Diciannove anni. Di ieri e di oggi

Albert Anker – Passeggiata scolaresca

 

di Pino de Luca

Il tempo inesorabilmente prosegue il suo cammino. Costante, ritmico, senza che alcuno lo faccia flettere o riflettere. Il tempo passa e noi lo misuriamo, secondo calendari inventati ai quali tendiamo ad attribuire significati magici, mistici, esoterici. Un maggio all’anno ci tocca, il mese delle tasse e delle proteste tardive, delle rose e della Madonna.

Il tempo passa per ciascuno di noi, costante e imperturbabile, ma ciascuno di noi, quel tempo lo elonga e lo comprime secondo i suoi ricordi e secondo le sue speranze. Mi ritrovo a scuola con ragazzi che hanno 19 anni. Qualcuno anche di più ma ognuno ha i suoi tempi di maturazione. Diciannove anni, pronti per l’università, il lavoro, le forze armate.

Mi rivedo a diciannove anni, e il paragone è immediato. Quanto siamo diversi e quanto uguali. Portavo capelli lunghi a diciannove anni e tutto quel delirio di onnipotenza che ormoni impazziti e energia giovanile riescono ad esprimere.

E voglia di conoscere, di fare, di esser e di esserci, ovunque, dormire una perdita di tempo. Forza, coraggio, lealtà e voglia di giustizia erano i miti che ci avevano insegnato.

I fumetti ad esempio: Topolino e compagnia, poi quelli da uomini: Tex Willer, Blek Macigno e Capitan Miki, il bene trionfava sempre e la buona educazione veniva insegnata e valorizzata.

Di nascosto, circolavano fumetti meno “etici” come Kriminal e Diabolik oppure più ose’ come Isabella o il pornospinto di Sukia. Ma anche questi eticamente non devastanti.

Poi le strips americane dei Supereroi o dei Peanuts ci addestrarono ad apprezzare i fumettari italiani come Bonfa, Paz, Manara, Altan e compagnia.

I miei diciannove anni erano il prodotto di quella mistura. Oggi son tanto diversi. Social Forum e alcool, musica a palla e consumismo. In fondo il loro eroi dell’infanzia sono stati Pumba e Shrek, campioni di rutti e scorregge anche in chiave di performance. E poi i Simpson e strips anche più crude.

Non giudico se siano peggio o meglio, non mi permetterei mai. Ma trovo grande diversità, quasi antropologica e mi chiedo sempre se sono adeguato a continuare a insegnare, a quanto senso ha continuare ad essere portatore di un modo di vedere le cose così diverso e così divergente.

Scrivo queste cose il 21 di maggio 2011, è di sabato. Lunedi andrò a scuola ancora, in una scuola arruffata tra scadenze di fine d’anno, pastrocchi per i finanziamenti da richiedere (sempre troppo pochi e sempre più legati a furbizie e clientele piuttosto che a ragioni concrete e impieghi utili), in una scuola nella quale la cosa più positiva che ritengo di aver prodotto quest’anno è stata quella di apprendere che un ragazzo ha imparato a giocare a briscola. E nemmeno per merito mio.

Lunedi torno a scuola, una scuola che mi sopporta e che provo a sopportare, luogo nel quale tutti si sorridono e si salutano con grande simpatia, ma son pronti al concorso di Giuda. Lunedi torno nella scuola della frantumazione, di chi da Pumba e Shrek ha imparato solo rutti e scorregge, e di chi, per Pumba e Sherk, ha dimenticato la sua data di nascita, ammalandosi del giovanilismo gerontocratico tanto diffuso in questo mondo nel quale c’entro sempre di meno.

Scrivo queste cose il 21 maggio 2011 e mi chiedo cosa ho fatto io per dire ai miei ragazzi che non è esistito solo il mondo che loro hanno vissuto dalla nascita. Per dir loro che il mondo non è così, che loro sono nati in un altro mondo un mondo che proprio il 23 maggio è stato ferito la prima volta, nell’anno in cui loro nascevano si è consumato l’assassinio della speranza. Il 23 maggio il primo colpo e il 19 luglio il secondo, mortale, definitivo.

Mani luride hanno agito, menti raffinatissime le hanno guidate. È giusto che i miei ragazzi sappiano che gli assassini hanno perduto, ma che i loro mandanti e ispiratori no, sono tra noi, hanno facce comuni, sono tutti coloro che del 23 maggio e del 19 luglio hanno preferito e preferiscono dimenticare.

Torno a scuola il 23 maggio, perché non possiamo abbandonare la lotta. La lotta non ci appartiene, siamo noi che alla lotta apparteniamo.

Le inferriate delle cappelle in S. Francesco d’Assisi di Gallipoli

 

 

1740: Giuseppe Mirone e le inferriate “ritrovate”.

Ricostruzione storica sulle inferriate delle cappelle in S. Francesco d’Assisi di Gallipoli

 

di Antonio Faita

 

Ci sono momenti in cui un po’ tutti ci sentiamo “folgorati” come Saulo sulla via per Damasco. Vi sono opere indimenticabili nella storia dell’arte e l’incontro con il capolavoro diventa anche un momento importante per mettere a fuoco la nostra stessa percezione dell’arte e la capacità che abbiamo di comprenderla, anche nei suoi risvolti più misteriosi. Eppure molti di questi segni della memoria subiscono le dissennate offese dell’uomo e del suo ambiente di vita.

Ciò accadde alla nostra chiesa di San Francesco d’Assisi di Gallipoli che, dopo lunghi e travagliati anni di restauro e a due anni dall’apertura al culto, la vediamo nella sua originaria bellezza.

Una piena informazione storica sull’originario assetto architettonico e decorativo della chiesa[1] ci viene data dallo studioso e amico Elio Pindinelli, grazie ad un’attenta ricostruzione storiografica, di storia e arte, che con grande passione ha voluto tracciare nel suo libro “Francescani a Gallipoli”, offrendo a noi lettori diversi spunti notevoli di riflessione[2].

Da alcune mie recenti indagini presso l’Archivio Storico del Banco di Napoli e, precisamente, consultando alcuni documenti del 1740, concernenti il Banco del Salvatore, è emersa una polizza con la “causale” riconducibile al tempio francescano di Gallipoli. Da quanto ci riferisce Pindinelli, per la chiesa di San Francesco d’Assisi iniziò un lungo e lento calvario[3], dagli anni critici del Risorgimento[4] con la soppressione generale degli ordini religiosi possidenti, fino agli anni cinquanta. In quest’ultimo periodo si vide uno “smembramento” totale di tutte le opere d’arte da parte del Genio Civile che ritenne opportuno,

Una doverosa rettifica

di Armando Polito

Una doverosa rettifica

Avrei preferito che fosse stato un altro a farmi un’energica tirata d’ orecchi perché, come recita il famoso detto, l’importante, con riferimento ad una persona, è che se ne parli, anche male. Eccomi, invece, a recitare il mia culpa e a restituire a Cesare, anzi a Pasquale Oronzo Macrì, quanto gli spetta o, almeno, una parte…

Mi riferisco ai due presunti errori di metrica da me messi in luce nel post Cinque poesie dedicate a Gallipoli…del 29 gennaio u. s. Non è un espediente per incrementare i contatti, perciò riporto sinteticamente in rosso quanto allora ebbi ad osservare:

1) rūděrĭ|būs cōn|strūcta||hīs|iām tōl|lōr īn|āltŭm.

nel penultimo verso il penultimo piede che dovrebbe, così come io ho scandito, essere lōr īn in realtà nel latino classico, considerando la corretta quantità delle sillabe,  sarebbe stato lŏr ĭn, combinazione (˘˘) non prevista nella formazione di nessun piede.

2 nāmquě Să|lēntī|||tōllĭtŭr|āltă să|lō.

la a di Salentini non è, come pure ho segnato nella scansione, breve, bensì lunga; e un piede ˉ˘ˉ non è assolutamente previsto.

RETTIFICA

Per quanto riguarda il punto 1 la lettura dell’opera a stampa (che solo qualche giorno fa ho potuto consultare) ha comportato una nuova corretta lezione del verso, che, questa volta, non pone alcun problema di scansione:

rūděrĭ|būs cōn|strūctă|||īs iām| tōllŏr ĭn|āltŭm.

CONFERMA

Per quanto riguarda il punto 2 nulla è cambiato; l’esametro rimane difettoso, anche perché non può fruire dei benefici della correptio iambica (possibilità di una sillaba breve di rendere breve la successiva originariamente lunga), perché non ricorre il rispetto delle condizioni previste.

Da Tricase a Civita Castellana: il racconto di Lutgarda Turco / Seconda parte.

LUTGARDA TURCO, LA PIETRA E IL PESCATORE

 

Da quel giorno la nostra vita cambiò radicalmente. Eravamo abituati ad abitare nella nostra comoda casa, e d’estate trascorrere i mesi in una casetta giù al porto di Tricase, quasi stessimo in villeggiatura. Ora invece eravamo isolati da tutti, in aperta campagna, in compagnia di serpi e di vipere. La delusione dei miei genitori fu grande: l’abitazione era piccola, un tugurio, e non era adatta per una famiglia di nove persone. Ma ormai ci dovevamo rassegnare: c’era un contratto firmato e si doveva rispettare. I miei genitori, al contrario di altre famiglie salentine, non erano pratici del tabacco, e così dovettero imparare in fretta le varie fasi della lavorazione, cosa che richiedeva non solo fatica, ma anche un corredo di saperi: era un’arte quella del tabacco. Così si buttarono a capofitto su quella nuova impresa e ben presto divennero bravi come gli altri. Però mio padre, in cuor suo, giurò che il suo mestiere sarebbe rimasto sempre quello del pescatore, una volta tornato a Tricase. Con molta pazienza e voglia di fare (sempre per migliorarci), papà e mamma trasformarono quel posto in un’oasi del deserto, facendo piazza pulita di sassi e di sterpi in modo che le serpi non trovassero nascondigli. Un pezzo di terra lo destinarono a piantare un orticello e al mercato comprarono delle gallinelle e un bel gallo. Al mattino era il gallo a svegliare noi piccoli e il coccodè delle galline sembrava un invito a correre per ritirare le uova fresche. Mi ricordo che quando stavamo a Tricase, tra noi piccoli si pensava che a Roma[1] fosse tutto facile, che lì si trovava di tutto, perfino le uova sotto terra: bastava scavare. Così, io e mia sorella, mentre

Indovinelli equivoci salentini

di Salvatore Calabrese

Ai nostri giorni i diversivi e i passatempi per trascorrere le ore libere in modo spensierato sono tanti, quasi tutti figli dei costumi moderni, della tecnologia elettronica e dell’informatica che invadono le nostre menti e condizionano le nostre abitudini.

Oggi ci si ritrova nei bar, nei circoli, nelle piazze,  si parla di calcio, di politica, di cronaca e d’altro, si commentano notizie quasi tutte, o per la maggior parte, diffuse dalla stampa, dalle televisioni e da internet.

In tempi più remoti, invece, questo non poteva accadere. I momenti di relax si vivevano tra parenti e amici parlando dei pettegolezzi che accadevano nel vicinato e per rendere piu’ frizzanti e distensivi  quei momenti, spesso ci si intratteneva raccontando INDOVINELLI, più o meno simpaticamente pepati,  che quando erano ancora inediti e sconosciuti rappresentavano un simpatico e cervellotico rompicapo per chi cercava di trovare una giusta e adeguata risposta.

Normalmente gli indovinelli erano presentati e proposti dagli anziani, i

Una statua in cartapesta di Giovanna d’Arco a Nardò

la statua di Giovanna d’Arco rinvenuta a Nardò (ph Raffaele Puce)

Jeanne d’Orléans (Giovanna d’ Arco)

 una spiritualità stupendamente adatta al nostro tempo

di Marcello Gaballo

È sotto gli occhi di tutti la riscoperta dell’ eroicità della pulzella d’ Orleans, Giovanna d’ Arco (1412-1431), che ha sfidato i tempi e gli uomini della sua epoca con incredibile audacia, tanto da ispirare diversi registi per buoni films che di tanto in tanto vengono proiettati nelle sale cinematografiche. La recente proposta anche in televisione di uno di essi ha ridestato il giusto riconoscimento a Giovanna d’ Arco, l’ eroina che si crede scelta da Dio per compiere il miracolo della liberazione della Francia dall’ Inghilterra e della riconsacrazione della monarchia.

Le “voci” mai rinnegate di S. Michele, S. Caterina e S. Margherita, consiglieri celesti della santa, la sostennero a credere nel potere di Dio, al quale aveva voluto far voto della sua verginità, per essere degna della scelta divina ricaduta su di lei, umile fanciulla della Lorena incredibilmente attaccata alla sua patria e interamente abbandonata all’ azione di Dio.

Dichiarata venerabile nel 1904 e beatificata il 18 aprile 1909, fu canonizzata il 9 maggio 1920 e proclamata santa da Pio XII il 13 maggio 1944, dichiarandola patrona secondaria della Francia.

Tralasciando ogni dettaglio sulla vita e sulle gesta della prode guerriera processata per eresia, comunque meritevoli di opportuna conoscenza, specie tra i più giovani, è nostro intendimento narrare di piccole storie che ci hanno permesso di ricordare una spiritualità più che mai adatta al nostro tempo.

