Solo per ricordare, di Aldo de Bernart

di Paolo Vincenti

Solo per ricordare, di Aldo de Bernart (Tipografia Inguscio e De Vitis, Ruffano), è una piccola plaquette che raccoglie una serie di contributi sparsi, scritti con la acribia e la grande preparazione alle quali ci ha da una vita abituato questo ottuagenario studioso, esperto di storia patria e cultura salentine.

Questa plaquette, stampata fuori commercio in un numero limitato di copie (149), fa parte della collana “Memorabilia” nella quale, da qualche anno a questa parte, il professor de Bernart raccoglie una serie di piacevoli e sempre interessanti chicche, spigolature su avvenimenti di storia locale o su personaggi minori se non minimi e dimenticati del nostro Salento, tranche de vie che sanno sempre catturare la nostra attenzione.

Lavoro pregevole, questo, svolto disinteressatamente, con la sola passione della ricerca e dell’approfondimento, che il de Bernart mette a disposizione di tutti coloro che amano il nostro Salento o sono interessati a scoprire aspetti inediti della storia di Terra d’Otranto.

Il primo contributo è “Nel settantesimo anniversario della morte di Antonio Bortone. 1938-2008”, che riprende un analogo scritto apparso qualche

C’è anche l’erba delle fate!

NOMI DI ESSENZE VEGETALI TRA SACRO E PROFANO (5)

                                                                    Capìddhi ti fate

 

di Armando Polito

Con questa quinta puntata abbandoniamo il mondo del sacro e ci immergiamo nel profano, anche se il magico, che qui sarà per un attimo evocato, nella cultura di ogni tempo ha avuto pur sempre un carattere sacrale, magari in contrapposizione alla religione dominante o ufficiale.

Nomi italiani: capelli delle fate, lino delle fate

nome scientifico: Stipa capensis Thunb.

nome della famiglia: Poaceae

L’etimologia dei nomi italiani non pone alcun problema: basta guardare la foto e mettere in moto, non più di tanto, la fantasia.

Per mantenerla viva per un pò sono costretto, però, a tralasciare per il momento Stipa (si capirà alla fine…) e a passare a capensis, che è formazione latina moderna dal classico caput=capo, con riferimento, in botanica, ad uno dei sette regni e, nella fattispecie, a quello che si estende all’estremità sud-occidentale dell’Africa (Penisola del Capo) e che, pur essendo il meno esteso, è il più ricco di endemismi; Poaceae è forma aggettivale latina moderna dal greco poa=erba.

Riprendo quanto avevo lasciato in sospeso. Stipa è voce del latino medioevale1, in cui assume il significato di vegetale adoperato per ricoprire i tetti e questa voce ci consente di fare un viaggio per certi aspetti inatteso nel tempo e tra le parole. Stipa è stata intesa come forma primitiva del

Il prezzario della rinomata casa del piacere

Venerdì 21 gennaio alle ore 19.00
presso il Convento degli Agostiniani a Melpignano

presentazione del volume

PREZZARIO
della rinomata casa del piacere
a cura di Stefano Donno e Anna Chiriatti

 

Intervengono
Cecilia Mangini (documentarista); Antonio Errico (scrittore); Luigi Chiriatti (direttore editoriale).

L’unità, il tricolore e l’inno di Mameli patrimonio nazionale

da http://www.ilbrigante.it/

 

di Gino Schirosi

Ci mancava pure questo nel nostro Bel Paese! Dopo un secolo e mezzo di monarchia e di repubblica, c’è chi si è accorto all’improvviso che dei vari modelli istituzionali prospettati e discussi nell’800 tra il monarchico Cavour, il repubblicano Mazzini, il neoguelfo Gioberti e il federalista Cattaneo, proprio il federalismo (fiscale, demaniale, municipale, regionale, ecc.) avrebbe comunque potuto calzare a pennello alla variegata e poliedrica realtà italiana. Capita inoltre di ascoltare da tanti sputasentenze giudizi strani e paradossali, come quello secondo cui l’Italia sarebbe ancor più unita se fosse uno Stato federale.
Ciò premesso, non è tuttavia facile comprendere le vere ragioni che da un bel po’ inducono faziosi o fanatici della Lega Nord a bofonchiare in ogni occasione, e sino alla noia, unicamente per denigrare, insieme col tricolore, l’Unità d’Italia al suo 150° anniversario. Non solo! Persino l’Inno nazionale è oggi oggetto di puntigliosa critica pretestuosa, animata dalla pretesa di volerlo sostituire col coro “Va’, pensiero” del Nabucco verdiano (datato 1842).
È pur vero che ai tempi di Giuseppe Verdi l’antico dramma degli Ebrei esiliati in Babilonia fu interpretato come chiara allusione alla triste condizione del Lombardo-Veneto sotto dominazione asburgica. Se poté sembrare allora una valida giustificazione, di certo dettata da sentimentalismo patriottico del tempo, ciò non toglie che non contiene alcun riscontro logico con l’Italia, il suo popolo, la sua storia di ieri e di oggi. Il coro in questione, intonato dagli Ebrei deportati in terra straniera, è solo il canto di un popolo storicamente estraneo alla nostra cultura e alla nostra civiltà, un popolo sconfitto 2600 anni fa dal re babilonese Nabuccodonosor e trattenuto in cattività lontano dalla terra promessa.
Non si sa di cosa possano lamentarsi le popolazioni dell’Italia settentrionale dopo tanti anni di unificazione nazionale, ideologicamente vissuta peraltro in una pacifica identità etnica, politica e sociale, non già sotto tirannide o in esilio. Dall’Unità, tacitamente sponsorizzata dal Piemonte (grazie alla strategia diplomatica di Cavour), condivisa dalla Lombardia (per mero opportunismo economico) e favorita dal Veneto (per calcoli politici relativi alle terre irredente sul confine slavo), il Nord non è mai stato succube di nessuno né tanto meno del Sud.
Per la verità storica è stato proprio il Sud a subire la storia, la politica e l’economia, accettando persino la bandiera tricolore nata a Reggio Emilia quale emblema della Repubblica Cisalpina (1797), così come l’inno nazionale concepito nel 1847 da due genovesi: l’autore del testo, Goffredo Mameli, eroe mazziniano caduto combattendo a 22 anni per le sue idee risorgimentali a difesa della giovane Repubblica romana, e il compositore dello spartito musicale, Michele Novaro.
C’è chi critica le parole troppo retoriche e ampollose usate da Mameli. Ma

La cripta di Sant’Antonio Abate a Nardò

Nello scrigno di Sant’Antonio Abate a Nardò

di Massimo Negro

Era da tempo che meditavo di andarci, ma non c’era mai stata occasione e non ne conoscevo l’ubicazione. Mi era capitato di leggere qualcosa a riguardo, gironzolando tra i miei libri di storia ed arte sulla nostra terra, ma soprattutto ero rimasto affascinato dalla foto di un affresco di un maestoso santo-cavaliere.

Devo dire grazie all’amico Nestore, che informandomi che da li a pochi giorni in quel luogo si sarebbe tenuta la tradizionale focara di S. Antonio Abate, se alla fine mi sono messo in macchina, ci sono arrivato e ho avuto modo di visitare uno dei più bei patrimoni storico-artistici purtroppo non valorizzati del nostro Salento.

La chiesa-cripta di S. Antonio Abate nelle campagne di Nardò, detta anche S. Antonio “di fuori”, per distinguerla dal convento di S. Antonio presente all’interno della città.

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Ci si arriva agevolmente, se si conosce l’ubicazione visto che non vi sono indicazioni, seguendo una strada di campagna in terra battuta, dopo aver lasciato la strada che da Nardò conduce verso la zona industriale e la statale per Lecce. Percorrendo il breve tratto di strada campestre sulla sinistra si trova l’antica masseria Castelli-Arene, con la sua bella e turrita torre colombaia.
Dopo poco in una campagna completamente spoglia di alberi si intravede su un pianoro una croce ben piantata in terra.
Nessun altro segno della presenza della cripta. Solo avvicinandosi al luogo, ad un certo punto compare un ampio scavo. E’ l’ingresso della cripta, nelle antiche fonti denominata ‘Santus Antonius de la Gructa’.

La chiesa è scavata nel blocco tufaceo e si accede senza alcun impedimento. Gli antichi monaci hanno infatti scavato dei gradoni che portano verso l’ingresso della cripta, quasi a formare una sorta di vestibolo a cielo aperto che scende per per oltre due metri, al di sotto del piano di campagna.
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Entrare nella cripta è come entrare in grande scrigno che nasconde un tesoro. Si rimane estasiati dalle bellezza del ciclo pittorico presente su tutte le pareti della cripta. Il tempo e l’incuria hanno posato la loro pesante mano ma la sensazione di incredulità dinanzi a quello che è possibile ammirare, anche ai nostri giorni, è reale e intensa.
Soprattutto è forte il contrasto tra la bellezza della cripta e la brulla campagna che la circonda.
Nei pressi sorge ora una casa, ma immaginiamo come potesse essere lo stato dei luoghi secoli addietro. Silenzio e solo silenzio attorno. E la mano di un monaco che creava il capolavoro.

Il pavimento è regolare ed è in terra battuta. La cripta ha un impianto rettangolare senza alcuna significativa irregolarità nello scavo. Anche il soffitto è tendenzialmente piano, anche se basso.
L’asse liturgico del sito è orientato in direzione Est-Ovest, con altare addossato alla parete orientale. Un gradino-sedile, in parte interrato, corre ai lati dell’altare, lungo la parete a sud e parte di quella opposta. L’ingresso è invece orientato a Nord.

All’interno, muovendosi da sinistra è possibile ammirare l’Annunciazione e ai suoi lati due Santi. Il primo, si ritiene San Francesco, il secondo Sant’Antonio Abate.

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La parete successiva è suddivisa in tre riquadri, due laterali e uno centrale posto sopra l’altare. Nel primo riquadro, la Vergine in trono con Bambino. L’affresco centrale è la Crocifissione, anche se ormai poco visibile. Il terzo riquadro è occupato dalla figura di un Cristo benedicente alla greca. Soffermatevi sulla bellezza del viso e dei lineamenti che l’autore ha dato alla figura.

La parete successiva, quella più lunga che si para dinanzi entrando nella cripta, è suddivisa in cinque riquadri. San Pietro, un trittico di Santi anonimi, un Arcangelo e, nuovamente un Santo anonimo. Purtroppo lo stato degli affreschi non consente di risalire all’identità dei Santi a cui gli affreschi sono dedicati. Nell’ultimo riquadro della parete è presente l’affresco di San Nicola.

Nella parete successiva il bellissimo affresco dedicato a due figure di santi a cavallo, San Giorgio e San Demetrio.DPP_0080

Nell’ultima parete, a ridosso dell’ingresso, si trova la figura di San Giovanni Battista.

Il ciclo pittorico si può far risalire al XIII inizio del XIV secolo. Alcuni elementi degli affreschi si ritiene siano stati aggiunti successivamente, quali ad esempio i motivi floreali. Considerando che le iscrizioni visibili sugli affreschi sono in latino, è lecito pensare che tale luogo fosse legata alla liturgia latina.

E’ molto probabilmente l’unica cripta del medio-basso Salento in cui sono completamente assenti iscrizioni in lingua greca. Ai benedettini, a cui fu donato nel 1080 l’antico monastero greco di santa Maria di Neretum, si deve molto probabilmente la costruzione della cripta come segno, ancora ai tempi embrionale, di questo progressivo passaggio dalla liturgia greca alla liturgia latina. Infatti, nella zona sono diversi i siti che si possono far risalire alla tradizione greca – basiliana. Tra questi san Giovanni di Colometo, S. Elia e la stessa prima citata Sancta Maria de Neretum e diversi altri siti di preghiera.

L’abbandono, l’incuria e il vandalismo hanno già causato nel corso dei secoli molti danni. Il rischio di perdere questo splendido gioiello artistico, testimonianza del nostro passato e della nostra stroria, rappresenta purtroppo una concreta realtà e un futuro, ahimè, imminente se le amministrazioni competenti e la proprietà del sito non provvederanno in tempi  brevi alla sua salvaguardia e valorizzazione.

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Per una visita virtuale al sito e ai suoi affreschi, nel video sono state montate le foto effettuate durante le mie visite alla cripta.

http://www.youtube.com/watch?v=DqJq5MDd1KY 

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Quiddhu te la crapa

di Alfredo Romano

 

Questo è un racconto di mia madre che registrai a sua insaputa. Quindi è quasi la trascrizione del suo raccontare. Nel testo troverete forme di espressione colloquiale con chi ascolta (io figlio in questo caso) come: fìju mìiiu!, no?, sai?, cce fice ‘llora?, nu’ ssai comu fannu li signuri?, addhai mo’ t’eri ttruàre!, le mmosse te lu tuttore no?, cc’hae fattu?, ecc.

 

QUIDDHU TE LA CRAPA

Nc’era una ca se chiamava Maria e ia pparturìre. Allora ne tisse lu maritu:
«Nu’ è bonu cu nne ccattàmu na crapa ca face latte pe’ quandu našce lu vagnone?»
«Mmm… e scia’ ccattàmune la crapa!» tisse la mujère.
E ccusì ccattàra la crapa. La crapa criscìu e rriàu lu latte: beddha, cu lli crapetti soi, no?
Nc’era nu mònicu picozzu ca passava sempre te casa te la Maria pe’ la limòsina, quandu ca vitte ddha sangu te crapa.
«Ah!» tisse tra de iddhu, «ddha capra è bbona propriu pe’ llu patre cuardianu.»
«Nu’ mme faci la limòsina?» ne tisse ‘ntàntu a lla Maria.
«Sine nà!» tisse la Maria. E nne tese do’ bbeddhe frise, frische ‘nfurnate, e ‘nnu pocu te pummitori.
Allora, quandu ca se fice notte, lu picozzu scìu e rrubbàu la crapa, sai?
Lu maritu, la matina, se nd’ia sciùtu prestu fore cu ffatìca, e nnu’ ssia ccortu ca nu’ nc’era cchiùi la crapa: ca va’ ssacci!
Bah… quandu è tturnatu!:
«Ah!» tisse la Maria, «maritu miu, n’hanu pijàtu la crapa!»
«Ci è ppassatu ieri te cquai?»
«Nna!, lu picozzu sulamente è ppassatu, e nn’àggiu fattu la limòsina.»
«Eh,» tisse lu maritu, «viddhu se l’hae pijàta.»
«Nòoone,» tisse iddha, «nu’ è pput’èssere.
«Sìiine, lu picozzu se l’ha ppijàta, tanne retta a mmie! Vo’ tte fazzu biti ca se l’hae pijàta» tisse «pe’ llu patre cuardianu? Ca quiddhu ete unu ca vole stae spurdacchiàtu? Mo’ te fazzu biti.»
Allora, a llu cramatìna, se mise ‘n viàggiu pe’ llu cumentu. Rriàu, pijàu te lu sciardinu te la manu te retu, no?, se nfacciàu te intru e bbitte la pelle te la crapa soa mpisa ‘llu sole cu ssicca… ca la pelle poi se l’ìanu buta bindìre puru!
«Àaah! be l’iti scurciàta e be l’iti mangiata ah? Àggiu ffare cu be saccia bbeddha sapurita! Bah, mo’ be ggiustu iu!»
Quistu era cristianu ca nde sapìa cchiù iddhu te lu tiàvulu. Cce fice ‘llora? Se vestìu te signurina e, quandu ca scurìu, scìu e sse presentàu a llu cumentu. Tuzzàu e nne aprìu nu monicu, ca, quandu vitte ddha signurina, rimase cu ttanta te uccaperta: ca quandu mai s’ia vista na fèmmana cu ttuzza te notte a llu cumentu?
«Sta begnu te luntanu, s’hae fatta notte e mm’àggiu persa intra ‘ste ripe,» tisse la signurina. «Tàtime nu jettu cu ppozzu turmire.»
Addhai ca rriàu patre cuardianu, e, bitèndu la signurina, fiju miu!, sùbitu ne ‘ssira l’occhi te fore, sai?
«Suntu lu patre cuardianu, quale ièntu te porta?» tisse tuttu presciàtu lu patre cuardianu quandu rriàu ‘nnanzi ‘lla signurina.
«Patre cuardianu miu, hae tuttu lu giurnu ca sta ccamìnu, m’hae pijàta notte e mm’àggiu persa. Vau stracca te morte. Vulìa nu jettu cu mme stendu, a ‘st’ora nu’ ssàcciu propriu a ddhu àggiu sbattire la capu. Fanne cu ttrasu, pe’ ll’anima te li morti toi.»
Li mònici però, senza mancu spéttanu la risposta te lu patre cuardianu, se fìcera ‘nnanzi e dìssera:
«None, signurina, nu’ ppoti propriu turmire intra ‘llu cumentu: nu’ ss’hae mai vista na fèmmana cu ddorma cquai.»
Ma lu patre cuardianu, furbu iddhu!, te pressa ne tisse a lli mònici:
«Ma cce imu ttenìre paura mo’ te na signurina? Cu ttante càmbere ca tenìmu, lampu! Cce nn’hanu ddire: ca cacciàmu li cristiani te lu cumentu quandu tènanu bisognu? Sia, facìmula pe’ ll’amore te lu Signore.»
Ti motu ca la signurina ippe na càmbera cu ppozza turmire.
Ma lu patre cuardianu tenìa malòte ‘n capu. Chiamàu li mònici e nne tisse:
«Frati mi’, iu stanotte àggiu šcire ba ttrou la signurina, ca m’hae tittu ca nu’ stae bona e ca tene bisognu te mie. Ma me raccumandu, na cosa be ticu: ci sentìti critàre, o ca sentìti fèra o ca sentìti rimòri, nu’ be vegna ‘mmente cu be nfacciàti. ‘Nsomma nu’ biti pproccupàre propriu, facìti finta te gnenzi.»
E llu patre cuardianu scìu ba ttroa la signurina. Tuzzàu, trasìu e sse ccumutàu intra ‘lla càmbera. E ccunta te cquai e ccunta te ddhai, alla fine lu patre cuardianu, ca nu’ resistìa cchiùi, a llu cchiù bellu cce fice? Nà! se ‘zzàu la tonaca e nne mmušciàu ‘lla signurina tutti li quarnamienti. Acquai te voju… Ca la signurina scìu sse caccia la barrucca!… Addhai mo’ t’eri ttruàre…Tiritìnghi e tiritànghe, tiritìnghi e tiritànghe. E tte lu struncunisciàu bonu bonu te mazzate, sai? Mazzate e mmazzate, fiju miu… ddhu poveru patre cuardianu te lu fice a ttre ore te notte. E cca se mi mise ccritare puru… ca sia ca sta ccitìanu lu porcu!
Li mònici sentìanu tuttu, ma àddhu nu’ nn’ia tittu lu patre cuardianu: cu sse stèscianu ‘llu postu loru.
‘Nsomma, lu maritu te la Maria, dopu ca te ncofinàu bonu bonu lu patre cuardianu, lu zziccàu te na rìcchia e nne tisse:
«T’hae saputa sapurita la crapa, ah?»
«Ma ci sinti, frate miu, ci sinti?»
«Ci suntu? Suntu quiddhu te la crapa!»
«Ùuuh, quiddhu te la crapa! quiddhu te la crapa!»
A llu vutare te la matina però, lu patre cuardianu tardava sse fazza bitìre. Li mònici ‘llora se rratunàra e dìssera:
«Quarche càulu hae bbutu rricapitare lu patre cuardianu: sciàmu te pressa bitìmu.»
E di fatti lu truàra tuttu struncunisciàtu te mazzate. E nne tìssera:
«Ma se po’ ccapire ci ete ca t’hae rritottu te quista manera?»
«Quiddhu te la cràaapa!» tisse lu patre cuardianu cu nna stizza te voce.
Lu patre cuardianu mo’ nu’ stia mai bonu, stia sempre curcatu. E lli mònici scìanu sempre ‘n cerca te nu tuttore.
Allora iddhu, lu maritu te la Maria, cce ffice? Se vestìu beddhu beddhu comu nu signuru, se pijàu nu bastone, nu cappieddhu ‘n capu, na beddha borsa te tuttore, e sse mise ppasseggiare nnanti llu cumentu facendu la mmossa cu llu bastone… nu’ ssai comu fannu li signuri?
Nu’ ppassàu mutu ca s’acchiàra šcindìre li mònici ‘n fretta ‘n furia. Allora li fermàu e nne tisse:
«Vehi, a ddhu sta šciàti? Cce b’hae rricapitatu ca sciati tantu te pressa?»
«Eh,» fìcera li mònici, «lu patre cuardianu stae mutu fiaccu e sta scia’ cchiamamu lu tuttore.»
«Vehi,» tisse, «e peccé… iu cce ssuntu? Nu’ ssuntu tuttore iu?»
«Uh! tuttore nòšciu,» te pressa li mònici, «ca ci te mandàu! Sciàmu sciàmu!»
Fuci iddhu, nchianàu te susu bàscia bìscia lu patre cuardianu mo’. E cquai se mise cu llu vìsita cu tutte le mmosse te lu tuttore, no? Poi aprìu la borsa e ppijàu le liźette.
«Eh,» tisse, «quistu hae bisognu te tante meticine. Ma quanti mònici siti?»
«Eh, tuttore, simu cinque a ‘stu cumentu.»
«Ma cu ttuttu lu patre cuardianu?»
«Sì, cu ttuttu lu patre cuardianu.»
Allora pijàu quattru liźette e sse mise ssegna meticine.
«Le meticine ca sta be òrdinu,» ne tisse ‘lli mònici, «nu’ stanu intra llu paese: iti šcire luntanu, cchiù lluntanu te zzimpògna.»
Iddhu, prima sse lluntànanu li mònici, cu llu patre cuardianu facìa ca lu vejàva, ca lu ncarizzava. Quandu se reculàu bonu bonu ca s’ìanu lluntanati, fìju mìiiu…, se mbicinàu ‘nnanzi ‘llu patre cuardianu e nne tisse cittu cittu:
«Ma sai ci suntu iu?»
«Ci sinti, cristianu miu?»
«Suntu quiddhu te la crapa!»
«Ùuuh, frate miu, nu’ ssacciu gnenti te la crapa toa,» tisse lu patre cuardianu cu ll’anima cchiù ffore ca intra.
«Moi m’ha’ ddire li sordi àddhu stanu, se no te cciu te mazzate!»
«Ùuuh, frate miu, a ddhai stanu li sordi, vane e ppijatèli.»
Ntorna:
«Moi m’hai ddire la tale cosa àddhu stae: ca àggiu šcire mme la piju!» Nsomma lu rrubàu bonu bonu, lu ddefriscàu puru bonu bonu te mazzate e sse nde scappàu.
Mo’, quandu s’acchiàra ccuìjre li mònici, lu patre cuardianu lu truara cchiù mmortu ca biu, no?
«Uh!, patre cuardianu, comu stai, patre cuardianu? Ci t’hae ccunzàtu a ttale motu?»
«Ah!, fìji mi’» tisse.
«Ma ci è statu?»
«Quiddhu te la cràaapa!» suspiràu cu ll’ànima te fore.
«Acquai tocca sse pruvvèta,» tìssera li mònici, «acquai lu patre cuardianu nu’ llu putìmu lassare cchiùi te sulu. Puru quandu sciàmu ‘lla cerca ne l’ìmu ppurtare cu nnui».
E di fatti, quandu a llu crai li mònici se ‘źara cu banu ‘lla cerca, cce ffìcera? Se caricàra an coddhu lu patre cuardianu tuttu struncunisciàtu e ppartìra.
Ma lu maritu te la Maria ‘ncora nu’ ss’ia filu binchiatu te tuttu quiddhu ca n’ia fattu a ‘llu patre cuardianu. Iddhu mo’ era unu ca sapìa cu sse cangia e cu sse scangia, e spettava sempre lu bonu mumentu cu nde cumbìna n’addha te le soe. E cusì ffoe.
Di fatti vinne cu ssàccia ca li mònici passàvanu te na carrara fore fore, cu patre cuardianu ‘n coddhu, sai? Cce ffice? Se mise ‘n addhu custume, se pittàu tuttu te facce, se fice addhe subracìje e sse vestìu te vecchiu. Ca nu’ sse canusca mancu ca era iddhu ‘nsomma, no? Poi se pijàu na zzappa e sse mise zzappare nnanzi ‘llu campu, a ‘ddhune ìanu ppassare li mònici.
Quandu li vitte cu ppatre cuardianu an coddhu, ne tisse:
«A ddhu ete ca sta šciàti cu ddhu cristianu an coddhu tuttu struncunisciàtu? nu’ bitìti ca sta be ccitìti te fatìa? Lassatimèlu cquai ci vulìti, ca a iddhu nci pensu iu: ca quandu be ccujti te la cerca, be lu pijàti ntorna.»
Furbu iddhu mo’, vestutu te vecchiu cu lla barba, facìa ca zzappa no? Ca quiddhi cce llu putìanu canušcìre a quiddhu motu ca scìa?
«Ca quale santu t’hae mandatu, cristianu nòšciu,» ne tìssera li mònici, «ca te lu lassamu cquai e venìmu nne llu pijàmu stasera, quandu n’acchiàmu tturnare.
Allora, fiju miu!, iddhu, quandu s’hanu lluntanati, cc’hae fattu? Hae fattu na

Le caratteristiche salienti della pecora moscia del Salento

pecore “sarde” al pascolo tra gli ulivi

 

di Franco Cazzella

La sua storia pone la “Leccese” come pecora a triplice fattori di utilizzo: per il suo latte, per la sua carne e per la sua lana. Da poco ho avuto la conferma che invece il controllo per essere riconosciuta ed iscritta, si misura solo con il quantitativo di latte prodotto.
Secondo me tutto ciò è troppo riduttivo, e vediamo il perchè: nella mia indagine sugli allevamenti ovini in Provincia di Lecce e di Brindisi al di fuori degli allevamenti dell’Associazione Allevatori esiste una popolazione che ha la possibilità di essere recuperata per essere iscritta.

