no acchiàtu a ddhu se nde vulava.
Rriati ca fora a llu boscu, lu Giuvanninu se mise nnanzi ll’àrburu ca ia serratu e nne tisse a llu Nanni Orcu:
«Vo’ tte fazzu biti ca ‘st’àrburu fazzu ccàscia ‘n terra cu ddo’ tìsciate?»
«Vane! vane! Cce sta’ mme tici? Mo’ sta’ bindi tràpule!»
«Statte ttentu ‘llora.»
E llu Giuvanninu nfilàu do’ tisciate intra lli busci chini te ricotta e, quantu pare ca ne tese ‘na spinta e ll’àrburu catìu.
«Sangu te cusì!» tisse lu Nanni Orcu «Ca quistu è cchiù fforte te mie!»
E ccusì se nde turnàra ccasa. Lu bellu ca la Nanni Orca, lu stessu ca piace, ia preparatu lu furnu cu sse rrùstanu lu Giuvanninu e quandu li vitte rriare tutti toi rimase cu ttantu te cannarozzu.
«Acquai nu’ sse pote fare gnenzi,» ne tisse cittu cittu lu Nanni Orcu a lla Nanni Orca «quistu è cchiù fforte te mie!»
E ppassàvane li giurni e llu Giuvanninu pensava sempre a lli fìji soi ca sta’ mmurìane te fame e a lla mujère soa ca stia intra ‘nnu fundu te jettu. Mo’ nu’ ssapìa comu ia ffare cu sse la squàja te lu Nanni Orcu. Pensa e pensa alla fine ne vinne ‘n capu ‘nu pianu. Nc’era nnanzi ccasa te lu Nanni Orcu ‘na palla te fierru ca pisava ci sape quanti quintali. Cce ffice? Se piazzàu nnanzi ddha palla e ccuminciàu a ccritare menandu le razze a ll’aria:
«Cristiani te quistu mundu e de quiddhàaaddhu… scansàaative… rriparàtive a ‘nn angulu te càaasa… stàu cu ttoccu cu ‘nnu tìsciatu ‘sta palla te fièeerru… stàtive ttèeenti… mo’ se nde vula ‘ll’àaaria… e bba ccate a quarche ppàaarte!»
Lu Nanni Orcu ntise. «Ma cce sta ccrita?» tisse «Vo’ tte fazzu biti ca sta mme cumbina ‘n’addha te le soe? Assa cu bba bbìsciu, cu nnu’ ssia me mena quarche addhu cazzunculu.»
Quandu scìu e llu vitte nnanzi ddha sangu te palla: «’Nsomma se po’ capire percé sta’ ccriti?» ne tisse. E llu Giuvanninu ntorna:
«Cristiani te quistu mundu e de quiddhàaaddhu… scansàaative… rriparàtive a ‘nn’angulu te càaasa… stau cu toccu cu ‘nu tìsciatu ‘sta palla te fièeerru… stàtive ttèeenti… mo’ se nde vula ‘ll’àaaria… e bba ccate a quarche ppàaarte!»
«None none! statte quetu! pe’ ll’amore te ddiu!» Ma nu’ nc’era gnenzi te fare: lu Giuvanninu nu’ lla spicciava te critare ‘cristiani te cquai e ccristiani te ddhai.
«Pe’ ll’amore te ddiu! pe’ ll’amore te ddiu!» nsistìa lu Nanni Orcu «nu’ mme tuccare quiddha palla te fierru! làssala stare! fermu, fermu! Cu nnu’ ssia va nne cate ‘n capu!» Ma lu Giuvanninu nu’ lla spicciava te critare.
«Sièntime cquai, sièntime cquai» risulvìu allora lu Nanni Orcu. «Vòju tte tau ‘nu caricu te sordi: basta ca te nde vai. Te tau ‘nu ciucciu e ddo’ visazze chine chine te tucati t’oru. Vane e nnu’ ffatte cchiùi bbitìre: ca tie quantu cchiùi stai cquai, cchiùi me minti intru lli perìculi.»
E llu Giuvanninu ippe lu ciucciu cu le ddo’ visazze chine te oru, ma prima cu pparta tisse a llu Nanni Orcu:
«Iu sta mme nde vau, ma nu’ ppozzu salire susu llu ciucciu senò se nde vula. Vole tire ca iu caminu ‘ll’ampete e llu ciucciu te coste.»
Salutàu lu Nanni Orcu e lla Nanni Orca e partìu.
Quantu ca fice ‘nu pocu te strata, poi, sicuru ca nu’ llu vitìa cchiui nišciunu, pijàu e mmuntàu susu lu ciucciu. E ffuci ccasa mo’!
Lu Nanni Orcu però già s’ia fattu pentutu te tutti quiddhi sordi ca n’ia tatu. Nu ss’ia datu pe’ vintu ‘ncora.
«Cilaccriatu! tocca llu zzaccu!» tisse, e sse mise mmarciare cu llu rria. Addhai ca lu Giuvanninu mentre sta truttava cu llu ciucciu, sciu bba ssente: bum! bum! bum! bum!
«Sangu te ddhu porcu!» tisse «Lu Nanni Orcu sta mme sècuta!»
Cusì šcise te lu ciucciu, lu pijàu, lu scuse a rretu a ‘nnu cozzu e se mise ccuardare ‘ll’aria pe’ ffinta. Rriàu lu Nanni Orcu e vitte lu Giuvanninu senza ciucciu ca sta ccuardava ‘ll’aria.
«Ma se po’ ccapire cce gh’ete ca sta’ ccuardi?» ne tisse lu Nanni Orcu.
«Nna! è successu ca senza mmancu cu mme ddunu, àggiu tuccatu lu ciucciu cu ‘nnu tìsciatu e quiddhu se nd’è bbulatu ‘ll’aria cu ttutte le visazze. Sta ccuardu ci pe’ ccasu lu vìsciu šcindire a quarche parte.»
«Sangu te cusì!» tisse tra de iddhu lu Nanni Orcu. «Acquai è mmeju cu mme nde vau, cu nnu’ ssia quiddhu, ci va mme tocca cu ‘nnu tìsciatu, me face cu mme nde ulu ll’aria comu lu ciucciu!»
E ‘sta fiata, lu Nanni Orcu se nde turnàu rretu senza nuddha speranza cchiùi cu sse mangia lu Giuvanninu.
E llu Giuvanninu, angrazieteddiu, putìu turnare ccasa soa, ma, a llu trasire ca fice ccasa, truvàu la mujère e lli fiji cchiù mmorti ca bbii. Ma quandu aprìu le visazze e ffice cu bbìscianu tutti quiddhi tucati t’oru, frate miu! l’ii bitire cumu sartàvanu pe’ lla cuntentezza. E llu Giuvanninu chiamàu li fiji e a unu a unu li cumandàu:
«Tieni ‘sti sordi tie! vane e ccatta lu pane; tie nà! vane e ccatta la murtatella, tie ccatta ‘na ringa, tie pija to’ nuceddhe, tie li portacalli, tie la ggiocculata, tie ‘nu beddhu litru te vinu, tie l’òju. E sbricàtive: ca te osci nnanzi intru ‘sta casa la fame nu’ ss’hae mancu nnominare!
E iddhi vìssera felici e ccuntienti e nnui nu’ ìppime gnenzi. Ci voi tte cuntu ‘n addhu me tai ‘nu taraddhu.

 

 

Il fatto del Nanni Orco (traduzione)

