La minaccia OGM rispunta dopo sette anni sugli scaffali dei supermercati italiani. I nostri volontari hanno scovato in Puglia due oli prodotti con soia geneticamente modificata, come riportato in etichetta. Si tratta dell´olio di soia e dell´olio di semi vari a marchio “Dentamaro”, prodotti e commercializzati dalla Dentamaro Srl di Bari.
Dal 2004, anno nel quale sono entrati in vigore i regolamenti europei sull’etichettatura degli OGM, questo è il secondo caso in cui troviamo un prodotto transgenico in vendita. Allora quel prodotto fu ritirato dal mercato dopo soli dieci giorni grazie alle forti proteste dei consumatori. Oggi possiamo fare lo stesso.
Una volta rilasciati nell´ambiente, gli OGM sono incontrollabili. La loro
Il popolo armeno e la Puglia: un legame millenario
In occasione dei festeggiamenti organizzati in onore di S. Gregorio Armeno a Nardò si terrà sabato prossimo, 19 febbraio, alle ore 10,30 presso la “Sala Roma” dell’antico Seminario Vescovile, sito in Piazza Pio XI un incontro sul tema “Il popolo Armeno e la Puglia: un legame millenario”. La relazione sarà tenuta da Isabelle Oztasciyan, docente presso l’Università del Salento. Introdurrà il parroco della Cattedrale di Nardò, sac. Giuliano Santantonio, e seguiranno gli interventi sul culto di S. Gregorio Armeno a cura di Maria Rosaria Tamblé (Archivio di Stato di Lecce) e sulle vicende del terremoto del 20 febbraio 1743, a cura di Giancarlo De Pascalis (Università del Salento).
Sarà l’occasione per riflettere sui rapporti plurisecolari intrattenuti dagli Armeni con le popolazioni pugliesi e sugli scambi culturali tra due popoli accomunati dalla fede cristiana.
L’Armenia fu la prima nazione della storia ad abbracciare il cristianesimo grazie proprio a S. Gregorio l’Illuminatore, fondatore della Chiesa nazionale armena sul finire del III secolo d. C. e suo primo vescovo. La fede incrollabile in Cristo è stata da allora un elemento identitario del popolo armeno, al punto da farlo resistere all’invasione arabo-musulmana fino alla creazione di un fiorente regno cristiano (la cosiddetta piccola Armenia in Cilicia) tra il IX e l’XI secolo che entrò in relazioni con Bisanzio e con i crociati.
Attualmente la Chiesa Armena è suddivisa in due katholikosati (da katholikos, il capo della chiesa armena): uno maggioritario monofisita (riconosce in Gesù Cristo soltanto la natura divina) e uno che riconosce il primato di Roma, al pari di un terzo, più piccolo, con sede in Libano.
Comunità armene sono diffuse in tutta la Penisola ed anche in Puglia se ne registrano, in special modo a Bari, Conversano, e Martina Franca. Dopo la gloriosa stagione medievale, fatta di scambi mercantili e di vincoli di fede suggellati attraverso il culto nelle suggestive chiese costruite da immigrati benestanti per servire le colonie armene stanziate nelle città costiere del litorale pugliese, un nuovo flusso migratorio si è registrato circa un secolo fa a seguito della durissima campagna di snazionalizzazione posta in atto dalla Turchia a partire dalla fine del XIX secolo.
Dopo i massacri del 1894, del 1895-96 e del 1909, che assunsero le dimensioni di un autentico genocidio, ha avuto luogo la cosiddetta diaspora armena, diretta soprattutto verso la Francia e gli Stati Uniti d’America. In rapporto alla durezza di questo destino, il contributo dell’Armenia allo sviluppo della civiltà è stato straordinario.
Le ricche tradizioni religiose, artistiche, letterarie e folkloriche forniscono tuttora testimonianze importanti di un percorso culturale intrecciatosi in un lontano passato con quello della Chiesa neritina, che ne trasse per lungo tempo motivo di vanto rispetto alle altre consorelle pugliesi per il fatto di conservare una delle più prestigiose e insigni reliquie della cristianità, quella di parte del braccio di S. Gregorio, il patriarca di un popolo eroico sino al martirio nella difesa della propria fede e della propria identità.
In un’epoca contrassegnata dalla ripresa violenta dell’integralismo religioso e dell’intolleranza etnica il culto di S. Gregorio, ispirato all’ecumenismo ed al dialogo tra fedi diverse, si rivela quanto mai attuale e offre a tutti noi un modello di sviluppo civile e religioso ed un sistema di valori dai quali trarre utili insegnamenti per il presente e per il futuro.
Nei giorni 19 e 20 febbraio sarà possibile anche visitare presso l’Antico Seminario la mostra “Documenti e immagini del culto di S. Gregorio Armeno a Nardò”.
Vallone-De Viti De Marco, un binomio inscindibile nella vita politica nazionale e meridionalista
Il contributo che qui vorrei proporre è la testimonianza di un’amicizia profonda e sincera tra due autorevoli personalità salentine, che fino alla fine hanno combattuto contro le tante problematiche del Mezzogiorno, all’indomani dell’Unità d’Italia.
Fu una vera “fratellanza”, come avrebbe detto Antonaci (1999, pag. 707), nell’intento comune di dare onore alla vitalità del Sud, in termini di idee e di propositi, per “agganciare”, politicamente, economicamente, culturalmente e socialmente la nostra regione al resto d’Italia: sono battaglie ancora vive e presenti ai giorni nostri, ma non saprei dire se, chi vuole incarnare oggi questi ideali, sia degno di essere, se non paragonato, almeno animato dallo stesso spirito politico dei due coetanei Antonio Vallone e di Antonio De Viti De Marco. Quest’ultimo tenne, il 19 aprile 1925, un pubblico discorso di commiato per l’amico di una lunga vita politica, da poco scomparso (7 febbraio dello stesso anno), in occasione dell’inaugurazione della lapide in sua memoria apposta nella sede del Liceo-ginnasio “Pietro Colonna”.
Vallone-De Viti De Marco era un binomio inscindibile nella vita politica nazionale e meridionalista, un’amicizia nata forse ancor prima di quella riunione che si tenne a Casamassella tra Vito Fazzi, lo stesso Vallone e il fratello di Antonio dello scienziato delle finanze, quando fu deciso che il nostro concittadino avrebbe dovuto affrontare la battaglia contro il comune avversario del collegio di Maglie. Da allora ci fu una vera e profonda amicizia tra Vallone e De Viti De Marco, come riporta il discorso del professore universitario, tanto che nelle elezioni del 1919 si trovarono insieme in una lista di “blocco”, dopo forti pressioni da parte di Alfredo Codacci-Pisanelli, contro “la violenza del bolscevismo ammantato di socialismo”. Purtroppo, Giolitti pose un veto al pericoloso repubblicano Vallone, che fu costretto ad abbandonare la lista e, con lui, per spirito di solidarietà, lo
Pìcciu e picciùsu: la poesia, con risvolti un po’ osé…, del dialetto
Ormai non mi viene più da ridere, ma mi incazzo come so fare solo di fronte alle idiozie della burocrazia (non scomodo il trito paragone con gli animali per loro rispetto, anche se fra poco e alla fine sarò costretto a metterli in campo…) quando perfino in discussioni di un certo livello sento qualcuno che ancora manifesta in modo più o meno palese pregiudizi nei confronti del dialetto. Sulla infondatezza scientifica, oltre che antistoricità, di questo atteggiamento non mi soffermo neppure perché ho troppa stima dei lettori di Spigolature salentine e lo ritengo superfluo.
Passo perciò alle due voci dialettali del titolo, designanti, la prima, il piagnisteo, il frignare del bambino, la seconda il bambino stesso che in questo modo manifesta il suo disagio, in passato per lo più ascrivibile a motivi di salute, oggi, credo prevalentemente, a motivazioni di carattere psicologico, come la voglia di attirarre l’attenzione, fino all’espressione di un vero e proprio capriccio, la cui pronta soddisfazione da parte dei genitori ha il pronto effetto di propiziarne altri a breve scadenza…
Sorprendentemente il Rohlfs non avanza alcuna proposta etimologica, limitandosi solo all’invito ad un confronto “con il calabrese pìcciu e il
Nel secondo volume di Kunstwollen, periodico di arte e cultura della casa editrice Edizioni Esperidi, la luce segreta delle architetture salentine rimaste in ombra, dal ‘500 agli anni 2000
Non solo Barocco
di Giorgia Salicandro
C’è un Salento segreto nascosto all’ombra del folgorante Barocco, un ricamo candido di pietra che si irradia dai vicoli del nobile Capoluogo ai campi del Capo, e attraverso l’eco immobile delle mura racconta una storia di feudatari, chierici e suore, contadini e notabili, sino alla società industriale del ‘900. Una storia che “Architetture salentine”, il secondo volume della rivista culturale Kunstowollen, edita dalla casa editrice di San Cesario Edizioni Esperidi, ha cercato di rubare alla dimenticanza per restituirla a quel Salento che racconta tanto altro oltre le magnifiche chiese barocche.
La scorsa settimana la chiesetta leccese di San Sebastiano è stata la cornice scelta per presentare il volume, il secondo dei tre editi a partire da giugno 2009. Nella raccolta navata della chiesa alle spalle del Duomo, Alice Bottega ha ripercorso a ritroso la storia del luogo attraverso le sue mura. Una storia di terrore e devozione, iniziata nel 1520 nel bel mezzo della pestilenza che sterminò intere famiglie e dimezzò la popolazione, quando con “elemosine e legati pii” la piccola costruzione fu eretta e dedicata al Santo protettore degli appestati. In verità la vocazione sacra del luogo era precedente al “terrore nero”: lì infatti, molto prima che vi si affacciassero vicoli e corti, sorgeva un’antica chiesa rupestre dedicata ai Santi Leonardo, Sebastiano e Rocco. Alcuni decenni più tardi una nuova costruzione accolse il convento delle pentite, che dopo una vita trascorsa “nel vizio” cercavano un ricovero del corpo e dello spirito al riparo del Sacro. Un luogo sobrio, estraneo alla magnificenza barocca che traboccherà dagli ordini superiori delle grandi chiese leccesi, dalla Cattedrale a Santa Croce. Un fascino diverso, raccolto nella grazia della propria semplicità che si presenta inequivocabilmente al fedele già dalla facciata a spioventi, ingentilita appena da fiori e motivi simbolici in pietra leccese intrecciati intorno al portale.
La chiesa di San Sebastiano non è sola a raccontare la bellezza nel Salento non-barocco. A Racale il Palazzo ducale è testimonianza di una lunga storia di famiglie e intrecci di potere. Il Palazzo, come gli altri castelli del Meridione d’Italia, a partire dall’inizio del ‘500 perde il suo connotato militare per divenire residenza nobiliare con funzioni di rappresentanza, così come imposto dalla Corona parallelamente al consolidamento del potere centrale nel Regno di Napoli. Nel primo cinquecento il barone Alfonso Tolomei aveva fatto abbattere la primitiva Parrocchiale dedicata a San Giorgio per fare spazio all’ambiente di rappresentanza per eccellenza, il salone, che viene costruito all’altezza del piano nobile a cui si accede attraverso un monumentale scalone a giorno che parte dal cortile. Altrettanto monumentale doveva essere l’immagine che accoglieva il nobile visitatore all’ingresso della sala: due cortili su entrambi i lati illuminavano l’ampio spazio, la lunga volta a padiglione traboccava di satiri, fauni e altri personaggi pagani tipici della fantasia rinascimentale, che sfidavano con la propria spensierata lascivia le austere scene di Santi di scuola napoletana, costretti a “reggere” corni e frutta dalle pareti laterali. Quando, nel 1695, l’edificio fu acquistato, insieme alla baronia di Racale, da Felice Basurto, il nuovo proprietario volle imprimere al palazzo un simbolo del proprio status, nello spirito controriformistico dell’epoca: fu così che nel salone spuntò un oratorio privato, a cui seguì un secondo fatto erigere da sua moglie Candida Brancaccio. Della storia “lignea” e “pittorica” del palazzo oggi non rimane più nulla, tuttavia se ne può ricostruire il mosaico attraverso le tracce notarili conservate negli archivi. Un affascinante spaccato della nobiltà di periferia, impegnata nella divisione familiare dei propri beni – il corpo principale all’erede primogenito, un’ala ai genitori, l’altra al fratello chierico – e nella difesa della propria immagine aristocratica dall’invadenza costruttiva dei vicini, risolta con un atto notarile ad hoc che impediva l’erezione di piani più alti del prospetto del Palazzo, mentre al chiuso delle stanze si conservavano tutt’al più quadri “di carta” e mobili “vecchi”, come testimonia un inventario fatto compilare dalla moglie del duca.
Opposta alle logiche umane di ceti e fazioni, infine anche la “grande livellatrice” può divenire un racconto affascinante se ripercorso attraverso la memoria, i tabù e le altre proiezioni di chi resta “al di qua”. Il cimitero di Parabita, esperimento inconsueto nella periferia della periferia salentina, è una delle testimonianze della straordinaria capacità creativa di questa terra. Negli anni ’60 del ‘900 una lungimirante Amministrazione comunale affidò il progetto del nuovo camposanto ad uno Studio romano attivo nel dibattito della neo avanguardia architettonica. L’obiettivo era quello di dotarsi di un luogo degno di custodire le tracce rimaste della civiltà, che sfuggisse all’asettica logica “funzionale” madre di incommentabili ecomostri. E i progettisti romani seppero rispondere in modo illuminato. “Mentre progettavamo non discutemmo mai dei significati della morte – ricordava più tardi l’architetto Alessandro Anselmi – eppure chi oggi entra nel recinto cimiteriale ha la netta sensazione di trovarsi in un luogo rituale e simbolico”. Un luogo che richiama la propria importanza ma senza ostentazione, sin dalla facciata che corre lungo una sinusoide, sfuggente come la vita terrena, per raccogliersi all’interno attorno alla figura del capitello disegnata dal succedersi delle cappelle private: “l’archetipo” architettonico che lega la pietra al rito della memoria collettiva.
(pubblicato su Paesenuovo del 12/2/2010)
Un verbo che la nostra presunzione di umani ha elevato ad elemento distintivo della nostra specie
Ho avuto già modo di dire che le parole sono come noi, partecipi del nostro destino di uomini: non solo nascono, si trasformano nei loro tratti fonetici e semantici, muoiono, ma hanno la ventura di vivere gli stessi nostri incidenti di percorso. Succede, così, per fare solo due esempi, che alcune sono vittime della scarsa considerazione del merito e del loro intrinseco talento, sicché debbono inchinarsi di fronte all’uso che decreta il successo di una forma scorretta; altre si vedono scippata la loro prestigiosa eredità addirittura da parte di un parente con un imbroglio che non sempre è agevole individuare.
A questa seconda categoria, quasi di nobili decaduti, è dedicata oggi la mia attenzione, e per farlo metterò in campo un verbo che la nostra presunzione di umani ha elevato ad elemento distintivo della nostra specie rispetto alle bestie: sapere.
Già il latino sàpere=aver sapore, essere assennato (di cui la voce italiana nei due significati è evoluzione diretta) presenta nel suo paradigma, sapio/sapis/sapii o (rari) sapìvi o sapui/sàpere, un carattere difficile che lo colloca, al di fuori delle quattro coniugazioni regolari, nella categoria dei verbi in –io, cioè verbi che nel presente e nei tempi derivati seguono la quarta coniugazione, nell’infinito e nei tempi da questo derivati la terza.
Il verbo in questione se non fosse appartenuto ai verbi in –io avrebbe avuto per infinito non sàpere, ma sapìre1; inoltre esso non ha il supino (che nel paradigma è registrato in quarta posizione).
D’altra parte questo suo carattere difficile non poteva non essere ereditato dalle forme italiane, a cominciare dal presente per il quale, da un infinito sapère, ci saremmo aspettati una coniugazione io sapo, tu sapi, egli sape, noi sapiàmo, voi sapète, essi sàpono (solo la seconda persona plurale non ha tradito le attese). Sappiamo com’è andata a finire (e dopo diremo perché), ma la legittimità delle nostre attese è dimostrata dal fatto che le forme appena elencate ebbero il loro momento effettivo di gloria a partire dal XIII° secolo efino al XV°: Bacciarone da Pisa: Tutto ‘l contrar, se eo ben dir lo sapo; Meo Abbracciavacca: Delli viziosi mali ove li sapo; Tommaso Buzzuola: Soggiorno a sua stagione prender sape; Rinaldo d’Aquino: Se si sape avanzare; Dante, Purgatorio, XVIII, 55: Delle prime notizie, uomo non sape; Paradiso, XXIII, 45: E che si fesse rimembrar non sape; XXVIII, 72: Al cerchio che più ama e che più sape; Guittone d’Arezzo: Che di cosa piacente/sapemo, ed è vertà, ch’è nato amore; Dante, Inferno, X, 105: Nulla sapem di vostro stato umano; Baldassare Castiglione, Il cortegiano, I: Non sapiam di cui.
