Si tratta di una voce dialettale di cui fino a poco tempo fa ignoravo l’esistenza. Debbo a mia moglie, che pure per motivi facilmente intuibili nutre nei confronti dell’etimologia un odio ancora più spinto di quello che normalmente proverebbe nei confronti di una mia amante, se oggi ne parlo, anche se mi pare di sentire più di uno dire: “La signora avrebbe fatto meglio a starsene zitta!”…
Nella circostanza non si è trattato di un gesto di collaborazione, perché l’atteggiamento con cui mi ha propinato il vocabolo qualche minuto prima uscito dalle labbra di una sua conoscente neritina era chiaramente di sfida. Ma non aveva fatto i conti col culo che, modestamente, mi ritrovo. Qualche secondo di riflessione e, mentre lei già pregustava la vittoria su di me divenuto ormai la trasfigurazione della sua acerrima nemica (altro che musa ispiratrice!, dico sempre che, se fossi stato un artista, la famiglia sarebbe sicuramente morta di fame…), l’etimologia era già sfornata: dal latino compellàre=rivolgere la parola, chiamare in senso ostile, rampognare, prendere di mira, accusare; compellàre è intensivo di compèllere=spingere, costringere, composto da cum=insieme e pèllere=spingere1. Messa alle strette dalla rapidità della risposta che, questo lei lo sa bene, non poteva essere frutto di un bluff estraneo al mio dna, la poveretta dovette pure
Biodiversità. Le cento cultivar di fico del Salento
La biodiversità a modo mio
Posso parlare di Biodiversità a modo mio? Non userò il compassato e puntuale piglio dello studioso, né quello pratico e poco suggestivo del tecnico pratico che ha l’urgenza di finire il lavoro, lo farò con le mie parole, quelle stesse parole che ti hanno accompagnato nelle avventure che ti ho scritto sino ad adesso e che tu impunemente hai potuto leggere.
Ho ascoltato tante spiegazioni sulla Biodiversità davvero dottissime, solo che hanno relegato la parola “Biodiversità” dietro alle cattedre delle aule universitarie o scolastiche e nei libri aperti sui banchi di scuola. Avete notato che non c’è una discussione su una chat di facebook che abbia per tema la biodiversità? Sapete che non c’è una discussione davanti alle scuole, tra gli studenti, che tratti di biodiversità? Ma la circostanza che da l’esatta dimensione del problema è che soprattutto non ne parlano “le donne”. Già, le donne! quelle che ancora utilizzano la narrazione di ogni giorno per raccontare le crisi matrimoniali e le piccole vittorie familiari che nessun giornale di gossip pubblica ma che grazie alla loro narrazione della realtà occupa interi pomeriggi al telefono o al bar davanti a una tazza di the con la
Caro Vittorio… Con quella tua sconfinata, ingenua e incredibile fiducia nell’essere umano
quando ho saputo della tua morte mi sono incazzato con te. Con quella tua sconfinata, ingenua e incredibile fiducia nell’essere umano.
Ho pensato che se avessi avuto una qualche arma, un qualche addestramento, ti saresti difeso, ce l’avresti fatta a non morire come l’agnello sacrificale di una Pasqua qualunque.
Ho pensato poi che non l’avresti fatto, che saresti andato incontro al destino con la medesima serenità con la quale hai sfidato le bombe a Gaza, con l’incedere dell’uomo forte che va a vivere sotto la follia delle tempeste di fuoco israeliane su un popolo tenuto nel più grande campo di concentramento che sia mai esistito.
Ora le tue cronache non le leggeremo più, non vedremo le sofferenze di una terra con gli occhi di chi odia tanto la guerra da non dar pace a chi la persegue.
Ci sono, caro Vittorio, degli omuncoli anche in questo paese, gente malvagia che sa solo vomitare fango e stamparlo su fogli puzzolenti di marciume, stampati con i soldi di potenti che si stanno imputridendo e fanno imputridire anche il nostro paese rendendolo la più grande discarica della terra. Leggendo quei giornali e le parole di queste miserabili pantegane appestate, ho dovuto rileggere il tuo libro per “restare umano”. Come ben sai io non sono d’accordo con te, non ho né la tua infinita pazienza né il tuo gigantesco coraggio. Io perdo la prima e tendo a trasformare in avventatezza il secondo facendomi trascinare nella bolgia.
E per restare umano ho riletto il pezzo “dell’amore sotto le bombe”. Tu scrivi alla fine:
“Voltaire invitava a rispettare qualsiasi opinione, io invito a smetterla di gettare i semi dell’odio che qui, innaffiati di sangue, alimentano il germe di un risentimento insanabile.” p. 98
Qui i semi dell’odio sono innaffiati con inchiostro velenoso, tu inviti a smetterla, io per parte mia lo farei ingoiare a chi lo sparpaglia.
Ti saluto Vittorio. Con Amicizia Sempre.
Due canzoni d’amore. Una del profondo nord, l’altra del Salento
Due canzoni d’amore. Una del profondo nord, l’altra del Salento. Due canti della tradizione. Chissà se servono per dire a qualcuno che ci sono linguaggi universali, adatti ad ogni latitudine. Chissà se possiamo urlare che i sentimenti appartengono all’uomo (unica razza quella umana), al di là dei dialetti, delle abitudini, degli usi. Chissà perché stasera mi è presa così.
Tre antichi detti pasquali e squillano le diverse campane etimologiche…
La prossima domenica è quella delle Palme e nella successiva (mangeremo) pane e carne.
Due ottonari che ad un’epoca di trionfante consumismo e peccaminoso spreco trasmettono il ricordo di tempi in cui il consumo della carne (e non solo per motivi religiosi..) era un fatto eccezionale e, comunque, riservato solo alle grandi, pochissime (allora…) occasioni.
CI HA CCAMBARATU1 SCAMBARA2, CA NARDÒ PARMISCIA3
Se hai mangiato carne interrompendo il digiuno quaresimale riprendilo, perché a Nardò si comincia a festeggiare la domenica delle Palme.
La struttura, pur prosastica, ha una sua musicalità dovuta alla figura etimologica (ccambaràtu/scàmbara) ed all’allitterazione di m e di r. Il detto rientra nelle manifestazioni del campanilismo più o meno sano di un tempo: si narra che una volta a Galatone gli abitanti festeggiavano per errore la Pasqua, mentre i neritini celebravano la festa delle Palme; accortisi dell’errore, i Galatonesi fecero passare un banditore che li invitava a riprendere il digiuno. Errore in buona fede (Galatone-Nardò 0-1) o furbizia alimentata dalla indisponibilità al sacrificio (per quanto moralmente discutibile, Galatone-Nardò 1-0)?
CI VUEI CU BBITI ‘N’ANNATA CURIOSA
NATALE SSUTTU E PASCA MUTTULOSA4…
E ALLORA SÌ LA MASSARA È PUMPOSA!
Se vuoi vedere un’annata strana:
Natale asciutto e Pasqua bagnata…
e allora sì la massaia è tutta pomposa!
È una terzina di endecasillabi a rima unica. L’annata strana (pioggia non in inverno ma in primavera) preludeva ad un raccolto abbondante che rendeva particolarmente orgogliosa del suo ruolo la massaia (che, invece, nelle annate infelici, era tutta abbacchiata). L’importanza della pioggia in quel periodo ai fini di un buon raccolto è ribadita dagli altri proverbi: Ale cchiù nn’acqua ti bbrile cca nnu carru cu totte li tire (Vale più una pioggia di aprile che un carro con tutto il tiro)5 e Marzu, chiuèi, chiuèi, ca la terra stae co’ chiuèi (Marzo, piovi, piovi, perché la terra è dura come chiodi).
I cambiamenti climatici hanno reso obsoleto quest’ultimo detto, così come il consumismo senza freni e il dilagante edonismo, che hanno cancellato dal loro vocabolario la parola sacrificio, hanno fatto con i primi due. Urge il “passaggio” inverso. E, allora, per quel che può valere, buona Pasqua!…nella pienezza del suo significato etimologico.
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1 Ccambaràre(=mangiare di grasso) è secondo il Rohlfs (I° volume, lemma cammeràre, pag. 98) dal “greco dialettale gamarìzo”, che, aggiungo io, potrebbe essere connesso con il classico gamelìa= banchetto nuziale; senonchè nel III° volume (pag. 906) alla voce cammeràre leggo:”L’etimo proposto, cioè il neogreco dialettale gamarìzo, appartiene ai dialetti di Creta e dell’Asia Minore, mentre la forma magarìzo ‘io mangio di grasso’ è di più larga diffusione; si confronti ancora il latino tardo camaràre ‘sporcare’. Nonostante il tempo che da qualche decennio gli dedico, di questo verbo latino (per giunta tardo, nemmeno medioevale!) non sono riuscito a trovare a tutt’oggi nessuna attestazione se non il camaràre (variante di cameràre) di Plinio (Nat. hist., X, 33) col significato inequivocabile di proteggere con qualcosa a forma di volta e che, in tutta evidenza, nulla ha a che fare col significato di sporcare.
2 Scambaràre è da ex privativo+il precedente ccambaràre.
3 Parmisciàre è audace formazione verbale con significazione temporale; l’omologo italiano, se esistesse, sarebbe palmeggiare. Ma come non ricordare il montaliano meriggiare pallido e assorto? Al di là, però, del carattere suggestivo delle evocazioni va detto che meriggiare è dal latino meridiàre come meriggio (mirìsciu in neritino) da merìdie(m)=mezzogiorno, a sua volta composto da mèdius=mezzo e dies=giorno. Risulta evidente che l’esito –iggiàre in meriggiare deriva proprio dall’intervento del sostantivo dies e non del suffisso latino –idiàre (dal greco –ìzein) che in italiano ha dato –eggiàre (favoleggiàre, saccheggiare, etc. etc.). Altrettanto chiaro è, invece, che l’-isciàre di parmisciàre è l’-idiàre latino di cui ho appena detto [tra gli innumerevoli altri esempi: scarfisciàre=cominciare a fermentare, da scarfàre=scaldare (da un latino *excalfàre a sua volta dal classico excalefàcere)+il suffisso incoativo –isciare].
4 Da muttùra=nebbia, rugiada; muttùra, a sua volta, è, secondo il Rohlfs, da mmuttàre=bagnare (voce usata non a Nardò ma a Lecce, Vernole e Squinzano), omologa dell’italiano imbottàre con cui condivide l’etimologia (da in+botte). Questa etimologia è ritenuta poco attendibile per motivi morfologici da F. Fanciullo, che propone, invece, una derivazione, insieme con il grico muntùra=rugiada, da una radice gallo-romanza *MUTT. La proposta del Rohlfs non mi appare debole dal punto di vista morfologico se si pensa a formazioni tipo calura, dal tema di calère=aver caldo, anche se l’idea della botte come contenitore di un liquido mi pare troppo esagerata rispetto alla nebbia o alla rugiada. Io metterei in campo umittàre (umettare in italiano) dal latino humectàre=inumidire, a sua volta da humère=essere umido; trafila: umittàre>*mittùra>muttùra.
5 Vedi anche il post Noterelle di metereologia salentina di Marcello Gaballo.
Sarà bene il caso di ricordare che la statua di San Francesco di Paola, che campeggia al centro della nostra bella piazza ruffanese, dedicata proprio a questo santo, compie 300 anni. Ebbene si. Come ci ricorda con solerzia Aldo de Bernart, quella statua venne costruita all’inizio del Settecento, per la precisione nel 1711, quando, giunta la venerazione di San Francesco di Paola nel Salento e anche a Ruffano, venne costruita la chiesetta intitolata al Santo , per volere dell’allora arciprete don Antonio d’Alessandro, nello stesso periodo in cui era anche in costruzione la Chiesa Madre intitolata alla Beata Maria Vergine. Aldo de Bernart, pochi anni fa, ha ricordato in un suo opuscoletto auto distribuito, la figura del Santo di Paola e la chiesetta in parola che, nell’Ottocento, divenne l’oratorio privato di Mons. Francesco D’Urso, Vescovo di Ugento dal 1825 al 1826. Questa chiesetta e la statua, opere di Valerio Margoleo, sono oggi di proprietà della famiglia Pizzolante- Leuzzi, ma versano purtroppo in uno stato di profonda incuria e richiederebbero un urgente restauro, come lo stesso de Bernart da più tempo denuncia. Anche perché la statua lapidea di San Francesco di Paola, come si può capire, ha per il nostro paese un valore devozionale e storico se è vero che a questa è stata intitolata la piazza, che alcuni ruffanesi ritengono superficialmente sia intitolata al più noto San Francesco D’Assisi. Trecento anni, dunque, per uno dei manufatti artistici che compongono il patrimonio culturale della nostra Ruffano e per una testimonianza importante della nostra storia.
La fava del Salento leccese produce anche la “Spurchia”
di Antonio Bruno
Le fave al tempo dei Greci
I greci chiamavano Cyamos il legume a noi noto come fava Vicia Faba L. Pitagora quando gliela offrivano rifiutava di mangiarla perché era certo che nei semi delle fave ci fossero le anime dei morti: quondam animae mortuorum sun in ea.
Una pianta molto rispettata dagli antichi perché ritenuta consacrata agli Dei: diis in sacro est.
Nel mondo antico non si mangiava la fava perché si era fatta la fama di essere la causa di un intorpidimento dei sensi e causa di insonnia: hebetare sensus existimata, et insonnia quoque facere.
E Plinio? Già! Che scriveva Plinio della fava? C’è una pianta con il nome cyamos, è una pianta d’Egitto acquatica, nota per una colocasia di grandi foglie, e nominata faba aegyptia, faba alexandrina sia da Plinio che da Dioscoride.
Le fave al tempo dei romani
I romani le mangiavano e abbiamo testimonianza di questo nelle ricette scritte da Apicio che prevedono l’uso di questo legume.
Ma è a Roma durante i festeggiamento della Dea Flora, che proteggeva la natura che in primavera germoglia che vere e proprie cascate di fave venivano riversate sulla folla che festeggiava per augurio.