C’era una volta un tale che si chiamava Giovannino. Teneva tanti figli e la moglie stava nel letto ammalata. La fame era tanta e lui non sapeva come fare per trovare un po’ da mangiare. Ma un giorno che faceva freddo e c’era vento, disse:
«To’! mo’ mi armo di fucile e vado a vedere se piglio un po’ d’uccelli per la moglie mia e per i figli che mi muoiono di fame.»
Visto che doveva recarsi lontano, si mise in tasca per provviste giusto due uova sode. Cammina e cammina, cammina e cammina, giunse presso un fondo d’ulivi, ma ulivi così alti che pareva toccassero il cielo. E il vento li scuoteva di qua e di là e c’erano tanti di quegli uccelli che si sentiva un continuo ci-cì! ci-cì! ci-cì!
«Belli miei!» sospirò Giovannino, «ché pure i figli miei hanno diritto di mangiare!»
Detto fatto. Prese subito a sparare, sai? Pim! pum! pam! Pim! pum! pam! E cadevano gli uccelli, sai? Insomma tira di qua, tira di là, Giovannino si riempì la borsa di uccelli e stava per far ritorno a casa quando, ad un tratto, sentì la terra rimbombargli sotto i piedi: bum! bum! bum! bum! E questo bum-bum era sempre più vicino. Cos’era? Erano i passi del Nanni Orco che, avvertiti gli spari da lontano, si era mosso in cerca di carne umana.
Quando il povero Giovannino intravide Nanni Orco, altro non potette fare che rifugiarsi in cima all’albero più alto che c’era. Lì che Nanni Orco gli si fece sotto tentando a più riprese di arrampicarsi, però, ahimè, lui era così grosso che a ogni tentativo scivolava e scivolava lungo il tronco. Ma Giovannino, appollaiato in alto lassù, non smetteva di tenergli il fucile puntato.
Quando Nanni Orco si convinse di non poter acchiappare Giovannino, preso dalla rabbia, si mise a urlare:
«Scendi ché ti devo mangiare! Scendi ché ti devo mangiare!»
«Sì, che sono fesso io!» gli rispondeva Giovannino, facendogli credere di non temerlo. E di nuovo:
«Scendi che ti devo mangiare! Scendi che ti devo mangiare!»«Senti, Nanni Orco,» più deciso stavolta Giovannino, «stattene quieto quieto! Ma che credi: io son più forte di te!»
«Come sarebbe a dire che sei più forte di me: e fammi vedere allora come sei più forte!»
A questo punto Giovannino tolse dalla tasca le due uova sode, le chiuse in un pugno e gli disse:
«Le vedi queste due palle di ferro?»
«Le vedo, le vedo.»
«Stai attento, perché io posso romperle con una mano sola.» E non finì di dire che le due uova erano già schiacciate.
«Sangue di così!»[2] bestemmiò Nanni Orco, «allora questo è più forte di me!» Quest’ultime parole dette sottovoce. E si voltò verso Giovannino e gli disse:
«Fai una cosa: scendi pure, facciamo la pace, non ti voglio mangiare più. Andiamo a casa mia anzi: lì ci faremo una bella mangiata.»
«Parola che non mi mangi?»
«Parola!» disse Nanni Orco.
«Attento però, che io scendo col fucile. Ti avviso di un altro fatto poi, e tienilo in mente se no saranno guai per te: se tu avessi la ventura di sfiorarmi sia pure con un dito, prenderesti il volo e scompariresti dalla faccia della terra.»
«No no non ti tocco! non ti tocco!» disse Nanni Orco. Ma poi tra sé: «Sangue di così! questo deve essere proprio più forte di me!»
Ed entrambi s’incamminarono per la via che portava alla casa di Nanni Orco. Costui però, a rischio di volare in aria, si teneva ben distante da Giovannino.
Erano appena arrivati nei pressi della casa, che Nanni Orca, intenta alle faccende domestiche, fiutò già l’odore di carne umana. Per questo uscì di fretta e, alla vista del forestiero, fece sorpresa:
«Buongiorno, buon uomo.»
«Buongiorno!» rispose Giovannino con una faccia spavalda.
Ma Nanni Orca, accostandosi all’orecchio di Nanni Orco, gli disse zitta zitta:
«Quando ce lo mangiamo? Ché io sto morendo di fame!»
«Ma tu non cambi mai!» le sussurrò stizzito, «mo’ te ne stai quieta quieta. Un po’ di pazienza diamine! Sai, questo è più forte di me, e bisogna prenderlo di sorpresa! Ma tu aggiusta tavola intanto: prima lo facciamo mangiare e bere e, una volta sazio, lo manderemo a dormire. E mentre lui dorme io gli preparo… una bella carezza!»
E Nanni Orca approntò subito tavola e si misero tutti a mangiare. In verità i due Nanni Orchi mangiarono poco, pregustando più in là un piatto più sostanzioso di carne umana. Giovannino invece ne approfittò perché aveva fame e, una volta sazio, si avviò a dormire nella camera approntatagli da Nanni Orca. Padrefigliolospiritosanto e finì a letto.
Ma appena si fece notte fonda, Nanni Orco svegliò Nanni Orca e le ordinò:
«Tu vai ad accendere il forno, io intanto vado e faccio a pezzi quel cristiano. Ah ah!, domattina che bella mangiata!»
Che ti fece Nanni Orco? Afferrò un’accetta grossa quanto oggi e domani, entrò piano piano nel buio della camera di Giovannino e s’accostò al letto. Qui si mise a menare colpi d’accetta: tiritinghi e tiritanghi! tiritanghi e tiritanghi! I pezzi volavano dappertutto e gli ricadevano pure in faccia. «Ah, come te lo sto combinando!» ripeteva felice Nanni Orco.
Quando credette d’averlo fatto in mille pezzi, lasciò la camera col proposito di tornarci non appena fatto giorno.
Giovannino invece non s’era fatto fregare: il sospetto che Nanni Orco stesse architettando un piano per ucciderlo lo aveva avuto. Così aveva raccolto un bel po’ di grosse zucche e le aveva adagiate sul letto a comporre una sagoma. Poi s’era posto al riparo in un angolo della camera.
E all’alba Nanni Orco varcò la stanza munito di un canestro con l’intento di riempirlo dei pezzi di carne umana. Ma quale sorpresa quando vide Giovannino tutto bello in piedi.
«Buongiorno!» disse Nanni Orco che non credeva ai suoi occhi. «Ma… hai dormito bene stanotte?»
«Sì, sì, eccome!, ho dormito proprio bene! Solo che a una certa ora della notte mi son sentito cadere addosso delle bucce di noci.»
«Sangue di così! Come…» imprecò Nanni Orco tra sé, «l’ho ridotto in pezzi e mi parla di bucce di noci. Sangue! questo allora è più forte di me!»
Trascorse il giorno. A sera, dopo la cena consueta, Giovannino si ritirò nuovamente in camera. Ma, a mezzanotte, ecco Nanni Orca pronta di nuovo ad accendere il forno. Nanni Orco stavolta però aveva escogitato un altro piano. Che ti fece? Raccolse una macina in pietra di frantoio, pesantissima, e prese a spingerla sulla scala esterna che portava al terrazzo, dove un lucernario si apriva proprio sul letto di Giovannino. Sette camicie sudò Nanni Orco per spingervi quella macina, per aprire il lucernario e scaraventarla sul letto di Giovannino.
«Stavolta sì che l’ho ammazzato!» fece sicuro tra sé Nanni Orco.
Giovannino invece… se ne stava ancora tranquillo, rifugiato nel solito angolo.
Quando, fattosi giorno, Nanni Orco tornò in camera per portarsi via la sospirata carne umana, non credette ai suoi occhi quando vide di nuovo Giovannino tutto bello in piedi.
«Buongiorno!» gli disse.
«Buongiorno, buongiorno!» ebbe per tutta risposta.
«Ma… come hai dormito stanotte?»
«Bene, bene: giusto a una certa ora della notte mi son sentito cadere in testa delle bucce di noci.»
«Bucce di noci!» fece tra sé Nanni Orco. «Sangue!… una macina di frantoio… e quello mi parla di bucce di noci! Questo allora è più forte di me!»
Mo’ Nanni Orco non sapeva più che piano inventarsi. Pensa e ripensa… «Sai che faccio,» si disse? «lo porto nel bosco e lo sfido ad abbattere un albero con le sole mani. Così, sul più bello, gli scaravento l’albero addosso e lo faccio morire!»
«Vuoi misurarti con me?» propose Nanni Orco a Giovannino. «Vediamo chi è più bravo domani ad abbattere un albero del bosco con le sole mani.»
«Non mi tiro indietro!» pronto Giovannino.
Ma appena si fece notte, Giovannino prese una sega e si recò nel bosco. Qui scelse un albero e lo segò in basso, ma quel tanto da consentirgli di tenersi ancora in piedi. Poi praticò due buchi profondi sul tronco, giusto per infilarci due dita, e li riempì di ricotta.
S’alzarono presto il giorno dopo e, sulla via per il bosco, Giovannino non si stancò di ripetere a Nanni Orco di tenersi sempre distante da lui, a rischio di spiccare il volo e perdersi in aria. Giunti che furono nel bosco, Giovannino prese posto davanti all’albero già segato e disse a Nanni Orco:
«Stai a vedere che quest’albero lo faccio cadere a terra spingendolo con due sole dita?»
«Va’ va’! ma che dici: tu mi vendi frottole!»
«E guarda allora.» Detto fatto. Giovannino ficcò le dita nei buchi pieni di ricotta, una leggera spinta e l’albero cadde.
«Sangue di così! questo è più forte di me!» tra sé Nanni Orco.
E così se ne tornarono a casa. Il bello fu che Nanni Orca anche stavolta non aveva mancato di accendere il forno per arrostire Giovannino. Per questo, vedendoli tutti e due di ritorno, rimase con tanto di naso.«Qui non c’è niente da fare!» le disse Nanni Orco in un orecchio, «Questo è più forte di me!»
Passavano i giorni e Giovannino pensava sempre ai figli suoi che morivano di fame e alla povera moglie che stava ammalata in un fondo di letto. Voleva fuggire da Nanni Orco, ma per il momento doveva essere prudente, aveva bisogno di un piano. Pensa e ripensa alla fine ebbe un’idea.
V’era nei pressi della casa del Nanni Orco una grossa palla di ferro. Che ti fece? Si piazzò davanti alla palla e si mise a gridare facendo grandi gesti:
«Uomini di questo mondo e di quell’àaaltro… scansàaatevi… riparatevi a un angolo di càaasa… sto per toccare con un dito questa palla di fèeerro… state attèeenti… adesso prende il vòoolo… va a cadere da qualche pàaarte!»
Nanni Orco intese. «Ma che grida!» disse. «Stai a vedere che vuol combinarmi un’altra delle sue? Fammi andare a vedere, ché quello mi vuol mettere qualche altro cavolo in culo.» Così si avvicinò a Giovannino, ma questi continuava imperterrito a gridare.
«Si può capire perché gridi?» disse Nanni Orco. Ma Giovannino non smetteva:
«Uomini di questo mondo e di quell’àaaltro… scansàaatevi… riparatevi a un angolo di càaasa… sto per toccare con un dito questa palla di fèeerro… state attèeenti… adesso prende il vòoolo… va a cadere da qualche pàaarte!»
«No no, cristiano mio, per l’amore di Dio, non toccarmi quella palla di ferro! lascia stare! fermo! fermo che può cadere in testa a noi!» Ma Giovannino non sentiva ragioni. Alla fine Nanni Orco:
«Stammi a sentire:» gli disse «ti darò un asino con due basti carichi di ducati d’oro: basta che te ne vai! E non farti vedere mai più, perché tu, se continui a star qui, non farai che mettermi nei pericoli.» E Giovannino ebbe l’asino e i due basti carichi di ducati d’oro, ma prima di mettersi in viaggio disse a Nanni Orco:
«Io me ne vado, ma non monterò sull’asino perché tu sai che, se malauguratamente lo toccassi sia pure con un dito, quello prenderebbe il volo. Farò la strada a piedi quindi, a distanza dell’asino.» Poi salutò i due Nanni Orchi e se ne partì.
Ma, fatta un po’ di strada, sicuro di non essere più visto, montò sull’asino e… trotta verso casa mo’!»
Nanni Orco però, nel frattempo, s’era pentito della sua generosità e decise di mettersi in marcia per raggiungere Giovannino. Lì che questi, trottando sull’asino, ti andò a sentire bum! bum! bum! bum!
«Sangue di quel porco!» imprecò, «è Nanni Orco!» Scese subito dall’asino allora, lo nascose dietro a un grosso masso e poi prese a far finta di guardare in aria. Qui che sopraggiunse Nanni Orco:
«Si può capire cosa stai guardando?» chiese a Giovannino.
«Purtroppo senza avvedermi ho toccato l’asino con un dito ed è sparito in aria con tutte le bisacce. Guardo nella speranza di vederlo cadere da qualche parte.»
«Sangue di così!» disse tra sé Nanni Orco, «se questo mi tocca con un dito, mi fa fare la fine dell’asino!» E si allontanò, e questa volta per sempre.
E, ingraziadiddio, Giovannino fece finalmente ritorno a casa dove trovò la moglie e i figli più morti che vivi. Ma quando vuotò le bisacce cariche di ducati d’oro, dovevi vederli tutti saltare di gioia. Così Giovannino chiamò i figli suoi e, a ognuno dando dei soldi, ordinò:
«Tu tieni! vai a comprare il pane, tu to’! vai a comprare la mortadella, tu compra un’aringa, tu delle noccioline, tu le arance, tu la cioccolata, tu un bel litro di vino, tu l’olio e tu questo e tu quest’altro. E sbrigatevi, che d’ora innanzi in questa casa la fame non si deve neppure nominare!»
E loro vissero felici e contenti e noi non avemmo niente. Se volete un altro fatto, datemi un tarallo.