Le forme odierne sono l’evoluzione di quelle appena riportate, col passaggio –p->-b– (di cui è traccia nello spagnolo sabes, sabe, sabemos) e –b->-v– (di cui è traccia nel francese savons, savez ma anche in italiano, a parte l’aggettivo savio: Francesco da Barberino, Reggimento e costume delle donne: E ben si save che quale è difeso; Voi savete che la Margarita; Guittone d’Arezzo: Ben credo savete; Già savemo; Brunetto Latini, Tesoretto: Siccome saven noi). Poi la caduta di –v–2 fece il resto.
L’esame (limitato, per motivi di spazio e di tempo al presente indicativo) delle voci dialettali neretine consente di fare ulteriori riflessioni sull’argomento: iò sàcciu, tu sai, iddhu sape, nui sapìmu, ui sapìti, iddhi sàpinu.
Dopo aver fatto notare come sape, sapìmu e sàpinu siano in linea (a parte dettagli fonetici irrilevanti) con le corrispondenti persone elencate nella prima serie, soffermeremo ora la nostra attenzione sulla prima singolare sàcciu. Essa è il normale sviluppo dell’originario latino sapio con il consueto passaggio di –pi– in –cc– (come in Lecce da Lupiae); ma anche qui letestimonianze letterarie antiche dimostrano che questo esito non era poi tanto volgare: Francesco da Barberino, op. cit. : Mostrano le donne che ancor non sacciono lo fatto. A ulteriore riprova della diffusione del fenomeno ci vengono incontro i poeti della Scuola siciliana (Giacomo da Lentini, I, 31: e non saccio ch’eo dica; Tomaso di Sasso di Messina: ch’io non saccio altro fare; Cielo d’Alcamo (XIII° secolo) , Rosa fresca aulentissima, v. 132: Bene lo saccio, càrama: altro non pozzo fare (Lo so bene, mia cara: altro non posso fare), dello Stilnovo (Guido Orlandi, Rime, III, V. 1: Amico, i’ saccio ben che sa’ limare (Amico, io so bene che sai rifinire); Guido Guinizelli, I: Né saccio certo ben ragion vedere; II: Esaccio ch’ogni saggio e’porto fino; Guido Cavalcanti, I: Ch’eo non saccio contare), della Scuola toscana (Guittone d’Arezzo, XI: Scuro saccio che par lo mio detto; XII: Ma solamente lei saccio devisa; XXIII: Poich’io non saccio como da per me faccio di ciò pensare; XLVII: Onor, prode e piacer saccio ch’amate; XXV: Ben saccio de vertà che ‘l meo trovare val poco; LXXXVI: Perchésaccio di te dir villania. Bonaggiunta Orbicciani: I: Non saccio com’eovivo sì gravoso; Dante da Maiano, IV: Sì c’oramai non saccio la partenza) e gli stessi Dante (Rime, III: sì che di quantisaccio nessun par l’à), Petrarca (Petrarca, Rime disperse e attribuite, 182, 3: Ora ti veggio, e nonsaccio il perché) e Boccaccio (Lettere, A Francesco de’ Bardi (1339): …non saccio se te s’aricorda…e non saccio quanta delli mIeglio mIeglio di Napuli…non saccio pecchené se lo fa chesso…; Ninfale fiesolano, 279, 6: disse: – Oh me tapina, ch´i´ nonsaccio; Decameron, X, 7: temo morire, e già nonsaccio l’ora).
Per completare il discorso e avviarci alla conclusione passiamo ora rapidamente in rassegna le voci italiane imparentate con sapère.
Sapientee il suo contrarioinsipiente, rispettivamente dal latino sapiènte(m), participio presente del citato sàpere e, con aggiunta di in– privativo, da insipiènte(m)=insulso.
Sapienza, dal latino sapièntia neutro plurale del participio sostantivato di sàpere=aver sapore, sapere; da notare la comunanza concettuale che mette insieme bontà del cibo e della mente. Come son cambiate le cose se le nuove generazioni hanno le papille gustative sensibili solo ai prodotti McDonald’ e i neuroni alle emozioni sublimi suscitate dal Grande fratello!
Saggezza, da saggio, a sua volta dal francese sage che è dal latino sàpidus (che in italiano si è conservato quasi tal quale in sàpido, vedi più avanti, con connotazioni, però, prevalentemente se non esclusivamente alimentari), sempre da sàpere.
Sapore, dal latino sapòre(m)=sapore, spirito, deverbale dal citato sàpere.3
Sàpidoe il suo contrarioinsìpido, rispettivamente dal latino sàpidu(m),=saporito, virtuoso e insìpidu(m)=insipido.
Sciàpo, forma accorciata di sciàpido, da un latino *exsàpidu(m) (dal precedente con aggiunta di ex estrattivo); così pure sciapìto, variante di scipìto.
Saccenterìa, da saccente, a sua volta da sapiènte (m), accusativo singolare maschile del participio presente del precedente sàpere; ed è proprio quest’ultima voce a sancire la tesi iniziale: il vecchio nesso –cc– ha conferito una connotazione negativa alla voce che, pure, all’origine era sinonimo di sapiente4: Brunetto Latini, op. cit.: Ma io non son saccente se non di quel che vuole mostrarmi…; Francesco da Barberino, op. cit. alla voce industria: Umana è più quant’ella più sacciente.
Alla fine di questa fatica è legittimo porsi la domanda: ora ne sappiamo di più?
Probabilmente hanno ragione i miei migliori amici…
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1 Voce probabilmente conosciuta dal latino parlato se essa è presente nella letteratura delle origini: Inghilfredi (poeta della Scuola siciliana (XIII° secolo) canzone I, 26: E faccia a lei sapire; e sapìre è nel dialetto neritino il corrispondente italiano di sapere.
2 Peraltro molto antica, come attesta il Placito capuano che è del 960: Sao ko kelle terre…
3 Oggi il nesso saperi e sapori è usato come fosse un gioco di parole, non so con quanta consapevolezza della strettissima parentela delle due voci e con la pretesa (è il caso di dire) di riempirsi, con piglio intellettualistico, la bocca nell’improbabile difesa dall’avanzare inesorabile, da una parte, dell’insulsaggine eretta a modello da seguire e, dall’altra, di McDonald’s…
4 Lo stesso destino ha subito sapùto (da cui poi il diminutivo saputèllo): Dante, Purgatorio, XVI, 8: la scorta mia saputa e fida|mi s’accostò e l’omero m’offerse.
Parafrasando la celeberrima cittadina francese e fatti i dovuti paragoni, potremmo definire certamente così la venerazione e, quindi, i festeggiamenti in onore della Madonna delle Grazie di Carosino, che da tempo immemorabile si tengono il 17 di febbraio in questa cittadina jonica.
Le memorie, che narrano dell’apparizione della Vergine nel luogo dove attualmente si erge la Chiesa Madre, si perdono nella notte dei secoli (pare tra il 900 e l’anno 1000). Invece dell’esistenza di un luogo di culto dedicato alla Madonna delle Grazie, si hanno i primi riferimenti certi a partire dalla prima metà del 1500,quando mons. Brancaccio venne in visita pastorale all’arcipretura di Carosino, ed annotò l’esistenza di una vecchia cappella in onore della Madonna. Che il luogo dell’apparizione fosse inoltre miracoloso assai, lo si intuisce facilmente anche dal resoconto tramandataci dell’evento.
La tradizione più accreditata vuole che quando ancora il casale di Carosino non esisteva, la Madonne sia apparsa ad un pastorello sordomuto dalla nascita di nome Fortunato, richiedendogli appositamente di far edificare in quel luogo una chiesa in suo onore. Il ritorno precipitoso del giovane e,
L’amore passato e presente (e non solo…) in 14 proverbi salentini
14 FEBBRAIO, SAN VALENTINO: L’AMORE PASSATO E PRESENTE (E NON SOLO…) IN 14 PROVERBI
di Marcello Gaballo e Armando Polito
Non chiediamo scusa, sia chiaro, per aver celebrato a modo nostro, sicuramente non convenzionale, questa ricorrenza e, in generale. l’amore. Lo faremo solo se qualche lettore (dubitiamo che sarà, paradossalmente, una lettrice…) ce ne darà un motivo la cui validità, poi, oltretutto, sottoporremo al vaglio di tutti. D’altra parte la serietà dell’argomento, lo diciamo senza ironia, ci ha dissuasi dal corredarlo, all’inizio, di qualsiasi immagine, fosse solo una simpatica vignetta, in funzione ritualmente edulcorante; poi, invece …
AMA CI CRESCE E NNO CI PARTURESCE
(Ama chi cresce e non chi partorisce)
Il pensiero vola ai neonati (sopravvissuti) la cui prima culla è stato un cassonetto, e (altra perversione umana…pensando alle adozioni sublimi anche tra specie diverse che le cosiddette bestie sono in grado di attuare) agli uteri in affitto.
AMA L’OMU CU LLU ‘IZZIU SUA
(Ama l’uomo col vizio che ha)
Tutto dipende dal vizio che ha.
AMORE TI PATRUNI AMORE TI FRASCUNI
(Amore di padroni, amore in mezzo a folte frasche)
In passato il verbo ‘nfrascare era sinonimo di “darsi alla macchia” per sfuggire alla cattura o per soddisfare, naturalmente da parte del maschio, rapporti sessuali “illegittimi”. Oggi, addirittura, si mobilitano fotografi e cameramen per immortalare l’evento che si verifica in un ambiente magari meno ecologico quale può essere un pied-à-terre (diventato, nel frattempo, un attico) , o peggio, se ne fa una ragion di stato per non abbattere un governo il cui capo, però, trova più comodo parlare di complotto della magistratura, naturalmente di sinistra1, che presentarsi davanti ad essa col fior di avvocati (peraltro parlamentari…di destra) che pure ha a sua disposizione.
Questa volta vi propongo le immagini di un viaggio che, pur avendo la meta a noi vicina, mi ha proiettato in un contesto i cui i caratteri storico e sociali dei luoghi visitati meritano di essere adeguatamente tratteggiati, per quanto ne possa essere capace, perché forse, e senza neanche forse, poco conosciuti, ancorché si tratti pur sempre del territorio di Galatina.
Oltre la statale è un viaggio lungo la strada che unisce la frazione di Collemeto a Santa Barbara e nei luoghi più significativi di quest’ultima.
E’ un viaggio accompagnato dal suono di una carro lungo la strada. La scelta dell’audio non è casuale. Si tratta di una registrazione fatta nel 1968 da due ricercatori, Bosio e Longhini, che attraversarono il Salento studiando le nostre tradizioni e registrandone il suono vitale del tempo, non in studio, ma per le strade parlando con gli anziani e i giovani dell’epoca.
Passare la statale ed immergersi a piedi o in bicicletta in quei luoghi, mi ha rimandato quasi indietro in un epoca in cui la vita ruotava attorno alle masserie, alle case di campagna, alla piccola piazza del paese, alle persone sedute sui marciapiedi delle case e a ragazzi che giocano a pallone per le strade. Strade lungo le quali era raro veder passare una macchina, ma che spesso portavano il rumore delle ruote dei carri. Molte di queste abitudini sono ormai scomparse, cancellate dai ritmi forsennati che ci sono imposti ma che molto spesso noi stessi scegliamo, inconsapevoli di quello che perdiamo. Altre sono rimaste e giunte ai nostri giorni; non certamente quel senso di comunità che una volta, pur con tutti i dissidi che ci potevano essere, era presente e aleggiava tra la gente.
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Passata la statale ci si immerge in un paesaggio modellato anticamente dall’uomo, da forti mani nodose che con gli zocchi e le mannaie hanno estratto i conci di tufo per costruire le antiche masserie della zona. Da alberi di ulivo e antiche carraie che richiamano alla mente silenzi e suoni di cui si è
Nell’ambito delle manifestazioni celebrative per i 150 anni dell’Unità d’Italia predisposte dal Comune di Gravina in Puglia ve n’è una che assumerà un carattere di particolare importanza e solennità. Sarà quella in cui sarà ricordata la figura di Arcangelo Scacchi, eminente scienziato mineralista e cristallografo di fama internazionale, che, per meriti scientifici, fu nominato, il 20 gennaio 1861, Senatore a vita del Regno.
Di questo luminare, il presidente dell’aula di Palazzo Madama, Domenico Farini, ebbe a dire: “fra gli uomini chiarissimi che nel gennaio 1861, annessa Napoli, vennero ascritti al Senato, era Arcangelo Scacchi, il quale nato a Gravina di Puglia il 10 febbraio 1810, da molti anni nell’ateneo professava la mineralogia ed alla napoletana Accademia delle scienze apparteneva. Scienziato di fama più che italiana, qui lo si ammetteva anche per i meriti singolari che cotesta fama gli avevano, a decoro della patria, procacciata”.
Sempre lo stesso presidente, in un altro passaggio di un suo intervento, ribadì ancora meglio la vocazione di Arcangelo Scacchi che si era speso per la scienza. “Allo studio della medicina voltosi in gioventù, ne conseguì la laurea il 1831. Nel tempo istesso invaghito delle scienze naturali si mise dentro allo studio di esse tanto, che in non lungo volgere di tempo, già noto per frequenti e dotte pubblicazioni, poté con pubblico concorso nel 1844, da interino che era da due anni, venire nominato professore di mineralogia e direttore del Museo mineralogico. Al congresso degli scienziati nel 1845 la cresciuta rinomanza lo designò per segretario della sezione di mineralogia e geologia. Gli scritti suoi di mineralogia, di geologia, di cristallografia non che commentare non sta a me lo enumerare. Io posso sì, avvertire che egli, spinto da nobile pungolo, indefessamente studiò, osservò pazientemente, pazientemente sperimentò; debbo ricordare che il naturale acume e la diuturna osservazione ebbero ricompensa di notevoli scoperte che gli meritarono l’essere annoverato alle più insigni Accademie nostrane e straniere: prova di quanto valente ed altamente reputato egli fosse in casa e fuori. Per questo lo scorso anno, celebrandosi il cinquantesimo del suo insegnare, italiani e forastieri andarono a gara nel fargli omaggio di stima grandissima e di affetto. Discepoli e colleghi gli avevano sempre mostrato devozione, anzi venerazione; ed egli, o fosse consigliere ordinario di pubblica istruzione in Napoli, o preside della facoltà, o rettore dell’Università, aveva volto il tempo e le più amorevoli cure allo incremento degli studi, alla tutela degli studenti e degli insegnanti”.
Ricercatore e studioso di minerali, fu più volte rettore dell’Università di Napoli, dove si era trasferito sin dalla giovane età per laurearsi e continuare
Una mezza giornata nella masseria Bellimento, nel parco di Portoselvaggio
La Masseria Bellimento del Parco naturale della Regione Puglia di Portoselvaggio e Palude del Capitano
Antonio Bruno La presentazione di Vincenzo Presicce
La presidente Elisabetta Dolce me lo presenta e mi dice che debbo assolutamente scrivere della sua esperienza. Io stimo molto Elisabetta, la ritengo un tecnico agricolo e ambientale di valore e grazie a lei conosco un uomo dal sorriso pulito con un paio di baffi che fanno simpatia, è Vincenzo Presicce che insieme a suo fratello Giuseppe sono i proprietari della Masseria Bellimento.
Parto presto dalla mia San Cesario di Lecce e percorro la strada che mi porta a Copertino, poi da li in fondo passando dalla Masseria Pendinello della mia adolescenza sono arrivato a Sant’Isidoro e da questa spiaggia che ha accompagnato i miei ozi giovanili mi sono diretto verso Santa Caterina e li ho trovato la Strada Cucchiara dove al civico 177 ho potuto ammirare la Masseria.
Il sito della masseria
Nel sito http://bellimento.spaces.live.com/ ho letto che Bellimento è storia, tradizione, tipicità, genuinità, ricercatezza.
Bellimento è passione di chi ha creato un paradiso da vivere ed è amore smisurato di chi continua a tener alta la volontà di far durare un sogno.
Parco Marino, Parco Terrestre, Macchia Mediterranea, Palude Del Capitano, fanno da degno sfondo ad una famiglia da sempre dedita alla ricerca di gusti e sapori nuovi e pungenti…
Il nome Bellimento è paradossale, come tutto quanto accade nella vita. Era il luogo più brutto che ci potesse essere in agro di Nardò e , proprio per questo motivo è stato chiamato luogo di bellezza ovvero “Bellimento” o meglio Abbellimento.
La masseria Bellimento è estesa 20 ettari che vengono seminati con le foraggiere Loietto, Avena e Favino, ma Vincenzo e Giuseppe prendono in comodato dai proprietari dei dintorni delle terre per altri ei 50 – 60 ettari. Li aiutano 2 operai uno dei quali si occupa delle mucche e l’altro delle capre.
La famiglia Presicce
La famiglia Presicce intuisce qualcosa; dalla vecchia palude, dove d’estate soggiornava con la famiglia, Mario Presicce sentiva odori inebrianti di polline portato dal vento.
Timo, mirto, lentisco, avevano riempito la sua vita di sapori nuovi.