Quando i festeggiamenti finivano la fava tornava ad essere considerata impura tanto che i sacerdoti del dio Giove non potevano toccarla e al Pontefice Massimo veniva fatto assoluto divieto di nominare questo legume
Statuaria processionale “da vestire”. L’Addolorata di Nardò
Nella basilica cattedrale di Nardò da oltre due secoli si venera una bellissima statua dell’Addolorata, conservata in un’artistica teca lignea a base esagonale, protetta da vetri. Nella parte sottostante, fino a qualche anno fa, era collocata anche la statua del Cristo morto, poi definitivamente sistemata in un’urna in vetro, come si può vedere nella prima cappella della navata destra.
Le celebrazioni della Vergine Addolorata, o Desolata, come più facilmente ricorda il popolo neritino, sono utile occasione per soffermarci sull’opera artistica, molto interessante e particolare, la cui costante devozione è ancora molto sentita.
E’ una delle più belle statue processionali esistenti in città e ancora oggi, come accaduto per secoli, viene portata “a spalla” dalle devote nella processione del venerdì santo, seguendo quella del Figlio morto.
La figura ricalca l’iconografia tradizionale. Lo sguardo affranto è rivolto al cielo e i lineamenti felicemente resi dallo scultore conferiscono all’opera una suggestiva espressività, assolutamente consona alla tragicità dell’evento, per il quale si giustificano anche il pallore cutaneo e la posizione delle mani, in asse con il capo sollevato sul quale poggia una corona argentea.
A grandezza naturale, con struttura a manichino ligneo, richiama molto la tipologia della statuaria “da vestire” settecentesca napoletana. In mancanza
1784. Un fatto di pirateria barbaresca sulla costa calabra raccontato da un gallipolino
Scrivere sui corsari Barbareschi, presenta ancora oggi notevole difficoltà, poiché mancano degli studi che tengano conto delle fonti turco-arabe. Nonostante ciò, esiste ormai una cospicua letteratura basata sulla documentazione “cristiana”, prodotta da numerosi storici occidentali[1].
La storia dei corsari, come anche della pirateria, è intimamente legata alla storia della navigazione, dell’esplorazione e della colonizzazione. Diversi fattori contribuirono a creare la pirateria nel Mediterraneo come la povertà, che spinge individui con pochi scrupoli a procurarsi i mezzi di sostentamento nel modo più semplice, cioè togliendoli a chi già li possiede. Si deve inoltre tener conto della particolare configurazione geografica del Mediterraneo, che determinava la superiorità dei trasporti marittimi rispetto a quelli terrestri, offrendo al contempo basi di appoggio e luoghi propizi agli agguati corsari, rappresentando lo scenario ideale per la pratica della pirateria. Infatti di questo tipo di pirateria furono protagonisti i Barbareschi, eredi dei corsari turchi, che nella prima metà del XVI secolo si insediarono nell’Africa settentrionale, soppiantando le dinastie regnanti, dando vita alle città-stato (Algeri, Tunisi, Tripoli), la cui attività primaria era costituita dall’esercizio della corsa.
Fin dal Medioevo le nostre coste esprimevano la loro naturale destinazione
C’è, nelle campagne del paesello, un’area agricola – fatta, al solito, di brandelli di terra rossa frammisti a piccole rocce affioranti – denominata “Munti”. Non già, in quanto si tratta di un contesto d’alture o rilievi, ma solo perché tale zona si pone a stregua di pianoro sulla sommità di una successione di piccole serre, come se ne trovano in molti tratti del Salento, degradanti, in pendio abbastanza ripido, verso le plaghe litoranee e, quindi, le scogliere irte e alte che delimitano proprio il punto d’incontro e di connubio fra Mare Adriatico e Mare Ionio.
Agri vetusti, testimoni d’altrettanto antiche, povere civiltà contadine, i “Munti”: una volta, verosimilmente, incardinati in un’unica proprietà, nei secoli e decenni più recenti, frazionati, invece, in minuscoli fondi, acquisiti – forse, sarebbe più giusto dire riscattati – da tanti nuclei familiari, attraverso l’impiego di miseri e preziosi risparmi, messi da parte, pian piano, nel corso di varie stagioni, grazie a pesanti e immani fatiche di braccia, gambe e spalle,
Massimiliano Manieri, scrittore e performer salentino
Massimiliano Manieri (1968) è scrittore e performer. Nella vita progettista di disegno industriale.
Inizia intorno ai primi anni 90 l’attività di nomade dicitore grazie a collaborazioni con progetti di letture itineranti come il Poet-Bar. Qui emerge la sua capacità di strutturare tonalmente il suo approccio al racconto, i suoi scritti cominciano ad essere raccolti in collane di racconti e testi poetici.
La sua curiosità nel contempo lo spinge verso altre forme d’approccio alle metafore poetiche che trovano posto nelle sue pagine inchiostrate. Nascono i primi tentativi di performance dove il gesto, il movimento (…o la totale immobilità) traducono l’idea ora compattata dell’artista.
Collaborazioni con associazioni culturali (Raggio Verde, C-Arte), laboratori teatrali (Fondo Verri), gallerie d’arte (A&A Arts Gallery, Grifone, Primo Piano LivinGallery, Ass. Bollenti Spiriti) danno possibilità alla personalità di Massimiliano di spaziare più apertamente tra i nuovi territori che lo stesso raggiunge nella sua corsa verso una idea più radicale di performance
Giulio Cesare Vanini e Francesco Paolo Raimondi, filosofi taurisanesi (terza parte)
… Vanini, monaco carmelitano col nome di fra’ Gabriele, fu uno studioso accanito che, per la costruzione del suo pensiero filosofico non ebbe altra possibilità che quella di confrontarsi con le idee del suo tempo, che altro non erano se non quelle della Scolastica tomistica e del neoplatonismo plasmato forzatamente sulla dottrina cristiana. Per cui, il suo libertinismo e il suo ateismo non sono il frutto di un’adesione aprioristica alla rinata concezione del mondo naturistica, ma l’inevitabile conclusione di un pensiero fondato sugli scritti di pensatori antichi «come Luciano, Diagora, Protagora, Cicerone, Diodoro Siculo [in altra parte del libro (v. p. 178) a questi aggiungerà anche Lucrezio, Epicuro e Pomponazzi] e gli epicurei e, tra i moderni, Cardano e Machiavelli» (v. p. 106).
Ecco dunque perché, il Raimondi giustamente scrive che «la filosofia vaniniana […] è una filosofia della crisi [del suo tempo] ed è l’espressione di quello sgretolamento degli schemi culturali e mentali consolidatisi nella tradizione che prepara o […] accompagna il radicarsi di uno spirito scientifico moderno. Di qui l’istanza di un’audacia che si spinga fino all’esposizione al pericolo di morte. È questo il senso in cui ricorre più volte nel Vanini l’idea di aver intrapreso una via che non ammette scampo («quid philosopho exoptabilius, quam in literis et pro literis mori?») [che cosa c’è di più desiderabile per il filosofo che morire nelle lettere e per le lettere] e da
Dialetto salentino. La vecchiaia, si sa, è una brutta bestia
La vecchiaia, si sa, è una brutta bestia, ma, mentre in passato il suo portatore, anche se non sano, godeva di un certo prestigio quale titolare di un patrimonio di esperienze che erano un valido punto di riferimento per le nuove generazioni, oggi il vecchio, per non dire l’anziano, è sostanzialmente un emarginato e la sua stessa pensione (messa da parte col suo stesso contributo) appare quasi una rendita parassitaria in un mondo in cui il lavoro non inteso come attività di sfruttamento per un bieco profitto da una parte e per la mera sopravvivenza dall’altra (riecco il comunista…!) è diventato una chimera. È come se il vecchio non esistesse, e il proliferare dei centri appositi è direttamente proporzionale a quel sublime processo di rimozione con allegato tacitamento della propria coscienza che spinge i premurosi familiari a scaricare l’ingombrante e incomodo essere in un posto dove, fra l’altro, troverà tanti amici (poveri disgraziati come lui…). Ogni tanto, poi, si scopre che si tratta solo di un lager, che, in virtù di un diritto che ormai in Italia, non certo per colpa dei magistrati (ririecco il comunista!), protegge solo i delinquenti, riaprirà poco dopo magari gestito non più da un serafico volto femminile ma da suo marito, amante, compagno (riririecco il comunista, ripeterà qualcuno, ma chiamatelo, mi riferisco al gestore del lager…, come volete, tanto sempre delinquente resta), novello kapò.
Sicché fa tanta tenerezza la triade di epiteti, costituenti il titolo di questo post, con cui veniva gratificato il vecchio (raramente il tono con cui le tre parole erano pronunziate, quasi un intercalare d’obbligo quando si parlava di persone di una certa età, naturalmente non appartenenti alla propria famiglia…, era cattivo e offensivo). Se ècchiu e interdèttu hanno la stessa etimologia delle voci italiane vecchio e interdetto, quale sarà l’origine di spitursùtu? Credo da s– intensiva (dal latino ex)+una forma verbale *pitursìre dall’osoleto bitòrzo (oggi soppiantato da bitòrzolo=piccola prominenza o sporgenza sul legno o altra superficie). E così la triade, dopo l’etichetta iniziale che contiene l’impietosa diagnosi (ècchiu), passerebbe ai sintomi più caratteristici dell’ultima età dell’uomo: la decadenza mentale nel suo effetto giuridico più pesante (interdèttu) e quella fisica (spitursùtu1).
E la lapidaria diagnosi è ancora più efficace se si considera il ricorrere in essa della figura retorica, molto antica, detta con parole greche ýsteronpròteron (alla lettera: dopoprima), consistente nell’inversione temporale di due situazioni al fine di una maggiore immediatezza espressiva, quasi una contrazione del tempo e dello spazio2.
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1La voce è assente nel vocabolario del Rohlfs che registra a Mesagne spitursàtu col significato di rotto, pieno di buchi (delle calze), senza indicazione etimologica. Tuttavia è evidente che spitursàtu è da s– privativo e spitùrzi=ghette, meno probabilmente per metatesi da spirtusàtu, a sua volta da s– (questa volta intensivo) e pirtùsu (corrispondente all’italiano pertugio). In ogni caso è assolutamente da escludersi che con spitursàtu abbia a che fare il nostro spitursùtu che per la desinenza suppone un’appartenenza alla terza coniugazione (come futtùtu da futtìre) e non alla prima, anche se semanticamente l’idea della rottura e dei buchi è in linea col secondo sintomo, quello che si riferisce alla decadenza fisica; ma è solo una delle tante coincidenze.
2 Se le figure retoriche sono un sintomo di raffinatezza espressiva non si deve, perciò, ritenere che esse siano esclusive della lingua letteraria, dal momento che si presentano tutt’altro che isolate anche nel dialetto: basta saperle trovare. Per quello neritino un altro esempio di ýsteronpròteron è stato esaminato nel post Apposta o appositamente? Meglio ppuntàtu rriputàtu! del 9 aprile u. s.
Galatina. Il sistema scolastico nell’Unità d’Italia
Nella ricorrenza per il 150.mo dalla proclamazione del Regno d’Italia (che storicamente è l’espressione più corretta, dato che l’Unità si completerà con l’annessione dei territori di Trentino, Alto Adige, Trieste ed Istria e poi Fiume), merita una breve trattazione la nascita e lo sviluppo del sistema scolastico a Galatina durante il periodo risorgimentale e post-unitario.
Da quanto sappiamo, prima dell’Unità l’istruzione era affidata storicamente, oltre alle parrocchie, agli enti ecclesiastici del tempo, come per esempio le Orsoline, la Compagnia di Gesù, i Barnabiti.
Fu Orazio Congedo senior, morto nel 1804, che nel 1801 istituì a Galatina due scuole, con una munifica donazione dal suo patrimonio personale: una di primella e primaseconda, l’altra di seconda e umanità (Congedo P., Gli Scolopi e Galatina, 2003, pag. 33). Con il regio assenso del 1804, la prima prese il nome di scuola del leggere e dello scrivere, mentre la seconda fu indicata come scuola dell’umanità.
Per la vita del sistema scolastico a Galatina fu determinante un ordine religioso già operante nel Salento (Campi Salentina, Brindisi, Manduria, Francavilla), ossia gli Scolopi, fondato da San Giuseppe Calasanzio, che istituì le Scuole Pie nel 1597, ottenendo successivamente il riconoscimento dei pontefici Clemente VIII e Paolo V. Agli inizi del XVIII secolo a Galatina si tentò di far arrivare gli Scolopi, tramite il Capitolo della Collegiata, ma non si approdò a nulla, perché non si trovarono quelle disponibilità finanziarie ad integrazione del lascito di mons. Adarzo de Santander (1673).
Un altro tentativo in favore delle scuole pubbliche a Galatina, fu rappresentato dal testamento del canonico della Collegiata, Ottavio Scalfo, morto nel 1759, lasciando i suoi beni per l’istituzione delle Scuole Pie. Dopo un lungo processo civile durato diversi anni, a causa dell’impugnazione del testamento Scalfo da parte degli eredi del fratello Giovanni, ossia i Galluccio, la R. Camera di S. Chiara di Napoli decise, nel 1776, che il lascito di Giovanni Scalfo non andasse ai Carmelitani bensì ai Galluccio, eredi legittimi, mentre con quello del canonico Ottavio fu istituito
La melanzana spinosa, ornamentale e commestibile ortaggio
La melanzana spinosa del Salento leccese Chayote (Sechium edule)
di Antonio Bruno
Il Chayote
Il Chayote è un ortaggio curioso della famiglia delle cucurbitacee la stessa delle zucche ed è molto popolare in tutto il Sudamerica. E’ una specie molto rustica e produttiva, molto ornamentale oltre che commestibile.
Tradizionalmente si fa crescere sui pergolati oppure si fa arrampicare sulle recinzioni. Nei climi adatti è perenne e ad ogni inizio stagione ricresce per poi sfiorire in autunno.