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NOTE

[1] Auceddhi è dialetto di Neviano. A Collemeto si dice ceddhi.

[2]L’espressione Sangu te cusì (sangue di così) nei racconti sostituiva una bestemmia. Quel cusì poteva essere Dio, la Madonna o qualche santo. Era generalmente usata dal narratore timorato di Dio, che, alle prese con un discorso diretto, non se la sentiva di ripetere di pari passo una bestemmia pronunciata da un personaggio del racconto. Gli sarebbe parso di bestemmiare a sua volta. C’è da dire che se era un uomo a narrare non si faceva tanti scrupoli a volte. Se poi c’erano bambini ad ascoltare quel cusì era d’obbligo. Altre finte bestemmie che io ricordi, che della bestemmia conservavano il suono e l’espressione (quindi non sostanziali, inefficaci ai fini del peccato) erano: Sangu te la culonna o Sangu te la matombula (invece di Madonna); oppure Mannaggia lu spiritu canfuratu (al posto di Spirito Santo); ancora: Sangu te santu nuddhu (sangue di nessun santo).

Da: Alfredo Romano, Lu Nanni Orcu, papa Cajazzu e altri cunti salentini. Nardò, Besa, 2008.

Le terre del Salento, terre ricche di storia enoica

ph Riccardo Schirosi

di Pino De Luca

La storia del vino avvinghia la storia delle umane genti come la vite sa avvinghiarsi al tronco o al filo di spalliere e pergolati. Risale alla notte del tempo in tutte le latitudini che la vigna può occupare.

La pianta delle quattro stagioni ha lasciato traccia di sé in antichi scritti del celeste impero, dell’Egitto e della Siria. Dell’Ellade e della Magna Grecia e di quella che, per la sua ricchezza e fertilità fu detta Enotria. Tracce nei libri sacri, suggellatrice del primo atto del patto dell’Arca, generatrice di felicità e di conflitti che trova nell’opera di Cristo la sua santificazione nell’atto della comunione all’ultima cena.

E come l’umanità i vitigni, facili all’innesto, hanno viaggiato in lungo e in largo per le terre dell’Eurasia, e si son diffuse nei cinque continenti vestendo sempre più gli abiti dell’emigrante e sempre meno quelli del viaggiatore.

Così è stato per tutti e così è anche per le terre del Salento, terre ricche di storia enoica fin dalla comparsa dei bipedi implumi ma nelle quali i “vitigni autoctoni” sono figli dell’emigrazione di uomini e di piante, qui si sono acclimatati e hanno trovato sesto, sviluppandosi e riproducendosi, creando colture e culture.

Raramente la storia ha un principio preciso, ogni volta che si narra del passato per sostenere una idea o uno stato del presente si fa una cesura stabilendo arbitrariamente un “punto di inizio della storia” e questa arbitrarietà è fonte di infinite discussioni poiché spostando in avanti o indietro la genesi di un pensiero muta il pensiero medesimo e il suo significato.

Per la vite invece si può ricordare il principio di una nuova storia: 17 febbraio 1863. In quel secolo guerre spaventose hanno devastato l’Europa, nuove tecnologie si sono affacciate a modificare la vita e l’organizzazione sociale del Vecchio Continente. I sentimenti di civiltà espressi oltralpe alla fine del secolo precedente, per quanto sconfitti si sono radicati. Ma un piccolo afide, microscopico e letale, distrugge tutta la tradizione vinicola del regno della viticultura: la Francia. La fillossera della vite compie il misfatto devastando la quasi totalità dell’agricoltura francese che rimane priva di uve. In Italia la fillossera non è giunta e il 17 febbraio 1863 viene stilato un trattato commerciale tra Italia e Francia per la fornitura di uve e vino. Il Salento nelle mani del latifondo viene rapidamente riconvertito impiantando estensioni di vigneti a perdita d’occhio. Il tabacco, il grano, i frutteti e le ortive, finanche gli oliveti, lasciano spazio ad una monocoltura della vite con un sesto straordinario per le terre salentine che rimarrà per oltre un secolo il simbolo della campagna: l’alberello.

Il vino da palmento, per piacere personale e alimentazione da masseria lascia spazio ai vini da taglio che, in vagoni cisterna su lente tradotte, partono per la Francia e il Nord Italia. Dura poco, circa vent’anni. I Francesi impiantano nuovi portainnesti di vite americana resistente all’afide e già nel 1881 il trattato diventa più restrittivo. Crisi di produzione e ricerca di nuovi mercati, nuovi trattati con Austria e Germania e nuovi vagoni fino al 1892 quando la fillossera arriva anche qui distruggendo ogni cosa. Finché, nel 1930 non si ricomincia con nuovi portainnesti e nuove talee riprendendo Primitivo, Negroamaro e Malvasia nel tentativo di ricercare il passato migliore.