Così continua il racconto letto sul sito
Il timo, il mirto, il lentisco… Vaste distese di colori e profumi portati in
E se si pensasse ad un museo vivente delle piante del Salento
La ricerca dei vitigni perduti nell’arca della biodiversità del Salento leccese
di Antonio Bruno
La biodiversità stata finora sottovalutata ma la perdita della varietà di specie, sia vegetali che animali, sta facendo saltare gli equilibri dell’ecosistema del Salento leccese che a lungo andare, potrebbe causare un macro danno al sistema economico-culturale del nostro territorio. La biodiversità è in grado di offrire una molteplicità di vantaggi all’uomo quali la stabilità degli equilibri climatici, l’incremento dell’attrazione turistica grazie alla diversità del paesaggio e soprattutto l’aumento delle risorse e il loro potenziale di sfruttamento economico. In questa nota una proposta per conservare la biodiversità del Salento leccese La telefonata di Antonio Venneri
Ieri mi ha chiamato Antonio Venneri, un mio amico, che dopo la sua firma con orgoglio aggiunge la qualifica “contadino”. Cosa voleva? Mi ha riferito di un contatto con un vignaiolo che gli ha dato delle barbatelle di Vite di varietà Zagarese. Naturalmente mi ha chiesto di sapere qualcosa su questa varietà. Gli ho promesso una ricerca che ho condotto e che riporto per soddisfare la sua e la vostra curiosità.
Alla ricerca dei vitigni perduti
Antonio Venneri è in perfetta sintonia con la tendenza in atto della ricerca dei cosiddetti vitigni locali (o autoctoni) per recuperare qualità, e perchè spesso sono oggetto dello studio dell’ archeobotanica in quanto in gran parte scomparsi. Nel Salento leccese la vite ha avuto un ruolo fondamentale anche se dobbiamo prendere atto che oggi è quasi estinta. Sarebbe interessante che in questo tempo di tutela della biodiversità si mettesse in atto una ricerca finalizzata a “censire” quello che ormai rimane del ricco patrimonio di vitigni, locali, che invece oggi sono veri “fossili” viventi, che rischiano l’estinzione.
Antonio Venneri ha trovato queste barbatelle di Zagarese prima che non rimanga più traccia di vigna o prima della scomparsa del vignaiolo che l’ha custodita. Spero che ci siano delle altre vigne da salvare prima che sia troppo tardi nonostante la consapevolezza che quello che riusciremo a trovare sarà solo una minima parte di quello che una volta poteva esserci e questo perchè i vitigni non lasciano fossili. Il vitigno primitivo è identico al vitigno Zagarese?
Emerge dalla letteratura che diversi ampelografi hanno sostenuto l’identicità del Primitivo con altri vitigni, in particolare con lo Zagarese che invece dalle fonti in possesso, prima dell’invasione fillosserica, era decisamente più diffuso del Primitivo. Le differenze tra il vitigno Zagarese e il vitigno Primitivo
Il prof. Michele Vitagliano, ha decisamente dimostrato che è inesatto affermare che lo Zagarese è identico al Primitivo in quanto il vitigno Zagarese ha un portamento più modesto, mentre i tralci tendono a poggiarsi sul terreno se non sono affidati ad un sostegno, all’opposto di quelli del Primitivo che sono eretti; l’uva dello Zagarese, rispetto a quella del Primitivo, matura in epoca più tardiva (nel Tarantino si verifica nella terza decade di settembre); la produzione è molto scarsa; il grappolo è piuttosto piccolo, tendente allo spargolo; l’acino è piccolo e dà un basso rendimento in mosto; il relativo vino, meno colorato del Primitivo, è più alcolico e decisamente aromatico. Arturo Marescalchi scriveva del vino Zagarese
Per togliere ogni dubbio in merito, si aggiunge quanto scriveva Marescalchi, all’inizio del secolo: “Il Zagarese è di scarsa produttività e dà uva poco resistente al sole ed alle intemperie. Ha un caratteristico aroma che passa integro nel vino.
Il Fonseca fece dei saggi di vini di lusso con quest’uva; ne ebbe vini eccessivamente dolci ed alcolici vendemmiando le uve un po’ appassite sulla pianta; colorito rosso intensissimo, aroma eccessivo, quasi nauseante; con l’invecchiamento però il vino migliora, l’aroma si arrotonda, il sapore si fa armonico; dal 4° anno il vino si fa bevibile e sviluppa gradevole profumo, rammentando i vini liquorosi spagnoli, Malaga e Porto.
Notava il Fonseca che questo vino, se invecchiato oltre i 4 anni, potrebbe divenire un eccellente vino liquoroso senza concia.” L’ Istituto Tecnico Agrario “Giovanni Presta” di Lecce deve imitare Pomona
Io davvero non so se Antonio Venneri di Melissano del Salento leccese metterà a dimora il vitigno Zagarese, sono valutazioni che deve fare lui, che fanno parte delle decisioni di un imprenditore agricolo. Io so solamente che se quel vignaiolo che ha contattato Antonio Venneri fosse venuto meno, con lui se ne sarebbe andato per sempre un pezzetto della nostra storia.
Mi rivolgo ai saperi di questo territorio e specificamente all’Istituto Tecnico Agrario “Giovanni Presta” di Lecce affinché divenga custode di biodiversità. Dobbiamo copiare le buone pratiche, dobbiamo imitare l’Associazione nazionale per la valorizzazione della agrobiodiversità che è in Contrada Figazzano, numero 114 cap 72014 a Cisternino (BR) tel. (+39) 080.431.78.06 pomona@pomonaonlus .it Il segreto che ho scoperto
Il segreto è la lezione elementare di Paolo Belloni, 61 anni, fotoreporter per mestiere e contadino-filosofo per vocazione. Lui questo segreto l’ha rubato alla natura: “selvatico e domestico dimorano fianco a fianco, perché la garanzia di sopravvivenza è la complessità”
Dobbiamo imitare le braccia di Paolo Belloni che lavorano la terra. Paolo Belloni presidente dell´associazione POMONA e “padre” di questo museo vivente è al fianco di Hila Ndereke, contadino albanese di 50 anni.
Due persone da sole hanno fatto l’arca della biodiversità del Salento Brindisino, chissà se dopo questo scritto voi amici che leggete le mie povere parole magari sarete presi dalla sana euforia di darmi una mano a costituire la stessa cosa nell’Azienda Panareo dell’Istituto Tecnico Agrario “Giovanni Presta” di Lecce. Un arca a cui attingere materiale per la coltivazione! Il guadagno assicurato
Guardare, toccare, annusare, sentire, gustare, è il punto di partenza per chi ama avvicinarsi alla natura. E’ un mondo di stupore, di continua meraviglia. Ogni elemento è indispensabile sia per l’equilibrio sia per la percezione olistica del paesaggio. Le piante trasmettono l’armonia del loro equilibrio a chi, con massimo rispetto, intende osservarle e toccarle. Il museo vivente delle piante del Salento leccese quindi sarebbe il luogo bellissimo, avrebbe una natura suggestiva ricca di evocazioni storiche e letterarie. Ci sono tutti gli ingredienti per una fruizione turistica da incoraggiare e valorizzare. Una fonte di guadagno per la scuola da investire per il miglioramento dell’offerta formativa. Mi darai una mano? Bibliografia
Giuseppe Francioni Vespoli, Itinerario per lo regno delle due Sicilie, Anno 1828
Bitetto, il vino Zagarese è un famoso prodotto dei suoi vigneti
Giovanni Jatta, Cenno storico sull’antichissima cittla di Ruvo nella Peucezia:
Si fa pure il cosi detto vino zagarese , il quale è un vino dolce piuttosto di uva nera picciola e minuta clic ha molto vigore e molta fraganza. È quello stesso vino che si fa anche sulla collina di Fosillipo , ed è denominato cacamosca molto in Napoli pregiato.
Michele Garruba, Serie critica de’sacri pastori Baresi – Pagina 720 anno 1844: Sono apprezzati i suoi vini, specialmente lo zagarese ed il moscato.
Guglielmo Gasparrini, Breve raggluaglio dell’agricoltura e pastorizia del regno di Napoli di qua del Faro anno 1845 Lo zagarese o alicante di bellissimo colore nero carico che si fa in Barletta ed in altro paese della provincia di Bari.
Carlo De Cesare, Delle condizioni economiche e morali delle classi agricole nelle tre province di Puglia, 1859: lo Zagarese o alicante di color nero carico che si fa in Barletta,Trani, Molfetta, Bari, Bitetto e in altri paesi.
Giuseppe de Luca, Il reame delle due Sicilie: descrizione geografica, storica, amministrativa anno 1860: l suolo di questa provincia è assai ben coltivato, e produce principalmente ed in gran copia, grano, olio, mandorle, fichi, cotone, lino, e vini, di cui i più rinomati sono il moscato di Trani, il zagarese di Bitonto, ed il vino bianco …
Parlamento Italiano Atti del Comitato dell’inchiesta industriale (1870-1874):È mestieri quindi d’incoraggiare l’impianto di stabilimenti enologici e di favorire l’esportazione del vino in ragione diretta della quantità e qualità. Non mancano nella provincia vini di speciale aroma, come la malvasia, lo zagarese …
Cosimo De Giorgi, La provincia di Lecce: bozzetti di viaggio 1884: Il miele, il vino zagarese e le uve passe gareggiano di fatto coi migliori ed analoghi prodotti del resto d’Italia. L’albero sacro a Minerva è però il predominante e fornisce dell’olio eccellente.
Colosso Adolfo 1854-1915 Da “Il sito industriale di Adolfo Colosso a Ugento tra storia e patrimonio” di Antonio Monte e Ilaria Montillo, edizioni Crace, 2009: (…)Grazie alle accurate tecniche e l’impegno costante con una presenza assidua, dai campi alla lavorazione, la ditta produceva ottimi vini come lo zagarese, l’ozantino e il moscato, premiati in diverse esposizioni e concorsi enologici.
Girolamo Molon, Ampelografia: descrizione delle migliori varietà di viti per uve da vino, uve da tavola, porta-innesti e produttori diretti, Volume 2 anno 1906: Zagarese. Zagarese nero.
Bollettino dell’arboricultura italiana: Volumi 4-7 anno 1908 Zagarese. — (Fona. 21. — Lic. I, 50; XV, 133. — Jat. 136. — Gram. 22): Tralcio di media grossezza, … Dà un ottimo vino dello stesso nome, liquoroso e molto profumato; si adopera spesso per impartire agli altri vini profumo e colore … Bollettino della Società geografica italiana anno 1914: Né è a credere, come non pochi fanno, che i nostri vigneti non sieno capaci di dare altro prodotto che vino da taglio. … dà eccellente vino da pasto e da dessert, come la zagarese che dà un vino liquoroso di sapore molto gradito (3).
Arturo Marescalchi, La degustazione e l’apprezzamento dei vini anno 1920: Abbiamo in Italia parecchi vini aromatici: moscati, malvasia, aleatico, brachetto, montepulciano, zagarese, ecc. E abbiamo anche dei gusti particolari, che non sapremmo se proprio appartengono alla categoria degli aromi.
Touring Club Italiano, Guida Gastronomica anno 1931: Vanno indicati come vini pregevoli e conosciuti tanto in Puglia che fuori …lo Zagarese, rosso e dolce da bottiglia.
Accademia dei fisiocritici in Siena. Sezione agraria – 1935 Vini spediti dalla Cantina Sperimentale di Barletta alla Mostra Mercato dei Vini Tipici di Siena da figurare nel … Colosso »: Raffaele Garzia ‘Riccardo Staiano Ugento (Lecce) » » Lecce S. Nicola » Zagarese Rosso vecchio Torre Pinta …
Paolo Monelli, O.P., ossia, Il vero bevitore anno 1963: A Barletta ritrovai lo zagarese nero e dolce che piace tanto ai trevisani, e lo chiedono spesso quando « vanno per ombre » da un’osteria all’altra, e spesso all ‘ombra di zagarese fanno precedere l’ombra di un altro vino pugliese giallo …
D.M. 8 settembre 1965. Elenco dei vitigni atti a dare uve idonee alla produzione di vino base per la preparazione di vini liquorosi. (pubbl. in Gazz. Uff. n. 233 del 16 settembre 1965): Tra gli altri anche il vitigno Zagarese
Vittorio Villavecchia,Gino Eigenmann, Nuovo dizionario di merceologia e chimica applicata, Volume 7:
I vini italiani più conosciuti si possono distinguere, a seconda dei loro caratteri organolettici, nelle seguenti: Vini rossi dolci aromatici caratterizzati dall’aroma speciale dell’uva con cui furono fabbricati … il Zagarese, fatto con l’uva omonima e prodotto essenzialmente nelle Puglie.
Vito Teti, Mangiare meridiano: culture alimentari del Mediterraneo anno 2002: Non è rara la presenza di vigne di una certa estensione con una o più specie di vitigni come l’aglianico, il mantuonico, la malvasia, il moscatello, il guarnaccio, il pizzutello, lo zagarese. Esistono vini di “buona stoffa” e ottima …
Ottavi Ottavio, Vini di lusso, Vermhout e Aceti. C’è citato il vino Zagarese
Un grido da Lecce: giù le mani da Piazza Partigiani
Grido che, esclusivamente per mero senso civico e al pari di un’altra recente rimostranza di medesimo oggetto e merito, è rivolto agli Amministratori del capoluogo salentino, in particolare al Sindaco Perrone e all’Assessore Monosi.
Com’è noto, ha suscitato sentimenti di scalpore e indignazione il proposito di questa civica amministrazione di alienare, insieme con altri cespiti immobiliari, l’area a giardino di Piazza Partigiani, su una parte della quale sorge e opera una scuola pubblica per l’infanzia.
La motivazione all’origine del piano di dismissioni immobiliari è la seguente: fare cassa, a sostegno delle purtroppo languide finanze del Comune.
E però, mai come in questo caso il dichiarato fine non sembra giustificare i mezzi.
Difatti, il terreno piantumato di che trattasi rappresenta uno dei rari polmoni verdi della città, addirittura uno sfogo salubre vitale per lo specifico quartiere e i suoi abitanti.
In aggiunta, perché sacrificare addirittura una scuola pubblica così preziosa sull’altare di un’operazione di privatizzazione, con chissà quali e quante meno nobili finalità di lucro per chi ne diverrà proprietario?
Non c’era certo bisogno della protesta delle forze d’opposizione in seno al Consiglio Comunale e delle vibrate prese di posizione da parte del comitato di quartiere, l’assurdità del progetto basta da sola a gridare vendetta.
Urge, dunque, che il cespite sia urgentemente, solennemente e
Cipoddha ti cane, erva ti iaddhìna, erva ti pùlici, erva ti tòrture, gìgghiu ti cìmici, ua ti scursùni.
di Armando Polito
Poiché l’associazione del nome dialettale (nel caso dell’ervati pùlici pure di quello italiano) dell’essenza con quello di un animale non obbedisce ad una regola comune, la relativa motivazione etimologica sarà affrontata volta per volta nelle singole schede.
Cipòddha ti cane
nome italiano: scilla autunnale
nome scientifico: Scilla autumnalis L.
nome della famiglia: Liliaceae
Il nome dialettale ha in sé una connotazione ancora più dispregiativa di cipuddhàzzu, riservato alla sorella Scilla maritima, il che fa pensare che questa essenza non abbia le proprietà di quella; per il resto si rimanda al post Ecco a voi la scilla, alias cipuddhàzzu del 3 gennaio u. s.
Il nome dialettale (in italiano sarebbe erba di gallina) e il secondo italiano mi fanno pensare che le galline ne siano ghiotte; escluderei con questo qualsiasi suggestione di collegare la gallina , per paretimologia, al segmento –gallide del primo nome italiano (che è dal latino anagàllis/anagàllidos1, trascrizione del greco anagallìs/anagallìdos, composto da avà=su e agallìs=iris nana); arvensis significa campestre. Il nome della famiglia è forma aggettivale dal primo componente della locuzione latina medioevale prìmulaveris=la prima (pianta) della primavera.
Erva ti pùlici o pulicàra
nome italiano: psillio o pulicaria
nome scientifico: Plantago psyllium L.
nome della famiglia: Plantaginaceae
Il secondo nome italiano (pulicaria) è dal latino tardo pulicària(m), forma aggettivale dal classico pulex/pùlicis=pulce, con riferimento alla somiglianza del seme con l’animale, il che spiega pure il nome dialettale2. Stesso collegamento per psillio che è la trascrizione del secondo
e l’ammirevole industriosità degli uomini salentini
L’OSSE SARTARIEDDHRE
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
(…) Inoltrandosi nella macchia d’Arneo, i contadini correvano il rischio di soggiacere a una contaminazione di libertà preistoriche, poiché nel sollecito allettante di quella natura primordiale, irruente nella sua proliferazione e così opulenta nella spontaneità dell’offerta, ognuno si sentiva novello Adamo in un lembo di Eden e quasi per un processo logico di immedesimazione era spinto ad affermare un suo diritto non soltanto sul mondo vegetale ma anche sulle presenze animali che lo circondavano. Mettere nel sacco insieme ai pampasciùni (vampagioli) anche l’inerme leprotto scoperto nella tana era un impulso irresistibile, anche perché in quel momento si scaricava tutto un complesso di privazioni e negazioni quotidiane, facendo sì che l’appropriazione, in sé stessa occasionale, assurgesse a referente convenzionale di una ribellione dalle assonanze ataviche. Di fronte a tutto quel ben di Dio che sembrava ribadire il concetto di una provvidenza destinata a tutti indiscriminatamente, più netto balzava il contrasto della sofferta miseria, e l’avidità che ne scaturiva la si doveva tanto all’inventario dei bisogni privati quanto alla mortificazione di una coscienza collettiva.