Intanto molti addetti parlano della Moscia Leccese suddivisa in tre taglie, la piccola, la media e la gigante. E’ un grosso errore perchè l’ultimo standard di razza approvato dal Ministero il 22-04-1987 su richiesta dell’Associazione Nazionale della Pastorizia dice: adulti maschi altezza media al garrese 73 cm con coefficiente di variabilità 5,3 %; per le femmine 66 cm con coefficiente di variabilità dello 3,6 %. Pertanto non si deve suddividere per taglie.
Il paragrafo 6) Indirizzo di miglioramento recita:
L’indirizzo produttivo è teso ad esaltare, in soggetti di discreta mole, costituzionalmente robusti, corretti nella morfologia, precoci nello sviluppo e buoni utilizzatori dei pascoli murgiosi, l’attitudine alla produzione del latte e, subordinatamente, della carne.
Il miglioramento, pertanto, è impostato sulla selezione mediante l’accertamento delle capacità funzionali delle pecore nei confronti

I mandorli del Salento. Molti fiori, poco frutto. Ecco perchè


di Antonio Bruno

Inutile nasconderselo, a parte i fichi, le mandorle e le mele cotogne, gli alberi da frutto nel Salento leccese erano presenti soprattutto nei giardini delle case di campagna o in quegli spazi che erano dietro a tutte le case definiti “ortali”.
In questi spazi di terreno coltivato in prossimità della casa si potevano trovare alcune piante di  pomodori, i peperoni, melanzane, i fiori che poi venivano recisi per essere messi nei vasi della casa e le piante aromatiche che avrebbero riempito di fragranze le pietanze.
Altri spazi che erano utilizzati per queste coltivazioni erano le “corti”. Non sei del Salento leccese e quindi stai pensando a delle residenze dei Monarchi vero? Ma così non è la casa a corte del Salento leccese, nella sua forma più semplice ed antica, può definirsi come lo spazio unifamiliare, di forma regolare, caratterizzato sul lato più corto da un portale d’ingresso, da un cortile interno, da una costruzione ad ambiente unico e da un retrostante giardinetto, “ortale”, per i bisogni e le delizie della famiglia.
In questo “ortale” c’erano gli alberi da frutta, quelli di limone, arancio e mandarino, e poi i bellissimi pergolati di uva da tavola.

La frutta del Salento leccese alimentò mercati di esportazione solo nel caso dei fichi e mele cotogne. E il mandorlo?
I mandorleti del Salento leccese erano collocati soprattutto nella zona di Otranto. Negli scritti di Leggieri, De Giorgi e Costa si precisa che le caratteristiche del clima del Salento leccese le due varietà, sia quella a fiore bianco che quella a fiore rosso, anticipano la fioritura e di conseguenza dovrebbero dare una produzione precoce. La precocità è più spiccata nei mandorli a fiore bianco, e se tu che mi leggi quando nel mese di gennaio

Francesco Marzano da Parabita (1858-1924), un illustre economista salentino

di Paolo Vincenti

Nella sua collana “Estratti”, Il Laboratorio -Archivio Storico Parabitano  ripubblica l’opera dell’illustre concittadino parabitano Francesco Marzano: Guida allo studio di Economia Politica, edita dallo Stabilimento tipografico Pomarici di Potenza, nel 1887.

Francesco Marzano, nato a Parabita nel 1858, fu uno dei più insigni rappresentanti della scuola economica salentina. Giurista ed economista, pubblicò il primo trattato italiano di scienza delle finanze, anticipando di circa 37 anni l’opera del grande Antonio De Viti De Marco, economista di chiara fama nazionale e deputato radicale al Parlamento italiano agli inizi del Novecento. Molto meno conosciuto, invece, il Marzano, ha dei meriti innegabili nel campo degli studi economici italiani, di cui può ben considerarsi  un luminare.

La sua fondamentale opera “ Compendio di Scienza delle Finanze” venne pubblicata nel 1887 dall’Unione Tipografica Torinese e poi ristampata, in seguito, dalla Utet. L’Ottocento, a Parabita, come informa Aldo D’Antico, in  Parabita – Memorie  e sue antichità di Giuseppe Serino (Il Laboratorio 1998), è un secolo in cui si respira un grande fermento in tutti i settori. Nascono molti frantoi e molini, che utilizzano anche strumenti industriali, e si strutturano in una società cooperativa chiamata “I molini di Parabita”; viene fondata una Società di Mutuo Soccorso, una Farmacia del Popolo e  cresce moltissimo il livello dell’occupazione  e dell’istruzione.

Nel 1888, inoltre, viene fondata la Banca Popolare di Parabita, ad opera di otto cittadini parabitani: Giovanni Vinci, Giuseppe Ferrari, Luigi Muja, Francesco Marzano, Domenico Ferrari, Luigi Giannelli, Donato Pierri e Salvatore Laterza.  Marzano, quindi, fu fra i fondatori della Banca Popolare Cooperativa di Parabita, di cui fu il primo Direttore Generale.  Fu anche Segretario della Camera di Commercio di Lecce e fondò e diresse riviste, come “Il Monitore”, “Il Rolandino”, “La Gazzetta del Notariato” e “Le leggi finanziarie”.

Fra i suoi trattati, di materia fiscale ed economica, ricordiamo: “Questioni di diritto positivo finanziario”, “La Riforma delle Tasse sugli Affari – Legge sulle tasse di registro”, “Teoria generale delle imposte sulla spesa, comunemente chiamate imposte indirette”, “Il commercio del vino nei principali stati del mondo”, e “Guida allo studio dell’Economia Politica”, che viene ora ripubblicata.

Marzano morì a Parabita nel 1924, passando il testimone ad un altro grande giurista, esperto di diritto commerciale: Alfredo De Gregorio (1881-1979), studioso di fama nazionale, anch’egli figlio della eccellente Parabita.

Per una storia della pastorizia pugliese. La pecora moscia leccese

 

Ariete di proprietà dell’ allevamento F.Cazzella (ph Giovanni Tortorella)

di Franco Cazzella

 

Basta dare uno sguardo al passato per rendersi conto dell’attenzione che lungo i secoli decine di studiosi hanno dedicato alle pecore e all’allevamento ovino. Questa non è indubbiamente la sede per ulteriori approfondimenti, ma ci corre l’obbligo di citare almeno, fra i tanti autori, Lucio Giunio Moderato Columella, poiché le indicazioni di questo agronomo vissuto ai tempi di Seneca (4 – 65 d. C.) sono per taluni aspetti di un’attualità sorprendente.
Di ovini Columella parla a lungo all’interno del suo monumentale “De re rustica”, un’opera articolata in 12 volumi, che affronta l’attività agricola sotto ogni aspetto. Alla cura del bestiame l’autore spagnolo dedica per la verità numerosi tomi (VI, VII, VIII e IX libro), ma è principalmente nel VII che il pastore diventa protagonista indiscusso della narrazione.
Le pecore – scrive Columella – vengono subito dopo il bestiame grosso, ma se si guardasse all’utile che esse generano, dovrebbero essere al primo posto. Ci offrono protezione ai rigori del freddo e sono la fonte principale di indumenti. E che dire poi dell’abbondante latte e del formaggio, alimenti che saziano non solo la gente di campagna, ma anche le delicate mense dei ricchi.
I consigli dell’Autore continuano a lungo, suggerendo, ai futuri allevatori, di acquistare solo i soggetti più adatti all’ambiente in cui si trova l’azienda. In pianura vanno bene le pecore alte, mentre in una regione non troppo ricca e collinosa (le zone marginali di oggi) occorrono pecore quadrate. Se invece il

La mazza ti San Giseppu ovvero la malvarosa, il malvone, il rosone

NOMI DI ESSENZE VEGETALI TRA SACRO E PROFANO (3)

La mazza ti San Gisèppu o marvòne o marvaròsa

 

di Armando Polito

Dopo il prete della prima puntata e il monaco della seconda il gioco comincia a farsi pesante con un’essenza che coinvolge un santo particolarmente popolare1.

 

Ecco il resto della scheda:

nomi italiani: malvarosa, malvone, rosone

nome scientifico: Althaea cannabina  L.

nome della famiglia: Malvaceae

Etimologie: mazza ti San Gisèppu è legato al racconto dei vangeli apocrifi, secondo il quale i pretendenti della Vergine dovettero deporre sull’altare una verga e quella portata da Giuseppe, ricavata da un oleandro, germogliò appena deposta, facendo ricadere la scelta su di lui2; marvòne per la voce dialettale e malvone per quella italiana sono accrescitivi, rispettivamente, di marva e di malva; da marva e malva in composizione con rosa sono, rispettivamente, marvaròsa e malvaròsa; rosòne è accrescitivo di rosa; althaea è trascrizione latina del greco althàia, a sua volta dal verbo althàino=curare, con riferimento alle proprietà medicinali della pianta; cannabina significa di canapa, per la somiglianza delle sue foglie a quelle della canapa; malvaceae è forma aggettivale da malva=malva.

Così ne parla Plinio (I° secolo d. C.) nella trattazione dedicata alle varietà di malva: “Molto lodata è l’una e l’altra malva, la coltivata e la selvatica. Due sono le varietà e si riconoscono dalla grandezza delle foglie. La più grande i

Ahi Alessano, terra di Tonino Bello!

di Gianni Ferraris

Ahi Alessano, terra di Tonino Bello. Con tanto Salento, proprio lì dovevano sbarcare? Ahi Salento, con tanta Italia, proprio nella terra dell’accoglienza dovevano arrivare? Loro non vogliono essere “colonizzati” da nessuno. E mal sopportano i finanziamenti a pioggia. Loro sono dei “duri”. In senso lato e, più terra terra, virilmente parlando. E non le mandano a dire a nessuno. “I ripetitori sono i nuovi carri armati del colonialismo romano, per quelli veri basterebbero le armi anticarro e con 100 mila lire gliene buchi uno, ma contro quelli non basta non pagare il canone, vanno buttati giù, perché non devono più trasmettere a spese nostre”. Arringava al suo popolo il 9 agosto 1996,  il ministro Bossi Umberto. E se non sono parole chiare queste, perbacco. Ora che è ministro ha messo tutte le cose a posto. Va bene, la RAI continua a trasmettere a “spese nostre”, e lui, per par condicio, ha imposto una leggina per finanziare con 500.000 euro annui “Radio padania”. E, sempre per par condicio, ha deciso di colonizzare Alessano con le sue antenne. Perbacco, ora avremo Radio padania anche in Salento.  E che volete che importi se da quelle onde verdastre si sparino insulti a raffica contro immigrati e “terroni”? Che volete che importi se da lì parla anche un eurodeputato che ha detto che il terremoto in Abruzzo è un peso per il nord, salvo poi correggersi, dopo le critiche, e dire che non è vero, non è l’Abruzzo il problema, anzi, è tutto il meridione? Ma stiano sereni i camiciotti verdi (come la bile, come le cimici) nessuna persona di buon senso dirà che qui ci sono stipate armi anticarro o simili. Il Salento, quando sente le nefandezze trasmesse, semplicemente cambia programma. La RAI, magari “colonizza”, però al mattino il “Ruggito del Coniglio” è decisamente più istruttivo. Quanto meno per la lingua italiana di cui si fa scempio in alcune lande desolate e tristanzuole.  A proposito di finanziamenti pubblici, anche la scuola gestita dalla moglie di cotanto statista riceve 800.000 euro per il lavoro benemerito che fa. E lavora sodo eh? È riuscita financo a far diplomare il suo pupillo, dopo alcuni tentativi di esame di stato nelle scuole pubbliche. E si è diplomato talmente brillantemente che ora guadagna, euro più, euro meno, 12.000 al mese. Altro che centralismo romano, questo è il  federalismo tanto agognato. Ma questo è altro discorso. Però è interessante notare come tutti gli italiani (anche i terroni) contribuiscano a foraggiare cotanta radio. Neonati compresi ovviamente. Perché i genitori acquistano abiti, cibo  e quanto serve per sopravvivere nonostante la crisi. E su ogni acquisto si paga l’IVA. È una partita di giro insomma. Comunque vada noi ammiriamo la coerenza, soprattutto quella. E loro la sanno lunga.

Il Salento nella produzione letteraria di Luigi Corvaglia (Melissano 1892 – Roma 1966)

La cultura del territorio salentino nella prima metà del Novecento

Il Salento nella produzione letteraria di Luigi Corvaglia (Melissano 1892 – Roma 1966)

 

di Enrico Gaballo

Spigolando nella copiosa produzione letteraria di Luigi Corvaglia[1], il Capo di Santa Maria di Leuca, è descritto e raccontato in modo originale, straordinario e meraviglioso in “Finibusterre”, romanzo “tutto salentino” pubblicato nel 1936 a Milano per la “Società anonima Dante Alighieri”[2] e ristampato da Congedo Galatina 1981, con prefazione di Donato Valli.

Il Capo di Leuca “ai confini del mondo” una delle tante “Mirabilia Italiae”, è descritto con scultorei colpi di penna così: “entro la malìa di un mare di turchese è disteso il Capo scheletro gigantesco. Lo spazza il vento e lo dilava la pioggia; la roccia calva si trascina carponi al mare. Le spiagge flagellate e rose (quasi rosicchiate dal mare) si estendono entro una luce violenta che le illumina senza ombre”[3].

La descrizione del Capo di Leuca è un luminoso affresco, coreografia naturale, vasto palcoscenico entro cui “si muovono gli uomini assorti, come seguendo il ritmo lento di questa monotonia”[4].

Il romanzo “Finibusterre” è rappresentazione di personaggi “che parlano sottovoce o urlano, ma il loro vero linguaggio è ruminazione silenziosa”[5].

Il protagonista della “istoria” è Pietro, “un giovanottone” salentino

Wassailing!

di Pino de Luca
Probabilmente quanto leggerete vi sembrerà poco in linea con quanto di norma mi provo a raccontare. Sapori, colori e aromi delle nostre terre calde e accoglienti come manti soffici e carezzevoli. Perché vorrei parlarvi del Nord stavolta, del Nord proprio quello dove crescono le mele, dove si fa la birra scura e dove son nate le flotte che hanno commerciato con il globo.
 Anche da quelle parti come ovunque il cambio di stagione è momento di festa e di buoni auspici. Specialmente quando arriva l’inverno, molto più duro che alle nostre latitudini, bisognava augurarsi fortuna e salute. Il Cristianesimo ha assorbito molti usi e costumi precedente e anche il Wassailing nel quale il Wassail (dall’inglese arcaico Waes Hael: la buona salute sia con te) la fa da padrone.
Mi piace molto la canzone del Wassail, una canzone che comincia così:
Wassail! wassail! all over the town, (Salute! Salute! A tutta la città)
Our toast it is white and our ale it is brown; (il nostro pane è bianco e la nostra birra è scura)
Our bowl it is made of the white maple tree; (la nostra coppa è fatta di acero bianco)
With the wassailing bowl , we’ll drink to thee. (con la coppa della salute, beviamo alla tua (salute n.d.r.).
Un modo diverso di stare insieme e scambiarsi gli auguri per il quale mi sento di raccontarvi una delle ricette per il Wassail che mi piacciono di più.
Un litro e mezzo di  birra scura, 3-4 bastoncini di cannella, 4 chiodi di garofano, la buccia di mezzo limone, 4 mele Granny Smith, 1 tazza e 1/2 di zucchero di canna, 1 tazza di porto, 1/2 di cucchiaino di cannella in polvere, 1/4 di cucchiaino di miscela “centospezie” in polvere, 1/4 di cucchiaino di cardamomo in polvere, 1/2 di cucchiaino di zenzero in polvere.
Mentre il forno si scalda fino a 170-180 gradi, mettere 1 litro di birra in una pentola larga possibilmente di coccio. Aggiungere i bastoncini di cannella, la buccia di limone e i chiodi di garofano e portare ad ebollizione pian piano, a fuoco molto basso. Ogni mela va incisa lungo l’equatore per tutta la circonferenza, quindi messa in una teglia da forno. Si spolvera quindi tutto con una tazza di zucchero di canna, si aggiunge mezzo litro di birra e un bicchierino di porto. Coprire la teglia con carta stagnola alla quale si praticano due o tre piccoli fori, si mette in forno e si lascia cuocere per 30 minuti. Nel coccio con la birra che bolle aggiungere lo zucchero rimasto, e tutte le spezie e mescolare bene.
Tolte le mele dal forno si pongono nella pentola, si versa tutta la salsa sopra le mele, si copre e si lascia cuocere per altri 30-40 minuti. Va servito caldissimo in coppe di acero bianco e accompagnato da pane bianco leggermente tostato, augurandosi fortuna e salute.
Cosa c’entra tutto questo con la nostra terra?
Intanto per la Birra, ottime per il Wassail la nera del Gruit di Brindisi o la Porteresa del B94 di Lecce.
E poi per l’augurio di più salute visto che siamo circondati da impianti industriali che proprio salutari non sono. La fortuna, se siamo bravi, ce la procuriamo da soli.
Per chi volesse il testo intero della canzone e, financo, una sua  intepretazione, basta che scriva alla redazione …
Pubblicato su Nuovo Quotidiano di Puglia del 24-12-2010
La Dolce Vita – P. 31

Plantago coronopus nota come barba di cappuccino

NOMI DI ESSENZE VEGETALI TRA SACRO E PROFANO (2)

                                                             La barba ti mònacu  

di Armando Polito   Dopo il prete della puntata precedente questa volta è toccato al monaco, che, debbo riconoscerlo, non mi ha creato particolari problemi. Ecco il resto della scheda: nomi italiani: barbatella, barba di cappuccino, erba stella, mescolanza; nome scientifico: Plantago coronopus L. famiglia: Plantaginaceae   Etimologie: per barba ti mònacu, barbatella e barba di cappuccino basta e avanza la seconda foto, per erba stella la prima, per mescolanza basta ricordare che viene pure coltivata per mescolarla con altre nelle insalate; plantago in latino significa piantaggine, da planta=pianta;  coronopus è la trascrizione del greco koronòpus=piantaggine, composto da koròne=cornacchia e pus=piede, con riferimento alla forma delle foglie; plantaginàceae è forma aggettivale dal citato plantago. E veniamo alle testimonianze antiche: lapidaria è quella di Teofrasto (IV°-III° secolo a. C.): “Hanno le foglie prostrate a terra la piantaggine…1”. Una stupefacente poliedricità terapeutica, invece, le è attribuita da Plinio (I° secolo d. C.): “Anche il medico Temisone ha celebrato la comune erba piantaggine in un suo libro come se ne fosse stato lo scopritore. Due sono le varietà: la minore, dalle foglie più sottili e più scure, simile alla lingua delle pecore, col gambo curvo inclinato verso terra, che nasce nei prati; l’altra la maggiore, chiusa da foglie a mo’ di fianchi e poiché esse sono sette certi la chiamarono eptapleuro. Il suo stelo è lungo un cubito e curvo. Nasce nei luoghi umidi, è molto più efficace. Straordinario è il suo potere di rendere secco e denso il corpo tanto che può essere usata in sostituzione del cauterio. Non c’è niente che con pari efficacia blocchi i flussi che i Greci chiamano reumatismi2”; “Contrasta il veleno degli scorpioni il succo di bettonica e di piantaggine3”; “La piantaggine bevuta ed applicata ad empiastro giova contro tutti i morsi delle bestie4”; ”Contro le congiuntiviti va istillato succo di piantaggine5”; “Curano allo stesso modo il dolore di orecchi succo di giusquiamo in modica quantità, allo stesso modo quello di achillea e di centaurea minore e di piantaggine…la verbena [cura la parotite], lo stesso fa la piantaggine6”; “[Contro il mal di denti] vengono masticate anche le radici della piantaggine, o ci si lava i denti dopo averle cotte in aceto. E le foglie sono utili anche se le gengive sanguinanti sono infette. Il suo seme sana gli ascessi e i gonfiori delle gengive7”; “Il succo della piantaggine e le foglie e le radici masticate riparano le ulcere interne della bocca, anche se la bocca soffre di reumatismo8”; “Cura dunque [l’impetigine] la piantaggine pestata9”; “La piantaggine [giova] nella scrofolosi10”, “Anche il condurdo erba solstiziale, dal fiore rosso, si dice che sospesa al collo risolva la scrofolosi, come la verbena con la piantaggine11”; “Cura questo inconveniente [l’emottisi] pure il succo della piantaggine12”; “[Rinforza lo stomaco] la piantaggine o da sola presa come cibo o sorseggiata con lenticchia o spelta13”; “[Cura la difficoltà di respiro] la piantaggine in succo o come cibo14”; “Giova ai reni cibarsi di piantaggine15”; “Eliminano i fastidi [del vomito] e ne mitigano i disagi il dauco, la farina di bettonica in acqua e miele, la piantaggine cotta alla maniera dei cavoli16, “[Contro la dissenteria giova] il seme della piantaggine pestato nel vino o la pianta stessa cotta in aceto17”; “[Contro i dolori del ventre giova] la piantaggine assunta al mattino nella dose di due cucchiai e uno di papavero in quattro ciati di vino non vecchio. Viene somministrata anche ai soggetti alla sonnolenza con aggiunta di nitro o polenta, se viene data molto tempo dopo che si è mangiato. Nella colica si somministra un’emina di succo anche in presenza di febbre18”; “[Alle malattie della vescica giova] la piantaggine con le foglie o la radice bevute col vin cotto19”; “[Contro i calcoli giova] il seme di piantaggine nel vino20”; “In brevissimo tempo la piantaggine sana le malattie del sedere e le infiammazioni per attrito21; “[Guarisce i gonfiori la piantaggine col sale22”; “Giovano alla podagra] le foglie della piantagine pestate con aggiunta di poco sale23”; “Anche il succo della piantaggine sana la tisi se è bevuto e la stessa pianta se cotta nel cibo; con sale e olio subito dopo il sonno mattutino rinfresca. Essa viene data a giorni alterni a coloro che sono deperiti24”; “Guariscono l’epilessia la radice di panace, che abbiamo chiamato Eraclio, bevuta con caglio di vitello marino, nella proporzione di tre a uno, la piantaggine bevuta25”; “Allevia le febbri fredde [temperatura corporea più bassa del normale]….la piantaggine in acqua e miele bevuta nella dose di due dracme due ore prima che raggiunga il massimo livello o il succo della radice bagnata o pesta o la stessa radice pestata in acqua riscaldata col ferro. Certi hanno somministrato tre radici per volta in tre ciati di acqua e quattro per volta nelle febbri quartane26”; “Rompe i foruncoli…la piantaggine pestata27”; “Guarisce l’idropisia la panace, la piantaggine come cibo dopo aver prima mangiato pane secco senza bere. Curano le emissioni di catarro la piantaggine, la radice di ciclamino in miele28”; “Diversi sono i tipi di fuoco sacro [fuoco di Sant’Antonio], tra i quali quello che colpisce l’uomo alla vita che è chiamato zoster e se lo cinge lo ammazza. Lo medica la piantaggine con creta del Cimolo29”; “…eliminano il dolore e i gonfiori il seme del psillio, le foglie di piantaggine pestate, con aggiunta di poco sale30”; “[Contro le fistole dovute ad imperizia del chirurgo] è di aiuto …l’infusione di succo di piantaggine31; “Le ustioni guariscono con la piantaggine, con l’arzio in modo tale che la cicatrice non si vede. Le foglie cotte in acqua e pestate vengono applicate ad empiastro32”; “Ai nervi e alle articolazioni fa bene la piantaggine pestata con sale33”; “Blocca le emorragie…il seme di piantaggine34; “Bloccano [il sangue] che esce dalle mammelle la farina di bettonica in latte di capra e la piantaggine pestata35”; “In caso di frattura, strappo, caduta dall’alto…la piantaggine in qualsiasi modo36”; “La piantaggine [è utile] per le ferite di ogni genere, soprattutto delle donne, dei vecchi e dei bambini. Rammollita col fuoco è migliore e in cerotto purifica le labbra grosse delle ferite, blocca le ulcere corrosive; dopo averla pestata bisogna coprirla con le sue foglie37”; “[La piantaggine] viene applicata in una pezza di lana nel dolore della vulva, viene bevuta in caso di crampi38”; “La radice di alcima stimola i mestrui, le foglie di piantaggine li spingono fuori39”; “Lenisce la gotta il sangue della donnola applicato ad empiastro con la piantaggine40”. Tra gli antidoti la pone il greco Galeno (II°-III° secolo d. C.): “A quelli che bevvero il colchico giova il succo di poligono o di piantaggine o di origano o un pezzo di timo sciolto nel vino41”. La nostra erba entra nella composIzione di un’esca nei Geoponica (compilazione greca del X° secolo d. C.): “Altra composizione come esca eccellente  per catturare solo grosse corvine: otto pizzichi di lenticchie tostate, una dracma di cumino tostato, quattro dracme di uva acerba, di muggini crudi, quattro dracme di piantaggine, una dracma di antillio amaro, cioè crudi, quattro dracme di palma appassita, una dracma di testicolo di castoro. Dopo aver tritato questi ingredienti con aggiunta di succo di aneto otterrai un unguento pronto per l’uso42”. In pieno medioevo, addirittura, una dottoressa salernitana di nome Trotula o Trottula De Ruggiero43 , dopo averne prescritto in diversi capitoli della sua opera l’uso in unione ad altre erbe nelle metrorraggie,  nel XXXV° presenta la nostra erba  come ingrediente fondamentale di una delle due ricette per una incruenta ricostruzione della verginità ante litteram (l’imene, comunque, è fuori causa): “Come restringere la matrice in modo che anche una donna corrotta appaia vergine. Se non fosse stato lecito  trattare del restringimento dell’ampiezza della vulva per onesta causa non ne avremmo fatto menzione; ma siccome talora il concepimento ne [dall’ampiezza] è ostacolato è necessario rimediarvi così. Prendi un’oncia per ciascuno di sangue di serpente, di bolo armeno, di corteccia di melograno, di bianco d’uovo, di resina, di galle oppure due once o quanto vuoi di ciascuno e riduci tutto in polvere; poi lavora tutto contemporaneamente in acqua calda e così preparato applicalo attraverso la vagina nella matrice. Oppure prendi un’oncia per ciascuno di galle, di sommacco44, di piantaggine, di consolida maggiore, di allume, di carlina. Sia cotto il tutto in acqua piovana e con questo decotto si riscaldino le pudenda45”. E, dopo questa testimonianza difficilmente sospettabile di ascendenza medioevale e che, invece, conferma il detto “nulla di nuovo sotto il sole”, è tempo di…piantarla con la piantaggine.