Un passato che non tornerà se non a sprazzi, e il vino emigrante sarà sostituito dagli emigranti del vino. Un tempo partivano i mosti poi cominciarono a partire i braccianti nonostante le politiche di sostegno. E quando il mercato sussultava la piaga della sofisticazione contribuiva a soffocarlo, fino alla cecità e alla morte di ignari consumatori.

Poi la presa di coscienza e la svolta, nessuno avrebbe più voluto vini da “tagliare” e allora Primitivo e Negroamaro e Malvasia, Sussumaniello e Ottavianello e Aleatico hanno ricordato le origini, alcune antichissime come il Primitivo e il Negroamaro e si son messi in proprio. Produttori coraggiosi hanno cominciato a lavorarli per ottenere prodotti qualitativamente proponibili e, in molti casi, abbiamo dei veri e propri must. Nelle classifiche mondiali e nelle guide specializzate i vini del Salento e le loro declinazioni hanno assunto fama internazionale, dai pionieri Leone De Castris e Cosimo Taurino ai “miti” dell’Enologia planetaria come Severino Garofano fino ad una molteplicità di aziende di varie dimensioni che sul mercato internazionale fanno la loro grande figura. Il solco è tracciato, nuove mani e nuove menti sui campi e in cantina possono ridare alla viticoltura pugliese antichi splendori, e stavolta non più “vini emigranti” ma vini “viaggiatori” che è molto meglio esportare la gioia che la fame.

La Puglia terra di Papi e Santi (1)

la chiesa di Casaranello

di Giuseppe Massari 

E’ noto a tutti e a molti come la Puglia  sia o possa essere considerata culla di santi.

San Giuseppe da Copertino, sant’Antonio Francesco Fasani,  il beato Giacomo di Bitetto, la beata suor Elia di san Clemente, carmelitana scalza, il servo di Dio, don Eustachio Montemurro, fondatore di due congregazioni religiose: le Suore Missionarie del Sacro Costato e i Piccoli Fratelli del SS.mo Sacramento, don Pasquale Uva, fondatore della casa della Divina Provvidenza di Bisceglie, senza dimenticare il santo per eccellenza, che pur non essendo pugliese di nascita, è vissuto nella nostra regione e le sue spoglie mortali vengono custodite sul Gargano, san Pio da Pietrelcina.

Ma la Puglia si conferma, nella sua radicata religiosità, anche terra di papi, avendone dati tre alla Chiesa universale. Infatti, secondo una ricostruzione e ricerca condotta alcuni anni fa da Matteo Fantasia, sfociata in una pubblicazione editoriale: “I Papi Pugliesi”, Schena editore, 1987, viene alla luce una verità ai più sconosciuta. Secondo questo studio i papi pugliesi sono tre: un salentino e due baresi.

Bonifacio IX, Pietro Tomacelli, nato a  Casarano o Casaranello, in provincia di Lecce, diocesi di Nardò, fra il 1344, o il 1355 o nel 1359. I biografi, purtroppo, sono discordi, anche  se è possibile accettare più vera la data intorno al 1350.

Innocenzo XII, Antonio Pignatelli, vide la luce a Spinazzola, il 15 marzo 1615, in quella che un tempo era in provincia di Bari, oggi città inserita fra i comuni che compongono la nuova provincia di Barletta – Andria – Trani, della diocesi di Altamura – Gravina e Benedetto XIII, dell’ordine dei Padri predicatori, al secolo Frà Vincenzo Maria Orsini, nato a Gravina in Puglia il 2 febbraio 1650, in provincia di Bari, della stessa diocesi di Innocenzo XII, attualmente servo di Dio in quanto candidato agli onori degli altari, essendo in corso il processo di beatificazione.

Queste tre grandi figure, vissute in periodi difficili e tumultuosi per la vita della Chiesa, non va dimenticato che durante i quindici anni del pontificato di Bonifacio IX la chiesa era scossa dallo scisma di Avignone, dove si risiedeva l’antipapa spagnolo Pedro de Luna, Benedetto XIII, segnano la storia della nostra regione, anche se fra luci ed ombre, o, forse, fra più ombre che luci, come è nel caso di papa Pietro Tomacelli di cui ci occuperemo più diffusamente.

Questi non brillò per spessore religioso, se è vero, come riconoscono i suoi

Salento terra di santità. San Bernardino Realino

 
da http://www.sjweb.info

 

 

di frà Angelo de Padova

Diventa patrono di una città  da vivo. Siamo a Lecce, nell’estate del 1616: il gesuita Bernardino Realino sta morendo, 42 anni dopo esservi arrivato. I reggitori del Municipio lo vanno allora a visitare in forma ufficiale, gli fanno la sbalorditiva richiesta di voler essere il protettore della città  per sempre. Il moribondo acconsente, tranquillo e lieto. D’altra parte è già amico, consigliere, soccorritore dei cittadini  da più di quattro decenni. Anche se non è leccese.

E’ emiliano, nato in una famiglia illustre di Carpi; per i suoi primi studi aveva i maestri in casa, poi andò all’Accademia modenese. Negli studi lo attira tutto: la letteratura classica  e poi a Bologna la filosofia, poi ancora la medicina. Infine, all’età di 26 anni, si laurea in diritto civile e canonico. Suo padre è un collaboratore del cardinale Cristoforo Madruzzo, che come vescovo di Trento è stato il “padrone di casa” del Concilio, fu governatore di

La dieta Mediterranea è entrata nel patrimonio culturale immateriale dell’Unesco

 

ROMA (16 novembre) – La “dieta Mediterranea” è entrata nel patrimonio culturale immateriale dell’Unesco. L’ok è arrivato questo pomeriggio all’unanimità da parte del comitato intergovernativo dell’Unesco riunito a Nairobi, in Kenya.

«Il risultato sperato è arrivato: l’Unesco ha definitivamente proclamato la dieta mediterranea quale Patrimonio culturale dell’umanità. Questo prestigioso successo mi riempie d’orgoglio e di soddisfazione e rappresenta un traguardo storico per la nostra tradizione alimentare e per la

Benedetto XIII. Un processo di beatificazione che non è mai partito

Dipinto di anonimo pittore allocato nella sagrestia della Basilica cattedrale di Gravina in Puglia

di Giuseppe Massari

Purtroppo, ci giungono voci poco confortanti dagli ambienti della Curia romana circa il cosiddetto Processo di beatificazione che avrebbe dovuto riguardare il papa gravinese, Benedetto XIII

A metà del mese di febbraio di quest’anno il cardinale vicario di Roma, Agostino Vallini, firmò l’editto per la riapertura della Causa. Questo non significava, così come qualcuno lasciò intendere, che il processo avrebbe preso subito il suo avvio, o che, automaticamente ne veniva dato corso e seguito, non prima, comunque, aver raccolto tutto il materiale storico e bibliografico prodotto nel corso dei secoli, fino ai nostri giorni. Ma da questo, a sapere dagli stessi ambienti vaticani che la causa non è “neanche in agenda” ce ne passa. Significa che è  su un binario morto, nonostante i trionfalismi circa i tempi rapidi di apertura e di chiusura, quasi fosse un prodotto da far lievitare ai gradi centigradi di un forno. Anzi, dalla Congregazione per le Cause dei santi fanno sapere che se non c’è un forte interesse, una forte motivazione, una forte spinta, il dibattimento, sia pure su basi documentali e non verbali, non inizierà mai. Cioè, in soldoni, significa che già di per sè il candidato deve essere forte, carismatico;  deve essere in grado, da solo, a spingere al suo personale esilio verso gli altari. Di questo, purtroppo, la Congregazione è poco convinta, nonostante, l’anno scorso, il 26 novembre, alla Biblioteca Casanatense di Roma, il prefetto della Congregazione, il futuro e prossimo cardinale Angelo Amato, avesse  alimentato speranze, sempre secondo coloro che sono figli e re dell’ignoranza.

Cosa significa tutto ciò? Che il personaggio candidato desta poca considerazione? Che c’è stato un disinteresse da parte dei promotori, i quali, vinti e accecati da una frenesia, ingiustificata e ingiustificabile, pensavano

Nardò. Il tesoro scomparso della nobile famiglia Sambiasi

 

di Giuseppe Tarantino

Il tesoro scomparso della nobile famiglia Sambiasi: un patrimonio di milioni di euro che potrebbe aver giocato un ruolo determinante nelle decisioni assunte riguardo il futuro dell’ospedale di Nardò.

