Appello per la necropoli messapica di Mesagne (Br)

a cura del Gruppo Archeologico di Terra d’Otranto

Cari amici, dopo Arnesano, chiediamo ancora il vostro aiuto.

Ci interessiamo questa volta della necropoli messapica di via Castello a Mesagne (Br).

Si tratta di un’area sepolcrale di grande importanza per la presenza di tombe monumentali, di cui la più nota è senz’altro la tomba 6 che presenta tra le decorazioni un ingresso con porta in pietra girante su cardini raffigurante l’entrata all’oltretomba.

La necropoli monumentale di Mesagne è di fondamentale importanza, per i cicli pittorici che possiedono le tombe, per lo studio dell’arte sepolcrale messapica in età ellenistica. Attualmente, sebbene l’area sia stata indagata, scavata e ristrutturata con fondi pubblici, essa non può essere visitata dagli abitanti e turisti semplicemente per piccoli dettagli che l’Amministrazione Comunale non ha volontà di adottare.

Nel frattempo, l’abbandono e l’incuria stanno di fatto rendendo vani i lavori effettuati, con buona pace dei finanziamenti spesi. Il Gruppo Archeologico chiede, pertanto, assieme al comitato civico “Terre di Mesagne” che l’Amministrazione Comunale faccia quanto di sua competenza ed obbligo affinchè sia resa ai legittimi proprietari, ovvero la popolazione locale, la necropoli monumentale.

Chiediamo a tutti voi, cari amici di collaborare con noi per la tutela dell’area monumentale condividendo la nota ed inviando le vostre osservazioni ed inviti all’apertura direttamente all’indirizzo mail del comune di Mesagne: urp@comune.mesagne.br.it

Il lampasciòne in quattro puntate (4/4)

di Armando Polito

Il lampascione nelle feste popolari

Nello sconfinato calendario delle sagre dedicate ai prodotti tipici, vegetali e animali, del Salento, sagre che hanno trovato nella necessità di mantenere tradizioni secolari, dunque in un  appiglio  culturale, un  alibi  non  sempre  correttamente  giocato  per  promuovere il turismo e il consumismo (ora, per fortuna, meno sfrenato), il lampascione trova uno spazio da protagonista unico nel primo venerdì di marzo ad Acaya, frazione di Vernole in provincia di Lecce, in occasione della ricorrenza della Madonna Addolorata più comunemente nota come Matonna de li pampascioni. Un’antica leggenda popolare narra che un 1° venerdì di marzo di più di un secolo fa una barca carica di gente naufragò di fronte alle Cesine; molti dei naufraghi, dopo aver pregato la Madonna Addolorata, riuscirono a mettere piede a terra  e nel primo villaggio che incontrarono, Acaya appunto, organizzarono festeggiamenti in suo onore con canti, balli, e lampascioni34, di cui la zona è ricchissima.

Il bulbo, invece, diventa coprotagonista in occasione delle Tavole di San Giuseppe,  festa celebrata il 19 marzo in quasi tutti i centri del Salento ma che ad Uggiano la Chiesa (Le) ha conservato tutti i dettagli dell’antico rituale. Vengono allestite nella stanza più grande di parecchie case tavolate allestite con piatti tradizionali per un numero di commensali detti “santi” che può variare da tre a ventuno. Secondo la tradizione i commensali rappresentano la Sacra Famiglia (san Giuseppe, la Madonna e Gesù Bambino) e i vari santi: sant’Anna, san Gioacchino, sant’Elisabetta, ecc.). Essi svolgeranno, sotto gli occhi dei devoti, il sacro rito della cena. Dopo essere state benedette dal parroco il pomeriggio della vigilia, le tavolate vengono aperte al pubblico e ad ognuno dei visitatori vengono offerti purciddhùzzi35, lampascioni,  piccoli pani, pucce36 e cartidddhate37. I cibi che si possono ammirare su questo splendido banchetto sono tutti tradizionalmente poveri, infatti troviamo: pasta con il miele e mollica di pane, pesce fritto e arrosto, lampascioni, fritti con il miele, vermicelli con ceci, stoccafisso in umido, rape bollite, cavolfiori fritti, olio, vino e miele. Secondo  la tradizione, chi riceve la puccia ringrazia con la tipica frase:” San Giuseppe te l’aggia ‘nsettu38” (San Giuseppe te ne renda grazie, o secondo la tua intenzione). Sempre nel periodo che precede la festa, le devote preparano in grande quantità anche la massa39. Si tratta di una pasta che

Giulio Cesare Vanini e Francesco Paolo Raimondi, filosofi taurisanesi (I)

di Maurizio Nocera

Il 9 febbraio 2011, a Taurisano, nell’appena inaugurata Casa natale del filosofo taurisanese, è stato presentato il libro “Giulio Cesare Vanini”, curato dall’altro filosofo, pur’egli di Taurisano, Francesco Paolo Raimondi con la collaborazione di Mario Carparelli, alla presenza del dott. Sergi in rappresentanza del Prefetto di Lecce, del vicepresidente della Provincia, del Sindaco Luigi Guidano, che ha introdotto i lavori, e del prof. Domenico Fazio, dell’Università del Salento, che ha coordinato il dibattito. La relazione che segue è stata presentata come introduzione al convegno.

 

GIULIO CESARE VANINI E FRANCESCO PAOLO RAIMONDI

FILOSOFI TAURISANESI

 

Roma, Ettore Ferrari, Giulio Cesare Vanini (1889), Foto Giovanni Dall’Orto

So che vi può sorprendere il titolo di questa presentazione del libro “Giulio Cesare Vanini. Tutte le opere”, a cura di Francesco Paolo Raimondi e Mario Carparelli, edito dalla Casa editrice Bompiani per la collana “Il pensiero occidentale” (diretta da Giovanni Reale), Milano 2010. Libro per me monumentale, con le opere del Vanini con testo latino a fronte, il primo

Galatina. I lavori di restauro della chiesa dell’Addolorata

di Massimo Negro

 

Se la Basilica di Santa Caterina d’Alessandria è uno scrigno d’arte e la cappella di San Paolo il fulcro delle tradizioni e delle credenze sul tarantismo, la chiesa dell’Addolorata rappresenta il luogo più significativo di Galatina, dove arte e sentimento religioso popolare si fondono in un connubio tutt’ora vivo e di particolare interesse.

La chiesa dell’Addolorata è il luogo da cui la sera del Venerdì Santo la statua della Madonna Addolorata, accompagnata dall’Arciconfraternita, percorre il breve tragitto verso la chiesa Madre per prendere tra le braccia suo Figlio morto.
Dalla chiesa dell’Addolorata si dispiega la suggestiva processione della mattina del Sabato Santo, che percorre le strade del paese alle prime luci dell’alba in un silenzio intriso di profonda devozione. E qui vi fa ritorno al suo termine.
Andando più indietro nel tempo, ma non troppo,  sempre durante la Settimana Santa al suo ingresso veniva posta la statua di “Patipaticchia”. Una statua in cartapesta che personificava uno degli aguzzini del Cristo, il suo flagellatore, e che veniva percossa dai fedeli all’ingresso in Chiesa.

La sua costruzione risale al 1710 per opera di alcuni volenterosi cittadini galatinesi i quali si riunirono in confraternita, la Confraternita dei Sette Dolori, dopo la fine di un’antica congrega che portava il nome di S. Caterina da Siena.

La costituzione del sodalizio religioso avvenne il 10 agosto del 1711 con Bolla del Generale dell’Ordine dei Servi di Maria. Il luogo riportato nella Bolla è Parma, città dove aveva sede l’Ordine. Ma si dovette attendere il 1776 affinché Ferdinando IV concedesse il suo regio assenso con decreto.

All’interno spicca il maestoso altare che si erge sin quasi a toccare il cielo appeso e che riempie immediatamente la vista di chi entra nell’edificio. Come una gemma incastonata in un prezioso, al centro dell’altare è posta la bellissima statua della Madonna Addolorata in legno policromo della metà del ‘700, circondata da statue di santi e da visi di angeli dalle espressioni varie, di gioia o di dolore. A destra le statue di San Filippo Beninzi, Sant’Antonio, San Pietro e Santa Caterina da Siena. A sinistra Santa Giuliana, San Pasquale, San Paolo e Santa Chiara.

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Verso la fine del ‘700 vennero realizzate le sei tele delle Via Matris che, tre per lato, impreziosiscono la navata.  

A partire dal 2009 la Confraternita, pur con molti sacrifici e grazie anche al contributo e alle donazioni dei fedeli, sta provvedendo al loro restauro. Le prime due tele, quelle più prossime all’altare sono state restaurate e riposizionate all’interno: l’incontro con Gesù nel viaggio al Calvario e il ritrovamento di Gesù tra i dottori del Tempio. Per altre due l’intervento è in corso.

Da alcuni mesi la Chiesa, pur continuando ad essere aperta al pubblico, è oggetto di interventi di restauro che stanno interessando principalmente il suo altare. Alcuni saggi effettuati nei mesi precedenti l’avvio dei lavori  avevano lasciato intravedere alcune “piacevoli sorprese”. Ora gli interventi stanno progressivamente  portando alla luce l’antica ed originaria colorazione delle figure dei santi e delle decorazioni, che la “maledizione della calce”, che colpì nell’800 le nostre chiese come rimedio e prevenzione dalle epidemie, aveva pesantemente nascosto.

Ma la fortuna ha voluto che, quasi in modo casuale, venisse alla luce anche l’antica decorazione pittorica della parete dove è posto l’antico organo a canne della Chiesa. Si stava effettuando un saggio per verificare il colore originario dato alla parete quando, ad un tratto, un pezzo di intonaco si è staccato e sono venuti alla luce ghirigori e motivi floreali.
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Anche sulla  parete su cui è addossato l’altare è stato possibile rinvenire l’originaria decorazione, con dei motivi romboidali che richiamano il disegno del cielo appeso.

Qualche settimana fa, un venerdì pomeriggio mentre ero in auto, in autostrada di ritorno da Forlì, ricevo una telefonata da Donato Buccella. “Massimo, se hai un po’ di tempo a disposizione, domani passa in chiesa che ci sono delle sorprese”.1

Conosco Donato. Se mi aveva telefonato i motivi per andare a trovarlo dovevano essere più che validi.

Portandomi dietro la macchina fotografica, accompagnato da Donato sono salito con cautela sull’impalcatura, con lui a farmi da guida, raccontandomi lo stato dei lavori e quanto via via stava venendo alla luce.
I colori di Sant’Antonio, il rosso delle vesti di San Paolo, le guance rosate degli angeli e lo scuro delle loro pupille, le decorazione in foglia d’argento e dorate. Antichi ex voto di chi aveva contribuito alla realizzazione dell’altare.
Su in cima sino a trovarmi dinanzi al busto dell’Eterno Padre. Una grande emozione!3

Gli interventi sono stati effettuati in modo tale da rendere comparabile lo stato in cui attualmente si trovano le decorazione e le statue dei santi rispetto alla loro originaria colorazione, per capire come procedere con il placet della Sovrintendenza.

La chiesa dell’Addolorata è un cantiere. Un cantiere aperto verso la riscoperta della storia e delle tradizioni di Galatina. La valorizzazione del suo patrimonio è un’occasione importante per la comunità galatinese, un’occasione da non lasciarci sfuggire.

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Bilancio del carnevale gallipolino 2011

LA NUOVA MASCHERA  DEL CARNEVALE GALLIPOLINO

 

di Gino Schirosi

 

Tra le maschere italiane della commedia dell’arte, accanto alle due note figure di popolani cialtroni e inaffidabili, come il napoletano Pulcinella (scaltro e volubile) e il veneziano Arlecchino (ambiguo servitore di due padroni), hanno pure un loro ruolo Colombina, Balanzone, Pantalone, Stenterello, Gianduia e Brighella, altrettanto famosi per altre categorie di vizi o virtù. Inoltre, a margine di tanti illustri sconosciuti, esistono nella nostra regione Farinella (Putignano), Ze Peppe (Manfredonia), Paulinu (Grecìa salentina) e Titoru, voce volgarizzata da Teodoro (“dono di Dio”), singolare maschera storica della tradizione popolare carnascialesca di Gallipoli. Ognuno di questi tipi o caratteri ha una sua storia particolare con una metafora da raccontare. Il carnevale gallipolino, in particolare, ha ruotato da sempre attorno alla figura del Titoru, sebbene figlio di una storiella del tutto fantasiosa, ancorché paradossale, apparentemente avulsa nell’atmosfera gioiosa di popolo.

La nostra manifestazione, senza peccare di campanilismo, è la più nota nel Salento, quest’anno nella sua 70^ edizione (per avversità climatiche dirottata a sabato 12 e domenica 13 marzo). Come nel 2010 hanno fatto da corona carri allegorico-grotteschi di singolare valore artistico, gruppi mascherati e personaggi di varie caratterizzazioni socio-etno-antropologiche, con figurazioni storiche e attuali, sfarzose e popolane. Coinvolgendo alla pari uomini e donne, adulti e non, è stato un carnevale dignitoso che ha continuato la sua tradizione imponendosi tra tanta concorrenza ogni anno sempre più ferrata nell’ambito della provincia, miseramente falliti i tentativi di consorziare similari avvenimenti dell’hinterland.

A conferma del suo successo il nostro carnevale, ribadendo il suo solito volto col medesimo programma collaudato, è stato ulteriormente rivalutato

Fatta l’Italia, come fare gli Italiani?

 di Alessio Palumbo

17 marzo 1861, nasce l’Italia unita. In realtà mancano ancora alcune regioni (per arrivare ad un assetto simile all’attuale bisognerà attendere la fine della Grande Guerra), ma soprattutto manca un fattore fondamentale: gli italiani.

Il nuovo Regno d’Italia è un coacervo di genti, lingue, storie, culture, sistemi metrici, monetari, economici. Realtà spesso agli antipodi sono ora ricondotte sotto un’unica corona, un unico governo. Fatta l’Italia,dunque, bisogna fare gli italiani: una frase mai pronunciata da Massimo D’Azeglio, ma quanto mai efficace.

Ed allora, in questi giorni di giusti festeggiamenti e doverose celebrazioni, è lecito chiedersi: quando sono stati “fatti” gli italiani? Quando il senso di appartenenza ad una nazione ha smesso di essere patrimonio di pochi eletti, per divenire coscienza comune? Ed infine, considerando il carattere principalmente locale degli argomenti affrontati in queste pagine: quando gli uomini e le donne della provincia di Lecce hanno cominciato a sentirsi veramente italiani?

In realtà non esiste una risposta univoca. Il concetto di nazione, il sentimento di appartenenza ad essa, sono realtà estremamente effimere, labili, difficili da studiare e da definire. Certamente sin dai giorni successivi alla proclamazione del Regno d’Italia la diffusione di un nuovo assetto amministrativo e politico ha dato il segno di un cambiamento, che tuttavia ha inciso in maniera estremamente limitata su masse popolari di fatto escluse da ogni tipo di partecipazione politica, culturale, sociale. Ad esempio, solo nelle elezioni politiche del 1913 si giungerà ad un suffragio (quasi) universale maschile, ma, nonostante ciò, la politica resterà ancora per lungo tempo estranea alle masse, soprattutto nel meridione. Il politico continuerà ad essere il rappresentante di interessi personalistici, clientelari, locali e, negli anni a venire, partitici: quasi mai si avrà coscienza, tra gli elettori, di prospettive nazionali.

L’istruzione rappresenta un altro fattore di primaria importanza nella formazione degli italiani, ma, nelle province meridionali, le statistiche sui tassi d’alfabetizzazione e scolarizzazione, fino almeno alla prima metà del secolo scorso, palesano la scarsa rilevanza di questo fattore formativo.

Bisognerà attendere il primo conflitto mondiale, come sottolineato da numerosi storici, per individuare i primi chiari segni di una nazionalizzazione massiva: nelle trincee del Trentino e del Carso si

Un’ipotesi blasfema: utilizzare l’oro salutare del Salento, l’olio d’oliva, come biomassa da termo-valorizzare a fini energetici

 

Gli ambientalisti del Salento leccese scrivono al Governo per impedire che l’olio di oliva lampante venga bruciato

di Antonio Bruno

Lettera aperta – appello urgente indirizzata al Governo

– al Ministro delle Politiche Agricole ed Alimentari, Giancarlo Galan;
– al Ministro per lo Sviluppo Economico, Paolo Romani;
– per conoscenza al Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi.

Gentili Ministri,

Vogliono bruciare il nostro “sacro” olio d’oliva per alimentare le centrali a biomasse della speculazione della Green Economy Industriale, la stessa che sta devastando impunemente il nostro Paese con pannelli e pale eoliche nelle campagne!

Vi scriviamo con la massima urgenza dal Salento, confidando nella vostra già ampiamente dimostrata sensibilità, nonché sulla vostra lungimiranza ed intelligenza. Il gap che separa Roma e le stanze del Ministero dalla realtà rurale, paesaggistica ed economica pugliese, ci costringe ad essere diretti con voi nell’esposizione della grave problematica, al fine di superare le cortine di mala informazione che mielano e stemperano la realtà, spesso, come in questo caso, a puro fine speculativo per gli interessi di alcune lobby, in pieno contrasto con il vero bene comune dei cittadini e persino con principi costituzionali.

La lobby della Green Economy Industriale ora vuole pure bruciare tutto l’olio d’oliva del Grande Salento, del sud della Puglia, la cosiddetta anche Terra d’Otranto, comprendente grossomodo le province di Lecce, Brindisi e Taranto, l’antica Messapia, per fare costruire lucrose speculative e nocive centrali a biomasse oleose! La stessa lobby politico-imprenditoriale trasversale che ha devastato la campagna di Puglia con mega torri eoliche falcidia uccelli e stupra paesaggio, e con morti deserti sconfinati di pannelli fotovoltaici.

Non un solo albero è stato piantato contro il “climate change” in Salento, contro la desertificazione, ma i suoli sono stati strappati all’agricoltura e alla vita, e desertificati artificialmente al fotovoltaico.

Non credete a quanti parlano, oggi, strumentalmente, di posti di lavoro in meno a seguito del recente intervento del Governo nella materia dei FER (impianti da Fonti d’Energia Rinnovabili, sole, vento e biomasse), figuratevi che numerosi esposti di extracomunitari in Provincia di Lecce, ed inchieste in quella di Brindisi, denunciano lo sfruttamento inumano e al nero di forze lavorative sottopagate di emigranti nell’installazione degli impianti di fotovoltaico.

E’ quello della Green Economy Industriale un mercato drogato da iperincentivazioni pubblica e di rapina!