Per le altre parti: 1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/01/10/gichero-pan-delle-bisce-calla-selvatica-per-i-salentini-recchia-ti-prete-o-ua-ti-scursuni/

3 https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/01/14/la-mazza-ti-san-giseppu-ovvero-la-malvarosa-il-malvone-il-rosone/

4 https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/01/18/la-pianta-che-divenne-bicchiere-della-madonna/

5 https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/01/21/ce-anche-lerba-delle-fate/

6 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/02/lagave-dal-mondo-sereno-delle-fate-a-quello-tumultuoso-del-diavolo/

7 https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/01/25/lerba-che-ricorda-le-unghia-del-diavolo/

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1 De historia plantarum, VII, 8, 3; ho tradotto con piantaggine l’originale greco koronòpus. 2 Naturalis historia, XXV, 39: Celebravit et Themiso medicus vulgarem herbam plantaginem tamquam inventor volumine de ea edito. Duo eius genera: minor angustioribus foliis et nigrioribus linguae pecorum similis, caule anguloso in terram inclinato, in pratis nascens; altera maior, foliis laterum modo inclusa, quae quia septena sunt, quidam eam heptapleuron vocavere. Huius et caulis cubitalis est. Et ipsa in umidis nascitur, multo efficacior. Mira vis in siccando densandoque corpore, cauterii vicem optinens. Nulla res aeque sistit fluctiones, quas Graeci rheumatismos vocant. 3 Op. cit., XXV, 75: Scorpionibus adversatur et Vettonicae sucus ac plantaginis. 4 Op. cit., XXV, 77: Plantago et ad omnes bestiarum morsus pota atque inlita prodest. 5 Op. cit., XXV, 91: Instillatur plantaginis sucus lippitudini. 6 Op. cit., XXV, 103: Medentur et aurium dolori, item sucus hyoscyami modicus, item Achilleae et centaurii minoris et plantaginis… parotidas verbenaca, item plantago sanat. 7 Op. cit., XXV, 105: Commanducantur et plantaginis radices, aut colluuntur in aceto decoctae succo. Et folia sunt utilia vel si sanguine gingivae putrescant. Semen eiusdem apostemata et collectiones gingivarum sanat. 8 Op. cit., XXV, 109: Oris ulcera intus sucus plantaginis emendat et folia radicesque commanducatae, vel si rheumatismo laboret os. 9 Op. cit., XXVI, 10: Sed in lichenis remediis atque tam foedo malo plura undique acervabimus, quamquam non paucis iam demonstratis. Medetur ergo plantago trita. 10 Op. cit. XXVI, 12: Strumis plantago. 11 Op. cit., XXVI, 14: Condurdum quoque herba solstitialis, flore rubro, suspensa in collo comprimere dicitur strumas, item verbenaca cum plantagine. 12 Op. cit.: XXVI, 15: Cui vitio et plantaginis succus medetur  13 Op. cit., XXVI, 18: Stomachum conroborat scordotis suco, centaurium, gentiana ex aqua pota, plantago aut per se in cibo sumpta aut cum lente alicave sorbitione. 14 Op. cit., XXVI, 19: Plantago suco vel cibo. 15 Op. cit., XXVI, 21: Renibus prodest plantaginis cibus. 16 Op. cit., XXVI, 25: Abstergunt fastidia cruditatesque digerunt daucum, Vettonicae farina ex aqua mulsa, plantago decocta caulium modo. 17 Op. cit., 17: XXVI, 28: Semen plantaginis in vino tritum vel ipsa ex aceto cocta. 18 Op. cit.,  XXVI, 47: Plantago mane sumpta II lingulis et tertia papaveris in vini cyathis IIII non veteris. Datur et in somnum euntibus addito nitro vel polenta, si multo post cibum detur. Colo infunditur hemina suci vel in febri. 19 Op. cit., XXVI, 49: Plantago foliis vel radice potis ex passo. 20 Op. cit., XXVI, 56: Plantaginis semen ex vino. 21 Op. cit., XXVI, 58: Sedis vitia et adtritus celerrime sanat plantago. 22 Op. cit., XXVI, 60: Panos sanat panaces ex melle, plantago cum sale. 23 Op. cit., XXVI, 64: Plantaginis folia trita addito sale modico. 24 Op. cit., XXVI, 68: Phthisin sanat et plantaginis sucus, si bibatur, et ipsa decocta in cibo; e sale et oleo a somno matutino refrigerat. Eadem datur iis, quos atrophos vocant, interpositis diebus. 25 Op. cit., XXVI,70: Comitiales sanantur panacis, quam Heraclion diximus, radice pota cum coagulo vituli marini ita, ut sint panacis III partes, plantagine pota. 26 Op. cit., XXVI, 71: Febres frigidas leviores facit… plantago ex aqua mulsa II horis ante accessionem pota binis drachmis vel sucus radicis madefactae vel tusae vel ipsa radix trita in aqua ferro calfacta. Quidam ternas radices in III cyathis aquae dedere. Iidem in quartanis quaterna fecerunt. 27 Op. cit., XXVI 72: Carbunculos rumpit…plantago tusa. 28 Op. cit., XXVI, 73: Hydropicos sanat panaces, plantago in cibo, cum prius panem siccum comederint sine potu…. Eruptiones pituitae emendant plantago, cyclamini radix e melle. 29 Op. cit., XXVI, 74: Ignis sacri plura sunt genera, inter quae medium hominem ambiens, qui zoster vocatur et enecat, si cinxit. Medetur plantago cum creta Cimolia. 30 Op. cit., XXVI, 75: …doloremque et tumores tollunt semen psyllii, folia plantaginis trita, sale modice addito. 31 Op. cit., XXVI, 78:  Auxilio est… plantaginis sucus infusus. 32 Op. cit., XXVI, 80: Ambusta sanantur plantagine, arctio ita ut cicatrix fallat. Folia eius in aqua decocta contrita inlinuntur. 33 Op. cit., XXVI, 81: Nervis et articulis convenit plantago trita cum sale. 34  Op. cit., XXVI, 82: Sanguinis profluvia sistit …plantaginis semen. 35 Op. cit., XXVI, 84: Vettonicae farina e lacte caprino pota sistit ex ubere fluentem plantagoque contusa. 36 Op. cit., XXVI, 85: Ruptis convulsisque, ex alto deiectis… plantago omnibus modis. 37 Op. cit., XXVI, 87:  Plantago omnium generum ulceribus, peculiariter feminarum, senum et infantium. Igni emollita melior et cum cerato crassa ulcerum labra purgat, nomas sistit; tritam suis foliis integere oportet. 38  Op. cit., XXVI, 90: Adponitur in lana in dolore volvae, in strangulatu bibitur. 39 Op. cit., XXVI, 158: Menses ciet et alcimae radix, folia plantaginis pellunt. 40 Op. cit., XXX, 23: Podagras lenit… sanguis mustelae cum plantagine. 41 De antidotis, II, 13. 42 XX, 9. 43 Il suo nome e l’opera (che gli studiosi ritengono una compilazione dell’originale) citata nella nota 45  compaiono in alcuni manoscritti del XIII secolo, ma gli studiosi ritengono che Trotula sia  vissuta ed abbia operato intorno al mille. 44 Arbusto il cui nome scientifico è Rhus coriaria L.; sommacco, come il sumach del testo originale, è dall’arabo summāq. 45 Curandarum aegritudinum muliebrium ante, in et post partum libellus, a cura di Henric Kormann, Buescmel, Lipsia, 1778, pag. 66: De modo coarctandi matricem, ut etiam corrupta appareat virgo. Nisi de restrictione amplitudinis vulvae propter honestam causam liceret tractare, nullam de ea mentionem faceremus; sed cum per hanc impediatur aliquando conceptio, necesse est tali impedimento sic subvenire. Recipe sanguinis dracionis, boli armenae, corticis mali granati, albuminis, masticis, gallarum ana unc. I vel unc. II vel quantum vis singulorum et in pulverem redige; et omnia simul in aqua calefacta conficiantur et de hac confectione pone in foramen transiens in matricem. Vel recipe gallarum, sumach, plantaginis, consolidae maioris, aluminis, chamaeleae ana unc. I. Decoquatur in aqua pluviali: et cum ista decoctione fomententur pudibunda. Vale la pena far notare come nel testo compare due volta ana (dal greco anà=per, con valore distributivo, che nelle ricette notoriamente indica che una data quantità si riferisce a ogni elemento di una lista di ingredienti); nel latino tardo è attestato come preposizione reggente l’accusativo in Vegezio (IV°-V° secolo d. C.), entra in italiano nel secolo XV.

Le macchine del tempo. Orologi e meridiane in Puglia

TEMPO E OROLOGI: MERIDIANE E MACCHINE DEL TEMPO A GRAVINA E CITTA’ DI PUGLIA E BASILICATA

 

di Giuseppe Massari

Fedele Raguso e Marisa D’Agostino, un tandem consolidato sul piano storico e culturale per la città di Gravina. Due storici e due ricercatori di storie patrie, e di tutto il vasto tessuto murgiano, da cui sono emersi, grazie ai loro precedenti studi, personaggi quali Canio Musacchio e Arcangelo Scacchi. Sindacalista e collaboratore di Di Vittorio il primo, mineralologo, il secondo. Un territorio nel quale ha approdato l’Arcangelo Michele, fino ad inabissarsi nei meandri scoscesi e rupestri, dove solo lo Spirito è capace di poggiarsi e fermarsi, per condividere la storia comune di popoli diventati protagonisti grazie alla penna di questi due instancabili studiosi. Dopo tanto peregrinare sono giunti alla loro decima fatica editoriale con la quale hanno voluto fermare il loro tempo per parlare, far parlare gli artefici del tempo: gli orologi, le meridiane. Un lavoro dedicato alla loro città di origine, alla città verso la quale continuano a svolgere il prezioso lavoro di conoscenza, di approfondimento. Gli orologi più importanti della città. Non solo come monumenti, non solo arredo e corredo di una città che ne annovera tre fra i più significativi, anche da un punto di vista storico ed architettonico, ma di oggetti, compagni di viaggio, di speranza, di attesa, di lavoro, di riposo, di inquietudine, di solitudine.

Con le loro storie, hanno segnato la vita dei gravinesi. Di ogni ceto sociale, perché il tempo è l’unico a non fare discriminazioni. Passa per tutti. Tutti sono segnati dalle fatiche del tempo. Dai ristori che ognuno riesce a ritagliarsi.

Queste tre testimonianze, situate in luoghi diversi della città, hanno avuto il privilegio di seguire le sorti di coloro che, forse affidavano le loro ansie, le loro preoccupazioni, il buon o il cattivo andamento degli affari.

l’orologio della villa

Uno era situato nei pressi della villa comunale, dove, di solito , gli operai, i

A proposito di alcune varietà di fico coltivate in provincia di Lecce

Investigazione sulla collezione Guglielmi “Fichi del leccese” (Ficus carica L.)

 
di Antonio Bruno


Il fico era molto importante nel Salento leccese tanto che il segretario perpetuo della Società economica di terra d’Otranto, signor Gaetano Stella, nel suo rapporto letto nella adunanza generale del 30 maggio dell’anno 1841 afferma “ ….L’industria dei fichi secchi nella Provincia di Lecce è molto diffusa, ed è oggetto di esteso commercio, cosicché somma è la cura che dell’albero di fico bisogna avere. Laonde di molta utilità è stata una memoria dello stesso signor segretario perpetuo tendente a dimostrare, non esser necessaria la caprificazione, come volgarmente credesi, per molte varietà di fichi, imperocchè coloro i quali vorranno seguire i suoi precetti, conformi a quelli dei migliori agronomi di tutta Europa, otterranno non solamente risparmio di spese e fatica, ma innestando anche a fichi gentili il gran numero di caprifichi che il pregiudizio conserva, si verrebbe di molto a crescere la raccolta di questo frutto.”

 

 

Che curiosità! A quale pratica si riferisce il segretario perpetuo della Società economica di terra d’Otranto, signor Gaetano Stella?
Mi viene in soccorso il Rendiconto della adunanze e de’ lavori della Reale Accademia delle Scienze di Napoli di quatto anni dopo ovvero del 1845. In queste adunanze Vincenzo Semmola a proposito della maturazione del fico cita Teofrasto e Plinio i quali scrissero: “i fichi piantati accosto le vie non aver bisogno di caprificazione” E a questo proposito cita “la pratica tenuta da que’ di Lecce che spargono a bel proposito sopra i fichi immaturi la polvere delle strade ove sia passata la processione del Corpus Domini”.
Insomma la mia curiosità ha avuto soddisfazione perché la mia ricerca ha trovato dei documenti che contenevano una risposta.
Ma sempre a proposito di fichi ho una curiosità che non ha trovato soddisfazione perché rimasta senza risposta; riguarda la citazione da parte del prof. Giacinto Donno, degli studi di Giuseppe Guglielmi.

Donno riferisce che il Guglielmi ha studiato il fico nel leccese e riporta i dati di produzione, che si presume facciano parte di una pubblicazione curata dallo stesso Guglielmi, e che riporto qui di seguito

Varietà      Produzioni annuali     5anni Kg     20 anni Kg     da 20 anni in poi Kg
Fico Nero  due per ogni albero       8                     50                         100
Fico Pazzo  una per ogni albero      9                     55                          75   80
Fico ottato una per ogni albero      8                     45                           80
Fico peloso  una per ogni albero    10                   40                          80

Ho cercato nella Biblioteca Provinciale la pubblicazione succitata senza successo. Per caso sei in possesso di questa pubblicazione? Ehi, dico proprio a te, mi basta sapere se l’hai letta e dove l’hai letta! Se la tua risposta è si, allora chiamami, perché sono curioso di leggerla! Ma soprattutto ho cercato di sapere chi sia Giuseppe Guglielmi, perché avesse intrapreso lo studio del Fico nel leccese ma non ho trovato davvero nulla e, nessuno dei colleghi che ho interpellato ne ha mai sentito parlare, anche se una parziale risposta viene da un brano del prof. Donno riportato in un’altra pubblicazione.

Il prof Donno a proposito di Giuseppe Guglielmi scrive: “Il Guglielmi, che si prefigge lo studio della coltivazione industriale (del fico n.d.r) del leccese, trascura di mettere in evidenza il biferismo delle varietà studiate”.
La parola biferismo deriva da bìfero che a sua volta deriva dal latino Biferum che è composto  dalla parola bis (due volte)  e dalla parola fèr-re (portare) . Dicesi di pianta che produce il frutto due volte l’anno come nel caso di alcune varietà di fico che oltre  alla produzione dei fichi ha anche quella dei fioroni.
Sempre continuando nella lettura delle note del prof. Donno in esse si trova scritto che Giuseppe Guglielmi ha studiato il Fico Fracazzano Bianco, il Fico Nero, il Fico Ottato, il Fico Albanega, il Fico Borsamele, il fico Coppa, il Fico dell’Abate e il Fico Fara. Ma lo stesso Donno non riporta gli studi del Guglielmi sul fico pazzo e sulla varietà fico peloso.
Ho fatto una ricerca e leggendo la pubblicazione Herbarium Porticense (Erbario della Facoltà di Portici Real Scuola Superiore di Agricoltura) redatta da Antonino De Natale, ho appreso che solo una parte della collezione Guglielmi, denominata Fichi del leccese e datata 1908, è a Portici, mi chiedo chi abbia la parte mancante, inoltre nella pubblicazione curata dalla facoltà di Agraria dell’università di Napoli si legge:
“Della collezione di Giuseppe Guglielmi non si possiedono indicazioni, né riguardo alla data di acquisizione da parte della Regia Scuola di Agricoltura di Portici, né sull’autore delle erborizzazioni.
La collezione Guglielmi dovrebbe risalire agli inizi del 1900, a quel periodo risalgono anche altri studi condotti dai botanici di estrazione agronomica della Regia Scuola di Agricoltura, come lo studio sulla storia, la filogenesi e la sistematica delle razze del Fagiolo comune di Orazio Comes, i cotoni di Angelo Aliotta, le razze di olivo coltivate nel meridione d’Italia di Mario Marinucci, i fieni delle praterie naturali del Mezzogiorno d’Italia di Alfredo Pugliese, lo studio sul frumento e quello sulle varietà di mandorlo italiane di Vincenzo Barrese.
La collezione dei Fichi del leccese è sicuramente parte integrante di uno studio teso a definire le caratteristiche anatomiche delle varie cultivar di fico presenti nel territorio di Lecce. Per ogni campione, oltre all’essiccato, è riportato il disegno dei contorni di una foglia tipo e della sezione longitudinale del frutto con le relative misure, come ad esempio la larghezza massima della foglia e dei lobi fogliari. Il nome della pianta coltivata non segue le regole di nomenclatura scientifica, ma è espresso in italiano, come ad esempio Fico napoletano. D’altra parte in passato soprattutto per le piante coltivate, che non rappresentano delle entità specifiche, molto spesso si adoperava il nome italiano.

Lo stesso Francesco Dehnhardt, capo-giardiniere del Real Orto Botanico di Napoli, direttore dei Reali Giardini di Capodimonte, della Villa Floridiana e del giardino botanico del Conte di Camaldoli al Vomero (Villa Ricciardi), nella stesura del catalogo delle piante che venivano coltivate nell’ Horti Camaldulensis riporta i nomi delle cultivar in italiano.
Orazio Comes annovera (1906) inoltre, tra le varie collezioni presenti nell’erbario, quella di Giuseppe Celi riguardante le varie cultivar di fichi coltivati nel meridione d’Italia. Attraverso un confronto tra i reperti della Collezione Guglielmi con il lavoro scientifico pubblicato dal Celi (1908) si è accertato che, il fascicolo custodito nell’Erbario Comes, costituisce una parte dei campioni che Celi esaminò ed utilizzò per la stesura della suddetta pubblicazione scientifica.

La collezione Guglielmi è, quindi, l’unica porzione superstite dei reperti appartenenti alla ben più grande collezione delle razze dei fichi che si coltivavano nell’Italia meridionale.”

So che ci sono tanti scienziati che leggono le mie note e a cui chiedo umilmente di illuminarmi, lo faccio perché in questo modo la mia curiosità avrà finalmente soddisfazione. Se la mia curiosità è destinata a rimanere insoddisfatta è perché, così come l’autore Antonio De Natale, anche gli scienziati del Salento leccese e della Facoltà di Agraria di Bari non possiedono indicazioni, né riguardo alla Collezione Guglielmi delle Razze di fico del leccese visionabile presso la facoltà di Agraria di Portici, né sullo stesso Giuseppe Guglielmi autore delle erborizzazioni.

In quest’ultimo caso mi auguro che, l’aver messo nero su bianco le risultanze delle mie ricerche su Giuseppe Guglielmi, sia un incitamento agli studiosi per “andare a cercare laddove io non saprei dove andare a cercare” al fine di ottenere le risposte a tutte queste domande che sono sparse in questo mio scritto che definirei “investigativo”.
Ma come dicono i miei amici avvocati vi è di più. Ricordo a me stesso che la giunta regionale pugliese, su proposta dell’Assessore alle risorse agroalimentari, Dario Stefano, ha approvato  il disegno di legge “Tutela delle risorse genetiche autoctone di interesse agrario, forestale e zootecnico” che potrebbe dare agli scienziati dell’Università del Salento le risorse finanziarie necessarie per poter trovare e studiare la Collezione delle varietà di Fichi del Leccese fatta da Giuseppe Guglielmi nel 1908.