Marzo è il periodo ottimale per seminare le cucurbitacee e quindi questo periodo è adatto anche per il Sechium Edule. Il Sechium nel Salento leccese viene anche comunemente chiamato “melanzana spinosa” a causa delle
Scena di un pescatore malato di Alzhaimer e di uno scoglio scambiato per sirena
Brutta bestia la vecchiaia! E’ come una trappola, attira perfino le malattie.
Una delle più grottesche è quella del non ricordare, del non riuscire più a far bene niente.
Rimangono comunque un paio di cosette che un maschio vorrebbe sottrarre all’infame morbo dell’oblio e almeno una delle due, quando ormai gliene fosse dato il triste annuncio, sarebbe invece quella più vantata con gli amici. Per Agostino la classifica era di tutt’altra natura: il suo peschereccio, ciò di cui vantarsi al bar, al primo posto da vent’anni, mentre il sesso, quello di cui parlavano gli altri al bar, all’ultimo da almeno vent’anni.
Agostino era pescatore prima ancora di nascere e questo, nella sua famiglia di mugnai, aveva suscitato scompiglio e disappunto.
Ma il mare l’aveva ricompensato rendendo la sua tempra forte e la sua vita lunga.
Lo conoscevano tutti in paese e molti erano stati alle sue dipendenze nella pesca dei gamberi.
A strascico, le reti raccoglievano il derma del mare con tutto ciò che vi capitava in mezzo.
Nessuno si era mai chiesto se questo tipo di pesca danneggiasse tutto quello che viveva sotto le loro barche, un po’ per ignoranza, un po’ per sopravvivenza.
Agostino aveva messo sempre attenzione nel pescare perché il mare lo amava e lo credeva capace di rigenerarsi senza fatica, secondo un percorso naturale.
Il grave, per lui, stava invece nell’acqua che si mangiava le spiagge, nelle discariche che inghiottivano i gabbiani e nelle tempeste che masticavano le barche.
Ne aveva viste tempeste in vita sua! Ascensori d’acqua che cambiavano continuamente piano come impazziti, peggio delle imboscate degli scogli,
Apposta o appositamente? Meglio ppuntàtu rriputàtu!
Analizzerò questa volta un nesso dialettale che se considerato in termini di economia del linguaggio sembra aver perso già in partenza il confronto con entrambi i corrispondenti semantici italiani: due parole contro una sola, due participi passati contro un avverbio. Ma le cose stanno veramente così? In realtà la partita che sembrava volgere a favore delle voci italiane per 1 a 0 ritorna all’istante in equilibrio se si pensa che apposta nasce dalla fusione di a+posta e che appositamente, come tutti gli avverbi in –mente, presenta una prima parte verbale/aggettivale (nella fattispecie apposita) e una seconda che non è altro che l’ablativo del sostantivo latino mens/mentis, per cui si può ben dire che tutti gli avverbi in –mente in realtà nascono da un originario complemento di modo o maniera latino (nel nostro caso adpositamente=con l’intenzione ben posta). E siamo 1 a 1. La partita, però, è appena agli inizi e ppuntàturriputàtu sta per esibirsi nei suoi numeri migliori. Vuoi mettere, intanto, la pregnanza semantica di una preposizione+un sostantivo (apposta) o di un participio passato/aggettivo+un sostantivo (appositamente) con la potenza di fuoco di due participi (il nostro nesso) che solo apparentemente sono passati, dunque di significato passivo, dal momento che i due verbi (in italiano sarebbero appuntare e reputare) sono transitivi? È evidente, infatti che entrambi sottintendono l’ausiliare avere, sicché le forme in realtà sono attive e le complete sarebbero state avendo appuntato e avendo reputato. 2 a 1 e palla al centro!
Nel nesso dialettale è ravvisabile quella figura retorica detta con parole greche ýsteronpròteron (alla lettera: cosa successiva cosa precedente) consistente nel collocare nella sequenza temporale inversa due azioni allo
Aldo de Bernart ha dato recentemente alle stampe l’opuscoletto “La saga dei Grassi di Ruffano – Giuseppe Grassi- “, l’ennesimo, della sua pregevole collana “Memorabilia”, che ha preso le mosse, qualche anno fa, dalla voglia di de Bernart di far riscoprire ai propri concittadini personaggi e fatti minori della storia ruffanese. Questa volta la plaquette, sottotitolata “Scritture storiche in onore del dott. Mario Stefanò per il suo ottantesimo compleanno”, e come sempre stampata dalla Tipografia Inguscio e De Vitis, tratta di alcune figure storiche di medici della Ruffano dei secoli scorsi. In realtà, si tratta della riproposizione di “Note sull’arte medica in Ruffano tra Cinque e Settecento”, già pubblicata da De Bernart, ma stavolta col valore aggiunto della dedica ad un amico personale dello studioso, vale a dire Mario Stefanò, conosciuto e stimato medico in pensione di Ruffano, che compie il genetliaco e che, come de Bernart, è un profondo conoscitore della storia e delle tradizioni di Ruffano, il paese di Sant’Antonio e San Marco, di Antonio Bortone e Saverio Lillo, di Pietro Marti e Carmelo Arnisi.
Nella Ruffano della Madonna della Serra e di Torrepaduli col suo importante culto di San Rocco, Stefanò è nato e cresciuto e qui ha svolto, per molti anni di onorata carriera, la propria professione di medico condotto, sempre
Questa volta parto da lontano. Come tutti sanno esistono gli aggettivi sostantivati alcuni dei quali di larghissimo uso: è arrivato un freddo cane, mi ha preso il nervoso, etc. etc. È altrettanto noto che la funzione sostantivata scaturisce dal sottintendimento di un sostantivo che in origine accompagnava l’aggettivo. Nel caso, per esempio, di è arrivato un freddo cane non è che si allude all’arrivo di un volpino intirizzito, ma la frase completa sarebbe stata è arrivato un clima freddo, da cani.
Lo stesso è successo nel dialetto neretino a stèricu, che ha il suo corrispondente italiano nell’aggettivo isterico, che è dal latino hystèricu(m), a sua volta ysterocòs=relativo all’utero, da ystèra=utero, e questo, forse, dall’aggettivo femminile (usato in funzione sostantivata, oggi è il turno di questo fenomeno…) ystèra=posteriore, successivo.
Però, mentre isterico ha conservato la sua natura aggettivale, stèricu ha assunto un valore sostantivato, a definire uno stato di nervosismo (molto più blando di quello che in italiano designa l’isterismo) che si traduce in un senso di oppressione dal quale ci si libera con un riflesso ripetuto molto simile all’erutto, ma più prolungato, cavernoso e sofferto.
L’etimologia la dice lunga sul fatto che per lungo tempo l’isterismo è stato considerato tipico, se non esclusivo del gentil sesso. Oggi, in un’epoca in cui i suicidi per amore sono più frequenti fra gli uomini che fra le donne, la par condicio si è, giustamente, ristabilita, a dimostrazione ulteriore che certi fenomeni non sono legati al soma e al sesso ma alla psiche, dunque hanno una matrice culturale (non a caso Ernesto De Martino a suo tempo mise in relazione il tarantismo con l’isterismo). Suggerisco, però, alle femministe, per evitare anche che il patrimonio etimologico della voce in questione vada perduto, di esigere che, laddove il fenomeno si manifesta nel maschio, sia usato il termine prostatismo; e, giacché ci sono ne offro due al prezzo di uno: col prostatismo anche il maricidio (non c’è bisogno di scomodare nel primo componente marito, basta la radice del latino mas/maris) che soppianterà (era ora!) uxoricidio, che solo in senso estensivo indica l’uccisione del coniuge maschio.
C’è, però, una persona di mia conoscenza che, pur non di accettare tutto questo, è disponibile a rassegnarsi all’idea di un cambiamento piuttosto improbabile, e non solo per motivi anagrafici…
Guardate cosa gli è successo al risveglio dopo che la sera prima si era fatto da solo cinque chili di peperoni fritti.
* È il rumore tipico emesso da chi è affetto dallo stèricu.
** Gesù, sto diventando donna!
L’umanista tarantino Niccolò Tommaso D’Aquino e le sue Delizie
2 aprile 2011: sono passati 290 anni dalla morte del grande umanista Niccolò Tommaso D’Aquino. Quanti tarantini conoscono questa eccelsa personalità che ha dato lustro alla nostra Città? Certamente non tutti. La maggioranza sa solo che a lui è dedicata la strada principale del Borgo Nuovo della Città. Pochi conoscono la sua vita e le sue opere.
L’avvicinarsi del terzo anniversario della sua morte ha ridestato un interesse tra gli studiosi e i letterati locali che hanno organizzato un percorso celebrativo a lui dedicato, per esaltare il significativo messaggio che quest’uomo ci ha lasciato in eredità.
Con l’intento di conoscere questo personaggio e il suo legame con la storia locale propongo un contributo che delucidi momenti di vita quotidiana del letterato e aspetti letterari delle sue opere, tasselli importanti nell’attuale tessuto della nostra città bimare.
La sua vita….
Il 24 novembre 1665 nasceva nella città di Taranto Tommaso Niccolò d’Aquino, da Guido II e da Margherita Capitignani. D’indole buona, intelligenza vivace, desideroso di apprendere e di conoscere, studiò a Napoli presso il Collegio de’ Mansi, gestito dai padri Gesuiti. Nel clima partenopeo formò la sua cultura. Si interessò alle discipline di carattere matematico e scientifico e si appassionò a poeti, tra cui predilesse il grande Publio Virgilio Marone. Maestro di eloquenza fu il letterato Francesco Guarini dei duchi di Poggiardo, da cui apprese l’arte. Terminato il percorso umanistico, il giovane tarantino rimase a Napoli presso un suo parente, il principe Castiglione D’Aquino, coltivando le arti cavalleresche e le scienze legali. Frequentò i salotti culturali della città, lesse le opere del Pontano, del Marullo e del Sannazzaro. Tornò a Taranto e nel 1689 sposò la nobile Teresa Carducci.
In seguito alla morte del padre, spentosi nel 1698, ricoprì la carica di “primo cittadino” sino al 1705. Attento ai bisogni della gente comune, ne difese le istanze, mostrando vero amore e dedizione verso i più deboli e la sua terra. Sensibile alla crescita culturale della sua città, ospitò nella sua dimora, situata sul Pendio la Riccia nel borgo antico di Taranto, l’Accademia degli Audaci, affermatasi già da tempo nel territorio pugliese, e vari letterati del luogo.
Catald’Antonio Carducci nelle sue “Memorie di Tommaso N. D’Aquino” affermò che tutta la gioventù tarentina presso l’abitazione dell’illustre letterato si “teneva occupata negli studi della sua ricca biblioteca”. Su questo palazzo del XVI secolo oggi un’iscrizione, a testimonianza di ciò, reca queste parole:
“Tommaso Niccolò D’Aquino in questa casa nacque nel 1665 e morì nel 1721. Qui ospitò l’Accademia degli Audaci. Il Comune nel secondo centenario della morte”.
La sua fama e il suo prestigio crebbe. Lasciò Taranto e collaborò con varie Accademie d’Italia; ricoprì la carica di membro dell’Accademia dell’Arcadia di Roma e dell’Accademia dei Pigri in Bari.
Il Carducci, nella Vita del poeta tarantino, così scrive:
“Lungo sarebbe il qui mentovare altre accademie di Italia, le quali, secondo il costume di quei tempi, facevano a gara per averlo nelle di loro società”.
Addolorato per la perdita della madre, fu nuovamente provato dalla vita nel 1705 quando gli morì la moglie durante il parto. Seguirono anni lunghi intrisi di tristezza, sconforto, solitudine, a cui si aggiunsero controversie con il fratello Francesco Antonio, per motivi di interesse. Si risposò con Ippolita Tafuri, di origini leccese e vedova di Benedetto Saracino. Gli ultimi anni li trascorse nella sua villa a Levrano in compagnia dei suoi cari libri e di alcuni amici più vicini. Morì il 2 aprile 1721.
Il Carducci commentò quanto accaduto con una riflessione personale alquanto acuta, sostenendo che la prematura dipartita negò al poeta “la bella sorte di vivere sotto i felici tempi de’ Monarchi Borboni”, sì che egli “non potè testimoniare con la belle sua Musa quanto la nostra Città di Taranto sia felice e beata sotto de’ medesimi”; e pertanto si sentì in dovere di “soggiungnere queste poche righe in attestato dell’amore e fedeltà de’ Tarantini verso della Real Casa Borbone, sicuro che avrebbe molto più cantato il dotto Aquino, se questi Sovrani fossero stato argomento de’ versi suoi”.
Le sue spoglie furono custodite nella cappella di famiglia nella chiesa di Sant’Agostino nella città vecchia, oggi non più esistente. I suoi resti mortali, insieme a quelli della prima moglie Teresa, forse rimasero per un certo periodo sotto uno strato di rottami, insieme ad ossa di altri scheletri. Oggi sono conservati in un tempio, sempre nella chiesa di Sant’Agostino, costruito dal Comune di Taranto e voluto fermamente dal comitato cittadino per onorare la memoria del grande poeta.
Le sue opere…
Il D’Aquino non pubblicò mai le sue opere; i suoi manoscritti, secondo la testimonianza dell’umanista Cataldantonio Artenisio Carducci, andarono distrutti, ad eccezione delle “Delizie Tarantine”.