Chiedetevi quanti posti di lavoro di abitanti della Puglia si perderanno per la cancellazione del paesaggio e quindi del turismo e del settore agro-silvo-pastorale!

Chiedetevi il costo di beni come il suolo, l’orizzonte, l’identità storica, la qualità di vista, lo stato di salubrità di un’intera regione che vengono cancellati! Ed il caso Puglia è null’altro che il caso Italia!

Chiediamo il vostro aiuto, perché sia posto fine a tutto questo scempio falso-green, a favore dei rimboschimenti seri e massicci del Salento. A partire dalla costituzione della Banca Mondiale a Washington (accordi di Bretton Wood), uno dei primi obiettivi fissati e fu quello di riportare ricchezza nel Salento a beneficio dei salentini, attraverso proprio l’ampio progetto di riforestazione del Salento, mediante la piantumazione massiccia di piante autoctone, ma non fu mai portato a termine! Il paradosso è che se ogni giorno sul Financial Times o sul The Guardian si parla di riforestazione inglese per combattere il “climate change”, non si riesce a capire come sia possibile che Governo, Regione e province ignorino del tutto questa necessità per il Salento, terra d’Italia con il minor numero di boschi, a causa di artificiali disboscamenti selvaggi. Mentre un tempo non lontano era tra le più verdi e pittoresche regioni d’Italia, ed era anche più ricca d’acqua in superficie, proprio grazie alla presenza del fitto manto boschivo!

Vi chiediamo di imporre una MORATORIA urgente di tutte le decine e decine di impianti autorizzati o ancora in iter autorizzativo di mega-eolico e fotovoltaico a terra, rivolti alla vendita prioritaria dell’energia prodotta, e non per autoconsumo, che se realizzati cancelleranno completamente tutto ciò che vuol dire oggi Puglia e Salento nella coscienza mondiale! Una catastrofe che solo voi potete evitare, ed annunciata già dai direttori di ARPA PUGLIA, Agenzia Regionale per la Prevenzione e l’Ambiente, e dalla Soprintendenza ai Beni Culturali della Puglia. Vi è tutta una Puglia rurale e naturale da ricostruire, da restaurare, da far tornare viva e fertile, da bonificare da pale e pannelli, a partire da tutti quegli impianti di ettari ed ettari e da tutte quelle torri d’acciaio che si stanno sequestrando, giorno dopo giorno, via via che procedono i controlli delle forze di polizia, per gravissime irregolarità e abusivismi, che arrivano fin anche al diffuso smaltimento illecito di rifiuti speciali e tossici, e si teme anche radioattivi, sotto i basamenti delle torri e sotto gli specchi delle presunte energie pulite! Quale migliore nascondiglio di quello!!

Vi chiediamo di porre fine ad ogni autorizzazione o incentivazione per impianti da fonti rinnovabili (eolico, biomasse e fotovoltaico) destinati alla vendita dell’energia prodotta e ubicati nelle aree rurali e naturali senza distinzione alcuna tra queste; si cerca d esempio strumentalmente di distinguere tra aree “degradate “e non, ma le aree degradate dovrebbero essere solo bonificate e rinaturalizzate, non danneggiate ulteriormente.

Vi chiediamo di favorire al grado massimo, con incentivi, e finanziamenti a fondo perduto, solo gli impianti per autoproduzione di fotovoltaico, con pannelli posti sui tetti di edifici recenti preesistenti, superfici queste biologicamente morte estesissime ed inutilizzate del paese. Per una microgenerazione dell’energia solare diffusa ad impatto veramente zero sull’ambiente e con vantaggi economici veri per l’economia di famiglie e aziende, e per tutto l’indotto virtuoso conseguenze, fatto di gruppi d’acquisto e piccole aziende.

Non prestate ascolto a quanti oggi, contro i tagli alla falsa “Green” e molto “Economy”, si stracciano le vesti contro questo decreto, sono solo coloro che fino ad ora hanno realizzato guadagni spropositati grazie agli incentivi, sostenuti impudentemente da alcune associazioni falso ambientaliste italiane. Fermo restando l’invito a favorire i piccoli impianti per autoconsumo a servizio e di proprietà di famiglie e aziende utenti di quell’energia.

Sono poche associazioni, quella che appoggiano questa speculazione nei loro direttivi, associazione nello statuto di ispirazione ecologista, (un tempo almeno erano tali), che oggi sono fortemente dilaniate da contrasti al loro interno, per le derive industrialiste e speculative, per il tradimento degli ideali ecologisti fondanti da parte dei loro direttivi.
Vi è un mondo invece di neo forze di puro ecologismo, di naturalismo, un mondo di tante associazioni non corrotte da questa foga economica degenerante, sviluppatasi purtroppo a partire dal Protocollo di Kyoto, trasformato ingiustamente in cavallo di Troia della frode; vi è un mondo di miriadi di comitati e neomovimenti sorti in Puglia, nel sud Italia ed in tutta la Nazione, come risposta immunitaria alla devastazione della Green Economy Industriale, di cui noi firmatari siam solo una goccia in un mare di genuino attivismo, un mare che vi chiede, quanto noi qui vi stiamo chiedendo; un mare cui si aggiungono quanti, quei tanti, tantissimi, che pur in contrasto con i loro direttivi, vi chiedono, pur in quelle stesse associazioni oggi alla deriva, di proteggere la natura ed il pesaggio davvero. E se le onde di questo mare non fanno quel fragore che potrebbe dare loro quella maggiore rilevanza, che meritano, è solo perché il mondo dell’informazione vive una situazione di incertezza e confusione, confusione che nasce dalla dicotomia tra quanti, consolidati nelle loro posizioni acquisite da tempo sotto il velo dell’ecologismo attivo, promuovono la devastazione falso-green del paese, e quanti invece, emersi dal nulla come globuli bianchi a migliaia, ma fisiologicamente divisi fra loro, hanno difficoltà ad esprimere e gridare tutto il loro dissenso, che è quello di tutti i cittadini che scoprono di esser stati ingannati con la scusa di un’ecologia strumentalizzata e vilipesa tristemente al contempo!

Falsi ambientalisti corrotti, che tacciano in maniera menzognera di volere il ritorno al nucleare, quanti stanno dicendo basta in tutt’Italia, dalle Alpi alla Sicilia, alla rapina industrialista delle energie verdi! E valga per tutti il nostro esempio, anche noi diciamo un “No” fermo alla scelta del ritorno al nucleare portata avanti al Governo Italiano:.

Il flagello della Mala della Green Economy Industriale da una parte, la intrinseca insostenibilità tecnologica della fissione nucleare dall’altra, ribadita in ultimo dalla recente catastrofe nucleare in Giappone a seguito del terremoto-tsunami, (e l’ Italia non è certo terra asismica, Salento incluso, nonostante i falsi luoghi comuni pseudo-scientifici. Il Salento fu ad esempio devastato da un terribile terremoto con enorme maremoto conseguente, che si abbattè, sulla costa del Canale d’Otranto, il 20 febbraio del 1743, solo a conferma della taciuta forte pericolosità sismica del Salento per l’ubicazione di depositi di scorie nucleare o centrali atomiche), tracciano la strada virtuosa obbligata per il Governo italiano in termini di strategie energetiche, che vi chiediamo di percorrere per il bene vero della Nazione: la solarizzazione dei tetti delle famiglie per la microgenerazione diffusa dell’energia e la ricerca scientifica!

Vi chiediamo, infine, l’impegno per la massimizzazione della qualità dell’agricoltura salentina a fini alimentari, verso le filosofie del biologico, del massima recupero delle colture più tradizionali in termini di cultivar vegetali e varietà domestiche animali, ripotenziando tutto il settore silvo-agro-pastorale!

A tal fine si collegano la richiesta urgente al Governo:
-) di esprimere un netto divieto, anche per quanto sotto esposto, a qualsiasi ipotesi blasfema di utilizzo dell’ oro salutare del Salento, l’olio d’oliva, come biomassa da termo-valorizzare a fini energetici;

-) di non consentire all’uso delle ramaglie e degli scarti delle colture agricole e produzione zootecniche a fini energetici, se non dopo aver calcolato e avere tolto da essi, quella percentuale necessaria, da sminuzzare e distribuire nei campi, per farne quel compost naturale, atto a sostituire completamente il ricorso ai surrogati dei fertilizzanti di sintesi;

-) di affermare un netto divieto anche all’uso di eventuali ramaglie come biomassa da termovalorizzare proveniente da lavori forestali effettuati in boschi e macchie, dove è bene destinare, anche lì, la ramaglia al compost in loco.;

-) Devono essere fatti salvi gli usi delle ramaglie, e scarti di potatura a fini domestici, per i “sacri” fuochi dei camini nelle abitazioni!

E’ una setticemia di corrotti falso-green, quella che subiamo, che per frodare Stato e cittadini al contempo, corrompono tutto il nostro tessuto socio-politico-economico, strumentalizzando e calpestando al contempo l'”ecologia”!

Chiediamo e Ringraziamo infine

-) il Ministro Romani per il suo impegno contro questa frode falso verde e lo invitiamo a perseverare sulla strada intrapresa che va nella direzione della tutela del mondo agricolo, del paesaggio della nazione protetto dall’articolo 9 della Costituzione Italiana nei principi fondamentali, e della vera “ecologia”, protezione della biodiversità ed della qualità di vita. Chiediamo solo più impegno per l’autogenerazione diffusa in microimpianti dell’energia da fonte solare, e un’azione ancora più dura, forte, decisa e pesante, contro ogni produzione di FER a fini di vendita dell’energia prodotta, e lucro sugli incentivi pubblici e ai danni delle tasche dei cittadini.

-) il Ministro Giancarlo Galan per aver incluso proprio il paesaggio degli ulivi salentino, (il cui pregiato olio oggi si tenta di offendere e degradare), tra i paesaggi rurali censiti come degni della massima protezione paesaggistica della Nazione, del nostro Bel Paese.

La ringraziamo per il suo intervento a tutela del paesaggio rurale delle “Serre Salentine”, legato proprio all’ecosistema agricolo-naturale degli uliveti, molti anche plurisecolari, e sulla carta protetti dalla Regione Puglia con Legge Regionale n. 14 del 04-06-2007, “Tutela e valorizzazione del paesaggio degli ulivi monumentali della Puglia”.

La ringraziamo per il suo intervento contro l’ubicazione di impianti lager di pannelli fotovoltaici e di mega torri eoliche d’acciaio sulle “Serre”, le colline del Salento. Nei censimenti ministeriali attuali il censimento delle Serre della Provincia di Lecce, delle Serre ha evidenziato quelle cosiddette occidentali, legate al complesso di Parabita-Matino-Neviano-Ruffano ecc., ma difetta delle Serre orientali, quelle di Giuggianello-Palmariggi-Minervino di Lecce-Poggiardo-Cannole. Le chiediamo di far intervenire urgentemente il suo ministero ad inclusione urgente, dell’ecosistema rurale delle Serre orientali nel “paesaggio rurale delle Serre Salentine” tutelato dal suo Ministero! Le Serre Orientali si connotano per le medesime peculiarità rurali, geologiche, naturali e per o stesso alto valore storico-archeologico, che caratterizza quelle occidentali del basso Salento.

In merito alle serre orientali, chiediamo la sua intercessione urgente presso la Regione Puglia e presso il Ministero dei Beni Culturali, già allertato con un’interrogazione parlamentare cui ancora non ha avuto modo di rispondere,
Interrogazione a risposta scritta 4-06744 presentata da Elisabetta Zamparutti, deputata membra della commissione Ambiente della Camera, giovedì 8 aprile 2010, seduta n.304

Link:
http://banchedati.camera.it/sindacatoispettivo_16/showXhtml.Asp?idAtto=23789&stile=6&highLight=1&paroleContenute=
al fine di fare sospendere le autorizzazioni, tra mille irregolarità concesse dalla Regione Puglia, per due impianti di circa complessive 20 mega torri eoliche d’acciaio di 145m, su una collina che non supera i 115 m slm; la “Collina dei Fanciulli e delle Ninfe”. Due impianti adiacenti nei feudi di Palmariggi e Giuggianello, (un terzo sempre adiacente e nel feudo di Minervino di Lecce, è ancora rischiosamente in iter autorizzativo), in provincia di Lecce, in un’area di altissima importanza culturale e mitologica, considerata la Stonehenge megalitica d’Italia per i suoi monumenti megalitici e ciclopiche rocce sacre; l’acropoli della antica civiltà messapico-salentina locale, di cui cantarono già il poeta latino Ovidio e l’antico scrittore greco Nicandro (II sec. a. C. ), le leggende che descrivevano i locali alberi d’ulivo degli uliveti del sito delle “Rocce Sacre”, di quella mitica serra, come fanciulli, pastorelli delle genti messapiche, trasformati in olivastri dalle ninfe, per aver osato gareggiare con loro nella danza, avendole scambiate per coetanee fanciulle mortali. Uliveti mitologici, dai cui tronchi dalle forme antropomorfiche, si diceva sentir venir fuori gemiti dei fanciulli intrappolati, uliveti oggi a rischio di taglio come il loro paesaggio tutto. Il filosofo greco Aristotele lego invece alla lotta di Ercole contro i giganti quelle enormi rocce sacre, oggi ammantate di leggende di streghe, orchi e fate. Il sito interessato da numerose voragini carsiche, dunque a notevole rischio idrogeologico, per le sue immense mastodontiche “rocce sacre”, a forma di giganteschi funghi, è censito tra i più importanti geositi d’Italia, siti di interesse geologico, e, solo però nelle carte, protetto paesaggisticamente dalla stessa Regione Puglia con la recente Legge Regionale 33/2009 “Tutela e valorizzazione del patrimonio geologico e speleologico”. Si aggiunga che tali impianti di mega eolico con tutte le mille infrastrutture annesse, se realizzati, devasteranno anche lo skyline della vicina città di Otranto, da pochi mesi elevata a patrimonio UNESCO dell’ umanità, e del cono visuale di Torre Sant’Emiliano, (storica torre suggestiva lungo la costa otrantina), protetto da gennaio dalle nuove Linee Guida, sugli stessi impianti da fonti rinnovabili, della stessa Regione Puglia (R.R. n.24 del 30 dicembre 2010)! Un paradosso, gli impianti non sono stati realizzati, la Regione ha protetto i coni visuali, ma la stessa Regione non vuole muoversi, come in suo potere, per far applicare retroattivamente la protezione, vanificando così ogni tutela sancita del bene paesaggio, che ha un valore in sé riconosciuto, che deve essere pertanto tutelato ora, anche se questo significa far valere retroattivamente i divieti stabiliti nelle Linee guida regionali e sospendere le autorizzazioni concesse, tra mille anomalie ed irregolarità a dittucole di sviluppatori dal capitale sociale di circa 10.000 euro, per realizzare impianti di diversi milioni di euro! Un mercimonio delle autorizzazioni dunque! Vi è poi un riconoscimento UNESCO, oggi, che obbliga il Governo ad intervenire, di fronte alle inerzie e lassismi della Regione nei confronti dei suoi doveri di tutela; uno scandalo ormai agli occhi del mondo e non più della sola nostra Nazione!

REGOLAMENTO REGIONALE 30 dicembre 2010, n. 24 “Linee Guida per l’autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili”,
Link: http://www.regione.puglia.it/index.php?page=burp&anno=xli&opz=lsezdoc&sez=140&burp=2657

Chieda per quei due impianti alla Regione di sospendere le autorizzazioni concesse tra mille irregolarità, o intervenga in deroga lo stesso Governo! Tutt’Italia ve lo chiede da mesi e mesi di apprensione per quel sito magnifico!

All’attenzione del Governo tutto: osserviamo in conclusione che il 14 marzo 2008, fu stabilito dalla Provincia di Lecce, all’unanimità, nel PTCP, (Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale), il “Salento come Parco naturale e culturale”. Sebbene tutte le forze politiche, anche le stesse di centro-sinistra, che all’epoca governavano la nostra provincia, sembrano averne svanita memoria, noi tutti, i cittadini, non ce ne siamo dimenticati, e oggi chiediamo, davvero, il massimo impegno a partire dal Governo, per il SALENTO COME “PARCO NATURALE E CULTURALE”, secondo gli indirizzi di quel virtuoso piano di intenti, PTCP, che non può restare solo sulla carta, e dei cui virtuosi principi ispiratori, oggi più che mai, abbiamo tutti tanto bisogno!

APPROFONDIMENTO SULLA QUESTIONE BIOMASSE DA OLIO D’OLIVA E RAMAGLIE NEL SALENTO

La presunta valorizzazione energetica dell’olio d’oliva, lanciata anche da alcune associazioni di categoria, è stata accolta con una forte opposizione e sollevazione del mondo agricolo e culturale salentino, nonché da numerose altre associazioni di categoria dello stesso settore, che ne hanno denunciato tutta l’oscenità della proposta, e in sé, e per le conseguenze che comporterebbe, e che hanno preso le distanze da quei parlamentari locali sparuti, che hanno sostenuto, senza il minimo onore, la blasfema proposta, per ragioni, la cui logica sottesa ci rifiutiamo di approfondire.
Utilizzare l’olio d’oliva per produrre energia:
– svalorizzerebbe tutto il comparto olivicolo salentino;
– impoverirebbe ed inquinerebbe il Salento sotto mille punti di vista, dall’aria, ai suoli, alle acque, alle falde idriche, per il venire meno di ogni protocollo di trattamento chimico per finalità alimentari, (la maggior parte dell’acqua potabile del Salento carsico, erogata dall’ Acquedotto Pugliese, proviene dal sottosuolo permeabile!), e per la stessa combustione degli oli;
– distruggerebbe l’immagine del prodotto, fondato sulla identità rurale salentina e sulla ricchezza organolettica dell’olio d’oliva come prodotto alimentare d’eccellenza, richiestissimo, per altro, in tutto il mercato mondiale, come forse nessun altro prodotto;
– rischia di danneggiare, con “un effetto risucchio”, tutta la produzione dell’olio salentino, facendo deviare, per motivi di redditività strumentalmente drogata, tutta la produzione d’olio da alimentare a lampante-biomassa oleosa;
– offenderebbe tutta una terra, fiaccandone ogni intervento volto al miglioramento e alla valorizzazione dell’olio d’oliva salentino, poiché, anche, interromperebbe bruscamente il virtuoso processo verso il biologico, verso la produzione di olio d’oliva, a fini alimentari e sanitari, di massima qualità e salubrità, motore trainante del miglioramento dell’intero paesaggio, ecosistema e stato dell’ambiente salentino.