La riscoperta dell’ anagrafe dei fichi del Salento leccese fatta da Giuseppe Guglielmi costituirà un baluardo importante contro la progressiva erosione della biodiversità del fico e sarà uno strumento fondamentale per la ricostituzione di boschi di fico delle varietà autoctone del Salento leccese!

Sarebbe interessante il confronto tra la collezione Guglielmi e il lavoro svolto dall’Orto Botanico dell’Università del Salento che ha individuato 100 (cento) cultivar di Fico (Ficus carica L.). A questo proposito ho un’altra curiosità che spero di soddisfare presto, che è quella di visionare il documentario “La via delle fiche” a cura di Carlo Cascione e Francesco Minonne, dove il termine fiche rinvia alla variante dialettale che il prelibato frutto del “fico” assume nella parlata salentina. Il film è la storia di un viaggio in bicicletta attraverso il Salento che parte da Casarano alla scoperta delle numerose varietà di fico presenti sul territorio. Ce n’è lavoro da fare, vero? E allora che aspettiamo? Rimbocchiamoci le maniche e… cominciamo!

Bibliografia

Annali Civili del Regno delle Due Sicilie Fascicolo XLIX Gennaio e Febbraio 1841
Rendiconto della adunanze e de’lavori della Reale accademia delle scienze di Napoli numero 24 del 1845
Giacinto Donno, Il Fico nel Salento
Giacinto Donno, Alcune varietà bifere di fico coltivate in Provincia di Lecce
Giacinto Donno, Alcune varietà unifere di fico coltivate in Provincia di Lecce
Antonino De Natale, I musei delle scienze agrarie – Herbarium Porticense (Erbario della Facoltà di Portici Real Scuola Superiore di Agricoltura)
Rita Accogli, Un Orto Botanico a Lecce per la difesa della biodiversità del Salento – Il Bollettino n. 9; 2 febbraio 2009
Alberto Nutricati, Tanti giovani filmano «la via delle fiche» Gazzetta del Mezzogiorno del 8/09/2009.

 

Gichero, pan delle bisce, calla selvatica… per i salentini rècchia ti prete o ua ti scursùni

NOMI DI ESSENZE VEGETALI TRA SACRO E PROFANO (1)

La rècchia ti prete o ua ti scursùni

di Armando Polito

In questa serie (anch’io, nel mio piccolo, so dar vita ad una webnovela…) passerò in rassegna alcune specie che hanno attinenza con due concetti che sono da sempre alla base del nostro passaggio sul pianeta, il primo (sacro), a dire il vero, oggi abbasta appannato anche nel suo significato laico di rispetto di valori universali, il secondo (profano), invece, amplificato nel suo significato etimologico di “fuori dal tempio” (dal latino  pro=davanti e fanum=tempio).

Comincerò da una, che nelle denominazioni dialettali riportate nel sottotitolo sembra riassumere in sé entrambe le categorie concettuali prima espresse.

Ecco il resto della sua scheda:

nomi italiani: gigaro, gighero, gichero, pan delle bisce, calla selvatica;

nome scientifico: Arum italicum Mill.;

nome della famiglia: Araceae. 

E passo alle etimologie, cominciando dai nomi dialettali: rècchia ti prete (orecchio di prete) sarà probabilmente legato alla forma della foglia che ricorda vagamente un orecchio col lobo appuntito (che poi questa sia una caratteristica dell’orecchio dei preti mi pare molto discutibile, a meno che

Rocco Coronese: manifesto all’arte

di Paolo Vincenti

Il Museo del Manifesto, a Parabita,  fondato nel 1982 ed unico in tutta l’Italia Meridionale, conta una vastissima collezione di manifesti raccolti nel corso degli anni, con sezioni di cinema, teatro, turismo, pubblicità, politica. Il suo fondatore, Rocco Coronese, voleva un museo aperto e dinamico, che potesse interagire con gli enti e le istituzioni pubbliche del territorio, soprattutto le scuole, per diffondere la cultura del manifesto in tutte le sue angolazioni. Rocco Coronese era nato a Parabita, nel 1931.

Aveva iniziato la sua attività come pittore, frequentando, negli anni Cinquanta, gli ambienti artistici romani. Dalla fine degli anni Sessanta, aveva iniziato l’attività di scultore che lo aveva portato ad esporre nelle maggiori città italiane. Sono numerose le manifestazioni organizzate da Coronese in spazi aperti, come a Roma, Lecce, Parabita, seguendo l’innovativo progetto di valorizzare, attraverso questi eventi artistici, anche i luoghi che li ospitavano e la loro storia. A Parabita, aveva realizzato, per il Parco Comunale, la grande Fontana centrale, i cancelli e la pavimentazione. Fin da quando era giovane studente, Coronese aveva fatto di Roma la sua patria d’elezione: qui, aveva conosciuto la moglie e con lei aveva messo su famiglia, ma il suo cuore era sempre a Parabita, l’amata Parabita.

Nella sua veste di esperto di grafica e comunicazione d’immagine, collaborava con diverse riviste nazionali, con aziende pubbliche e private ed anche, quando Sindaco della Capitale era Argan, famoso critico d’arte, con l’Ufficio Stampa del Comune di Roma. La stessa  città di Roma gli organizzò una mostra riassuntiva di sculture in Piazza Margana. Teneva anche prestigiose collaborazioni con la Rai, con il Coni, con diversi Enti Pubblici, Scuole statali e con la Finsider, le cui collezioni private espongono i suoi quotatissimi  lavori.

Aveva realizzato marchi per importanti aziende, tra cui la nostra Banca Sud Puglia, oggi Popolare Pugliese. A Roma fece molte amicizie, come quella con Vittorio Bodini, che scrisse delle pagine molto belle su di lui.

Un rapporto privilegiato aveva con Cesare Zavattini, con il quale condivideva la passione per il collezionismo di “mini quadri”. All’attività artistica, univa la sua professione di docente:  insegnante di grafica pubblicitaria all’Accademia di Belle Arti di Lecce e, in seguito, di Plastica ornamentale all’Accademia di Belle Arti di Frosinone, di cui era anche Direttore.

L’idea di raccogliere dei manifesti e di creare uno spazio apposito per contenerli gli venne sul finire degli anni Settanta e, nel 1982, riuscì a realizzare questo ambizioso ed innovativo progetto, con l’apertura del Centro di attività per la comunicazione-Museo del Manifesto che, oggi, conta più di 70.000 pezzi. Nel 1984, venne tenuta una grande mostra: “ Il manifesto Polacco: Cinema Teatro e Musica”, in collaborazione con l’Ambasciata della Polonia in Italia.

L’attività del Museo, a Parabita, si arrestò nel 1987, a causa di problemi logistici, ma Coronese continuò ad organizzare eventi in altre località italiane.  Trovò nuovi stimoli ed interessi culturali a Ferentino, un piccolo ma significativo paese in provincia di Frosinone, dove nel frattempo si era stabilito, stanco del traffico e della frenesia dell’Urbe. In quel paese, grazie al grande interesse dimostrato dall’Amministrazione Comunale, si potè realizzare una nuova sezione del Museo del Manifesto, strettamente collegato a quello di Parabita, e le attività iniziarono già nel ‘96.

Nel  ‘97, presso l’Unione Industriali di Frosinone, in collaborazione con l’Ufficio Culturale Cinese in Italia, si tenne la mostra “Immagini dalla Cina”. Nel 2002, l’Amministrazione di Parabita,  ha destinato  finalmente al  Museo un’ala di Palazzo Ferrari, dove poter svolgere l’attività del Centro e, nel giugno di quello stesso anno, si è tenuta la  1° Mostra tematica  “L’Arte nei Manifesti”, di cui ha riferito tutta la stampa locale.Quella di Parabita è diventata, così, una sezione distaccata del Museo di Ferentino e questo ha portato ad un gemellaggio fra i due Comuni, nel nome di Rocco Coronese. Nel settembre del 2002, infatti,  una delegazione parabitana, guidata dal Sindaco Adriano Merico, è stata accolta, con tutti gli onori, dalla gemellata città ciociara. Rocco Coronese, per la sua attività di pittore e scultore, compare anche nella “Storia dell’Arte del 900” di Giorgio Di Genova (Bora 2000).

“Un’attività intensa, senza tregua, per la quale non risparmia energie né fisiche, né intellettuali”, dice di lui  Aldo D’Antico, suo parente ed amico, dalle pagine di NuovAlba, nel dicembre 2002, “ …la sua ricerca è costante, senza interruzioni: ma sempre il suo ritorno è a Parabita, il paese, la piazza, il centro storico, i contadini, gli artigiani, i giovani, gli operai, gli intellettuali”. L’artista è morto improvvisamente nel 2002. La figlia, Cristina Coronese, architetto, che oggi prosegue l’attività del Museo, nel solco tracciato dal padre, ci dice: “Quello che mi preme sottolineare è che il nome di mio padre è conosciuto in tutta Italia, per la sua  capacità creativa e per la grande innovazione apportata nel campo delle arti figurative. Mi rendo conto che, soprattutto a Parabita,  il Museo del Manifesto abbia finito per cannibalizzare la sua poliedrica attività e mettere un po’ in ombra gli altri suoi meriti artistici. Di lui hanno scritto Vittorio Bodini, Giuseppe Cassieri, Cesare Zavattini, Rosario Assunto, Sandra Orienti, Toti Carpentieri, ecc. Vivendo con Rocco Coronese, si respirava la sua tensione intellettuale di artista impegnato in una costante ricerca. Si condivideva la sua passione sociale e il rigore morale e con lui si inseguivano i sogni”. Nel 2003, si è tenuta la mostra “Il cinema nei Manifesti di Renato Casaro” e,  all’inaugurazione, Cristina Coronese , ha avuto modo di ricordare che molti erano i progetti che il padre aveva ancora in mente di realizzare.

Quintino Sicuro: una vita diversa

Quintino Sicuro: una vita diversa

Ricordo del sacerdote-eremita di Melissano

a 42 anni dalla morte

 

di Fernando Scozzi

Il 26 dicembre 1968, sulle pendici del Monte Fumaiolo, muore don Quintino Sicuro, sottobrigadiere della Guardia di Finanza, eremita e sacerdote. Nato a Melissano nel 1920, si arruola nelle Fiamme Gialle  e nel 1941 partecipa alle operazioni di guerra sul fronte greco-albanese. Nel 1946 è promosso sottobrigadiere, ma l’anno successivo si congeda dalla Guardia di Finanza ed entra nel convento dei Minori Francescani di Ascoli Piceno. Il mondo non può darmi quella pace spirituale che si gusta all’ombra di una casa religiosa; e per questo, solo per questo – dice Quintino Sicuro – ho deciso di abbandonare il mio attuale regime di vita e mettermi sulla buona strada.

Quintino Sicuro, sottobrigadiere

Tuttavia non è ancora quello che vuole  e nel 1949 abbandona anche il saio francescano e i con i panni della Provvidenza, da vero sposo di Madonna Povertà, si ritira sull’eremo di San Francesco, a Montegallo (AP) dove vive nella preghiera, nella solitudine  e nella più assoluta indigenza.  Da qui, dopo diversi mesi, scrive alla madre una delle lettere più belle per spiegare un cambiamento così radicale nella sua vita, una scelta che non può essere compresa dai familiari. Quintino lo sa e scrive: Avrei tante cose da dirvi onde giustificare il passo fatto e per pacificarvi del mio nuovo stato di cose, eppure mi astengo, perché superfluo, e vi dico semplicemente  di avere fatto la volontà di Dio e di stare bene, perché sulla mia strada.

Quintino Sicuro, eremita

L’eremo costituisce una tappa importante per la ricerca di quella pace spirituale che Quintino spera di trovare pregando e facendo penitenza. Abbandona tutto, comprese le persone più care e proprio questa scelta costituisce la prova dell’autenticità della vocazione. La vita dei Santi, infatti, è costellata da chiamate e cambiamenti repentini: Gesù chiama e gli apostoli lo seguono abbandonando familiari e occupazioni; San Francesco, per rimarcare la separazione dalla famiglia, restituisce a suo padre perfino i vestiti; San Paolo cambia improvvisamente la sua vita sulla via di Damasco. Quintino Sicuro modifica radicalmente la sua esistenza tanto da rinunciare ad ogni preoccupazione della vita e quindi  poco importa se la gente mi dice

L’asparago e la salsapariglia

Spàracu e sparacìna

di Armando Polito

Fra tre mesi al massimo potremo raccogliere nelle nostre campagne queste due specie vegetali, appartenenti alla stessa famiglia, che si difendono con onore dal sempre più invadente processo di antropizzazione del territorio.

Eccone le relative schede:

nome italiano: asparago selvatico

nome scientifico: Asparagus acutifolius L.

nome dialettale: spàracu

famiglia: Liliaceae

Etimologie: il nome italiano e il primo componente di quello scientifico sono dal latino  aspàragu(m), dal greco aspàragos o asfàragos, da alcuni collegato, sia pure dubitativamente,  col verbo sfaragèomai o spargào=essere turgido (credo con riferimento al turione); io non escluderei, invece,  una composizione da a– intensivo+ la radice sparag– del verbo sparàsso=lacerare, strappare, irritare (con riferimento a chi entra in contatto con la pianta senza le dovute cure. Acutifolius è formazione latina moderna e significa dalle foglie aguzze; Liliaceae è forma aggettivale da lìlium=giglio

nome italiano: salsapariglia

nome scientifico: Smilax nigra L.

nome dialettale: sparacìna

famiglia: Liliacee

Etimologie: il nome italiano è dallo spagnolo zarzaparilla, composto da zarza=arbusto e parilla=vite, pergolato di viti; il primo componente del nome scientifico e dal greco smilax che in greco a seconda degli autori designa varie piante, dal convolvolo ad un tipo di quercia (vedremo più in là quali concordano con la nostra); per Liliaceae vedi la scheda precedente.

Come di consueto vediamo le testimonianze antiche, cominciando dall’asparago.

Catone (III°-II secolo a. C.): “Ivi [In luogo umido dopo aver piantato la canna] semina l’asparago selvatico da cui nascano gli asparagi. Infatti vanno d’accordo il canneto con l’asparago selvatico perché viene zappato e si incendia e ha l’ombra al tempo giusto2”; “L’asparago sia piantato in questo modo: è necessario lavorare bene il luogo che dev’essere umido o grasso. Quando sarà stato lavorato dividilo in aiole in modo che tu possa sarchiare e arroncare a sinistra e a destra senza calpestare. Quando delineerai le aiole lascia tra loro un intervallo largo mezzo piede su ogni lato,  poi semina. Aiutandoti con un paletto interra due o tre semi per volta e con lo stesso paletto chiudi il buco. Poi sopra le aiole spargi accuratamente del letame. Semina dopo l’equinozio di primavera. Quando l’asparago sarà nato  estirpa di frequente le erbacce facendo attenzione a non svellere pure quello. Nell’anno in cui hai seminato coprilo di paglia durante l’inverno perché il freddo non lo bruci. Poi all’inizio della primavera scoprilo, sarchialo e arronca l’erba. Dopo il terzo anno dalla semina appiccavi il fuoco all’inizio della primavera. Non sarchiare prima che l’asparago sia nato, per non ldedere le radici nel sarchiare. Nel terzo o quarto anno svelli l’asparago dalla radice; infatti se la spezzi si formeranno tronconi e moriranno. Potrai svellerlo finché non lo vedrai produrre il seme. Questodiventa maturo in autunno. Quando l’avrai raccolto, appicca il fuoco e quando l’asparago comincerà a nascere sarchia e spargi letame. Dopo otto o nove anni, quando ormai è vecchio, trapiantalo e lavora bene e fertilizza con letame il terreno in cui vuoi porlo. Poi fà piccole fosse in cui collocare le radici dell’asparago. Tra le singole radici ci sia uno spazio non inferiore ad un piede, svellilo dopo aver scavato all’intorno perché possa fare facilmente l’operazione. Bada che non si spezzino. Utilizza soprattutto letame di pecora, che è il più adatto; l’altro letame favorisce la crescita delle erbacce.” 3

E Plinio (I° secolo d. C.): “Tra le piante che nascono nei giardini si ricava il vino dalla radice dell’asparago…”4; “Forse non si scoprì che nelle erbe c’è distinzione e che la ricchezza fa la differenza anche in un piatto che costa un solo asse? Pure in queste tre erbe negano che qualcuna nasca per loro essendo stato il cavolo tanto ingrossato che la mensa del povero non lo contiene. La natura aveva creato gli asparagi selvatrici perché ciascuni li cogliesse qua e là. Ecco, si vedono asparagi ingrassati e Ravenna ne fa pesare tre una libbra. Miracoli del ventre! Sarebbe strano che il bestiame non si cibasse del cardo: non è consentito alla plebe!5”;“Ho citato pure la corruda6; intendo questa come l’asparago selvatico, che i greci chiamano ormeno, altri miacanto e con altri nomi. Trovo che nasce pure sulle corna dell’ariete pestate e sotterrate7”; “Tra i cibi utilissimi allo stomaco sono tramandati gli asparagi. Con aggiunta di cumino eliminano i gonfiori dello stomaco e del colon, rischiarano la vista, delicatamente rendono molle il ventre, giovano ai dolori del petto e della schiena e alle malattie dell’intestino, quando sono citti con l’aggiunta di vino. Per i dolori dei fianchi e dei reni il seme viene bevuto nella dose di tre oboli, con una pari quantità di cumino. Stimolano il desiderio sessuale, favoriscono in modo eccezionale la diuresi, a meno che la vescica non abbia ulcerazioni. Anche la radice a detta di molti pestata e bevuta nel vino bianco frantuma pure i calcoli, calma i dolori dei fianchi e dei reni. Alcuni somministrano pure per il dolore di vulva  la radice con vino dolce. la stessa bollita in aceto giova contro l’elefantiasi. Sostengono che chi si unge con asparago pestato in olio non viene punto dalle api. Alcuni chiamano l’asparago selvatico libico, gli Attici ormino. Questo contro  gli inconvenienti prima nominati è il più efficace e quello più bianco ancor di più. Attenuano la gotta. Per stimolare il desiderio sessuale ne prescrivono il decotto da bere nella misura di un’emina. Allo stesso scopo vale anche il seme con aneto nella quantità di tre oboli per ciascuno. Viene somministrato anche il decotto contro i morsi dei serpenti; la radice viene mescolata con quella del maratro per preparare efficacissimi medicamenti. In caso di sangue nell’orina Crisippo prescrive il seme dell’asparago, del sedano e del cumino nella misura di tre oboli ciascuno in due ciati di vino. Ma, insegna, è nocivo per gli idropici, sebbene stimoli la diuresi, parimenti al desiderio sessuale, pure alla vescica se non bollito; se si dà quest’acqua ai cani muoiono; il decotto della radice nel vino, tenuto in bocca, cura i denti8”.

La carrellata sulle testimonianze antiche termina con la nota gastronomica dell’immancabile Apicio (probabilmente I° secolo d. C.): “Secca gli asparagi e quando ti serviranno mettili in acqua calda e così li farai rinvenire9”;  “Piatto freddo agli asparagi: prendi degli asparagi mondati, pestali in un mortaio, versa un po’ d’acqua, ripestali, filtra il tutto attraverso un colino e mettici dei bei beccafichi. Pesta in un mortaio sei scrupoli di pepe, aggiungici salsa, mescola. Metti in una pentola un ciato di vino, un ciato di passito, tre once di olio e fai bollire. Ungi bene un piatto, mescolavi sei uova con enogaro, insieme col succo degli asparagi ponilo sulla cenere calda, versaci gli ingredienti prima nominati. A questo punto unisci i beccafichi. Cuoci, cospargi di pepe e servi. Altro piatto agli asparagi: metti in un mortaio la parte terminale degli asparagi che di solito si butta, pesta, versa vino, filtra. Trita pepe, ligustico, coriandro verde, santoreggia, cipolla, vino, sugo e olio, versa il sugo in una padella ben unta e, se vorrai, scioglici al fuoco delle uova perché tutto leghi bene. Cospargi di pepe polverizzato10”.

Nel mondo greco l’asparago non sembra abbia avuto la considerazione di cui godette in quello romano, in cui fu coltivato, come abbiamo visto, fin da tempi abbastanza antichi; il suo nome è presente in pochissimi autori, tanto saltuariamente e fugacemente che non vale la pena neppure citarli11 

E passo alla salsapariglia. Come è noto, i nomi scientifici delle piante derivano dal latino e il primo componente, per lo più, è il nome con cui si presume (perché l’esatta identificazione è per lo più problematica) che esse comparissero negli autori antichi. Se, con processo inverso,  cerco smilax in Plinio trovo quanto segue: “È simile all’edera, originaria certamente della Cilicia ma più frequente in Grecia, quella che chiamano smilace, serpeggiante in folti steli, a forma di cespuglio dai rami spinosi, con la foglia simile a quella dell’edera, piccola, non angolosa, che emette i pampini dal peduncolo, dal fiore candido, profumato di giglio. Porta racemi a mo’ di vite selvatica, non dI edera, di colore rosso, racchiude negli acini più grossi tre noccioli ciascuno, uno nei più piccoli, neri e duri, è di cattivo augurio per i sacrifici e per le corone per il fatto che è funerea essendosi mutata in questo arbusto una fanciulla con lo stesso nome per amore del giovane Croco12. Il popolo che ignora questa storia per lo più contamina le sue feste ritenendo che si tratti di edera, come chi sa veramente nei poeti o nel padre Bacco o Sileno di che cosa siano incoronati? Dalla smilace si ricavano tavolette per scrivere ed è caratteristica di questo legno il fatto che accostato agli orecchi emette un suono delicato13”; “Le foglie della smilace e dell’edera e soprattutto i loro corimbi sono utilizzati nel confezionamento di corone; di queste essenze ho detto a sufficienza nel passo sugli arbusti14”; “Anche la smilace, alcuni la chiamano nicoforo,  somiglia all’edera ma ha le foglie più sottili. Dicono che una corona ricavata da essa con un numero dispari di foglie guarisce il dolore di testa. Certi parlarono di due specie di smilace: uno antichissimo, in valli ombrose, che si arrampica sugli alberi, con i corimbi ricchi di acini potentissimi contro ogni veleno, tanto che istillando spesso il succo degli acini nei fanciulli poi nessun veleno può nuocere loro. Un’altra specie ama i luoghi coltivati e qui nasce, ma non ha nessuna proprietà. Il primo è quella smilace il cui legno ho detto che risuona all’orecchio. Alcuni chiamarono clematida un’essenza simile a questa, che si arrampica sugli alberi, anch’essa nodosa. Le sue foglie leniscono gli effetti della lebbra. Il seme nella dose di un acetabolo in un’emina di acqua o in acqua salata libera l’intestino. Allo stesso scopo viene somministrato anche il suo decotto15”.

Chiudo con una raccomandazione, superflua per chi è appassionato di culinaria e ha dimestichezza con queste due essenze: i turioni dell’asparago selvatico e i germogli della salsapariglia sono ottimi, anche semplicemente lessati e poi gustati con olio e aceto, ma attenzione a non scuocerli! Non per nulla sono stati immortalati in un proverbio che l’imperatore Augusto era solito usare, a detta dello storico Svetonio (I°-II° secolo d. C.),  per indicare qualcosa fatta troppo frettolosamente:  Velocius quam asparagi coquantur16 (Più rapidamente di quanto si cuociano gli asparagi).

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1 Su scràscia vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/07/21/tra-rovi-e-more-selvatiche/

2 De agri cultura, 6, 3: Ibi corrudam serito, unde asparagi fiant. Nam convenit harundinetum cum corruda, eo quia foditur et incenditur et umbram per tempus habet. Sarà un caso ma nella mia ricerca di asparagi selvatici tappa obbligata del consueto itinerario è una piccola radura occupata da non più di trenta piante di canna: ebbene, proprio in appena quattro metri quadrati ci saranno almeno una cinquantina di piante di asparago selvatico. Corrùda è voce di origine greca: da korýtha (accusativo di korys=testa, a sua volta connesso con kòrymbos=cima, corimbo e che nel lessico di Esichio (V°-VI° secolo d. C.) compare col significato di gambo di asparago.