Il Carducci nelle Memorie (1) così ricorda: “Molto compose in prosa ed in verso, in latino ed in italiano, ma alieno dal comparire e dal far figura di autore, si compiaceva piuttosto di far comparire altri ne’ pulpiti e nelle cattedre e sentirgli lodare per i letterari suoi lavori che segretamente loro comunicava. Quindi è che vivendo nulla di suo pubblicò colle stampe, e nulla sarebbesi pubblicato se vedendo io andar miseramente a male tutti i di lui preziosi manoscritti, per incuria di coloro che più di tutti gli avrebbero dovuto conservare, non mi fossi risoluto a dar alla luce il di lui poema intitolato “Deliciae Tarentinae”, diviso in IV libri, che gli acquistò il titolo di principe degli epici latini del suo secolo presso que’ letterati, che dalla sua bocca l’intesero recitare. Compose forse altro poema sull’Arti Cavalleresche, come egli stesso nel fine di detto poema promette a’ lettori, ma di questo non abbiamo finora trovato vestigio. Con miglior ozio ho già promesso di separare altri suoi componimenti poetici latini da quelli del suo maestro per pubblicarli, e forse verranno alla luce altre di lui opere, in traccia delle quali da grantempo io vado “
Con probabilità compose quindi un altro poema sulle arti cavalleresche e un’ ecloga arcadica “Galesus piscator, Benacus Pastor”, recentemente scoperta da Carlo D’Alessio (2).
Datata intorno ai primi anni del Settecento, il D’Aquino celebra la propria assunzione nell’Arcadia a Roma. Galeso contrappone alla poesia pastorale di Benaco la poesia della pesca, già cantata nelle Delizie.
Le “Deliciae Tarentine” rispecchiano nella forma e nello spirito un poema virgiliano. Il testo, composto in esametri latini in quattro libri, fu tradotto e dato alle stampe nel 1771 da Cataldantonio Carducci. Corredato di una lunga introduzione biografica, di una versione in ottava rima e di un commento, fu pubblicato a Napoli dalla Stamperia Raimondiana e, oltre alla normale edizione, ce ne fu un’altra di lusso, custodita dalla Acclaviana, entrata in possesso per donazione da parte del concittadino Francesco Marturano. L’opera fu dedicata a D. Michele Imperiali, marchese di Oira (la salentina Oria), principe di Francavilla.
I versi declamano, decantano e ritraggono vivacemente le suggestive bellezze naturali di Taranto, descrivono pittoricamente i campi coltivati, il cielo quasi sempre dipinto di azzurro, l’ombroso Galeso, le attività dell’uomo, quali la pesca e la caccia, che coronano il paesaggio della città bimare. Sono ricordate e celebrate le figure degli uomini illustri dell’antica Taranto, fra le quali Archita.
Nel libro I, in brevi versi il cantore tarantino raffigura la gioia del pescatore che, tirate le reti con la sua preda, va a dissetarsi alla fonte prima di apparecchiare soddisfatto, dopo lunghe ore di attesa e stremato del suo navigare notturno, la sua umile mensa, e dei contadini che si rinfrescano alla fonte, luogo di incontro, di festa, di balli e di canti.
Il libro II è dedicato alla pesca e qui lo scrittore elenca i nomi degli animali marini che vivono nella fauna subacquea dello Jonio, i frutti di mare, canta la fecondità della marina tarentina. Vengono presi in esame le varie qualità di pesci e i vari modi di pescarli.
Il III libro è dedicato agli animali e quindi alla caccia. Così lui stesso recita:
“ Sinora ho celebrato gli artefici della pesca e delle varie specie dei pesci; ora celebrerò voi, o antri e luoghi silvestri delle fiere, e dirò quali lacci si tendano alla lepre, quali insidie i cacciatori portino nel bosco, dirò le astuzie di coloro che vanno a piedi e dei cani, quando per i grandi piani scorrono velocemente i cavalli, mentre i cavalieri li invitano e li spronano alla corsa”.
Nel IV libro il D’Aquino descrive il clima, esalta la freschezza e la salubrità dell’aria jonica, la bellezza dei campi e la genuinità dei suoi prodotti, l’incanto delle ville situate lungo il litorale.
La grande opera del nostro concittadino è rimasta a lungo nell’ombra. A causa forse della sua stesura in latino, fu studiata solo da pochi letterati e le traduzioni, riposte in biblioteche comunali e provinciali, furono oggetto di approfondimento solo di pochi e rari cultori del D’Aquino.
Manca comunque uno studio sull’opera, che evidenzi il suo preciso valore poetico, che ci dica dove il poeta ha saputo trasformare il mito o la natura in poesia. Parlare di pesci, di coltivazione di campi, di caccia, non è certamente un modo originale di fare poesia, ma lo stile sciolto e, allo stesso tempo, incisivo, ha introdotto nel linguaggio della tradizione classica un particolare lessico, spontaneo, attraente, colorito e pregevole.
E’ attraverso la natura e il mito che, comunque, traspare la vita interiore dell’opera, il suo ideale, una serena esistenza vissuta tra il profumo dei campi e la bellezza del mare. E’ in alcune descrizioni della natura che si evince il profondo sentimento del poeta, innamorato delle bellezze della sua città. Le origini mitologiche, la storia e la civiltà di un popolo vivono nelle pagine di questa grande opera, colorandosi di inchiostro.
Le Delizie, questo poema di fine Seicento, sottoposto ad una attenta analisi testuale, rispecchia l’influenza umanistica napoletana, che ben si allaccia al filone letterario che vede come maestro il grande Sannazzaro. Le note di quest’ultimo le ritroviamo in vaghe melodie malinconiche, in un sentimento labile di tutte le cose, nella convinzione che il fato travolge gli uomini, distrugge le città e fa crollare i grandi imperi.
Ed infatti nel Libro III (versi 587-588) il D’Aquino ancora una volta sottolinea il suo pensiero esprimendosi così:
“Una ora sola devasterà quanto con lunga arte fu costruito nei secoli, tanto è necessario obbedire ai comandi del fato”.
1) C. A. Carducci, Memorie di T. N. D’Aquino e note alle “Delizie Tarentine”, Napoli (1771),
pag LXIII
2) E. Paratore, Tommaso Niccolò D’Aquino, Manduria (1969), pp. 137
Bibliografia:
C. Acquaviva, Tarantinerie – Sguardi panoramico culturale dal Sommo Archita all’Accademia dei Terroni, in Corriere del Giorno, Taranto (26.08.1959);
E. Baffi, La Cappella del D’Aquino e le spoglie mortali del poeta delle “Delizie”, in “Voce del Popolo”, Taranto (14.01.1933);
G. Caramia, “Corriere del Giorno”, Taranto (17.10.1954);
C. A. Carducci, Memorie di T. N. D’Aquino e note alle “Delizie Tarentine”, Napoli (1771);
P. De Stefano, D’Aquino e Sannazzaro, in “Taranto Oggi”, (Ottobre 1960);
P. De Stefano, Il libro 1° delle “Deliciae Tarentinae” di T. N. D’Aquino, Taranto;
P. De Stefano, T. N. D’Aquino e le “Delizie”, in “Corriere del Giorno”, Taranto (25.03.1958);
P. De Stefano, Umanesimo napoletano di T. N. D’Aquino, Taranto, “Corriere del Giorno”, (10.01.1958);
De Vincentis, D. Ludovico, Storia di Taranto, vol IV – V, Taranto (1870);
E. Paratore, Tommaso Niccolò D’Aquino, Manduria (1969);
Villani, Scrittori ed artisti pugliesi, Trani (1904).
Cutrofiano/ Pasqua e i canti popolari salentini religiosi
L’associazione culturale musicale “CARDISANTI” in collaborazione con “CARPE DIEM” E “AMICI DEL KARAOKE” propone, Domenica 10 Aprile a Cutrofiano nel santuario delle opere Antoniane alle ore 20:00 il concerto “QUANTU PATIU NOSTRO SIGNORE”, una serie di canti popolari salentini religiosi non liturgici sui temi della Passione di Cristo, una delle più alte espressioni della poesia popolare in musica.
Nei tempi in cui la liturgia era in latino, i vecchi cantori hanno voluto partecipare ai riti religiosi con canti, alcuni dei quali in dialetto.
Questo lavoro nasce dal bisogno di far conoscere il senso religioso e i contenuti narrativi di questo antico momento di vita religiosa e sociale della comunità salentina.
Il concerto, eseguito con gli strumenti della tradizione salentina, ha una durata di circa 75 minuti e si articola nel seguente programma:
Accanto ai canti tradizionali più noti del ciclo pasquale salentino, “La Passione” e “Santu Lazzaru” sono riproposti dei motivi legati alla liturgia ufficiale, ma ormai non più eseguiti da molti anni. Se si pensa al profondo radicamento del ciclo liturgico della passione e resurrezione di Cristo, si può avere un’idea, sia pure approssimativa, della popolarità di cui godevano questi canti.
“Fedeli una preghiera” era il canto che accompagnava la processione del Venerdì santo o Processione dei misteri. Era eseguito dal coro delle “verginelle in nero” che seguivano il simulacro di Cristo, accompagnato naturalmente dalla “banda”. Composto di sole tre strofe con un linguaggio piuttosto semplice, ma molto toccante, che ben si fonde con la melodia. E’ sempre stato considerato un canto salentino e, secondo una tradizione da verificare, composto da persona del luogo.
Questo canto fu abbandonato probabilmente nel dopoguerra e sostituito con due più lunghi e articolati “Oh fieri flagelli” e “Gesù mio con dure funi”. La sostituzione non corrisponde solo a un’esigenza di ammodernamento, ma rappresenta una svolta nella pratica liturgica locale, più fedele ai dettami della curia rispetto al passato, con meno cedimenti alle tradizioni locali e all’iniziativa dei laici. Questo si nota soprattutto nella cerimonia che concludeva il ciclo, cioè la messa pasquale, che si celebrava la mattina del sabato e che comprendeva un momento molto spettacolare, e anche rischioso, che era il “volo del panno”, con l’apparizione quasi istantanea del Cristo risorto, nel diradarsi del fumo prodotto appositamente. Questa rappresentazione, sempre osteggiata dai parroci, fu motivo di forti tensioni con parte della popolazione che sfociarono in una protesta clamorosa, che comportò la chiusura temporanea della chiesa di Cutrofiano. Solo nel dopoguerra la tradizione fu abbandonata e la cerimonia spostata alla mezzanotte. Il problema non riguardò comunque la processione del Venerdì santo, che fu sempre seguitissima, sempre con il coro delle vergini in nero che eseguivano i due nuovi canti.
La Passione(i Passiuna tu cristu) è una composizione lunghissima in greco salentino, che racconta in forma molto dettagliata, i vari momenti della passione di Cristo. Al canto, eseguito a più voci, si accompagnava una complessa gestualità che rivelava il carattere di sacra rappresentazione dalle origini certamente antichissime. La nostra interpretazione utilizza una traduzione del testo in dialetto locale eseguita dal prof. Giovanni Leuzzi.
Anche il Santu Lazzaru ha tutti i caratteri della sacra rappresentazione, ma riporta solo alcuni episodi della vita di Cristo fino al tradimento di Giuda e alla cattura. Sembra più legato alla parte occidentale della penisola salentina, dove più precoce è stato il distacco dalla cultura e dalla lingua grika. La tonalità originaria, in minore, da alla composizione un tono piuttosto triste e drammatico.
Esiste una versione in maggiore tradizionale di Cutrofiano, noi eseguiremo il canto nelle due tonalità.
Piangi Maria rappresenta il racconto della passione di Cristo visto però attraverso gli occhi della madre, e questo gli conferisce un tono straziante. Sembra un canto composto in italiano e poi adattato al dialetto, con numerose varianti nei diversi paesi.
Nel programma abbiamo voluto inserire un canto del 1970 di Fabrizio De Andrè dal titolo tre madri pubblicato nell’album “la Buona Novella” il testo racconta le riflessioni e i sentimenti strettamente umani delle tre mamme che piangevano i rispettivi figli sotto le tre Croci.
Curriculum del gruppo Cardisanti
Siamo un’associazione musicale costituita da artisti e musicisti salentini con sede a Cutrofiano, paese della Grècia Salentina.
Da oltre dieci anni ci occupiamo di ricerca, studio e riproposizione in pubblico sia di canzoni e musiche divenute ormai dei classici della tradizione musical popolare salentina, sia di melodie quasi scomparse dalla scena, sia di brani inediti legati alla tradizione…
CARDISANTI è il nome dialettale salentino dei cardi campestri, infestanti, presenti da sempre nelle nostre campagne. Abbiamo deciso di chiamarci CARDISANTI perché metaforicamente ci identifichiamo in molte loro caratteristiche: pizzicano, sono difficili da estirpare a causa delle loro profonde radici pronte sempre a rigermogliare e hanno un particolare modo di riprodursi, conducono il proprio seme spinto dal vento tramite “l’angialeddhru” a germogliare nei posti più impensati…
Siamo nati sulla scia dei grandi vecchi cantori del nostro paese. Elementi del gruppo sono anche UCCIO CASARANO, cantore storico della tradizione musicale salentina, che con il suo organetto, insieme a Uccio Bandello scomparso undici anni fa, Uccio Aloisi, scomparso nello scorso ottobre, e Giovanni Vantaggiato era membro dello storico gruppo “gli Ucci” e LINA BANDELLO, figlia di Uccio Bandello, sicuramente il più grande cantore salentino, cui sono state dedicate varie edizioni della “Notte della taranta”. Alcuni antropologi hanno definito Lina l’unico autentico cantore vivente oggi nel Salento, avendo ereditato la passione per la musica dal padre, da cui ha imparato testi e melodie che continua a proporre in pubblico.
E’ uscito a fine 2910 il nostro primo cd ufficiale intitolato “PE’ L’AMORE TOU” nel quale oltre al meglio della musica tradizionale salentina sono contenuti anche cinque brani scritti da noi.
Numerosi video dei nostri concerti sono presenti su vari siti internet (couture, Salentovideo, ecc).
Simboli, solo simboli, eppure in nome di simboli gli umani si abbracciano o si scannano, celebrano momenti di festa o di dolore. Ciascuno per la sua ragione, il suo credo o la sua fede ha bisogno di simboli, labari, bandiere.
Tra i più diffusi vi è l’agnello, purezza sacrificale per eccellenza in moltissime aree antropizzate. L’agnello prese il posto di Isacco al tempo del Secondo Patto anche nella Bibbia e fu sacrificato non per il Creatore, e poi dovette sacrificarsi anche il suo agnello al tempo della Pasqua.