“E’ poi l’olio d’oliva un prodotto sacro della terra salentina”, che in certi periodi, di sottomissione economico-culturale della nostra terra, è stato piegato, per necessità storiche, a mero “olio lampante”, per combustione dunque, ma che oggi abbiamo il dovere storico e culturale di continuare a trasformare sempre più nell’ “oro alimentare della terra pugliese”, baricentro della dieta mediterranea, definita patrimonio UNESCO dell’umanità, da alcuni mesi! Non serve aggiungere altro per capire l’abominio di una tale proposta, bruciare l’olio d’oliva per produrre energia, che degraderebbe, da virtuoso ad immoralmente iper-industriale, tutto il futuro sviluppo del settore olivicolo salentino e dell’intera terra ed economia pugliese, aumentando il livello di sottomissione alle multinazionali, del mondo degli agricoltori, ed il carattere neo-coloniale del processo, che ne verrebbe innescato, e che già si sta osservando con il fotovoltaico e l’eolico industriali, le cui ditte, ultime proprietarie degli impianti, son estere, europee e extra-europee, giapponesi, cinesi, russe, degli Stati Uniti, danesi, spagnole, tedesche, austriache, ecc., con sedi finali, attraverso meccanismi di scatole cinesi, in paradisi fiscali (ditte off-shore), come Panama, Cipro e le Isole Cayman, con conseguente afflusso degli incentivi italiani, (e pagati dagli italiani stessi con le loro bollette elettriche, tra le più alte del mondo), all’estero, e con incontrollabili fenomeni mafiosi di riciclaggio internazionale di denaro sporco, come anche denunciato già dall’ Europol, l’Agenzia di Polizia Europea, e dalla magistratura italiana, e non ultimo dalla Commissione Bicamerale Antimafia, nel dicembre 2010, per il caso del fotovoltaico e dell’eolico proprio nel Salento. Motivo per cui il settore, Green Economy Industriale è sotto attenzione da parte di tutte le forze dell’ordine. E quotidiani sono ormai gli arresti, gli avvisi di garanzia, le denunce ed i sequestri in corso, in un settore industriale che pare profondamente minato alle sue radici, e che spesso si è retto ed alimentato di tentativi regionali di legiferazione, è il caso della Puglia, censurati e bollati poi come incostituzionali dalla Suprema Corte Costituzionale, che hanno deregolamentato il sistema aumentando il caos e favorendo il buio in quella “zona grigia”, come l’ha definita Beppe Pisano, senatore ed ex ministro degli interni, oggi alla presidenza della Commissione Bicamerale Antimafia; una “zona grigia” in cui ha detto opera una salentina “mafia borghese” collusa con malavita e con quella parte più corrotta e deviata della politica, delle banche e dell’imprenditoria. Chi inneggia alle crisi di settore, e alle congiunture economiche internazionali, per favorire questa “corruzione” dell’olio d’oliva, ad olio meramente “lampante”, da comburre e termo-valorizzare, lo fa per motivi strumentali, legati alla legge regionale sulla “filiera corta”, che ha tagliato le gambe alle lobby politico-imprenditoriali trasversali locali che volevano realizzare speculative grosse centrali a biomasse oleose in territorio salentino, e che ora, solo con la trovata dell’uso del nostro olio d’oliva come combustibile, non potendo più importare d’altrove oli vegetali, potrebbero sperare di vedere autorizzate e costruire!

Ci auguriamo, e siamo certi, che si riuscirà presto, dall’interno del settore agronomico territoriale, a capire fino in fondo la degradazione morale che sta agendo, sempre dall’interno, dal cuore corrotto del sistema, da cui sta irradiando, per tutto il sud della Puglia, questa setticemia, da curare al più presto, attraverso i globuli bianchi, quelle personalità competenti, intelligenti e coraggiose, che il sistema ha già al suo interno; un’infezione che sta portando a spingere per il compimento di quell’atto sacrilego, immorale appunto, che sarebbe acconsentire oggi all’uso del nostro olio salentino come biomassa!

Dall’esterno del sistema agronomico territoriale, questo messaggio valga come un tentativo di medicina somministrata dal mondo ambientalista salentino, che resterà inefficace se non sarà l’intero settore a reagire, ad enucleare le sue cellule malate e ad espellerle per potersi nuovamente rifortificare, al fine di continuare a far crescere in qualità, salubrità e ricchezza naturale il nostro Grande Salento!

Un’acceso dibattito, inevitabilmente carico di indignazione della gente che ama il sud della Puglia, che si sta sviluppando in tutto il territorio, sul tema del degrado del nostro settore olivicolo a seguito dell’ipotesi strumentale dell’impiego come biomassa del nostro olio d’oliva salentino, al fine della creazione di grosse nocive e speculative centrali a biomasse oleose!

E’ la longa manus della mala lobby politico-imprenditoriale della Green Economy Industriale, che dopo aver tentato di danneggiare il nostro paesaggio, con deserti artificiali di pannelli fotovoltaici e mega pale eoliche, a fini di frode statale e di speculazione ai danni delle tasche dei cittadini, ora vuole fiaccare anche quanto di più prezioso abbiamo dalla nostra terra, l’olio d’oliva.

Una trovata “mefistofelica”, che giunge dopo quella che ha visto la proposta, presentata sempre come “panacea di ogni male”, di far biomassa legnosa dalle ramaglie, dagli scarti di potatura, nascondendo la necessità invece di impiegarne una parte almeno, di quei prodotti naturali, per fare compost in luogo, triturando in loco sui terreni, foglie, rami e frutti di scarto, al fine di evitare il ricorso massiccio a fertilizzanti di sintesi, necessario se tutta la biomassa di apparente scarto, viene asportata dai terreni!

Così, costringendo all’uso, comunque innaturale, dei fertilizzanti di sintesi, spezzando i cicli rigenerativi della stessa campagna, a ben vedere nei bilanci globali della CO2 fossile che vengono presentati vi è una voce che manca! Quanto costa in termini di CO2 fossile immessa in atmosfera la produzione dei fertilizzanti chimici, il loro trasporto nei campi, la loro diffusione in essi, ecc.?

Tutto fa vedere quanto sia menzognera e strumentale la favola dei benefici per il clima posta a fondamento mistificatorio della follia pugliese delle energie verdi in forme industriali sempre e comunque di grave impatto ambientale!

Ma al di là di questo, perché ricorrere a fertilizzanti chimici quando sono le stesse colture che con gli scarti si autoproducono compost fertile per i loro apparati radicolari!? Non lo si riesce a comprendere osservando tutto ciò in una prospettiva di “buona fede”!

Ora, con la scusa dei fuochi accesi stupidamente nei campi dai contadini per smaltire le ramaglie, si son giustificati inceneritori di biomasse-ramaglie, ed in realtà anche rifiuti, a fini termoelettrici, di potenze fino ad 1MW, realizzabili attraverso la incostituzionale L.R. 31/2008 della Puglia, con una semplice DIA Dichiarazione di Inizio Attività presentata al comune interessato! Un intero nocivo e pericoloso opificio industriale realizzato con una DIA! Tutto questo quando invece bastava un’ordinanza dei sindaci per vietare quei fuochi inutili fumosi ed indiscriminati nei campi, ed invitare i contadini a triturare le ramaglie e altri scarti in loco, al fine di farne compost. Non a caso nel mercato vi sono biotrituratori che triturano e spargono sminuzzati scarti vegetali e organici in generale sui suoli, che in piccolissime pezzature vanno incontro a rapidissimi processi di compostaggio naturale al suolo.

Ordinanze che ora occorre chiedere, anche con leggi nazionali e decreti governativi, in sostituzione di quelle che obbligano al conferimento delle ramaglie nelle centrali a biomasse! Spezzando, così, l’alimentazione di queste nocive centrali industriali, cioè volte alla vendita dell’energia prodotta e non all’autoproduzione ed autoconsumo dell’energia elettrica, ridimensionando esponenzialmente il ricorso all’uso di fertilizzanti chimici di dubbia salubrità, e garantendo sempre e comunque la filiera del legno da potatura per i camini domestici, sacri fuochi familiari, e per la produzione del pellet!

Serviva alimentare queste centrali a biomasse solide con scarti locali, secondo la filiera corta, quale allora migliore trovata delle ramaglie e degli scarti di potatura dei prossimi uliveti e vigneti per giustificarne l’autorizzazione, spiegando che si sarebbe eliminato il problema dei fuochi nei campi! Problema risolto portando tutta la biomassa in uno stesso luogo, magari alle porte di una città, e accendendo lì nelle fornaci di quell’industria elettrica un fuoco perenne, 24 ore su 24! Questa l’hanno chiamata soluzione ecocompatibile! Ma allora non era meglio lasciar accendere quei fuochi sparsi nei campi, con un effetto di diluizione dei fumi anziché concentrarli tutti a danno di una comunità?!

Così, in questa macchina mefistofelica di strumentalizzazioni e mistificazioni, oggi, se notate, l’olio d’oliva salentino si vuole impiegare per grosse centrali di potenza superiore al MegaWatt!

Perché? Perché la legge della “filiera corta” intervenuta da alcuni mesi, vieta di bruciare biomasse a fini energetici che non siano prodotte nel raggio di 70 km. Questo ha tagliato le gambe agli imprenditori, legati trasversalmente con diversi partiti politici e con lobby di potere poco chiare, che avevano progetti per grosse centrali a biomasse oleose in cui bruciare oli di importazione. La trovata dell’uso dell’unico olio in abbondanza prodotto già nel raggio di 70 km nel Grande Salento, l’olio d’oliva, permetterebbe di dimostrare subito che esiste già una filiera locale di approvvigionamento di queste centrali, e favorirebbe oggi l’ottenimento delle autorizzazioni!

Insomma, la problematica non è complessa, le trame non sono invisibili, sono solo artatamente nascoste, ma una volta comprese … in una sorta di voltastomaco sociale il problema si è comunque già risolto, e la razionalità, la chiarezza e la moralità ispirata dal bene comune inscindibile dal bene per l’ambiente, per la natura e la vita, fa tornare a trionfare la verità ed la giustizia!

Gentili Ministri, Gentile Presidente del Consiglio,
siamo certi che queste parole, quest’appello scaturito dall’emergenza, che si leva dal Salento, ma cui fanno eco tutti i cittadini coscienziosi di tutte le regioni d’Italia, non resterà inascoltato.

Fate che sia un seme adagiato nell’unico terreno, quello della Capitale, dove possono davvero germogliare, ma solo in presenza di amorevoli e saggi amministratori, i virgulti che produrranno i migliori frutti per il bene della nostra Italia. In questo 150° anniversario della ritrovata Unità del Paese.

Data: 14/03/2011.   Fonte Notizia: Coordinamento Civico per la Tutela del Territorio, della Salute e dei Diritti del Cittadino

Il brigante Pizzichicchio e la sua residenza rurale

a cura di Mino Chetta

Storico “pagghiaro” appartenuto a Cosimo Mazzeo (detto Brigante Pizzichicchio), situato in zona “Principe” a San Marzano (Ta).

E’ una struttura imponente tipo fortezza, costruita in roccia calcarea posizionata a secco. Edificata su diversi piani, al piano superiore è incassata una nicchia di tipo altana che fungeva da luogo di avvistamento.

In questa zona sono presenti moltissimi “pagghiari Sammarzanesi” (vallata dei pagghiari Sammarzanesi), i quali facevano da sentinella a quello principale del Pizzichicchio.

Si può notare che la struttura è costeggiata da una fitta vegetazione mediterranea, alberi di ulivo secolari che avevano la funzione di occultare il rifugio del Brigante Mazzeo (nato il 13 gennaio 1837 a San Marzano, fucilato in Basilicata il 28 novembre 1864, alla giovanissima età di 27 anni). Era figlio di Maria Friolo e Pasquale Mazzeo.

Esiste in paese una leggenda legata al tesoro del Pizzichicchio: Lui prima di

Da porta Rudiae a piazza Sant’Oronzo

di Gianni Ferraris

Silenzio irreale nel corso stamattina. Poca gente, è presto. Non c’è ancora il pianista che suona ogni giorno e rende ovattata l’atmosfera. Non so se è un virtuoso, però mi piace.   Anche le persone parlano a bassa voce, a parte quella signora che vuol far sapere a tutti di essere proprio lì e lo urla nel suo cellulare. Quasi ci fosse bisogno di urlare per farsi sentire, d’altra parte il telefono è piccolo, vuoi mica che trasmetta come quelli grandi? È un’abitudine diffusa parlare ad altissima voce dentro quel marchingegno. Poi stacca e torna il silenzio. Dietro di me sento una cadenza che sembra quella di un metronomo, toc toc toc. E’ una signora che cammina ed i suoi tacchi accompagnano anche i miei passi, per tutto il corso, da porta Rudiae a Piazza Sant’Oronzo.

Ascoltavo un dibattito in TV di prima mattina. Una mediatrice culturale, italiana di  adozione e per diritto acquisito, parlava di immigrati,  esuli ed altro. Diceva una cosa importantissima, alla quale  spesso non si pensa. L’esule, l’immigrato, il povero, sono persone che non hanno banalmente bisogno di aiuto. Hanno il diritto di essere soccorse. E la società che accoglie non deve parlare di aiuti come se fosse una semplice carità, ma ha il dovere civile, etico e morale di soccorrere. E loro, gli immigrati, hanno il diritto di vivere. È la regola della democrazia, dell’umanità.

A volte si tenta di scardinare anche le secolari regole del mare. Quando il marinaio vede un’imbarcazione che necessita di soccorso deve fare tutto il possibile per garantirne l’integrità, per salvare le persone. Il solo parlare di respingimenti in mare è l’esatto opposto di questa legge. Prima si soccorre, si cura chi ne ha bisogno, poi, solo poi si parli di leggi e di norme sull’immigrazione.

Questo mi fa venire in mente l’utilizzo delle parole, l’importanza che hanno. “La manomissione delle parole”, il titolo del libro di Carofiglio. Che consiglio caldamente.

“Parole che un tempo avevano avuto un significato eretico venivano pur mantenute, talvolta, per via della convenienza, ma il significato sfavorevole era come purgato. Innumerevoli altre parole, come: Onore, giustizia, morale, internazionalismo, democrazia, scienza e religione avevano cessato

I rischi della circolazione

di Armando Polito

Col fenomeno indicato nel titolo dobbiamo fare quotidianamente i conti sia da pedoni che da automobilisti e anche per i più disciplinati c’è sempre in agguato il cavallo di battaglia di tutti gli avvocati: il concorso di colpa. Qui ne intendo parlare metaforicamente con riferimento alla circolazione (perché pubblicate) di certe etimologie che sarebbe ipocritamente eufemistico e criminalmente generoso definire discutibili e che utilizzate passivamente per pigrizia o scarsa o nulla competenza specifica configurano il concorso di colpa che, al limite, può accontentare tutti, ma non rappresenta il trionfo della verità e della giustizia.

SPRINGÌRE Corrisponde all’italiano spingere ed ha la stessa etimologia, tant’è che il Rohlfs (che ad onor del vero registra, secondo me per errore di informazione, per Nardò, nonché, nel Leccese,  per Aradeo, Melendugno e nel Brindisino per San Pancrazio Salentino e San Pietro Vernotico sprìngere invece di springìre, registrato, insieme con il precedente, pure per Aradeo) nemmeno ne accenna. Il Garrisi, invece, registra sprìngere e sprengìre facendoli derivare da un “incrocio tra il latino expangere=frangere e l’italiano spingere”. Ora è più che certo che in latino expangere non esiste come lo è il fatto che l’italiano spingere deriva da un latino *expìngere composto dalle voci classiche ex=lontano da e pàngere=fissare. Il passaggio dalla a di pàngere alla i di *expìngere è un fenomeno assolutamente normale (basta pensare al verbo àgere ed al suo composto exìgere). Anche lo spostamento dell’accento da expìngere a spingìre è nel dialetto neretino un fatto assolutamente normale: basta pensare a liggìre che, come l’italiano lèggere è dal latino lègere, a critìre che, come l’italiano crèdere è dal latino crèdere, etc. etc.

E per la r iniziale in più di springìre rispetto a spìngere? Si tratta di una consonante epentetica espressiva, cioé aggiunta per enfatizzare fonicamente il concetto, così come è successo, per esempio, in scrufùlare, per il quale vedi il post Rischio di scrufulàre? Meglio stare fermi! del 9 marzo u. s.

TAFANÀRU Nel significato di deretano la voce è registrata dal Rohlfs per Lecce, Gallipoli, Otranto e Squinzano (nella variante tafanàriu a Oria e tafanàrie a Massafra). L’etimologia non è indicata, come al solito succede nell’opera del Rohlfs quando la voce è molto vicina alla corrispondente italiana, che in questo caso è tafanario, forma aggettivale da tafàno (per l’abitudine che ha questo insetto di pungere il posteriore dei quadrupedi), dal latino tabànu(m). Per il Garrisi, invece, la voce latina si è incrociata con il leccese farnàru (=setaccio). É evidente che farnàru viene messo in campo per spiegare la terminazione –àru di tafanàru; essa però costituisce da sé uno dei suffissi più frequenti (insieme con l’italiano –àro, –àio e –àrio per la formazione di voci derivate) e non c’è, quindi, la minima esigenza, nemmeno ipotetica, di invocare un incrocio, tanto più che il termine messo in campo (farnàru) si mostra poco congruente, anche se il Garrisi, riportando anche la definizione di “sedere piuttosto appiattito”, avrà pensato ad un rapporto di somiglianza col setaccio.

UTÀRE Corrisponde all’italiano voltare, con cui condivide l’etimologia: dal latino volutàre, a sua volta dal supino volùtum di vòlvere (come captum di càpere ha dato captàre, etc. etc.); solo che, mentre in italiano si è avuta la sincope solo di –u– atona,  in utàre è caduta l’intera sillaba e in più c’è stata la normalissima aferesi di v– (v– sopravvive, comunque,  in parecchie varianti salentine). Si tratta di fenomeni così semplici e lineari che il Rohlfs ritiene superfluo fornire l’etimo. E il Garrisi: “da un incrocio tra italiano voltare e rotare”.

La conclusione è che gli incroci sono, comunque, pericolosi: se esistono e non rallentiamo (in filologia leggi riflettiamo) rischiamo di procurare un incidente; se esistono solo nella nostra fantasia e rallentiamo, crogiolandoci in essa,  rischiamo di coinvolgere in un tamponamento chi, magari imprudentemente, ci segue. Ma possiamo sempre applicare il gioco dello scaricabarile che è poi, in modo appena più spinto, la versione volgare (solo a livello formale, purtroppo, perché la sostanza non cambia) del concorso di colpa.