Come potevano i contadini, che mangiavano la carne solo nelle feste comandate – peraltro riducibili a Natale, Pasqua, Carnevale, San Martino e la ricorrenza del Santo patrono -, rimanere indifferenti di fronte allo sbucare ti nna milògna (di un tasso), la cui carne aveva sapore di porcellino lattante? La conflittualità fra lecito e proibito veniva naturalmente a cadere, assorbita da quel momento di fortuna che, se pure prefigurato nel desiderio, nasceva ugualmente inaspettato e quindi assumeva i contorni superstiziosi di una predestinazione. Né suonava improprio o esagerato pensarla in tali termini, giacché tornare a casa con una lepre, un coniglio selvatico, un tasso, un istrice, o sia pure semplicemente un riccio, equivaleva non soltanto a celebrare una festa fuori calendario, ma anche ad assicurarsi un provento extra: al di là dello scialo familiare, permesso e costituito dalla carne, di ogni preda, per povera che fosse, l’industriosità contadina ricavava un qualche profitto, sia in termini prettamente commerciali, sia come elementi idonei a
Sono solo Soffi queste poesie di Lillino Casto, “frammenti che non vogliono dire ma suggerire”, come spiega Gino Pisanò, nella Prefazione del libro. L’autore è molto noto nella sua città, soprattutto per i suoi trascorsi politici (è stato Sindaco di Casarano per alcuni anni). In effetti, non di una pubblicazione vera e propria si tratta, essendo questo libro fuori commercio. L’autore ha voluto stampare un limitato numero di copie, a proprie spese, per farne dono a parenti, amici e compagni di una lunga vita di lavoro e impegno politico.
La forma poesia è l’approdo di Casto dopo questa lunga esperienza. Non che alcun condizionamento ideologico faccia ostacolo alla totale onestà di questi versi, attraverso i quali Casto si fa osservatore del mondo, delle sue gioie e dolori, dei suoi guasti, delle sue bellezze; sempre con un approccio leggero, ma intimo e non superficiale, anche quando coglie la realtà nella sua dolorosa drammaticità (Libertà, Nassiriya, Sharm El Sheik).
E poi, l’idea della vita e della morte e l’amore, che è una componente fondamentale della vita di noi tutti, sono le altre tematiche presenti in questa silloge. “Dal ramo/ si stacca/ una foglia/. Incerta/ vacilla,/ lenta /scende, /stanca/ si posa/ sul giaciglio/ dell’oblio/” (La foglia). Oppure, ancora: “Scuro/ il cielo/ greve/ Secchi/ gli alberi/ nudi/ Forte/ il vento/ noioso/ Triste/ l’autunno/ imbronciato/”(Autunno).
Come spiega Gino Pisanò, “Il linguaggio di Casto è naif, naturale, spontaneo, eppure analogicamente modellato sull’incudine dell’officina letteraria del Novecento. Vi si sospetta, in filigrana, la lezione del sillabato di Ungaretti e Cardarelli, ad esempio. Ed essa riposa in quella struttura paratattica della
In questa quinta puntata esamineremo due essenze vegetali che evocano il simpatico animaletto la cui coda era stata già messa in campo nella seconda.
Rècchia ti sòrice
nome italiano: orecchio di topo, erba celestina, nontiscordardimè, miosotide dei campi.
nome scientifico: Myosotis arvensis (L). Hill.
famiglia: Borraginaceae
Etimologie: quanto ai nomi italiani per il primo (del quale è fedele trascrizione il nome dialettale) e per il secondo basta la foto; nontiscordardimè è legato ad una leggenda austriaca secondo la quale così avrebbe esclamato all’indirizzo della fidanzata un giovane in procinto di annegare nel Danubio in cui si era tuffato per raccogliere un fiore azzurro che vi galleggiava e che la ragazza voleva avere; il terzo (miosotide) spazza via in un secondo lo struggente clima romantico che si era appena creato, dal momento che esso è dal latino myosòtide(m)1 e questo dal greco
Se la storia di un popolo passa attraverso il culto o la cultura di un feticcio, di un totem portafortuna, scaccia crisi o scaccia jella, non è un fatto negativo, anzi è il frutto di una creatività popolare fatta di strumenti con i quali poter esprimere un linguaggio, alcuni concetti, semplici parole, emissioni di suoni o messaggi. E’ quanto si è sforzato di spiegare, riuscendoci, Amedeo Visci, con la sua ultima fatica editoriale: “Il cola – cola tra il mito degli dei e degli eroi”.
Un testo che analizza aspetti storici ed etno antropologici di uno strumento a fiato realizzato e plasmato con le mani di artigiani locali abituati a modellare l’argilla, o volgarmente chiamata creta, trasformandola in terracotta. D’altronde, Gravina, ricca, nei suoi insediamenti di questa materia prima, è stata, sin dai secoli scorsi, maestra d’arte, maestra di vasari illustri le cui testimonianze sono state rinvenute nelle tombe della zona archeologica di Botromagno.
Ma oltre a questi illustri trascorsi di importanza notevole, è possibile dire e affermare con certezza che la cola – cola, sotto le sembianze di un galletto o di un volatile somigliante alla gazza (Pica Caudata), è un simbolo di Gravina in Puglia? Con certezza, si, perché, se viene alla mente uno dei toponimi di questa città, soprattutto sotto la dominazione romana, quando si chiamò Silvium, cioè luogo di selva e di boschi, dove di solito la gazza vive, diventò l’oggetto identificativo della città e della sua comunità.
E’ doppiamente simbolo della città peuceta se si considera che, soprattutto letto e visto sotto forma di gallo, animale sacro ad Esculapio, legato al culto di Ercole, ad alcuni eroi mitici richiamati nel titolo del libro, ha rappresentato l’ idea vincente della morte sconfitta dalla vita, il bene che vince il male, soprattutto, in Puglia, dall’arrivo dell’Arcangelo Michele, che sostituì il culto misterico di Esculapio, sconfiggendo, prima,gli angeli ribelli e, successivamente, debellando gli artefici delle distruzioni barbariche, che tanti morti seminarono anche a Gravina, tant’è che la città lo elesse suo protettore.
Quindi, la cola – cola segno di rinascita, di riscatto. E non può essere diversamente, soprattutto, se le leggere fasce cromatiche, che adornano questo manufatto, sono vivaci e non spente, improntate all’ottimismo, ai mesi primaverili dell’anno, quando la natura mostra la bellezza dei suoi colori.
Questi oggetti di terracotta vengono prodotti anche in altre zone della Puglia e della Basilicata, ma hanno altre forme e hanno altra valenza. Sono comunemente chiamati fischietti, tanto è vero che a Rutigliano, in provincia di Bari, ogni anno si svolge la sagra del fischietto.
La cola – cola, è vero, è un fischietto anomalo, non più in uso, ma bello da vedere, da mostrare, da regalare, da acquistare sulle bancarelle dei mercatini delle feste paesane o delle sagre di paese.
Un simbolo, un modello espressivo di arte paziente e povera, ma ricca di contenuti, di quell’arte intrinseca, specialistica e specializzata, pronta a colmare di speranze il presente, quasi sempre, senza domani.
Il testo di Visci ha racchiuso, immortalato, conservato e consacrato, nel breve volgere delle sue pagine, i tesori di un popolo, di una generazione che ha creduto al niente, al falso, all’immaginario costruito dalla sola arma della fantasia,
Nacque a Taranto il 16 novembre 1729 da Cataldo Pontillo e Grazia Procaccio, in una piccola e misera casa del borgo medioevale della città. Qualche anno dopo la nascita il bambino fu battezzato con i nomi Francesco, Antonio, Pasquale, santi che diverranno la sua guida spirituale e dai quali attingerà lo spirito religioso. Condividerà la povertà e la penitenza di San Francesco, i miracoli di Sant’ Antonio e il culto a Gesù Sacramento di San Pasquale.
La sua famiglia era composta da modesti artigiani che trasmisero ben presto al giovane il duro mestiere di funaio e felpaiuolo che loro svolgevano abilmente e che garantiva solo un misero tozzo di pane.
Cresceva in età ed anche in fede e fervore cristiano, plasmava di devozione straordinariamente ogni istante e momento della sua giornata. Si distingueva dai compagni per l’umiltà, la modestia, l’amore e l’apertura al prossimo emblema di una inesauribile carica interiore, resa tale dalla vita spirituale che conduceva. Giovanissimo si iscrisse alla reale arciconfraternita di Maria Santissima del Rosario presso la chiesa di San Domenico Maggiore. A diciotto perse il padre e continuò a lavorare non più come felpaiuolo ma come cordaio. Divenne l’unico sostegno economico della famiglia, il suo guadagno lo ripartiva tra le necessità incombenti della madre e dei suoi tre fratellini e i poveri.
Nel frattempo la madre si risposava con un barbiere di Grottaglie e lui andò a lavorare nella bottega del cognato della madre. Il patrigno si rese conto subito che Francesco Antonio non era un ragazzo come gli altri e così, sensibile di fronte alla personalità e alla spiritualità del giovane, gli diede la possibilità di realizzare la sua vocazione religiosa. Ma qual’era l’ordine da abbracciare? Francesco iniziò una novena alla Santa Vergine perchè lo illuminasse e nel settimo giorno gli apparvero in sogno due religiosi, un sacerdote e un laico Alcantarini che lo invitarono nel loro ordine. Il mattino seguente Francesco si recò al convento dei Francescani Alcantarini a Taranto e chiese di parlare con i due frati apparsi in sogno e di cui fornì particolari descrizioni. Invano. Nel convento non esisteva alcuna persona che potesse assomigliare a quelle descritte. Addolorato ma non sconfitto entrò nella chiesa del convento e ai due lati dell’altare maggiore scorse le immagini di San Pietro d’Alcantara e di San Pasquale Baylon. Riconobbe i due religiosi apparsigli in sogno. Il disegno
Intervista al salentino Andrea Padova, interprete e compositore
Dialogo tra un musicista assai filosofo e un filosofo per nulla musicista
di Andrea Padova e Pier Paolo Tarsi
Partiamo dalla fine, cioè dal suo ultimo lavoro. Altrove ha affermato che in esso vi è molto della sua terra, il Salento. Potrebbe rendere in parole il senso di tale presenza, indicare cioè brevemente la natura di questo legame che ha voluto esprimere nella composizione musicale?
“Arancio Limone Mandarino” è innanzitutto un disco che nasce dal Salento. Basta scorrere i titoli dei singoli brani per ritrovare il nome di alcuni luoghi (“Verso Leuca”, “Porto Selvaggio”) o di alcune persone (come Renata Fonte), di alcune suggestioni musicali (“Pizzica Tarantata”) o per riconoscere alcuni versi di Vittorio Bodini (“La pianura di rame”, “Il cielo è bianco”). Il titolo stesso dell’album è sia l’inizio di una filastrocca popolare che i bambini associano al gioco con la corda, sia un verso che Bodini usa come refrain in una delle sue poesie più belle. Posso aggiungere che per me, come per moltissimi altri, il Salento è il luogo dove sono nato e dove sono tornato, dopo aver vissuto anche altrove. Come appunto per Bodini e tanti altri, per me è proprio questo essere stato altrove che permette di vivere in maniera diversa questa terra. Direi quasi con un progressivo lento riavvicinamento che porta ad una maggiore non vorrei dire consapevolezza, ma senz’altro intensità.
Al di là di questo amore per il Salento che impregna anche il suo ultimo lavoro, bisogna tuttavia riconoscere che, finora, i più importanti riconoscimenti, sia come interprete che come compositore, le sono giunti soprattutto dall’estero, fuori dal Salento e dall’Italia in genere, sebbene anche in ambito nazionale goda di ampio favore della critica. Sullo scenario internazionale le viene rivolta grande attenzione, sin da quando, nel 1995, si è aggiudicato la vittoria al prestigioso “J.S. Bach Internationaler Klavierwettbewerb”. Ha un ampio e attento pubblico in diverse parti d’Europa ed è fortemente apprezzato anche al di là dell’Atlantico. Negli Stati Uniti è chiamato regolarmente ad esibirsi sui palchi più importanti, la critica le ha dedicato numerosi encomi su giornali come il New York Times e il Washington Post. È apprezzato e invitato insomma nei vari angoli del globo come uno dei migliori pianisti viventi, persino in Estremo Oriente, in Giappone per citare un caso. Qualcuno – forse in un momentaccio della sua vita – disse che nessuno è profeta in patria. Lei è più ottimista in proposito? O dubita della riconoscenza di questa terra che tuttavia lei onora ampiamente celebrandola nei templi sacri della musica mondiale?
Per carattere mi interessa molto più il fare che l’apparire: intendiamoci, non si tratta di un atteggiamento ascetico o particolarmente nobile, anzi è una forma piacevole e innocua di egoismo che finisce semmai per diventare altruismo: l’altruismo di non volerci essere sempre ed a tutti i costi. Più seriamente, il poter convertire in studio e tempo per la riflessione e la creazione le energie che oggi tanti, anche nel Salento, dedicano a un tentativo di onnipresenza, è un privilegio che è più facile coltivare a Lecce che a Milano o New York. Ho iniziato a tenere regolarmente recital nel Salento attorno ai sedici anni, e dai ventitre ho suonato con una certa frequenza come solista con l’Orchestra che oggi chiamiamo ICO. Non ho nulla di cui lamentarmi e forse non mi lamenterei comunque. Sicuramente non desidero riconoscenza. Oggi, con più di trent’anni di carriera alle spalle, sono io che non sento il bisogno di suonare a Lecce ogni anno o più volte l’anno. E dato che ogni regola comporta delle eccezioni, ovviamente suonare anche nel Salento i pezzi di questo nuovo album che sono nati nel e dal Salento è una cosa che mi interessa e sarò felice di fare. Anche se la presentazione del cd e il primo concerto saranno a Londra l’8 Febbraio…
Il suo repertorio come compositore è piuttosto variegato e ampio: spazia nel paesaggio sonoro dal classico, al Jazz, senza arroccamenti nella musica colta, non mancano infatti aperture alla spontaneità della musica popular. Vorrei sapere, che rapporto ha con la musica popolare salentina, in senso ampio? E cosa pensa in particolare del fenomeno “Notte della Taranta”?
Duplice: mi fa piacere che con la “Notte della Taranta” il Salento abbia raggiunto una notorietà internazionale e soprattutto trasversale ed interessi sia fasce d’età che appassionati di generi assai diversi tra loro. Mi rattrista un po’ vedere invece che il Salento venga identificato solo con la pizzica e soprattutto mi rattrista vedere che, tra coloro che si dedicano allo studio e all’esecuzione di testi e musiche legate al fenomeno del tarantismo, i pochi bravi e seri siano una esigua minoranza. È interessante e ha un aspetto quasi comico notare come lo spirito di trance e di stordimento siano passati dal senso e dalla pratica di quella musica alla capacità di percezione del grande pubblico, che sotto l’etichetta generica di Pizzica oggi si lascia servire davvero di tutto: in larghissima parte musica molto brutta e per di più molto mal suonata.
Musica di qualità e celebrità. Che relazione sussiste tra le due in Italia, ammesso che vi sia? E all’estero, cambia qualcosa in tal senso?
Posso rispondere per quelle che sono le mie impressioni e naturalmente, quindi, la mia risposta vale soprattutto per la musica classica e contemporanea, più che per jazz, pop e rock il cui mondo mi è meno noto. L’Italia come sappiamo è un paese di individualisti inguaribili (in quanto compositore e pianista, devo inserirmi automaticamente nella lista!) e le
Se ne parla raramente, tantomeno ci si sofferma, e, però taluni modi di dire e/o riferimenti e/o veicoli espressivi tuttora in voga e in circolazione in seno alla cultura delle abitudini e, più precisamente, al gergo espressivo dei paesi, specie piccoli centri, dell’Italia Meridionale, rappresentano veri e propri tasselli di storia, insostituibili carri di collegamento al passato e alle tradizioni.
Siffatta considerazione ruota intorno alla preposizione semplice di (in lingua dialettale, nelle accezioni ulteriormente contratte ‘u oppure ‘a), nel senso di specificazione, indicazione di appartenenza o collegamento, origine, provenienza, estrazione, parentela.
A ben ricordare, delle richiamate due lettere dell’alfabeto, in tale funzione, si trova traccia quantomeno dagli antichi Greci, sebbene allora, per rendere l’idea, la preposizione di era magari preceduta dalle parole figlio o figlia. Esempi, illustri esempi, Achille (figlio) di Peleo, Ulisse(figlio) di Laerte.
Anche ai tempi dei Romani, il termine di ( o de) espletava il significato d’appartenenza ad un ambito più grande, una famiglia, ad esempio de gens Iulia.