Se ne sacrificano ancora di agnelli, anzi si macellano, soprattutto in occasione delle feste comandate, ma si ricorre anche al simbolo dell’agnello che, sacrificandosi, dona il meglio di se stesso.
Lu “tuce te li signuri” così era chiamato nel XIX-esimo secolo. Per la sua preziosità e rarità, probabilmente poiché veniva preparato dalle suore del monastero Benedettino di San Giovanni Evangelista di Lecce. A Natale, in forma di Pesce, e a Pasqua in forma di Agnello.
La pasta di mandorle che lo costituisce è diventato un prodotto tutelato dalla Regione Puglia e noto in tutto il mondo. Non è una cosa semplicissima ma possiamo provare a farlo. Ci occorre intanto uno stampo con la forma di agnello e poi gli ingredienti.
Mandorle sbollentate e sbucciate, poi finemente tritate, e zucchero in egual misura vanno mescolati con poca acqua e messi su fuoco moderato e cotti
Galatina. Tre secoli di devozione alla Vergine Addolorata
I lavori di restauro dell’altare maggiore (1716) della chiesa dell’Addolorata di Galatina, iniziati lo scorso 10 gennaio ed eseguiti dalla ditta DEA XXI soc. coop. a r. l. di Lecce, assumono, quest’anno, un significato importante nella storia dell’Arciconfraternita “Beata Vergine Maria Dei Sette Dolori”, ivi presente, ricorrendo il terzo centenario dalla sua fondazione.
Dopo un terzo del lavoro di pulitura, si può già ammirare stupendamente quell’intreccio di oro e argento che lo arricchiscono, abbracciando tutte le statue in pietra dei santi protettori della confraternita e, in particolare, la nicchia dove è custodita la statua in legno policromo dell’Addolorata, conferendo all’insieme una maggiore luminosità. Per chi assiste assiduamente alle funzioni religiose, quell’altare offre a noi, e al visitatore di passaggio presso la chiesa, sempre nuove sorprese, come molte volte mons. Aldo Santoro ha sottolineato alla fine delle celebrazioni eucaristiche.
Oltre all’altare, stanno tornando all’antico splendore le tele della Via Matris, situate nelle apposite teche ovali della navata centrale. Oramai sono quattro quelle già restaurate, mentre altre due sono state consegnate per poterle, fra qualche mese, contemplare nel loro insieme.
Nel libro di Antonaci, La chiesa dell’Addolorata di Galatina (1967), è riportato che la confraternita “ha avuto origine dalla Congregazione ch’era situata nel Convento dei PP. Domenicani (chiesa del collegio, ndr) di questa Città sotto il titolo di S. Caterina di Siena e coll’abolimento dell’istessa colla occasione del nuovo fabrico della Chiesa di detti PP. accaduto verso la decadenza del secolo passato (XVII sec., ndr), i Fratelli di d° Oratorio di Siena, pensarono pietosamente dividersino perché molti, e stabilire due Oratori, o sia Congregazioni […] uno sotto il titolo della Vergine Addolorata, e l’altro sotto il titolo delle Anime del Purgatorio”.
Quindi, sul finire del XVII secolo, i confratelli usavano riunirsi in quei locali dove successivamente (1710) sorse la chiesa dell’Addolorata, mentre solo nel 1711 fu aggregata all’Ordine dei Servi di Maria, con bolla datata da Parma
Li Cursàri, un toponimo che potrebbe indurre a pensar male…
Le torri, quale in buona salute, quale meno, quale ridotta ad un rudere, visibili lungo le nostre coste sono la testimonianza dell’appetito che la nostre terre hanno sempre suscitato in genti straniere; solo che quelle fabbriche sono un indizio della paura nutrita contro un pericolo ben più grave della colonizzazione che questo lembo d’Italia ha conosciuto, pur tra vicende inevitabilmente sanguinose, per millenni; esse erano, com’è noto, il primario strumento di difesa (l’avvistamento) contro le scorrerie dei Turchi. E la torre, avente la stessa funzione, era il componente essenziale delle cosiddette masserie fortificate.
Spesso le parole pirata e corsaro vengono utilizzate come sinonimi, ma non è così. Il pirata è a tutti gli effetti un criminale che esercita la sua attività predatoria contro chiunque gli capiti a tiro; il corsaro è una sorta di predatore legalizzato, nel senso che può esercitare la sua attività col beneplacito, cioè la complicità e la connivenza (per gli interessati autorizzazione) di un governo nazionale solo a danno dei nemici, anche di sola fede.
Impropriamente, perciò, si parla di pirati barbareschi con riferimento agli incursori (nel nostro caso turchi) che nel XVI° secolo terrorizzarono le nostre coste: più correttamente si dovrebbe parlare di corsari barbareschi.
Come non pensare d’acchito a loro di fronte al toponimo Li Cursàri, indicante, oltre la zona, una masseria? Le cose, invece, come ben sanno gli addetti ai lavori, stanno diversamente e bisogna andare a ritroso nel tempo, precisamente un secolo prima.
La prima attestazione del toponimo risale al 20 luglio 14431:
…massariam unam, dictam de li Cursari…possidetur ad presens per supradictum Antonium Cursarum…(…una masseria detta dei Corsari … attualmente è in possesso del prima nominato2 Antonio Corsaro) …item clausorium unum, nominatum la Longa, iuxta clausorium dictum de li Cursari…(…parimenti un luogo recintato chiamato la Longa, presso il luogo recintato detto dei Corsari…)…usque ad locum qui vocatur Salparea et vadit per massariam Sancti Ysideri, inclusive, usque ad turrim Sancti Ysideri, que est fundata et constructa super territorio dicti pheudi, et deinde currit per viam que dicitur Carbasio, usque ad clausorium olivarum Carbasii, inclusive, et massariam Nicolai Cursari, que fuit Iohannis de Thoma de Neritono…(…fino al luogo che si chiama Sarparea e procede attraverso la masseria di Sant’Isidoro, comprendendola, fino alla torre di Sant’Isidoro che è costruita sul territorio di detto feudo3, e poi corre attraverso la via chiamata Carbasio, fino all’oliveto di Carbasio, comprendendolo, e alla masseria di Nicola Cursaro, che fu di Giovanni Toma di Nardò…).
Il secondo documento comprovante la persistenza di interessi della famiglia nella stessa zona è del 1500 [C. G. Centonze, A. De Lorenzis, N. Caputo, Visite pastorali in diocesi di Nardò (1452-1501), Congedo, Galatina, 1988, pag. 208]:
…et dicto limite curre per diricto verso lo ieroccho per la via per la quale se va da Nerito alla Spondorata, quale via e per la via de le olive de Munti di sanbiasi nominato Curano et al presente lo possede Filippo de Castello et de lo dicto lemitune de ierocco, ad ponente colla cum le terre de Sancto Luigi de li Filieri nominato la Perrusa et curreno fim ad Monte Milo et de Monte Milo curreno fino alle chesure de Cola Cursaro, al presente le possede Beatrice Cursara, et de lo cantene de dicte chesure curreno de la via chi vene de santo isidero ad Nerito…
Insomma, l’onomastico ha dato vita al toponimo (in linea con altri appartenenti a masserie) e, una volta tanto, gli avventurieri, con o senza coperture, non hanno nessuna colpa…
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1 Angela Frascadore, Le pergamene del monastero di S. Chiara di Nardò(1292-1508), Società di storia patria per la Puglia, Bari, 1981 pgg. 117, 118, 120 e 121, passim.
2 Come proprietario della masseria Fortucchi.
3 Si tratta del feudo di Ignano citato in una parte precedente a quella del documento riportata.
Una trascurata, bella e santa figura, è il BEATO GIULIO che appartiene tra i tanti servi di Dio che aspettano la glorificazione in terra, come quella che già godono in cielo. Tanto ignoto, trascurato e quasi sconosciuto nella sua ingrata terra natia, quanto noto, venerato e visitato da milioni di pellegrini che nei secoli si sono recati a rendergli rispettoso omaggio.
Infatti non vi è pellegrino che dopo la doverosa visita alla Madonna del Santuario di Montevergine, in provincia di Avellino, non sia passato a rendere un breve omaggio a questo umile figlio che riposa in pace nella stessa chiesa in cui era vissuto.
Del frate si conosce ben poco. Per nostra fortuna, Antonio Borrelli, un bravo ricercatore, per conto della padovana libreriadelsanto, ha rimediato con una interessante biografia.
Nacque a Nardò nel secolo XVI, da nobile famiglia (sarà forse discendente della neretina famiglia Giulio tutt’ora esistente e di antiche e nobili origini?) la quale secondo le consuetudini del casato, lo fece educare nelle lettere, nelle scienze e soprattutto nella musica, disciplina a cui il giovane era particolarmente inclinato.
Giulio fin dalla più giovane età si raccolse nella preghiera e nella meditazione. Animato da grande attenzione per i bisognosi distribuì loro i suoi beni e lasciò la casa paterna, indossando l’indispensabile, quindi si avviò verso la lontana Campania, per trovare un posto adatto al suo
Li Càfari: un’etimologia apparentemente complicata
Siamo alle prese con un altro toponimo neretino. Preliminarmente diremo che quelli riferentisi al territorio extraurbano (o ex extraurbano) in alcuni casi (la maggior parte) sono legati al nome del proprietario, in altri a dettar legge è la specie vegetale più diffusa e in altri ancora una caratteristica fisica del territorio.
I documenti più antichi su quello oggi in esame sono piuttosto scarni e non contengono indicazioni utili a collegare oltre ogni ragionevole dubbio l’attuale territorio con quello oggetto del passato possesso1. Un BartholomeusCafarus compare come testimone in un atto del 12 maggio 13632; PetrusCafarus compare come già deceduto in un atto del 31 dicembre 14273; ancora più lapidarie (compaiono solo come testimoni) le presenze di IohannesCafarus in un atto del 19 febbraio 14034 e di IoannesCafarus in un atto del 1 febbraio 15185 col titolo di artiumet medicine doctor, mentre AntonellusCaffarus nel 1500 risulta proprietario di una casa nel vicinio della chiesa di S. Barbara nel pittaggio di San Paolo6 e IohannesCafarus compare come testimone in un atto del 23 maggio 15007.
Prezioso, invece, perché fa riferimento alla fabbrica e, comunque, con riferimenti topografici inequivocabili coincidenti con l’attuale ubicazione, è un atto del 15818 in cui i figli di Bartolomeo Cafaro vendono la masseria per 220 ducati al barone Francesco Antonio Carignani. Essa consiste in sei curti, una casa lamiata, terre fattizze e macchiose et uno paro altro de curti et una chesurella vicino S.to Stefano cum servitute carolenorum octo, dui cisterne alli Larghi di Carignano et aliis membris suis, iuxta bona beneficialia ecclesie S.ti Stefani, iuxta terras dotales Jacobi Ingusci, iuxta terras dotales Jo: Antonii Nicolai de lo Abbate, iuxta olivas Ven.li monasterii S. Clarae, iuxta maxariam nuncupatam delli Nucci et alios.
Quanto fin qui detto consente di datare il fabbricato nella sua conformazione più antica che si conosca almeno alla metà del secolo XVI°, di collegare il toponimo al nome del proprietario e di escludere, di conseguenza, che esso abbia un’origine legata alla presenza significativa (fra l’altro non è detto che essa continui ai nostri tempi) di un’essenza. Avrebbe potuto indurlo a pensare il nesso tumucàfaru usato a Muro Leccese per designare una specie di timo nano9; quanto alla sua etimologia (il Rohlfs non si pronuncia) tra mille dubbi (e forse suggestionati dal calabrese càfaru=friabile) penseremmo ad un adattamento latino del greco karfalèos10=arido; e questo, a complicare la situazione, avrebbe messo in ballo pure la terza possibilità teorica (caratteristica fisica del territorio).
Ma, come abbiamo visto, conta la parola, anzi lo scritto del notaio…
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1 In rete si legge che l’attuale masseria, trasformata in struttura ricettiva (foto di testa), risale al XVIII° secolo.
2 Angela Frascadore, Le pergamene del monastero di S. Chiara di Nardò(1292-1508), Società di storia patria per la Puglia, Bari, 1981 pg. 32.
3 Angela Frascadore, op. cit., pg. 83: …iuxtavin(eam) heredumdomini Petri Cafari (presso la vigna degli eredi di don Pietro Cafaro).
4 Angela Frascadore, op. cit. pag. 77.
5 Angela Frascadore, op. cit. pag. 176.
6 C. G. Centonze, A. De Lorenzis, N. Caputo, Visite pastorali in diocesi di Nardò (1452-1501), Congedo, Galatina, 1988, pag. 174: …intus dicta civitate Neritoni…in dicto loco in vicinio ecclesie Sancte Barbare…est domus una…iuxta domum donni Antonelli Caffari…(nella detta città di Nardò nel luogo già detto [pittagio di San Paolo] nel vicinio della chiesa di S. Barbara…c’è una casa…presso la casa di don Antonello Caffaro).
7 Michela Pastore, Le pergamene della Curia e del Capitolo di Nardò, Centro di studi salentini, Lecce, 1984, pag. 88.
8 ASL, Atti del notaio Cornelio Tollemeto di Nardò, 66/2 1581, cc. 164-166v.
9 Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976, v.III, pag. 902. Cafari era una contrada, oggi quartiere, di Cutrofiano.