Qualche anno fa il direttore dell’ Uffico Beni Culturali della diocesi di Nardò-Gallipoli, don Santino Bove Balestra, ci informava, entusiasta, del rinvenimento di una statua depositata nel camerino situato alla base del

Dove mangiare è arte pari a quella del cucinare

di Pino De Luca

Lo scarpinare tra luoghi nei quali si discetta sulla nobile arte di nutrire il corpo e lo spirito, ove mangiare è arte pari a quella del cucinare, permette di conoscere storie piccole di umanità varia che arricchiscono per davvero la mente e il corpo.

Qui si proverà a narrare di una Vecchia Casa e di un nuovo Carpaccio. Due storie d’amore a modo loro, tanto diverse e tanto simili. L’incontro di una donna a radice salentina e di un tosco innesca una grande passione, di quelle per le quali gli innamorati sembrano bastarsi vicendevolmente tanto da immaginarsi un eremo solingo nelle terre di Ghino di Tacco. E lì, per pochi mesi l’anno ospitare turisti e vacanzieri, e trascorrere il resto in solitudine estrema, a contatto tanto stretto con la natura quanto rado con gli altri bipedi implumi.

Poi la passione si trasforma, può esser che svanisca o che diventi più sobria e si consolidi, e in questo caso non ha paura di immergersi nel mondo, diventa motore di relazione e punto di forza e fondamenta. Ed ecco che Antonella e Augusto giungono in Salento. Antonella alla sua radice, Augusto di rapido ambientamento. Una ventina di giorni or sono hanno dato aria alla

Una birra artigianale salentina

LA BIRROZZA identifica una birra artigianale salentina, prodotta a  Martano, primo stabilimento per la produzione di birra del Salento.

Rappresenta una novità nel mondo delle birre artigianali e la grafica di etichetta mira a colpire un target giovanile, come si può notare dalla scelta del nome, la scrittura carattere colori ecc…, contrariamente alle altre birre artigianali presenti sul mercato, che solitamente si presentano con una etichetta e una bottiglia molto elegante e “seriosa”.
Il prezzo di vendita di 3 euro al pubblico sta consentendo alla BIRROZZZA di acquistare quote di mercato, giorno per giorno, sempre maggiori, andandosi a confrontare con i grandi brand di birre nazionali e non.

Oltre a questi due punti di forza, prezzo di vendita accessibile ed etichetta giovanile ed accattivante, la BIRROZZA si caratterizza per essere:
• una birra a km zero!
• non filtrata
• non pastorizzata
• senza conservanti
• senza coloranti.

Gallipoli. Una vivace ed animosa disputa per una usurpazione

Convivenza e buoni rapporti di vicinato.

Una  vivace ed animosa disputa per una usurpazione

 

di Antonio Faita

 

Gallipoli, centro storico (ph Antonio Faita)

Il centro storico di Gallipoli è stato sempre caratterizzato da strette e tortuose viuzze e data la scarsità di spazio, per far fronte alle necessità abitative, vennero adottate nei tempi andati soluzioni ingegnose, come le corti e le case a corte che ormai fanno parte del patrimonio architettonico di Gallipoli[1].

In questo articolarsi di spazi, scrive  Antonio Costantini, «si perde il controllo dei confini tra pubblico e privato. Non si capisce mai se è la strada che entra nella casa o se la corte e la casa sono continuazione della strada»[2]. Infatti, se si entra in una di queste corti, «non si riesce mai a definire i contorni di ogni singola proprietà»[3].

In questo spazio polifunzionale, fulcro della corte, si svolgeva parte dei lavori domestici e in quanto nucleo base di socializzazione interpersonale tra il vicinato, era luogo di ritrovo e di amori ma anche di litigi. Non sempre infatti è stato facile (come non lo è tuttora) mantenere buoni rapporti di vicinato ed è capitato spesso che per litigi scoppiati tra vicini, si finisse davanti a un giudice.

A volte però succedeva anche che nonostante le proprie ragioni si rinunciava ad aver giustizia, per  timore di rappresaglie da parte del sopraffattore o dei suoi accoliti.

A tal proposito riporto qui di seguito l’interessante documento di un singolare e curioso litigio, avvenuto in una Gallipoli di fine ‘600 e inizi del ‘700, dove il fenomeno di una produzione edilizia residenziale e religiosa cresceva sempre di più.

A fare da scenografia è ovviamente una corte, di cui non si conosce il nome, e ubicata nel vicinato chiamato San Benedetto[4]seu la Chiana delli Pacella[5], ed i protagonisti del diverbio che li contrappose come vicini erano il Reverendo Don Nicolò Tricarico e la vedova Elisabetta de Dominico assieme al figlio Nicolò Corrado.

Il giorno 24 marzo dell’anno 1702, davanti al Notaio Carlo Megha[6] e alla

Avventura di un pescatore ubriaco e di una seppia

di Raffaella Verdesca

Ogni giorno, di buon mattino, Corrado si levava dal letto per correre sulla spiaggia a pescare, cosa che credeva di saper fare meglio di chiunque altro.

E così sarebbe stato, se solo non si fosse messa di mezzo la bottiglia!

Corrado, pescatore maturo di quarant’anni, aveva da tempo il vizietto di fare colazione con tre dita di grappa in un goccio di caffè, di pranzare annegandosi nel vino rosso e, dulcis in fundo, di chiacchierare lungamente, a sera fatta, con un amabile d.o.c. del ’99.

Una vita perfetta, senza pensieri.

A dirla tutta, però, il poveretto faticava un po’a trovare il letto di notte e la porta di casa al mattino, ma niente lo faceva sentire in imbarazzo.

Anche le disgrazie erano un motivo per ridere di sè e brindarci sopra.

Sentiva fissa da anni una forte pressione sul capo, il classico ‘cerchio alla testa’, qualcosa di simile a una pesante corona. Perciò si era convinto di essere la reincarnazione di un re di qualche pezzo di terra, o il lontano parente di un pianeta col suo anello attorno.

Nessuno dei suoi mali poteva ricondursi all’alcool, a suo avviso, meno che mai questa terribile emicrania capace di rinchiuderlo fuori dal mondo.

Non ricordare date, nomi e avvenimenti era la sua fortuna, la stessa che gli aveva lasciata intatta l’area del cervello preposta a maneggiare lenze e ami.

La sua pesca preferita era quella di cefali, merluzzi, saraghi e orate.

Era lo stesso pescato che adorava Sandra, l’unica nella ‘Locanda del molo ’ disposta a intrattenersi con lui il giovedì dalle sette alle nove di sera, a fine

Come sporcarsi con un termine dialettale…

“llappisciàrsi”: più facile farlo che individuarne l’etimo

 

di Armando Polito

* E quando mangi la pasta col sugo sta’ attento come faccio io a non sbrodolarti tutto!

Se dovessi indicare un sinonimo italiano della nostra voce di oggi direi sbrodolarsi, ma, come succede quasi sempre in casi del genere, per dare l’esatta definizione della voce dialettale dovrei usare la circollocuzione sporcarsi di macchie di unto.

Si tratta, come ben si comprende, di un inconveniente frequente non solo tra i bambini e i vecchi, ma l’inconveniente maggiore è che non è facile dire con certezza qual è il suo etimo; tuttavia, rientra tra le stranezze, probabilmente apparenti, della lingua il fatto che per parole indicanti fenomeni rari l’individuazione dell’etimo non presenti ostacoli e che succeda il contrario per altre che si riferiscono a qualcosa di più o meno abituale, come nel nostro caso.

La nostra voce non compare nel vocabolario del Rohlfs che, tuttavia, rimane strumento formidabile per chi abbia voglia e capacità di sfruttarne i contenuti.

Alla voce llampisciàre, che lo studioso tedesco riporta come attestata per San Cesario di Lecce nel vocabolario manoscritto di Fernando Manno, leggo: “macchiare di grasso; v. lampa”. E a lampa21 (attestato a Casarano, San

Il fiuto dei salentini…

Billy che “òsima” e il buco dell’ozono.

 

di Armando Polito

Può sembrare, è proprio il caso di dire, una bufala ma è accertato da tempo che il gas metano emesso dagli escrementi dei bovini contribuisce in percentuale significativa alla creazione dell’effetto serra. Per la par condicio sarebbe corretto fare indagini pure sul nefasto contributo che nella fattispecie dà la specie umana con i suoi quasi sette miliardi di individui, ma soprattutto bisognerebbe chiedersi chi ha inventato l’allevamento puro e semplice prima e intensivo poi. Se le  mucche, poi, potessero parlare, sicuramente osserverebbero: “Con tanti ovini che ci sono, proprio noi dobbiamo essere il capro espiatorio?”. E gli altri animali dove li mettiamo? Forse che nel loro piccolo non scorreggiano anche le cavallette (non ne sono al corrente, ma forse qualche ricercatore ha già pubblicato qualcosa sull’argomento…)? Forte di queste considerazioni e indifferente all’analisi  premonitoria fatta da Marx  quasi un secolo e mezzo fa1, ho cominciato a guardare con sospetto il mio cane (i miei gatti no, il loro sguardo mi mette in soggezione…) e ho scoperto quanto segue.

È notorio che tutti i cani (e Billy non fa, purtroppo, eccezione) hanno, chi più chi meno, un olfatto straordinario e che tutti, comunque, annusano o, come si dice in dialetto neretino, òsimanu, terza persona plurale del presente indicativo attivo (bisogna essere precisi per poter fare un’accusa circostanziata…) di usimàre.

La voce (l’indagine è appena agli inizi e a qualcuno sembrerà procedere, come quando gli investigatori hanno le idee molto chiare, a 360°…) deriva2 dal verbo greco osmàomai che significa percepire un odore. Osmàomai, a sua volta deriva dal sostantivo osmè (che significa odore) e questo dalla radice del verbo ozo che significa mandare odore, puzzare. Il colpevole ha le ore contate, anzi il cerchio si è chiuso se dico che ozono deriva dal francese ozone e questo dal tedesco Ozon, che è dal citato verbo greco ozo.

La brillante indagine appena condotta mi consente di concludere che Billy (e tutti i rappresentanti della specie canina) è doppiamente colpevole non solo per il fatto che defeca e scorreggia ma, filologicamente parlando, perché òsima.

Però, quando al mio cane ho confidato l’esito di questo mio studio, aggiungendo che al suo padrone molto probabilmente sarebbe stato conferito il premio (Ig)nobel per le scienze, mi ha risposto con un’espressione (ho tagliato la foto perché non apparisse la mia…)  che, forse, tanti umani vorrebbero usare nei miei confronti.

Ma a Billy concedo questo ed altro, per i miei simili ho già pronta la controrisposta…

**Ma va’ a c…!

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1 Il capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, 1975, pagg. 617 e 618 (traduzione di Delio Cantinori): ll modo di produzione capitalistico … turba il ricambio organico fra uomo e terra, ossia il ritorno alla terra degli elementi costitutivi della terra consumati dall’uomo, turba dunque l’eterna condizione naturale di una durevole fertilità del suolo. … Ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio, ma anche nell’arte di rapinare il suolo; ogni progresso nell’accrescimento della sua fertilità per un dato periodo di tempo, costituisce insieme un progresso della rovina delle fonti durevoli di questa fertilità.

La mia amara indifferenza nasce dall’abisso, confermato dalla storia, che esiste tra il dire e il fare, tra il potere inteso come privilegio di pochi (un po’ meno nel capitalismo…) e quello inteso come servizio per il bene comune.

2 Il Rohlfs registra per Ostuni la variante jusemà e rinvia ad usimàre che, però, manca. Certamente l’illustre studioso, se non se ne fosse dimenticato, avrebbe registrato l’etimologia che ho indicato, anche perché è di una semplicità estrema per me (figurarsi per lui!).

Quest’è il mondo di Nino

di Pino de Luca

Meno male che non ho la predisposizione alla scommessa e quindi se l’anima esiste ne sono ancora proprietario.

Conoscevo un vecchio signore, assiduo frequentatore di una “putèa”.

Costui, che chiameremo Nino, era solito trascorrere il suo tempo, dal primo pomeriggio alla tarda sera, in quel luogo fumoso, denso dell’odore di involtini di trippa, vino e provolone piccante.

Le compagnie si alternavano a tavoli bisunti sfidandosi a “scopa” o a “tressette” con carte napoletane ispessite e corazzate dall’uso che ne facevano mani callose e propense all’artrosi deformante.

Alle partite succedeva sempre il mezzo litro, con gazzosa, da rigiocarsi alla passatella. I gruppi andavano e venivano ma Nino era li, testimone di ogni contumelia che i giocatori si scambiavano con termini che testimoniavano amicizie solidissime e auguri da magia nera.

Nino era lì, partecipe di tutte le passatelle, invitato d’obbligo. La conseguenza ovvia: il Telegiornale nazionale, così si chiamava allora, non lo ha mai influenzato. A quell’ora era ciucco come Noé. Beveva quasi sul nulla, a volte appoggiava la “menza quarta” di vino e gazzosa su un uovo sodo o su “nu pezzettu alla furcina”. Non portava denaro Nino, solo una grande abilità narrativa. Prima che l’intruglio alcoolico si impossessasse definitivamente della sua mente, era in grado di far diventare delle volgari partite di briscola una sorta di scontro tra Orazi e Curiazi, un tressette diventava la Battaglia di Zama e uno scopone scientifico un duello tra sir Lancillotto del Lago e il Nero Cavaliere.