Nella conferenza pubblica “La morte annunciata dell’ospedale di Nardò”, organizzata dal Comitato civico “Spes Civium” in difesa del “San Giuseppe – Sambiasi” , che si è tenuta nei giorni scorsi nel Chiostro di Sant’Antonio, si tirano fuori carte e documenti notarili e nasce il “giallo”: che fine ha fatto il “tesoro” che avrebbe salvato l’ospedale di Nardò?

Antiche carte conservate nell’archivio storico del Comune e dell’Ospedale civico, vengono alla luce grazie all’analisi storica condotta da Marcello Gaballo, medico e storico locale, il quale nel corso del convegno rivela l’esistenza di un vero e proprio “mistero” sulle sorti dell’ingente “lascito perpetuo” che la nobile famiglia neritina dei Sambiasi donò, nel 1741, ad un “Pio Monte” con il preciso scopo di finanziare lo sviluppo dell’Ospedale di Nardò.

Un patrimonio ingentissimo che, tra l’altro, comprendeva la masseria “Ingegna”, la chiusura in contrada “Fabrizio” (1680 alberi di ulivo), le masserie “Taverna”, “Cravascio”, “Bella Nova” e “Corsari”, un palazzo su via Lata, un giardino al “Ponte”, sei case nel “vicinio” della “Misericordia”, una bottega nei pressi di San Domenico, alcuni magazzini in Gallipoli, capitali dati in enfiteusi a varie persone, canoni e censi gravanti su case e terreni. “Le regole del Pio Monte furono confermate con Regio Assenso di Ferdinando IV l’8 agosto 1783, -scrive Marcello Gaballo- fu amministrato dalla Commissione Comunale di beneficenza, poi dalla Congregazione di Carità. Il patrimonio dell’istituzione nel 1927 ammontava a Lire 638.888,60”.

Le volontà testamentarie dei donatori furono rispettate sino agli anni ‘70 dello scorso secolo, quando la riorganizzazione sanitaria italiana rivide tutto

Il pesce fa bene al cervello…

di Armando Polito

Ancora mi rivedo bambino mentre tento disperatamente di sfuggire a mia madre che mi insegue per cacciarmi a viva forza in gola il pesce, per lo più arrosto, adagiato su un piatto, sempre lo stesso, diventato col tempo un vero incubo. Le imposizioni, si sa, come il proibizionismo, hanno un effetto opposto a quello desiderato, tant’è che, se ieri lo ingurgitavo senza masticarlo e qualche volta correvo in bagno a rimetterlo, oggi il pesce è uno dei miei piatti preferiti. Comunque ho ancora nelle orecchie la frase rituale sfoderata per l’occasione: “Il pesce contiene fosforo e il fosforo fa bene al cervello”. Se potessi oggi riascoltare quella frase (e lo farei con immenso piacere…) direi a mia madre che essa nella seconda parte non ha alcun fondamento scientifico, anche se l’importanza alimentare del pesce è stata nel frattempo esaltata per la presenza degli Omega-3. Non mi meraviglierei, tuttavia, se fra qualche anno la scienza rivalutasse anche la vecchia credenza popolare nei riguardi del fosforo. È certo, comunque, che al cervello fa bene il cervello, nel senso che l’esercizio mentale, la coltivazione di interessi, la curiosità perenne, l’accettare con beneficio d’inventario, lo spirito della ricerca e del dubbio ed un pizzico di perfezionismo sono gli ingredienti indispensabili per mantenerlo in funzione al massimo delle sue possibilità. È quello che mi accingo a fare, con buona pace del fosforo, come allenamento del giorno, con questa indagine puramente filologica (limitata a quei pesci il cui nome in dialetto neritino ha origine analogica1), nella speranza che essa non dia un risultato tale che pure il lettore più benevolo direbbe: “Certi pesci! Sarebbe stato meglio se te li fossi fatti fritti…”.

ÁCURA Aguglia Tylosurus acus acus  Lacepede, 1803

Secondo il Rohlfs “propriamente un plurale: latino volgare àcora=aghi”. Senza scomodare la forma ricostruita *àcora io metterei in campo il latino medioevale (Du Cange, pag. 66) àcula2 (del quale, con raddoppiamento della radice ac– sono attestate pure le varianti acùcula e acucùlla) interpretato come diminutivo del classico  acus/us=ago. Ad acus/acus ed alla stessa radice ac– sono connessi acus/àceris=pula, paglia e acus/aci=aguglia.

Il nome italiano è dal provenzale agulha e questo dal citato latino medioevale acùcula.

Per il nome scientifico: tylosurus, deformazione di tylosauros, è dal greco tulos=protuberanza e sàuros=lucertola (il tylosauro era uno dei più micidiali predatori marini del Cretaceo superiore); acus al femminile in latino significa ago e al maschile aguglia.

ARGENTÍNU Argentina Argentina sphyraena  Linneo, 1758

La foto mostra chiaramente come il pesce abbia il colore, la lucentezza, lo

Echi paesani: quando la vita stillava copiosa

di Rocco Boccadamo

Nel novero dei tanti cambiamenti inanellatisi fra ieri e oggi, ve n’è uno, sicuramente basilare e fondamentale dal punto di vista del consesso civile e non solo, su cui, invero, ci si sofferma poco, sicuramente non per quanto metterebbe conto di fare: quello attinente al processo demografico e, in particolare, alla natalità.

Intorno alla fase mediana del XX secolo, nel comune d’origine dello scrivente, circa 5000 anime, ogni anno si registravano, minimo e massimo, da 130 a 180 nascite; in contemporanea, i decessi oscillavano fra i 40 e i 60 casi. Evidente e notevole il divario a beneficio del primo ordine d’eventi.

In che modo si è messi attualmente, è presto detto. I lieti eventi risultano letteralmente rarefatti, realtà consolidatasi su scala nazionale e anche a livello europeo e, in genere, di tutte le aree cosiddette evolute del pianeta; per di più, sono stati numericamente raggiunti, se non sopravanzati, dalla serie dei “fine vita”.

In collegamento, durante l’anzidetto periodo, prevalevano i nuclei familiari consistenti, con quattro, cinque, sei, sette e oltre ancora figli, mentre si presentavano in netta minoranza le mura domestiche con prole in quantità minore.

Per passare a qualche riferimento concreto, si vorrebbe citare l’esempio di maestro V.B. , padre di nove figli, sei maschi e tre femmine, oppure di maestro V.T. , analogamente con nove eredi, quattro maschi e cinque femmine, oppure, infine, dei coniugi T. e C. , i quali avevano messo al mondo un’infilata di sei figli maschi.

Un particolare ricordo si riferisce al primogenito dell’ultima famiglia, A.; questi faceva, al pari dei genitori, il contadino e, inoltre, la sera, apriva il suo salone di barbiere. Bottega per clienti di barba e capelli, ma anche, e soprattutto, luogo di raduno di una bella cricca di bravi giovani pressappoco coetanei del “titolare”, uno dei quali sapeva suonare alla buona l’organetto a bocca e dava il là a spensierati cori e canti in allegria.

Marittima (Lecce) (ph. Rocco Boccadamo)

Degna di memoria, in aggiunta, la circostanza che il terzultimo e l’ultimo dei sei fratelli, da adolescenti, hanno scelto la vita religiosa e, tuttora, con il loro bell’abito da frati, si vedono ritornare d’estate, per una breve vacanza, al paesello natio.

Chiaramente, il modo in cui sono composti e si pongono i  nuclei familiari d’oggi, è proprio un’altra e diversissima storia.

La Chiara Funtana

La Chiara Funtana. Racconto tratto da Lu Nanni Orcu, papa Cajazzu e altri cunti salentini. Nardò, Besa, 2008.

di Alfredo Romano

Nc’era na fiata na fèmmana ca se chiamava Maria. Era mutu beddha e ttenia lu nnamuratu. Cu llu maritu mo’ se mmušciava sempre bona, ma quandu ia ttrasire ccasa lu nnamuratu, cu nna scusa nde lu mandava a quarche banda.
Rrivàu, però, ca lu maritu nu’ ippe cchiùi vòja cu sse nd’esse te casa, puru ca la mujere lu cumandava. Sicché lu nnamuratu, cu llu fattu ca nu’ sse putìa vitire cu lla Maria, sciu perdendo te pacienza. E ffruntàndula a mmienzu lla strata, ne tisse:
«Ma quistu maritu tou, quandu ete ca se nd’esse te intru ccasa? Ca iu nun ci resistu cchiùi. Acquai tocca ffacìmu cu scumpare pe’ sempre, ca quista nu’ è ccosa ca se pote secutare»
E iddha:
«E iu cce ppozzu fare? Tici mo’ ca lu cacciu te casa?»
«Tie fanne ca te zzìccane tulori, ca iu te mandu lu tale tuttore. Tie tici ca voi lu tale tuttore, cusì vene e tte ordina la meticina ca ticu iu.»
Nsomma, cce ffice ‘llora la Maria? Zziccàu e sse stise susu llu jettu pe’ mmalata.
«Ahi! ahi! ahi! Mamma mia mòooru! mòooru! va’ cchiama lu tale tuttòoore!