* -Scrivi che io credevo che ci fosse un incrocio e ho frenato all’improvviso perché dovevo voltare. Ho sentito chi mi veniva dietro spingere il posteriore della mia macchina, che così si è trovata abbracciata a questo palo…-

Un bambino dai begli occhi chiari / Storie di biblioteca

di Alfredo Romano

È una storia di tanti anni fa, quando la biblioteca comunale si trovava al primo piano del Palazzo Andosilla, all’inizio di Via Roma (oggi Via SS. Giovanni e Marciano). Vi si accedeva da un cortile il cui ingresso era sbarrato da un enorme e sgangherato portone. Era, mi pare, un primo pomeriggio caldo di fine giugno, l’ora in cui i bambini che abitavano nei paraggi, approfittando del poco traffico e della pennichella dei genitori, davano sfogo ai loro liberi giochi sotto casa schiamazzando e rincorrendosi per le vie, azzuffandosi e, perché no, facendo un salto in biblioteca. Toccava vederli, dopo aver fatto le scale di corsa: mi si presentavano davanti con tanto di fiato, il viso e i capelli grondanti sudore.
Erano piccoli, al massimo sette-otto anni, e il loro scopo non era proprio quello di fare ricerche o di leggere, ma tuffarsi tra i loro libri, trovare il più bello e colorato e contenderselo al grido di l’ho visto prima io!, tirandoselo ognuno dalla propria parte. E sempre mi toccava intervenire per dirimere le questioni e assicurarli che di libri ce n’era per tutti. E si portavano via i libri in prestito, ma per loro era come aver vinto un giocattolo alla riffa, e scomparivano rotolando per le scale, se non addirittura scivolando dal parapetto in muratura con gran chiasso. Io, dalla finestra, più che i ragazzi, fissavo trepidante quei libri che brandivano in mano come trofei: chissà, speriamo bene, mi dicevo: che li leggano almeno!

Ma ci fu un primo pomeriggio, un primo pomeriggio assolato di fine giugno, che non dimenticherò mai, e il cui ricordo ancora mi strugge. Ero lì a ticchettare sulla vecchia macchina da scrivere, quando un vociare in cortile mi preannunciò il sopraggiungere della solita banda di ragazzini. Dalle scale mi arrivavano voci concitate. Sentivo un “Dài! sali! cammina! mo’ so’ cavoli tui!” Ancora: “Così te ‘mpari, mo’ je lo devi pagà ‘o libro, se no te dà un sacco de botte!”

Storie di bambini, pensavo, continuando nel mio ticchettio, e non m’ero accorto che la banda era già sopra, nel mio ufficio, e… “Eccolo! eccolo! nun voleva salì! Te l’avemo portato: fatte dì che ha combinato!”
Alzai la testa e la scena che mi apparve era a dir poco insolita: un bambino braccato tenuto a forza per le braccia da due più grandicelli; un terzo gli stava dietro per trattenergli ogni via di fuga.
“Fatte dì, fatte dì che ha combinato!” insistì quello che dava l’idea del capobanda indicandomi il piccolo malcapitato “Mo’ tocca che paga un sacco de sordi” finì per sentenziare.
Ma, sinceramente, non diedi molto ascolto a quelle accuse o minacce profferite; fui attratto, invece, da quel bambino, che, simile a Pinocchio, se ne stava come fra due carabinieri in erba. La faccia scura e spaurita faceva risaltare i due occhi chiari e luminosi che mi fissavano dal basso in alto come a chiedermi pietà. E mentre i compagni continuavano a sbraitare, lui se ne stava muto, come rassegnato a subire qualsiasi pena gli sarebbe stata inflitta.
“Lasciatelo stare!” ordinai. I ragazzi ubbidirono. Il bambino, stranamente, non approfittò per darsela a gambe, ma restò lì, in silenzio, a fissarmi con i suoi begli occhi chiari.
“Insomma volete dirmi che è successo?”
“Ha stracciato il libro della biblioteca e l’ha spiaccicato pe’ terra!” assicurarono all’unisono i piccoli carabinieri.
“È vero che hai stracciato il libro?” chiesi al bambino scrutandolo in quegli occhi smarriti e regalandogli un mezzo sorriso. Ma lui niente.
“Adesso voi uscite dalla stanza!” intimai agli altri “Me la sbrigo io con lui.”
“Guarda che se mi dici che hai stracciato il libro, non ti faccio niente, sai? Sono cose che possono capitare. La prossima volta magari cercherai di stare più attento, così il libro lo legge anche un altro bambino” lo rassicurai piegandomi all’altezza dei suoi occhi.
“Lo hai stracciato?” ripetei, e finalmente mi fece cenno di sì con la testa.
“Allora torna a casa, riportami il libro e così vediamo di ripararlo in qualche modo. Vai! Io ti aspetto qui.” Fu un attimo, si voltò e se la diede a gambe; dai vetri della finestra lo seguii mentre si precipitava per le scale e scappava lungo il cortile. Conoscevo quel bambino, era venuto altre volte, stava di casa a Via del Governo Vecchio.
Aspettai invano. In genere, quando un libro non torna, mi cruccio, per non dire altro. Quella volta, però, non so perché, non mi davo tanto pensiero: come se quel bambino, braccato a quel modo e con quella faccia così spaurita, avesse pagato il suo prezzo.
Trascorsero tre lunghi giorni assolati, poi, improvvisamente, un tam tam, una notizia ferale che sconvolse la città: due bambini avevano perso la vita scivolando in una marrana, mentre giocavano dalle parti di Fontana Quaiola. Uno di loro era proprio il bambino di Via del Governo Vecchio.
Oh potesse tornare un giorno quel visetto scuro dai begli occhi chiari: lo colmerei dei libri più belli e colorati, sia pure col permesso di stracciarli o gettarli per terra o macchiarli…

Pubblicato su:
– L’Immaginazione, periodico Manni Editore. Lecce, 2004.
– AIB notizie, notiziario dell’Associazione italiana biblioteche. Roma, 2004.
– Gazzetta Falisca, Civita Castellana, 2004.

Il lampasciòne in quattro puntate (3/4)

di Armando Polito

 

Il lampascione nell’arte contemporanea: musica, teatro, cinema e poesia

 

di Armando Polito

L’umile bulbo entra nella canzone popolare, sia pure nella variante pampasciòne e nel significato traslato di testicolo già ricordato: succede in Li mistieri, canto tradizionale che gli Aramirè14 hanno inserito nel loro album Mazzate pesanti uscito nel  2004. Riporto di seguito per intero il testo con  la mia versione italiana perché  sia compreso anche da chi salentino non è:

Mo’ te cuntu te li mestieri;/ li scarpari su li primi:/ se la inchene la panza/cu nu piattu te lupini./ Mo’ te cuntu li falignami:/tuttu lu giurnu liscia liscia/alla fine te la sciurnata/ se la fottene la pignata/Ca mo’ riane li trainieri:/fannu na vita te cavalieri quando rivane alla ‘nchianata/ la castimane l’Immacolata./ Mo’ te cuntu te li ferrari:/ tuttu lu giurnu batti batti;/ quando spicciane li crauni/ se li rattane li pampasciuni./ Mo’ te cuntu tte li ’mpiegati:/ fannu na vita te Patreternu;/ quando riva lu ventisette/ te lu squajane lu governu./E li poveri contadini/fannu figura te pezzenti:/quando spicciane la stagione/nu hannu ccotu propriu nienti.

(Adesso ti parlo dei mestieri;/ i calzolai sono i primi:/se la riempiono la pancia/con un piatto di lupi. Adesso ti parlo dei falegnami:/ tutto il giorno liscia liscia;/alla fine della giornata/se la fottono la pignatta./E’ la volta dei carrettieri:/fanno una vita da cavalieri;/quando giungono alla salita/la bestemmiano, l’Immacolata./Adesso ti parlo dei fabbri:/tutto il giorno batti batti;/quando finiscono i carboni/se li grattano i coglioni/). Adesso ti parlo degli impiegati:/fanno una vita da Padreterno;/quando arriva il ventisette/te lo squagliano il governo./E i poveri contadini/fanno la figura di pezzenti:/quando chiudono la stagione/non hanno raccolto proprio niente).

Analoga apparizione  nel  brano  Vinne de  Roma, che  fa  parte  dell’album  Allu tiempu de li lupini realizzato da I cantori dei Menamenamò15 e uscito nel 2000:

Vinne de Roma…/ Lu tammurreddhru meu vinne de Roma/ ca me l’ha’ nnuttu na Napulitana./E cu lu sonu…/ Me disse cu lu cantu e cu lu sonu/ ca quannu vene iddhra lu pacamu./ La tarantella…/A ddhru te pizzicau la tarantella?/Sutta lu giru giru de la gonnella./De le tarante…/E Santu Paulu meu de le tarante/ pizzica le caruse ‘mmenzu l’anche./De li scurpiuni…/E Santu Paulu meu de li scurpiuni/pizzica li carusi ‘lli pampasciuni….

(Venne da Roma…/ Il tamburello mio venne da Roma/e me l’ha portato una napoletana/E per suonarlo…/Mi disse di cantarlo e di suonarlo/che quando viene lei lo paghiamo/La piccola taranta…/Dove ti morse la piccola taranta?/Sotto il giro della gonnella./Delle tarante…/E san Paolo mio delle tarante/morde le giovani in mezzo alle gambe./ Degli scorpioni…/E san Paolo mio degli scorpioni/morde i giovanotti ai coglioni…).

Al bulbo si sono ispirati nella scelta del  loro  nome   i  Lampasciounazz,

Tutto sulla fragola. Parola di agronomo

La fragola del Salento leccese

(Fragaria vescadi)

 

di Antonio Bruno
Le fragole di bosco (Fragaria vesca) sono le uniche fragole selvatiche europee, a differenza di quelle a grossi frutti derivate da varietà di origine americana e arrivate in Europa verso la fine del XVIII secolo.
Queste fragoline crescono spontaneamente nella maggior parte delle nostre regioni, ma sono anche molto facili da coltivare in terra piena ogni pianta produce in media grammi 100/150 di frutti.

Taranto. Vogliamo l’Italia Una, Indipendente e Libera

 

Una voce decisa vibrò all’unisono:

Vogliamo l’Italia Una, Indipendente e Libera

 

di Daniela Lucaselli

Gli avvenimenti  tessono la  intricata tela della storia, le passioni colorano gli ideali, le lotte acuiscono le controversie ideologiche, il popolo rivendica la tanto desiderata libertà.

Il nostro Risorgimento nazionale… sul sangue versato di tanti eroi inneggerà la sua bramata libertà.

L’attesa, la speranza… vedere l’Italia “inerme, divisa, avvilita, non libera, impotente”, risorta “virtuosa, magnanima, libera e una”. Così Vittorio Alfieri sogna la sua Patria.

Sono passati 150 anni… le iniziative e le manifestazioni si moltiplicano ogni giorno in tutta la Penisola  per rimembrare il sacrificio di chi, con la propria vita, ha contribuito all’unità della Nazione.

Il Risorgimento è innanzi tutto storia di uomini che, con il loro operato, hanno contribuito alla rigenerazione morale dell’umanità. Hanno dimostrato coerenza di principi, onestà di intenti e fede nell’ideale ed hanno fatto  diventare tutto ciò una realtà storica, concreta.

L’Unità d’Italia (già Dante auspicava l’unità spirituale degli italiani) è stato il coronamento dell’opera e dell’azione di uomini  insigni, appartenenti a tutte le regioni della Penisola,  che hanno sentito vibrare nel loro animo  la sete di un certo rinnovamento delle condizioni dell’Italia, l’unità, l’indipendenza, l’educazione del popolo e il suo benessere sociale ed economico.

Il processo risorgimentale ha comunque registrato nel suo insieme una esigua partecipazione di massa, specie se questo dato lo si riferisce  al

Via Vecchia Copertino: strada fiabesca della storia salentina

di Daniela Bacca

E’ l’ arteria stradale tra le più antiche della Valle della Cupa, definita da Cosimo De Giorgi il “Tivoli dei leccesi”, è la strada della genesi dei Messapi e di Quinto Ennio, è il sentiero che mi ha partorito ed in cui io stessa vivo fin dalla nascita nel tratto denominato, fino a qualche anno addietro, “seconda traversa a destra”.  La  via “Vecchia Lecce-Copertino”, che in verità nella cittadinella di San Giuseppe ”dei voli” non arriva, ma si interrompe sulla provinciale Copertino-San Pietro in Lama, fu un prestigioso asse viario legato al tracciato che collegava la città messapica di Rudiae con Lecce e Porto Cesareo,  e si distende, oggi come un tempo, tra le campagne più floride e primitive di Lecce, dove corre una storia arcaica e contemporanea raccontata da ammalianti pietre agresti ed umane.

Il suo lungo sentiero, nodo fondamentale per la viabilità, con le sue affascinanti traverse, diramazioni e contrade, scorre tra le strade “ Lecce-Monteroni” e “ Lecce-San Pietro in Lama”, accomodandosi con mite dolcezza nella magica periferia leccese, ed apparteneva  ad una fitta rete viaria, le cui strade sono riportate anche in alcuni documenti del XVII e XVIII secolo, alcuni dei quali individuano la vecchia strada Lecce-Copertino, quella che da Porta Rudiae a Lecce portava a Leverano.

In quest’ habitat primordiale, di incantevoli cieli cristallini, di inebrianti essenze mediterranee date dai pini domestici, mirti e melograni, di

Il lampasciòne in quattro puntate (2/4)

di Armando Polito

Come riprodurlo.

Dei due metodi di riproduzione che mi accingo a descrivere il secondo è quello che garantisce i migliori risultati: 1) per seme: si raccolgono  i semi alla fine dell’estate e  si   interrano    abbastanza  superficialmente anche in  vaso, purchè  questo  sia esposto  al  sole  per  almeno   due-tre ore   al  giorno; l’acqua  va  somministrata  moderatamente  e  con  regolarità da  febbraio  a  giugno, il  periodo vegetativo   della pianta. La concimazione  va fatta dalla primavera  fino  all’inizio  dell’autunno, una  volta  al  mese, con fertilizzante liquido aggiunto all’acqua di annaffiatura. La potatura consiste nell’eliminazione dello stelo quando questo è sfiorito. Il bulbo diventa di  dimensioni  adatte al  suo  utilizzo dopo non meno di quattro, cinque anni;  2) per bulbillo: separare a fine estate i bulbilli  che  si  formano  alla base del bulbo madre e metterli a dimora definitiva in  autunno a una distanza di almeno   dieci  cm. l’uno  dall’altro. Concimare e annaffiare come nel metodo di  riproduzione  prima  descritto. Il bulbo  assume dopo non meno di tre anni dimensioni che lo rendono utilizzabile.

Le proprietà afrodisiache del bulbo nelle testimonianze degli autori antici.

Testimonianza molto più antica di quella del  X° secolo riportata nella prima puntata sulle presunte proprietà afrodisiache del bulbus si ha nel mondo greco in Dioscoride Pedanio (I° secolo d. C.) (De medicinali materia, II, CLXI): “Il bulbo commestibile. Il bulbo commestibile è noto a tutti come cosa che si può mangiare; salutare per lo stomaco, libera l’intestino, è rossastro e viene importato dalla Libia; è amaro, simile alla scilla, più

Le medagliette indice di antiche devozioni

ARCHEOLOGIA DELLA DEVOZIONE POPOLARE SALENTINA

di Riccardo Viganò

Il rapporto tra archeologia o ricerca storica e devozione popolare è un tema di grande complessità ed ampiezza; una storia che si può “leggere” attraverso il rinvenimento e soprattutto lo studio di alcuni reperti con connotati di senso religioso, come “li spiragghie” o medagliette devozionali, o anche  i santini, che rappresentano  una testimonianza della quotidianità del culto. Tali tracce si possono rinvenire, quasi con quotidiana frequenza, nelle nostre campagne, negli scavi edili o nelle vicinanze di complessi cimiteriali civili ed ecclesiastici, sia post-medioevali che moderni; tracce che forniscono l’opportunità di studiare in modo sistematico le devozioni, i pellegrinaggi o le credenze di una comunità.

Le medagliette devozionali ebbero una larga diffusione in Italia ed in Europa solo dopo il Concilio di Trento, che si chiuse nel 1563, e nel Salento arrivarono  un po’ più tardi. Erano prevalentemente  utilizzate come parti terminali dei rosari, ai quali erano appese grazie ad un applicagnolo e ad un filo metallico ritorto. In altri casi venivano appese direttamente al collo o comunque a contatto della persona, per il loro valore sacro e per le devozioni specifiche raffigurate. Molto spesso il legame personale con il santo  doveva essere così forte da determinare la sepoltura del defunto con l’immagine del santo maggiormente venerato in vita. Questo tipo di utilizzo è attestato fin dai tempi  più antichi ed è documentato dall’usura. Le medagliette rappresentano inoltre un importante indicatore cronologico per il periodo post medievale, in quanto alcune raffigurazioni di santi consentono una datazione del manufatto. E’ il caso di alcune medagliette raffiguranti S. Ignazio di Loyola, S. Francesco Saverio e S. Filippo Neri, canonizzati nel 1622, S. Rocco, San Sebastiano e S. Carlo Borromeo, canonizzato nel 1610,  invocati contro la peste.

Il  ritrovamento di medaglie in bronzo o rame, soprattutto quella di S Ignazio di Loyola ( fondatore della compagnia di Gesù) , quasi tutte di conio romano, è inoltre indice di una qualche influenza sul culto locale da parte dei gesuiti nei secoli XVII e XVIII.

Altre medagliette rinvenute in territorio salentino palesano avvenuti pellegrinaggi, come è un ovale di Pio V raffigurante “l’ausculum pedem”, il bacio del piede, ricordo di un  pellegrinaggio a Roma;  oppure un piccolo ovale in argento, parte terminale di un rosario,  raffigurante un chiodo della crocifissione con la scritta “sacro chiodo”, che  rappresenterebbe un altro

Rischio di scrufulàre? Meglio stare fermi!

di Armando Polito

Il lettore più affezionato dei miei post che nutra una certa passione per quell’archeologia della parola che è l’indagine etimologica probabilmente già sapeva o lo ha appreso attraverso gli esempi concreti che un etimo perché sia quanto meno convincente deve soddisfare condizioni di carattere semantico e fonetico. Se per la semantica la fantasia può architettare i più improbabili collegamenti (tutti validi come ipotesi di lavoro, ma destinati a diventare proposta plausibile dopo l’esibizione di uno straccio di prova), la fonetica ha regole ben precise alle quali non si può derogare. È, comunque, responsabilità di chi indaga o presume di indagare, direi dovere deontologico per lo specialista o per chi presume di esserlo nel momento in cui rende pubblico il frutto della sua ricerca, essere onesto e chiaro.