10 Probabile trafila: karfàleos>càrfalus>càfalus[(la caduta di –r– può essere stata indotta dalla successiva liquida (-l-)]>càfaru.
di Antonio Bruno I consumi di pere si mantengono su livelli bassi: nella Ue a 27 risultano inferiori ai 6 chilogrammi annui pro capite. La produzione mondiale si attesta sui 21 milioni di tonnellate. Italia e Spagna registrano consumi superiori ai 10 chili all’anno, un livello che costituisce l’“obiettivo” anche per Germania e Gran Bretagna dove però le abitudini alimentari lo rendono difficilmente raggiungibile. In questa nota la proposta di coltivare in coltura specializzata una cultivar di pera presente nel Salento leccese. “Ogni albero, ogni grossa pietra, ogni buca, ogni prato, ogni campo ha una propria individualità e spesso un nome. La stessa tendenza si manifesta nell’individualizzazione e spesso anche nella antropomorfizzazione dei periodi di tempo. Almeno un terzo dei giorni dell’anno sono individualmente distinti e il contadino non usa mai numeri, ma sempre nomi individuali per indicare queste date” – per la pressione del cristianesimo sostituendo, poi, “i santi ai giorni” (Thomas e Znaniecki, 1968: 171).
Quante pere c’erano nel Salento leccese?
In una pubblicazione del prof. Giacinto Donno la coltivazione degli alberi di pero nel Salento leccese alla fine degli anni 50 del secolo scorso era tutta in coltura promiscua e si attestava intorno ai 2mila e 500 ettari con una produzione di 11mila quintali di pere.
Gli alberi di pero si trovavano sparsi tra i vigneti, i ficheti, e oliveti. Le piante di pero venivano lasciate a se stesse e potevano essere anche si 100 anni e più. Alcune risultano innestate su franco, altre su perastro o perazzo (Pyrus communis L.) oppure sul calaprice (Pyrus amygdaliformis Vill.).
Mia madre e le pere “Petrucine” del Salento leccese
Mia madre me lo chiedeva sempre, ogni anno; era la sua una memoria di un gusto, di un sapore, di un’emozione ovvero le pere petrucine del Salento leccese. Mi diceva che da bambina lei le mangiava sempre e che purtroppo non se ne vendevano più.
La categoria sistematica di riferimento per un Dottore Agronomo è la varietà
Io ho imparato nei lunghi anni di studio prima all’Istituto Tecnico Agrario “Giovanni Presta” e poi alla Facoltà di Agraria dell’Università di Bari quello che mia madre mi diceva desiderando la sua pera “Petrucina” perché nell’ambito della mia professione di Dottore Agronomo la categoria sistematica di riferimento è la varietà. Perché? La spiegazione è presto data. Infatti se io avessi detto a mia madre che a casa, nella fruttiera, campeggiavano delle splendide pere e che quindi poteva mangiare quelle, io avrei detto una cosa imprecisa perché dire solo pera non definisce il frutto specifico, ma per descrivere esaurientemente la pera dobbiamo aggiungere la sua varietà. Infatti a mia madre mancavano tanto le pere petrucine e non una qualsiasi pera.
Ma com’è la pera Petrucina?
Una pera della varietà petrucina ha il sapore dolce dovuto al contenuto di carboidrati DIVERSO rispetto alle altre varietà e soprattutto alla presenza significativa di fruttosio che dona il gusto dolce, oltre alla presenza di sostanze quali vitamine e flavonoidi che variano da una varietà all’altra.
La pera di varietà tradizionale “Petrucina” siccome ha avuto un carattere di coltivazione diffusa e sistematica ecco si può anche definire cultivar che deriva dall’inglese cultiveted variety che poi significa intuitivamente “varietà coltivate”.
La petrucina è solo nei giardini della cinta della Città di Lecce e nella Grecia Salentina
Secondo lo studioso Francesco Minonne la pera “Petrucina”, detta anche Pedicina e Pera di San Pietro, era anticamente molto diffusa e io sono daccordo con lui. Infatti mia madre la cercava perché da ragazza era facilmente reperibile in commercio. Sempre secondo Minonne, oggi la “Petrucina” sarebbe relegata in vecchi giardini della cinta della città di Lecce e nella Grecia Salentina.
I componenti nutrizionali della pera Petrucina
La questione è comunque tutta giocata dai componenti nutrizionali più abbondanti nelle pere che sono i carboidrati (amido e glucosio), i quali variano tra una varietà e l’altra dall’8 e all’11%. Le pere presentano anche un buon contenuto di fibra. L’acido organico più abbondante è l’acido malico. I frutti maturi contengono discrete quantità di acetaldeide, sostanza ritenuta la responsabile dell’insorgenza del fenomeno del riscaldo (danno da conservazione del frutto). L’astringenza e il sapore amaro presente in alcune varietà, caratteri normalmente non desiderati, sono attribuiti alla presenza di sostanze tanniche, fenoliche e polifenoliche.
Per non avere la bocca piena di astringenti tannini ci vuole l’ammezzimento
Mi madre adorava queste piccole pere con la polpa bianca e granulosa che maturavano la prima decade di luglio. E allora come mai non si coltivano più anche se il sapore è ottimo?
Prima di tutto non le coltivano perché sono piccole, ma la ragione più profonda è che le pere Petrucine per essere gustate hanno bisogno dell’ammezzimento.
Come dici? Non sai cos’è l’ammezzimento? Non ti preoccupare caro, meglio così, se no io a che servirei? Allora devi sapere che se tu raccogli le pere petrucine queste sono ancora acerbe e se sei impaziente e tenti di mangiarle appena colte dall’albero, subirai il tipico effetto astringente provocato dall’elevato contenuto di tannini. Invece se sei paziente e prenderai le pere petrucine, riponendole ben distanziate l’una dall’altra, su un vassoio di cartone o cassetta di legno, conservandole in un luogo asciutto e senza luce, finchè non avranno raggiunto la giusta maturazione, allora proverai l’emozione di un gusto e sapore unico che ha segnato mia madre per il resto della sua vita.
La pera è una fonte di benessere
La pera è un concentrato di micronutrienti essenziali alla vita e fonte di benessere; quelli che le donano il colore e specificità del gusto sono idratanti, in quanto contengono grandi percentuali di acqua ed hanno minerali ad alto livello di assimilabilità, essendo inseriti in un ambiente biologicamente “attivo” a differenza dell’acqua di sorgente.
A fronte di un’alta concentrazione di micronutrienti, la pera generalmente si presenta con un tenore calorico e, salvo alcune eccezioni, con indice glicemico basso, in particolare se la pera è consumata integra di tutte le sue parti.
Le prospettive Ecologiche dei Dottori Agronomi
L’Orto Botanico della Università del Salento ha la varietà di pera petrucina quindi si può tentare una sua moltiplicazione con conseguente coltivazione per produrre pere per il mercato perché …. “Un albero di pero non è mai solo quell’albero di pero: è quest’albero qui, davanti a me e radicato nella terra, e nessun altro, ed è, insieme nello stesso tempo, parte vivente di un habitat, che è parte di una comunità ecologica, che è parte di un ecosistema, parte a sua volta della biosfera.
Queste prospettive “ecologiche”, di cui Catton indica la carenza nelle scienze sociali, sono presenti e operanti entrambe nel pensiero e nella pratica dei Dottori Agronomi.
E, per noi, come uomini che fanno esperienza del mondo, la percezione e l’uso di quest’albero di pere “petrucine” è insieme immediata nel legame, o non legame, che abbiamo con la sua presenza, e mediata dai millenni di memorie collettive che hanno elaborato il rapporto e la percezione della comunità umana cui apparteniamo (che ci ha formati quali siamo) con quest’albero, quest’habitat, quest’ecosistema.”
Bibliografia
Annuario si Statistica Agraria – Istituto Centrale di Statistica – A.B.E.T.E. Roma 1956; 1957;1958
Masseria Ficazzara, Il pero
Francesco Minonne, I nomi e le piante: per una storia delle varietà agrarie del Salento
La frutta mediterranea: caratteristiche e proprietà nutrizionali, Informazioni gentilmente offerte dal Dott. Di Gioia Fabio laureato in scienze e tecnologie agrarie presso la facoltà d’agraria di Firenze.
Ispra, Quaderni, Frutti dimenticati e biodiversità recuperata
Giuseppe Pallotti, Interpera “fotografa” produzione e consumi
“Piero Panesi. Un percorso interrotto (Alessano 29 giugno 1959-5 maggio 1990)”: questo il titolo di una serata celebrativa e di una plaquette con cui nel maggio 2006 Alessano ha voluto rendere omaggio a questo artista di grande talento, prematuramente scomparso, al quale, forse, non è stata riservata ancora tutta l’attenzione necessaria. Dopo un lungo lavoro, è stata finalmente presentata la catalogazione delle opere del Panesi, accolte con grande attenzione e vero entusiasmo. Sul filo dei ricordi e della nostalgia, nella serata celebrativa, soprattutto nelle parole della madre di Piero Panesi e dell’amico Paolo Torsello, la serata ha contribuito anche a far conoscere meglio alcuni aspetti dell’arte di Panesi che fino ad ora non erano stati analizzati, grazie all’esposizione dell’illustre critico d’arte Toti Carpentieri.
Una ricerca, quella di Panesi, che si muoveva fra l’astratto e il figurativo, purtroppo interrotta dalla drammatica fine dell’artista il quale, legato al suo paesaggio salentino, sapeva tuttavia trasfigurare odori, colori e sapori della nostra terra in una vena surreale, funambolica quasi, utilizzando tecniche diverse, ma lasciando sempre il suo segno in tutte le composizioni che creava. Dopo il Liceo artistico, frequentò l’Accademia di Belle Arti di Lecce, ma poi si trasferì a Firenze, dove si diplomò nel 1982 con una tesi su Cezanne, pittore molto amato da Piero. Fece un viaggio a Parigi, molto importante per la sua formazione, e poi ritornò ad Alessano, dove iniziò la sua attività che però non gli riservò soddisfazioni in vita.
Nel 1991, venne organizzata, postuma, una mostra al centro “A per A” di Firenze; due anni dopo, alcune sue opere furono esposte all’interno della mostra collettiva “Artisti per la pace”, nel chiostro di Santa Croce a Firenze e, nel 1995, si tenne una sua mostra a Brescia.
L’impegno preso dagli amministratori di Alessano è quello di realizzare, in un’ala di Palazzo Legari, sede della Biblioteca Comunale, una galleria con tutte le opere di Panesi, adesso custodite gelosamente dalla famiglia.
Nel 1996, si svolse, presso la Biblioteca Comunale di Tricase, una mostra dedicata a Piero Panesi , organizzata dalle Arti Grafiche Laborgraf, con il patrocinio del Comune di Alessano, del Comune di Tricase e della Provincia di Lecce. In quell’occasione, vennero esposte alcune opere, fra le più significative di Panesi, elaborate fra il 1975 e il 1990. Toti Carpentieri, nel suo saggio intitolato “Piero Panesi e il suo essere nomade”, sul catalogo della mostra, scrisse che “Non ci sarà mai concesso di poter sapere quale sarebbe stata la pittura di Piero Panesi, oltre questo suo itinerario di ricerca, tra riflessioni e ripensamenti, forse, ma nella persistenza di un reale concetto evolutivo.
Questa mostra è solo un pretesto per riflettere ed un invito a non dimenticare.” E a noi sembra bello ricordare il pittore con i versi di Raimondo Massaro: “E tu non sai non puoi sapere/ gli artisti cercano la pace/ e trovano la morte. Come i cani sulla strada / Gli artisti hanno l’arte. Come Piero/”.
Una voce in sospeso, forse destinata in parte a restare tale: sparliggiàre
Sono uno che mantiene le promesse, anzi le minacce, specialmente quando la responsabilità non è da ascrivere tutta al sottoscritto. Integro, perciò, la risposta sommaria data alle osservazioni di Marcello e Pier Paolo al recente post su strulicàre ribadendo anzitutto che, a quanto ne so, ha ragione Pier Paolo, nel senso che strulicàre non implica necessariamente uno stato mentale patologico1, cosa che avviene, invece, per sparliggiàre (può darsi che Marcello sia rimasto imbrigliato nella sequenza primo/secondo).
Sparliggiàre non è registrato dal Rohlfs ma credo che il suo corrispondente italiano, se esistesse, sarebbe sparleggiare, forma frequentativa di sparlare che già in italiano oltre che parlare con malignità e maldicenza significa pure parlare a sproposito. Il suffisso frequentativo della voce dialettale ha finito per conferire alla stessa il riferimento ai discorsi da un lato spesso ripetitivi, dall’altro, comunque, “strani”, tipici, si dice, della pazzia; e ho virgolettato “strani” e aggiunto ”si dice”per dare ragione, pure stavolta, a Pier Paolo….
Ma nel dialetto neretino sparliggiàre viene usato anche nel senso di smarrire: m’ha sparliggiatu lu cacciavite=mi hai spostato (volontariamente o no) il cacciavite da dov’era ed ora non si trova più.