Sono trascorsi secoli e millenni, ma il discorso è attuale, permane. Solo per citare, nel paese di nascita dell’osservatore di strada che scrive, continua ad essere una costante diffusa, facilmente e semplicemente è dato di enumerare una serie di concrete esemplificazioni:
Arturu ‘a Rosalonga, Cici ‘u Cunsiiu,
Cosiminu ‘u Custanzu, Luigi ‘a Violanda, Ninu ‘u Calogeru,
Pippi ‘a Matalena, Pippi ‘a Semira, Roccu ‘u Minicone,
Totu ‘u Pativitu, Totu ‘a Tota, Ucciu ‘a Gnese, Ucciu ‘u Fiore,
Ucciu ‘u Turiddru, Vitali ‘u Generosu.
La curiosità, o distinzione specifica e inspiegabile, è che, talvolta, il riferimento verte sul nome di battesimo del padre o della madre, in altri casi, su quello del nonno o della nonna; ad ogni modo, il lampo di messa a fuoco che si accende è sempre lo stesso e efficace.
Inoltre, può verificarsi qualche variazione nel tempo: infatti, fin quando è vissuto il di lui padre, il sottoscritto è stato additato e specificato come “Roccu ‘uSilviu”, mentre, dopo la scomparsa del genitore, chissà perché, ha assunto l’appellativo di riferimento “Roccu ‘uMinicone”, con rispolvero non del nonno, ma addirittura del bisnonno per via materna: la mamma di Silvio, Consiglia, era figlia di Domenico (classe 1850 o giù di lì), a quel che sembra uomo particolarmente elevato di statura e, quindi, detto Minicone.
Non c’è che dire, usi e vezzi di ieri se non proprio antichi, tuttavia attuali e in auge ancora il giorno d’oggi.
Fucine di lavoro e produttività. Luoghi idonei in cui veniva cucinata la calce da utilizzare per abbellire, imbiancare e pulire mura e pareti di palazzi, di case, di lamie. Numerose e tante, in un contesto abitativo molto piccolo, hanno assolto ad una funzione, ad un ruolo economico ed occupazionale di mano d’opera, oltreché di salvaguardia, di pulizia, di tutela e di rispetto dell’ambiente. Oggi, sono dismesse, abbandonate al loro infame destino. Trascurate e dimenticate, come ogni cosa di cui disfarsi, secondo quella regola di progresso che impone solo il futuro incerto, senza garantire prospettive di identità.
Gravina aveva questa ricchezza insieme alle cave di tufo, di pietre, di mazzaro, alle cave e alle fornaci in cui si estraeva e cucinava l’argilla trasformata in coppi per coprire i solai o in brocche e tanti arnesi da cucina tra cui piatti e recipienti idonei al consumo del desco familiare. Era avanzata sotto il piano dell’edilizia. Non era seconda a nessuno. Anzi, fiorente in questo commercio, era all’avanguardia nell’esportare i suoi prodotti migliori, quelli trasformati dalla materia prima di cui madre natura l’aveva dotata.
Non c’è più traccia di questi siti, se non nella memoria di coloro che hanno adoperato braccia e il sudore della loro fronte. Un tentativo di recupero, se non alla loro funzionalità, ma almeno testimoniale, sembra impossibile o destinato a non essere recepito da un punto di vista storico e culturale dai proprietari. Sembra non esserci nessuna sensibilità neanche da parte degli enti pubblici, preposti, tra l’altro, a disperdere una certa memoria, una certa visibilità culturale.
Il declino della storia è destinato a soccombere, senza nessuna possibilità di rialzarsi con quella necessaria e dovuta punta d’orgoglio, nonostante sollecitazioni, strumenti e mezzi che potrebbero essere utilizzati, se solo si pensa alla possibilità di attingere a finanziamenti europei. Queste celle diroccate, questi tufi, ormai, ammassati, sotto cumuli di immondizia, di erbacce possono continuare a languire, a far perdere le loro tracce. Hanno fatto il loro tempo.
Nonostante ciò, però, c’è qualcuno che non dispera. Tanto è vero che è stato realizzato un calendario con immagini e storia di questi antichi opifici. A curarlo è stata l’Associazione Amici della Fondazione Ettore Pomarici Santomasi, un sodalizio impegnato da anni a recuperare, ma soprattutto a non far disperdere l’immenso patrimonio storico, culturale, abitativo di una città che ha avuto in dono molto e poco ha dato al bene gratuitamente ricevuto.
La professoressa Marisa D’Agostino, presidente dell’Associazione, ha censito, grazie all’ausilio di alcuni proprietari, tutto l’intero patrimonio, che, attualmente, ammonta ad un numero di 13 fornaci, forse, anche recuperabili da un certo punto di vista. Ma niente di più per quello che poteva essere un simbolo di creatività, di operosità.
Il destino di queste ricchezze naturali è tutto da inventare, se non si vuole continuare ad affidare al tarlo del tempo quello che ha rappresentato ricchezza e benessere per l’intera comunità.
Un immenso ed inestimabile tesoro naturale da poter vantare come gioielli, come ricchezza, diventato fastidioso ingombro, forse, di cui disfarsi, perché ormai, l’incuria del tempo e degli uomini ha saputo sciupare e dilaniare senza rispetto per nulla e per nessuno, e per cui, ogni intervento di recupero sarebbe o potrebbe risultare inutile. Di questa cultura, purtroppo, è impregnato il nostro tempo, il nostro correre affannati verso il nulla, verso l’assurdo e l’ignoto.
La città avrebbe dovuto mostrare tutta la sua sensibilità per conoscere, apprezzare, valorizzare, sensibilizzare, ricostruire. Invece, è il degrado il nuovo padrone a cui, volontariamente o involontariamente, sappiamo dire di si, con incoscienza, con leggerezza e faciloneria, il tutto accompagnato da quella dose di ignoranza che fa da sfondo, da cornice e da scena al teatro mesto di un corteo funebre che sopravanza in maniera inesorabile, spietata, crudele ed irreversibile e anche inarrestabile e inafferrabile.
Foscolo, in una delle sue poesie: A Zacinto, presagiva “a noi il fato prescrisse illacrimata sepoltura”. E’ quello che potrebbe toccare, se non lo ha già toccato, il destino delle cose belle, delle cose sacre, della storia recente di quegli uomini, pur non fatti per vivere come bruti, secondo il sommo poeta Dante, ma per seguir virtude e conoscenza, e, invece, si sono mostrati e si mostrano, ogni giorno di più, dissacratori, distruttori, assassini, negativi e cattivi maestri.
Veri iconoclasti della memoria, delle tradizioni, della cultura, dei saperi e dei sapori. Di quei cimeli resta ben poco, se non il nulla o il niente. Non c’è più nessuno che sappia o saprà farli amare.
Resta, però un fatto, una considerazione amara. Quanto resisterà la nostra sudditanza psicologica al progresso? Quanto resisterà la nostra inesistenza? Quanto durerà la nostra supponenza? Quanto durerà la nostra vita insipida, vuota e scialba?
Sono domande da cucinare in quelle stesse fornaci che abbiamo distrutto, e, quindi, non avranno risposta, se non appicchiamo il fuoco amico dell’orgoglio cittadino, dell’appartenenza e della identità.
È nato il “registro delle opposizioni”, per chi non vuole essere disturbato al telefono
Succede di solito mentre stai seduto a tavola, alle prese con meravigliosi spaghetti che profumano di pomodoro o di cozze. Oppure mentre stai leggendo un libro, proprio nel momento in cui staccarti è doloroso. Succede, a volte, mentre ti stai appisolando di fronte alla TV che vomita parole. Ha la magia di arrivare nei momenti meno indicati. Proprio come quel poveretto che ha suonato una mattina tardissimo, mentre stavo curando con affetto un sugo per la pasta. Era a fine cottura. Quei momenti in cui basta un’inezia per trasformare il tutto in un ammasso nerastro bruciacchiato. Spengo di corsa, di corsa vado ad aprire, “Buon giorno, vorrei parlare con lei dei destini del mondo” il mio sguardo deve essere stato eloquente almeno quanto le parole che sono uscite spontanee dalla mia bocca. Era un testimone di Geova, il poveretto.
Comunque, per tornare a prima, proprio in quei momenti succede che il telefono squilli. Ovviamente abbandoni ogni cosa tu stia facendo. La pasta nel piatto, con rammarico. Il pisolino sul divano, assonnato. Il libro aperto sul divano o sulla scrivania, tentando di ricordare l’ultimo dialogo. E vai a rispondere, perché il telefono è pur sempre il telefono. Potrebbe essere un amico che non vedi da mesi. Oppure tua sorella che deve dirti della sua emicrania. Potrebbe essere la persona alla quale pensi più spesso. Insomma, a rispondere ci vai. “Pronto” “Buon giorno, sono Elisa ( a volte Deborah con o senza acca finale) posso sapere quanto spende di telefono?” “Scusi, ma a lei che le frega di quanto spendo io?” “Ho un’offerta fantastica proprio per lei” “guardi, non foss’altro che per la pasta che si sta freddando, la sua offerta è per me irricevibile. Non ora, per sempre. Buon giorno”. Oppure, ricordo di quando avevo il negozio “Buon giorno, posso parlare con il titolare?” “No” “Perché?” “Perché è uscito, ritorna fra quindici giorni”.
Bene, dal primo febbraio 2010 tutto ciò può avere termine. Non parlo dei testimoni di Geova, quelli suonano alla porta.
È nato il “registro delle opposizioni” (nome bizzarro, ma così si chiama). È sufficiente collegarsi al sito www.registrodelleopposizioni.it oppure chiamare il numero verde 800265265 e seguire le istruzioni per essere
Lèngua ti boe 1, lèngua ti boe 2, lèngua ti cane, lèngua ti pècura, uècchiu ti boe
di Armando Polito
Dopo la coda della precedente puntata questa volta sono due altri dettagli anatomici, il primo (la lingua) a coinvolgere ben due volte il bue e una volta ciascuno il cane e la pecora, il secondo (l’occhio) ancora il bue.
Lèngua ti boe 1
nome italiano: lingua di bue, buglossa ondulata
nome scientifico: Anchusa undulata L.
famiglia: Borraginaceae
Etimologie:
per il nome dialettale e per il primo italiano valga la seconda foto con la riproduzione delle foglie; buglossa è dal latino buglossa(m), a sua volta dal greco bùglosson1, composto da bus=bue e glossa=lingua.
Anchùsa2è dal greco ànchusa3=alcanna; undulàta (ondulata) si riferisce alla forma del margine delle foglie.
Borraginaceae è forma aggettivale moderna dal latino medioevale borràgo/borraginis.
Lèngua ti boe 2
nome italiano: tasso barbasso, verbasco.
nome scientifico: Verbascum thapsus L.
famiglia: Scrofulariaceae
Etimologie: il nome dialettale è ancora riferito alla forma delle foglie; tasso è dal greco thapsos4 , a sua volta dal nome proprio Thapsos, città in Sicilia;
L’albero della manna nelle campagne di Supersano (Le)
Le campagne di Supersano, piccola cittadina del centro del Salento Leccese, potrebbero sembrare a prima vista, assolutamente banali e quasi soprattutto scontate se non ci si addentra nelle sue specialità ormai rare.
Certamente insolito tale paesaggio nel Salento leccese per l’assenza quasi del tutto dei tipici muretti a secco molto più presenti in altre aree ove il carsismo è più palese.
In realtà, a ben vedere, le specificità del paesaggio e degli habitat naturali in questo territorio sono solo apparentemente nascosti, ma molto evidenti ed affascinanti sapendo di essere nel Salento e non in contesti continentali e pede-montani.
Un incredibile insieme di fattori geologici e climatici ha fatto la storia di questo luogo spesso però assolutamente sconosciuto alle popolazioni del territorio, con le conseguenze che ne derivano dall’ “ignoranza storica”: la distruzione, il degrado o addirittura il falso storico, eventi negativi che si sono verificati in questi ultimi due secoli a Supersano.
Ciò che nel resto del territorio leccese è rarità, qui è la norma ad iniziare dall’acqua di superficie. Nei periodi autunno-vernini trovare affioramenti di acqua nelle campagne è la norma, tanto che nelle annate più abbondanti di piogge i terreni diventano impraticabili per mesi interi, senza meraviglia per nessuno. Ciò si verifica per effetto della presenza di banchi di argilla poco sotto la superficie del suolo agrario che rendono impermeabile il tutto, facendo diventare tutto il comprensorio una vera e propria bacinella di acqua. Tali accumuli si verificano in maggior misura nelle aree di compluvio ed in particolare nella località che attualmente è denominata “serra di Supersano”. Un tempo davano origine anche a ciò che Cosimo De Giorni ha descritto come “lago di Sombrino”, prosciugato nel secolo scorso con l’imponente opera di bonifica che ha portato alla costruzione della voragine assorbente ancora oggi funzionante.
Quando le piogge sono temporalesche e copiose l’acqua corre verso la “serra” da tutti i comuni limitrofi: Ruffano, Montesano, Scorrano, inondando i canali che corrono parallelamente alla dorsale del promontorio, ma spesso non trovando via di deflusso rimane stagnante e putrida come succede nella parte interna verso Botrugno, Scorrano e Cutrofiano. Spesso i canali di bonifica non riescono a svolgere a pieno il loro
Il riferimento comune al dettaglio anatomico della coda di tre animali diversi è un buon pretestoper parlare di queste tre essenze, che non a caso appartengono alla stessa famiglia, in un colpo solo. Comincio con la cota ti sòrice.
nome italiano: coda di topo, codolina, erba timotea
nome scientifico: Phleum pratense L.
nome della famiglia: Graminaceae
Etimologie: per i primi due nomi italiani e per quello dialettale che ne è la trascrizione del primo è più che sufficiente la foto [per il dialettale basta aggiungere che sòrice è più fedele all’originale latino sòrice(m) più di quanto lo sia il corrispondente italiano sorcio]; timotea potrebbe trarre in inganno essendo nome di origine greca: in realtà è dalla locuzione inglese Timothy grass (erba di Timothy), dal nome di un americano (Timothy Hauson) che ne fece prove di coltivazione introducendola dall’Inghilterra1. Phleum è trascrizione latina2 del greco fleòn=giunco; pratense significa dei prati; Graminaceae è forma aggettivale da gramen=erba.
E passiamo alla cota ti orpe.
nome italiano: coda di volpe, codino dei prati
nome scientifico: Alopecurus myosuroides Hudson
nome della famiglia: Graminaceae
Etimologie: ovvie quelle dei nomi italiani, del primo dei quali quello dialettale è trascrizione. Alopecurus3 è trascrizione del greco alopèkuros (da alòpex=volpe+urà=coda) che in Teofrasto (IV°-III° secolo a. C.)4 designa una graminacea che non è agevole identificare con la nostra per
Benedetto XIII, splendida figura di servitore della Chiesa
Il 2 febbraio 1650, secondo gli storici accreditati e gli studiosi seri, e non il 1649, secondo una visione errata della lettura del calendario, nasceva a Gravina in Puglia, pur non essendoci nessun documento ufficiale che lo attesti e lo comprovi, Pierfrancesco Orsini, che sarebbe diventato successore di Pietro e vicario di Cristo con il nome di Benedetto XIII. Questa felice coincidenza ci permette di festeggiare un altro evento. Dopo che il Comune di Gravina in Puglia, nel mese di ottobre dello scorso anno, su proposta del sottoscritto, inoltrò al Comune di Roma la richiesta di intitolare una strada della capitale al nostro papa, la commissione capitolina preposta ha espresso il suo parere favorevole dandone ufficialmente notizia agli amministratori locali.
Così, Roma, che nella sua toponomastica comprende quasi tutti i nomi dei romani pontefici, d’ora in poi comprenderà anche il nome del nostro. Era un inciso doveroso, giusto per informare la città e tutti coloro che, pur dicendosi sostenitori di certe nobili cause, millantando e accreditandosi , se non spacciandosi per storici, o, peggio ancora, ritenuti tali dalla selva di ignoranti di cui pure è popolata la nostra città, mai hanno pensato di scoprire se Roma, ad esempio, fra le sue numerosissime vie, piazze, ne annoverasse qualcuna dedicata a Benedetto XIII.
Comunque, al di là di certe miserie umane che vagano per le vie della nostra città, Gravina, fortunatamente, può vantare questa gloria, questo orgoglio, prescindendo dalle date , dalle tante falsità che sul conto di questo santo uomo sono circolate e continuano, purtroppo, a fare storia. Quante bugie nel suo nome! Quante menzogne sul suo conto! Quante ipocrisie sulla sua limpida e splendida figura di servitore della Chiesa, cioè degli ultimi, dei poveri e degli ammalati. Ma se nel mese di febbraio ebbe inizio il suo cammino nel mondo, vide la luce del mondo, nello stesso mese, il giorno 21 del 1730, ” terminò la sua corsa, la sua buona battaglia, come direbbe san Paolo, aspettando la corona dei giusti”, e non la santità falsamente sbandierata dagli o degli uomini.
Moriva in concetto di santità nel giorno precedente l’inizio della Quaresima, come è più giusto ed esatto asserire, e non come certi storici frettolosi, animati da un livore laicistico, hanno affermato, con sicumera, che morì nello stesso giorno in cui terminavano i riti goderecci, festaioli e spensierati del carnevale. Morì come visse, come fu educato, potremmo dire come fu concepito, se è vero che un domenicano aveva preconizzato alla madre, Giovanna Frangipane della Tolfa, che il figlio che portava in grembo, un giorno, sarebbe diventato sacerdote dell’Ordine di san Domenico.