Nino aveva capito tutto della vita. Raccontava storie improbabili e poi, ogni sera, si imbriacava senza spendere un soldo. Raccontava storie che avevano un inizio e un epico crescendo ma non arrivavano mai alla conclusione. Quando si trattava di concludere era ‘mbriaco pezza, come dire: la congiuntura sfavorevole gli impediva di dar seguito al racconto.

E quando gli si chiedeva conto di questa sua scarsa propensione a dar senso alle sue iperboliche narrazioni, inarcava severo le sopracciglia, volgeva lo sguardo dal basso in alto percorrendo ogni centimetro dell’interlocutore con i suoi occhi quasi liquidi e gracchiava ieratico la profezia: “a rriare lu tiempo ca li bicchieri diventanu càntari e li càntari diventanu bicchieri.”

Immaginavo una sorta di giudizio universale coinvolgente gli unici due strumenti che sapeva manipolare con grande confidenza, in questo armageddon sovvertitore ogni cosa avrebbe cambiato posto … e concludeva la sua filosofica affermazione con un imperioso “ uei te sciuechi l’ùrtimi ssacchi?” (che sarebbe una proposta di scommessa con una posta altissima).

Lo zenit era raggiunto, Nino si era guadagnato il suo “gnemmarieddhru cu nu quartu te mieru schettu” che lo sprofondavano definitivamente nel mondo governato dalle allucinazioni, togliendogli il dono della parola comprensibile. Rientrava verso casa conversando con interlocutori invisibili ma con opinioni assai diverse; spesso, pressato dal bisogno e privo di ogni freno inibitorio, Nino pisciava camminando, segnava sull’asfalto l’evidente testimonianza del suo ondivago incedere.

Non me la sono mai giocata l’anima, un po’ perché non credevo d’averla e un po’ perché se l’avessi avuta non ne avevo la disponibilità, ma Nino aveva ragione. Quel tempo è arrivato. Dopo di lui ma è arrivato. La guerra è diventava una forma di politica più professionale, si mettono i cappottini ai cani e i bambini degli zingari si fanno morire di freddo, i capi dei governi giocano a chi dice la puttanata più grande. E i popoli, inebetiti dall’ignoranza e dalla cialtroneria propria e altrui, applaudono la sbruffoneria più eclatante. Quando la politica mi impegnava mente e corpo pensavo che dovevamo essere tutti uguali, che a tutti doveva esser concessa la possibilità di andare avanti: a ciascuno secondo i suoi bisogni e da ciascuno secondo le sue possibilità. La democrazia pensavo è il luogo sociale in cui tutto deve esser possibile. Ma non avrei mai immaginato che il potere diventasse Nino, che il mondo si mettesse nelle mani di tanti ubriaconi parassiti capaci solo di raccontare storie di cappa e spada trite e ritrite : nel milleseicento due regnanti giocavano a tressette con quattro cavalieri e cinque dame, mi verrebbe da ricordare. Una filastrocca che nasconde un vecchio trucco che riesce sempre a stupire, soprattutto chi ha memoria corta. La memoria che dura il tempo di una sbornia e Nino, Nino che piscia di fuori, trova ancora chi s’incurva nei campi e si spezza la schiena nelle fabbriche che con piacere lo mantiene… basta che racconti puttanate.

“Scazzicàre” parente di “calcio”: chi l’avrebbe mai detto!

di Armando Polito

Il verbo di cui oggi scopriremo l’insospettabile parentela ricorre nel dialetto neretino con diverse sfumature di significati: da quello di rimuovere qualcosa di alimentare che si è incollato (scazzicàre li fiche cu nno si ‘ncàsanu=rimuovere i fichi secchi perché non si incollino l’un l’altro nel contenitore in cui sono conservati; scazzicare li biscotti intr’a ‘llu stanàtu=scollare dal fondo della teglia i biscotti) a quello di riportare alla memoria (ce sta scàzzichi!=quale antico ricordo stai mettendo in campo!) fino a quello riflessivo di eccitarsi sessualmente (ddhu film m’ha fattu scazzicàre=quel film mi ha fatto eccitare).

Più complicata è la questione etimologica, anche perché debbo procedere senza l’aiuto del Rohlfs, che per l’occasione non solo non fornisce etimo ma, secondo me, fa anche un po’ di confusione.

Prendo in considerazione citando fedelmente dal suo vocabolario i lemmi che seguono:

scàzzica attestato proprio per Nardò: “rumore leggiero (p. e. dei topi)”;

scazzicàre attestato per Maglie e Nardò (nella variante scazzecàre per San Cesario di Lecce) “sollevare, alzare leggermente”; scazzacàre a Gallipoli “scuotere il saccone o il materasso”; ancora per Nardò il nesso mi scàzzicu “mi alzo con difficoltà” e ancora scazzicàre per Nardò, Galatone, Taviano, San Pietro Vernotico, scazzecàre per San Cesario di Lecce, tutti nel

Don Pippi Palamà e Sogliano Cavour

IL PARROCO SENZA CELLULARE, UN’ISTITUZIONE PER SOGLIANO CAVOUR

 

di Paolo Vincenti

lo stemma civico di Sogliano Cavour

Non aveva il telefonino, Don Giuseppe Palamà, ad eccezione degli ultimi tempi, quando era stato costretto a portarlo dalle nipoti che glielo avevano regalato. E non sapeva nemmeno usare il computer. Portava la tonaca, Don Giuseppe Palamà, Don Pippi per tutti, parroco di Sogliano Cavour per oltre quarant’anni. La tonaca era per lui una seconda pelle, era il suo segno di riconoscimento nel mondo, e Don Pippi la portava fieramente in tutte le occasioni, pubbliche e private, convinto come era che un prete è un prete sempre; la tonaca non era per lui un abito di lavoro, era una condizione esistenziale.

Il 15 agosto del 2004 si è spento Don Giuseppe Palamà, una vera istituzione per Sogliano Cavour, paesino di 4200 abitanti a pochi kilometri da Galatina e da Maglie. All’indomani dell’Unità d’Italia, un decreto regio attribuì a Sogliano il predicato Cavour, in omaggio allo statista piemontese artefice dell’unità nazionale ed anche per distinguere il paese salentino da un’altra Sogliano, in provincia di Forlì, che divenne Sogliano al Rubicone. Ma a Don Giuseppe Palamà non piaceva il secondo nome del suo paese per quelle imbarazzanti simpatie monarchico-massoniche che questo evocava: “Sogliano non è di Cavour, né di nessun altro”, ripeteva, “Sogliano, semmai, è di Gesù”.

Giuseppe Palamà era nato il 3 dicembre1929 aSogliano, da Lorenzo e Ada, primo di cinque figli. Nel 1957 aveva ricevuto l’Ordine del presbiterato ed era stato vice-parroco a Depressa, frazione di Tricase. Nel 1962 era ritornato a Sogliano Cavour ed era divenuto parroco della Chiesa matrice di San Lorenzo. Molte sono le sue opere per la comunità cattolica soglianese, come la costruzione dell’Oratorio, il restauro dell’organo antico, dell’antico mosaico pavimentale e delle tele della chiesa madre.

Era un uomo schivo, di poche parole, Don Pippi, amante dell’arte, della musica, della cultura in genere e grande amante della sua Sogliano.Una delle prime pubblicazioni alle quali collaborò è proprio un libro sulla storia di Sogliano Cavour, edito da Capone, del 1988, di cui è autore Fernando De Dominicis. Aveva fondato il centro studi “Sant’Agostino” e con questo aveva dato un impulso fondamentale alla cultura soglianese. Aveva promosso numerosi convegni ed incontri culturali, aveva pubblicato le tragedie sui Martiri di Otranto e S.Lorenzo (protettore di Sogliano); aveva pubblicato, nel 2003, “Sogliano Cavour – tra Medioevo ed età moderna” (Crsec Le/42 Galatina editore), insieme con altri studiosi come Luigi Manni, Antonio Costantini, Francesca Natolo, Mario Cazzato, Atonia Romano e Maria Rosaria Stomeo. Inoltre, aveva pubblicato una “Analisi chimica e medico pratica di un’acqua minerale sulfurea in Provincia di Lecce” (Panico editore 2000), di Mario Micheli, il medico dell’Ottocento “scopritore” delle terme di Santa Cesarea.

Una delle ultime opere che aveva patrocinato era stata proprio la pubblicazione della tesi di laurea della nipote Francesca, sul canonico Vincenzo Micheli, figlio del medico scienziato, autore delle tragedie che sopra abbiamo citato, rettore del seminario arcivescovile di Otranto, vicario capitolare e poi vicario generale, e soprattutto grande predicatore.

Don Pippi aveva fondato la banda di Sogliano, anche come sbocco lavorativo per molti giovani soglianesi, ed oggi la banda è molto affermata a livello provinciale e regionale. Ad ulteriore motivo di lode, va ricordato il recupero che egli volle fare della facciata del convento agostiniano.

Don Pippi era un prete “prete”, come lo ha definito Don Gerardo Serra, ricordando l’amico. Quella del prete che tira su le vesti della sua tonaca per giocare a pallone con i suoi ragazzi, nel campetto dell’oratorio, è una immagine  che fa ormai parte del nostro passato, quello di un’ Italia provinciale, l’Italia del dopoguerra, l’Italia dei film di De Sica e del cinema neorealista, l’Italia dei piccoli comuni nei quali i referenti sociali erano il sindaco, il maresciallo dei carabinieri, il medico condotto e appunto il parroco.

Il fatto è che oggi alcuni referenti religiosi dei nostri comuni  non ricordano neanche lontanamente i preti alla Don Camillo. Essi si sono trasformati in imprenditori del culto,managers religiosi, in certi casi abilissimi promotori culturali, sempre impegnati fra business plans, posa della prima pietra di erigendi edifici cultuali o inaugurazione di altri gia eretti, sito internet  della parrocchia ed email , organizzazione di viaggi e vari eventi sacri  ma poco, pochissimo tempo per la cura delle anime. Quando si avvicina un periodo particolarmente importante, come la Pasquao il Natale, in cui si prevede un afflusso più massiccio di fedeli in chiesa, i sacerdoti si organizzano chiamando rinforzi dai comuni viciniori o dalle missioni, per fare fronte alle confessioni, alle officiature e insomma a tutte le incombenze previste dal calendario festivo religioso. Don Giuseppe Palamà era di un’altra fatta.

Don Gerardo Serra, sacerdote di Corigliano, ricorda che Don Giuseppe era sempre vicino alle persone più bisognose ed aveva sempre una parola di conforto per i malati, le persone sole, gli anziani, le casalinghe e per i tanti amici, laici e religiosi, che lo andavano a trovare anche da molto lontano. “Egli aveva un modo tutto suo per affrontare certi problemi di scottante attualità. A Natale volle collocare ai piedi dell’altare, accanto la culla di Gesù Bambino, una culla vuota con dentro la scritta: “Papà, mamma, perché non mi volete? Eppure potrei farvi felici!”.

Usava, per catechizzare, un linguaggio semplice, lineare”, come dice sempre Don Gerardo, “l’approccio con le persone era cordiale ed amabile in ogni circostanza, ma parlava di più con il portamento che con le parole; le usava misurate e preferiva piuttosto ascoltare”. E di questo troviamo anche riscontro nelle  nipoti, Ada, Antonella e Francesca, che erano per lui come figlie e che seguiva amorevolmente e apprensivamente nelle loro scelte di vita. Sono proprio le nipoti che conservano il ricordo più intimo ed affettuoso dell’uomo e dello zio, oltre che del prete.

“La sua eredità” ci dice Ada, la nipote maggiore, “consiste nella sua grande fede e nella sua estrema disponibilità; inoltre nella sua fantasia e creatività. Egli si spendeva totalmente per la sua comunità e per tutti quelli che potevano aver bisogno di lui. Nemmeno noi familiari sapevamo quanto fosse apprezzato anche fuori dal nostro paese fino al momento dei funerali, quando abbiamo ricevuto attestazioni di stima e dimostrazioni di affetto oltre ogni nostra aspettativa. La sua assenza non è facile da colmare; eppure le sue azioni erano sempre improntate alla discrezione  e la sua era una presenza- assenza nella nostra vita;  lo zio ci influenzava in maniera impercettibile eppure pregnante; egli non amava apparire, non amava esibire la vasta cultura che aveva. Preferiva dare spazio ai suoi ospiti e tenersi in disparte. Il suo esempio certo ci guiderà nel nostro cammino e, insieme a noi, penso che tutti i soglianesi non potranno che serbare un dolce e sempre caro ricordo dello zio Don Pippi”.

Oggi, a Sogliano ha preso il suo posto Don Salvatore Gemma, un giovane prete, già allievo di Don Giuseppe. Ciò che è stato seminato, sta dando i suoi frutti.

La ‘indétta ti lu casalùru (La vendetta del tutto casa)

di Armando Polito


L’addhu ggiùrnu ca ‘n’àttimu lassài,

cosa ca prima no era fattu mai,

lu compiùter sulu, cu vvo’ ppìsciu,

quandu turnài no era tuttu lìsciu. 