Emanuele Spano, visual designer, photographer, street photographer

di Stefano Donno

Emanuele Spano. Classe 1978. Il suo background affonda le radici e
prende corpo a partire da due esperienze ad alto potenziale di
“creatività”: il FORMA ovvero il Centro Internazionale di Fotografia e
la Nuova Accademia di Belle Arti di Milano (NABA).

Per descrivere in cosa eccelle o cosa è in grado di realizzare, non
basterebbe un anno intero, proviamo a sintetizzare in poche immagini.
Emanuele Spano è visual designer, photographer, street photographer e
molto, molto di più. Con l’architetto Yona Friedman, realizza per il
Mart di Rovereto una casa/installazione di origami. Nel suo entourage
circolano nomi “immensi” come Peter Gehrke o Eikoh Hosoe. È stato
assistente/fotografo ufficiale per campagne pubblicitarie di aziende
del calibro di Armani, Yamamay, Richmond. Ha vinto diversi premi di
importanza nazionale e internazionale, suoi lavori compaiono nelle più
prestigiose e autorevoli pubblicazioni a livello mondiale del settore
fotografico e del design. A partire dal 2008 il pulsare della sua
incontenibile voglia di manipolare e realizzare nuovi linguaggi
artistici, lo portano a creare “I’M WHERE I LIVE” a vera e propria
factory presente a Muro Leccese, a pochi chilometri dal capoluogo
salentino.
Un concetto di biocompatibilità tra arte e vita, un vero e proprio
biospazio dove il concetto stesso di factory si trasforma in pura
funzionalità, comfort e bellezza. Uno spazio vitale che è anche
showroom e allo stesso tempo laboratorio, studio, fabbrica artistica e
atelier post-moderno.
“I’M WHERE I LIVE”, questo nome evocativo che è anche un habitat di
vita nasce grazie a uno spunto di della grande Marina Carrara
direttrice della storica rivista CASAVIVA.
Ora Emanuele Spano sta lavorando ad un progetto per immagini di
“eco-visione” dove l’obiettivo cattura ombre, immagini, colori, quasi
fosse senziente. Un progetto di intelligenza naturale della
fotografia.

Info: http://www.emanuelespano.it

Dal Salento in Cina e viceversa

  
Buongiorno, Salento!

 

 

A colloquio con Giuseppe Mighali, un salentino trapiantato a Pechino

di Marcello Gaballo

Il web è straordinario e infinito nelle informazioni che mette a disposizione di chiunque. Non ci saremmo mai aspettati però di rintracciare un salentino in Cina, Giuseppe Mighali, nato ad Aradeo (Lecce) nel 1982, che vive e lavora nella capitale Pechino.

Lavora come docente di lingua e cultura italiana presso l’Università di Studi Internazionali di Pechino, dove insegna primariamente teoria della traduzione e dell’interpretariato, e partecipa all’organizzazione di eventi culturali. Si occupa anche di arti marziali, attività che lo accompagna fin da giovane e che ormai è parte integrante della sua vita quotidiana; al riguardo, quando può, cura il blog www.meihuazhuang.eu.

Lo abbiamo contattato e, gentilissimo, ci ha subito risposto, dichiarandosi disponibile a rispondere ad alcune nostre domande.

Le proponiamo su Spigolature Salentine, con le relative risposte, ben contenti di aver stabilito un ponte con “l’altro mondo”, per tanti aspetti inimmaginabile, insolito.

 
 
 
 
 
 

 

Giuseppe Mighali

Giuseppe, ma come mai sei andato a finire a Pechino?

 

Ho studiato lingua cinese presso l’Università del Salento di Lecce e lingua e cultura cinese presso l’Università di Lingua e Cultura Cinese di Pechino. Nel 2004 arrivai a Pechino, dove tutt’ora risiedo, assistendo alle metamorfosi nella società cinese e al progresso del paese. Nel mio costante e interminabile studio, oltre che alla cultura cinese classica in generale, mi concentro principalmente sul cinese tradizionale e sulla filosofia taoista e confuciana. A parte le note professionali, devo però aggiungere che quando decisi di trasferirmi in Cina, avevo alle spalle tre titoli

Curiosità antiquarie da una biblioteca conventuale (5)

Una e-mail del ‘600, anzi Facebook ante litteram, ovvero un espediente per rendere pubblico un fatto privato…

di Marcello Gaballo e Armando Polito

glorioso essendo stato mozzicato da una cane figliata ha

paura che non le succeda qualche cosa ben che la cane si

fusse arribiato, ne le fè sangue. Ne manchi de

La chiesa di San Biagio a Galatina

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di Massimo Negro

La storia della chiesa di San Biagio ha avuto sin dall’inizio della sua costruzione, nel 1507, una serie di difficoltà crescenti e, in particolare, a partire dall’800, una storia di privazioni e di spoliazioni.

La chiesa di San Biagio attraversa la storia come testimone e purtroppo vittima delle tensioni interne alla Chiesa e soprattutto vittima dello scontro tra il potere degli Imperi, degli Stati e la Chiesa Cattolica.

L’attuale chiesa e i locali attigui sono quello che resta di un complesso maestoso e imponente costruito dai padri Olivetani e conosciuto come S. Caterina Novella (detta Piccola).

Una storia complessa e antica che inizia con la “concordia” siglata il 1 giugno di quel 1507 tra gli Olivetani e i Francescani, grazie alla quale questi ultimi avevano potuto far ritorno presso la basilica di S. Caterina, nella quale si erano insediati dal 1494 gli Olivetano per benevolenza di Alfonso II.

La fabbrica della chiesa e del suo convento fu particolarmente complessa e soprattutto costosa. Durò circa centotrenta anni, sulla base di un progetto che vide impiegati Marcello da Lecce e un galatinese, Pietro Antonio Pugliese. Di quest’ultimo resta la sua “impronta” sul maestoso arco nei pressi dell’altare all’interno dell’edificio.

Anni durante i quali non mancarono anche controversi interne al clero, tanto che dovette intervenire anche il pontefice di allora, Urbano VIII, nel 1634, per chiedere che venisse appianata una controversia tra il chierico De Mico e l’abate Ilario per soldi prestati per il completamento della chiesa e non ancora restituiti.

La vita della chiesa subì una forte battuta d’arresto a partire dal 1805. A causa della riforma napoleonica, che modificò completamente l’ordinamento delle proprietà ecclesiastiche, il monastero e la chiesa furono completamente abbandonati. Invano le autorità ecclesiastiche chiesero di poter rientrare nel suo possesso. Nel 1808 l’arcivescovo Morelli chiedeva al Re di Napoli Gioacchino Murat che gli venisse concesso di poter abitare nel convento. In una successiva comunicazione, in cui si denunciava lo stato di degrado della struttura, si chiedeva di poter rientrare in possesso del frutteto (di cui rimane qualche albero alle spalle del convento) per poter così ricavare le somme necessarie alla sua manutenzione. Ma non si ebbe nessuna risposta. Dagli atti notarili si sa che la proprietà venne acquistata dalla famiglia Mezio da Galatina tra il 1819 e il 1821.

Dobbiamo giungere nel 1891, quando la chiesa venne ribattezzata dal popolo chiesa di San Biagio grazie alla fondazione della omonima confraternita sorta nello stesso anno e che vide una grande partecipazione di popolo, tanto che poteva contare in quell’anno ben 300 fratelli.

Del convento rimane ben poco. Da un disegno del Pietro Cavoti, ritrovato casualmente in una ex tenuta Galluccio Mezio in località Tabelle e ora in possesso della parrocchia conservato nei suoi archivi, si può vedere come il convento di sviluppasse su due piani e un’arcata congiungeva questo complesso con la chiesa. Il prospetto, inoltre, era adornato da uno splendido e imponente porticato.

Da una perizia fatta nel 1838, quando ormai il complesso era in stato di completo abbandono, risultavano ben 40 stanze tra il primo e secondo piano e altre 13 stanze diroccate, oltre a un capannone assegnato alla mensa vescovile di Gallipoli. Oggi del secondo piano non rimane traccia e lo stesso si può dire dell’antico porticato.

Delle colonne del porticato si racconta che furono dapprima portate sul finire dell’800 nel vecchio cimitero di via Guidano e poi utilizzate per la costruzione del Monumento dell’Impero che era situato in Piazza Alighieri sino alla sua distruzione avvenuta dopo la caduta del fascismo. E con il monumento andarono distrutte anche le antiche colonne.