Secondo me di tratta solo di un omografo e perciò ha un’etimologia diversa. Quale? In un primo momento sembra venire in soccorso il Rohlfs che nel senso di disperdere registra spalisciàre (Galatina, Scorrano, Surbo) e spaliggiàre (Casarano, Parabita, Spongano), che connette entrambi con
Giulio Cesare Vanini e Francesco Paolo Raimondi, filosofi taurisanesi (seconda parte)
… Ma lasciatemi prendere qui un po’ di spazio per riportare le parole con le quali Francesco Paolo Raimondi descrive, nella sua “Cronologia della vita e delle opere” (pp. 295-313), i tragici ultimi momenti di vita dell’Ateo Salentino: «1619 […] Sabato 9 febbraio: il procuratore generale [di Tolosa], François Saint-Félix d’Aussargues, convoca di primo mattino in seduta plenaria la “Grand’ Chambre” e la “Tournelle”, sotto la presidenza di Gilles Le Masuyer. Il processo è ormai giunto allo snodo finale. Guillaume de Catel, avvocato e noto storico tolosano, pronuncia l’arringa contro Vanini. Se è, in qualche misura, credibile la versione consegnataci da Gramond, la sua linea accusatoria sembrerebbe tradire la conoscenza del “De admirandis”. […] Votata a maggioranza, nel suo scarno dispositivo, essa stabilisce il taglio della lingua dell’imputato, il suo strangolamento, il successivo rogo e lo spargimento delle ceneri al vento./ Pronunciato l’ “Arrest de mort”, per la sua esecuzione i poteri ritornano nelle mani del “Capitole” che, prima del crepuscolo della sera, fece innalzare in tutta fretta il patibolo. […] Prelevato dalla “conciergerie” [portineria], Vanini è condotto davanti alla “Grande Port” della basilica di Saint-Etienne. Egli è fiero e nello stesso tempo ribelle, votato come in altre circostanze al martirio, consapevole che l’iniqua sentenza lo aveva d’un tratto elevato alla dignità del filosofo. Forse per un istante passò per la sua mente il ricordo delle altre vittime della filosofia, scrupolosamente citate nei suoi scritti e, al commissario, che lo prelevò dalla prigione, rispose con fermezza in lingua italiana: “Andiamo, andiamo allegramente a morire da filosofo”. La scena si svolse come da copione. Egli fu tradotto in camicia su un carro su cui era sintetizzata la sentenza: “Atheiste et blasphemateur du nom de Dieu” [Ateo e bestemmiatore del nome di Dio]. […] Imponendogli di stare in ginocchio e di tenere in mano una torcia accesa, il commissario del Parlamento gli ingiunse di fare “amente honorable” [onorabile ammenda] a Dio, alla giustizia e al Re. Ma Vanini gli oppose un orgoglioso rifiuto. L’ufficiale gli rinnovò l’invito e […] il Salentino, dichiarando scopertamente il suo ateismo, gridò: “Non esiste né Dio né il diavolo, perché se ci fosse un Dio gli chiederei di lanciare un fulmine sull’ingiusto ed iniquo Parlamento; se ci fosse un diavolo gli chiederei di inghiottirlo sotto terra; ma, poiché non esiste né l’uno né l’altro non ne farò nulla”. Il macabro rito riprese secondo una prassi consolidata: il corteo percorse le vie Saint-Etienne, Croix-Baragnon, Place Roueaix, rue de la Trinité e giunse, attraverso la Grand’rue, alla Place du Salin./ La fermezza e la fierezza del Vanini sorpresero e sconvolsero i testimoni. Giunto sul patibolo, gli fu fissata la testa al palo. Per una sorta di istinto naturale si rifiutò di porgere spontaneamente la lingua al boia, che si vide costretto a strappargliela con la forza delle tenaglie. Ancora grondante sangue, il corpo fu appeso alla forca e poi gettato sul rogo. Quando le sue spoglie mortali furono consumate dalle fiamme, le ceneri furono sparse al vento, affinché non restasse di lui alcuna traccia.
Tutte le fonti, anche quelle più invelenite contro l’ateo pertinace, non poterono fare a meno di rilevare la grandezza del suo carattere e la sua incrollabile tenacia. Agli spettatori sbigottiti egli offrì un mirabile esempio di quella risoluta fermezza che si credeva poter essere dettata solo dalla fede profonda dei martiri cristiani» (v. pp. 310-312)
Ho riportato questa lunga citazione della ricostruzione storica della crudele fine di Vanini, scritta dal curatore del libro, perché in essa è vivamente percepibile l’intimo pathos dello scrivente. Sorprendentemente, mi sembra di trovarmi davanti ad una sorta di nemesi storica: qui, in questa stessa città nella quale, tra la notte del sabato 19 e la domenica 20 gennaio 1585, nacque il grande Taurisanese, ritroviamo oggi un altro filosofo (Francesco Paolo Raimondi) che, dedicando l’intera vita agli studi, ha saputo ridare onore e
Credo di aver dimostrato abbastanza in precedenti post sull’argomento la maggiore espressività del cosiddetto dialetto, mettendone in risalto, rispetto alla lingua nazionale, almeno nei casi esaminati, ora la pregnanza semantica più netta ora la più spinta e suggestiva capacità di traslazione metaforica.
La voce di cui mi occuperò oggi (strulicàre), invece, denota una raffinatezza (che non è sofisticatezza) contrastante con la primitività del sinonimo italiano (borbottare).
Comincio proprio da quest’ultimo per dire che si tratta di una voce onomatopeica, appartenente, cioè a quella categoria di parole che, nate per imitazione, probabilmente sono tra le più antiche; come il bambino apprende il linguaggio sostanzialmente per imitazione, così l’Umanità avrà creato le prime rudimentali parole imitando i suoni che sentiva in natura e nel corso dei millenni percorso un cammino che alla fine l’ha svincolata quasi completamente dalla servitù significante/significato (i linguisti definiscono questo arbitrarietà del segno).
E strulicare? Anche per lei parla l’etimologia. In realtà essa trova corrispondenza formale nell’italiano astrologare la cui prima attestazione
Slogare? Non sa nè di carne nè di pesce. Meglio spinulàre!
Ho avuto più volte occasione di sottolineare come molto spesso una voce dialettale abbia connotati di maggiore precisione, una gamma più ampia di riferimenti semantici e riveli una creatività oserei dire poetica (anche se il più delle volte trae origini concrete da elementi naturali o dal mondo del lavoro che in passato era esclusivamente contadino), superiore alla corrispondente usata nel linguaggio comune o alla tecnico-specialistica di quello scientifico.
Così slogàre significa provocare una distorsione o anche una lussazione di un’articolazione. Se consideriamo la sua etimologia la troviamo di una semplicità e, soprattutto, genericità disarmante: da ex privativa+locàre=porre fuori (locàre è da locus=luogo). Non sono da meno i due nomi dei due tipi di slogatura: distorsione è dal latino tardo distorsiòne(m), composto da dis=qua e là + torsio=torsione, dal classico torquère=torcere; lussazione è dal latino tardo luxatiòne(m), dal classico luxus=spostato.
Il dialetto neretino per esprimere gli stessi concetti usa spinulàre, dal latino tardo spìnula, diminutivo del classico spina=spina, soprattutto con riferimento al dito della mano o del piede (m’àggiu spinulàtu lu tìscitu). L’articolazione protagonista dell’incidente viene paragonata ad una piccola spina, ma il dettaglio botanico di partenza probabilmente si era già arricchito di significati traslati se per esempio, spinièddhu a Nardò è lo zipolo della botte e spìngula è sinonimo di spilla1; se a Tricase spìnula (tal quale la voce latina prima citata) era2 il perno di legno che univa la stiva al dentale dell’aratro di legno e a Castro la stessa voce è (con prevalenza dell’idea della spina su quella della spiga) sinonimo di spigola3.
Tutto chiaro? Nemmeno per sogno! E chi ci assicura, infatti, che spinulàre non derivi da s– estrattiva+pinolo (anche se quest’ultimo nel dialetto neretino è pignòlu, per cui mi sarei aspettato spignulàre) ? Cos’è, infatti, il pinolo se non una sorta di articolazione delle scaglie della pigna? Tuttavia, dopo questo triplice interrogativo una cosa è certa: l’assunto iniziale (la maggiore creatività del dialetto, etc. etc.) risulta, comunque, confermato.
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1 Spilla è dal citato latino tardo spìnula(m) attraverso la trafila: spìnula(m)>spinla(m) (sincope di –u-)>spilla (assimilazione –nl>-ll-). La voce neretina comporta, invece, un latino *spìngula, incrocio fra spìnula> eil basso latino spìcula (diminutivo di spica=spiga), come è avvenuto pure nel francese épingle.
2 Ho usato l’imperfetto anche perché le poche botti residue ormai sono dotate di rubinetto. Ma se la voce dialettale spinièddhu è destinato a scomparire insieme con l’oggetto, in ottima salute, invece, rimangono il fratello italiano spinello e la comune madre spina nei suoi vari significati tra cui anche quello che assume, simile a spinièddhu, nel nesso birra alla spina.
3 La spigola (da spiga, per le spine a raggio nelle pinne dorsali) in Calabria è spìnula, in Campania, Abruzzo e Toscana è spìnola.
Laggiù, sul mare, ancora senza vele e senza sogni, si è accesa una lampara…
Questa sera, Signore, voglio pregarti ad alta voce.
Tanto, all’infuori di te, non mi sente nessuno.
E qui, in questo crepuscolo domenicale, non siamo rimasti che io e te, o Signore.
Domani, Signore, avrò la forza di pregarti per il mare, per questo mare di piombo che mette paura, per questo simbolo opaco del futuro che mi attende. Stasera, invece, voglio pregarti per ciò che mi lascio dietro, per questa città, per questa terraferma tenace, dove fluttuano ancora le mie vele e miei sogni. Non ti annoierò con le mie richieste, Signore. Ti chiedo solo tre cose per adesso..
Dai a questi miei amici e fratelli la forza di osare di più.
La capacità di inventarsi, la gioia di prendere il largo, il fremito di speranze nuove. Il bisogno di sicurezze li ha inchiodati a un mondo vecchio, che si dissolve, così come ha inchiodato me, stasera, col fardello pesante di tanti ricordi. Dai ad essi, Signore, la volontà decisa di rompere gli ormeggi. Per liberarsi da soggezioni antiche e nuove. La libertà è sempre una lacerazione! Stimola in tutti, nei giovani in particolare, una creatività più fresca, una fantasia più liberante e la gioia turbinosa dell’iniziativa che li ponga al riparo da ogni prostituzione.
Una seconda cosa ti chiedo, Signore.
Fa provare a questa gente che lascio l’ebbrezza di camminare insieme. Falle sentire che per crescere insieme non basta tirar dall’armadio del passato i ricordi splendidi di un tempo, ma occorre spalancare la finestra del futuro progettando insieme, osando insieme, sacrificando insieme.
Da soli non si cammina più.
Concedile il bisogno di alimentare questa sua coscienza di popolo con l’ascolto della tua parola. Concedi, perciò, a questo popolo che lascio, la letizia della domenica, il senso della festa, la gioia dell’incontro. Liberalo dalla noia del rito, dall’usura del cerimoniale, dalla stanchezza delle ripetizioni. Fa che le sue Messe siano una danza di giovinezza e concerti di campane, una liberazione di speranze prigioniere e canti di chiesa.
Un’ultima implorazione, Signore, è per i poveri, per i malati, i vecchi, gli esclusi. Per chi ha fame e non ha pane, per chi si vede sorpassare da tutti. Per chi è solo, per chi è stanco, per chi ha ammainato le vele. Per chi nasconde sotto il coperchio di un sorriso cisterne di dolore. Libera i credenti, o Signore, dal pensare che basti un gesto di carità a sanare tante sofferenze. Ma libera anche chi non condivide le speranze cristiane dal credere che sia inutile spartire il pane e la tenda, e che basterà cambiare le strutture perché i poveri non ci siano più. Essi li avremo sempre con noi.
Sono il segno della nostra povertà di viandanti. Sono il simbolo delle nostre delusioni. Li avremo sempre con noi, anzi, dentro di noi.
Concedi, o Signore, a questo popolo che cammina l’onore di scorgere chi si è fermato lungo la strada e di essere pronto a dargli una mano per rimetterlo in viaggio.
Adesso basta, o Signore: non ti voglio stancare, è gia scesa la notte. Ma laggiù, sul mare, ancora senza vele e senza sogni, si è accesa una lampara.
don Tonino Bello
Pricàre: una parola senza etimologia “definitiva” come lei, anche se una di quelle avanzate, nello stesso tempo, fa e non fa una piega…
Questa volta mi occuperò di un verbo che non suscita allegria, ma che sicuramente ognuno di noi ha avuto occasione di coniugare all’attivo e che, quando giungerà l’ora (tocchiamoci, tocchiamoci!…), coniugherà al passivo, anche se nemmeno in questo la morte è totalmente livellatrice, dal momento che non tutti i defunti hanno avuto e avranno sepoltura e non solo, per quanto si dirà alla fine.
Si tratta di pricàre, usato nel dialetto neretino col significato di seppellire, sotterrare (uomini, animali, vegetali o cose), ben distinto da priàre1 corrispondente all’italiano pregare, che è dal latino precàri.
Pricàre, invece, potrebbe corrispondere secondo il Rohlfs (mi permetto di sviluppare quanto leggo scarnamente al lemma variante precàre) all’italiano piegare che è dal latino plicàre2=piegare, avvolgere, a sua volta dal greco pleko con lo stesso significato. Senza scomodare le bende delle mummie egizie o i lenzuoli funebri basterà ricordare che nel latino medioevale plica (da cui gli italiani piega e plico) è sinonimo di avvolgimento, e plicatùra, derivato dal precedente plicàre, di involucro. Tuttavia, lo stesso studioso, sulla scorta di altre varianti, non esclude la derivazione da un latino *(co)pricàre, forma intensiva del classico cooperìre=coprire.
Involucro o coperchio che sia l’idea di base, rimane il fatto che l’uno o l’altro per qualcuno è costituito da un pesante e sontuoso sarcofago3, per un altro da una bara di legno pregiato che per un altro si riduce a quattro assi inchiodate, per un altro ancora da una semplice fossa che realizza (non simboleggia come nei casi precedenti…) il suo biblico4 ritorno alla terra e, per chi ha scelto (o per colui per il quale è stata scelta) la cremazione, una teca di forma, materiale e costo diversi. Già, la tomba, in senso lato, come strumento di conservazione della memoria, prima ancora della sua celebrazione da parte dei poeti. Così pensava il Foscolo in un’epoca in cui c’era forse ancora qualcuno e qualche sue nobile gesto da ricordare.
Ma, siamo sicuri che oggi, come ieri, la polvere contenuta in un sarcofago dorato sia più degna (al di là del rispetto che, comunque, si deve avere della morte) di quella fusasi col terreno circostante5 sul quale, magari, una mano pietosa non ha potuto nemmeno graffire su una pietra grezza ESPOSITO GENNARO NETTURBINO6 o, magari, piantare il simbolo di Cristo fatto con due rami secchi reperiti in loco?