Nacque il giorno in cui, la Chiesa celebra la solennità della Purificazione della Beata Vergine. Due date che coincidono nella loro importanza e nella loro essenza, a dimostrazione di quanto fossero chiari i piani di Dio su quest’uomo, preservato e destinato alla grazia e alle prove della santità
Algimiro e i suoi ricordi sulla rimonda degli ulivi a Casarano
Il Canto di Algimiro Borgia di Casarano del Salento leccese
di Antonio Bruno
Soprantendi a’ tuoi poderi? E tu porta un taccuino in tasca alla messe, alla vendemmia, alla raccolta delle ulive, sorveglia con un occhio le contadine e segui coll’altro sulla carta il lapis che ne segue il canto. Noi ti parliamo in nome di molti. Tacendo di quelli che han per ora soltanto promesso, ma che manterranno la promessa perchè galantuomini, sono nostri collaboratori effettivi e ci hanno somministrati gran numero di canti: … Liborio De Donatis per Casarano.
(Cristoforo Pasqualigo, Canti popolari vicentini 1866)
Sul fronte degli studi ruffanesi, dobbiamo segnalare, innanzitutto, alcune pregevoli plaquettes, recentemente date alle stampe dal più noto studioso ruffanese, Aldo de Bernart.
Si tratta di alcun brevi saggi storici, che fanno parte della collana “Memorabilia”, stampati in una tiratura fuori commercio di n.99 copie.
Fra le ultime, due, in particolare, ci sembra giusto menzionare.
La prima è: Note sull’arte medica in Ruffano tra Cinque e Settecento (Tipografia Inguscio e De Vitis) in cui l’autore ricorda la figura di Altobello Grasso, medico ruffanese e capostipite di una generazione di medici in Ruffano fra il Cinque e il Settecento, autore di una pregevole opera di carattere tecnico, dedicata al gesuita leccese Padre Bernardino Realino, e il cui frontespizio viene riportato nell’opuscolo, insieme ad una immagine dell’Altare dell’Immacolata, con lo stemma della famiglia Grassi, che si trova nella settecentesca chiesa matrice di Ruffano.
Una citazione dal Foscolo ammonisce: “Spiar ne’ guardi medici speranza lusinghiera della beltà primiera”.
La seconda plaquette è In margine al V Centenario –1507 = 2 aprile = 2007- della morte di San Francesco di Paola(Tip. Inguscio e De Vitis) in cui de Bernart si sofferma su un culto molto sentito in provincia di Lecce, quello di San Francesco di Paola, che a Ruffano viene ricordato da una statua lapidea che si trova in una nicchia sopra l’ingresso della cappelletta di San Francesco di Paola, sita nella piazza omonima.
La statua, opera dello scultore Valerio Margoleo, del XVIII secolo, che oggi necessiterebbe di un appropriato restauro poichè ormai resa quasi irriconoscibile dall’incuria e dall’usura del tempo, viene ripresa in fotografia nell’ultima di copertina dell’opuscoletto in parola; sulla seconda di
Non si conosce l’esatto periodo di costruzione di questo monumento in pietra calcarea: forse risale al periodo compreso fra la dominazione greca e quella romana, ma c’è chi lo vuole per la sua fattura costruito nel Rinascimento.
Infatti sembra plausibile che le sculture che adornavano la fontana antica siano state riprese nel trasloco avvenuto durante il XVI secolo. Certo è che la fontana esisteva già prima del 1500, in un luogo diverso da quello attuale, e precisamente nella zona denominata “Fontanelle” , nei pressi del vecchio “Ospedale Sacro Cuore”. Ci ricorda del sito l’antico toponimo “Korici”, alterazione del greco “Korikios” [latino: termae]. Questo ci fa supporre l’esistenza di un impianto termale cui apparteneva probabilmente anche la fontana.
Forse a causa di infiltrazioni di acqua marina, essendo il sito troppo vicino alla costa, nel 1548 la fontana venne trasportata nei pressi della chiesa di S. Nicola del Porto, ora distrutta. Solo nel 1560 fu collocata nel luogo dove oggi la ammiriamo, tra il borgo e il centro storico. In quel tempo la fontana aveva la sola facciata di scirocco.
Nel 1765, a spese del Comune, fu costruita la facciata che volge a tramontana, addossata in seguito a quella più antica.
La fontana oggi fortemente consumata dal tempo, dal vento e dalla salsedine, offre sempre uno spettacolo bello a vedersi.
Nella facciata di scirocco quella carica di ornamenti, partendo dalla base, si elevano quattro piedistalli e su questi poggiano quattro figure, due maschili e due femminili, che con i loro capitelli sostengono l’architrave (con scene delle fatiche di Ercole); il fregio e la cornice dividono la facciata in tre parti uguali. Qui sono rappresentati scene dei miti aventi come protagoniste tre ninfe: Dirce, Biblide e Salmace.
Tra le quattro basi vi sono tre vasche sostenute ciascuna da tre puttini: esse ricevevano l’acqua sgorgante dai fori ricavati nelle statue, che si raccoglieva poi nella vasca più grande, oggi sotto il livello stradale.
A sinistra di chi guarda troviamo Dirce, regina di Tebe che, vinta dalla gelosia, oltraggia la nipote Antiope e fu condannata dai figli di quest’ultima ad essere dilaniata da due tori infuriati. Dirce è rappresentata a terra fra due tori e, più in alto, si nota Dioniso nell’atto di trasformarla in una fontana di pietra. Il distico latino sul profilo dell’architrave mette in guardia dai rischi della gelosia.
Al centro troviamo il mito di Salmace, la ninfa che pregò gli dei di formare un solo corpo con Ermafrodito (figlio di Venere e Mercurio) di cui era innamorata. I loro corpi nudi sono rappresentati incatenati, mentre si trasformano in una sola fonte, in presenza di Venere e Cupido. Il distico di Ausonio invita a star lontani dai piaceri dell’amore.
A destra vi è scolpito il mito di Biblide che, innamorata del fratello Cauno e da questi respinta, consapevole dell’errore, pianse fino a consumarsi di lacrime e che gli dei, impietositi, trasformarono in una fontana di pietra. Qui la ninfa distesa stringe tra le mani il mantello del fratello, mentre l’iscrizione invita ad avere orrore di un amore illecito.
Nel fastigio triangolare, che costituisce la parte culminante della facciata, vi è l’emblema del re Filippo di Spagna e ai due lati lo stemma della città.
La facciata di tramontana, costituisce una sorta di spalliera della precedente, con pinnacoli laterali e rosoni a conchiglia. Anche da questo lato è visibile lo stemma di Gallipoli e l’abbeveratoio, dove in passato si dissetavano gli animali.
E’ la stagione, sindrome influenzale con fastidioso corollario di attacchi di
tosse – del genere e rumore di abbaiare di cane all’interno di un anfratto con
eco – intervallati di appena 1 – 2 minuti.
Un medico, il quale, con candore e sincerità, ammette di non aver da
prescrivere alcunché di veramente idoneo a far passare il malessere: occorre solo armarsi di santa pazienza.
In seno all’indisposizione, anche una notte completamente in bianco, l’intero corpo ammaccato a furia delle incessanti sequenze compulsive che muovono dalle vie respiratorie se non da più dentro, lo sfogo, vano, di un paio d’ore in poltrona a leggere, con scarsissima concentrazione per via di un sussulto dietro l’altro.
Dal delirio della veglia forzata, l’idea di una lastra Rx toracica, risultata,
meno male, negativa. Alla mente, la tosse degli anni delle elementari, la difficoltà, pure allora,
di prendere sonno. In quei tempi, tuttavia, soccorreva l’amorevole intervento materno, sottoforma di una pozione di tisana da “papagna” (papavero), grazie alla quale gli occhi si chiudevano sino al mattino, anche se i sintomi e le manifestazioni della tosse non sparivano.
tale ricordo e di fronte alla “impotenza” della scienza medica
moderna, che fare, dunque, nel 2011? Un po’ di fichi secchi e di carrube lasciati bollire sino all’ottenimento di un decotto, di gusto piacevole, giusto come si era soliti regolarsi quando l’esistenza ruotava essenzialmente intorno alla semplicità e alla natura. Vale la pena di provare.
Abbraccio col mare e non solo, in un grigio venerdì
A ogni novello calendario, ecco, per chi scrive, porsi immancabile, particolarmente atteso e sentito forse perché tra i primi, l’appuntamento affascinante delle “Secche di gennaio”, spunto d’autentica rinascita di memorie antiche, gocce di lucentezza di commozione agli occhi, scansioni d’immagini scolpite e indelebili nella mente e oltre.
Cieli tersi, distese di turchino intenso, ferme, quasi ritrattesi sotto la muta, insolita e prolungata esposizione ai raggi tiepidi, costoni e bagnasciuga fattisi, per prodigio, secchi, granchi che passeggiano straniti, patelle carnose che s’ affacciano a portata di mano o, al massimo, di temperino.
Come Natale, Pasqua, la Quaresima e l’Avvento, mai “tradiscono” le Secche, la loro, in fondo, è una premessa, se non promessa, al ritorno di rinnovati giorni e notti da assaporare e godere fra onde e stelle, un’immersione dietro l’altra in acque d’incanto.
Così, in assoluto, le secche del mese d’esordio, per il consumato viandante d’almanacchi; di qualche settimana fa, l’ultimo appuntamento di contatto diretto e visivo.
Vi porto talmente dentro, mi siete talmente compagne, al punto da esercitare suggestioni forti nel mio subconscio, finanche oggi, giornata da lupi, tetra, umida, proprio agli antipodi rispetto ai colori abituali di questo cielo e questo mare verso Finibus Terrae.
Tempo climaticamente infausto a parte, sono scappato da casa dopo la costrizione da tosse e accessori, fiondandomi alle origini familiari e amate.
E’ il mezzo del mattino, già il primo impatto è un bel dire: coppola in testa, va procedendo verso casa sua, Nino, il pescatore di saraghi, in mano un secchio pieno di legna per il fuoco. Chissà quale e quanto rimpianto per il suo piccolo gozzo, il suo “conzo”!
Scivolo accanto alla cooperativa “Adriatica”, semi buia, nessuno dentro, socchiuso pure l’uscio del tabaccaio attiguo, qualche voce dall’interno della “Chianca”, Donato della pescheria è lì insieme con altri due o tre avventori (il caffè è bell’ e offerto), chiedo se lo scirocco sia montato da poco, D. annuisce, precisando che la “paranza” ha appena fatto in tempo ad uscire, ma, in breve volgere, ha poi dovuto far rientro nel porto, scaricando soltanto un po’ di frittura.
Intanto, poco giù, i marosi s’inarcano e s’infrangono con eccezionale fragore, gravidi di potenza e di forza spazzante, sembrano portarsi appresso integri i profumi originari di mirto di Corfù e di Itaca sull’altra sponda dello Ionio, si sbattono irrefrenabilmente addosso a qualsivoglia tratto di scogliera, con preferenza ovvia per Pizzo Mucurune. Per lo meno, ogni traccia d’impurità, opera di mani colpevoli, è schiantata, sospinta lontano.
Sul primo tratto di litoranea in direzione Tricase, nessun’ombra di vita, un isolato gattino nero fa capolino da un cortiletto e poi si ritrae rapido. Il motore dell’auto è sovrastato da un ben più profondo rombo d’intorno, d’ogni dove, è un susseguirsi di valanghe e d’immense distese di bianca schiuma, le sferzate sul nero delle alte rocce si alternano a profondi, quasi ritmati rigurgiti a rientrare.
Seguita la marcia in direzione Marina di Andrano, pochi attimi e mi ritrovo davanti al fondicello di I.: che bello, nelle 26 piccole fogge recentemente scavate con lo zappune, per una buona metà sommerse di pioggia, le piantine di rape sembrano aver attecchito e chissà che non diano qualche minestra gustosa e gradita.
Quindi, abituale volata nella cooperativa di consumo per piccoli acquisti al banco della salumeria, l’incontro e il saluto gentile, ivi, con M.A. Subito dopo, proseguimento per Marittima, seguendo la via vecchia, lungo la quale, tutte le volte, sembrano materializzarsi le vestigia dell’antico e scomparso casale di Ciddrini.
All’altezza dell’Arciana, la Opel blu di mio cugino V. si sta dirigendo verso la Piazza per il rito del caffè e la provvista di sigarette, la blocco con il clacson, mi pianto a fianco, il guidatore si chiede e mi chiede come mai io sia uscito dalla quarantena, gli rispondo “per disperazione”, porgendogli una copia del “Paese Nuovo” con in prima pagina il mio ultimo articolo “Brrr, che freddo!”.
L’amico V. è introvabile: a casa, da nonno L., ai Pizzeddri, sarà andato fuori, lo incontrerò la prossima volta, Assente, anche, maestro N. barcaiolo, fa niente.
Ora, però mi resta un’altra visita, la più importante. Davanti al portone dischiuso ai filari di cipresso, non si nota essere vivente, del resto le anime stanno tutte all’interno; accedo alla “casa “ dei miei genitori, le gocce di umidità la fanno da padrone anche lì, le piante di felci trasudano, la stessa tovaglietta di lino sul piccolo altare è più bagnata che umida.
Loro due, però, sembrano proprio non curarsi che ci sia brutto tempo, si danno tepore vicendevolmente, come sempre mi porgono l’idea di essere contenti della mia visita, accompagnandomi con gli occhi in un accenno di sorriso.
E’ da poco suonato mezzogiorno, è, dunque, trascorso uno scampolo di giornata fra Castro, il mare, il fondicello di I. e un saluto ai miei.
Piccole cose, piccoli gesti, piccole azioni, eppure, in barba al malutiempu, sento che mi hanno fatto bene.
Cinque poesie dedicate a Gallipoli dal magliese Oronzo Pasquale Macrì. Un’occasione per rispolverare dìstici, esàmetri e pentàmetri
La rivoluzione culturale in atto sembra trovare, direi esclusivamente, nell’immagine la sua bandiera e non c’è da stupirsi se il decadimento della scrittura, coinvolgente sia il momento creativo che quello fruitivo, coincida con la superficialità, la frettolosità, a tratti la saccente sufficienza dell’imperante tutto, subito e senza faticae con il devastante risultato, proficuamente supportato dal mezzo televisivo, del trionfo dell’ignoranza, della vanità, della vacuità, dell’immediato ma effimero.
Non c’è da stupirsi neppure se in tempi di vacche magre la mannaia del boia di turno si abbatte su una cultura che già da tempo non godeva di particolari attenzioni e che come un nobile decaduto aveva dovuto rinunciare all’iniziale maiuscola con cui il nome in altri tempi si scriveva.
La scuola, dal canto suo, recita remissivamente la sua parte continuando a ideare progetti ambiziosi in un demenziale quadro didattico di contenuti e metodi che pretendono di far compiere voli pindarici a ragazzi che non sono in possesso nemmeno dei più rudimentali requisiti culturali necessari per decollare, con l’alibi di slogan che tirano in ballo locuzioni come identità culturale, apertura al territorio e simili.
E, in assenza di quei requisiti, non conoscendo i fondamentali (uso il gergo calcistico per essere capito da tutti…), una squadra di brocchi, che non per colpa loro si ritengono e sono ritenuti campioni, gioca una partita in cui è difficile distinguere i ruoli che ciascuno ricopre, gli schemi, le strategie.
Mi accorgo ora che, anziché entrare nell’argomento del titolo, me ne sto allontanando, proprio come succede quando uno attacca col famigerato debbo fare una premessa…
Rompo perciò gli indugi e dico subito che quanto seguirà potrà essere gustato e condiviso pienamente solo da coloro che hanno (e da tempo…) superato gli …anta, ma, siccome sono un presuntuoso incosciente, la mia velleità è quella di rendere partecipi di questa goduria pure i più giovani, anche se dovrò rinunciare con loro al valore evocativo del testo anticipato nel titolo e riuscirò, forse, solo a suscitare non dico rimpianto per ciò che probabilmente si sono perso ma, almeno, un pò di curiosità.
Per accelerare la rottura degli indugi e rallentare quella di altro, entro brutalmente in argomento presentando cinque poesie1 dedicate a Gallipoli e scritte in latino, la prima sicuramente il 5 giugno del 1809 (data indicata in coda), la seconda molto probabilmente qualche giorno dopo la prima, la terza il 22 giugno 1809 (anche qui la data è indicata in calce), senza data le ultime due, da Oronzo Pasquale Macrì, un insegnante di matematica e letterato nativo di Maglie2:
I
Filia pulcra vocor, Siculi genuere parentes,
deque suo dicunt nomine Callipolin.
Non habui Idomenea patrem at me Gallus honorat:
de pulcro pulcher stemmate Gallus Erit
Graia lingua mihi multos servata per annos,
deque meo semper nomine Graia vocor.
Ruderibus constructa his iam tollor in altum
Aletine: mihi mors tua vita fuit.
II
Salve Callipolis, radiis circumdata solis
insula ; tu semper filia solis eris.
LitoraTrinacrio profugi venere Sicani,
hospitioque patres excipis ipsa tuos.
Sicelidum celebrata mihi pulcherrima proles,
magnus ab aetherea sospitet arce Deus.