La chiesa, fatta eccezione per l’attiguo ex convento, è giunta a noi nella sua struttura sostanzialmente integra ma, in quei primi tristi anni dell’800 venne completamente spogliata di ogni arredo e subì gravi danni. L’edificio era diventato così frequentemente teatro di furti che nacque addirittura un aneddoto conosciuto come “calo? cala”.
Infatti si racconta di un tipo che transitando di sera nei pressi della chiesa, sentì una voce proveniente dall’alto che diceva “calo?”. Il tipo non sapendo e soprattutto non vedendo bene a causa della poca luce chi fosse e cosa intendesse, in imbarazzo si sentì di rispondere “cala”. Si ritrovò così ai piedi un sacco pieno di preziosi arredi sacri e ducati. Capendo che trattavasi del frutto di un furto in corso, mise prontamente il sacco sull’asino con cui stava trasportando del pellame e se andò via di corsa lasciando i ladri a bocca asciutta.

San Biagio 1

Verso la fine dell’800 la chiesa fu utilizzata come fabbrica di alcool e la navata destra era utilizzata come deposito per la legna necessaria per far ardere i fuochi.
Durante la Grande Guerra venne più volte requisita per essere utilizzata come deposito e questo accadde nuovamente nel 1919 e nel 1920 per depositarvi, su ordine dell’Amministrazione Cittadina del tempo, benzina e petrolio.
L’area inoltre divenne una discarica di materiale edile e oggi la differenza tra il piano attuale della strada e gli antichi basamenti del sagrato è di sette gradini.

L’interno consta di una maestosa e ampia navata centrale. Le due navate laterali già nel ‘500 furono isolate con una tamponatura muraria. La navata destra in cui oggi sono esposte le statue in cartapesta fu venduta alla parrocchia nel 1972 dalla famiglia Bardoscia. Nel 1976 la famiglia Mezio vendette alla chiesa il residuo convento con il giardino interno e la navata sinistra.
Dopo tante traversie, e tocca giungere ai giorni nostri, finalmente la chiesa rientrò in possesso delle sue antiche proprietà o, per meglio dire, di quello che ne rimaneva.
Il primo intervento di restauro si è avuto nel 1976-77 per mettere in salvo la volta centrale che era pericolante e, successivamente nel 1990, si intervenne sul campanile.

San Biagio 3

Oggi la chiesa, pur nella semplicità dei suoi arredi, trasmette un senso di maestosità e di pienezza. La navata centrale è ricca di decorazioni in pietra così belle, ben proporzionate ed armoniche, tali da apparire come una sorta di ricco ricamo. Ogni volta che il mio sguardo si posa sulla volta mi vengono in mente quei ricami delle antiche doti a cui le nostre nonne erano così brave e ai quali dedicavano anni e anni della loro vita pur di lasciare un loro ricordo ai nipoti. Donne dalla vita difficile, che la mattina aiutavano i mariti in campagna e la sera si mettevano a lavorare ai ferri con tanto amore. La chiesa di San Biagio è la dote che è giunta a noi, dopo secoli di traversie, grazie alla fortuna, al buon cuore e alla ferrea volontà dei tanti che nel tempo e soprattutto recentemente si sono impegnati affinché diventasse un degno lascito per le comunità future.

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http://massimonegro.splinder.com/post/23564149/i-ricami-di-san-biagio-a-galatina

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fonte: “Chiesa di San Biagio” – Don Salvatore Bello – Edizione Il Campanile

Involtini al primitivo

di Pino de Luca

Re Noir.
Sembrerebbe la traduzione di Re Nero fatta da un approssimativo conoscitore del francese o un marchiano errore di stampa per indicare il nome del grande pittore Pierre Auguste.
Magari l’esecuzione di una particolare nota musicale dal timbro cupo. E invece è il nome di un vino, di un primitivo prodotto dalla Pliniana, storica cantina di Manduria. Vino scuro, denso e consistente che accompagna al corpo poderoso un gusto morbido e aromi fini e di grande eleganza.
 
Moscia Leccese.
Non so quanti degli ormai affezionati lettori sianio in grado di interpretare correttamente questa espressione. Non è una contumelia rivolta ad attempata signora del capoluogo salentino né la pronuncia di un bleso della città della Lupa. Si tratta di uno dei patrimoni più importanti da tutelare nell’anno della biodiversità.
La Moscia leccese è la pecora del Salento. Animale di origini antichissime, di poche pretese e grande generosità. Trivalente: buono per latte, lana e carne. Trovo di particolare pregio, per gusto intenso e delicato, le budella degli agnelli. La coratella con la quale si fanno degli straordinari turcinieddhri, gnemmarieddhri (con varie declinazioni) o ‘mboti che dir si voglia.
Papa Gianni, in una canzone molto celebre dei Sud dice: “eni a quai ca sciamu a ddhrai li turcinieddhri no nu li uei, ca nu li uei… “ perché ogni festa che si rispetti profuma l’aria con i turcinieddhri alla brace, tipico “cibo da strada” mediterròneo.
I turcinieddhri si possono coniugare in cucina in modo molto elegante ma anch’esso semplice e di grande effetto gustolfattivo.
Una padella larga, OEVO, alloro, aglio, peperoncino e primitivo di Manduria.
“appuntare” ogni involtino con una foglia di alloro, far soffriggere l’aglio nell’OEVO e levarlo quando è biondo. Mettere quindi a rosolare i turcinieddhri dalla parte scoperta per qualche minuto, quando prendono colore rivoltarli in modo che appoggino sulla foglia di alloro, aggiungere il peperoncino in polvere e regolare di sale, lasciar cuocere un paio di minuti (dipende dalle dimensioni dei turcinieddhri) e aggiungere una generosa dose di primitivo di Manduria (deve coprire le foglie di alloro), lasciar bollire fino a quando il vino non è ridotto ad un terzo.
Con l’apposita pinza prelevare i turcinieddhri e porli in un vassoio da portata sempre appoggiati  sulla foglia di alloro, mettere nella padella con il fondo rimasto una noce di burro e un cucchiaino di farina, amalgamare sul fuoco finché non s’addensa, condire i turcinieddhri con la salsa e servire caldissimo.
Contornare con cuori di sedano al pinzimonio e accompagnare con il Re Noir, che farebbe anche Renero. Come Martin, un caro amico che con i suoi colori racconta splendide storie di vento e di mare, di frammenti e di figure. Ma questa è un altra storia …

Curiosità antiquarie da una biblioteca conventuale (4)

Meglio non fidarsi degli strumenti normali per i necrologi e altre notizie…1

di Marcello Gaballo e Armando Polito

…si toto tempore sui incolatus in hoc conventu amabilem et exemplarem omnibus se ostendit, ita et eius ….2discessio aegroris noticiis in letitia ut, multiotes solet accidere in abgressu alicuius, nobis ottuderit. Unde in neritinis fide his litteris nostras manus reposuermus et sigillo huius con(ve)ntu3 has easdem roboraverimus per quas fidem dant in hoc discrimine.

 

… se in tutto il tempo del suo soggiorno in questo convento si è mostrato a tutti amabile ed esemplare, accade che la sua uscita con notizia di malattia, come spesso suole accadere alla partenza di qualcuno, ci ha colpito nella letizia. Onde nei Neritini fedelmente con queste lettere abbiamo riposto  le nostre mani e abbiamo convalidato col sigillo di questo convento queste stesse  mediante le quali danno (dimostrazione di fede) in questo momento decisivo.

 

Isabella Calò, Roberto Macrì,

Aspettando S. Martino, tre dediche particolari

 

di Rocco Boccadamo

Anche nell’andante 2010, così gravido d’eventi tristi, problemi e difficoltà d’ogni genere, intoppi profani, scansioni talvolta indecenti e dal sapore sgradevole, sta per arrivare l’11 novembre, data da sempre intesa come ricorrenza della festa di S. Martino di Tours, vescovo e confessore.

Secondo copione naturale, dissoltesi ed esauritesi, almeno qui nel Salento, le nuvolaglie e le intense piogge dei giorni scorsi, è riapparso il sole sull’immenso copri cielo azzurro, con temperature intorno ai 20 gradi: insomma, nel rispetto della tradizione, si può parlare ancora di estate, giustappunto, di S. Martino.

Nonostante le nuove e moderne tecniche di trasformazione dei grappoli, in concomitanza e in tutt’ uno con la celebrazione di che trattasi, vale sempre, nel sentire popolare, l’antico detto ”il mosto diventa vino”. Un’atmosfera, in fondo, di soddisfazione per un prezioso e utile prodotto ottenuto dalla terra e grazie al lavoro e intrisa, altresì, di buoni auspici per le stagioni, le messi e i raccolti a venire.