3 Op. cit., 161, 1-4: Asparagus quo modo seratur. Locum subigere oportet bene, qui habeat umorem, aut locum crassum. Ubi erit subactus, areas facito, ut possis dextra sinistraque sarire, runcare, ne calcetur. Cum areas deformabis, intervallum facito inter areas semipedem latum in omnes partes. Deinde serito, ad lineam palo grana bina aut terna demittito et eodem palo cavum terra operito. Deinde supra areas stercus spargito bene. Serito secundum aequinoctium vernum. Ubi erit natum, herbas crebro purgato caveto ne asparagus una cum herba vellatur. Quo anno severis, satum stramentis per hiemem operito, ne praeuratur. Deinde primo vero aperito, sarito runcatoque. Post annum tertium, quam severis, incendito vere primo. Deinde ne ante sarueris, quam asparagus natus erit, ne in sariendo radices laedas. Tertio aut quarto anno asparagum vellito ab radice. Nam si defringes, stirpes fient et intermorientur. Usque licebit vellas, donicum in semen videris ire. Semen maturum fit ad autumnum. Ita, cum sumpseris semen, incendito, et cum coeperit asparagus nasci, sarito et stercorato. Post annos VIII aut novem, cum iam est vetus, digerito et in quo loco posturus eris terram bene subigito et stercerato. Deinde fossulas facito, quo radices asparagi demittas. Intervallum sit ne minus pedes singulos inter radices asparagi. Evellito, sic circumfodito, ut facile vellere possis; caveto ne frangatur. Stercus ovillum quam plurimum fac ingeras; id est optimum ad eam rem; aliut stercus herbas creat.

4 Naturalis historia, XIV, 105: Ex his quae in hortis gignuntur fit vinum e radice asparagi…

5 Op. cit., XIX, 54: Etiamne in herbis discrimen inventum esse, opesque differentiam facere in cibo etiam uno asse venali? in his quoque aliqua sibi nasci tribus negant, caule in tantum saginato, ut pauperis mensa non capiat. silvestres fecerat natura corrudas, ut passim quisque demeteret. ecce altiles spectantur asparagi, et Ravenna ternos libris rependit. heu prodigia ventris! mirum esset non licere pecori carduis vesci: non licet plebei! Sorprendente, anche per le connesse considerazioni di carattere sociale ed economico, questa difesa del selvatico contro il coltivato, che anticipa di millenni, invertendone i termini economici quasi per una sorta di vendetta della storia, la moderna contrapposizione fra l’agricoltura comunemente praticata e quella biologica.

6 Vedi la nota n. 2.

7 Op. cit., XIX, 151: Indicavimus et corrudam; hunc enim intellego silvestrem asparagum, quem Graeci hormenum aut µyacanthon vocant aliisque nominibus. Invenio nasci et arietis cornibus tunsis atque defossis.

8 Op. cit., XX, 42-43: Inter utilissimos stomacho cibos asparagi traduntur. Cumino quidem addito inflationes stomachi colique discutiunt, iidem oculis claritatem adferunt, ventrem leniter molliunt, pectoris et spinae doloribus intestinorumque vitiis prosunt, vino, cum coquuntur, addito. Ad lumborum et renium dolores semen obolorum trium pondere, pari cumini bibitur. Venerem stimulant, urinam cient utilissime, praeterquam vesica exulcerata, radice quoque plurimorum praedicatione. Trita et in vino albo pota calculos quoque exturbat, lumborum et renium dolores sedat. Quidam et ad vulvae dolorem radicem cum vino dulci propinant. Eadem in aceto decocta contra elephantiasim proficit. asparago trito ex oleo perunctum pungi ab apibus negant. Silvestrem asparagum aliqui Libycum vocant, Attici orminum. Huius ad supra dicta omnia efficacior vis, et candidiori maior. Morbum regium extenuant. Veneris causa aquam eorum decoctam bibi iubent ad heminam. Idem et semen valet cum aneto ternis utriusque obolis. Datur et ad serpentium ictus sucus decoctus; radix miscetur radici marathri inter efficacissima auxilia. Si sanguis per urinam reddatur, semen et asparagi et apii et cumini ternis obolis in vini cyathis duobus Chrysippus dari iubet. Set id hydropicis contrarium esse, quamvis urinam moveat, docet, item veneri, vesicae quoque nisi decoctum; quae aqua si canibus detur, occidi eos. In vino decoctae radicis sucum, si ore contineatur, dentibus mederi.

9 De re coquinaria, III, 3: Asparagos siccabis, rursum in calidam summittas, callosiores reddes.

10 Op.cit., IV, 2, 5-6: Patina de asparagis frigida: accipies asparagos purgatos, in mortario fricabis, aqua suffundes, perficabis, per colum colabis. et mittes ficetulas curatas. teres in mortario piperis scripulos sex, adicies liquamen, fricabis. vini cyathum I, passi cyathum I, mittes in caccabum olei uncias III, illic ferveant. perungues patinam, in ea ova VI cum oenogaro misces, cum suco asparagi impones cineri calido, mittes impensam supra scriptam. tunc ficetulas compones. coques, piper asparages et inferes. Aliter patina de asparagis: adicies in mortario asparagorum praecisuras, quae proiciunter, teres, suffundes vinum, colas. teres piper, ligusticum, coriandrum viridem, satureiam, cepam, vinum, liquamen et oleum, sucum transferes in patellam perunctam, et, si volueris, ova dissolves ad ignem, ut obliget. piper minutum asparges.

11 Degna di nota solo la citazione, per la salsapariglia, di Euripide (tragediografo greco del V° secolo a. C.), Baccanti, vv. 702-703: …e si misero in testa corone di edera, di quercia e di salsapariglia in fiore.

 

12 Ovidio (I° secolo a. C. – I° secolo d. C.), Metamorfosi, IV, 283-284: …/et Crocon in parvos versum cum Smilace flores/praetereo… (…e non parlo di Croco mutato in piccoli fiori [zafferano] insieme con Smilace…); Nonno di Palopoli (autore greco probabilmente del V° secolo d. C.), Dionisiache, XII, 85-86: …Croco che desiderava ardentemente Smilace, ragazza dalla bella ghirlanda, diventerà un fiore degli amori”.

 

13 Op. cit. XVI, 63 Similis est hederae e Cilicia quidem primum profecta, sed in Graecia frequentior, quam vocant smilacem, densis geniculata caulibus, spinosis frutectosa ramis, folio hederaceo, parvo, non anguloso, a pediculo emittente pampinos, flore candido, olente lilium. Fert racemos labruscae modo, non hederae, colore rubro, conplexa acinis maioribus nucleos ternos, minoribus singulos, nigros durosque, infausta omnibus sacris et coronis, quoniam sit lugubris virgine eius nominis propter amorem iuvenis Croci mutata in hunc fruticem.
Id volgus ignorans plerumque festa sua polluit hederam existimando, sicut in poetis aut Libero patre aut Sileno quis omnino scit quibus coronentur? E smilace fiunt codicilli, propriumque materiae est, ut admota auribus lenem sonum reddat.

14  Op. cit. XXI, 52 Folia in coronamentis smilacis et hederae corymbique earum optinent principatum, de quibus in fruticum loco abunde diximus. Si direbbe che Plinio abbia accettato ormai quell’usanza che aveva considerato nefasta nel passo della nota precedente. Anche tra i miti c’è quello che nell’immaginario collettivo ha meno fortuna e, considerata la complessità della psiche umana, è quasi impossibile ricostruirne le motivazioni. Oltretutto questa favola ci è stata tramandata molto scarnamente solo dagli autori citati nella nota n. 12.

15 Op. cit. XXIV, 49: Smilax quoque, qui et nicophoros cognominatur, similitudinem ederae habet, tenuioribus foliis. Coronam ex eo factam impari foliorum numero,aiunt capitis doloribus mederi. Quidam duo genera smilacis dixere. Alterum immortatlitati proximum, in convallibus opacis, scandentem arbores, comantibus acinorum corymbis, contra venenata omnia efficacissimis, in tantum ut acinorum succo infantibus saepe instillato, nulla postea venena nocitura aiunt. Alterum genus culta amare et in his gigni, nullius effectus. Illam esse smilacem priorem cuius lignum ad aures sonare diximus. Similem huic aliqui clematida appellaverunt, repentem per arbores, geniculatam et ipsam. Folia eius lepras purgant. Semen alvum solvit acetabuli mensura, in aqua hemina aut aqua mulsa. Datur ex eadem causa et decoctum eius.

 

16 De vita Caesarum, II, 87, 1.

Dialetto ed etimologie nella cronaca di una giornata invernale

Cronaca di una giornata invernale

 di Armando Polito

Tegnu sessantasei anni. -Cu lla bbona salute!- sta ssentu tire. Però, nc’è nnu problema: tegnu la reuma1 ca m’ha fattu quasi ggiuncare2; eppuru continu a fare li fessarie ca facia quandu era agnone e a novembre, tantu cu ‘ndi contu una, finu a qquarche annu ddhetu mi facia la toccia a ddha ffore cu ll’acqua ti lu puzzu. Osce, per esempiu, tirava na filippina3 ca mancu li cani; ti li parti noscie la chiamamu scorciacapre4, ma iò, ca so’ ppesciu ti ‘na capra, so’ bbissutu lo stesso cu mmi fazzu nna passiggiata, senza cappottu, senza cappieddhu e senza la maglia ti lana ca nònnuma purtava puru ti ‘state. Topu quattru passi già sta intrizzulisciava5, ma iò, ca so’ cucciutu pesciu ti ‘nu mulu, aggiu continuatu fincu qquandu aggiu zzaccatu rriscilare. Quandu so’ tturnatu a ccasa tuttu rrunciddhàtu6mugghièrima m’ha datu lu solitu bicchirinu7: -Mo ca t’ha ddifriscatu bellu bellu, ci ti mmalazzi ti mandu allu ‘spitale!-. Pi ffurtuna iò su ccutreu8 alla fursione9, però mo mi ‘ndi sto ssittatu tutto ‘ntustatu10 ‘nnanzi lu computer e ppuru li tèscite sta mmi sentu ‘ntrappate11. -Menu male!- sta ddice già quarchetunu -Cusì armenu osce scrivi menu fessarìe ti lu solitu-. Ci sape ci ‘nci so’ riuscitu…

Ho sessantasei anni. -Con la buona salute!-sto sentendo dire. Però, c’è un problema: soffro di reumatismo, che ogni tanto mi riduce all’immobilità o quasi; eppure continuo a fare le fesserie che facevo quando ero ragazzo e a novembre, per dirne una, fino a qualche anno fa facevo la doccia all’aperto con l’acqua del pozzo. Oggi, per esempio, tirava un vento di tramontana che pure i cani ne avrebbero sofferto; dalle nostre parti lo chiamiamo scuoiacapre, ma io, che sono peggio di una capra, sono uscito lo stesso a farmi una passeggiata, senza cappotto, senza cappello e senza la maglia di lana che mio nonno indossava pure d’estate. Dopo quattro passi già ero intirizzito, ma io, che sono cocciuto peggio di un mulo, ho continuato fino a quando ho cominciato a gelare. Quando sono tornato a casa mia moglie mi ha dato il solito bicchierino: – Mo che ti sei rinfrescato bello bello, se ti ammali ti mando all’ospedale!-. Per fortuna io sono refrattario all’influenza, però adesso me ne sto seduto tutto d’un pezzo davanti al pc e mi sto sentendo rattrappite pure le dita. -Meno male!- sta dicendo già qualcuno -Così almeno oggi scrivi meno fesserie del solito-. Chissà se ci sono riuscito…

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1Tal quale dal greco rèuma=flusso, ma già in Plutarco (I°-II° secolo d. C.),

Quanti soli rotti ci sono in giro per il mondo…

di Gianni Ferraris

Esco alle otto, perché c’è l’eclissi di sole. Parziale, peccato. Una totale la ricordo, ero piccolo, forse alle elementari. La vidi con la maschera da saldatore di mio padre. Eravamo in piazza, al paese. Inquietante il cielo che si oscura. Immagino nel passato remoto, quando nessuno le annunciava ed arrivavano implacabili ed inattese. Immagino le preghiere agli dei per quel monito di sciagura che stavano inviando. Il sole che si spegne. E ricordo un altro sole, “il sole rotto”, così l’ho battezzato, così  mi si è impresso nella memoria. Ero in auto con Mattia, mio figlio, aveva forse due o tre anni. Stavamo andando verso il paese, era una giornata tersa e leggermente ventosa,  si vedevano in lontananza le Alpi che si stagliavano, era l’ora del tramonto, il sole, prima di ficcarsi dietro le montagne, diventava una enorme palla rossa come il fuoco all’orizzonte, stupendo ed emozionante sempre.

Un tempo, con una piccola Kodak, andavamo a fotografarlo. Le foto erano sempre identiche, però ogni volta che eravamo lì ci si scordava dello stesso tramonto di alcuni giorni prima e ci si emozionava come se fosse stata la prima volta. Quasi come un rito, forse propiziatorio, forse scaramantico.

Però ora so che un tramonto non è mai uguale ad un altro. Perché la vita prosegue. Chissà se è la saggezza dell’età, o piuttosto la sciagura del sentirsi impotenti di fronte a quel che accade.  Eravamo giovani allora, forse anche belli. Anzi, senza forse, i giovani sanno essere stupendi a prescindere da tutto, quando sognano, quando hanno il mondo fra le dita, quando si innamorano, quando dicono di sapere le cose della vita. I giovani sperano e sanno di poter cambiare il mondo intero. E sanno commuoversi di fronte alla morte o a un tramonto, a volte di fronte a un’alba, però questo è più arduo, perché la mattina si dorme.  E di fronte a quel sole grande come il mondo intero stavamo a parlare finchè non se ne andava e lasciava in cielo i colori del tramonto, quelli che nessun pittore sa riproporre. Perché la natura conosce segreti che non può svelare. Anche le foto, sviluppate, avevano un sapore diverso, più freddo, più lontano, decisamente meno coinvolgente.

E ricordo mia nonna, viveva con noi, una volta il municipio, di fronte a casa nostra, si accese di un rosso inusuale, un altro tramonto, dai colori forti, , decisi. Lei guardava fuori e disse “è segno di guerra in arrivo quel rosso vivo”. Lo disse in dialetto. Non chiesi perché, non andò oltre. Chissà quale guerra o quale sciagura ricordava. Quella sera, in auto, Mattia stava sul suo seggiolino, nel sedile dietro, il cielo era sereno, solo una nube a forma di sigaro, lunga e stretta, si andò a piazzare proprio nel mezzo della palla rossa ed enorme. Quasi a dividerlo un due. Mattia mi disse “papà, il sole si è rotto…” Aveva ragione, accidenti. Poi dicono che i bimbi non sanno le cose della vita.

Ci ho messo anni ad altri anni per capire che i soli si rompono uno ad uno. Che si piomba spesso, troppo spesso, nell’incapacità di capire come mai la luce si sta spegnendo. Ci ho messo un sacco di tempo a  non stupirmi per un’eclissi, anche parziale, come per una cosa scontata.

Invece è un evento straordinario. Dovremmo chiedercelo, accidenti, perchè gli dei ce l’hanno con noi. Non siamo più in grado di farlo.    Così è perché così deve essere. E chi l’ha detto? Dove sta scritto? Quale cabala, quale astrologo della TV lo impone?

L’altra sera ero a Minervino, stupendo presepe vivente. Soprattutto meraviglioso luogo. Stava dentro ad un frantoio ipogeo di 700 metri quadri. Immenso, passava sotto la strada provinciale e si snodava  in locali grandissimi. Completamente scavato nella roccia. “È privato, non si può visitare di solito, lo concedono solo in alcune occasioni” mi dice la ragazza che me lo racconta.

Oggi, di fronte ad un sole che si oscura parzialmente, pensavo alla fatica di chi scavava la roccia, pensavo che 700 metri quadri sono tanti, troppi. E pensavo alla macine che giravano ed alla vita là sotto. Dove non arrivava il sole, neppure quello rotto. E pensavo alle speranze dei giovani di allora. Se ne avevano, di speranze. Certo, non conoscevano il mondo oltre i confini del loro Comune, forse poco più. Però stavano facendo la storia anche loro, con i loro muli che giravano continuamente, con le loro macine, con quell’olio che sarebbe stato portato a Gallipoli o chissà in quale porto e poi sarebbe andato a illuminare qualche lampada di chissà chi, magari di un poeta lontano mille chilometri ed altri mille. O di una regina. O forse, più banalmente, sarebbe rimasto in terra d’Otranto a illuminare, chissà, le notti del barone che era proprietario di quello stesso frantoio.

Quanti soli si sono rotti anche per loro? Frantumati, spezzati, spaccati, infranti, spezzettati. Come molte speranze, come lo sguardo di mia nonna su quel rosso vivo contro il municipio. “Quando non provi più emozioni è la fine” mi diceva qualcuno. È vero, però mica è facile non mediare fra le emozioni e la razionalità. Quasi come se la realtà che viviamo e vediamo ogni giorno fosse  l’unica possibile. L’olio che veniva prodotto dallo sciagurato che stava mesi sotto terra non era lo stesso che avrebbe illuminato lo scrittoio di un poeta? Era lo stesso, certo, era la mano di uno che si intrecciava a quella dell’altro. Forse è questo il passaggio che manca per incollare due pezzi di un sole rotto.  Solo che il poeta non ci pensava e non ci pensa. Solo che la persona che lavorava le olive nel frantoio di 700 metri quadri forse non sapeva neppure leggere.

Quanti soli rotti ci sono in giro per il mondo. Ieri ho avuto la fortuna ed il privilegio di ascoltare un intervento. Lui è un giovane costituzionalista di cui non ricordo il nome. Diceva che il problema grande, forse il principale delle attuali sciagure civili, etiche e politiche che viviamo, sta nella mancanza di aggettivazione. “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro” aveva detto un ottantottenne nel suo intervento. Lui replicò che no, non dice così la Costituzione, “L’Italia è una Repubblica Democratica fondata sul lavoro…” togliamo l’aggettivo e cambia tutto. Oggi ci sono i partiti delle Libertà, dell’Ecologia e della Libertà, Democratici, Del Futuro e Libertà. Ma chi si dichiara non democratico? Chi è contro la libertà? Chi è antiecologista? Sembra che ci si possa riconoscere in ognuno di questi partiti, quanto meno nel loro enunciato, nel logo. Mancano, banalmente, gli aggettivi. Quale democrazia? Quale libertà? Quale ecologia? Quale Repubblica? Ci hanno scippato anche gli aggettivi, quasi a costringere tutti quanti all’omologazione. “Noi siamo il popolo della libertà”. Trovatemi un solo popolo che sia “delle schiavitù” se ne siete capaci.  Soli rotti anche questi. In fondo non aveva torto Mattia, il sole si sta rompendo. In fondo non avevano torto gli antichi che si prostravano al cospetto dei loro dei che mandavano maledizione sotto forma di notte improvvisa.

Aspettiamo con pazienza che arrivi primavera, aspettiamo, in fondo, che il tempo passi. Però ci saranno fioriture allora, e i campi rinasceranno, è vero, saremo un po’ più vecchi, però vuoi mettere la fortuna di poter sentire i profumi e vedere i verdi della campagna? Vuoi mettere andare a passeggiare vicino al mare e sentire in faccia l’aria che ti porta profumi di Grecia o di Albania?

Detentori di una rarità, con l’augurio che non diventi unicità

di Armando Polito

sarcopoterium spinosum

 

sarcopoterium spinosum1

Nome italiano: spinaporci

nome scientifico: Poterium spinosum L. (1753) o Sarcopoterium spinosum (L.) Spach (1846)

famiglia: Rosaceae

nome dialettale: spinapuèrci

 

Etimologie:

nome italiano: da spina e porco, perché usata come siepe per tenere lontani i maiali; si ritiene, addirittura. che da questa pianta sia stata ricavata la corona di spine di Gesù Cristo.

nome scientifico: do l’etimologia del secondo che include quella del primo. Sarcopoterium è formazione moderna da due parole greche: sarx (genitivo sarkòs) che significa carne e potèrion che significa calice; per spinosum bastano le foto;

nome della famiglia: dall’aggettivo  latino rosàceus/a/um=color rosa;

nome dialettale: vedi nome italiano; altre specie spinose che coinvolgono il mondo animale sono: spinapùlici (nome italiano: cratego o spino bianco o bagaia; nome scientifico: Crataegus oxyacantha L.; nome della famiglia: rosacee)=spina delle pulci, con riferimento al piccolo frutto rosso che evoca una pulce) e spina ti sòrice (nome italiano: pungitopo; nome scientifico: Ruscus aculeatus L.; nome della famiglia: liliacee)=spina del sorcio, probabilmente perché il cladodio visto dall’alto evoca la forma del topo.

Lo spinaporci  è una specie in Italia rara, localizzata in piccole stazioni in Sardegna, Sicilia, Calabria, Basilicata. In Puglia  si rinviene solo nel territorio di Nardò (Palude del Capitano) e in quello di Manduria (Torre Colimena).

Torre Colimena (da http://www.itriabarocco.net)

Probabilmente questa sua caratteristica, nonché l’essere dotato di spine micidiali, giustificano la sua dubbia, per quanto si dirà,  presenza negli autori antichi. Dubbi, invece, non ebbe a suo tempo Linneo (XVIII secolo) che attribuì alla pianta il primo nome scientifico sulla scorta di un poterium presente in Plinio (I° secolo d. C.), del quale fra pochissimo riporterò la

Giacinto Leone, Direttore dell’Accademia di Belle Arti di Lecce, ad un mese dalla scomparsa

 

di Maria Grazia Anglano

Sguardo lungimirante, altera stazza, Giacinto Leone, Direttore dell’Accademia di Belle Arti di Lecce; qui in quindici anni tanto del suo impegno si è dispiegato e qui il suo tempo si è tragicamente contratto il 3 dicembre, a soli 61 anni.

Siamo a poco più di un mese dalla sua scomparsa e vogliamo ricordarlo in questo spazio.

Un uomo infaticabile che, con volontà e profusione, ha tentato di accordare animi dalle diverse e disparate necessità tanto di vita quanto professionali.

Teso come sempre ad armonizzare l’industriosa macchina “Accademia” che,

Nella diocesi di Nardò nel XVIII secolo si scomunicava così

 

di Marcello Gaballo e Armando Polito

Il testo che segue in corsivo è la nostra traduzione quasi letterale (abbiamo solo optato per una punteggiatura più moderna) dall’originale latino di una pagina a stampa occasionalmente rinvenuta in un contenitore di documenti settecenteschi. Indipendentemente da questo dettaglio, ci riserviamo alla fine di formulare e motivare la nostra ipotesi di datazione.

                           CASI RISERVATI NELLA DIOCESI DI NARDÒ*

                                                           I

Casi riservati ai quali è connessa la scomunica immediataa.

1 Tutti coloro che di persona o per interposta persona in qualsiasi modo si servono del Sacramento della Santissima Eucaristia, della Cresima, dell’Olio Santo o di qualunque altra cosa consacrata o dei riti sacramentali per incantesimi, divinazioni, sortilegi o per un uso diverso da quello per il quale sono stati disposti o chi tra questi abbia dato o ricevuto qualcosa per gli stessi scopi, anche se non ne è seguito per nulla  l’uso.

2 Tutte le persone di entrambi i sessi che promettono ossequio al demonio, gli offrono  incenso e sacrifici, sebbene siano in possesso delle loro facoltà mentali. Inoltre quelli che a nome loro o altri costruiscono o fanno costruire immagini, anelli o qualsiasi altro oggetto col quale invocano il demonio o ammaliano.

3 Coloro che abbiano osato senza il nostro permesso accedere al monastero delle monache di questa nostra città per parlare con qualcuna di loro, anche se è Novizia, o Conversa o vi soggiorna per motivi di educazione o altro, eccettuati solo i congiunti di primo o secondo grado di consanguinità. Inoltre quelli che dichiarano che colui il quale abbia ottenuto il permesso di parlare con una delle predette non possa parlare, essendoglielo stato concesso, con le altre. Inoltre coloro che tanto nel predetto Monastero quanto nel Conservatorio di S. Maria della Purità si siano resi responsabili di comportamenti  osceni  da presenti per mezzo di parole o atti impudichi, da assenti per mezzo di lettere o intermediarii. Nonché uomini e donne sia dentro che fuori le mura del Monastero o del Conservatorio che abbiano recapitato le predette lettere o gli ordini.