Truài intra ‘lli mèilli ‘nu messàggiu

(ancòra mo ci mi ricòrdu rràggiu),

ca usàva pressappòcu sti palòre,

rrobba cu ti egna nnu malòre:

“Cerca cu ièssi, bbeddhu mia, an giru,

ca la vita a ‘sta terra è nnu suspìru:

tu vuèi ffaci lu quardiànu ti la casa;

cce ttièni intr’a ddha capu ti capàsa?1

A ddha ssobbra no tti puèrti lu mattòne

e sta ffaci nna ficùra ti cazzòne!”.

Sotta era firmàtu “tua caniàta”,

Maria Crazia, queddha disgraziàta! 

So’ rrimàstu ‘ntustàtu2 pi menzòra,

àcitu e mmaru comu lazzalòra, 

tantu ca no ssapìa cc’era ffare

cu mi pozzu a ddovère bbindicàre

e mi ndi stia ti parte sulu sulu

ssuppàndume lu musu intr’all’ursùlu3.

Menu male, la cura ha ffunzionàtu:

‘nu ‘ndovinèllo l’aggiu priparàto

e àggiu pinsàtu cu  la fazzu fessa;

‘sta fiàta la perde la scommèssa!

“Sai la metempsicòsi ti cce tratta?

Tice ca topu la morte non è ffatta,

e si rincàrna l’ànima ti ognùnu

puntuàle comu ceddhu allu mmasùnu4.

Unu divènta ciùcciu, l’addhu puèrcu,

nc’è ci si troa iàddhu o nanniuèrcu5;

nna fèmmina: ièri sèria era stata?

eccu, nna zzòccula osce è ddivintàta.

L’animàle ca iò ulìa cu bbessu,

e finalmènte simu rriàti all’uèssu,

ha ‘ndiminàre, ci curàggiu tièni,

ma èsciu ca la carma no mmantièni.

Puè ccircàre l’aiùtu ti li amìci;

se rrii alla soluziòne mi lu tici

e, stà sicùra, cu mmi complimèntu,

ti casa mia la capu fore mentu”.

La soluziòne caniàtama no ttruò,

spalancàti li rècchie e bbi la to:

NNA COZZA MUNACÈDDHA6 ULÌA CU ESSU,

CU MMI PORTU LA CASA SEMPRE APPRÈSSU!


Parabita. La cripta di Santa Marina

di Massimo Negro

L’estate scorsa, in un qualche giorno di agosto che ora non ricordo, seduto in piazza S. Pietro con don Pietro, don Aldo e don Antonio raccontavo delle mie allora recenti visite a Muro Lecce, Miggiano e Ruggiano in occasione delle celebrazioni in onore di Santa Marina. Raccontavo di questa improvvisata ricerca, nata per caso, e delle tradizioni e antichi segni legati alla devozione di questa santa a me del tutto sconosciuti che avevo documentato in quelle giornate. Dagli antichi affreschi di Muro, al pellegrinaggio verso i simboli dell’arco di Ruggiano, ai riti e segni ancestrali della cripta di Miggiano, ai colori delle zigareddhe che animano queste feste.

D’un tratto la discussione si spostò su di un quesito legato alla storia di questa santa. Parliamo di una “Marina” o di un “Marino”?

Facciamo un passo indietro. Nelle mie precedenti note, descrivendo brevemente la vita di questa santa, raccontavo di una giovane fanciulla che “nacque nel 275 ad Antiochia di Pisidia. Figlia di un sacerdote pagano, dopo la morte della madre venne affidata ad una balia, che praticava clandestinamente il cristianesimo durante la persecuzione di Diocleziano, ed allevò la bambina nella sua religione. Quando venne ripresa in casa dal padre, dichiarò la sua fede e fu da lui cacciata: ritornò quindi dalla balia, che la adottò e le affidò la cura del suo gregge. Mentre pascolava fu notata dal prefetto Ollario che tentò di sedurla ma lei, avendo consacrato la sua verginità a Dio, confessò la sua fede e lo respinse: umiliato, il prefetto la denunciò come cristiana. Margherita fu incarcerata e venne visitata in cella dal demonio, che le apparve sotto forma di drago e la inghiottì: ma Margherita, armata della croce, gli squarciò il ventre e uscì vittoriosa. Per questo motivo viene invocata per ottenere un parto facile.In un nuovo interrogatorio continuò a dichiararsi cristiana: si ebbe allora una scossa di terremoto, durante la quale una colomba scese dal cielo e le depositò sul capo una corona. Dopo aver resistito miracolosamente a vari tormenti, fu quindi decapitata all’età di quindici anni”.

Ma accanto a questa Marina vi è una seconda santa, anch’essa conosciuta come Marina, le cui celebrazioni sono spesso “mescolate” con quelle della prima. Due sante, tra loro diverse, ma intorno alle quali vi è un po’ di “confusione” nel ricordarle.
La storia di questa seconda Marina è alquanto diversa e indubbiamente particolare.

“Santa Marina nacque in Bitinia da genitori cristiani nel 725 circa. Dopo la morte della madre, il padre Eugenio decise di ritirarsi in un convento in Siria. Marina volle seguire il padre ed entrò in convento con il nome di Fra’ Marino, vestendosi da uomo, in quanto non era ammesso alle donne di entrarvi. Non era difficile per Marina dissimulare il proprio sesso, il padre gli aveva tagliato i lunghi capelli, inoltre i frati vivevano in celle molto buie indossando un grande cappuccio. Durante un viaggio con alcuni confratelli passò con loro la notte in una locanda. La figlia del locandiere, rimasta incinta di un soldato la notte stessa, accusò il monaco Marino del misfatto. Marina accusata ingiustamente, andò col pensiero a Dio e si autoaccusò di una colpa non sua. L’Abate la cacciò immediatamente fuori dal convento e le fu affidato il bambino, di nome Fortunato, che allevò con mezzi di fortuna. Restò sempre nei dintorni del convento facendo penitenza per una colpa che non aveva commesso. Finalmente dopo tre anni, dietro intercessione dei frati, l’Abate riammise in convento Fra’ Marino. Ma troppo duri erano stati i sacrifici, tanto che avevano colpito il fisico di Marina. Poco tempo dopo  infatti morì. I monaci, mentre lo svestivano, prima della sepoltura, fecero la sorprendente scoperta, capirono allora di quale grossa diffamazione fosse stata vittima, e l’ammirarono per la sua grande rassegnazione”.

Perché il racconto di queste due storie? A Parabita visitando la chiesa-cripta di santa Marina, mi sono imbattuto in questa “confusione” che vi è attorno al ricordo di queste due sante orientali.
Infatti a Parabita accanto al simulacro e a un affresco che rappresenta la prima delle Marine, la storia che si racconta è quella seconda santa.

Una persona anziana che abita nei pressi della cripta e che si occupa anche della sua apertura mi ha fornito un foglietto in cui, in dialetto, viene raccontata questa storia della “Marina parabitana”.

‘A STORIA TE SANTA MARINA

Sape iddhra quantu ne pati
Cu se gode lu regnu te Diu.
Lu caru patre sua se vinne ncasare,
vinne a fare na bella fanciullina;
a lu fonte sciu te battezzare,
te nome la chiamau santa Marina.
La matre te lu latte ca facia
La llattava na fiata la notte e na fiata a la tia.
Te do misi ziccau ccaminare;
te tre, orazioni mpressu Diu;
ma subbitu rrivara ure mare:
a li tre anni la mamma ne muriu.
– Fija mia amata, nu n’è tiempu te ncasare,
monucu me fazzu e servu Diu.
– Caru patre, a ci me lassi sventurata?
– Fija, te lassu a li zii tua raccomandata,
– Ah, caru tata, ste palore teni a mente:
quiddhru ca te face la mamma e lu sire
nu te face lu parente.
E senza nuddhru pentimentu,
decise cu se chiute a lu cumentu.
Notte e giurnu quiddhru Diu stia a pregare
Cu lu fannu subitu ncappucciare.
Doppu dieci anni a tutte l’ore
Chiangia la sua fija cu lu core.
– Ci ài, fratellu ‘Nofriu, ci ggète ca te senti?
– Ah, bel u ticu ca me tremulene li tenti:
Aggiu lassatu nu fiju intra l’affanni,
mo certu è trasutu a li tritici anni.
– Parti, fratellu ‘Nofriu, e tiempi nu perdimu.
Ca subitu moniceddhru lu facimu.
– Marina te la casa mia, ci boi meju
Te ncasare o puramente te servire Diu?
– Lu pansieri mia m’è statu quistu:
ca ieu pe’ sposu oju Gesù Cristu.
– Fija, nu’ te spumpare ca sì donna,
ci oi ccoji li frutti te la Matonna;
Fija, statte cu lu core cuntritu,
ci oi ccoji li frutti te lu paratisu.
– Dimme, patre, prima quanti siti,
ci tutti quanti a ‘na taula mangiati,
ci tutti te sparte a lu lettinu be curcati.
– Ah, fija , mo te lu ticu te moi
Ca simu trecentu sessantatoi
Tutti li monici a la finescia nfacciati
Lu nome dummandavene presciati.
– Lu miu nome ve lu ticu mprimu:
te osci nnanzi me chiamati fra Marinu.
Dopo tre anni paru paru
Ne muriu lu genitore caru.
Unu te nu giurnu se partiu rrabbiatu
Nu monacu fetente, cane scelleratu:
– Patre Lattoremia, Patre Lattore,
tenimu fra Marinu a lu cumentu
ca se mangia lu pane a tratimentu;
Acqua a cumentu nu ne putimu cchiare,
mandamulu a lu fiume cu pozza faticare.
Fra Marinu, ca l’ubbidienza la ulia purtare,
se pijau lu sicchiu, le menze e le quartare,
ricchezza te acqua sciu truvare.
Quandu rrivau ‘llu fiume
Se cumminciau mparuare,
ne ssiu ne serpente ca se lu ulia te mangiare.
Fra Marinu cu le mani te lu zziccau,
cu lu lazzu te cintu lu nnicau.
Tutti li monici ne dummandara:
– Marinu, ai cchiatu nenti pe’ la strata?
– Nu sulu serpente ippi cchiare,
ca me ulia propriu te mangiare;
ieu cu le mie mani lu zziccai,
cu lu lazzu te cintu lu nnicai.
Mo’ ntorna te nu giurnu se partiu rrabbiatu
Nu monacu fetente cane scelleratu:
– Patre Lattoremia, Patre Lattore,
tenimu fra Marinu a lu cumentu
ca se mangia lu pane a tratimentu;
Legna per cumentu nu ne putimu cchiare:
pijase lu travinu e lu zzappune
cu rronca erba a la ripa te lu mare.
Iddhru cu nu dice sine e mancu none,
ca l’obbedienza la vinne purtare,
se pijau lu travinu e lu zzappune:
bunnanzia te legna sciu truvare.
Se otau maletiempu can nu se potia stare,
tuzzau a na taverna cu se pozza riparare.
– Apri, taverniera mia, pe’ caritate,
ca quannanzi face lampi troni e tempestate.
A menzanotte, te la taverniera la fija se ‘zzau,
ca nu riccu signore ngravidau:
– Fra Marinu, ci tie stu core nu cuttenti,
vene nu giurnu ca fazzu te nne penti!
– Auh, ci nui sta cosa venimu fare,
lu Signore ne vene a casticare.
– Mo’ è notte e nu’ ne vite ‘ffattu.
La camara ‘ssegnata era china te scuranza,
ma quasi se cecava pe’ la muta luminanza.
A iddhra te cent’anni quiddhra notte ne pariu,
prima cu lucisce citta citta se nde sciu.
Bbunnanzia te legna truvau su llu camminu,
ne l’ia preparata Sant’Angiulu ndivinu.
Tutti li moniceddhri nnanzi ssira n’addhra fiata:
– Fra Marinu ai cchiatu nenzi pe’ la strata?
– Lu sulu maletiempu me zziccau,
ma la Vergine Maria me llibberau.
Quandu li nove misi giusti rrivau ‘ccumpire,
la fija te la taverniera nci venne a parturire.
Allora vitivi come matre e fija minavene li passi,
propriu comu ddo cani satanassi!
A llu cumentu, pe’ li critazzi, s’apriu nu purtuncinu,
– Santità, ai vistu ccia fattu fra Marinu?
Pe’ na notte ca lu fici ospitare,
la fija mia me vinne ngravidare.
– Cacciamulu a ddhrannanzi stu cane traditore,
ca stu scandulu n’à fattu senza core:
intra trecentusessanta ‘ducati,
ne vinne ‘llevata la verginitati.
Ne passara la disciplina, lu casticara forte forte
E lu minara fori te le porte.
Iddhra se peijau la fanciullina amata,
 e se nde sciu sutta a ‘nn ‘arcata.
La Pruvvidenza na cerva ne mandau,
la piccinna mmane e ssira ne ‘llattau.
Nu giurnu se partiu nu monucu veramente,
quiddhru era Cristu ‘nnipotente.
Quandu fra Marinu incontaru
Tuttu ‘nfriddulutu lu truau,
– ca cu lu cuntu me vene friddu e freve –
Susu ne cuntau sette parmi te neve.
– Aggiu vistu Fra Marinu suffrire,
sciati bbititilu prima te murire.
– Lassatilu ‘ddhrannanzi ddhru cane tratitore,
can nu mmerita perdunu e mancu amore;
Mmandatilu cchiamare
Cu scupa lu cumentu a tutte l’ore.
E cu sciacqua pignate e cazzalore.
– Cristu perdunau li nimici pe’ buntà,
mo’ perdunati puru ùi  la santità.
Unu te nu giurnu ntisera chitarre e priulini,
campane e campaneddhri:
Fra Marinu ulava versu Diu
A mmenzu a l’angialeddhri .
A ddhru paese nc’è na bella usanza:
ogni mortu se spoja e sciacqua n’abbunnanza.
Le cristiane quandu lu spojara ddhra matina,
s’accorsera can vece te Marinu era Marina!
Sulamente allora capira tutti quanti
Comu e quantu suffrene li santi.
E li monici chiangendu: Soru. Mia soru,
nu’ nci curpamu nui,
nci curpa quiddhru abitu te fore,
nci curpa quiddhra cane traditore.
Cusì tutti quanti fila fila,
se la passara la disciplina.