Sarebbe più corretto in alcuni casi dichiarare la resa piuttosto che spacciare come risolutoria una proposta che fa ricorso a quegli appigli che in filologia rappresentano l’ultima spiaggia: le forme (per lo più latine) ricostruite (contraddistinte dall’asterisco) e l’incrocio con un altro lemma, pena il rischio irrimediabile di scivolare, scrufulàre nel dialetto neretino. Quando poi si mette in campo l’inesistente la misura è colma…

Il lettore, sempre quello di prima, ha già da tempo capito che lo strumento primario per chi abbia curiosità del genere è l’opera del Rohlfs. Tuttavia in essa al lemma corrispondente, dopo i sinonimi italiani scivolare e sdrucciolare, non compare etimologia. La questione si ingarbuglia prima ancora di essere affrontata e non rimane che ricorrere al Dizionario del Garrisi ove testualmente leggo: “dal latino roteolare incrociato col latino volgare *sufolare”.

Il problema è che roteolare non esiste (meglio, finora non risulta attestato1) né nel latino arcaico, né in quello classico, nemmeno nel tardo e tanto meno nel medioevale, in cui, invece, è attestato rotulàre col significato di circuire (Du Cange, pag. 223). Non so proprio da quale raccolta lessicale il Garrisi abbia tratto roteolàre, mentre per *sufolare (meno male che l’asterisco c’è) debbo pensare che lo abbia fatto derivare dal latino medioevale sùfula (Du Cange, pag. 651)=stivaletto.

Insomma, si tratta di una proposta etimologica basata sull’incrocio tra un termine inesistente ed un altro ricostruito, quasi un record…

Allora, ci dobbiamo arrendere onorando l’impegno deontologico iniziale? Ci saranno senz’altro altre occasioni per farlo. In diverse circostanze lo studio delle varianti è stato prezioso se non determinante. Lo sarà nel nostro caso quella leccese: scufulàre; è evidente che essa è deformazione dell’italiano scivolare (ironia della sorte, di etimologia incerta, forse onomatopeica) con regolarissime alternanze fonetiche che sono, nell’ordine: i>u, v>f e o>u,  e che la voce neretina ha solo praticato l’epentesi espressiva della r dopo il gruppo sc.

E come mai il Rohlfs sull’etimo di questo lemma, che ora ci appare addirittura banale, tace? Perché nell’introduzione alla sua opera (pag. 9) leggo: “Per tutte le parole che i nostri dialetti hanno in comune con la lingua nazionale italiana, il lettore potrà trovar utili schiarimenti nei vocabolari etimologici della lingua italiana”. Non a caso aveva posto come primo significato proprio scivolare.

Tre giorni dopo…

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1 Potrebbe giacere sepolto in qualche codice, iscrizione o graffito non ancora rinvenuti.

Il Carnevale pugliese tra simbologie, eccessi e divieti

La relazione di Teresa Rauzino al Convegno del Centro Studi Martella: Il Carnevale com’era… Antiche tradizioni pugliesi. garganiche e peschiciane

 

di Teresa Maria Rauzino

Qualche anno fa, precisamente nel 2007, il prof. Pietro Sisto  dell’Università di Bari e Taranto mi invitò a pubblicare il mio saggio sulla “Zeza Zeza (perduta) del Carnevale di Peschici”  (pubblicato in anteprima sull’Attacco)  nel suo libro” L’ultima festa”, edito da Progedit. Un bellissimo libro che suscita sempre il mio interesse e che mi preme presentare anche ai nostri lettori.

Quella raccontata da Sisto è la prima “storia” del Carnevale in Puglia indagata negli  aspetti antropologici, nelle profonde trasformazioni che, soprattutto nel secolo scorso, hanno accompagnato la festa in angoli diversi della regione, dalla più nota Putignano fino a Trani, Molfetta, Bitonto, e ai centri “minori” (ma non per questo meno importanti) come Peschici.

Il Carnevale a Putignano partiva dal 26 dicembre, giorno di Santo Stefano, una festa nata in relazione alla traslazione delle reliquie del santo da un’altra città, per preservarle dall’attacco dei Turchi. E’ il 1394. La popolazione festeggia, si traveste in maschera.

Lo faceva anche il 17 gennaio festa di sant’Antonio Abate, che dava il via ufficiale al carnevale pugliese, che proseguiva, il 2 febbraio, con la festa della Candelora, fino ad arrivare al giovedì grasso e al martedì grasso che chiudevano la festa.

Quattro erano gli animali che rappresentavano la ritualità del carnevale: l’asino, il maiale (porco), il tacchino (vicc) e l’orso. A Putignano era proprio la festa dell’orso che apriva (ed apre ancora oggi) i festeggiamenti. L’orso simboleggiava il risveglio della natura, e il propiziarsi la stagione favorevole perché il 2 febbraio, l’orso prediceva (all’incontrario) il tempo buono se quel giorno il tempo era cattivo, e viceversa.

Dell’ “ultima festa” Sisto mette in luce non solo i riti più irriverenti, legati al divertimento, ai piaceri del corpo e alla gastronomia, ma anche il rovesciamento dei ruoli sociali, e lo scontro tra società laica e gerarchie ecclesiastiche che si opposero strenuamente, ma con scarsi risultati, allo spirito carnevalesco della società contadina.

Intriganti sono le osservazioni che Sisto fa sul modo in cui il Carnevale veniva osteggiato dalle autorità ecclesiastiche. Il Carnevale era un periodo  in cui le licenziosità erano all’ordine del giorno, per cui la Chiesa “ufficiale” sentiva il dovere di intervenire, emanando degli editti che proibivano certi comportamenti “lascivi”. E lo faceva in modo forte, proibendo ai chierici e alle suore di festeggiare il Carnevale.  Ne succedevano di tutti i colori, nei

Lu furone, ovvero quando un deposito di risparmio non costava nulla.

di Armando Polito

Periodicamente, come tutti, ricevo il rendiconto del mio conto corrente e, una volta fatto il controllo sui prelievi e sui depositi (per i primi non si sa mai…), l’ultimo sguardo è rivolto al tasso di interesse attivo (quello passivo non mi interessa, perché da sempre sono abituato a fare il passo più corto della gamba). Spero di leggere O, Ō ma so già che non avverrà mai. Esasperato, infatti, dalla presenza di cifre come O, O12… che tre mesi dopo erano diventate O, OO1 e dopo altri tre mesi O, OOO1…, mi son recato in banca per chiedere che l’irreversibile processo venisse abbreviato e si passasse direttamente a O, Ō. La risposta dell’impiegato ha squarciato il velo della mia ignoranza e ingenuità perché ora so che mai potrò aspirare allo O, Ō perché in tal caso non ci sarebbero ritenute e banche e stato (lo scrivo volontariamente con l’iniziale minuscola…) non potrebbero sfruttare quella che potremmo definire come legge dei grandi numeri se essa non fosse stata già teorizzata da Bernoulli; la nostra potrebbe essere così riassunta: anche un solo centesimo di euro moltiplicato per 100 milioni (di clienti) dà un miliardo (di euro). Mi rendo perfettamente conto che non vivo in un’isola deserta e che proprio per questo i bisogni e i relativi costi sono direttamente proporzionali al numero di persone o istituzioni con cui debbo inevitabilmente rapportarmi. Sono così vittima senza scampo di un ingranaggio i cui movimenti, nonostante populistiche dichiarazioni anche a livello governativo, restano poco, anzi, niente affatto trasparenti. Conclusione: con un tasso simile un conto corrente in cui stazionino stabilmente cinquantamila euro non riesce con gli interessi a coprire le spese di gestione, mentre la banca può disporre a suo piacimento di quella somma  e, in caso di bilancio non soddisfacente, licenziare il suo manager non con un calcio in culo e con la richiesta di risarcimento del danno ma con una buonuscita degna di un faraone1. Solo nei film c’è la possibilità di un ritorno al passato che nel nostro caso sarebbe rappresentato dal classico materasso o dal mattone (inteso come nascondiglio e non come investimento) per le grosse somme e dal salvadanaio (per gli spiccioli).

Intendo qui parlare proprio di quest’ultimo, con riferimento alle forme dialettali salentine più correnti e annegare, così, la rabbia della prima parte nella nostalgia e nella filologia. Nel dialetto neretino il furone è un contenitore di creta che all’origine aveva una forma grosso modo simile ad una pigna (le dimensioni potevano variare) e nella parte superiore una fessura orizzontale attraverso la quale venivano inserite le monete.

Col tempo l’oggetto ha assunto forme diverse (quello del porcellino, della paperella, della botte, etc. etc.; l’ultimo raffigurato, addirittura dà pure un riscontro sonoro ad ogni moneta inserita…) e, a conferma del suo ormai prevalente carattere di oggetto di arredamento, nel fondo è comparsa anche un’apertura coperta da un tappo di plastica che ne consente lo svuotamento senza romperlo. Può sembrare paradossale in un’epoca dell’usa e getta, ma ancor più paradossale, secondo me, è il fatto che quel tappo ha conservato il furone ma distrutto il momento quasi magico della sua rottura, momento rituale che coronava un periodo più o meno lungo di affettuoso uso dell’oggetto e che liberava e da quei cocci faceva librare la realizzazione di un sogno pazientemente cullato… senza tener conto dei risvolti educativi del contatto diretto e non, come oggi, virtuale col risparmio.

Dopo avere ammazzato la rabbia con la nostalgia tenterò di ammazzare ora quest’ultima con la filologia. Al lemma furone nel vocabolario del Rohlfs leggo: “latino furo,-onis=ladro?”. Il punto interrogativo la dice lunga sulla perplessità che questo etimo a suo tempo suscitò nell’illustre studioso che lo aveva ipotizzato. La mia nasce da queste considerazioni: è vero che nel latino (medioevale, anche se il Rohlfs non lo specifica) furo/furònis (al posto del classico fur/furis) significa ladro e che dunque furòne potrebbe derivare dall’accusativo furònem; ma, se sul piano strettamente fonetico tutto va alla perfezione, su quello semantico non si capisce come si possa conciliare l’idea del risparmio e della sua custodia con quella del furto.

Per tentare di dipanare la matassa ricorrerò allo studio dei sinonimi (dando così, fra l’altro, un quadro più o meno completo delle denominazioni che l’oggetto in questione assume) e delle varianti (reali o presunte, come vedremo) di furòne. Raggrupperò i dati in tre sezioni.

La prima che mi accingo ad esplorare  (rapidamente, perché, in fondo, è irrilevante ai fini del punto focale dell’indagine) comprende i sinonimi, che sono: carùse (Ostuni), e carusièddhu (Casarano) (per la somiglianza con una testa tosata; in napoletano caruso significa capo tosato di fresco e nel dialetto neretino, per traslato, giovane); cippu (Casarano, Lecce, Martano, Novoli, Ruffano, Squinzano) (qui la somiglianza col cippo/ceppo è più vaga), cucùddhu (Alessano) [dal latino cucùllu(m)=cappuccio]; puddhu (Carpignano, Castrignano dei Greci, Cursi, Gagliano, Lecce, Maglie, Montesano, Patù, Spongano, Specchia, Vitigliano) e pùggiu (Tricase) [dal latino pullu(m)=giovane animale, bambino, per la somiglianza con la testa di un bambino]. È evidente che tutte queste voci da un punto di vista fonetico non hanno nulla a che vedere con furòne.

Questa seconda sezione comprende quelle che sicuramente sono varianti di furòne. Questa voce oltre che a Nardò è usata pure ad Aradeo, Alezio, Collepasso, Galatone, Gallipoli, Martano, Seclì, Latiano, Mesagne, San Vito dei Normanni, Pulsano. Furòni è usato a Carovigno, Erchie, Manduria e Sava), firòni a Brindisi, Francavilla Fontana e Oria, firòne ancora a Galatone e a Grottaglie, feròne a Carosino, Ceglie Messapico e Ostuni, frone a Martina Franca e a Massafra, furùne a Parabita e Ugento, fiuròne a Casarano e Melissano.

La terza ed ultima sezione registra questi dati: trùfulu a Seclì (la stessa voce indica una specie di fiasco di creta ad Alessano, Casarano, Corigliano, Castro, Gallipoli, Muro Leccese, Parabita, Salve, Tricase, Ugento; un uomo basso e tozzo a Mesagne), trifùddhi (per il Rohlfs probabile diminutivo del precedente) a Soleto, Zollino, Aradeo, Cutrofiano, Galatina e Sogliano.  Trùfulu appare connesso con il siciliano cutrùfu=caraffa, il napoletano cutrùfo=specie di bottiglia, l’antico provenzale cotòfle=bottiglia, nonché col neretino cutrùbbu=oliera (in basso disegno tratto da Ninina Cuomo Di Caprio, Ceramica rustica tradizionale in Puglia, Congedo editore, 1982, pag. 221)

e, per traslato, spalle, da cui anche scutrubbàtu=con le spalle piegate. Tutti questi ultimi potrebbero essere dal latino tardo chýtropus/chytròpodis=scodellino con manico usato come crogiolo, che è dal grecχυτρόπους/χυτρόποδος (leggi chiutròpus/chiutròpodos)=pentola con i piedi, composto da χύτρα (leggi chiutra)=pentola+πούς/ποδός (leggi pus/podòs)=piede. Trùfulu potrebbe perciò essere deformazione del diminutivo con aferesi di cutrùfu (cutrùfulu>trùfulu) del nominativo chýtropus inteso come appartenente alla seconda declinazione e non alla terza; lo spostamento dell’accento potrebbe trovare giustificazione nel fatto che sarebbe nato prima cutrùbbu (da un intermedio *chytròppus) e da questo cutrùfu.

Furone potrebbe costituire l’ultimo passaggio di questo tartassato lemma, nel senso che potrebbe essere accrescitivo, con aferesi,  di trùfulu (trufulòne>fulòne>furòne). Meno probabile che il fiuròne della seconda sezione sia collegato con i pumi de’ fiùri, i boccioli di fiori stilizzati, originariamente in creta, poi anche in metallo, che ancora oggi adornano a Grottaglie le estremità di ringhiere di finestre, terrazzini e balconi, e che, quindi furòne sia deformazione di fiuròne (grosso fiore).

E la rabbia, con la probabile sconfitta della filologia, ritorna a celebrare il suo trionfo dopo che era stata momentaneamente placata dalla nostalgia. Grr!!!

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1 Qualcuno in tv ha asserito che gli alti emolumenti servono a distogliere il manager nostrano dalla lusinga delle eventuali offerte straniere. Io credo che di fronte ai risultati che sono sotto gli occhi di tutti all’estero siffatto manager nella migliore delle ipotesi rimedierebbe l’ergastolo, nella peggiore si troverebbe appeso a testa in giù…Solo in Italia gli incapaci o i disonesti sono tenuti in alta considerazione, in ogni campo, meno in quello reale dove, probabilmente, non sarebbero in grado neppure di maneggiare una zappa.

Brindisi. Un teatro antico o contemporaneo?

di Danny Vitale e Antonio Mingolla*

Dalle foto aeree risalenti alla costruzione del Collegio Navale “Nicolò Tommaseo”, prospiciente lo specchio d’acqua del seno di ponente del porto interno di Brindisi, si può notare una costruzione che in molti hanno definito essere un teatro. Il Gruppo Archeo Brindisi ha effettuato alcune ricerche raccogliendo testimonianze contrastanti. Pertanto non potendo affermare con certezza l’esistenza, nè tantomeno negarla, si limita a riportare una serie di dati senza prendere alcuna posizione in merito.

Il teatro durante la costruzione del Collegio Navale

L’8 settembre del 1934 Benito Mussolini con il primo colpo di piccone diede simbolicamente inizio ai lavori di costruzione del Collegio che si conclusero il 5 dicembre 1937, giorno dell’inaugurazione.

La costruzione fu progettata da Gaetano Minnucci, uno fra i più importanti architetti dello stile Razionalista italiano, corrente architettonica che, partendo dal Futurismo, si sviluppò negli anni venti e trenta del XX secolo.
Tanti invece sono i dubbi riguardo alle origini del vicino teatro.
Alcuni studiosi ritengono che i fascisti abbiano voluto realizzare un teatro secondo un modello romano, altri invece sostengono che possa invece risalire persino all’epoca romana.

Andando indietro nel tempo, in un’antica planimetria spagnola della città risalente al 1739, il luogo dove sorgeva il teatro veniva chiamato “Punta de la rena” (punta della “sabbia” oppure punta dell’arena?).
Probabilmente agli inizi del XIX secolo il teatro faceva parte di una villa già in parte diruta. In essa vi dimorò per qualche tempo il viaggiatore francese Antoine L. Castellan, come racconta lo stesso autore.

Verso la fine dell’800 fu costruita una bellissima villa in stile Eclettico di proprietà della nota e benestante famiglia Dionisi. Da alcuni documenti inerenti la costruzione della villa, non risulta alcuna esistenza del teatro ma, dalle foto aeree, si può notare il tipico richiamo della forma a semicerchio proprio dove sorgeva il teatro in questione.


Veduta aerea prima della costruzione del Collegio Navale (in rosso l’area a forma di semicerchio)

Durante il periodo fascista Villa Dionisi venne demolita per far spazio alla

Il lampasciòne in quattro puntate (1/4)

di Armando Polito

Caratteri generali e classificazione scientifica.

Questa pianta cresce spontaneamente in tutto il Mediterraneo, dalle pianure fino a   1500 m. di altitudine, negli incolti erbosi, nei pascoli e nei coltivi. Pur essendo presente in molte regioni italiane, la pratica della sua raccolta ed utilizzazione alimentare è diffusa soprattutto nell’Italia meridionale. In alcune regioni come Puglia e Calabria ne è stata avviata anche la coltivazione. Può raggiungere al massimo i 25 cm di altezza, le foglie sono basali, erette, di forma lineare e tendono ad afflosciarsi verso il basso; generalmente sono  circa  la metà  dello  scapo floreale.

Il bulbo (foto iniziale) simile ad una piccola cipolla, è tunicato, con colore rossastro, rosso vino; si trova ad una profondità media di 20 cm. e l’estrazione  richiede  gran  cura  poichè   non   sempre   si  colloca  perpendicolarmente rispetto alla parte epigea; per  chi  ha una  certa pratica  della sua   estrazione di  solito bastano due o  tre  colpi (due laterali e il terzo in testa) con l’attrezzo adatto, ma tutto dipende anche dalla morbidità del terreno, per cui si consiglia, a chi ne avesse voglia, di tentare dopo una pioggia piuttosto prolungata. La difficoltà di estrazione giustifica la sua quotazione piuttosto alta sul mercato dei buongustai. A tal proposito va

A Else Lasker-Schüler

di Sandro Montinaro

 

 

“[…] Sempre devo fare come vuole la tempesta,

Sono un mare senza riva.