4 Tutti coloro che in un processo penale o civile con grave danno altrui rilasciano falsa testimonianza o provvedano a che sia rilasciata; quelli che

A proposito di punteruolo rosso e delle nostre palme malate

Nel Salento leccese mangeremo

il punteruolo rosso?

di Antonio Bruno

Il  9  DICEMBRE  2010 nella splendida cornice del castello medievale di Acquarica del capo si è tenuto il convegno l’ EMERGENZA  PUNTERUOLO  ROSSO  DELLE  PALME (Rhyncophorus  ferrugineus).
In questa nota alcune interessanti notizie apprese durante la serata.
Il castello di Acquarica del Capo è del XV secolo ed è stato forse ristrutturato da Giovanni Antonio Orsini, principe di Taranto, che ebbe in feudo la cittadina nel 1432.
La magnifica torre a base quadrata, che sovrasta il centro abitato, è la struttura architettonica di rilevante importanza per il paese di Acquarica ed è qui che l’amico Sindaco Dottore Agronomo Francesco Ferraro il 9  DICEMBRE  2010 ha moderato un convegno per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle problematiche riguardanti l’ EMERGENZA  PUNTERUOLO  ROSSO  DELLE  PALME (Rhyncophorus  ferrugineus).
La canzone “La guardia rossa” di Raffaele Offidani “Spartacus Picenus” del 1919 più o meno diceva «Ecco s´avanza uno strano soldato/ vien dall´Oriente, non monta destrier/ è la guardia rossa che marcia alla riscossa….» e sembra essere stata scritta per il punteruolo rosso della palma.
Il Sindaco Ferraro l’ha definito “un convegno semplice” per fare chiarezza. La sala era affollata a dimostrazione di quanto sia sentita la problematica dalle genti del Salento leccese.

“Striscia la Notizia” sta proponendo da tempo i più svariati tentativi di cura che sono stati messi in atto per difendere la pianta della palma da questo insetto rosso! C’è di tutto e di più e noi Dottori Agronomi, di fronte a questo insetto, abbiamo più volte dovuto alzare bandiera bianca, per assistere impotenti a una sintomatologia che va dalla tosatura, alle merlettature, alle foglie appoggiate, alle foglie morte espulse per spiaggiare al COLLASSO DELLA CHIOMA che può essere a ombrello aperto verde, parzialmente secco e infine totalmente secco.
I dati sono quelli dell’indagine che stanno portando avanti i colleghi del CODILE, Consorzio di difesa della Provincia di Lecce, illustrati dalla collega Dottore Agronomo Sara Nutricato.
Ad Acquarica del Capo c’è stato un monitoraggio che ha riguardato le palme visibili dalla strada e quelle che sono state oggetto di segnalazione da parte dei cittadini, per un totale di 223 palme, di cui il 94% Phoenix canariensis e il 6% Phoenix dactylifera.
Queste palme presenti ad Acquarica del Capo per il 94,88% sono senza sintomi di presenza di punteruolo rosso, mentre il 2,38% hanno un attacco di punteruolo allo stato iniziale, il 2,06% delle palme sono già bell’e morte e lo 0,68% sono state messe in sicurezza ovvero coperte per non far sfarfallare gli adulti e nessuna di queste ha avuto un ricaccio.
Insomma ad Acquarica del Capo il punteruolo rosso è presente provocando una infestazione allo stato iniziale.
La collega Nutricato ha proseguito fornendo i dati di palme colpite nei paesi confinanti con Acquarica. A Ruffano il CODILE ha rilevato il 17,87% delle palme colpite, a Specchia il 13,34%, a Presicce l’11,01% ed infine a Taurisano il 20,2%.
Acquarica è circondata dal punteruolo rosso, anche se l’infestazione che è in atto è allo stato iniziale.
All’inizio di questa nota ho esposto le varie sintomatologie che rilevano la presenza dl punteruolo rosso. La collega Nutricato ha affermato che non sempre si ha il “preavviso” tramite i sintomi, ma sempre più spesso si assiste a palme colpite, sia che siano alte 30 centimetri che 20 metri, che manifestano solo lo stadio di ombrello aperto, magari dopo una giornata di vento!
Sempre la collega ha riferito che l’infestazione è in rapida evoluzione.

Afferma il prof. Giuseppe Barbera “dove c´è ricchezza di specie e alta biodiversità c´è complessità e quindi stabilità, ma dove al contrario si impone la monocoltura, i cicli vitali della materia e dell´energia si interrompono, saltano gli equilibri tra le popolazioni di piante e di animali, gli ecosistemi si indeboliscono. Gli organismi più forti, i più adatti alle nuove circostanze, prendono il sopravvento. Ed ecco un nuovo pericolo per la delicata coesistenza dell´uomo e del pianeta che lo ospita: gli spazi delle monocolture tropicali, con il loro carico di pesticidi che uccide i naturali nemici dell´insetto letale e di erbicidi che seccano le erbe e i cespugli dove questi avrebbero potuto rifugiarsi, divengono stretti.

Rosso per il colore ferruginoso e come ogni pericolo di cui si ha vero timore non conosce confini, il punteruolo li supera facilmente e nei nuovi ambienti, non frenato da nemici naturali, si diffonde a grande velocità.”

Hanno chiesto a gran voce cosa fare i convenuti ad Acquarica, tanti i rimedi proposti, anche se tutti prevedono che per tenere in vita una palma c’è bisogno di trattamenti preventivi costosi da effettuare per l’eternità!

Concludo con un’altra notizia data dal prof. Barbera, che ci rivela un altro modo di controllo del punteruolo rosso: “In Nuova Guinea anche l´uomo contribuisce a suo modo al controllo biologico. Mangia le grosse larve carnose, le raccoglie affondando le mani all´interno dello stipite ridotto a una calda, fermentante poltiglia. Bisognoso di proteine animali (in Nuova Guinea la cacciagione è di piccola taglia e poco nutriente), soddisfa così la vitale necessità di vitamina B, di ferro e di zinco. Le larve del punteruolo aiutano i bambini guineani a crescere sani senza mostrare il gonfio addome di chi mangia poche proteine e molti carboidrati e portate al mercato consentono una piccola economia di scambio.”
Che dire? Presto avremo a pranzo un bel piatto fumante di punteruolo rosso alla genovese?

Bibliografia

Giuseppe Barbera, Il viaggio dell’insetto che uccide le palme http://palermo.repubblica.it/dettaglio/Il-viaggio-dellinsetto-che-uccide-le-palme/1413117

Galline e frutta. Un binomio possibile

Le uova “biologiche”

nei frutteti del Salento leccese

di Antonio Bruno

Ogni anno sul territorio dell’Unione Europea vengono allevate oltre 400 milioni di galline ovaiole, circa il’68% delle quali sono rinchiuse nelle gabbie di batteria degli allevamenti intensivi. Nel 2008 la consistenza nazionale degli allevamenti avicoli di  galline ovaiole è stata di 58 milioni di capi. Negli allevamenti in batteria, ogni gallina ha a disposizione uno spazio di soli 550 cm2, di poco inferiore a quello di un foglio a A4, nel quale è impossibile per l’animale compiere movimenti naturali, stirarsi, aprire le ali o semplicemente girarsi nella gabbia senza difficoltà. In questa nota i suggerimenti del prof. Donno per l’impianto di frutteti nei parchetti esterni di allevamenti “biologici”di galline ovaiole al fine di conciliare l’esigenza di zone d’ombra con una produzione di frutta.

Salento terra di santità/ San Dana

di Angelo de Padova

Vissuto nel IX secolo, originario di Valona (Albania), S.Dana approdò nel Capo di Leuca insieme con alcuni suoi connazionali. Prestò servizio, come diacono, nel Santuario di S. Maria di Leuca.

In seguito a una incursione di Mori, nell’approssimarsi delle navi saracene, il giovane diacono prese con sé la pisside con l’Eucaristia e fuggì verso Montesardo, luogo sicuro e difeso.

Ma lungo il percorso a 5 miglia da Leuca, in località “La Mora” fu raggiunto e ucciso in odio alla fede cristiana. Ebbe il tempo di consumare le Sacre Particole per non esporle alla profanazione.

Sul luogo del martirio sorge una stele marmorea, che dista circa 200 metri dal paesino che porta il suo nome. La festa si celebra il 16 gennaio.

La linea all’orizzonte

di Pier Paolo Tarsi

La linea all’orizzonte può divenire insopportabile se su di essa si posano gli occhi con rabbia. Il suo noto carattere indefinito, sfuggente, vischioso, non si presta come un ausilio all’animo di chi cerca un ruvido oggetto sul quale fare aderire il veleno da cui è assalito. Non ci si può scagliare contro l’orizzonte, lo sforzo è vano, fa schiumare il sentire rabbioso, lo porta ad ebollizione.

Ma ancor più detestabile dell’orizzonte diviene il panorama alle spalle della rabbia quando questo è vago, indistinto. La rabbia che non sappiamo da quale angolo del nostro passato sia generata è un male che appesta il sonno, i gesti, i pensieri, spingendo la vita nel corto circuito del male d’esistere.

 

Circondati da un’invisibile prigione tra l’orizzonte e l’indistinto, sia nel tempo che nello spazio, il veleno può solo avanzare in noi, diffondersi nelle nostre vene, conquistare centimetri nei capillari, farsi linfa per il cuore che ne viene asservito, sopraffatto una spinta dopo l’altra. La rabbia a questo punto non ambisce più ad un oggetto, non cerca più una direzione: noi siamo divenuti essa stessa, contro chiunque, contro ogni cosa. Non importa.

L’orizzonte allora non allude più alla vaghezza, il passato è fin troppo definito per non odiarlo tutto, in ogni sua piega: la rabbia fattasi carne, e piedi, e mani può prendere qualunque direzione, sceglierne una qualunque per i suoi scopi perché è il tutto che ormai le interessa, ogni cosa la riguarda.

Questa è la superiorità della rabbia di razza umana: può detestare tutto nel medesimo tempo, non ha più niente del dato biologico, non è ormonale, è etica, è il male! Non le importa più qualche aspetto singolo del mondo, vuole la totalità.

Il mito di Pandora oltre l’utopia

Dante Gabriele Rossetti (1828 – 1882), Pandora (da http://www.liverpoolmuseums.org.uk/)

di Gino Schirosi

“Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi…” – strilla il venditore nel celebre dialogo delle Operette morali di Leopardi. Ma il poeta ha da ridire, non condividendo la consuetudine di rinnovare brindisi augurali per l’anno nuovo. Secondo la sua amara visione della vita, è cerimonia assurda: la felicità non esiste! Esiste solo l’illusione che si colloca non nel presente ma nel passato, come ricordo che continua a logorarci, o nel futuro, come speranza che ci lusinga e poi ci inganna prima di cedere le armi alla resa. Meglio astenersi dal salutare “l’anno che verrà”, soddisfatti dei risultati comunque conseguiti! Sconcertante ma giustificato! Già l’essere sopravvissuti per ricominciare costituisce motivo probante a festeggiare la conclusione di una tappa della nostra vita, col meritato addio al tempo ormai alle spalle. Non è poco l’aver superato indenni una lunga serie di esperienze, miste di sogni e delusioni. Anche se tutto è relativo, non c’è chi possa asserire che il 2010 è stato più propizio del 2009 o il 2008 più del 2007. E il 2011 quali garanzie ci può offrire o quale sorta di felicità ci promette rispetto all’anno trascorso? Perché allora rivoli di denaro in fumo, fragorose frenesie vanificate in aria tra folli sprechi e sperperi all’insegna del conformismo e a dispetto dell’angosciante urgenza della storia? Avrà pure un limite di decenza la corsa all’irrefrenabile consumismo a fronte della morale comune e della drammaticità del presente, paradigma di una umanità da se stessa ferita, tristemente allo sbando!

Nicolas Réignier, Pandora

L’uomo non ha ancora superato lo stadio ancestrale della sua genesi. Il peccato d’origine (superbia e cupidigia) resta protagonista delle vicende umane, tra epidemie, cataclismi, paure di miseria, terrore, morte. Può il male sbandierare ancora al vento il vessillo del suo trionfo? L’uomo è cieco e sordo, sempre più distante dalla vera passione, che non è il denaro, effimero e venale. Dio, creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, dopo un breve riposo, ha avuto il tempo di riflettere sin dall’ottavo giorno. Poi ha inviato la “luce tra le tenebre” che non l’hanno riconosciuta né accolta. Ma continuerà a meditare per l’eternità! Pare intanto essersi rammaricato della sua creazione per le irrazionali malefatte delle sue creature. E con noi si mostra distratto, forse per non avergli creduto abbastanza. Ma, a dirla con Manzoni, c’è da fidare: “Dio non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande”. Anzi, assicurava papa Giovanni Paolo II, “non ci abbandona mai, anche nelle prove più difficili e dolorose”. Chi può scrutare nella mente dell’Altissimo per interpretare i segni e i disegni divini?

“Sì che tu sei terribile!” – proruppe Manzoni quasi blasfemo e irriverente allorché fu visitato dal Signore in occasione dell’immatura perdita della sua “musa”, la giovane Enrichetta (Il Natale del 1833). Il manrovescio della malasorte è sempre in agguato e nessuno lo può mettere in conto: Ercolano e Pompei, Messina e Reggio Calabria, Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki, New York, Indonesia, L’Aquila, Haiti… Ma sono tante le devastanti tragedie con fatali “tsunami” e sismi in ogni angolo del mondo, ogni giorno e con voci abituali, in un silenzio privo di allarmismi (per non parlare di epidemie, fame, guerre)! Senza accendere riflettori o scomodare termini biblici: apocalisse epocale, diluvio universale, ecatombe, inferno, come si usa nel tipico e stereotipo linguaggio mediale! Al bivio della storia, per mutare logica e stile di vita, due le alternative: illudersi di persistere in siffatto modello “epicureo”, fidando il meno possibile nel domani (“Carpe diem” oraziano) o credere in qualcosa di positivo e sperare nella Provvidenza. Ma cos’è la speranza?

Il mito di Pandora è un messaggio criptico ancora da decifrare. C’è chi si ostina passivamente a vedere nella speranza un supino, placido adagiarsi su una situazione di comodo, privata di stimoli e proiezioni verso un anelito di evoluzione sociale (“le magnifiche sorti e progressive” dell’umanità, di cui diffidava Leopardi). Anche se il Cristianesimo ne ha ribaltato il presupposto mitologico o pagano, con altra interpretazione ideologica, quella leggenda è lezione morale da approfondire.

Pandora fu la prima donna del mondo classico e, come la biblica Eva, fu origine di ogni rovina, cagione di tutti i mali che affliggono l’umanità, tra cui la morte. Zeus, invidioso del progresso umano foriero di felicità, secondo il vecchio motivo della speculazione greca sugli dei (Euripide, Alc. 1135), era adirato con Prometeo, il previdente, per il furto del fuoco donato agli uomini. Per punizione commissionò ad Efesto di plasmare con terra ed acqua una bella figura di donna. Gli dei fecero a gara per ben dotarla: Afrodite col fascino della bellezza, Atena con le abili arti, Ermes con l’ingegno. Da ciò l’appellativo di Pandora (ricca di tutti i doni). Zeus, malevolo, le offrì però una scatola chiusa che conteneva, inoffensivi, tutti i mali del mondo: malattia, guerra, povertà, vecchiaia, morte… La diede poi in sposa ad Epimeteo, lo sprovveduto fratello di Prometeo. Ma la sventurata, indotta per curiosità muliebre o per volere divino, aprì la scatola e i mali là racchiusi volarono via diffondendosi sulla terra. Accortasi dell’errore, fece tuttavia in tempo a richiudere il coperchio costringendo all’interno la sola fallace speranza, ormai innocua, l’eterno desiderio verso cui è però diretto ogni istinto e progetto dell’umana esistenza, l’ultimo dei mali, astratto e invisibile, che rode dentro e arrovella ogni coscienza insoddisfatta, vittima del bisogno, traviata dall’ambizione, dall’inquietudine e dall’attesa.

La storia si compone di varie fasi tese al progresso ed alla civilizzazione del genere umano, pur con risvolti non sempre positivi: l’età dell’oro (felicità), dell’argento (accidia), del bronzo (violenza), del ferro (decadenza morale), del petrolio (consumismo), dell’atomo (paura). Segue l’incognito, un mondo condannato al peggio che non si conosce, in balia del fato, dominio del male estremo, la morte. Ma, dinanzi a questo dramma esistenziale, è un dovere vincere la paura per esorcizzare il fantasma del nulla ed evitare la disperazione, cui l’uomo è comunque destinato (sì come teorizzato da Sartre).

Oggi, assaliti dal dubbio di una crisi d’identità smarrita, si parla di era tecnologica e mediatica di globalizzazione, con conseguente crisi di valori e caduta di certezze. L’unico rimedio in un mondo senza anima è l’ottimismo: pensare in positivo e sperare aprendoci all’altro, alla cultura della solidarietà, l’unica ancora di salvezza, la zattera possibile. Non tuttavia l’ottimismo di Leibniz, ossia la rassegnazione (“questo è il migliore dei mondi possibili”), né di Voltaire con la soluzione di Candido, la resa come rifugio nel proprio orticello, segno di egoismo e irresponsabile rifiuto della socialità (il finale di Renzo nel romanzo manzoniano). La speranza, a fronte del pessimismo della ragione, non può non essere che l’ottimismo della volontà, ossia il “volontarismo” come realtà possibile (secondo la lezione gramsciana). Deve mostrarsi attiva e dinamica, governata come la fortuna machiavellica, inseguita con audacia e scaltrezza ma pure assecondata. Può essere l’avventura dell’ignoto, il rischio del nuovo per una vita più proficua, la partenza per lidi fortunosi, dove sfuggire rassegnazione e sconfitta (la scelta del giovane Malavoglia nell’ultima pagina lirica dell’opera verghiana). Attendere la speranza non ha alcun profitto, neanche se sorretta da pie illusioni (quelle foscoliane), che non creano solide certezze oltre la poesia. Neppure è consolatrice come ultima dea, perché nulla può affiorare al di là dell’ultima spiaggia, nulla se non di rado e prodigioso.

La vera speranza, in chiave cristiana ed escatologica,  si arricchisce invece di doti insite nell’umano intelletto, corroborata dalle virtù, la fede e l’amore, specie per gli ultimi della terra. Ma è rassicurante e feconda a condizione che risponda in pieno allo spirito filantropico di solidarietà umana e sociale, segno di civiltà. Se non è fondata e salda diviene realtà sempre più diafana ed evanescente. Senza un credo, l’ottimismo non ha luogo d’essere, si fa utopia (non-luogo), impossibilità presente e futura, angoscioso male di vivere, ossia pessimismo e persino nichilismo, malattia delle società opulente occidentali, come nel pensiero, ancorché dissimile, di Nietzsche e Heidegger.

Eppure l’uomo alle origini viveva morigerato e parco, anzi erano tutti eguali e beati, finché per invidia gli dei, sospettosi della felicità dei mortali, inviarono sulla terra il “Piacere” a provocare sconcerto, dissidio, a dividere l’umanità in plebe e nobiltà. Davvero singolare e intrigante la favola sapientemente satirica di Parini. Dalla discriminazione in classi ebbero inizio ineguaglianza e ingiustizia: il bisogno e la sofferenza per gli uni, la ricchezza e il lusso per gli altri, l’ingenuità, il sacrificio e la precarietà da una parte, l’astuzia, la corruzione e la lussuria dall’altra. L’eguaglianza di partenza fu snaturata e l’umanità fu condannata ad una lotta di classe impari ed ardua. Le resta l’antico sogno: ripristinare la primitiva parità sociale, debellare l’individualismo, per riscattare se stessa e uscire dal tunnel di una depressione amara ed esasperante. Costretta a patire una condizione di crisi esistenziale e d’infelicità, tra disagi e incertezze, non sembra ancora in grado di trovare una via d’uscita e di salvezza.

L’unica alternativa cui affidare le aspettative più ottimistiche è l’unità nel collettivo (la “social catena” dell’ultimo Leopardi nella Ginestra). Una speranza certa rimane la società costituita, ossia lo Stato, garanzia assoluta, la più affidabile, al pari della fede. Lo Stato però ha il dovere di porsi al servizio dei cittadini nella misura in cui essi, per capacità produttive e contributive, sono al suo servizio senza furberie o egoismi, al fine di renderlo più sicuro ed efficiente, vicino a problemi e bisogni generali, secondo norme democraticamente sancite per il bene comune. Il solo pensare di fare affidamento ad una forma di Stato privatistico, indifferente e patrigno, e per tal progetto affannarsi a signoreggiare l’agone politico sarebbe un abbaglio. È come prendere a calci una realtà oggettiva che non si prostituisce supinamente a calcoli di egemonie illiberali o demagogie qualunquiste. La legge del più forte, con la gestione arrogante del potere tra soprusi e privilegi scientificamente pianificati, appartiene alla giungla o al medioevo, non si addice alle moderne democrazie evolute dell’Occidente.

Potremmo solo augurarci che la speranza, come male innocuo, sia davvero rimasta prigioniera di Pandora. Nessuno si sentirebbe obbligato a sperare! Chi non spera, senza arrendersi, ha quasi tutto o quanto meno è ricco di potenziali certezze. Altrimenti, in attesa che si compia un prodigio, non rimane che lottare perché i poveri siano meno poveri e soprattutto più felici, in una società più equa, più umana. È dovere civico – osservava Ciampi – “guardare con fierezza al passato e con serenità al futuro”, forti della propria dignità, con valori e ideali condivisi. Sarebbe una fortuna se il più povero tra i poveri, pur con risorse inferiori, potesse un giorno sorridere alla pari del più ricco tra i ricchi. La vita è bella così, ci rasserena Benigni, ma lo dev’essere per tutti. È bene tuttavia che ci accompagni e sempre ci sorregga il sorriso! Tra ambasce personali e storiche sciagure ci attendono ulteriori ostacoli da superare, con qualche gioco da fare e, chissà, la possibilità di un bel premio finale da vincere. Anche se la felicità assoluta non è di questo mondo, ma è solo relativa ed episodica. Se mai si possa domani godere in eterno, oggi il solo sperare non costa proprio nulla!

Nella prospettiva di un miracolo salvifico, questo l’auspicio per il tempo a venire: rattoppato il buco dell’ozono, la natura e il paesaggio senza condoni, una umanità cosmopolita, una pace planetaria, una realtà politica ormai l’Europa unita, l’Italia prospera e competitiva fuori dal tunnel, Paese normale e garante, il Mezzogiorno scommessa di Stato, la Puglia feudo di nessuno, possibile e giusta, il Salento prestigioso per qualità della vita, Gallipoli gratificata da amministratori lungimiranti, la nostra comunità serena, la gioventù rassicurata senza ali spezzate, ciascuno più fiducioso nel domani, nel trionfo del Bene sul Male assoluto. Forse è un’ingenua iperbole, ma non è mai abbastanza. Se potrà sembrare sterile persino il sognare, non ci resta che collaborare per lo stesso obiettivo, come traguardo cui credere fermamente. Privi di velleità progettuale, la speranza sarà una mina vagante, un male cronico destinato ad acutizzarsi, per farsi disperata utopia, totale rifiuto di un ottimismo di fondo. E intanto godiamoci la fine di quest’anno perché effettivamente, pur in una corsa ad ostacoli, ci siamo giunti incolumi, ma prepariamoci per un altro viaggio da compiere giorno dopo giorno senza vane o pie illusioni.