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1 Presenta, in tutta l’area salentina, affievolimento, aspirazione e poi scomparsa dell’originario –c– latino (analogamente a quanto successo nel francese prier) ma tuttò ciò sarà dovuto ad esigenze di differenziazione semantica rispetto proprio a pricàre, dal momento che, se tutto fosse rimasto come all’origine, i latini pricàri (pregare) e plicàre (avvolgere) avrebbero avuto il comune esito pricàre, dal momento che il passaggio –l->-r– è assolutamente normale.
2 La sua radice è molto prolifica: da plicàre sono nati, oltre a piegare, applicare, centuplicare (e simili, come duplicare, quadruplicare, etc. etc), complicare, esplicare, impiegare, implicare, moltiplicare, replicare, spiegare, supplicare. Inoltre dall’aggettivo verbale (plectòs) del citato greco pleko è derivato in latino il verbo plèctere dal cui participio passato plexu(m) è nato l’italiano plesso con i suoi composti amplesso, complesso, perplesso. Non è finita, perché molto probabilmente (vista la stessa qualità della consonante iniziale e l’assoluta congruenza semantica) dalla stessa radice deriva il latino flèctere, da cui in italiano flettere e derivati (flesso, deflettore, flessibile, flessibilità, flessione, flessuoso, flessuosità). Si può dire che la radice appena analizzata scandisca la vita dell’uomo nei suoi momenti più significativi, dalla nascita (duplicare) al lavoro (applicare, impiegare, flessibilità), dalla cultura (spiegare, esplicare, replicare e perplesso) alla burocrazia (complicare), dalle implicazioni musicali e psicologiche (complesso) al sesso (amplesso) e, coi dialettali fietta (treccia, da *flecta), ‘nghittàre (pettinare, da *inflectàre) e pricàre, dalla cura del corpo alla morte.
3 Attualmente il modello più costoso (e non si sa nemmeno se funzionerà e per quanto…) è quello che a suo tempo celebrò le esequie della centrale di Chernobyl ma, probabilmente, Fukyshima le strapperà quest’infame record.
4 Genesi, 3, 19.
5 La nostra espressione “ddivintàreterra pi ccìciri” (divenire terra buona per coltivare i ceci, cioè morire) rappresenta secondo me una sintesi sublime di filosofia, religione, poesia e senso pratico (stavo per dire economico, visto che è quello che nella nostra epoca detta legge…).
6 Totò, A livella, v. 30. I versi finali, invece, della stessa celebre poesia dell’immenso genio napoletano costituiscono la prima battuta della vignetta.
“Voci di strada” è il quadrimestrale della rivista della comunità Emmanuel. Parla di storia, teologia immigrazione. Il numero appena uscito contiene quattro ponderosi saggi su tematiche relative a popoli, popolazioni e senso della storia.
Padre Domenico Marafioti, nel saggio: L’uomo alla ricerca del senso tra storia e teologia, si interroga sulla storia delle persone e dei popoli. Mentre la prima è più definita, per la seconda la complessità aumenta, “è difficile stabilire quando è nato un popolo e si indica a volte in modo approssimativo la sua fine…”. Ancora più arduo se si parla di storia dell’umanità. Per questo viaggio, l’autore passa attraverso l’approfondimento di filosofi moderni ed antichi, ponendosi gli interrogativi e asserendo che, tutto sommato, la storia si snoda attorno alla figura di Cristo. Prima di lui per incontrarlo, dopo di lui per un altro incontro più “elevato” nell’eternità. Un excursus della storia tramandata, quella degli storici, fino alle domande sul senso dell’esistenza e sulla proposta cristiana. Esistenza intesa come “pellegrinaggio verso l’incontro con Cristo”.
La dott. Mariafrancesca D’Agostino in “ Oltre il mito: l’identità diasporica dei tibetani in India” analizza, attraverso testimonianze dirette, la diaspora tibetana. Il presupposto di partenza è il sostanziale “fallimento delle
Sull’etimologia di lampasciòne credo di aver ampiamente e, spero, in modo convincente discusso nella prima puntata della recente serie Il lampascione in quattro puntate. Sento, però, il bisogno di tornare sull’argomento (lo prometto, è l’ultima volta, forse…) prima che qualche lettore più curioso e interessato mi rimproveri di aver tirato prima le orecchie al Calonghi col suo (inesistente) lampàdo/lampadònis e di aver sviluppato l’etimo lampàdio/lampadiònis lapidariamente riportato dal Rohlfs, trascurando l’opinione del Garrisi, il cui vocabolario chiunque può reperire in rete all’indirizzo http://www.antoniogarrisiopere.it/
Non è che io ce l’abbia con quest’ultimo autore, al quale, tuttavia, muovo il rimprovero di ricorrere quasi in ogni lemma ad incroci che già in più di una occasione ho definito quanto meno pericolosi.
Non si sottrae a questo vezzo neppure il nostro lampascione, per il quale leggo per la variante leccese pampasciòne: “dal latino bambax-acis, bulbo, incrociato con lampadio-onis, cipollina”.
Faccio presente che bambax/bambàcis è voce del latino medioevale presente nel Glossario del Du Cange, pag. 542, dove, insieme con bambàsium, si rinvia a bombax definito come “gossipium, lana vel lanugo xyli”=gossipio1, lana o lanugine dello xilo); bombax, a sua volta è connesso col classico bombyx/bombìcis che significa baco da seta, veste di seta, peluria (di piante). Lo stesso glossario registra anche la voce derivata bambàsium=tela di cotone e da questa (dal plurale bambàsia è derivato l’italiano bambagia) rinvia a bombax.
È evidente che il Garrisi mette in campo bambax per spiegare il pamp– di pampasciòne; è, però, altrettanto evidente che, di regola, quando si verifica un incrocio tra due termini, in prima posizione resta quello di partenza che ha in sé tutta la carica semantica e, comunque, nei casi in cui questa regola non viene rispettata, il primo componente ha sempre in sé un collegamento semantico con la voce principale che ha subito l’incrocio. Nonostante la mia fantasia non riesco a cogliere nessun rapporto, sia pur vago, tra il nostro bulbo e il baco da seta o la bambagia.
L’incrocio, se c’è stato, va, perciò, cercato in altra direzione, cioè in vampa (attraverso i passaggi, tutti foneticamente ineccepibili, vampasciòne>bampasciòne>pampasciòne), come a suo tempo ebbi a dire nel post all’inizio citato, la cui rilettura non rincrescerà al lettore curioso e interessato.
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1 Plinio, Naturalis historia, XIX, 2: Superior pars Aegyptii in Arabiam vergens gignit fruticem, quel aliqui gossipion vocant, plures xylon et ideo lina inde facta xylina. Parvus est, similemquae barbatae nucis defert fructum, cuius ex interiore bombyce lanugo cuius ex interiore bombyce lanugo netur. Nec ulla sunte is candore mollitiave praeferenda. Vestes inde sacerdotibus Aegypti gratissimae.
(La parte settentrionale dell’Egitto confinante con l’Arabia produce un arbusto che alcuni chiamano gossipio, parecchi xilo e perciò xiline le tele che se ne ricavano. È piccolo e produce un frutto simile alla nocciola la cui peluria interna viene filata. Non c’è materia da preferire a questa per il colore bianco o per la morbidezza. È ricercata per le vesti dei sacerdoti egizi)
Non a caso la prima parte del nome scientifico delle varie specie di cotone è Gossipium (nella vignetta, insieme col lampasciòne, il Gossipiumbarbadense L.)
La Caremma è un personaggio della tradizione popolare che ci porta ad un passato, neanche remoto, fatto di usi e costumi, odori e colori che rischiano di scomparire. Essa stava per uscire definitivamente dall’immaginario collettivo, ma, da qualche anno, riappare sui balconi di alcune case durante il periodo della Quaresima. La Caremma è la madre del Carnevale e, con la sua bruttezza, rappresenta la Quaresima, il periodo cioè dell’astinenza e del digiuno canonico. E’ raffigurata da un fantoccio a forma di donna, vestita di nero e in posizione seduta: in una mano ha un fuso con un filo di lana e nell’altra una arancia trafitta da sette penne di gallina.
Questo strumento rappresentava, nella società contadina di qualche anno fa, un improvvisato calendario quaresimale che, settimana dopo settimana,
La Zavirna (Smyrnium olusatrum L), è una pianta selvatica della famiglia delle ombrellifere, dalle molteplici denominazioni: Smirnio, Corinoli comune, Olusatro… nel Salento è nota come Lacciu criestu, Murlu, Muruddhru, ‘Nzirna…
Pianta robusta e di buona vigoria presenta una vegetazione liscia, di una bella colorazione verde tenero. Alla base possiede foglie lungamente spicciolate, con lamine costituite da segmenti di forma rombo-ovale con margine seghettato. Con l’avvio della primavera, questa pianta emette dei lunghi gambi su cui sono inserite delle foglie ternate, ossia costituite da tre segmenti portati su brevi piccioli allargati. In cima, compaiono delle ombrelle con pochi raggi, portate da lunghi peduncoli e recanti dei piccoli fiori giallo-verdognoli. Non è una pianta molto comune e di conseguenza non è molto conosciuta, il suo uso, nel Salento, è limitato a pochi paesi nei quali, però è molto ricercata ed apprezzata. La si può trovare nelle zone umide ed ombrose, in particolare nelle adiacenze di antichi casali e masserie fortificate abbandonate e a ridosso di vecchi muri a secco posti a delimitare antichi e folti oliveti come pure sotto le siepi di fico d’India e ai margini di
L’enigma di un dipinto nel santuario della Madonna della luce ad Ugento
Dei trentotto affreschi che ornavano il santuario della Madonna della luce di Ugento ad oggi ne sono sopravvissuti (esclusa l’icona della Madonna sull’altare) solo diciannove, e fra questi quello della raffigurazione di un vescovo. Si trova sulla facciata di una colonna sul lato destro della navata e presenta dei particolare ai quali finora nessuno ha fatto caso.
Il personaggio dipintovi, forse per il suo abito bianco, da qualcuno è stato ritenuto rappresentasse S. Bonaventura, ma ciò non poteva essere dato che non vi è raffigurata l’aureola che è presente in tutti gli altri affreschi con l’immagine di sante e santi.
A suo tempo ci permise di risalire all’identità del vescovo effigiato lo stemma dei Mercedari che egli porta sul petto tra i cordoni con le nappe del cappello vescovile fatto scivolare dietro le spalle; si tratta di un segno distintivo di Mons. Ludovico Ximenz, il solo tra i vescovi che hanno retto nei secoli la nostra diocesi ad appartenere a quell’Ordine.[1]
Di lui ci è dato sapere dalle fonti che era di origine spagnola ma non il luogo preciso della sua provenienza.
Fu nominato vescovo di Ugento il 30 agosto del 1627 e prese possesso della diocesi il primo dicembre successivo rimanendone alla guida fino al 1636, anno della sua morte; secondo alcuni venne sepolto nella nostra cattedrale ma di ciò non abbiamo rinvenuto alcuna prova documentale.
Di lui sono disponibili (in copia) presso l’Archivio Diocesano di Ugento le relazioni delle visite ad limina del 1630 e del 1633 dalle quali è desumibile lo zelo e l’impegno che mise nel risollevare le condizioni della popolazione e della stessa cattedrale.
In quelle tra l’altro relazionò che (in ossequio ai dettami del Concilio di Trento), poco dopo esser giunto in sede visitò la diocesi e celebrò il sinodo nel giorno di S. Caterina Vergine e Martire, il 25 novembre; che si adoperò per riparare il campanile che aveva trovato semidistrutto da un fulmine e
Nella traduzione letterale del titolo non mi lascerò condizionare da ipocriti calcoli eufemistici e perciò per rendere la parola principale (tafanàru) non ricorrerò a sinonimi; sicché l’intero titolo tradotto risulterà Quando il culo non basta…
Sono tanti i casi della vita in cui la fortuna è indispensabile per il conseguimento di un certo risutato, ma in etimologia essa non basta per il conseguimento di un risultato certo.
Per restare strettamente in tema dirò che il corrispondente italiano di tafanàru (tafanàriu a Oria, tafanàrie a Massafra) è tafanario che, da voce popolare, ha trovato la sua consacrazione letteraria ne Il padrone sono me! (1922) di Alfredo Panzini: L’era unapiccolina,biondina,di mezza età,ma con un tafanario che mai più).
Tafanario è forma aggettivale sostantivata da tafàno, a sua volta dal latino tabànu(m), per l’abitudine che ha questo molestissimo insetto di pungere il posteriore dei quadrupedi.
Non è per mescolare il sacro col profano, ma è solo per sottolineare come la vita non è fatta di compartimenti stagni e per fornire un ulteriore esempio di come la lingua si adegui a questo principio, che dirò che estro (inteso come inventiva, capriccio, nome di un genere di insetti, periodo di calore negli animali) è dal latino oestru(m) che significa, guarda il caso, tafano e che è , a sua volta, dal greco òistros che ha lo stesso significato; e che assillo è dal latino asìlu(m) che, guarda ancora il caso!, significa tafano.
Per evitare l’accusa di essermi perso in un volo pindarico mi avvio rapidamente alla conclusione che spiegherà il titolo e le prime righe di questo post.
Tafanàru per il Garrisi è “da un incrocio tra latino tabanus e leccese farnaru”. Non è la prima volta che stigmatizzo il vezzo del Garrisi di disseminare le sue etimologie di strani incroci. Questa volta è toccato al farnàru (setaccio) che, forma a sezione di cilindro a parte, non evoca certo il sedere. Anche qui credo che l’incrocio sia stato messo in campo per spiegare –aru finale, che è la cosa più semplice che si possa immaginare, cioè un comunissimo suffisso aggettivale; sicché, come picuràru (in italiano pecoraro o pecoraio) è colui che ha a che fare con le pecore, tafanàru è quella parte del corpo che ha a che fare con i tafani.
E lo dico per esperienza personale…
* Non ti azzardare più a dire che mi sono incrociato con farnàru, anche se adesso ti sto facendo a farnaru il tafanario.
** Ragazzi, almeno oggi pascolo tranquilla…
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