Ma poiché tu cerchi le mie conchiglie,

Mi si illumina il cuore […]”.

 


(Else Lasker-Schüler, Solo te)

 

 

Il dipinto è un acquerello di Sandro Montinaro realizzato appositamente per questo brano.

A proposito di febbraio e del freddo

di Marcello Gaballo

Il popolo salentino ha personificato anche i mesi dell’anno e da molte generazioni si tramanda questo breve raccontino, nel quale Febbraio chiede una cortesia al fratello Marzo:

frate Marzu, frate Marzu

damme tò giurni

e bbiti a ‘sta ‘ecchia cce lli fazzu!

Ca ci li giurni mia

l’abbìa tutti

facìa cuajare

lu mieru intra ‘lli ‘utti.

(fratello Marzo, fratello Marzo/ prestami due giorni dei tuoi/ e vedrai cosa farò a questa vecchia./ Avessi tutti i miei giorni/ farei congelare il vino nelle botti).

Ma a questa considerazione bisogna aggiungere anche un proverbio, che si recita a Scorrano:

Lu tàccaru cchiù gruessu

àzzalu pi marzu

(la legna più grande riservala per marzo).

Ogni commento si può risparmiare, visto che le temperature di questi giorni  confermano la secolare esperienza in fatto di metereologia.

Ancora una conferma?

Ci fribbaru no fribbarèscia

marzu mmalepensa

(se febbraio non porta il suo freddo, marzo potrebbe pensar male riguardo la sua reputazione di mese più freddo dell’anno).

La lisca

 di Raffaella Verdesca

 

La spina dorsale dei pesci ha una geometria perfetta, di straordinaria simmetria. Ognuno dei suoi aculei, infatti, descrive un attraente disegno inserendosi ad angolo, insieme al gemello, lungo la struttura ossea portante. Quest’ultima è retta come dovrebbe essere il percorso della vita, ma le sue spine hanno inclinazione diversa e le si aggrappano ad arte, come le storie umane, pungenti e fragili. La lisca non ferisce se la si osserva da lontano, non graffia se la si prende con delicatezza, nel punto giusto. Sembra uno scheletro, ma è una traccia, il segno che la vita è passata da qui.

In questa ‘Lisca’ fatta di pagine c’è l’eco umano sciolto in brandelli colorati, uno diverso dall’altro.

Mi ritiro a riflettere e osservo che questo colore si accende o sbiadisce a seconda di quanta apertura ci sia verso il mondo e finalmente capisco

Avetrana e il tristissimo dramma di Sarah: ricordi e riflessioni

di Rocco Boccadamo

L’idea di riaprire la pagina del tema nasce dagli ennesimi sviluppi giudiziari, chissà se di carattere definitivo, di questi  giorni.

Nel fondo degli occhi e in seno all’immaginario d’un terrone ragazzo di ieri e, più in generale, nella semplice e schietta visione e suggestione della gente del Tacco, Avetrana è sempre apparsa alla stregua di sito lontano, méta misteriosa, posto estraneo e avulso rispetto alle naturali e familiari luci e ombre fra mattino, giorno e notte, allo stesso scorrere del calendario e delle stagioni.

Intanto, un paese fuori provincia, prima tappa, è vero, del confinante ambito territoriale tarantino e, però, distante un abisso, quasi un’eternità di spazio e di tempo, dall’ultimo avamposto leccese, ossia Nardò. Due centri, collegati sì, l’uno all’altro, dalla statale “Salentina”, ma separati da un nastro d’asfalto di ben trentadue chilometri.

In mezzo, fino agli anni cinquanta/sessanta, il latifondo disabitato e, soprattutto, la “macchia d’Avetrana”, estensione vegetativa del genere sotto bosco, fitta, una volta parzialmente inesplorata, non a caso eletta a nascondiglio e rifugio da parte di loschi interpreti del malaffare, rapine, aggressioni.

Solo in un secondo tempo, grazie alla riforma fondiaria, quelle plaghe hanno gradualmente preso a popolarsi, dapprima con case coloniche spuntate e disseminate sui singoli poderi della piccola proprietà contadina, poi attraverso un vero e proprio agglomerato paesano, Boncore.

Tuttavia, continuava a sembrare interminabile il percorso delle mitiche autovetture Fiat 1400, cariche di poveri “ppoppiti” (abitanti del Capo di Leuca) migranti verso il Metapontino, per lunghi periodi di duro lavoro nella coltivazione del tabacco.

Così, essenzialmente, si fissava ed era recepita l’identità di Avetrana.

A titolo di cornice,  in concomitanza con i primi tempi dell’impiego di chi scrive nel capoluogo ionico, un fortuito tassello di riferimento correlato: l’assunzione di un giovane collega di Soleto (Lecce), il cui fratello maggiore, qualche anno prima,  aveva, a sua volta, lasciato il paese natio, trasferendosi, guarda caso, ad Avetrana, per assumere l’incarico di direttore della locale banca.

E il giorno d’oggi, cos’è, come si pone Avetrana? Beh, pur con i cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni e tranne qualche saltuario intermezzo di discorsi, congetture, ipotesi e para progetti che vorrebbero la realizzazione, sul suo territorio, di una centrale nucleare, nella sostanza, lo scenario della località non si presenta granché rivoluzionato.

Come dire, “ permangono” tutti i trentadue chilometri di distanza sopra accennati, sebbene, ora, occorra decisamente meno tempo per coprirli.

Sennonché, purtroppo, fulmine a ciel sereno, nel pieno dell’ultima torrida estate, si è consumata la tragedia, la misera fine della quindicenne Sarah, evento che, a causa della bulimia e invasività dei moderni media, ha finito col fare di Avetrana un macabro palcoscenico di spettacolo e di coinvolgimento collettivo senza confini.

Laddove, clamore e commenti a parte, nella fattispecie,  esiste un unico, vero motivo per riflettere: la fine della ragazzina dal volto tenero è stata segnata in un degrado, anzi sconvolgimento, di relazioni addirittura familiari, dietro la molla del dualismo, di contrasti, della gelosia, al cospetto e/o prospettiva di un abbrivio affettivo, per la vittima, verosimilmente, appena sbocciato. Amaramente, nella veste di “esecutori”, sembrano in gioco alcune persone vicinissime, giovani e non, della piccola sventurata.

Una trama che, anche in situazioni di menti e cuori disincantati e disillusi, non può non portarsi dietro, obiettivamente, un alone di sgomento e iniettare flussi di sconforto e mestizia.

Si permetta, altro che mela di Elena, fra Menelao e Paride, qui, senza interi eserciti di caduti e immolati, ma, alla luce dei tanti, ormai quotidiani casi  di azioni ed eventi criminosi e spietati, si è di fronte ad una immane strage di valori e di civiltà. Bisogna ammetterlo con forza e soffrirne dentro.

Breve excursus storico sulla professione della Guida Turistica

Breve excursus storico sulla professione della Guida Turistica:

Cicerone, Sacerdote, Accompagnatore, Servitore di Piazza, Corriere, Mestiere Girovago

 

di Daniela Bacca*

Logo della Giornata Internazionale della Guida Turistica

La Guida Turistica è una delle professioni tra le più affascinanti ed antiche del Mondo. Per molto tempo venne conosciuta con il soprannome di Cicerone, il cui termine si diffuse in Europa nel Settecento, molto probabilmente per la comparazione tra l’eloquenza dell’oratore latino Marco Tullio Cicerone e la parlantina delle guide improvvisate locali che accompagnavano i visitatori nei siti archeologici di Roma, decantandone le meraviglie monumentali e storiche. Inoltre questo confronto pare che nasca in riferimento non solo per le abili attitudini e conoscenze che portarono Cicerone ad essere avvocato, filosofo, scrittore e politico, ma anche per alcuni passi delle sue opere in cui egli descrive con grande cura narrativa il suo viaggio in Grecia ed Asia Minore. Egli stesso, affermando che la storia è “vita della memoria”, ha incentivato a sentirci ed eredi del nostro patrimonio ed a tramandarlo alle presenti e future generazioni. A tal proposito, secondo un’ interpretazione positiva, il termine Cicerone indica una persona  “colta, sapiente ed in grado di raccontare vicende del passato ma anche tradizioni ed aspetti della cultura”.

icerone questore in Sicilia scopre la tomba del Grande Archimede, Tommaso De Vivo, in Storia del Regno delle due Sicilie, 1833

La nascita e la storia della “guida turistica” è nella genesi del viaggio. Nel mondo greco, ad esempio, quando si doveva visitare una città caratterizzata da importanti testimonianze artistiche ed architetture e da luoghi carichi di storia ed emblematiche vicende, ci si rivolgeva ai Sacerdoti che, più colti e preparati rispetto a molte atre persone, potevano narrare eventi, miti e significati di una località. Nel Medioevo, i tantissimi pellegrini che si incamminarono verso i santuari ed i luoghi di culto avevano con se accompagnatori locali in grado di far conoscere ai viaggiatori religiosi le giuste direzioni, siti specifici, itinerari spirituali, notizie ed eventi legati alla storia ed ai riti. La figura della guida turistica, per diverso tempo associata anche al ruolo dell’accompagnatore, fu prevista anticamente dal diritto mercantile e trovò una prima definizione giuridica nel XIV secolo; infatti, in occasione del Giubileo, la Santa Sede emanò un editto con il quale autorizzava alcune persone ad assistere ed accompagnare i pellegrini che giungevano a Roma.

Viaggiatori del Grand Tour in Carrozza, con il giovane avantcourier

Nel Seicento il marchese Vincenzo Giustiniani, pronto e generoso nel dispensare raccomandazioni e suggerimenti per aspiranti viaggiatori, li consigliava dicendo: “assoldate una guida se volete vedere tutto ciò che val pena di vedere”. Molto spesso, ad indicare i luoghi, i monumenti ed i

Spulisciàtu, ovvero il participio passato in funzione aggettivale più caro a Rosa di Nardò

 

di Armando Polito

Chi sia il personaggio (se non è riuscito a diventare, a livello locale, un cult, certamente è stato un must) nominato nel titolo credo sia superfluo dirlo, anche se della sua esistenza ho appreso qualche tempo fa grazie ai miei nipoti assidui frequentatori di Youtube. Basterà, perciò, che il curioso o chi ha voglia di approfondire digiti la stringa appropriata dopo essere entrato nel sito appena nominato.

Il mio interesse, come al solito, è prevalentemente filologico ed è tutto riservato a spulisciàtu (participio passato di spulisciàre), l’improperio di Rosina più pulito e, per fortuna, il più frequente, quasi un intercalare, rivolto all’indirizzo dei suoi disturbatori telefonici.

Il Rohlfs collega spulisciàre alla voce del Brindisino spuscinà, da lui evidentemente considerata variante, senza fornire né per l’una né per l’altra alcuna proposta etimologica. Secondo me spuscinà è da s– (dal latino

Sulla scia di Francesco. I beati minori del Salento

di fra Angelo de Padova

Beato Francesco da Durazzo. Conventuale. Albanese d’origine, pugliese per la lunga dimora nel convento di Oria. Celebre per virtù e prodigi singolari compiuti in vita e dopo morte; è venerato con culto pubblico di Beato, fu dichiarato compatrono della città di Oria.

Beato  Diego da Gallipoli. Nasce a Gallipoli e muore ad Ostuni il 20 settembre 1666. Era un fratello laico, ma per la sua bontà e semplicità, per lo spirito di preghiera e fedeltà alla Regola fu fatto superiore a Salice e a Copertino. Veniva chiamato “il pastorello” Molto stimato dal popolo. Aveva il dono della profezia e dei miracoli, dell’estasi Operò molti prodigi. Dopo tre anni, disseppellito, per dar posto ad un altro frate defunto, lo trovarono fresco come il giorno della sua morte.

Beato Lorenzo da Fellinemorto nel 1551. 13° Ministro provinciale degli Osservanti: teologo insigne, valente predicatore, osservantissimo della regolare osservanza. Alla sua morte il suo corpo fu rivestito ben nove volte per soddisfare la pietà dei fedeli che sempre ne tagliuzzavano l’abito.

Beato Ginepro di S. Fr.sco da Francavilla Fontana, di grande spirito di umiltà, pazienza ed amore verso Dio ed il prossimo. Morto il 6 novembre 1828.

Beato Francesco da Galatina, morto con fama di santità e di miracoli a Nasi in Sicilia il 21 settembre 1535.

Beato Ludovico da Galatina, illustre per lo spirito di povertà, per il dono della contemplazione. Padre e fondatore della Riforma nella Provincia di S. Nicolò di Puglia. L’11novembre del 1591.

Beato Geremia da Lecce, conventuale, illustre missionario d’Oriente, che insieme a Fra Giacomo Puy, esortò 600 fedeli di Arsud in Palestina a confessare coraggiosamente la fede, dandone egli l’esempio col subire il martirio. Morto l’11 gennaio del 1260.

Beato Matteo da Lecce, amico e compagno di apostolato di S. Bernardino da Siena, ammirevole per santità e dottrina. Muore il  13 dicembre 1442.

Beato Giuseppe Maria di S. Francesco Saverio da Martina Franca, celebre per lo spirito di pietà, di umiltà, per il grande amore verso Dio e il prossimo. Muore il 10 novembre 1768.

Beato Alfonso da Oria. Francescano, morto ottuagenario, nel 1479, “non sine sanctitatis opinione”, nel convento di Santa Maria di Mosteiro, nella diocesi di Tuy in Spagna, dove fu sepolto. La sua festa si celebra il 20 aprile

Beato Francesco delle Stimmate da S. Cesario. Celebre per le virtù della povertà, della carità e della pazienza. Visse a lungo a Napoli con S. Egidio da Taranto, il quale a quanti gli si raccomandavano, soleva rispondere: “andate da fr. Francesco, quello sì che è un santo”. Morto a Oria il 20 dicembre 1805.

Beato  Diego da Seclì. Accusato di essere causa della peste che decimava la popolazione di Lecce, si dice che ogni qual volta stava per essere linciato o fucilato, le guardie sentivano una voce misteriosa dire: non vi permettete di ammazzarlo. Frate di grande contemplazione ed estasi, si elevava fino a otto palmi da terra rimanendo sospeso per parecchio tempo. Si racconta che una volta fece tutta una scala volando; a volte per verificare se fosse una finzione, i frati lo pungevano con spilli ed altri arnesi  dappertutto e lui rimaneva immobile, senza avvertire nulla. Condusse vita poverissima e, questuando, accettava solo quanto era sufficiente per una giornata. Impostò rigorosamente la sua esistenza a questa regola. Morì a Gallipoli riverito e venerato da tutti nel 1687.

Beato Francesco da Seclì. Nel Necrologio della Serafica Provincia degli Osservanti di Nicolò di Puglia, al 14 luglio troviamo scritto: “Nel 1672 a Gallipoli, nel Convento san Francesco, passò a miglior vita il Beato Francesco da Seclì, dottissimo nella scienza teologica, contemplativo ed estatico, fu più volte visto sollevarsi dal suolo, specie durante la S. Messa e durante il devoto pellegrinaggio ai Luoghi Santi. Stimato ed amato dai Superiori e dai frati tutti, fu ministro provinciale, visitatore generale. Nacque nel 1585 da famiglia nobile, a 15 anni, vestì l’umile saio; scrisse alcuni trattati come: “I Paragoni Spirituali”, “Il Viaggio di Gerusalemme”, “La vita del Beato Giacomo da Bitetto”, “Gli opuscoli di San Francesco da Paola”, “La novena di Maria” e “Verrà l’Ordine dei Catenati”. Al parlare di Gesù Crocifisso si scioglieva in pianto e al pianto muoveva coloro che lo ascoltavano.

Beato Egidio da Taranto, celebre per lo spirito di carità, umiltà, per il dono dei miracoli e della profezia. Morto a Taranto il 27 settembre 1682.

Beato Egidio senior da Taranto

Beato Lando da Taranto. Illustre per la santità di vita e per i miracoli che compiva. Morto ad Andria il 14 agosto 1305.

Beato Pietro di S. Giuseppe da Taranto, di specchiate virtù francescane, rifulse, in modo particolare, nell’osservanza della povertà e nel grande zelo per la salute delle anime. Morto il  10 novembre 1768.

Beati Macario da Uggiano e Leone da Faggiano, conventuali., martirizzato ad Otranto il  14 agosto 1480.

Caddhina zupputa, furtuna non n’ha

Ciò che fa bene e ciò che fa male. Ad ogni modo, oggi, fortuna e sfortuna non hanno un posto fisso

 

di Rocco Boccadamo

Nonno G., notando a tavola che le figlie maritate tenevano gli occhi aperti affinché i bambini piccoli non assumessero taluni cibi o sostanze che, a loro avviso, potevano essere inadatti se non dannosi, era solito pronunciare la seguente frase, tanto lapidaria, quanto saggia e rassicurante: “Solo le pietre fanno male”.

Egli, in fondo, aveva ragione da vendere, ove si pensi che, a quell’epoca, più o meno la metà del ventesimo secolo e, quindi, con il cosiddetto boom economico e la modernità ancora lontani, l’alimentazione, fra cibi e bevande, in seno alle comunità contadine del Salento, era basata essenzialmente su: friselle di grano o di grano e orzo, legumi, patate, cavoli, cicorie, rape, zucchine, peperoni, melanzane, verdure spontanee di campagna, pomodori, insalata, pasta fatta in casa, latte per le creature e gli anziani di salute cagionevole, più, ogni tanto e in porzioni risicate, ricotta, formaggio, maiale taglio unico, gallina vecchia, coniglio. Per condimento, olio d’oliva, infine, per dissetarsi, acqua piovana raccolta nella cisterna domestica e qualche bicchiere di vino di palmento.

Com’è deducibile, nulla d’artificiale e/o manipolato, la chimica, la plastica e i detersivi, erano illustri sconosciuti; insomma, il vecchio nonno era sostanzialmente nel giusto a parlare a modo suo.

E oggi, che cosa succede? Purtroppo, si è ovunque circondati, assediati e insidiati da prodotti, sostanze, leccornie, intingoli, dolci, specialità, mirabilia, offerte e proposte, abitudini e mode, affatto, neanche per una briciola, salutari, talora, anzi, inopportuni e sventurati, che hanno letteralmente stravolto molti dei sani e tradizionali costumi e ridotto al lastrico gli equilibri esistenziali, nel senso del buon vivere.