Prezzi bassi. Non è più conveniente raccogliere le olive. Appello per porre rimedio alla crisi della coltivazione dell’olivo del Salento

 

I 9 milioni di olivi del Salento leccese 200 anni fa, così come oggi, rischiarono la mattanza

di Antonio Bruno

Oggi l’olio lampante del Salento leccese, per la sopraggiunta “globalizzazione”, è vittima di un basso prezzo. Nei primi anni del 1800, per il “blocco napoleonico” che decretò la fine del movimento commerciale, l’olio del Salento leccese rimaneva invenduto.

La Società Economica di Terra d’Otranto attraverso un azione di consulenza puntuale, costante e convinta riuscì a sfangare dalla stagnazione l’olivo del Salento leccese. La Provincia di Lecce sarà per l’Olivo del Salento leccese ciò che fu la Società Economica di Terra d’Otranto?

L’olivo è la storia del Salento leccese e il senso della storia dell’olivo è, nello stesso tempo, fuori dalla storia del Salento leccese.
Già! Gli effetti delle azioni umane vanno sempre oltre l’intenzionalità specifica degli uomini; l’uomo fa più di quanto sa e, spesso, non sa quello che fa! Giovambattista Vico, ricordi?

Dicono che ogni civiltà ha un suo corso fondamentalmente progressivo, il quale, giunto al suo apice, si arresta ed entra in crisi.

L’olivo del Salento leccese oggi è in crisi!

Le cronache registrano da alcuni anni prezzi da acqua minerale, decretando la crisi della coltivazione dell’Olivo del Salento leccese!
Se ci fermiamo un attimo e andiamo indietro a più di due secoli fa, ai primi del ‘800, ecco che è come se stessimo rifacendo quel percorso. Oggi l’olio lampante del Salento leccese per la sopraggiunta “globalizzazione” è vittima di un basso prezzo. Allora, per il “blocco napoleonico” che decretò la fine del movimento commerciale, l’olio del Salento leccese rimaneva invenduto. In quegli anni accadeva ciò che accade oggi: i proprietari non trovavano più la convenienza a raccogliere le olive, che restavano incolte sul terreno e, siccome nel Salento leccese non era più in vigore la “Costituzione di Solone”, che  puniva con la morte chi avesse abbattuto un albero di olivo, i nostri padri fecero abbattere i maestosi alberi cari a Minerva per usarli come combustibile!
Solo nel 1815, dopo il Congresso di Vienna, il prezzo dell’olio riprendeva quota, mentre invece l’esportazione riprese solo dopo il 1818.
Un miracolo? No! Ci fu la Società Economica di Terra d’Otranto che, attraverso un azione di consulenza puntuale, costante e convinta, riuscì a sfangare dalla stagnazione l’olivo del Salento leccese.

Vincenzo Balsamo un economista ed agronomo del Salento leccese pubblicò uno studio sul commercio dell’olio sul Giornale di economia rurale che fu un formidabile manuale per gli operatori del settore.
Ma i guai del nostro caro olivo non finirono, perché appena dopo 20 anni, e più precisamente dal 1845 al 1851, il commercio dell’olio si affievolì entrando in una grave depressione. Il nemico dell’olio d’oliva del Salento leccese fu l’olio di sesamo che cominciava ad apparire sul mercato!

ph Francesco Politano

La Società Economica di Terra d’Otranto indirizzò le consulenze sul miglioramento della qualità e cominciò un’opera di miglioramento delle tecniche di coltivazione e, contemporaneamente, riuscì a spingere il governo a votare una legge che evitasse la frode!
Il Regio Decreto del 12 dicembre 1844 n. 9158, emanato da Ferdinando II di Borbone, prescriveva la necessità di un “certificato di origine“ per l’olio di oliva. Insomma, com’è evidente, l’Unione Europea non ha scoperto nulla quando ha decretato la “modernissima” trovata dell’olio a Denominazione di Origine Protetta, acronimo D.O.P Terra d’Otranto.

Oggi l’Assessorato Regionale all’Agricoltura delle Puglie ha riconosciuto nei territori del Salento leccese in cui c’è la produzione D.O.P. dell’olio extravergine di oliva “Terra d’Otranto” le “Strade” dell’olio d’oliva.

In provincia di Lecce ce ne sono due: “Adriatica – Antica Terra d’Otranto” e “Ionica – Antica Terra d’Otranto”.
Le “Strade” dell’Olio di Oliva sono percorsi educativi intesi a tutelare e valorizzare i territori olivicoli. Sono state istituite per aumentare l’interesse sotto l’aspetto turistico, paesaggistico e naturalistico degli itinerari enogastronomico-turistici. In questi percorsi possiamo immergerci negli uliveti secolari, visitare i trappeti storici, i musei, i centri antichi caratteristici, i siti archeologici, le osterie, le locande, i laboratori e le botteghe artigiane.

Lo scorso 2 dicembre 2010 ho preso parte ai lavori del Tavolo agricolo provinciale che la Provincia di Lecce ha convocato a Palazzo dei Celestini per esaminare congiuntamente le criticità del comparto olivicolo salentino e per individuare i provvedimenti a sostegno.
Ho registrato la dichiarazione del presidente Antonio Gabellone: “Vogliamo vedere chiaro sulla crisi del comparto olivicolo… Questo tavolo è propedeutico ad un Consiglio Provinciale monotematico in cui analizzeremo le cause e ricercheremo dei percorsi virtuosi che possano portare alla soluzione dei problemi. Sono certo che da questo lavoro verrà fuori una proposta snella e condivisa che possa aiutarci nel nostro intento”.
Importante è stato l’appello alla coesione lanciato dall’assessore Francesco Pacella: “Il comparto deve parlare con un’unica voce, bisogna aggregare enti ed associazioni di categoria per risolvere la crisi. La Provincia ha un ruolo marginale che, però, a livello territoriale può essere importante per fare in modo che l’intero comparto parli con una sola voce. Questo Tavolo dovrà approfondire le problematiche e giungere ad un documento programmatico in cui siano fissate le politiche del futuro, in particolare con riferimento al Programma Agricolo Comunitario… Non ci sono bacchette magiche, dobbiamo sforzarci di trovare il giusto equilibrio tra un’agricoltura che rispetti il territorio e che, contemporaneamente, aiuti ad uscire dalla crisi. Questo si potrà ottenere qualificando il prodotto, migliorando i servizi legati al comparto, il turismo agricolo, la difesa del paesaggio, il coinvolgimento delle nuovi generazioni che devono essere stimolate ad investire in questo settore”.
La Provincia di Lecce sarà per l’Olivo del Salento leccese ciò che fu la Società Economica di Terra d’Otranto?

Bibliografia

Franco Antonio Mastrolia, Origine e sviluppo dell’olivicoltura

Giornale di economia rurale, pubblicato dalla Società Economica di Terra d’Otranto. Lecce. Tipi di Agianese, 1840. I voll. X e XI, stampati nella Tip. dell’Ospizio Garibaldi, nel 1855 e nel 1858, recano questo titolo: Giornale di Economia rurale e Atti della ‘Reale Società Economica di Terra d’ Otranto. Vi collaborarono : Vincenzo Balsamo, Gaetano Stella, Martino Marinosci, Giuseppe Costa, ecc.         B., 24 I voll. X e XI nelle Miscellanee De Giorgi in Bibl. Prov.; Collezione completa nella Biblioteca dell’Orto Agrario di Lecce ; nella Biblioteca del Seminario di Lecce : voll. I a 7.

MURRONE A., Un economista ed agronomo salentino: Vincenzo Balsamo. I, La, XIV (1998), 2, pp. 95-101.

Le Monografie storiche di Giuseppe Ressa http://www.ilportaledelsud.org/monografie_ressa.htm

Piccoli tesori nascosti nel centro storico di Lecce: un’edicola di San Francesco da Paola

di Giovanna Falco

A Lecce vecchia, in piazzetta Scipione da Summa, nelle vicinanze del monumentale palazzo Giaconìa, un piccolo giardino chiuso fa da scrigno a un’edicola votiva dedicata a San Francesco da Paola[1].

ph Giovanna Falco

Lo stato d’abbandono in cui versa lo slargo è evidente. Una certa devozione nei riguardi della sacra immagine si denota dall’infisso in alluminio montato per preservarla. L’edicola sembrerebbe posata su una trave in cemento, probabilmente il simulacro in passato si trovava in un altro luogo, tant’è vero che nel puntuale e bel lavoro di Giuseppe De Simone Lecce. Le edicole sacre del borgo antico[2], questa nicchia non è menzionata.

Non si ha, dunque, alcuna notizia di questo piccolo monumento, che nella sua cornice lapidea denota tratti stilistici tipicamente seicenteschi, mentre l’immagine del Santo presenta numerose lacune.

L’area in cui è ubicato il giardinetto, è limitrofa a un palazzo segnalato nell’elenco degli edifici e manufatti sottoposti a vincolo di tutela dal Piano Regolatore di Lecce, con il n. 120[3]. Questo edificio, ormai cadente, è in fase di rifacimento. Non si sa se il giardino sia di pertinenza di questo palazzo o ricade in un’altra particella catastale. Attualmente è chiuso da una grata in metallo, così come si denota dalla foto.

La vicinanza al complesso conventuale dei Minimi di San Francesco da Paola fa presupporre che potrebbe esserci un nesso tra l’edicola e questo pio luogo, voluto nel 1524 da Giovannella Maremonte, su disposizione testamentaria del marito Bernardo Peruzzi. All’epoca l’area dove ricadono giardino, chiesa e convento, era situata al di fuori dalle mura cittadine, realizzate a partire dal 1546 da Gian Giacomo dell’Acaya, quando questa porzione di campagna fu inglobata nel tessuto urbano di Lecce.

Qui, tra il complesso conventuale e il giardinetto con l’edicola, il vescovo di Castro Angelo Giaconia iniziò a costruire il monumentale palazzo, passato in proprietà al vescovo Daniele Vaccardo e poi all’illustre umanista Vittorio de’ Prioli. Costui nel 1606 lo abitava, così come denota la denominazione dell’isolato elencato in quell’anno nella parrocchia di Santa Maria della Porta[4]. Dopo la morte di Prioli, avvenuta nel 1619, continuò ad avere la stessa denominazione e nel 1631 l’isola di D. Vittorio è compresa, nella parrocchia della Madonna della Porta, tra quelle di Lup. Ant.o Costa e di S. Gioe (ovvero di San Giovanni Evangelista delle suore Benedettine)[5].

Non è dato sapere se il giardinetto ricadesse nell’isola di D. Vittorio o in quella di Costa, dove abitavano quarantatré nuclei familiari[6].

L’esistenza del palazzo, riportato tra i monumenti sottoposti a vincolo dal Piano Regolatore di Lecce, fa presupporre che il giardino fosse di pertinenza di una ricca dimora. La casa di Giovanni (o Giovanna) Paladini è la prima dell’isola di D. Vittorio, elencata con il numero 95. Leonardo e Gio. Filippo Prato abitavano nell’ultima casa dell’isola di Lup. Ant.o Costa, con la numerazione 94.

Naturalmente queste sono supposizioni che possono essere verificate solo portando a termine una puntuale ricerca.

Potrebbe datare l’opera un’approfondita analisi del dipinto nella nicchia seicentesca.Il Santo è rappresentato con la consueta iconografia: vestito di un saio, con il bastone in mano ed la barba bianca fluente; il motto dell’Ordine dei Minimi, Charitas, è posto nell’angolo in altro a sinistra.

ph Giovanna Falco

Nel centro storico di Lecce vi sono altre quattro edicole dedicate a San Francesco da Paola, datate dalla seconda metà dell’Ottocento in poi e commissionate da privati cittadini[7]. La loro fondazione denota una devozione popolare per il Santo taumaturgo, che continua a essere perpetuata a distanza di secoli dalla divulgazione del suo culto in città.

A pochi anni dalla Canonizzazione del frate, proclamata da papa Leone X nel 1519, Giovanna Maremonte, residente a Firenze, «mandò» a Lecce «Frà Giovanni Francese, ch’era stato compagno del detto San Francesco»[8] con il compito di edificare chiesa e convento dedicati a Santa Maria degli Angeli: era il 1524. La comunità dei Minimi fu rappresenta a Lecce anche dal Secondo Ordine, o Paolotte: nel 1542 Antonio e Gio. Pietro De Marco fondarono per le tre sorelle nubili il Convento di Santa Maria degli Angelilli detto l’Annunziata (attuale palazzo Carafa), dove le pie donne osservavano una «vita quaresimale co(n) molto rigore, & osserva(n)za»[9]. Il culto di San Francesco da Paola si diffuse a Lecce, così come denotano gli altari nelle chiese di Sant’Antonio della piazza (San Giuseppe), dov’è riposta una statua lignea policroma datata 1581; di Santa Croce, dov’è lo splendido altare commissionato dal barone di Sternatia Giovanni Cicala e realizzato da Francesco Antonio Zimbalo tra il 1614 e il 1615; nella chiesa di Sant’Anna, realizzata da Giuseppe Zimbalo tra il 1684 e il 1764.

Il culto di San Francesco da Paola riprese vigore nel 1857, quando Ferdinando IV concesse alla Confraternita Maria SS.ma presentata al Tempio (la cui sede sin dal 1688 si trova presso la chiesa di Santa Maria degli Angeli) di aggiungere il nome del Santo calabrese, ovvero Confraternita di Maria SS.ma presentata al Tempio e S. Francesco da Paola[10].

Il piccolo simulacro in piazzetta Scipione da Summa è parte della storia cultuale di San Francesco da Paola, meriterebbe, dunque, di essere studiato approfonditamente, per aggiungere un nuovo tassello alla storia dell’arte e della religione leccese.


[1]L’edicola è in un giardinetto ubicato, oltrepassando l’incrocio con vico dei Raynò, a destra.

[2]G. DE SIMONE, Lecce. Le edicole sacre del borgo antico, Lecce 1991.

[3]Cfr. Tavola 3.11 Edifici vincolati e proposti per il vincolo nel centro storico, del Documento Programmatico Preliminare al Piano Urbanistico Generale.

[4] Cfr. N. Vacca, Lecce nel ‘600. Rilievi topografici e demografici. I gonfaloni dei quattro «pittagi» che componevano la città, in “Rinascenza Salentina”, VII, 1939, 1, pp. 91-95.

[5] Cfr. P. DE LEO, Uno sconosciuto stato delle anime della città di Lecce del 1631, in “Almanacco Salentino 1968-69”, Cutrofiano 1968, pp. 57-66.

[6]L’isola di D. Vittorio nel 1631 ospitava trentaquattro famiglie, tra cui quella di Giovanni Paladini con Isabella e Maria Mattea una schiava e il cocchiere. Probabilmente vi fu un errore di trascrizione da parte dell’amanuense, perché Giovanni Paladini non dovrebbe essere altri che la vedova di Vittorio de’ Prioli, Giovanna, figlia di Luigi barone di Campi. Oltre a Paladini (residente nella 95a casa), vivevano in quest’isola Maria Donata Paladini con i fratelli Carlo e Titta (106a casa), Orazio della Lena (111a casa), D. Diego dello Giovanne (117a casa), e la famiglia di Angelo Marangio (123a casa).

[7] Cfr. G. DE SIMONE, op. cit., pp. 54-55, 78-79, 96-97, 126-127, 160-161.

[8] G. C. INFANTINO, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), p. 93.

[9] Ivi, p. 177.

[10] Cfr. G. DE SIMONE, op. cit., pp. 203-204; A. M. MORRONE, I pii sodalizi leccesi, Galatina 1986, pp. 92-95.

La messa te le villane

 

di Alfredo Romano


Nònnuma lu Pascalinu, quandu abitava a Nnevianu, a ddhunca facìa l’uccièri, tenìa casa a via Roma, propriu te frunte a ‘nnu palazzu te signuri.
Addhai ca ‘na tumènica mmatina, nfacciata a llu balcone te sti signuri nc’era tonna Rusina, ca, vitendu nònnuma ca sta’ ‘ssia te casa, aźàu voce e llu chiamau:
«Pascalinu? Pascalinu?»
«Cumandi![1] tonna Rusina,» prontu nònnuma.
«Sai gnenzi ci è bessùta la messa te le villane?»
«Sine,» ne rispuse nònnuma, «ca mo’ ccumìncia quiddha te le bbuttane!» [2]

Traduzione

Mio nonno Pasqualino, quando abitava a Neviano, dove di mestiere faceva il macellaio, aveva casa in via Roma, proprio di fronte a un palazzo di ricchi

Accorgimenti necessari per ottenere un olio di qualità

Olive buone al frantoio danno il succo di frutta d’oliva che cura ogni ferita

 

di Antonio Bruno

 

da http://www.spaziodieta.com/

Sui 9 milioni di alberi della foresta degli ulivi del Salento leccese le olive maturano quasi contemporaneamente e se non le moliamo subito possono essere sottoposte a processi di fermentazione che le ammalano! In questa nota gli accorgimenti necessari per ottenere un olio di qualità

Come più volte ho scritto nel Salento leccese vi sono 85mila ettari di foresta degli ulivi che conta in totale di 9 milioni di alberi. Siccome siamo pressoché tutti in pianura non c’è gradualità di maturazione ed ecco che le olive maturano tutte in un periodo! Se non moliamo subito le olive  possono avere processi di fermentazione che le ammalano!
Tutto questo è fondamentale per l’ottenimento di un olio di qualità infatti le olive vanno ai frantoi che hanno delle macchine che lavorano in continuazione e se, una partita di olive malate viene lavorata, questa inquinerà certamente le macchine che quindi subiranno un influenza negativa dai composti contaminanti che rimangono al loro interno, contaminando le olive sane lavorate successivamente alla partita malata.
Ecco perché dopo aver prodotto olive sane si deve andare in un Industria Agraria chiamata Frantoio, diretta da un professionista Dottore Agronomo Elaiotecnico, e se c’è questa figura professionale all’interno dell’industria, potete stare certi che una linea continua che dalle olive ottiene l’olio verrà riservata alle olive sane che daranno con certezze olio di qualità

Con l’affermazione che ho scritto non intendo in alcun modo sminuire le olive malate che danno olio cattivo, perché sappiamo tutti che c’è un economia dell’olio cattivo. Per questo c’è necessità di avere distinte e distanti le olive sane da quelle malate, facendole lavorare da linee continue distinte.

Le olive, una volta defogliate e ben lavate, arrivano nella tramoggia di ricevimento, dove una coclea azionata da un motoriduttore alimenta il frangitore che è dotato di una griglia fissa con canali di scarico e di una girante a coltelli incavi. Sembra turco vero? Invece leggete il seguito e capirete.

La frantumazione delle olive deve avvenire con l’attrito volvente dove il rotolamento è reso possibile dalla presenza di attrito radente statico tra la ruota e le olive; se questo attrito non ci fosse, o fosse molto piccolo, la ruota striscerebbe senza riuscire a compiere un rotolamento puro, nel qual caso entrerebbe subito in gioco l’attrito radente che di fatto preme e che bisogna assolutamente evitare per ottenere un olio di qualità.
Il frangitore ha la funzione di frantumare le olive. E’ un cestello come quello della lavatrice che ha dei buchi e una svastica della quale i martelli sono gli estremi.

Il Dottore Agronomo Elaiotecnico ha il compito di stabilire che tipo di griglia e il diametro dei buchi che può essere di 6 – 7 – 8 millimetri
L’altra decisione del Dottore Agronomo Elaiotecnico è quella relativa al numero dei giri, se 1000; 1200 oppure 1400.

Le olive devono “affogare” , che significa il frangitore per evitare di disperdere le sostanze aromatiche deve essere sommerso di olive.
Ma il lavoro del Dottore Agronomo Elaiotecnico consiste anche nel curare le temperature del frantoio.

Infatti le paste lavorate nelle gramole, siccome i polifenoli e gli aromi volatili sono tremolabili, se sottoposte a temperature troppo alte perdono queste sostanze che determinano la qualità. Come che significa? Significa che subiscono un’alterazione o la perdita delle proprie qualità per azione del calore, infatti se provate a mettere l’olio in un bicchierino e lo scaldate tenendolo nel palmo della mano potete catturare queste sostanze con il vostro olfatto, e stiamo parlando della temperatura del nostro corpo ovvero di 37°C.

Ecco perché le gramole devono lavorare a temperature basse se vogliamo ottenere un olio di qualità, altrimenti tutto quello che dovrebbe catturare il nostro olfatto, eccolo disperso nel frantoio, irrimediabilmente perduto per sempre!

L’oliva ha nel suo interno delle piccolissime gocce d’olio, nella gramola avviene la COALESCENZA che significa che tutte queste gocce piccole di olio si uniscono!
La pasta deve avere la temperatura di 22 -23 °C e il Dottore Agronomo Elaiotecnico ha il compito di stare attento che la temperatura della camicia, dove circola l’acqua calda, non superi i 27°C.

Tutto quanto detto circa la temperatura della gramola è finalizzato alle olive sane, unico frutto dal quale si ottiene il succo sano che noi chiamiamo olio extra vergine di oliva.
Per le olive malate che danno olio cattivo allora la gramola può arrivare anche ai 35 – 38°C.

Segue la fase di prima centrifugazione ad opera di un DECANTER . Il mosto oleoso non viene separato dalla componente solida attraverso una pressa, ma questa separazione avviene tramite centrifugazione.
La forza centrifuga accentua la differenza tra i pesi specifici dell’olio, dell’acqua di vegetazione e del materiale solido (sansa) permettendone così la separazione. Per ottimizzare il processo viene aggiunta acqua, a temperature variabili, ma comunque superiori a 25°. Per tale scopo viene utilizzata una centrifuga di tipo orizzontale detta decanter.

Il decanter è composto da un tamburo conico ad asse orizzontale dove all’interno ruota un cilindro a vite senza fine che funziona come coclea ed allontana la parte solida.
La velocità di rotazione è di 3500/4000 giri/minuto e quella del tamburo è leggermente inferiore a quella della vite.

Si continua con un separatore verticale che appunto separa l’acqua di vegetazione detta sentina dall’olio.
Anche qui il Dottore Agronomo Elaiotecnico prende la decisione dell’aggiunta dell’acqua che se in eccesso, provoca la dispersione delle preziosissime sostanze aromatiche.

Ed eccolo finalmente il nostro olio di qualità. Il Dottore Agronomo Elaiotecnico misura l’acidità di frantoio, utilizza la puretta e l’idrossido di sodio ottenendo il risultato di 2 linee che significa 0,2 gradi di acidità espressa in acido oleico.

Ma il problema dell’olio non è l’acidità! L’acidità sino a 3 gradi non si sente. Ma se l’olio è ossidato ecco che si sente che è un olio cattivo! Eccome se si stente!

Quante volte avete detto a qualcuno di assaggiare il vostro olio? Decantandolo a tutti come buono perché l’avete fatto voi? Molte volte avete servito olio ossidato, olio rancido!
Il lavoro del Dottore Agronomo ancora non è finito perché c’è bisogno della sua professionalità in una farse importantissima che è quella della conservazione.

Un olio d’oliva è di qualità quando è profumato e ricco di antiossidanti. Ed ecco che è del tutto evidente che se nel contenitore dove è conservato l’olio d’oliva, c’è dell’aria.
Per questo motivo la Vitamina E bombarda le molecole di ossigeno, ed è per questo che i polifenoli diminuiscono e l’olio si appiattisce.
La questione è che i processi di ossidazione, acidificazione e lipasi sono delle reazioni autocatalitiche, che significa che continuano ad accadere senza avere bisogno di enzimi.
Queste reazioni sono amplificate, ovvero catalizzate, dalla temperatura!
Per non far accadere tutto questo nei silos dove si conserva l’olio si deve sostituire l’aria con l’azoto.

Qualche consiglio su come conservare l’olio nelle nostre case. Intanto non è bene lasciare l’olio nel bidone d’acciaio perché come abbiamo visto togliendo l’olio entra l’aria che ossida la Vitamina E.
Se si acquista l’olio in lattine da 5 litri d’olio, se ne prende una alla volta dalla cantina e si travasa in bottiglie che si sono precedentemente lavate con idrossido di sodio non schiumogeno. Poi si riempiono queste bottiglie che devono essere aperte una alla volta, avendo cura di consumare tutto l’olio della bottiglia aperta prima di aprirne una nuova.