Nella storia di Marina ricordata a Parabita c’è un punto del racconto in cui si fa commistione con la vita della prima santa, ed è quando si racconta l’incontro con il serpente. Ma le raffigurazioni delle due sante solitamente divergono.
La prima santa Marina è rappresentata vestita da donna, con le vesti dell’epoca, con in mano un martello e la palma simbolo del martirio. Ai piedi un serpente.
La seconda Marina è rappresentata vestita da monaco, con un crocifisso in mano, un sacco sulle spalle e con accanto un bambino; il piccolo nato dalla donna sua accusatrice che viene ricordato con il nome di Fortunato.
A Parabita, la storia che viene tramandata è quella di Marina – Marino, la sua rappresentazione si riferisce alla più antica santa Marina.
Ma vi è un secondo punto di commistione tra la storia delle due sante.

La prima Marina per via del suo bel aspetto che vece invaghire il suo persecutore viene ricordata come la santa del bel colorito e come tale viene invocata per la protezione contro l’ittero. Infatti nei tempi passati alla santa venivano portati i bambini affinché venissero protetti o guariti da questa malattia.
Così avveniva pure a Parabita, pur non essendo una “prerogativa” di Marina – Marino.
Difatti dopo aver percorso un breve cunicolo, all’ingresso dell’unico vano che compone la cripta, sulla destra vi è una pietra dove per tradizione le madri dopo aver invocato l’intercessione della santa, passavano la mano sulla pietra per poi accarezzare le guance del loro piccolo.
Alcune tracce di colori potrebbero far propendere per la presenza di un affresco andato ormai consunto per il continuo sfregare di mani o fazzoletti.
Le origini delle cripta sono difficili da rinvenire. Molto probabilmente si può farla risalire ai primi secoli dello scorso millennio. La copertura originaria della cripta fu distrutta per la realizzazione di una cisterna e proprio grazie alla realizzazione di quella apertura venne riportata alla luce. Il sito è ormai inglobato all’interno del centro abitato.
Il Fonseca ritiene che dovesse trattarsi inizialmente di un ipogeo con funzioni funerarie e solo successivamente, in epoca medioevale, adibita al culto per poi essere abbandonata e successivamente interrata sino al suo rinvenimento.
All’interno vi sono dei dipinti parentali di non particolare pregio, ma il luogo è suggestivo e merita indubbiamente una visita.

“‘Ncarràre”: prima di lasciarci incantare dagli omofoni ascoltiamo la voce del Maestro!

di Armando Polito

C’è una regola elementare che chiunque, soprattutto l’addetto ai lavori, deve rispettare quando si cimenta nell’individuazione dell’etimo di una voce: la congruenza fonetica e quella semantica; se viene meno una delle due, se, in particolare, la seconda non è suffragata da prove che attestino un plausibile slittamento semantico, l’etimo proposto non regge. Talora a complicare le cose entrano in campo gli omofoni, cioè parole che hanno la stessa forma ma significato ed etimologia differenti.

È il caso di ‘ncarràre che nel dialetto neretino è sinonimo di premere; nessi particolari:  ncarràre li fiche intr’allu capasièddhu=sistemare i fichi nel contenitore di creta adatto premendoli1; ‘ncarràre (alternato a carcàre=calcare) la manu=esagerare; con il complemento oggetto sostituito pudicamente dal pronome, in senso osceno: li l’ha ‘ncarràta=l’ha penetrata.

Leggo nel Vocabolario delle parole del dialetto napoletano dei Filopatridi, Porcelli, Napoli, 1789, pag. 248 al lemma ncarràre: “indovinare; quasi dicesse prendere la carreggiata giusta”. Per i Filopatridi, dunque, la voce di

Libri/ Rime in vernacolo salentino

di Paolo Vincenti

Con la raccolta  Nu picca ‘qquai, nu picca ‘ddhai– Rime in vernacolo salentino, Tommaso Ravenna  torna alla poesia dialettale, suo primo e mai tradito amore. Il libro, con prefazione di Gino Pisanò, è stato pubblicato dal Laboratorio di Aldo D’Antico. E’ proprio nei locali dell’Archivio Storico Parabitano, che frequento  per la mia collaborazione con Aldo D’Antico, che incontro, a volte, Tommaso Ravenna il quale ha sempre una poesia pronta per ogni occasione ed a questa crede che  possa immediatamente darsi corso con una pubblicazione (che Dio lo benedica!), da parte del paziente e sempre disponibile editore D’Antico (che Dio benedica pure lui e la sua generosità). Ma tornando al presente libro, si tratta di una manciata di liriche, scritte dal Ravenna nel corso degli anni, che si presentano subito per quello che sono, senza pretese ed infingimenti: versi semplici, cantabili, diretti, che vengono dall’anima. Versi che non cercano la “pompa magna”, che non cantano i “bossi ligustri o acanti”  dei “poeti laureati”, come direbbe Montale, ma “li gigli, li carrofuli, le rose”, quei “Fiuri e ffrutti”, molto meno nobili, come “lu limone” ma che, proprio come i più noti “limoni” montaliani, sono alla portata di tutti. Intrisi di ironia e, a volte, di tenerezza, questi versi sono espressione del piccolo mondo del poeta, che sembra che se ne infischi  dei falsi miti della poesia “impegnata”, così lontano dai grandi  temi come la fame nel mondo,le guerre, la pace, la lotta politica, che sono estranei alla sensibilità delicata, un po’ fanciullesca del poeta Ravenna (si leggano a tal

Il galletto salentino. Al ragù o in umido?

Vincenzo Campi (1536-1591), La venditrice di pollame

 

di Massimo Vaglio

Fra le tante tradizioni culinarie salentine resiste, seppur in forte decadenza, anche quella del galletto, che i gourmet locali più tradizionalisti amano consumare rigorosamente al ragù o comunque in umido nelle ricorrenze festive e non si fanno assolutamente mancare in occasione della festa di sant’Oronzo, o meglio nella ricorrenza dei Santi Oronzo, Giusto e Fortunato, protettori della città di Lecce.

Una tradizione antichissima, che dimostra, come molti altri piatti per così dire rituali, una connotazione fortemente democratica, i piatti rituali o comunque più o meno devozionali, erano infatti, sempre piatti alla portata di tutte le borse. Basti pensare alle pettole e ai tanti dolci poveri che in determinate occasioni non potevano mancare su nessun desco, da quelli dei nobili, a quelli dei più plebei. Anche il galletto, seppur certamente più prelibato, e apportatore di proteine nobili, era tutto sommato una pietanza abbastanza economica, che in più chiunque poteva agevolmente allevare per l’occasione, accontentandosi questi di pochissimo spazio e di essere nutriti, magari con qualche scarto o avanzo di cucina. I polli, d’altronde come dimostrano anche tanti scavi archeologici, hanno costituito per i popoli salentini sempre una risorsa importante sfruttata tanto per le carni quanto per le uova. Una tradizione anche prestigiosa, proseguita, senza fine

Un verbo destinato a scomparire, come tutti i vocaboli legati ad un fenomeno estinto

Sta fiàta tocca mmi la scardu sulu, o quasi, tra llana, pesce, cramègna e capìddhi… (Questa volta mi tocca cavarmela da solo, o quasi, tra lana, pesce, gramigna e capelli…)

 

di Armando Polito

Oggi parliamo di un verbo in passato molto familiare, anche nel senso che si riferiva ad un’attività che in famiglia era riservata alla donne, come la quasi totalità dei lavori domestici; verbo e attività che alle giovani donne di oggi appariranno, più che cose di altri tempi (dunque, pur sempre legate alla realtà umana), come qualcosa di strano e di marziano.

Il verbo in questione, destinato a scomparire come tutti i vocaboli legati ad un fenomeno estinto,  è scramignàre, deformazione (con aggiunta di s- intensiva) dell’obsoleto italiano carminare nel significato di cardare la lana; va detto che esiste, sempre in italiano, anche un omofono, pure esso obsoleto,  carminàre col significato di eliminare gas dall’intestino. Come è norma per gli omofoni, la loro etimologia è diversa.  Mi riservo di lasciare per ultimo quello che a noi interessa per dire che carminàre nel significato poco elegante appena ricordato è dal latino carminàre=fare un incantesimo, guarire con un incantesimo, da carmen=canto; da esso derivato è l’aggettivo carminativo, voce tecnico-specialistica ad indicare una sostanza  che favorisce l’espulsione dei gas di cui sopra.

Il carminàre che oggi ci interessa, invece, deriva dall’omofono latino carminàre=cardare, da carmen (omofono di quello prima citato1)=pettine per cardare la lana.

San Biagio torturato con pettini per cardare la lana

Tornando al nostro scramignàre dirò velocemente che esso è sinonimo, oltre che di cardare la lana, di scarmigliare, che, guarda caso, probabilmente nasce dall’incrocio fra (s)carminàre e scompigliàre, magari pure con la complicità di scapigliàre. È troppo intuitivo il rapporto tra il concetto di cardare la lana e quello di spettinare perché faccia perdere al lettore più tempo di quanto non ne abbia consumato fin qui leggendomi. Probabilmente sarà proprio questo significato traslato a conservare ancora

O la borsa o la vita: tagli, tasse e altri impicci all’Ateneo salentino

L’Anfiteatro di Lecce occupato simbolicamente dagli studenti il 30 novembre 2010

di Giorgia Salicandro

Tasse “democratiche” per dare a tutti l’opportunità di studiare o un centro formativo d’eccellenza, con i relativi costi ricadenti sugli studenti, che faccia da traino per la crescita del Salento? La questione costituisce da anni il nodo irrisolto di un acceso dibattito, entro e fuori il mondo accademico. Eppure ormai, alla luce della “falce” del Miur sugli Atenei pubblici, in particolare quelli meridionali, il problema all’Università del Salento sembra aver abbandonato l’una e l’altra posizione trasformandosi piuttosto nel “come sopravvivere”.

La contribuzione studentesca a Lecce è stata per anni – sino al 2008 – in assoluto molto bassa, senza tener conto del contesto economico poco florido del Salento. Nel 2008 una delibera del Consiglio d’Amministrazione autorizzava l’aumento a tappeto a tutte le fasce Iseeu (l’indicatore della situazione economica degli studenti e delle loro famiglie) e introduceva pesanti deterrenti economici per i fuoricorso. Questi infatti penalizzano economicamente l’Ateneo dopo l’introduzione da parte del Miur delle nuove norme di distribuzione del Fondo di finanziamento ordinario, del quale un 7 % erogato su base premiale – ma i cui criteri, che comprendono anche il tasso di occupazione a tre anni dalla laurea, sono stati fortemente criticati dai rettori del Sud.

In generale, gli aumenti sono stabiliti in rapporto inversamente proporzionale ai fondi per la spesa corrente ricevuti dal Governo: meno un milione nel 2009, e altri 4 in meno nel 2010. “Ormai le voci di spesa

FILOLOGI (?) vs1 BRAVO CONTADINO 0-1

ph Riccardo Schirosi

 

di Marcello Gaballo e Armando Polito

In questo periodo la vigna viene sottoposta ad operazione colturali molto importanti per garantire (condizioni climatiche ed altri inconvenienti permettendolo…) una buona vendemmia. Chiediamo scusa ai fitotecnici se molto probabilmente incorreremo in qualche inesattezza, nonostante il nostro intento sia solo quello di soffermarci sulle parole che designano tali operazioni.

Al risveglio dal letargo invernale sulla parte inferiore della pianta, lu cippòne2, cominciano a spuntare dei polloni, li pitalòre3, che vanno eliminati al pari, poco dopo, di quelli spuntati sulle branche, li purìsi.

Quest’ultima voce verrà ora trattata direttamente e non in nota come le precedenti, e non solo perché non compare nel dizionario del Rohlfs…

Secondo noi potrebbe essere derivata dal greco porìasis=callo sulla palpebra, da poros= concrezione pietrosa (con riferimento anche alla stalagmite).

Come se non bastasse, però, ulteriori problemi etimologici pone il fatto che la stessa formazione parassita, o succhione, negli alberi prende il nome di sobbracàddhu. A prima vista si direbbe che sia una parola composta da sobbra=sopra+caddhu=callo [dal latino callu(m)] e che, dunque, sia semanticamente connessa con purìsi.

Il problema è che caddhu ha un omofono che significa cavallo [in questo caso, però, è dal latino cabàllu(m)=cavallo da lavoro, cavallo castrato: cabàllu(m)>(sincope di –ba)>callu(m)>caddhu].