Non occorre fatica per rendersi conto e prendere direttamente tatto della palude, delle sabbie mobili intorno a cui ci si muove e dove, spesso, si finisce con l’affondare e annullarsi.

Giusto d’oggi, 20 febbraio, l’ennesima chicca sul tema di siffatta realtà: allo stadio “Via del Mare” della città dello scrivente, si è giocato l’incontro calcistico “Lecce – Juventus”, ma, si pensi un po’, con fischio d’inizio alle 12.30.

In barba al titolo “innocente” del giornale “Aperitivo con la Juve”, è venuto spontaneo di riflettere sullo scombussolamento d’agenda per venti e più migliaia di spettatori, sul salto del rituale pasto della domenica a tavola con familiari, parenti e amici, pasto surrogato nella fattispecie, nella migliore delle ipotesi, da panini, snack, intingoli vari.

Ma, perché lo strano inizio della partita alla mezza? La risposta, purtroppo, è una sola: i potentissimi condottieri mercenari, diretti e indiretti, della réclame procedono implacabilmente alla stregua di bulldozer, senza guardare in faccia a niente e a nessuno, il loro obiettivo è di diffondere e tendere notte e giorno, ventiquattro ore su ventiquattro, in mezzo alla suggestione popolare, i tentacoli del richiamo, forza e variabile miranti a stimolare senza mezzi termini, né soverchio discernimento, i consumi, in pratica arrivando idealmente a mettere le mani nelle tasche, rovistandovi sino a quando i già poveri portafogli non saranno svuotati del tutto.

Un brutto, davvero brutto, intento, cui, altra negatività, corrisponde, in prevalenza, non già resistenza o rifiuto, bensì abboccamento e assuefazione.

Riandando un attimo alle belle e sane stagioni passate, nonno C., l’altro progenitore del ramo paterno, richiamava spesso l’attenzione e suscitava la curiosità dei nipotini con questo scioglilingua: “Caddhina zupputa, furtuna non n’ha” (italianizzando, “Una gallina zoppicante, non potrà aver fortuna”).

Il trucco insito in tale frase astrusa, specie se declamata rapidamente, consisteva nella confusione, talvolta, dell’aggettivo “zupputa” con l’aggettivo “futtuta”, dal significato, secondo vocabolario, di “non più illibata”.

In rapporto all’oggettiva morale del tempo, anche quest’ultima constatazione consequenziale, doveva considerarsi azzeccata e aderente rispetto alla realtà. Infatti, di solito, la naturale e tradizionale fortuna per le donne (non per le galline) consisteva nel trovare marito, sennonché, il presupposto e la condizione per arrivare, di quei tempi, al matrimonio, erano dati, giustappunto, dalla castità.

In fondo, esattamente, o quasi, si fa per dire, come succede oggi…

A quest’ultimo riguardo, rinvangando l’antico scioglilingua di nonno C., nulla di male c’è da adombrare nell’evoluzione dei costumi, giacché la fortuna o la sfortuna sono, sì, elementi del vivere, e però, vivaddio, non propriamente decisivi, a pro o contro gli umani destini.

Quando il Rohlfs sbagliò nel voltare e volò fuori pista… forse

di Armando Polito

Sono strasicuro che se il Maestro fosse vivo sarebbe il primo a non considerare irriverente il titolo di questo post, perché è una caratteristica di chi è veramente grande (e lui lo è) quella di apprezzare con spirito sportivo qualsiasi critica fondata… ammesso che la mia lo sia e che non sia io, invece, a scambiare lucciole per lanterne dopo averlo accusato di aver scambiato la svolta con il volo.

Il pomo (mi auguro che non mi vada di traverso…) della discordia è la voce neretina utulisciàre usata nel senso di rotolare; al lemma corrispondente lo studioso tedesco rinvia a ulutàre dove, dopo aver registrato per Ruffano la variante utulàre (di cui utulisciàre è forma frequentativa), mette in campo, per quanto riguarda l’etimo, il latino volitàre. Questa voce è attestata, addirittura, nel latino classico col significato di svolazzare qua e là; infatti essa è forma iterativa di volàre. Ora è abbastanza evidente come tra il concetto di rotolare e quello di svolazzare qua e là i punti di contatto siano abbastanza labili, per non dire inesistenti. Il verbo da mettere in campo non è volitàre ma volutàre, anche questo intensivo, ma di vòlvere=far girare; sicché ulutàre è figlio della trafila: volutàre>olutàre (aferesi di v-)>ulutàre; di quest’ultima voce , poi, è sviluppo, per metatesi –lut->-tul– la variante di Ruffano utulàre.

Non è da escludersi, fra l’altro, che quel volitàre invece di volutàre sia frutto di una citazione a memoria o, addirittura, di un errore di stampa.

A completare il quadro: per il neretino c’è il quasi omofono ulitàre usato nel senso di sporcarsi fisicamente ma anche moralmente a causa di cattive frequentazioni (statte attentu cu ci ti ulùti!=sta’ attento a chi frequenti!). È voce non presente nel vocabolario del Rohlfs. Per quanto riguarda la sua etimologia la prima tentazione è quella di  farlo derivare dal precedente volutàre1, ma ad un più attento esame, anche per la conservazione dell’originario vocalismo, mi appare più attendibile come padre il latino oletàre=sporcare, forma fattitiva di olère=aver odore, per cui si passa dal concetto di emettere odore, anzi puzza, a quello di far puzzare, cioè sporcare in senso letterale e metaforico).

Spero solo di non aver detto troppe zozzerie… e di non aver rimediato la figura del personaggio in vignetta.

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1 Anche perché certe frequentazioni hanno il loro momento saliente in volteggi di natura non propriamente ginnica…

Luigi Presicce: vincitore della seconda edizione del premio Talenti Emergenti

TALENTI EMERGENTI 2011

 

Luigi Presicce (Porto Cesareo, LE, 1976) è il vincitore della seconda edizione del premio Talenti Emergenti promosso e organizzato dal CCCS – Centro di Cultura Contemporanea Strozzina – Fondazione Palazzo Strozzi di Firenze.
L’artista riceverà il finanziamento della Fondazione Palazzo Strozzi per una monografia dedicata al suo lavoro, pubblicata da Silvana editoriale.
La sua opera, insieme a quelle degli altri 15 selezionati, verrà esposta nella mostra in programma alla Strozzina, dal 19 febbraio al 1° maggio.

La giuria internazionale composta da Achim Borchardt-Hume (Whitechapel Gallery, Londra), Barbara Gordon (Hirshhorn Museum, Smithsonian Institution, Washington D.C.) e Adam Szymczyk (direttore della Kunsthalle Basel) ha premiato Luigi Presicce trovando “la sua performance – così recita la motivazione – incantevole, enigmatica e che lascia un segno; con allusioni ai simboli dell’arte italiana e riferimenti ai rituali massonici e religiosi. L’impegno fisico delle performance insieme con la forza della presenza umana sono messi in primo piano; ma si percepisce qualcosa in più. S’incontrano, infatti, scenari che sembrano appropriarsi dell’intimità e dello stile delle miniature e dei quadri devozionali di santi e martiri. La presenza dell’artista, misteriosa e imponente, rafforza l’elemento contemporaneo, conservando però reminescenze storiche. Queste azioni all’interno delle performance ci rendono allo stesso tempo protagonisti e testimoni di riti che non possiamo decifrare del tutto e che collocano l’Arte nel campo di quel tipo di contemplazione prima riservata alle esperienze religiose“.

Luigi Presicce basa il suo lavoro sulla realizzazione di performance che uniscono teatralità e ritualità in un costante riferimento alla cultura e all’iconografia popolare e alla ricerca di una dimensione metafisica e irreale. Per Talenti Emergenti, Presicce ha presentato il video La benedizione dei pavoni, che documenta la performance, realizzata in occasione della celebrazione di S. Antonio Abate a Novoli (Lecce), in cui fonde insieme santità e magia. All’interno di una grande gabbia e alla presenza di due bambini, unici spettatori della performance, l’artista ha inscenato la sua apparizione a un gruppo di pavoni. L’artista è rimasto fermo in una posa ieratica, creando un immobile tableau vivant rotto solo dal movimento dei pavoni intorno alla sua figura. La presenza di alcuni oggetti liturgici rende la scena ricca di riferimenti e simbologie. La divisa massonica riporta l’attenzione a una dimensione esoterica, mentre alcuni elementi come la fiamma ricamata sul grembiule, la maschera cieca piramidale o la posizione della mano destra, rimandano all’azione della benedizione degli animali, nota iconografica distintiva del santo egiziano.

Talenti emergenti 2011: Luigi Presicce

Luigi Presicce
Nato a Porto Cesareo (LE) nel 1976, vive e lavora a Milano e Porto Cesareo.
Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Lecce, ma determinante è il percorso intrapreso autonomamente. Nel 2007 ha partecipato al Corso Superiore di Arti Visive (CSAV) della Fondazione Antonio Ratti di Como con l’artista americana Joan Jonas e nello stesso anno ha vinto il premio Epson per l’Arte. Nel 2008, nell’ambito di Artist in Residence, ha partecipato al workshop in Viafarini a Milano con l’artista americano Kim Jones. Sempre nel 2008 a Milano ha fondato (con Luca Francesconi e Valentina Suma), prima la rivista Brownmagazine e successivamente il Brown Project Space del quale attualmente cura la programmazione. Con Salvatore Baldi dal 2007 dirige un programma di residenza a Porto Cesareo (LE). E dal 2011 insieme a Giusy Checola si occupa di ArchiviAzioni, un archivio per l’arte contemporanea nel Salento. Nello stesso anno ha vinto il premio Talenti Emergenti 2011 indetto da Strozzina, centro per l’arte contemporanea a palazzo Strozzi, Firenze.

Il mago di Cefalù, 2009, performance per 2 spettatori, preparco di Fiumicello (Go)

Con Luigi Negro, Emilio Fantin, Giancarlo Norese e Cesare Pietroiusti ha

La cappella di S. Maria Alemanna di Ugento

  

la volta decorata della cripta del Crocifisso a Ugento

di Luciano Antonazzo

“Di questa antica cappella un tempo esistente in Ugento si è molto parlato in quanto, come chiaramente indica la sua intitolazione, strettamente legata ai Cavalieri Teutonici.

L’Ordine religioso-militare sorto in Terrasanta per assistere i pellegrini tedeschi si sviluppò rapidamente nel Mediterraneo, ottenendo privilegi ed immunità sia imperiali che papali.

In Puglia, dopo il 1223, i Teutonici ottennero in concessione l’Abbazia di S.Leonardo di Siponto con tutte le sue grance ed i ricchi possedimenti sparsi dentro e fuori la regione.

Per varie vicende storiche, verso la seconda metà del 1400, il ricchissimo monastero di Siponto, detto allora delle Matine o di Torre Alemanna, venne soppresso e tutti i suoi beni con relative entrate, sottratte ai Teutonici, furono affidati in commenda al cardinale di Parma.

Anche nel nostro feudo gli agostiniani dell’Abbazia di Siponto  possedevano dei beni, come attestato fin dal 1448 da alcuni resoconti del baliaggio teutonico in Puglia e come confermato da due documenti (del 1467 e del 1485) rintracciati da Primaldo Coco nell’Archivio di Stato di Napoli e pubblicati in un suo saggio.

cavaliere teutonico

Nel documento del primo settembre del 1467 Giovanni Grande di Francoforte, luogotenente e socio percettore di S.Leonardo, espose che l’Ordine dei Teutonici aveva nella città di Brindisi la chiesa di S. Maria degli Alemanni alla quale appartenevano beni siti “tam in civitatibus Brundusii, Neritoni, Licii, Hostuni, Galatuli, Casarani, Ogenti, Callipoli, quam in aliis locis provinciae Hidrunti”, aggiungendo subito dopo che (poiché mancava) era necessario nominare un percettore affinché i beni non patissero detrimento.

Ad un ventennio di distanza la gran parte dei possedimenti del Salento di pertinenza della chiesa di S. Maria degli Alemanni di Brindisi risulta affittata o concessa in enfiteusi, e anche quelli posti nel territorio di Ugento e feudi circostanti seguirono la stessa sorte, come attestarono il trenta luglio del 1485 il giudice ai contratti Santillo de Vito, di Bari, ed il notaio Paolo Serbo della stessa città.

La loro fede giurata riveste assoluta importanza poiché è esplicitamente affermata l’esistenza in Ugento della chiesa intitolata a S. Maria Alemanna e che erano di sua pertinenza tutti i beni dati in affitto a tale Angelo Spano.

Nel documento in oggetto sono esposti in questi termini i punti essenziali del contratto:

[…] In primis li dicti procuratori locano, affittano, et arrendano tocti li introiti de li dicti terre, cità  et lochi pertinenti alla ecclesia de S. maria Alemanna de la cità de Ogento, zoé dinari, censi, cera, frumenti, pertinenti alla dicta ecclesia che se ha beano da riscoterre per lo dicto Don Angelo ad soj spesi et fatiche per anni sei ad triennium […]; item che lo detto Angelo sia tenuto ad mantenere la ecclesia cum lampi accesi, cera messa, et omni settimana dirsi una messa; item che lo dicto Angelo sia tenuto a sue spese pagere le dicte oglio, cera, et altre cose, excepto in repqaratione eccl[esiae] et decimarum et che sia tenuto pagari ultra li tarii quindici, tarii tre allo episcopo et tarii uno allo cantorato; item che lo dicto Angelo rescota tutto quello che rescoteva prima”.

Furono quindi previste per lo Spano le sanzioni in caso di inadempienza e precisamente. “ad poenam unciorum I de carlenisi si dicto Angelus predicta non  adempliverit; non facta soluzione in dicto tempore sit excomunicatus”.

Si è cercato, finora invano per l’assoluta mancanza di documenti, di identificare l’antica chiesa o quantomeno di individuarne il sito, e pertanto ci si è dovuti limitare ad avanzare solo qualche ipotesi in proposito.

Così la presenza di ben tre raffigurazioni della Madonna (patrona dell’Ordine) e di scudi nero-crociati dipinti sulla volta della cripta del Crocifisso  ha fatto ipotizzare una sua possibile identificazione con quest’ultima o quantomeno una committenza dei suoi dipinti da parte dei Cavalieri Teutonici; ma oltre la presenza preponderante di scudi rosso-crociati che farebbero propendere per una commissione dei Templari, sembra escluderlo il riferimento che si fa , nel contratto di affitto citato, ad “eventuali” riparazioni della chiesa.

Allora la cripta era infatti tale di nome e di fatto, ovverossia una grotta scavata nel tufo, per cui non si vede quali interventi riparatori fossero immaginabili.

Solo oggi, grazie al rinvenimento di un documento, frutto di nostre assidue ricerche, è finalmente possibile indicare il sito e conoscere la struttura dell’antica chiesa eretta (forse) dai Teutonici in Ugento.

Si tratta di poche righe scritte nel 1628 in seguito ad una visita pastorale, e costituiscono l’unico, e pertanto preziosissimo, documento in cui si parla di questa nostra perduta chiesa.

Ne riportiamo testualmente la parte più significativa:

Ecclesia Santae Mariae della lamanni [sic]

Deinde visitavit Eccl.am Santae Mariae della lamanni quam est annexam ut habetur in visitazione Rd.mi Sebastiani Minturni Ecclesiae Santi Leonardi della Matina, quam possedetur per [ manca il nome del possessore] et est commendatam Abb. Thomas Dherle per R.dum Joseph Rubeis Episcupum Uxentinum sub die 5 mensis martii 1599. Ecclesia sita est in suburbio dictae civitatis in via qua ducit Taurisano, et est antiqua, circumcirca depicta variis imaginibus Santorum; habet tria altaria, unum intra chorum, et duo extra hortum; et altare in quo est titulus ipsius Eccl.ae fuit inventum decenter hornatum, caret tamen altari portatili, quod tempore celebrationibus apponitur. Prope ipsum altare ex latere dextro pendent lampa ardens, et ex eodem sepoltura ruditer (?) tecta. Tectum ecclesiae est tegolis testaceis […]; Imago Virginis est in pariete, antiqua, cum vultu magno, et pendent aliqua vota”.     

La breve descrizione della cappella continua con l’elenco degli oggetti d’arredo e dei pochi immobili posseduti, comprendenti “una casa terragna” adiacente. Si conclude il documento con la precisazione che il suo introito era di venti carlini  l’anno e che su quella gravava l’onere di una messa settimanale nell’altare di S. Maria Alemanna.

La cappella dei Cavalieri Teutonici si trovava dunque a poca distanza dalla cripta del Crocefisso, sulla antica strada, o meglio, sentiero che conduceva a Taurisano ed il cui tracciato, almeno per il tratto iniziale, non coincideva con l’attuale, ma si snodava alle spalle del santuario della Madonna della Luce.

Di questa chiesa fondata dai Cavalieri Teutonici non è rimasto alcun vestigio, nonostante dovesse essere stata un a chiesa importante, se non altro per l’esistenza di un “altare portatile” o mobile, espressione che sta ad indicare una “pietra sacra” piatta, consacrata dal vescovo e contenente reliquie, sulla quale è permesso celebrare la messa, anche fuori dalla chiesa, in virtù di un indulto della Santa Sede.

Una seconda ed ultima testimonianza della esistenza della chiesa di S. Maria Alemanna risale al 1688, anno nel quale, in data 22 ottobre, fu battezzato “justus Fortunatus cuius parentes ignorantur, repertus expositus in Ecc. S. Mariae della Manni extra suburbium huius civitatis”.

L’esposizione di un neonato nella cappella denota che a quella data la stessa era certamente frequentata e forse ancora officiata, anche se era ormai sconosciuta ai più la sua originaria e corretta intitolazione, oltre che la ragione della stessa.

(pubblicato su Il BARDO, anno XVI, N. 2, Dicembre 2006)

Spilu per tutti!

 

di Armando Polito

Non intendo fare concorrenza con l’aggiunta di una semplice s intensiva al motto che contraddistingue e compendia le promesse elettorali di Cetto La Qualunque; nè tantomeno fare il facile moralista dicendo chi è senza tangente posi la prima pietra.

Sfrutterò, invece, proprio il proverbio evangelico originale per ricordare quante volte siamo stati presi dalla voglia irrefrenabile di qualcosa, per lo più attinente al campo alimentare, e come questa voglia sia diventata direttamente proporzionale alla difficoltà di soddisfarla. Ho l’impressione, addirittura, che spesso viga su questa terra una sorta di legge del contrappasso, dal momento che, per esempio,  spesso un diabetico è ghiotto di dolci e un delicato di stomaco è un patito della frittura.