I prodotti del Salento cibo della dieta mediterranea, patrimonio culturale immateriale riconosciuto dall’UNESCO

di Antonio Bruno*

 

 

La dieta mediterranea è stata “scoperta” dal medico Ancel Keys. Nel 1945 Keys sbarcò a Salerno insieme al contingente americano; durante la sua permanenza nel Cilento si accorse che le patologie cardiovascolari erano meno diffuse che nel suo paese, insieme con la sua equipe effettuò uno studio, confrontando le abitudini alimentari degli Stati Uniti, Giappone, Italia, Grecia, Jugoslavia, Olanda e Finlandia. Furono prese in esame 14.000 persone di età tra i 40-59 anni, suddivise in 14 campioni. Da questo studio emerse che la mortalità per cardiopatia ischemica era nettamente inferiore tra le popolazioni situate intorno al Mediterraneo. L’Italia insieme alla Grecia e al Giappone risultò uno dei tre paesi con la più bassa incidenza di malattie cardiovascolari. Ancel Keys aveva evidenziato i benefici della dieta del contadino meridionale degli anni ’50 , e su cui si sarebbe basata la piramide alimentare adottata nei paesi anglosassoni.

Quando parliamo di commercio di frutti della terra del Salento leccese, quando ci avventuriamo nel mondo, perché il vero mercato dei frutti della terra del Salento leccese è il mondo, ecco che si sente parlare di Dumping. Come dici? No sai cos’è il Dumping, ti vengono in mente le gemelle Kessler con il loro “Da da umpa!” No, nulla a che vedere con le belle Alice ed Ellen Kessler invece il Dumping è l’abbassamento selvaggio di prezzo dei prodotti della terra del Salento leccese fino ad essere inferiore persino ai costi di produzione, e quindi tu che ti aspettavi di avere un po’ di guadagno dalla vendita dei prodotti di quel pezzetto di Paesaggio rurale che possiedi, ecco che invece ti vedi che di soldi te ne sono rimasti di meno rispetto a quando hai cominciato a spendere per produrre.  Capisci? Se per produrre un chilo di verdura spendi 20 centesimi di euro per fare il Dumpig vendi la verdura a 15 centesimo di Euro e ci perdi 5 centesimo di Euro.
Ma c’è anche il problema degli intermediari che comprano un prodotto agricolo e ad ogni passaggio aggiungono un valore. Vuoi vedere cosa accade per la birra? Si parte dal costo di 100 kg di orzo distico che fanno guadagnare 20€ a te che possiedi un pezzetto di Paesaggio rurale, ma che sale a 600€ quando si vende la bottiglia di birra ad 1€ al litro. Capisci? Il possessore del Paesaggio rurale prende 20 euro per un prodotto che ne varrà 600!

La piramide alimentare

Adesso mi rivolgo a te che acquisti frutta e verdura e tutto quanto produce il Paesaggio rurale per la tua tavola e ti chiedo: quanto sei disposto a dare per avere quella verdura o quella frutta o quella bottiglia di vino o di olio sulla tua tavola? Qui con “quanto sei disposto a dare” voglio significarTi non solo un determinato valore di denaro che metterai fuori dal tuo portafoglio ma anche  il dispendio di tempo e di fatica che comporterà questo e il superamento della barriera emotiva nell’acquistare il prodotto della terra del Salento leccese.
Insomma quando decidi di acquistare quel frutto della terra del Salento leccese “percepisci” indirettamente che valore ha per te quel prodotto,  sia attraverso il Costo ovvero quanto paghi in Euro,  sia la Comodità con la quale raggiungi il punto di vendita e infine la Comunicazione che ti è arrivata ovvero la promozione che è stata fatta a quel prodotto. E tu, amico mio che osservi la linea che si torce per formare le lettere che una affianco all’altra fanno i simboli che diventano suoni nella tua mente, dopo aver fatto questa valutazione fai un’azione potentissima recandoti in quel punto vendita e, dopo aver messo fuori delle banconote mettendo mano al tuo portafoglio, afferri la busta con il frutto della terra del Salento leccese e, tutto contento, te ne ritorni a casa!

Ciò che determina la fortuna di un produttore di frutti della terra del Salento leccese sono i ricavi che derivano dal prezzo di quel frutto, ecco perché il prezzo è l’elemento che deve essere tenuto in particolare evidenza da te che produci i frutti della terra del Salento leccese! Già, il prezzo di quella cicoria o di quella Noce pecan del pezzettino di Paesaggio rurale che possiedi!

Ma come fai tu, che produci le noci pecan oppure che produci le olive o l’uva o la verdura e la frutta a determinare quale debba essere il prezzo di questi frutti della terra?
Per prima cosa devi sapere con la massima precisione quanto ti è costato produrre quel chilo di olive o di uva o di verdura o di noci pecan! E’ fondamentale che tu sappia il costo in maniera precisa!
Voglio scrivere del valore percepito della dieta mediterranea, e lo sto scrivendo per te che nel Salento leccese produci olio d’oliva, pasta, frutta, verdura, vino e ortaggi perché nella quinta sessione del Comitato intergovernativo dell’UNESCO riunita a Nairobi, hanno deciso che quello che la tua terra produce è patrimonio culturale immateriale. C’erano i delegati di 166 paesi a Nairobi che hanno deciso che il tuo prodotto, quello dei 97 Comuni del Salento leccese, fa parte della Dieta Mediterranea che è un patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO. Tu che sei uno dei 220mila proprietari del Paesaggio rurale del Salento leccese sei possessore di uno dei tre elementi immateriali considerati “UNICI AL MONDO” e sai quali sono gli altri due? Non lo sai? Bene! Sono contento di poterti essere utile scrivendo le notizie che mi sono andato a cercare per poi fartele leggere, caro affezionato lettore delle mie note sul Salento leccese e detto ciò, oltre a te che produci i frutti della terra del Salento leccese, dieta mediterranea, patrimonio culturale immateriale, ci sono l’opera dei pupi siciliani e il canto a tenore sardo!
Invece a te che prepari i tuoi pranzi e le tue cene ti chiedo quanto sei disposto a dare per mangiare un frutto della terra del Salento leccese che è parte della Dieta Mediterranea patrimonio culturale immateriale.
La domanda chiave che ti faccio è:
Cosa ti fa pensare la “Dieta Mediterranea” fatta con i frutti della terra del Salento leccese?   Ti fa pensare a Qualità? A Cultura? Ad Innovazione? Alla Simpatia? Oppure ti fa pensare ad Altro?

Caro proprietario di un pezzetto di paesaggio rurale, secondo la terminologia americana, il prezzo del tuo frutto della terra del Salento leccese (price) rappresenta una delle famose “4P” della politica di marketing, insieme alle altre tre che sono la qualità del prodotto (product), la sua promozione (promotion) e la distribuzione medesimo (point of sale).

In questa visione la certezza di poter ottenere dal cliente il massimo di quello che egli è disposto a pagare per il tuo frutto della terra del Salento leccese è di importanza capitale, ed è chiaro che la variabile “prezzo” è quella a cui ti devi dedicare con maggiore cura se vuoi che i tuoi guadagni aumentino sempre più nei prossimi anni!

Il prezzo che hai scelto per il tuo frutto della terra del Salento leccese ha un’influenza determinante sugli utili che metterai in tasca e quindi influenzerà anche il valore del pezzetto di Paesaggio rurale che possiedi.

Quello che ti propongo di fare è di far aumentare il valore del tuo frutto della terra del Salento leccese nella percezione del mercato, puntando a mettere in evidenza che il tuo frutto, proprio lui, è  cibo della Dieta Mediterranea patrimonio culturale immateriale riconosciuto dall’UNESCO così da farne crescere il prezzo.

E che cosa si deve fare? Chi lo fa?
Alla domanda “che cosa si deve fare?” La risposta è che c’è da fare il posizionamento sull’immagine (brend) del tuo frutto della terra del Salento leccese.
Alla domanda chi lo fa? Mi aspetto una tua risposta. Ricevi le mie e mail e quindi conosci il mio indirizzo e puoi certamente rispondermi;  se invece mi leggi sul Web 2.0 il mio indirizzo e mail è antonio.bruno2010@libero.it ehi dico a te! Si proprio a te! Aspetto la tua proposta o i tuoi suggerimenti, grazie.

* Dottore Agronomo (Esperto in diagnostica urbana e territoriale titolo Universitario InternationalMaster’s Degree IMD in Diagnostica Urbana e territoriale Urban and Territorial Diagnostics).

Santa Maria di Leuca: fede e storia nei mari dell’infinito

di Giuseppe Massari

Natale, quella festa più importante per la cristianità, quella festa in cui si festeggia la nascita di un bambino particolare. Oltre a festeggiare il nuovo arrivato, perché non ricordare Colei che ha partorito, ha contribuito, con il suo sacro ed immacolato corpo, a mettere al mondo, nella povertà e nella miseria, il Figlio di Dio. Vogliamo parlare e riferirci, con le parole e il pensiero a Maria. Lo facciamo prendendo spunti storici, e in prestito dalla storia, alcune notizie che riguardano l’importante e glorioso Santuario di Leuca.

Santa Maria di Leuca e il suo Santuario continuano a suscitare interesse, non solo in occasione delle festività natalizie, o nei giorni di agosto, in occasione della festa patronale, ma fuori da ogni sospetto festaiolo, da parte dei più grandi circuiti della comunicazione globale. Non è da meno che, ultimamente, la trasmissione Rai, Sereno Variabile, condotta ogni sabato da Osvaldo Bevilacqua, ha dedicato una puntata a questo luogo incantevole dove i destini si incontrano, le fedi si abbracciano, i mari si confondono; dove, dall’alto svetta il Santuario dal quale si sprigionano raggi di luce accompagnati dall’insolito calore che è l’affetto di Maria verso i suoi figli.

Meta indiscussa di tradizione e devozione, tappa obbligata per i sofferenti, per gli ammalati, ultimamente anche per coloro che, fisicamente impediti e impossibilitati, non solo non possono raggiungere quel luogo sacro, ma non possono neanche soddisfare il precetto della messa festiva. Tant’è che, prima Rete 4, poi Rai 1, hanno privilegiato questa chiesa trasmettendo la messa domenicale, o di alcuni giorni festivi. Ma Santa Maria di Leuca è stata toccata, in passato, da altre generose e particolari attenzioni, soprattutto quelle papali. Se la visita di Benedetto XVI, il 14 luglio del 2008, ha avuto la sua giusta eco, non va tralasciata quella particolare cura che altri pontefici hanno avuto e dimostrato quando, con lo sguardo alla padrona di casa hanno consentito le migliori condizioni di culto e devozione verso di Lei, dotando il Santuario di un Penitenziere. E questo è avvenuto il 1726, durante il pontificato di Benedetto XIII, uno dei tre papi pugliesi. I vicari di Cristo, succedutisi  a guidare la Barca di Pietro, hanno contribuito e concorso ad arricchire, questa Porta del Cielo, di indulgenze privilegi a beneficio dei fedeli che correvano ai piedi della Vergine. Vanno ricordati, oltre al già citato Benedetto XIII, papa Giulio I, Innocenzo XI, Pio IX, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, che con Bolla del 19 giugno 1990, concesse il titolo al Santuario di Basilica minore.

Certamente la storia continuerà a ripetersi e a riflettersi nelle azioni di altri pontefici che adorneranno questa Basilica di cure premurose per rendere sempre più gradito l’omaggio a Colei che veglia sui confini del mondo e della Puglia. Dall’ultimo estremo di terra, Maria saluta marinai e viandanti affaticati, in cerca di ristoro spirituale. Saluta, accoglie e protegge le famiglie, l’infanzia abbandonata, maltrattata ed offesa, così come ha salutato e accolto tutti i popoli che, nel corso dei secoli, hanno inciso le loro storie, hanno intrapreso i loro cammini di conquista, hanno attraversato i confini come pellegrini o come turisti, soprattutto Iapigi , Messapi e i figli della Magna Grecia. Leuca potremmo definirla terra di papi e di popoli, ma anche terra di santi e dei grandi della terra, per cultura e per potere. Enea e Re Alfonso di Napoli, ma san Pietro, san Francesco d’Assisi, San Giuseppe Benedetto Labre.

Questa, in sintesi, in pillole, la storia di una terra generosa e generosamente donata da Dio agli uomini, a tutti gli uomini, perché costruissero la sua tenda, la sua casa, l’edificio in cui nessuno potesse scartare la testata d’angolo e in cui ognuno doveva e deve sentirsi a casa propria. Santa Maria di Leuca è il miracolo della storia di fede. E’ il miracolo della natura ancora incontaminata e di una storia ancora da scoprire nei suoi ipogei, nei suoi anfratti, nei suoi meandri nascosti, nella sua cultura archeologica attraversata e costruita da fenici, cretesi, greci, romani e raccontata, come ci suggerisce uno storico del posto, il sacerdote Vincenzo Rosafio nel suo libro: “Il Santuario di Leuca o De Finibus Terrae”, da Erodoto, Strabone, Virgilio e Plinio. Santa Maria di Leuca, allora, si conferma terra non solo di preghiera, ma di studi, di approfondimenti, per portare alla luce del suo sole tutto l’invisibile, tutto ciò che è giusto conoscere e fare apprezzare nel contesto di un cammino culturale, proiettato a diventare universale, perché fonda le sue radici e ha una base di partenza che è la fede.

Fede e cultura, il binomio di una identità da scoprire, correggere, incoraggiare, esaltare nella bellezza e nello splendore di una coscienza ravvivata, ritrovata e non perduta, nonostante l’immensità del mare e l’infinto che si dipana all’orizzonte.

1919. Natale al fronte. Un presepio fatto con foglie secche

I CONTADINI DEL SALENTO E LA PRIMA GUERRA MONDIALE

 

 

1919: LU BBRISEBBIU TI LI FUGGHIAZZE

 

 

Reduci e ancora più poveri

affidarono

la loro rinascita

a un bambino  povero come loro

 

 

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Ancora negli anni Sessanta-Settanta – e pure Ottanta [1] – mi è capitato più volte di ascoltare i vecchi reduci della guerra 15-18 quando, nell’elencare le loro esperienze negative legate a quel periodo, non perdevano l’occasione di sottolineare  l’essere stati costretti a viaggiare in treno come “cozze nute ncafurchiàte intra ’a lla scorsa ti lu tiàulu” (“molluschi tolti dal proprio guscio e stipati nella valva del diavolo”). Avventura che in termini di logica, sebbene vissuta nel disagio delle famigerate tradotte, sarebbe dovuta suonare come trattamento gratificante per i contadini, una volta tanto affrancati dall’avvilente ruolo di poveri appiedati, ma che al contrario veniva da loro  lamentata come espoliazione della dignità umana. Un affronto, per di più non riconducibile nell’alveo di un generico negativo rappresentato dall’evento bellico, in quanto spesso e volentieri contrapposto a quelle che, pur nella sofferenza e nel pericolo, erano state esperienze positive: aver visto per la prima volta le montagne, essere riusciti ad arrampicarsi sul Carso, aver conosciuto il Piave attraversandolo a dorso dei muli “ca si la nnàtanu mégghiu ti li pisci” (“che sapevano nuotare meglio dei pesci”) e, estremamente importante, l’aver appreso l’esistenza di erbe, alberi, e frutti ben diversi da quelli che crescevano sui loro terreni.

Acquisizioni quest’ultime che, venendo a solleticarli nei loro interessi categoriali, avevano in un certo qual modo contribuito a mitigare la pena della lontananza, agendo da provvidenziale cordone ombelicale e

Parentele etimologiche? lo dimostra l’amico prof.

Un verbo e un sostantivo pericolosi, soprattutto a Natale… ovvero strangugghiàre e strangùria: sospetto confermato, sono parenti!

 

di Armando Polito

Ogni indagine etimologica è piena di insidie di ogni tipo, ma una su tutte ha gli effetti più devastanti: non tanto il restare affezionato per qualche tempo ad un’ipotesi di lavoro (è umano…), ma continuare ad esserlo testardamente anche quando le pezze giustificative appaiono più che discutibili (…non è scientifico…).

Quando capitano due parole molto simili fra loro nella sequenza fonetica è naturale sospettare che tra loro ci siano rapporti di parentela più o meno stretti, provarlo non sempre è agevole.

È il caso delle due voci in oggetto, la prima appartenente al dialetto neretino, la seconda alla lingua nazionale. Strangugghiàre è usato (solo in forma riflessiva) a Nardò nel significato di avere difficoltà di respiro per un accesso di tosse o per un boccone andato di traverso. Strangùria (o strangurìa) è voce medica che indica un disturbo della minzione caratterizzato da emissione difficoltosa e dolorosa di urina, dovuto a

Le noci pecan di Cutrofiano


di Antonio Bruno

 

L’Azienda Agricola “Sirgole”, a Cutrofiano del Salento leccese, produce le noci pecan. In questa nota le ragioni dell’opportunità e convenienza di coltivare quest’albero nel territorio del Salento leccese.

 
Domenica 19 dicembre 2010 ho avuto la conferma che non puoi “dire di vivere” se non vai in campagna. Per la verità tutto ha avuto inizio con la gara in piscina a San Cesario di Lecce di mia figlia Sara Maria Agnese che l’ha vista vincitrice, mi ha detto che era calma, che ha nuotato in modo naturale, sciolta e serena. C’era il mio vecchio amico e collega Vincenzo Castellano, un destino legato al mio, preparavamo l’esame di Fisica generale e trovammo due amiche che sono divenute le nostre mogli e che ci hanno dato, lo stesso anno, figlie femmine che sono divenute amiche tra loro.
Io e Vincenzo, in quelli che tutti hanno definito “gli anni di piombo”, eravamo iscritti entrambi alla Facoltà di Agraria di Bari e abbiamo abitato la stessa stanza della Casa dello studente del Campus: la “Benedetto Petroni”.
Mi hanno costretto a convivere con Bianca, un barboncino toy femmina, e mi è venuto in mente ciò che mi dice, facendo riferimento ai cani, un altro amico: Rory Muratore. Lui mi ha portato a prendere Bianca, è uno dei responsabili della mia convivenza,  e mi dice che devo portarla in campagna, lasciarla libera.  Oggi alla vista di quella terra incolta, la pseudosteppa che circonda la Piscina di San Cesario di Lecce, mi sono venute in mente le parole di Rory e ho chiesto a Vincenzo se potevo andare nella sua Azienda, che è recintata, per lasciare finalmente libera Bianca.
Ed è li, in quella terra di San Cesario di Lecce, che Vincenzo mi ha mostrato due alberi che dovrà mettere a dimora tra qualche giorno, due alberi di Noce pecan.
La Classificazione scientifica dell’albero di pecan è la seguente Regno: Plantae; Divisione: Magnoliophyta; Classe: Magnoliopsida; Ordine: Juglandales; Famiglia: Juglandaceae; Genere: Carya; Nomenclatura binomiale Carya illinoensis (Wangenh.) K.Koch, 1869
coltivato principalmente nell’America del nord per la raccolta dei suoi frutti, le noci pecan.
Queste piante, molto simili al noce comune, erano presenti in Europa, anche se in forma diversa, nel periodo villafranchiano (pliocenico inferiore), in epoca cioè con clima temperato umido simile a quello ove oggi sono coltivate. Pollini appartenenti al genere “Carya”, cui la noce pecan appartiene, sono infatti normalmente presenti nei giacimenti fossili italiani.

C’è un uomo saggio a cui chiedo sempre consiglio, è l’Avv. Vincenzo Provenzano di Ugento del Salento leccese; misura ogni parola, e quando parliamo di territorio, di alberi, di frutti della terra, mi guarda e poi con un sorriso mi dice che c’è necessità di trovare un’alternativa per diversificare la produzione. Il Consorzio di Bonifica “Ugento e Li Foggi” per favorire i suoi 200mila associati,  per sostenere le piccole aziende agroalimentari locali e creare un ambiente favorevole per la costituzione di nuove imprese, secondo l’Avv. Vincenzo Provenzano,  può cercare di individuare nuove colture che consentano di avere un reddito soddisfacente e che siano destinate ad un mercato in espansione. Insomma il Consorzio funge da “forum” dello sviluppo locale. Questa attività di tipo informale, è rivolta essenzialmente ai 200mila piccoli proprietari del Paesaggio rurale del Salento leccese che hanno intenzione di proporre prodotti alimentari specifici, alle imprese in fase di costituzione e agli agricoltori che intendono diversificare la propria produzione.
Ho fatto una ricerca ed ho scoperto che l’Azienda Agricola “Sirgole”, a Cutrofiano del Salento leccese, produce le noci pecan, che secondo l’azienda sono ancora poco conosciute in Italia nonostante i loro effetti positivi sul colesterolo, la circolazione sanguigna, le malattie coronariche, grazie all’alto contenuto di grassi monoinsaturi.

da http://www.tropicamente.it

Le varietà di noci pecan coltivate a Cutrofiano sono la Kiowa, la Wichita  e la Shoshoni tutte con i nomi epici degli antichi pellerossa.
Sempre la stessa azienda pensa che molto probabilmente Cutrofiano del Salento leccese, sia l’unico territorio in Italia in cui si producono le noci pecan.

Ma quanto producono questi alberi? Lo so che ve lo state chiedendo, ed io, che sapete che lo so, ecco che ve lo scrivo.

Piante di 10-25 anni possono fornire 50-100 kg di frutti con guscio. Oltre il ventesimo anno rese di 100-200 kg a pianta sono normali. Le rese medie in un pecaneto adulto degli Stati Uniti con le cultivar antiche e a densità classica (122 piante per ettaro una densità che è un po’ di più della foresta degli ulivi del Salento leccese) sono dell’ordine di 1,5 – 2,0 tonnellate ad ettaro. Con le nuove cultivar texane e spaziature strette si possono ottenere quantitativi doppi.

L’ Azienda Agricola “Sirgole”, a Cutrofiano del Salento leccese, vende le noci pecan in confezioni da 5 chili al prezzo di 58 Euro. Non ci credete? E’ tutto sul Web 2.0 basta che mettiate in una stringa del motore di ricerca che usate le parole Azienda Agricola “Sirgole”. L’avete fatto? Bene! Allora stai già facendoti un po’ di conti per vedere se vale la pena prendere quelle piante per farle vivere in quel tuo terreno che una volta era uno dei 60mila ettari di alberello pugliese oppure uno degli oltre 5mila ettari di tabacco che si coltivavano nel Salento leccese sino al 1996.
Già! Vale la pena?

Facciamo un conticino piccolo, piccolo? Aspè che chiamo mia figlia Sara, gli sto chiedendo quanti chili sono una tonnellata e mi ha risposto che 1 tonnellata = 1000 chilogrammi. Allora facendo l’ipotesi che i 122 alberi di pecan producano solo 20 chili di noci a pianta avremo in un ettaro circa 2mila e cinquecento chili con una produzione lorda vendibile di quasi 30mila euro per ettaro. Gli altri conti te li puoi fare tu! Aspè! Non adesso! Almeno finisci di leggere la mia nota e poi mettiti a sognare!

Intanto sappiamo con certezza che a Cutrofiano il pecan (Carya illinoensis) produce alla grande e che c’è l’ Azienda Agricola “Sirgole” che lo commercializza sul Web 2.0 a prezzi di tutto rispetto.
Se c’è qualche interessato posso certamente chiedere un contatto all’azienda che peraltro legge questa nota che ho mandato al suo indirizzo e mail, rivolgo l’invito soprattutto alle Associazioni di categoria della Provincia di Lecce. Inoltre se c’è qualcuno degli scienziati dottori agronomi e biologi dell’Università che ha interesse ad approfondire gli aspetti scientifici della coltivazione di questo albero nel Salento leccese ecco che la funzione del Consorzio quale  “forum” dello sviluppo locale, cara all’Avv. Vincenzo Provenzano, diviene fatto compiuto.
Che aspettate a scrivermi?

Bibliografia
Azienda Agricola “Sirgole”    http://www.nocipecan.it/

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