Si affaccia, dunque, un altro S. Martino e pure chi scrive ne avverte e respira il particolare clima. E però, in aggiunta alle usuali e sperimentate sensazioni, stavolta, dal di lui animo, si diparte, spontaneo, il desiderio di conferire, alla rievocazione e alla stessa essenza della festa, un’impronta originale, su una soglia di valori nettamente diversi.

In che modo, nel concreto? Sotto forma di tre dediche.

La prima, in omaggio all’operaio 42enne di Manduria (TA), da poco licenziato, che, alcune settimane fa, si è tolto la vita in preda alla disperazione e per il timore di non trovare più un lavoro e, quindi, di non essere in grado di mantenere la propria famiglia. Notazione agghiacciante a latere della tragedia, l’uomo era stato per lunghi anni impiegato in una cava per l’estrazione di tufi nelle campagne di Avetrana (TA), coincidenza geografica che, alla luce di altre tristissime cronache attuali, non passa certamente inosservata.

La seconda dedica è, invece, rivolta all’agente delle forze dell’ordine, preposto alla tutela della sicurezza e dell’incolumità del noto scrittore Saviano, al quale, come sottolineato dal conduttore della trasmissione televisiva “Vieni via con me” andata in onda su RAI3 lunedì 8 ottobre, mentre il comico Benigni si produceva in un’artistica ed esplicita esorcizzazione dell’azione malefica della camorra, che vede in Saviano un acerrimo nemico, è spuntata un’indicativa lacrima di commozione, non bisognevole di commento, testimone e sintomo dei terribili estremi – percepiti e sfiorati – di dualismo, conflittualità e lotta fra male e bene.

L’ultima, s’intende farla all’indirizzo e a beneficio ideale del diffusissimo, variegato e variopinto universo di immigrati inseriti e presenti in seno all’universo convenzionalmente definito indigeno. Pur alla presenza di drammi, sofferenze, devianze e miserie, non ci si può nascondere all’infinito, impassibili, dietro a distinzioni e discriminazioni fondamentali tra i due “mondi”.

Anzi, il cammino, avviato e inarrestabile, verso l’integrazione, con il passare del tempo e delle generazioni, si rivelerà vieppiù all’unisono, dando luogo, ritornano i buoni auspici, alla formazione e alla maturazione di un’umanità caratterizzata da spirito solidale crescente, in cui ciascun individuo di buona volontà avrà modo di riconoscersi.

Un albanese illetterato di Calabria finito a far tabacco con i leccesi

Domenico Amato, un albanese illetterato di Calabria, finito a far tabacco con i Leccesi a  Civita Castellana

di Alfredo Romano

L’addetto al censimento invano scrutava l’aperto orizzonte, a metà strada sulla via di Terrano, per una casa, un muro, qualcosa. Domeni­co Amato insomma.
Né un fazzoletto rosso legato in cima a uno dei due pali che segnano l’ingresso d’una carreggiata che s’incurva fino a perdersi nell’orrido, po­teva rappresentare per il suddetto una traccia sufficiente.
Fu così che Domenico Amato non venne censito e, buon per lui, vi­sto che le statistiche (non si sa mai) vanno magari a spiare quel po’ di prosciutti e capocolli conservati per l’inverno.
In realtà quella carreggiata portava in quell’interrata e abusiva casa di Domenico che il figlio muratore ha tirato su di festa in festa aggrappan­dola sui fianchi di un fosso malvagio.  Cacciato letteralmente dalla Tenu­ta Terrano, Domenico ha dovuto vendere i suoi tre aridi ettari di terra calabrese in cambio di un povero appezzamento a Civita Castellana. Niente paura, niente trattore, le mani bastano a ridurre in fertile polvere quei massi di tufo lunare, le mani per dar luce e respiro a un terreno di vecchia sterpaia.
Le mani di Domenico. Osservatele: sono rami d’un tronco nodoso dove s’aprono fessure di carne che non conosce suture. il gelo le spacca e il caldo

Il professore ladro di culùmbi


di Armando Polito

 

Culùmbu è il fico fiorone e l’idea del fiore è alla base della sua etimologia: dal latino corýmbu(m)= infiorescenza a grappolo, dal greco kòrumbos con lo stesso significato. La voce, insieme a milungiàna, è usata anche nel significato traslato di bernoccolo.

Sculumbàre=ridurre a mal partito con le percosse. Il Rohlfs non propone etimologia ma nella definizione mette in campo il sinonimo slombare e, perciò, debbo intendere che per lui anche per la voce dialettale la base è lombo; ritengo l’ipotesi improbabile perché non spiega –cu– e d’altra parte non conosco (né lui registra) per il Salento un prefisso scu– (frutto, magari, della fusione di due preposizioni); quando questo nesso compare è sempre scindibile in una s– (dal latino ex) estrattiva o rafforzativa, mentre –cu– fa sempre parte della parola base.  Il Garrisi, invece, si mette al sicuro affermando che la voce è “dall’incrocio tra leccese culu, culummu e italiano lombo” (melius abundare quam deficere).

1 Finalmente ho scoperto chi mi fotte i fioroni…scendi perché ti devo fare un bel servizio!

2 Facciamo così: se riesci a dirmi quello che vuoi farmi con due parole che abbiano la stessa radice, io scenderò. Sennò mi lasci andare…

 

3 Per i fioroni che mi hai fottuto voglio slombarti bello bello. 

4 Culùmbu e sculumbàre non sono per niente  parenti. Hai sbagliato, perciò lasciami andare!

 

5 Vatti a leggere quello che ha scritto ieri il professore Polito su Spigolature salentine. Il Garrisi non esclude un incrocio e perciò culumbu e sculumbàre sono parenti .E poi quest’albero l’ho innestato io: più incrocio di così? E adesso scendi!

6 Se gli dico che il Rohlfs non convince, che Garrisi si è sbagliato e che Polito non capisce niente, questo forse mi ammazza sull’albero. Ho deciso: scendo!

 

7 Per sicurezza prima mi ha slombato, poi mi ha fatto spuntare i bernoccoli in fronte. Per una settimana non voglio sentire nemmeno parlare di etimologia!

 

*Il post, originariamente con titolo diverso, è del professore, le vignette del contadino, che ha provveduto ad inviarle in redazione il giorno dopo che il fattaccio era successo, alle cinque del mattino quando il post cui fa riferimento era stato pubblicato da appena due minuti e, presumibilmente, solo lui l’aveva letto; la redazione lo ha immediatamente e sadicamente ripubblicato integrandolo con le vignette e con il nuovo titolo fornito, anch’esso, dal contadino.

 

Salento terra di santità. Santi Benedetta, Vitale, Alfio, Filadelfo e Cirino

 

statue dei Santi Alfio, Filadelfo e Cirino a Vaste

 

di frà Angelo de Padova

Nati a Vaste di Poggiardo (Le).  Prima dei figli e del nipote, ai tempi dell’Imperatore Massimino, 234 – 243 d. C., fu arrestata a Vaste la madre di Alfio, Filadelfo e Cirino: Benedetta di Locuste, moglie di un Principe chiamato Vitale, padre di quattro figli. La primogenita fu madre del martire Erasmo, gli altri tre figli furono Alfio, Filadelfo e Cirino. La madre dei Santi Fratelli fu decapitata per la fede in Gesù e prima di morire disse dinanzi al popolo accorso: “Sta scritto nel Vangelo che chi perderà la vita per Cristo in questo mondo, acquisterà la vita eterna nell’altro“.

Nella casa di Vitale esisteva come un Cenacolo sotto la guida di un Sacerdote cristiano, Onesimo. Ripresa la persecuzione pagana contro i Cristiani, fu mandato a Vaste un Proconsole, chiamato Nigellione, il quale fece arrestare Onesimo, i Tre Fratelli, il nipote Erasmo e altri 13 Discepoli. Interrogati affermarono di essere Cristiani. Furono in catene trasportati a Roma e rinchiusi nel Carcere Mamertino dove erano stati prigionieri i Santi Pietro e Paolo che apparvero loro confortandoli. Interrogati dal Prefetto Valeriano, confermarono la loro fede in Cristo. Furono trasferiti a Pozzuoli da Diomede, vicino Napoli. Il tiranno dopo vari interrogatori fece schiacciare Onesimo sotto un macigno, fece decapitare Erasmo (il nipote dei Tre Fratelli) e i tredici altri.

statua di santa Benedetta nella chiesa di Vaste

Lasciò in vita i tre Fratelli Alfio, Filadelfo e Cirino per tentare di farli abiurare. Non riuscendovi li mandò in Sicilia dal Preside romano Tertullo, sotto scorta di 50 soldati capitanati da Silvano. Il 25 agosto del 252 d. C.

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