Tutto questo il nostro dialetto lo esprime con la voce spilu e, siccome l’appetito vien mangiando, oggi mi ha preso proprio la voglia di approfondirne l’etimo. Questa voce fa parte della schiera nutrita di quelle che sono in attesa da qualche decennio di un approfondimento da parte mia, che sono, poi, quelle per le quali il Rohlfs non avanza proposta etimologica o ne avanza una che mi convince solo parzialmente o non mi convince affatto.

Nel nostro caso addirittura è lui stesso con il punto interrogativo finale ad esprimere perplessità. Al lemma spilu, infatti, rinvia a sfilu, spiùlu; andando

Erna Fergusson, l’ideatrice della guide turistiche femminili

Albert Einstein nel Grand Canyon,1931, Collection, Museum of New Mexico – photo archives

di Daniela Bacca*

Nel mese in cui si celebra la “Giornata Internazione della Guida Turistica” il viaggio della memoria e della riconoscenza si incammina lungo i sentieri di  Erna Fergusson, donna animata da straordinaria intelligenza e sensibilità e la mia “antenata” collega che, con il suo impetuoso amore e talento per la storia e le storie, la cultura e le tradizioni, il turismo ed il viaggio, ideò nei primi anni del Novecento il modello professionale della guida turistica femminile. Erna incarna, con i suoi molteplici carismi caratteriali, attitudinali e professionali, la figura contemporanea della guida turistica, una chiamata vocazionale verso una professione che richiede un intimo dialogo con il territorio, la sensibilità di scoprirlo, conoscerlo ed apprezzarlo, la facoltà di saperlo raccontare profondamente, e l’amorevole ospitalità nei riguardi del turista nell’accompagnarlo verso lo stupore e la ricerca delle specificità e tipicità locali. Molti sono a sottolineare il suo aver “sintetizzato la fiera indipendenza e la pista sfolgorante della donna moderna del XX secolo”, inventando, soprattutto in quel momento storico, in cui erano limitate le scelte lavorative per la donna, una professione che avrebbe offerto indipendenza personale ed economica nella sfera del sociale, della cultura e del turismo.

Beautiful Swift Fox Erna Fergusson and the Modern Southwest, di Robert Gish

Erna Fergusson nacque ad Albuquerque il 10 gennaio 1888 da una ricca, conosciuta e distinta famiglia del New Mexico, trascorse i suoi anni formativi a Washington, si laureò in Pedagogia, conseguì il Master in Storia presso la Columbia University di New York, ed insegnò nelle scuole, per diversi anni, manifestando la sua predisposizione alla divulgazione ed alla comunicazione. Durante la sua vita tantissimi furono i suoi interessi e le sue occupazioni, che denotano un animo generoso, introspettivo, avventuroso ed intraprendente, e sebbene abbia viaggiato molto, ha mantenuto come residenza permanente la sua città natale, avvertendo il forte impegno ed amore per il proprio luogo d’origine. Durante la seconda guerra mondiale, Erna lavorò con la Croce Rossa, viaggiando nei villaggi più sconfinati e nelle città  e nelle zone rurali di tutto lo Stato del New Mexico, ed aiutando le famiglie dei soldati. Dopo che furono terminati i conflitti militari, scrisse, come reporter, diversi articoli su Albuquerque. La passione per la scrittura, legata soprattutto al racconto delle identità e delle culture dei siti in cui visse, verso i quali si sentiva legata da un profondo senso e sentimento d’appartenenza, fu una delle sue più intense occupazioni. In

Culacchi te papa Cajàzzu.2

Lu messone

di Alfredo Romano

‘Na fiata papa Cajàzzu, siccomu nde cumbinava tante te le soe, foe casticatu te lu Vescuvu cu bàscia ffazza lu prete a nn addhu paese. Acquai ca li cristiani, vitendu lu prete nou, ci cchiùi scia nne ddumanda quantu se facìa pacare cu ddica messa. Quandu se sparse la voce a llu paese ca se pijàva sulamente centu lire, mbece te le mille ca se pijàvanu l’addhi preti, mo’ ìi bitìre comu tutti fucìanu a ddha papa Cajàzzu cu ordinànu messe. Papa Cajàzzu te la matina ‘lla sera nu’ ffacìa addhu ca cu ssegna messe susu la liźètta, puru vinti-trenta lu stessu giurnu, e ppe’ ogni ordine se facìa tare le centu lire ‘nticipate.
Mo’ a ll’addhi preti ne uschiava lu culu, ca nišciùnu scia cchiùi a ddha iddhi cu ssègna messe. E sse ddumandàvanu cumu cazza[1] putìa fare papa Cajàzzu cu ddica tutte quiddhe messe.
Sicché li preti nu giurnu se rratunàra e šcira tutti te paru a ddha papa Cajàzzu. E nne ddumandàra: «Papa Cajàzzu, sapìmu ca vènanu tutti cqua ttie cu ssègnanu messe: ma se po’ ccapire cumu sangu faci poi cu ddici tutte quiste messe?»
«Na!,» tisse papa Cajàzzu «ca sta be proccupàti tantu? Ca ticu nu messone e bale pe’ ttutti.»

Gli Armeni in Italia

di Boghos Levon Zekiyan

Università di Venezia «Ca Foscari»

Cristo in Trono, dal Vangelo di Etchmiadzin

Le prime vestigia sicure di un’attendibile presenza di armeni nell’Italia medievale si riscontrano nell’Esarcato bizantino di Ravenna. Alcuni degli esarchi erano di origine armena, come il famoso patrizio Narsete (Nerses) l’Eunuco (541-568) e Isaccio (Sahak) (625-644). Di quest’ultimo si trova nella chiesa di San Vitale a Ravenna uno splendido monumento con sculture ed epigrafi che lo proclamano «gloria dell’Armenia». In un mosaico della stessa chiesa è forse lo stesso Narsete che si vede al fianco dell’imperatore Giustiniano. Inoltre si trovava a Ravenna, per la difesa della città, una milizia composta per la maggior parte di armeni, detta perciò «armena» o numerus Armeniorum. Per la stessa ragione anche il quartiere dove dimoravano i militari, la Classis, nella zona litorale della città, fu pure chiamato “Armenia”.

Questo nucleo di Ravenna può essere considerato giustamente come la prima colonia armena dell’Italia medievale. È da rilevare però che quegli armeni erano nel medesimo tempo cittadini bizantini, erano cioè bizantinoarmeni. Nello stesso periodo, oltre a quelli summenzionati, vengono ricordati pure altri nomi di capi armeni in Italia, sotto il comando dei quali combatterono anche numerose soldatesche armene.

Contemporaneamente a questi nuclei di militari e funzionari, non mancarono anche gli uomini di commercio che si sparsero lungo le coste settentrionali dell’Africa, per la Sicilia, fino in fondo all’Adriatico e a Ravenna.

dipinto di Francesco Maggiotto (1750-1805)

Secondo una tradizione, due reliquie di San Gregorio l’Illuminatore sono custodite in Italia: a Nardò le ossa di un braccio e a Napoli il cranio, trasferito qui da Nardò ai tempi di Ferdinando II d’Aragona, nel XV secolo. La tradizione locale, riportata anche da Baronio, afferma che le reliquie del Santo furono trasferite in Italia da monache e fedeli armeni, fuggiti dall’Oriente. Secondo Baronio, ciò dovrebbe essere accaduto ai tempi

Un busto di San Gregorio Armeno tra i tesori della cattedrale di Nardò

Nardò, Cattedrale, busto argenteo di san Gregorio Armeno

di Marcello Gaballo

Nel precedente post si è accennato al reliquiario a braccio con la reliquia di San Gregorio, copia di un precedente rubato negli anni ’80. Oggetto di maggiore venerazione, almeno in questi anni, è il busto del Santo, portato processionalmente la mattina del 20 febbraio tra le vie principali della città, subito dopo il pontificale del vescovo in Cattedrale, accompagnato dalle confraternite cittadini, le Autorità religiose e civili ed un seguito di fedeli che stanno riscoprendo il culto del santo.

Bisogna dare atto che il neo-costituito comitato cittadino si sta impegnando da qualche anno a incrementare la devozione al santo, con festeggiamenti che senz’altro il popolo gradisce e finanzia.

Nardò, 20 febbraio 2010, processione in onore del santo. Sodali delle confraternita del SS. Sacramento
Nardò, 20 febbraio 2010, processione in onore del santo. Sorelle delle confraternita del SS. Sacramento e confraternita delle Anime Sante del Purgatorio
Nardò, 20 febbraio 2010, processione in onore del santo. Sodali delle confraternita di San Giuseppe

L’inclemenza del tempo e le troppe feste cittadine oscurano il giusto tributo che dovrebbe rendersi al santo patrono, ma si spera in una crescente sensibilità per onorare al meglio una delle più antiche devozioni.

Mi piace in questa nota riproporre quanto già scrissi diversi anni fa nel libro sui Sanfelice a Nardò, visto che si continua ad avere incertezza sul prezioso busto settecentesco, spesso datato con incertezza.

Anche in questo caso la ricerca premiò e una serie di atti notarili, conservati nell’Archivio di Stato di Lecce, attestano che l’opera fu realizzata a Napoli nel 1717, come si evince anche dall’iscrizione posta sulla stessa.

A distanza di un anno il busto richiese un intervento di restauro e in un atto del notaio neritino Emanuele Bovino del 1718 si legge che il mastro argentiere Giovan Battista Ferreri di Roma era stato saldato dall’economo della cattedrale sac. Domenico Grumesi, per conto di Mons. Sanfelice:

Costituito personalmente avanti di noi in testimonio publico il Sig.re Gio: Batta Ferrieri della città di Roma, al p(rese)nte in questa Città di Nardò mastro Argentiere, il quale spontaneam(en)te e per ogni miglior via, avanti di noi dichiarò come hoggi p(rede)tto giorno esso Sig. Gio: Batta have presentato al Sig. D. Domenico Grumesi economo di questa mensa vescovile qui p(rese)nte una tratta pagabile ad esso da Mons(igno)re Il(ustrissi)mo R(everendissi)mo D. Antonio Sanfelice vescovo di questa Città sotto la data in Napoli li 15 del corrente mese di Giugno in somma di ducati quindici, come dalla suddetta tratta alla quale et havendo esso Sig. Gio: Batta richiesto detto Sig.re D. Dom(eni)co per la consegna e soddisfatione delli suddetti ducati quindici, e conoscendo il medesimo esser cosa giusta e volendo soddisfare la tratta suddetta che può hoggi p(rede)tto giorno esso Sig.re Gio: Batta presentialmente e di contanti avanti di noi numerati di moneta d’argento ricevè et hebbe detti ducati quindici dallo detto Sig.re D. Dom(eni)co p(rese)nte date et numerate di proprio denaro detto Il(ustrissi)mo e R(everendissi)mo Mons(ignor) Vescovo come disse, e sono a saldo, e complimento e fino al pagam(ento) della statua d’Argento del nostro Prò(tettore) S. Gregorio Armeno fatta fare nella Città di Napoli da detto Ill.mo R.mo Sig.re come disse, così d’Argento, metallo , oro, indoratura e manifattura e di qualsi’altra spesa vi fusse occorsa…

Nell’ atto dunque l’argentiere si dichiara soddisfatto della somma avuta, impegnandosi per il futuro di apportarvi ogni restauro, senza nulla pretendere, fatta eccezione per l’argento che gli sarebbe stato fornito per le necessarie riparazioni.

Essendo stato il busto realizzato a spese del Vescovo probabilmente egli ne restava anche proprietario, visto che con altro atto del medesimo notaio, ma del 20 febbraio 1722, il Sanfelice donò alla Cattedrale il nostro busto, il braccio d’ argento di S. Gregorio e quello, anch’ esso argenteo, col dito di S. Francesco di Sales.

Per amor di completezza occorre dire che tale donazione includeva altre suppellettili preziosissime, come alcuni “reliquiari d’ argento lavorati in Roma”, due “dossali o baldacchini”, un paliotto d’ argento, una cartagloria e la croce tempestata di smeraldi. Nella donazione infine si includevano duecento “stare di oglio, per farcene lo stucco della nostra Cattedrale, alla quale doniamo anche il cornicione di legno venuto da Napoli”.

Nardò, 20 febbraio 2010, processione in onore del santo. Don Gino Di Gesù porta in processione la reliquia del braccio

Una successiva e definitiva conferma di tanta generosità la conferma ancora un atto notarile che viene stilato alla morte del vescovo Antonio, quando, nel 1736, fu redatto l’inventario dei beni da esso lasciati  alla Chiesa neritina, conservati nell’episcopio e nella tesoreria della cattedrale.

Stralcio quanto già pubblicato a suo tempo in Antonio e Ferdinando Sanfelice. Il pastore e l’ architetto a Nardò nei primi del Settecento, a cura di M. Gaballo, B. Lacerenza, F. Rizzo, Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò e Gallipoli, Nuova Serie, Supplementi, Galatina 2003:

Die nona mensis Januarii 1736. Neriti.

E continuandosi il notamento et inventario sudetto con l’ assistenza de deputati e con l’ intervento de testimonii sottoscritti si procedè ad annotarsi et inventariarsi li beni riposti nell’ appartamento piccolo.

Prima camera: una porta con maschiatura e chiave e maschiatura di dentro.

Una carta con l’ effiggie di tutti i Pontefici con cornice d’ apeto.

Carte francesi sopra tela senza cornici n° 18 e sei paesini con cornici.

Un braccio d’ argento con la reliquia di S. Francesco di Sales calato in sacrestia consignato al Rev. Sig. Abb. D. Giuseppe Corbino Tesoriero.

Una statua di argento a mezzo busto di S. Gregorio Armeno protettore e […] vi manca un po’ di rame indorata, et à man sinistra vi manca un po’ di argento, con il piede indorato dentro una cassa, con l’ imprese di detto Ill.mo Sanfelice, e due vite di ferro per vitare la statua sopra detto piede; et una cassa con due maschiature e chiavi in dove stava riposta la detta statua e braccio, calate in sacrestia e consignate al detto Sig. Tesoriere.

E l’ inventario continua con l’ elencazione degli altri argenti conservati nella prima stanza:

Un paglietto di argento per l’ altare maggiore[1] con la sua cassa e maschiatura e chiave, sulla quale vi mancano ventidue vite piccole seu chiodetti et in […] vi manca un po’ di argento, calato in sacrestia e consignato al detto Sig. Tesoriero.

Un baldacchino di argento fatto dal medesimo per esporre il SS.mo con la sua veste, cui mancano 30 chiodetti.

Sei candilieri grandi di argento per l’ altare maggiore fatti dalla B.M. di detto Vescovo, calati in sacrestia e consignati al detto Sig. Tesoriero.

Due ciarroni di argento dal medesimo per fiori che si mettono su l’ orlo dell’ altare maggiore sù le teste de’ cherubini; in uno vi mancano tre chiodetti e nell’ altro quattro con le loro vesti; calati in sacrestia e consignati al detto Tesoriero.

Due reliquarii grandi di argento fatti dal medesimo, in uno de’ quali vi è l’ insigne reliquia delle fascie del S. Bambino, e nell’ altra de pallio […] et veste della Beata Vergine, sulli quali mancano due chiodetti d’ argento, calati in sacrestia e consignati al detto.

Sei altri reliquarii più piccoli di argento fatti dal medesimo, in uno de’ quali vi sono e reliquie di tutti SS. Apostoli; in un altro de Martiri; in un altro de Confessori; in un altro de Vergini; in un altro de Dottori della Chiesa e nell’ altro de Santi Abbati, in cinque de’ quali vi mancano alcuni pezzotti di argento nelli finimenti, quali si sono calati in sacrestia e consignati al detto Tesoriero.

Una pisside grande nuova di argento con la sua veste ricamata fatta dal medesimo, calata in sacrestia e consignata al detto Tesoriere.

Sei candilieri grandi inargentati per ogni giorno per il gradino dell’ altare maggiore e sei craste dell’ istessa maniera fatte dal medesimo, e sei fiori seu frasche di carta inargentata fatti dal medesimo, e calati in sacrestia e consignati al detto Tesoriere.

Sei fiori di seta di diversi colori, due grandi e quattro piccoli e due splendori argentati fatti dal medesimo, e calati in sacrestia e consignati al detto Tesoriere.

Nardò, 20 febbraio 2010, processione in onore del santo. Conclude la processione il busto del Santo portato “a spalla” da fedeli

[1] Si tratta del bellissimo paliotto argenteo del 1723, fatto realizzare a Napoli da Giovambattista D’ Aura, per l’ altare maggiore della Cattedrale di Nardò e che in circostanze recenti è stato esposto alla visione dei fedeli.

Giornata Internazionale della Guida Turistica

di Daniela Bacca

La Giornata Internazionale della Guida Turistica, giunta alla sua 21a edizione, è un evento promosso dalla Federazione Mondiale delle Guide Turistiche con lo scopo di far conoscere meglio al grande pubblico l’attività delle guide turistiche una professione che ha nell’arte e nella cultura i suoi principali punti di riferimento nonché per accrescere l’attenzione e la consapevolezza dell’importante ruolo svolto nel diffondere la corretta conoscenza del patrimonio culturale, storico, artistico, economico del territorio in cui operano.

Daniela Bacca, Guida Turistica, Socio dell’AGTRP sezione Provincia di Lecce

Quest’evento, organizzato e promosso dal 1990, dalla Federazione Mondiale delle Guide Turistiche (World Federation of Tourist Guide Associations – WFTGA), ricorda e promuove, quindi, l’attività delle guide turistiche, una professione affascinante, importantissima e determinante per la fruizione dei beni culturali e paesaggistici, la divulgazione delle identità e tipicità locali, lo sviluppo economico del territorio, la promozione del turismo, la divulgazione del patrimonio identitario, e l’accoglienza del viaggiatore.

L’antico “mestiere girovago” tra i più antichi e nobili del Mondo, che fu riconosciuto dal Regno d’Italia il 18 giugno 1931, richiede la consapevolezza, l’attitudine, le competenze e la responsabilità di prendere per mano il visitatore, assistendolo nella conoscenza diretta delle località e nell’esperienza del viaggio.

Per un giorno all’anno a titolo gratuito le circa 20 mila guide turistiche italiane mettono a disposizione le loro competenze e professionalità accompagnando i visitatori in itinerari per scoprire le identità e tipicità locali.

L’Associazione Guide Turistiche Regionali di Puglia sezione della Provincia

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