III
Anxur eram, sic me veteres dixere coloni
Anxa vocor, Graio nomine Kallipolis.
IV
Iam mea me genuit gaudens Trinacria mater
quid mihi cum nostris partubus Oebaliae?
V
ANXUR aquae Fontisque vetat de nomine dici;
Anxur enim Veteres aspera saxa vocant.
Non ignem voluere Patres signare vetusti,
asperitas montis nomina sola dedit.
Expositum Phoebi radiis candentibus Anxur
sic dixere Patres, qui coluere Iovem.
Insula CALLIPOLIS merito sonat Anxur et Anxa,
namque Salentino tollitur alta salo.
I cinque componimenti sono in distici elegiaci, locuzione che susciterà nei più anziani un brivido fatto di ricordi in prevalenza spiacevoli3, anche se nel prosieguo l’eco e la nostalgia della giovinezza li faranno sprofondare nel gorgo (!) di un masochistico piacere; ai più giovani, invece, ho il dovere di dire, semplificando le cose e tentando pure di dare a questa semplificazione un’immagine o una rappresentazione grafica, che distico elegiaco è una strofa di due versi, il primo più lungo (esametro), il secondo più breve (pentametro). La prima poesia consta perciò di quattro distici elegiaci, cioè, in tutto, di otto versi nell’alternanza esametro/pentametro (per notare nel testo la differenza di lunghezza tra i due tipi di verso basta un rapido sguardo); la seconda di tre (sei versi), la terza e la quarta di uno (due versi) e l’ultima, come la prima, di quattro (otto versi)4. Nella costruzione, poi, di un esametro e di un pentametro bisognava rispettare certe regole (codificate nella cosiddetta prosodia), così come qualsiasi verso di una poesia fino agli inizi del secolo scorso era obbligata a fare: per esempio, un endecasillabo da sé prevede non solo un certo numero di sillabe, ma anche determinate posizioni degli accenti principali; poi l’affare si complica quando deve combinarsi con altri endecasillabi o versi di altro tipo a formare le strofe e, a rendere ancor più complicato il tutto, interviene il gioco delle rime5.
Queste ultime in latino non erano contemplate, ma bisognava costruire i versi di cui stiamo ragionando facendo attenzione alla quantità (grosso modo durata dell’articolazione) di ogni singola sillaba, che, in astratto, poteva essere breve (˘) o lunga (-) ma che nel corpo di una parola ne assumeva una precisa (o lunga o breve), raramente una ambigua (lunga e breve nello stesso tempo); poi bisognava costruire il verso facendo in modo che la quantità delle sillabe formassero sei sequenze ben precise dette piedi: due sillabe lunghe consecutive (–) davano origine allo spondeo, una lunga e due brevi (-˘˘) al dattilo, una lunga e una breve al trocheo (-˘). I primi cinque piedi potevano essere solo dattili o spondei, l’ultimo spondeo o trocheo. Infine bisognava concedere alla lettura una piccola pausa ed a questo assolveva la cesura (indicata con ||, mentre | indica lo stacco dei singoli piedi) che non doveva mai spezzare una parola. Tutto questo per il primo verso di ogni distico, cioè per l’esametro che, perciò, poteva avere questa struttura:
— (o -˘˘)|– (o -˘˘)| — (o -˘˘)| — (o -˘˘)|-˘˘ (o, più raramente –)|-˘
Il secondo aveva una struttura più semplice:
— (o -˘˘)|– (o -˘˘)|-|-˘˘|-˘˘|-(o ˘)
Per i poeti latini comporre in distici elegiaci non era tecnicamente complicato perché la consapevolezza della quantità delle sillabe era, per così dire, nativa6. Un pò più complicato, ma non tanto, doveva essere per un uomo dell’Ottocento, anche se fine conoscitore del latino e di altre lingue più antiche7.
Il non tanto precedente cerco di spiegarlo con l’applicazione concreta alla prima poesia (poi passerò alle altre) degli schemi prima riportati; l’operazione, detta scansione, è ben familiare a chi può vantare studi classici nel suo passato scolastico8.
Eppure, a voler essere pignoli, nel penultimo verso il penultimo piede che dovrebbe, così come io ho scandito, essere lōr īn in realtà nel latino classico, considerando la corretta quantità delle sillabe, sarebbe stato lŏr ĭn, combinazione (˘˘) non prevista nella formazione di nessun piede.
La composizione, appena analizzata dal punto di vista metrico, ha il fine di sintetizzare poeticamente il contenuto della Prima diatriba (vedi nota 1), il cui punto focale è la presenza del gallo nello stemma di Gallipoli dalla tradizione popolare collegato col gallo che avrebbe ornato lo scudo del fondatore Idomeneo (per cui lo stesso toponimo significherebbe città del gallo) Gallipoli , ipotesi respinta e sostituita con l’altra che vuole Gallipoli porto della messapica Alezio, sconfitta poi dai Greci di Sicilia.
Ecco, infatti, come suona la traduzione:
Sono chiamata figlia bella, (mi) dettero la vita genitori siciliani
e dal loro nome (la) chiamano Gallipoli.
Non ebbi Idomeneo come padre ma un gallo mi onora:
il bel gallo sarà da un grazioso stemma.
La lingua greca fu da me conservata per molti anni
e sempre sono chiamata di nome Greca.
Costruita su questi ruderi ormai mi levo in alto.
Abitante di Alezio, la tua morte fu per me la vita.
Passo ora alla seconda poesia e ne riporto la scansione:
Sālvē|Cāllĭpŏ|lis,|| rădĭ|īs cīr|cūmdătă|sōlĭs
īnsŭlă;|tū sēm|pēr||fīlĭă|sōlĭs ě|rĭs.
Lītŏrě|Trīnăcrĭ|ō||prŏfŭ|gī vē|nērě Sĭ|cānī,
hōspĭtĭ|ōquě pă|trēs||ēxcĭpĭs|īpsă tŭ|ōs.
Sīcělĭ|dūm cělě|brātă mĭ|hī pūl|chērrĭmă|prōlēs,
māgnŭs ăb|aēthěrě|ā||sōspĭtět|ārcě Dě|ŭs.
Qui l’autore sintetizza in versi, questa volta perfetti, la teoria, integrazione della precedente, sviluppata nella Seconda diatriba, insomma una variazione sul tema:
Salve Gallipoli, dai raggi del sole circondata
isola: tu sarai sempre figlia del sole.
Fuggiaschi dal lido trinacrio vennero i Sicani,
e tu accogli in ospitalità i tuoi padri.
La bellissima discendenza dei Siciliani (è) da me celebrata,
il grande Dio (la) protegga dalla (sua) alta rocca.
E siamo alla terza, costituita da un solo distico:
Ānxŭr ĕ|rām, sīc|mē||vĕtĕ|rēs dī|xērĕ cŏ|lōnī;
Ānxă vŏ|cōr, Graī|ō||nōmĭnĕ|Kāllĭpŏ|lĭs.
In due versi, anche questi ineccepibili ma musicalmente più scorrevoli, il Macrì condensa la questione del doppio nome (il messapico Anxur poi latinizzato in Anxa e il greco Kallipolis) affrontata nella Terza diatriba e questa volta fa parlare direttamente la città:
Ero Anxur, così mi chiamarono i vecchi coloni;
(ora) mi chiamo Anxa, Gallipoli con nome greco.
Passo alla quarta:
Iām měă|mē gěnŭ|īt||gaū|dēns Trī|nācrĭă|mātěr.
quīd mĭhĭ|cūm nō|strīs| pārtŭbŭs| Oēbălĭ|aē?
Ancora un unico distico a condensare la confutazione, appena svolta nella Prima appendice, della tesi del Galateo (il quale sosteneva l’origine spartana di Gallipoli), col ribadire la sua, già espressa nella Prima diatriba (origine siciliana).
Da tempo mi generò la gioiosa madre Trinacria.
Che cosa ho io in comune con la discendenza di Ebalo?
(Gallipoli (1590 ca., prov. Colonia) incisione in rame, dipinta a mano G. Braun – F. Hogenberg [collez. priv. Giorgio De Donno]). Si ringrazia Roberto Panarese per aver fornito le due antiche vedute di Gallipoli.
Chiudo con la quinta:
ĀNXŬR ă|quaē Fōn|tīsquě||vě|tāt dē|nōmĭně|dīcī;
Ānxŭr ě|nīm Větě|rēs|| āspěră|sāxă vŏ|cānt.
Nōn ī|gnēm||vŏlŭ|ērě Pă|trēs||sī|gnārě vě|tūstī,
āspěrĭ|tās mō|ntīs||nōmĭnă|sōlă dě|dĭt.
Ēxpŏsĭ|tūm Phoē|bī||rădĭ|īs cān|dēntĭbŭs|Ānxŭr
sīc dī|xērě Pă|trēs,||quī cŏlŭ|ērě Iŏ|věm.
Īnsŭlă|CĀLLĬPŎ|LĪS měrĭ|tō sŏnăt| Ānxŭr ět|Ānxă;
nāmquě Să|lēntī|nō||tōllĭtŭr|āltă să|lō.
Secondo il consueto schema qui l’autore confuta le tesi esaminate nella Seconda appendice:
ANXUR non può dirsi dal nome dell’acqua e della sorgente;
infatti gli antichi chiamano Anxur le rocce scoscese.
I vecchi padri non vollero significare il fuoco,
solo l’asperità del monte determinò i nomi.
Esposto agli abbaglianti raggi del sole così
chiamarono Anxur gli antichi che adorarono Giove.
A ragione l’isola di Gallipoli si chiama Anxur e Anxa;
e infatti si eleva alta sul mare salentino.
Sarà una casualità ma non posso far a meno di far notare come quest’ultimo componimento è formalmente legato al primo non solo dal numero dei distici, quattro, ma anche dalla presenza di un errore: la a di Salentini non è, come pure ho segnato nella scansione, breve, bensì lunga; e un piede ˉ˘ˉ non è assolutamente previsto.
Quanto ai contenuti, non è questo il luogo per esaminare, confermare o confutare le ipotesi avanzate dallo studioso magliese. Ho approfittato solo del testo per suscitare un pizzico di nostalgia o un accenno di curiosità, tentando di dare, sia pure frettolosamente, un senso e contenuti concreti a identità culturale, apertura al territorio e simili; ma soprattutto per invitare a riflettere sul modo forse troppo sbrigativo con cui certi elementi portanti della didattica del passato e degli stessi contenuti sono stati messi da parte (penso, solo per fare un esempio, all’esercizio mnemonico, che andava opportunamente motivato e caratterizzato ma non, tout court, bandito). E poi, indipendentemente dal fatto che lo studio, checché ne pensino pedagogisti che per lo più non hanno in vita loro mai messo piede in una classe, non può essere sempre e tutto gioco, qualche risultato positivo la scuola del passato, nonostante i suoi innegabili difetti, lo ha pur dato. Sarei felice se quella di oggi, così protesa alla simbiosi col territorio e al raccordo con la vita (due altri slogan), fosse in grado di farlo nella misura della metà.
E chiudo, sono fatto così, con una nota autopromozionale9 che questa volta riporta, parzialmente, solo me indietro nel tempo. Erano gli anni ‘80 e finalmente anch’io entrai in possesso del primo computer della mia vita, un MSX Philips NMS 8280, una macchina che sta a quelle di oggi come un grattacielo ad una palafitta (non è detto, comunque, che la prima sia meno solida…); eppure, senza hard disk e con appena 128 kb di RAM (ma con doppio drive per i dischetti…), con quel pc ho fatto i miei primi montaggi video e pure scritto in BASIC qualche programma (…funzionante, funzionante), tra cui uno che aveva l’ambizione di fornire la scansione computerizzata del distico elegiaco. In pratica doveva essere sufficiente digitare il testo corretto, per esempio, del primo verso della poesia che appena ho finito di esaminare per avere in tempo reale (o quasi…) il risultato che abbiamo visto. L’impresa riuscì a metà nel senso che il programma riusciva a fare i controlli previsti dalle istruzioni ma si bloccava inesorabilmente di fronte al loro numero esorbitante (con 128 kb è stato un miracolo che il computer non mi sputasse addosso più di un chip. Eppure l’idea era buona, perché le singole sezioni, con un limitato numero di routine, funzionavano a dovere, ma c’era il fallimento quando facevo girare il programma a sezioni assemblate. Con i pc successivi, compreso l’ultimo, i montaggi video non sempre hanno esito felice (cosa che non è mi mai successa con l’MSX) e, quello che più mi dispiace, ho finito di scrivere programmi, perché, si sa, già negli anni ’80 il BASIC era una cosa, il linguaggio macchina un’altra e i pc di oggi non vanno certo avanti a BASIC e lo stesso linguaggio macchina non trova in me sufficiente altezza perché possa essere usato. Arrivo al dunque: di quel vecchio programma scritto in BASIC conservo l’algoritmo, di una semplicità disarmante, che si può articolare in queste fasi fondamentali: 1) digitazione del verso da scandire 2) riconoscimento da parte del programma delle parole digitate e delle sillabe che lo compongono; 3) determinazione della quantità delle sillabe 4) compilazione dello schema metrico, sua presentazione a video e (oggi, grazie alla sintesi vocalica) lettura. Lancio il messaggio, che è rivolto ad una pluralità di soggetti. Intanto, per un professionista della programmazione dovrebbe essere uno scherzo tradurre quell’algoritmo in istruzioni per il pc. Già, ma un programma simile che successo di mercato potrà mai avere se da tempo è estinto quello dei famiferati (per i docenti di un tempo) traduttori? Se in una classe non verrà neppure abbozzato nemmeno una volta l’esperimento fatto oggi, che senso ha produrre uno strumento di lavoro che non verrà mai usato? È vero, ma c’è il mondo dei ricercatori e, comunque, delle persone curiose che costituiranno, magari, un mercato di nicchia, ma sempre mercato è. Altri soggetti ancora potrebbero essere coinvolti nella fase di sponsorizzazione: penso alle case editrici (uso il plurale per evitare pubblicità, ma in realtà in questo campo non c’è concorrenza) che già da tempo hanno affiancato alla versione cartacea del vocabolario di latino anche quella elettronica, che consente ricerche altrimenti impensabili. Se fosse consentito, naturalmente non a titolo gratuito, di incorporare l’intero vocabolario nel programma di scansione e quest’ultimo fosse in grado di “leggerlo” e di sfruttarne le informazioni, il processo sarebbe ancora più rapido e si potrebbe addirittura giungere ad una scansione programmata di un numero enorme di versi in formato testo (letti, dunque, direttamente dal computer) saltando la fase, sempre esposta ad errori, della digitazione. Insomma, aggiungendo qualche altra routine, il programma sarebbe in grado di anatomizzare i singoli versi e di dare pure risultati di carattere statistico. A quel punto qualsiasi istituto universitario di lettere antiche sarebbe obbligato a corredarsi di almeno una copia di questo strumento e chissà se in qualche liceo ad indirizzo letterario non si avvertirebbe lo stesso bisogno.
Credo che morirò nel modo più bello, cioè sognando…
a Somaro che non sei altro! Dentro questa porcheria di quattro versi che hai scritto in latino ci sono trenta errori! E poi critichi gli altri…
b Ho sbagliato nello scrivere l’algoritmo o i versi, ma sempre somaro sono…
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1 Sono inserite alla fine dei tre capitoli (Diatriba sopra Gallipoli, Diatriba sull’epoca di Gallipoli e Diatriba sopra Gallipoli binomia) e delle due appendici (Appendice prima: si esamina l’opinione del Galateo e Appendice seconda: si esamina l’opinione del P. Bardetti e di Ciro Minervino) che costituiscono il saggio Gallipoli illustrata (Tipografia Del Vecchio, Lecce, 1849) di Oronzo Pasquale Macrì; non ho attinto dalla pubblicazione a stampa (pare che esista un solo esemplare nella Biblioteca Provinciale Nicola Bernardini di Lecce) ma da un manoscritto rinvenuto nel 2004 nel corso di un’operazione di recupero da parte dei Carabinieri di beni librari sottratti alla biblioteca Antonio Sanfelice della diocesi di Nardò-Gallipoli, nel cui riconoscimento e rivendicazione l’amico Marcello Gaballo ha avuto un ruolo determinante (vedi il suo contributo La biblioteca “Antonio Sanfelice” della diocesi di Nardò-Gallipoli. La restitutio ad integrum di una pregevole raccolta trafugata, in Studiahumanitatis, Barbieri Selvaggi editori, Manduria, 2010, pagg. 167-208).
2 Vedi sul sito il post di Cosimo Giannuzzi Il labirinto metrico di Oronzo Pasquale Macrì del 10 marzo 2010.
3 Sarei un ipocrita mentitore se dicessi che per me ragazzo lo studio del latino (ma anche delle altre discipline) era una gioia e non un incubo. Il sentimento è vecchio quanto il mondo e nessuno ha trovato il sistema per rendere graticante da subito ciò che per me (e non solo per me, forse…) il tempo e la vita hanno fatto diventare tale.