E allora, per sobbracàddhu vale il caddhu callo o il caddhu cavallo?

Per fortuna, ancora una volta, l’esame delle varianti è decisivo perché le forme sobbracavàddu (Mesagne, Oria, San Giorgio sotto Taranto), subbracavàddhu (San Pietro Vernotico), sobbacavàdde (Ceglie Messapico) ci autorizzano a salvare il cavallo e a sopprimere il callo, perché quest’ultimo non ha niente a che fare con il nostro sobbracàddhu e forme affini (sobbracàddu a Sava, subbracàddhu a San Cesario di Lecce); infatti filologicamente è plausibile la sincope [caballu(m)>caddhu] ma non l’epentesi [callu(m)>cavàddhu4].

Già, ma, escluso il callo, che ci azzecca, direbbe Antonio Di Pietro, il cavallo? Ci azzecca, ci azzecca, perché il sobbracàddhu sta a cavallo del ramo principale; e così addio per sempre alla stalagmite, che, a pensarci bene, era ancora più suggestiva del callo della palpebra, anche se essa rimane in piedi (se la nostra proposta etimologica è esatta…) per purìsi!

Eliminate le pitalòre, bisogna ntestàre. Quest’ultima voce in generale indica l’operazione di potatura con cui viene impostata la forma che l’albero deve assumere. È chiaramente connessa con l’italiano intestàre, ma nel senso particolare di scelta delle parti destinate a dare alla pianta una certa conformazione nel suo sviluppo vegetativo, determinazione delle teste.

Nel caso della vigna assume il significato particolare di potatura con cui si lasciano solo due punte per tralcio (sarmènta5). Dopo tale operazione si ‘nzurfa  (inzolfa) e poi si pompa (utilizzando sempre lo zolfo non più in polvere ma in soluzione). A distanza di una ventina di giorni vengono eliminati i purìsi.

Basta! Tra latino e greco ci è venuto un dolore di testa peggiore di quello che si scatena quando, pur non eccedendo, il povero vino ha subito l’attacco violento di una percentuale eccessiva di metabisolfito di potassio ad opera di un enologo incompetente o troppo preoccupato di perdere il posto…

E la partita si chiude con la vittoria (fuori casa!) del bravo contadino che magistralmente ha già eliminato pitalòre, purìsi e altrettanto meticolosamente ha ‘nzurfàtu e pumpàtu.  Lo attende ulteriore lavoro e gli auguriamo un felicissimo raccolto; il nostro, quello appena fatto, comunque andranno le condizioni climatiche, resterà, comunque, modesto e non basterà certo la vignetta a smentire il detto scarpe grosse e cervello fino

* Tu riesci a capire che è successo a questa bottiglia?

** Te l’avevo detto che bisognava eliminare le pitalore e i purisi…

*** Quasi quasi questi due fessacchiotti mi hanno dato un’idea…

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1 È l’abbreviazione del latino versus=contro; non è per esibizione di cultura (?) che lo usiamo ma solo perché è troppa la rabbia che ci prende quando lo vediamo stampato su una locandina, in italiano, che annuncia, per esempio, un incontro di calcio o di pugilato; quel vs è, paradossalmente, l’unico segno di cui capiamo il significato intuitivamente. In realtà si tratta, come abbiamo detto, di una voce latina usata internazionalmente (sull’esempio inglese!) per indicare opposizione. Usarlo, purtroppo, era l’unico modo per ricordarlo.

2 Accrescitivo di cippo, corrispondente all’italiano ceppo, dal latino cippu(m)=colonnetta.

3 Forma aggettivale da pedale (nel significato di parte basale di una pianta), a sua volta da piede, dal latino pede(m) connesso col greco pus/podòs.

4 È vero che il probabile incrocio è sempre in agguato e che spesso scherzosamente si sentono espressioni del tipo tegnu nnu cavàllu allu pete! (ho un callo al piede!); ma cavàllu è forma italianizzata (dunque più recente) di caddhu, frutto dell’equivoco omofonico, per cui il fenomeno appena ricordato non può qui essere tenuto in conto.

5 L’italiano sarmento è dal latino sarmèntu(m); la voce neretina ne è tal quale il plurale (sarmènta) con valore collettivo e successiva acquisizione del genere femminile e del numero singolare.

Racconti/ La solitudine delle virgolette

di Raffaella Verdesca

 

Se qualcuno ha inventato, usato, messo in un commercio scritto le virgolette, un valore ce l’avranno!

Eppure, a qualcun altro non sono simpatiche affatto, tanto che vederle girare sul foglio a due a due, provoca un fastidioso disappunto.

La virgola, presa da sola, ha un valore sacro, un’aria contro cui non si può obiettare.

A guardarla, appare piccola, timidamente incurvata come a dire:

“Mi hanno voluta a tutti i costi, potevo dire di no?”

E proprio quella cosuccia da niente è capace di far tremare biblioteche e librerie di mezzo mondo.

Tuttavia, e lo vedi due righi più su, anch’essa ha dovuto ricorrere alle diaboliche virgolette per il suo parlare scritto.

Prova ora a pensare a una qualsiasi chiacchierata tra amici: ti sarà capitato di sentir aggiungere nel discorso, la dicitura “…tra virgolette…”.

Infatti, anche quando noi parliamo e non abbiamo perciò bisogno di usare questo benedetto segno di punteggiatura, spesso, per sottolineare sensi e doppi sensi, ci serviamo del “…tra virgolette…”, o potendo avere carta e penna, ci incastriamo il nostro concetto nel mezzo.

Che umiliazione per la povera virgola, potente segnetto legale in qualsiasi terra emersa, indispensabile in ogni tipo di scrittura. E pensare che questa voce della punteggiatura attira attenzioni e polemiche quasi esclusivamente nel suo stato coniugato!

Che c’entra? ti chiederai, e invece il problema sta proprio qua, che la coppia, anche in grammatica, fa discutere!

I punti esclamativi, quelli interrogativi, di sospensione e i punti e virgola, a volte si sentono esclusi, frustrati, convinti che la causa di questo disagio sia nascosta nel loro stato da ‘single’.

Come starebbero insieme due punti esclamativi? Bè, se ne vedono davvero pochi in giro, così come i punti interrogativi, troppo panciuti per

La processione

di Rocco Boccadamo

Al paese, si celebra la festa del Santo Patrono, la piazza e le principali strade fanno bella mostra, addobbate con ricche luminarie, allestite nei punti strategici, bancarelle con sacchi di nocciole, arachidi, pistacchi e mandorle abbrustolite, prestano servizio due bande musicali che si esibiranno sulla “cassarmonica” con i loro repertori sinfonici, oltre alla fanfara dei bersaglieri in congedo, dai ranghi aperti, probabilmente al fine di raggiungere il quorum minimo di suonatori, anche a… giovinette, mai state, invero, arruolate con il cappello piumato.

Così il clima, il contorno, gli strumenti, sotto l’aspetto laico, civile.

Dal lato religioso, la ricorrenza è imperniata sul rito della “processione”, ossia a precisare il giro, con i simulacri del Protettore e della Protettrice, la Madonna di Costantinopoli, recati a spalla da paesani devoti, lungo l’intero centro abitato.

Si rispetta un ordine fisso e rigoroso nella composizione di tale corteo, in apertura lo stendardo dell’Apostolato della Preghiera, poi quello della Confraternita, a seguire due doppie file di fedeli ai margini delle vie, quindi le anzidette statue sacre in cartapesta, scortate da due carabinieri in alta uniforme, immediatamente dietro il Sindaco con la fascia tricolore, i Vigili, il Maresciallo Comandante della stazione dell’Arma e infine, a chiudere, i musicanti.

Fa su e giù da un capo all’altro della processione, attrezzato con microfono, il Parroco, instancabile a sciorinare preghiere, canti e salmi, nonché a incitare tutti gli astanti ad una partecipazione convinta.

Ha senza dubbio un sapore speciale, suscita emozioni e rievoca bei ricordi, la “passeggiata “ per il paese in compagnia dei Santi.

Certo, anche in questo rito religioso, si nota, prevale, il mutamento dei tempi: ieri, manco uno dei paesani  saltava l’appuntamento, oggi l’adesione è, invece, assai parziale. Si riaffacciano le antiche scene, non prive di fascino, dei diversi gruppi di militari, specie marinai, in servizio a distanza, anche lontana, dal paese, ma, per la festa del Patrono, con licenze o permessi brevi, sempre di ritorno e presenti: si materializzavano, nelle loro candide e linde divise, a vari angoli delle strade, salutando sull’attenti, in segno di omaggio, al passaggio delle statue, prima di immettersi e mescolarsi in seno alla processione.

Attualmente, il prete, rispettando la tradizione, non manca di dare gli auguri ai parrocchiani, di entrambi i sessi, che portano il nome del Santo Patrono o della sua Consorte, pure elevata agli onori degli altari. Ai voti per i presenti, aggiunge, però, l’invito a porgerne altrettanti ai festeggiati che abitano e sono rimasti fuori sede.

Al culmine della processione, si colloca il gesto di affidamento del paese alla protezione del Santo, con la sequenza, semplice e suggestiva, dalla consegna a quest’ultimo di una simbolica chiave cittadina, gesto stavolta compiuto tramite il coinvolgimento e la collaborazione di un piccolissimo bimbo in braccio ad una giovane coppia.

Non c’è che dire, nonostante che l’agenda della quotidianità rechi numeri, scadenze e abitudini modificatisi negli anni, nonostante che le stesse menti dei singoli individui siano governate e orientate da neuroni nuovi e/o aggiornati, in fondo, in uno spicchio dell’animo, le abitudini del passato, le usanze e i costumi fondamentali, sembrano resistere vive e battere il tempo.

Da Pompei a Nardò: “cafuddhàre” e “scaffuddhùsu”.

di Armando Polito

Questa volta, facendo il cammino inverso, parto spazialmente e temporalmente  da lontano, cioè dalla fullonica che era nel mondo romano quello che oggi è per noi la pubblica lavanderia: si lavavano, tingevano, lavoravano e stiravano le stoffe. Una delle meglio conservate è quella di Stefano a Pompei (nella foto di testa l’atrium con il bacino dell’impluvium trasformato in vasca di lavaggio), mentre la più accurata descrizione delle varie fasi di lavoro è attestata da una serie di riquadri affrescati rinvenuti su un pilastro di un’altra fullonica ed ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Nel primo dei riquadri è visibile un operaio impegnato col cardum (spazzola con aculei) nella cardatura e nella garzatura; a destra un altro procede con una  specie di gabbia di vimini a cupola sulle spalle ed un secchio in mano: è la fase della solforatura, in cui la gabbia funge da supporto per i tessuti che vengono sbiancati dal fumo dello zolfo che brucia in un contenitore nella parte inferiore della gabbia; la civetta  alla sua sommità simboleggia Athena, protettrice dei lanaioli; sull’estrema sinistra una matrona prende una stoffa dalle mani di un’ancella.

Nel secondo tre schiavi fullones (lavandai) procedono al lavaggio dei panni pestati in apposite vasche che venivano riempite di un detersivo economico e di facilissima reperibilità, cioè una miscela di acqua calda ed urina1.

Nel terzo è raffigurata una grande pressa di legno con la quale i panni venivano stirati.

Nel quarto un operaio, vestito di una corta tunica, porge ad una donna un panno, mentre all’estrema destra una seconda donna seduta ha in grembo un oggetto che probabilmente è uno scardasso; sullo sfondo in alto sono stese delle stoffe.

I fullones del secondo riquadro ci consentono di completare questo viaggio nello spazio e nel tempo. Da questa voce nel latino medioevale si sviluppò il verbo fullàre (esiste anche la variante folàre) col significato di lavare i panni; poi fu aggiunta in testa la preposizione cum e da *cumfullàre nacquero il calabrese cufullàre=premere, nonché il nostro cafuddhàre=ingollare (in senso traslato imporre con la forza) e da questo i composti ‘ncafuddhàre e scafuddhàre; da quest’ultimo, poi la voce scaffuddhùsu (probabilmente incrociata con schiaffo inteso come a volte irresistibile reazione all’atteggiamento di sfida dello scaffuddhùsu)=ribelle con una punta di dispetto.

Insomma, una traslazione tutta metaforica dell’estremo sud (la voce, a quanto ne so, è assente nel dialetto napoletano) dall’originario significato tecnico di lavare i panni premendoli a quello di premere a forza il cibo in gola e di pestare i piedi per terra nel caso dello scaffuddhùsu.

E a chi ha letto riconosco, naturalmente, il diritto di fare lu scaffuddhusu

* Poco fa ho fatto la pipì. Con questa sgrassa i panni sporchi! Un tuo discendente parlerà di te su Spigolature salentine

**Ma va’ a cacare!

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1 A Pompei ben poche erano le case fornite di servizi igienici e la legge prevedeva che le sostanze di rifiuto dei vasi da notte (si chiamavano scàphium o làsanum o matèlla) venissero raccolte in appositi contenitori posti di solito nei sottoscala. Era praticata una vera e propria raccolta differenziata perché periodicamente i contenitori venivano svuotati e quelli contenenti l’urina, in particolare, rifornivano le lavanderie per la preparazione della miscela detergente di cui si è detto. Esse potevano contare, inoltre, su un approvvigionamento per così dire autonomo: all’angolo del vico in cui sorgevano era collocato un contenitore destinato al viandante che fosse colto da improvviso bisogno…

Sull’esistenza delle norme e sul non costante rispetto di esse il lettore che lo voglia può leggere il mio post La mondezza a Pompei all’indirizzo: http://www.vesuvioweb.com/new/IMG/pdf/La_mondezza_a_Pompei.pdf

Poi per i tintori vennero i tempi duri. Su quel detergente che fino ad allora non era costato nulla l’imperatore Vespasiano impose una tassa e a chi glielo rimproverava rispose col detto divenuto proverbiale Pecunia non olet (Il denaro non puzza).