4 La progressione numerica nel numero dei versi che costituiscono i primi tre pezzi per me costituisce una delle tante prove dell’unità della cultura, che nella fattispecie trova nel Macrì la sua espressione nel felice incontro tra matematica (riduzione dei distici, 4>3>1) e letteratura (sintesi, anche questa progressiva, fino a condensare una tesi in tre soli elementi toponomastici; tre (come i componimenti che singolarmente chiudono la prima parte dell’opera), ma il secondo, Anxa è figlio del primo, Anxur (direi quasi riduzione storica a due) e Gallipoli è il più recente (direi riduzione storica a uno), per cui il componimento, figlio di una progressione, ne cela al suo interno una seconda. Tutto casuale?
5 La poesia moderna prima e contemporanea poi si è giustamente liberata delle regole, che erano per l’ispirazione e la creatività come le manette per un innocente. Naturalmente questo non è bastato a fare di ognuno un poeta autentico, perché qualsiasi manifestazione artistica per essere tale deve obbedire ad un codice interno totalmente libero ma che, comunque, non può violarne un altro, di livello superiore, più complesso e misterioso che sancisce l’appartenenza del creato artistico a un sentire, pur nelle sue sfaccettature e varianti interpretative, universalmente condiviso.
6 Altra cosa era, poi, riuscire a comporre rispettando le regole. Sui muri di Pompei compaiono graffiti parecchi esametri “imperfetti” a dimostrazione che già in rapporto alla sola tecnica non sempre le velleità poetiche trovavano adeguata espressione.
7 Come dimostra nei riguardi del messapico con il suo De marmore Basterbino, opera inedita, in cui tenta l’interpretazione di un’iscrizione messapica rinvenuta a Vaste, studio che, così ci informa in Gallipoli illustrata, inviò ad Alessandro Maria Kalefati, vescovo di Oria, storico, archeologo e linguista. Dal momento che, come s’è detto, Gallipoli illustrata è del 1809 e che il vescovo morì, quando ancora ricopriva ad Oria tale carica, nel 1794, il De marmore Basterbino è sicuramente anteriore a tale data. Ma, senza scomodare il messapico, poteva incontrare difficoltà a scrivere in distici elegiaci l’autore de Il labirinto metrico? (vedi il post indicato in nota 2).
8 Oggi nello studio del latino non si perde più tempo con queste stupidaggini, perché si passa direttamente a tradurre (?) e a interpretare (!) … senza conoscere la grammatica.
9 Quest’aggettivo, usato da uno che ha le sue idee un pò particolari e certamente controcorrente sul cosiddetto diritto d’autore, è da interpretarsi come scevro dal benché minimo fine di profitto, almeno personale…
10 Re di Sparta.
Tonnellate di foglie di vite dal Salento in Arabia
I Consorzi di Bonifica per favorire il commercio di foglie d’uva con l’Arabia Saudita
di Antonio Bruno
“A voi che dall’albero della vita cogliete le foglie e trascurate i frutti”
(Silvano Agosti) la frase con cui Fabio Volo apre il suo libro “E’ una vita che ti aspetto”.
Il Direttore dell’ Istituto per il Commercio Estero di Bari Dott. Giuseppe Lamacchia ha convocato un gruppo di lavoro per organizzare un importante esportazione di foglie d’uva a Riyad in Arabia Saudita. Grandi assenti proprio i produttori d’uva da tavola. In questa nota una proposta al Dott. Lamacchia per ottenere una partecipazione di questa importante categoria. Il 70% dell’uva da tavola prodotta in Italia è pugliese.
Vediamo in che modo si possono utilizzare le lane della pecora moscia leccese: nel settore dell’edilizia si potrebbe utilizzare come isolante termico ed acustico e le abitazioni potrebbero essere considerate ecologiche. Un altro modo potrebbero essere i progetti socio-solidali, ad esempio in collaborazione con Istituti Penitenziari femminili per fare prodotti come quelli di una volta tipo tappeti, borse, ecc.
Ho un’idea invece per le sue pelli unica ed esclusiva. Pensiamo al momento magico che sta attraversando il nostro Salento con il movimento culturale della Notte della Taranta: un attrezzo molto importante per la sua musica il tamburello salentino fatto in modo esclusivo di pelle di agnello di “Pecora Leccese” con impresso, oltre il marchio della Tarantola, anche quello della Pecora o del Consorzio di Tutela; un oggetto fatto in varie misure che diventa esclusivo e ottimo gadget pubblicitario rappresentativo del territorio.
In passato e per molti secoli la pelle venne utilizzata per produrre pergamena, conosciuta come cartapecora. Insostituibile supporto per tramandare ai posteri opere che altrimenti sarebbero destinate a svanire nel nulla. Obiettivo è quello di riproporla con stampe e oggetti proponendoli in esclusiva produzione Salentina.
Oltre l’Allevatore quante altre figure professionali coprirebbero il ciclo produttivo del suo allevamento?
Mettiamoci tutti insieme al lavoro uniti in un unico obiettivo, il suo recupero.
Tutti dobbiamo avere una sola passione: COSTRUIRE. Si costruisce prima con il pensiero, ma poi si deve andare oltre la filosofia. C’è un tempo per pensare e un tempo per costruire.
(estratto da BIODIVERSITA’ A RISCHIO DI ESTINZIONE. LA PECORA MOSCIA LECCESE. Futuro- Presente- Passato, Mario Adda Editore 2008)
vietata la riproduzione, tutti i diritti riservati all’Autore.
Dai giri a “patrunu” nelle “puteche”, al binge drinking o bevuta compulsiva
Non c’è che dire, a cavallo di più generazioni, è sempre esistita una certa dose d’imprevedibilità nel corso delle cose e, in particolare, nell’evoluzione delle abitudini e dei costumi. E però, giammai, il fenomeno ha evidenziato sviluppi, implicazioni, rischi, conseguenze, del livello di accentuazione presente e lampante oggigiorno.
Fino alla metà del secolo scorso, nei piccoli centri del Salento, il bar o caffè non si conosceva per niente, era dato di scorgerne qualche insegna solo nelle località più grandi.
Tuttavia, nel solco e secondo i canoni della sana civiltà contadina, all’epoca predominante, la gente, pressoché indistintamente, soleva collocare in seno all’alimentazione, spartana e nello stesso tempo equilibrata e efficace, anche il consumo del vino: fa buon sangue, tonifica i muscoli di braccia, gambe e spalla, difende dal raffreddore e dalla tosse, si credeva e sosteneva.
Se non aveva a disposizione propri “cippuni” per produrre direttamente la quantità di bevanda necessaria da un’annata all’altra, ogni famiglia acquistava tini di uva dal Brindisino o dalla zona dei Paduli, verso il Capo di Leuca, vinificando poi i grappoli, attraverso la “stompatura” con i piedi, nel palmento pubblico del paese.
In ultima analisi, si riforniva, presso proprietari di vasti vigneti e/o pseudo grossisti enologici, di alcuni ettolitri del prodotto. Quel paio di bicchieri, fra i sorsi assunti a canna dalla bottiglia portata appresso per la giornata di lavoro nei campi e il calice a tavola, la sera, rappresentava un rito, una sacralità per anziani, adulti e giovani.
Alle anzidette bevute quotidiane campagnole e domestiche, per i compaesani capo famiglia, si aggiungeva, la domenica pomeriggio e in occasione delle feste, l’accesso e la sosta fra amici all’interno dell’esercizio di mescita, o “puteca”; dal bancone dell’oste, o “puticaru”, scivolavano di tanto in tanto sui tavolini di legno quadrati, di norma per quattro avventori, contenitori in vetro da un litro o due, insieme con la guantiera di bicchieri: preferibilmente, rosso e, talvolta, bianco.
Fra scambi di notizie inerenti al comparto agricolo, intorno al clima, circa il menage delle famiglie, si riempivano e svuotavano calici con la sana e genuina bevanda.
L’unica “esagerazione” consisteva in saltuari giri di “patrunu”, con la designazione, di volta in volta, di un dominus, giustappunto un padrone, il quale teneva davanti a sé il servizio del “puticaru” e assegnava il consumo agli occupanti del tavolo, a sua assoluta e esclusiva discrezione.
In tal modo, poteva succedere che, a rotazione, qualcuno finisse col bere in eccesso, avveniva qualche sbronza, intera o mezza, ubriacatura di compagnia, con la conseguenza, per il preferito, del rientro a casa a passi lenti, se non proprio traballanti, in ogni caso accolto sulla soglia, con naturale e amorevole premura e comprensione, dalla moglie.
La ciucca maturava e passava con discrezione fra le mura domestiche, con l’ausilio di un pesante sonno, fino all’indomani, allorquando il protagonista, beneficiato particolarmente durante la sera precedente alla “puteca”, doveva aver ripreso in pieno le forze e riprendere le fatiche nei campi.
Queste le umane vicende, nel’almanacco 1950, diffuse intorno al prodotto vino. Nessun’altra bevanda alcolica, una bottiglia di “spirito” allo stato puro si acquistava nelle ricorrenze (matrimoni, battesimi), allo scopo di preparare, in casa, artigianali liquori con l’aggiunta di acqua, zucchero e piccole dosi di essenze aromatiche in flaconcini reperiti nel negozio d’alimentari.
Anche oggi il vino è presente, svolgendovi una parte di rilievo, in seno alla collettività, nell’ambito dell’alimentazione e dei consumi in genere.
Ma, è un altro volto, una dimensione agli antipodi, l’assunzione cadenzata, la moderazione, l’eccesso saltuario e comunque ragionato, hanno ceduto il posto alla moda dell’impulso, ad una sorta di bramosia e avidità concettuale e mentale, ad una sfrenata corsa verso la generalità delle bevande alcoliche, non del vino soltanto.
Realtà maggiormente visibile e stravolgente, appare completamente invertita la platea degli attori, il ruolo di protagonisti più vivi e vivaci nel consumo è compiuto dai giovanissimi e anche dai ragazzi e ragazzini. A qualunque ora del giorno.
Secondo le statistiche, le nuove leve iniziano a bere ad appena 11 anni, tre adolescenti su quattro, d’età compresa fra i 14 e i 16, arrivano tranquillamente ad ubriacarsi.
Infatti, si leggono e si sentono, frequentemente, casi d’incoscienti, di entrambi i sessi, i quali finiscono conciati male, costretti a ricorrere a cure d’emergenza per evitare drammi devastanti.
Essere testimoni o spettatori è, senza dubbio, un esercizio più semplice rispetto a un altro impegno che dovrebbe mirare ad appurare le ragioni, i perché degli scivolamenti, delle tendenze modaiole, prevalenti e pericolose.
Sarà forse stato l’allentamento delle briglie in funzione di guida, la rarefazione della vicinanza e delle prediche da parte dell’elemento adulti? Ovvero, la smisurata crescita d’importanza della fraintesa scuola di vita fra pianticelle in crescita e, perciò, ancora fragili?
Dalla fase dell’idolatria all’indirizzo dei capi d’abbigliamento griffati (si ha memoria dei cosiddetti paninari?), al culto irrinunciabile dell’universo di cellulari e dintorni, al consumo all’impazzata di vino e di altri pericolosi miscugli alcolici: tutt’altro che un progressivo sentiero di sana formazione e maturazione, di crescita equilibrata, per la maggior parte di figli e nipoti dell’oggi, per tanti che saranno, domani, al nostro posto.
Il dialetto è capace anche di questo, di utilizzare il plurale per indicare un esemplare, sempre unico, di un oggetto appartenente ad una categoria diversa da quella indicata dal singolare. È il caso dell’essenza presa in esame nella puntata precedente (ònghia ti tiàulu) e di quella della quale si parlerà oggi. La foto dà ampiamente ragione di questa scelta che trova la sua ragion d’essere sostanzialmente nei cinque rostri del frutto che evocano le cinque
S. Maria della Pietà dei frati Minori Osservanti di Ugento
Riproponiamo il saggio di Luciano Antonazzo sulla chiesa e convento di S. Maria della Pietà dei frati Minori Osservanti di Ugento. La scorsa notte, tra il 15 e 16 febbraio 2011, sconosciuti hanno appiccato un incendio nella sagrestia della chiesa, distruggendo molti dei sacri paramenti e una antica statua di Cristo morto in cartapesta. Sembra che le fiamme non abbiano arrecato danni al prezioso coro ligneo dei Fratelli Candido di Lecce.
Sull’entità del danno e sull’identificazione degli autori stanno indagando i Carabinieri e le Autorità competenti.
Spigolature Salentine si associa allo sgomento e al dolore della popolazione di Ugento per così grave e inqualificabile gesto.
Intorno alla fondazione del convento e della chiesa di S. Maria della Pietà dei frati Minori Osservanti di Ugento[1]
di Luciano Antonazzo
Molto poco si conosce della storia degli edifici civili e sacri di Ugento e quel poco è sovente frutto di affermazioni non supportate da alcuna indagine storica o critica.
Paradigma di tale modo di procedere e che ha assunto dignità di verità acquisita è la data di fondazione del convento, con annessa chiesa, dei Francescani Minori Osservanti.
La loro erezione dagli scrittori locali si fa risalire al 1400, ma questa datazione è la conseguenza di una errata lettura del De Origine Seraphicae Religionis del 1587 di Francesco Gonzaga. Questi aveva testualmente scritto che nel 1430 l’“Illustrissima, atque Franciscanae Observanti familiae addictissima Bauciorum prosapia, [2] aveva fondato entro la cerchia muraria della città il convento “sub invocatione B. Mariae de Pietate”, senza indicare il nome di chi lo volle.
Padre Bonaventura da Fasano nelle sue Memorabilia[3] riferì invece, seguito in ciò dal Wadding,[4] che ad erigerlo era stato Raimondello Orsini del Balzo.[5]
Gli scrittori posteriori presero per buona l’indicazione di quel nome, ma avvedutisi dell’anacronismo per cui Raimondello non poteva essere il fondatore del convento in quanto egli era deceduto nel 1406 ritennero di superare tale discrasia anticipandone l’erezione al 1400.
Raimondello nel 1391, al ritorno di una campagna in oriente per combattere i turchi, avendo sperimentato la bontà ed assistenza caritatevole offerta dai francescani, aveva voluto loro testimoniare la sua gratitudine facendo costruire in Galatina la superba Basilica di Santa Caterina d’Alessandria,
Ecco i prodotti ottenuti con il latte della pecora moscia leccese
La tipicità del cacio ricotta vanta un’origine più che centenaria.
Il periodo più adatto è quello che va da giugno a settembre quando le pecore, brucano le stoppie, restuccia, restucciu, contenente sali di potassio e, in ogni caso, prima che rimangano gravide.
Il Gorgoni afferma che è una varietà di cacio “ che si fa nell’estate allorchè le pecore, per essere gravide fanno poco latte. E’ un cacio tenero e molto gustoso, perchè fatto dal cagliato senza che sia separata la ricotta.”
Il latte depurato si versa nell’apposito recipiente adatto alla cottura sul fuoco; un tempo assolveva a questa funzione una caldaia cilindrica, caccavo (nelle varianti di càccavu, càccalu, càccamu), di rame stagnata internamente, mettendola sulla furneddhra, fornello alimentato dal fuoco.
L’accortezza richiesta è di mescolare spesso il latte per circa un’ora e mezza; tuttora si usa un bastone in legno “ruotolo” di fico o di ulivo, con la base simile ad una testa rotondeggiante.
Tolto dal fuoco il latte che abbia raggiunto i novanta gradi, si lascia raffreddare un po’ ad almeno 35 – 37 gradi e si aggiunge il presame cioè il caglio (quagghiu, quaju, quagliu, cagliu), elemento importantissimo senza il quale non si può ottenere il formaggio e che serve a condensare il latte, nonchè ad accelerare la separazione della materia caciosa dal siero. Nel dialetto cagliare il latte si dice quagghiare, quagliare; il cagliato, quagghiatu, quagliatu e casieddhru.
Il quaglio o caglio, scientificamente abomaso è un ventricolo che si trova nello stomaco degli agnelli lattanti; la mucosa possiede un enzima, la renina, dalla miracolosa proprietà coagulante. Molte massaie usano preparare il caglio da sè: puliscono il ventricolo, una sorta di sacchettino contenente pallottoline di latte coagulato, riempiendolo di latte di pecora fresco e di sale, lo legano e lo pongono in un piatto coprendolo con abbondante sale per che si dissecchi. Si usa la quantità desiderata.
Un tempo chi non aveva a disposizione il caglio animale ricorreva a sostanze ugualmente capaci di provocare l’effetto coagulante come il cardo selvatico, il fiore del cartamo e anche con il lattice di un ramo di fico o il picciolo del frutto, dotati di un umore viscoso simile al latte.
Dopo aver sciolto in acqua tiepida un pezzetto di caglio ed averlo colato, lo si aggiunge al latte contenuto nella caldaia, rimestando opportunamente col
Presicce è un comune di 5.617 abitanti che è situato nel basso Salento, nel territorio delle Serre Salentine, dista 56 km dal capoluogo e 10 km dal mare Ionio. « Presicce, riposa tra due giocaie sub appennine che stanno l’una a levante l’altra a ponente, nel piano di una vallata così aprica che, guardati i pini caratteristici a grande ombrello, qualche punta dattilifera, le creste dei monti coronate di sempre verde ulivo, il tappeto sfioccato e variopinto dei grossi campi che lo circondano, vi dà a primo acchitto l’aria di un luogo orientale. »
(Giacomo Arditi, storico locale)
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