“La complicità pugliese” per la santità di Giovanni Paolo II

 

di Giuseppe Massari

La santità per Giovanni Paolo II, quella invocata e gridata dai fedeli in piazza san Pietro, il giorno dei solenni funerali, sta per giungere a compimento. Infatti, il 1° maggio, egli sarà proclamato beato, tappa intermedia verso la ufficializzazione definitiva della piena santità, con il riconoscimento delle sue virtù eroiche, che potrà avvenire da qui a qualche anno. Di questo pontefice venuto da lontano, amato da tutti, perché instancabile pellegrino nel mondo, possiamo dire che non si è risparmiato per andare a cercare i lontani dalla fede e da Cristo. Fossero politici, capi di stato e di governo, gente povera, semplice, umile, ricca.

In questo lungo e continuo peregrinare vi è stata la Puglia, visitata e toccata dalla sua presenza per ben cinque volte. Anzi, come era solito fare all’inizio di ogni suo viaggio, quando si inchinava a baciare il suolo che lo avrebbe ospitato, possiamo e dobbiamo ricordare che per cinque volte ha baciato la nostra terra.

La terra della nostra regione, così ricca di tanta spiritualità, bisognosa anche della sua santità, della sua presenza, simbolo di una forza e di una resistenza fisica alla pari di quegli ulivi secolari faranno da sfondo, da cornice, da coreografia nella piazza che, ufficialmente, lo proclamerà beato, eletto, scelto, chiamato alla vera vocazione redentrice e corredentrice a cui ogni individuo, ogni cristiano è chiamato.

Gli ulivi di Puglia, i fiori, le piante, i colori della nostra regione accompagneranno il suo trionfale cammino verso la pienezza della sua vita,

Un antico e inusuale lavoro artigianale: l’impagliatore di sedie

di Raimondo Rodia
Impagliatore di sedie, un lavoro artigianale non ancora scomparso, grazie a persone come Andrea De Filippi, che ancora oggi a Lecce con pazienza ed ottimismo, porta avanti questo antico mestiere artigiano.
Una volta il mestiere era diffuso in particolare ad Acquarica del Capo famosa per essere il paese degli “spurtari”, (costruttori di sporte o canestri di giunco). Infatti l’artigianato locale produce questi contenitori sfruttando la materia prima che cresceva nelle malsane paludi che circondavano il paese.
I giunchi, una volta raccolti, subiscono una bollitura e una zolfatura che danno elasticità e resistenza caratteristiche che sono indispensabili per la loro lavorazione. Questi eccezionali artigiani che intrecciano i giunchi di palude per farne degli oggetti di fattura straordinaria furono premiati all’esposizione internazionale di Vienna del 1873.
Ma raccontiamo con le parole di Andrea De Filippi il suo lavoro quotidiano. “Usando le tecniche e i più comuni materiali, riesco a restaurare sedie di ogni tipo, epoca e stile, sgabelli bassi e alti, poltroncine, sedie a dondolo di ogni tipo, dai modelli classici in legno in stile ed arte povera, a quelli contemporanei che hanno bisogno dell’ impagliatura a “ scacchi ” con cordoncino e a “ spicchi ” con erbe palustri e filati più recenti.
La professionalità acquisita trova le sue origini nella passione per le tessiture su sedie, che ha visto evolvere l’acquisizione delle varie tecniche attraverso dieci anni di attività continuativa. La mia specializzazione è l’impagliatura di Vienna, una tecnica difficile e bisognosa di tanta pazienza e bravura”.
L’intreccio di Vienna nasce nei primi dell’ottocento dal genio artistico e creativo di Michal Thonet (1796-1871), considerato il padre della tecnica di curvatura del legno. Il mito e la storia della Gebruder Thonet Vienna divenne un’icona del design europeo. Con la sua produzione Thonet si dimostra non solo un abile artigiano e geniale designer dell’epoca, ma un vero e proprio pioniere del moderno processo d’industrializzazione: alla fine dell’800 infatti, la sua azienda era in grado di produrre quattromila pezzi al giorno, realizzati da circa seimila addetti.
L’arte dell’intreccio del giunco è antica e veramente artigianale. Prima di iniziare la lavorazione, le cortecce di ulivo e gli sterpi di moro, dopo essere stati raccolti, vengono levigati ed ammorbiditi con prolungati bagni d’acqua. La lavorazione poi prosegue come fosse un ricamo e ne ripete i punti: a croce, a stella, a tessuto, a rete.
E’ tutto un gioco di simmetria e di equilibrio; la stella del fondo richiama quella del coperchio, la treccia del manico quella del bordo, i colori delle decorazioni viola, verdognolo e bluastro, riproducono motivi di certi antichi tessuti locali.
I prodotti tipici di tale lavorazione sono: cesti, panieri, contenitori, forme per la ricotta, borse e altri oggetti tradizionali.
L’arte dell’intreccio è una maestria che appartiene a pochi, realizzato oggi, dalle sapienti mani di pochi artigiani.

Scuscitàtu: quando la preposizione diventa importante…

di Armando Polito

È intuitivo che il linguaggio si è evoluto da una forma primitiva molto probabilmente costituita da pochi fonemi di natura imitativa fino a giungere a quella che i linguisti chiamano arbitrarietà del segno, vale a dire l’assenza di qualsiasi rapporto tra significante (la parola) e il significato (il concetto che essa esprime). A complicare le cose, poi, sono intervenuti nel tempo altri fenomeni come i calchi, gli incroci, le voci gergali, le abbreviazioni, gli acronimi, il linguaggio degli sms e chi più ne ha più ne metta. Le parole composte perciò, e oggi mi riferisco a quelle il cui primo componente è una preposizione, in particolare l’ex latino, sembrano appartenere alla preistoria della lingua. D’altra parte proprio ex nella lingua originaria non aveva un valore univoco potendo assumere (sempre partendo dal significato di preposizione reggente il complemento di moto da luogo: fuori da) un valore estrattivo (o privativo)1 oppure intensivo2. Questa differenza sottile si perpetua talora nell’uso della stessa parola nella sua forma dialettale da un lato e in lingua dall’altro. È il caso di scuscitàtu che trova in escogitato il suo omologo formale. Entrambi derivano dal latino excogitàtu(m), participio passato di excogitàre, formato da ex (per il momento ne lascio volutamente in sospeso il valore estrattivo o intensivo) e cogitàre=pensare, a sua volta composto da cum=insieme+àgitare=mettere in movimento (agitàre, a sua volta, è forma intensiva di àgere=condurre). Nonostante l’etimologia assolutamente comune le due voci, però, hanno avuto un destino semantico diverso, quasi opposto, dovuto proprio al diverso valore assunto dall’originario ex.

La voce italiana, infatti, è rimasta in tutto fedele alla latina, dal momento che excogitàtu(m) significa trovato pensandoinventato, scoperto; la preposizione ex qui ha chiaramente un valore intensivo e l’intera voce una finalità semantica che parte dall’astratto, il pensiero, per giungere quasi al concreto, il risultato del pensiero.

Scuscitàtu, invece, significa libero da preoccupazioni di sorta e, nella sua accezione più spinta, strafottente: è altrettanto evidente qui il valore questa volta privativo dell’originario ex, nonché il permanere concettualmente nell’astratto e nel lambire appena il concreto se ad agitato diamo il consueto, comune significato di in preda a turbamento psicologico più o meno appariscente.

* Dottore, ora vuotami accuratamente la testa perché voglio starmene senza pensieri. Ci vuole molto?

**Primo: non sono dottore ma tua moglie si è raccomandata perché facessi io l’operazione. Secondo: c’è un po’ di roba e ci vuole tempo; se tu fossi stato un politico a quest’ora avremmo già finito…

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1Exoneràre (da cui l’italiano esonerare) è da ex+oneràre: alla lettera significa liberare da un carico.

2 Excèdere (da cui l’italiano eccedere) è da ex+cèdere: alla lettera significa avanzare fuori.

Lo zio pitagorico

di Pier Polo Tarsi

Se qualcuno non se ne fosse ancora reso conto, sappia che, tra tutte le scuole filosofiche sorte nell’antichità, a trionfare oggi è senza dubbio alcuno la tradizione del pensiero pitagorico. Questa, fondata sull’idea che il numero sia l’arché, il principio primo dell’universo e la chiave per comprenderlo, come un fiume inarrestabile ha attraversato i millenni della nostra storia, insabbiandosi talvolta in periodi di apparente torpore e riaffiorando di tanto in tanto nel corso dei secoli, per straripare infine impetuosamente nel mondo contemporaneo come forma di pensiero prevalente, dominante, persino ingombrante. Da Pitagora, a Platone, attraverso i neo-platonici prima e il Rinascimento poi, la tradizione si conservò, viaggiando per le tratte del mediterraneo e persino per la via della seta, resistendo all’oblio; con forza essa riaffiorò all’alba della rivoluzione scientifica moderna come perno della nascente scienza sperimentale in occidente, riecheggiando nel verbo di un Galileo che fu il più grande fra tutti nell’insegnarci come l’alfabeto in cui è scritto il libro della natura sia quello matematico. Ed il suo impeto fu poi irrefrenabile, tanto che al pensiero pitagorico si possono essenzialmente ricondurre tutti i progressi della scienza e della tecnica comunemente sotto gli occhi dei contemporanei; dalla calcolatrice, al computer, all’idea stessa di una scienza informatica, alla rivoluzione tecnologica del digitale, tutto ci mostra l’essenza pitagorica della mentalità trionfante, tutto è traduzione dell’idea che tutto il numero costituisca e tutto ad esso si debba ricondurre: un brano, un’immagine, un filmato digitale altro non sono che una conversione di qualunque realtà in segnali numerici da codificare, l’intera informatica, per esemplificare ancora, si basa sull’idea di elaborazione di dati nella forma di codice numerico. Ebbene, nonostante tutti si sia immersi quotidianamente in questi prodotti generati dalle intuizioni del pensiero pitagorico, nonostante le vite di ognuno di noi siano condizionate fortemente dalla scienza, dalla tecnica, dalle applicazioni tecnologiche più varie generate da questa corrente del pensare, vi sono alcuni individui che incarnano l’antica filosofia molto più rigorosamente di quanto facciano tutti gli altri, i giocatori di lotto.

Non mi riferisco a coloro che di tanto in tanto si danno al lotto presi dallo sconforto generato dalla crisi economica o incoraggiati da qualche sogno

Spigolatura linguistica: lu Riu, pasquetta dei leccesi

La pasquetta dei leccesi è ben nota in tutto il Salento per tenersi il martedì dopo Pasqua e per la denominazione de “lu Riu”. Su questo termine sono state proposte svariate e talvolta azzardate ipotesi. Il  prof. Emilio Panarese chiarisce finalmente l’arcano. 

di Emilio Panarese

Il toponimo Riu/ Ria/ Urìa è senza dubbio un oronimo, indica cioè un “luogo posto su un’altura”, anche modesta, com’è quella in questione (la città di Monteroni, a pochissimi km. da Lecce, non si trova forse ad un’altitudine di 35 m.?), come provano del resto due altri oronimi, vicinissimi a llu Riu, Monterone crande e Monterone Piccinnu (in origine Mont-Oriu, raddoppiamento del lessema oronimico, come Mongibello in Sicilia dal lat. mons e dall’arabo gebel).

L’Oriu, diventato per deglutinazione ortoepica e ortografica (v. in it. l’usignolo da lusignolo) lo Riu/ lu Riu, non ha nulla a che fare né con rio “ruscello”, né con brio, né con layrìon, “cenobio brasiliano” (l’autore di un recente ricettario di cucina rusciara sostiene addirittura che siano stati i leccesi ad estendere il segno lu riu a tutta la provincia!), né tanto

Il culto della Madonna Incoronata di Foggia

di Lucia Lopriore

La devozione mariana, soprattutto in ambito locale, stabilisce la totale prevalenza tra le scelte coeve dell’immagine della Madonna sotto i diversi titoli.

Si deve innanzitutto affermare che nei centri della Capitanata tale devozione, espressa sotto le diverse forme, è stata sentita e riproposta attraverso analisi storiche del fenomeno dalle quali si evince la presenza di una religiosità popolare sentita in modo pregnante.

Importante è accertare la provenienza storica, religiosa e culturale di tale culto che, generalmente, è fatto rientrare tra le pratiche più direttamente connesse a contesti di riferimento popolare.[1]

Il fenomeno dei pellegrinaggi mariani, in particolare, è senz’altro riconducibile alla transumanza.[2] Tra le mete dei pellegrini non può mancare la visita al santuario dell’Incoronata di Foggia. Tale titolo è dovuto alla corona che cinge il capo della Madonna. Il culto per la Madonna Incoronata risale all’XI secolo quando la Ella manifestò la Sua presenza su una quercia nel bosco l’ultimo sabato di aprile. Secondo la tradizione Ella apparve al conte di Ariano[3] mentre questi si trovava nella foresta  nei pressi del fiume Cervaro. Durante la notte una luce vivissima attraversò la selva. Il Signore attratto dal chiarore giunse ai piedi di una quercia dalla cui

“Pièttu”, ovvero dal sesso all’edilizia.

di Armando Polito

Sono tante le voci primitive dialettali che rivelano un’insospettabile poliedricità d’uso in una più o meno scoppiettante serie di derivate. Oggi è la volta di pièttu che, come l’omologo italiano petto è dal latino pectus. La divaricazione semantica tra italiano e dialetto comincia con sbittirràre, dal momento che, mentre quest’ultimo è sinonimo di traboccare,  l’omologo italiano, espettorare, ha assunto il particolare significato medico che tutti conosciamo. Eppure, entrambi sono dal latino expectoràre1=cacciare dal cuore o dall’animo, da ex=fuori da+pectus=petto, cuore, animo. Come si vede, la voce italiana, facendo riferimento solo al petto inteso come dettaglio fisico, ha traslato l’originaria gamma dei significati latini concentrandola solo in una significazione concreta e, per così dire, abbastanza schifosa, per quanto naturale, come tutte quelle legate alla produzione di sostanze di rifiuto.

Sbittirràre, invece, mostra rispetto all’italiano una divaricazione minore dal latino, nel senso che, a parte il suo uso in nessi concreti (sta sbittèrra l’acqua=sta traboccando l’acqua), la stessa voce compare anche in senso traslato con mantenimento del riferimento concreto alla voce primitiva

Madonna delle Grazie di Carosino: storia di un’antica devozione

Floriano Cartanì

Non c’è nel mondo cristiano, città o un villaggio, che non abbia un tempio o una cappella dedicata alla Vergine Maria, nelle sue innumerevoli denominazioni.  Anche Carosino, in provincia di Taranto, s’innesta a pieno titolo in questa consuetudine religiosa, certamente la  più remota sentita dai Carosinesi.

Il culto mariano carosinese ha radici antichissime anche se, storiograficamente, viene ricollegato alle tragiche vicende occorse all’antico casale proprio il giorno di Pasqua dell’anno 1462.  Fu la stessa comunità locale di allora, già da tempo profondamente legata alla Madonna, ad attribuire la scampata distruzione dei propri casamenti all’intervento prodigioso della Vergine Maria. La tradizione popolare racconta invece come, ancor prima di quella data, esattamente nel mese di febbraio, la Madonna apparve ad un pastorello sordomuto esprimendo la volontà  di far edificare su quella zona (l’attuale chiesa Madre di Carosino) un edificio sacro in Suo onore, che divenne in poco tempo meta obbligata degli abitanti del circondario e dei viandanti, per le numerose grazie che si ricevevano.

Oggigiorno degli antichi fasti di questo importantissimo sito religioso locale, rimangono purtroppo solo poche vestigia storiche, racchiuse essenzialmente nel prezioso e, a quanto si dice, miracoloso dipinto della Vergine. Gli elementi iconici dell’opera, fanno ascrivere il soggetto pittorico tra le matrici con chiaro influsso dell’arte bizantina. Esse sono costituiti dall’atteggiamento materno, dai lineamenti del volto e dal disegno delle mani della Vergine Maria istoriata, che emanano ancora oggi una  spiritualità molto intensa, così come testimoniano fotograficamente anche le piccole figure racchiuse in quadretti devozionali che attorniano l’altare maggiore.

Se di questo profondo culto locale appare sbiadita dal tempo la “traccia” storica, non è così per quanto attiene la devozione popolare, che risulta invece essere ancora viva nella fede mariana testimoniata dai cittadini locali.  Un apposito Comitato per la celebrazione della ricorrenza continua ancora oggi, a sollecitare e far sopravvivere questo ricordo dai forti sapori religiosi, che continua ad interrogare sulle motivazioni della fede nella tradizione popolare. A questo proposito un grandissimo slancio ad abbandonare per sempre la sterile pratica devozionale fine a se stessa ed abbracciare invece la vera forza che Maria porta con sè, racchiusa nel condurre al figlio Gesù Risorto, è stata sollecitata dalla presenza in loco del nuovo parroco. Si tratta di ripulire totalmente la becera superficialità che potrebbe accompagnare talvolta l’esteriorità del devozionismo, per dedicarsi invece a quello che più conta e cioè, nel nostro caso, amare la madre celeste alla quale lo stesso Gesù sul Golgota ci ha affidati. Significativo, a questo proposito, il messaggio di don Lucangelo, il quale ha più volte sottolineato come nell’avere bisogno di Gesù dobbiamo necessariamente rivolgerci proprio alla Madonna, in quanto nessuno come lei può raccontarcelo. Ma la fede, si diceva prima, si esprime anche attraverso la forma della festa religiosa e, per la Madonna delle Grazie Patrona di Carosino, come al solito il tradizionale cerimoniale prevede una parte prettamente religiosa, con la Santa Messa solenne, panegirico e processione del Lunedì di Pasqua; mentre per il giorno successivo, martedì, dopo la Messa Vespertina, è previsto il caratteristico corteo religioso serale di ringraziamento.

La parte civile, invece, come di consueto sarà curata con la presenza nel giorno di Pasqua e Pasquetta di ben due complessi bandistici ai quali, nella serata di martedì, si affiancheranno rinomati fuochi pirotecnici che concluderanno i festeggiamenti.

 

Ruffano festeggia San Marco, il protettore dell’udito

di Stefano Tanisi

ruffano – statua in cartapesta di san marco

San Marco si festeggia a Ruffano da tempo immemorabile, forse dal XII secolo, quando i monaci bizantini dipinsero nella loro chiesetta ipogea un affresco raffigurante il santo mentre si accinge a scrivere -in greco- il primo passo del suo Vangelo.

Il santo è invocato come protettore dell’udito: il 25 aprile, giorno in cui  ricorre le solennità dell’Evangelista, si distribuisce ai devoti un batuffolo di cotone imbevuto di olio benedetto, che applicato nel condotto auricolare, attenua il dolore sino a farlo passare. I numerosi ex voto in oro e argento esposti (per la maggior parte a forma di orecchio) testimoniano le grazie ricevute dai fedeli. Nella piccola cappella ruffanese, meta di numerosi pellegrinaggi, sono poste la reliquia e la statua in cartapesta dell’evangelista.

La mattina di questo giorno, si tiene la tradizionale Fiera di S. Marco, la più antica (XV secolo) fiera primaverile dei dintorni, con la quale si introducevano i frutti di stagione e si potevano acquistare gli strumenti da lavoro e i prodotti d’artigianato locale come le terracotte. In origine si svolgeva solo nello slargo antistante alla chiesa (c.d. borgo S. Marco) e già dall’Ottocento si è estesa nella parte sud del paese, divenendo oggi la più importante fiera-mercato del basso Salento.

In questo giorno di festa si può anche visitare la cripta dedicata sempre a San Marco (XII sec.), situata al di sotto della chiesa del Carmine. Si accede

Shamm El Nesim, ovvero la Pasqua in Egitto raccontata da Marianna

ph Youssef Ibrahim

PASQUA E PASQUETTA IN EGITTO

 

di Marianna Massa

Dopo il consiglio dell’amico Marcello Gaballo ho richiamato le mie conoscenze personali sulla Pasqua egiziana e sono anche andata a curiosare in vari siti religiosi copti e in alcuni blog egiziani per cercare testimonianze e informazioni su questo fenomeno che fossero quanto più vicine alla quotidianità e alla realtà di oggi.

La maggioranza dei cristiani in Egitto sono  copti e appartengono a una branca della chiesa ortodossa. Il loro calendario è diverso da quello cattolico e la Pasqua copta, come le altre festività religiose importanti, cade in genere una settimana dopo quella cristiana. In alcuni anni però le date coincidono e i copti e i cattolici festeggiano la Pasqua nello stesso giorno, come è accaduto l’anno scorso e nel 2007.

La Pasqua copta è preceduta da un lungo digiuno di 55 giorni in cui ci si astiene da tutti gli alimenti di provenienza animale, si rispetta quindi una rigorosissima dieta vegana.  Questo periodo è caratterizzato da un’intensa vita religiosa di preghiera e penitenza, un po’ come dovrebbero essere la nostra quaresima e la nostra settimana santa.

La più lampante somiglianza con la nostra Pasqua, o almeno quella che ho notato io, sono le uova di Pasqua, uova di gallina i cui gusci vengono colorati. Oggi però, anche in Egitto le uova di cioccolato stanno lentamente

“Cristo alla grotta” a Martina Franca

 

di Dora Liuzzi

È una chiesa antichissima in cui c’è una grotta. Una volta vi si accedeva da un incrocio, sito in via Paolotti, e il viottolo aveva al suo margine un’antichissima croce con i sacri simboli. Esso poi dava vita, lungo il percorso, a caratteristiche gradinate che rendevano faticosa l’andata e ancor più il ritorno.

Oggi questa chiesa è nascosta da palazzi non completati e ridotti a ruderi pericolosi per i bambini. Tali costruzioni si sono sostituite agli alberelli selvatici e soprattutto alle bellissime e profumate ginestre che, con i vari tipi di erbe officinali, rendevano tipica la flora di tale zona.

Sulla porta della sagrestia c’è la data del 1673 che è forse la data del restauro. All’interno è custodito un Cristo schiodato e morto; le sue ferite sono estremamente realistiche ed è ritenuto miracoloso.

Dal 17 novembre 1792 fu concessa l’indulgenza plenaria a tutti coloro che visitavano il tempietto e recitavano cinque Pater ed Ave il secondo venerdì

Il pianto della Madonna e il venerdì santo a Peschici

di Teresa Maria Rauzino
Il soffermarsi davanti alle immagini che raffigurano la passione di Cristo è una devozione molto antica della Chiesa. I cristiani si recavano in pellegrinaggio a Gerusalemme proprio per pregare nei luoghi in cui il Signore aveva vissuto le ultime ore della sua vita terrena, e dove il suo corpo era stato deposto dopo la morte. Tornati dal loro lungo viaggio, volevano tenerne vivo il ricordo: ecco perché incaricavano un pittore o ad un ceramista di raffigurare gli eventi della passione del Signore, la cosiddetta “via crucis”. In tal modo anche colo­ro che non potevano recarsi in Terra Santa erano in gra­do, guardando queste scene, di “rivivere” la passione di Gesù. Fermandosi a pregare davanti ad ogni stazione, il fedele si sentiva un suo discepolo, uno di quella schie­ra che lo seguiva a distanza, fedelmente, e talvolta anche infedelmente.

Ma la pratica della Via Crucis si affermò nel primo trentennio del Settecento. Il merito va ai grandi predicatori missionari: Sant’Alfonso de’ Liguori, San Paolo della Croce e San Leonardo da Porto Maurizio.

La “missione” fu, senza dubbio, uno dei più importanti eventi religiosi della storia della Chiesa; vi ricorrevano gli stessi vescovi per portare una parola di fede in mezzo alle rudi popolazioni contadine, vissute per secoli nella superstizione. Le “missioni” erano un fatto popolare, coinvolgevano emotivamente paesi interi per alcune settimane, ed il fatto era ricordato a lungo dai fedeli. Il ritmo della vita ordinaria era rotto dall’arrivo dei “Padri”, che si impegnavano in un duro lavoro pastorale per farsi capire, per suscitare un’emozione religiosa, per introdurre un clima di fede spontanea e immediata. La chiesa diventava il luogo delle pubbliche confessioni e del perdono; lì accadeva qualcosa di nuovo, che si sarebbe ricordato per generazioni.

LA VIA CRUCIS DI PESCHICI

E I QUADRI DI ALFREDO BORTOLUZZI

 

 

I cristiani del mondo occidentale sono rimasti, attraverso i secoli, molto legati al rito della via Crucis divulgato dai missionari. Le confraternite del SS.mo Sacramento e del Purgatorio ripetono, nelle domeniche di Quaresima antecedenti la Pasqua, la versione di Sant’Alfonso de Liguori (1696-1797).

Tramandata per generazioni, la Via Crucis di Peschici ha conservato in gran parte i ritmi e le cadenze antiche e presenta delle sfumature originali che è

I luoghi dell’Anima

Sua Maestà

di Simone Sapone

Nel raccontare le origini di Mirodìa non posso prescindere dal raccontare di certi luoghi, e di come hanno cambiato per sempre i miei occhi.
Sono luoghi al limite tra il reale e l’onirico e alcuni di loro li ho visitati prima in sogno che dal vivo.

Il Trono del Sole

Il trono del Sole, ad esempio, mi rimanda alla primissima infanzia.
In un ricordo (o sogno?) dai bordi sfumati mio padre mi porta nel bosco e nel centro di una radura vengo travolto da un’emozione impossibile da dire a parole.

Nel mio ricordo onirico l’ammasso di mattoni calcarei è più alto di diversi metri, una montagna di pietra e soffice muschio che si accende, quando una colonna di luce solare vi si posa, scendendo attraverso le fronde dei lecci;

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