Contadine e serpi nel Salento di fine Ottocento

CIVILTA’ CONTADINA DI FINE OTTOCENTO

A TU PER TU CON I SIPALI (seconda parte)

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

… Ora, se questi ultimi, con la scusa di evitare una possibile insolazione, si fasciavano la fronte con una pezzuola intrisa di aceto il cui afrore si diceva mettesse in fuga le serpi, le donne impegnate in quello che era il normale quotidiano campestre ricorrevano a un  rimedio sostanzialmente diverso, e tuttavia ugualmente incentrato sulla meccanica dell’elusione ottenuta attraverso la costrizione.

Non  potendo circolare tuttu lu santu ggiùrnu (tutto il santo giorno) con sulla testa la pezzetta acetata, costrette com’erano a un continuo spoleggiare da un  pizzo all’altro del campo, avevano convertito la fisicità dell’effetto aceto nell’impalpabilità del plagio mentale, affidandone il processo di attuazione a una formula di scongiuro goffamente intrecciata fra azione ipnotica e rituale magico:

Sacàra sacaréddhra

nfucàzzate a pittéddhra.

Sacàra sacaròna

ddenta nna cilòna.

Sacàra sacaràzza

piérdite tune e ttutta la razza.

 

Sacara sacarella / acciambellati a pizzella. / Sacara sacarona / diventa una tartaruga. / Sacara sacaraccia / perditi tu e tutta la razza.

Come e quanto questa formula agisse da rassicurativo psicologico, lo si desume dalla stessa progressione del pensiero, ossia da come si evolve il modo di porsi rispetto alla sacàra. Il vezzeggiativo sacaréddhra si propone come frutto di un’interiorità timorosa, quasi scandita dalla soggezione, e il susseguente invito ad acciambellarsi, a star buona, a non nuocere, farebbe pensare a un approccio amichevole se improvvisa, quasi a tradimento, non scattasse una figurazione precisa e oltretutto emblematica ai fini della manovra di condizionamento.

L’inganno, o se vogliamo il principio attivo della formula, sta infatti proprio nel riporto simbolico che vuole la sacàra  acciambellata a ppittéddhra, un dolce natalizio che, se pure a forma circolare, non aveva buco centrale e quindi figurativamente mal si adattava all’acciambellarsi della serpe, che invece

Tentata fuga da una Casa di riposo

Albert Anker – Passeggiata scolaresca

di Raffaella Verdesca

Non lo sopportava, non avrebbe mai potuto.

Lei, Preziosa Satti, insegnante in pensione, dopo quarantacinque anni di onorata carriera, non riusciva a tollerare neanche l’idea di un tempo Condizionale usato al posto di un Congiuntivo: meglio la morte.

Aveva iniziato a diciannove anni la sua crociata contro l’ignoranza e solo due anni dopo attuato il tentativo di svuotare il cervello degli studenti dalla zavorra che lo infestava per legge naturale.

“Uhmm, vediamo cosa esce dalla testa di Ferruccio Rago: erba medica, paglia e un bel raglio d’asino!” la mattina passava in rassegna, una per una, le teste dei suoi alunni dopo un’interrogazione andata male. Tutti ridevano di tutti, tanto nessuno scolaro, dalla prima alla quinta Elementare, si sarebbe potuto salvare da questo pestaggio verbale.

Eppure, dopo i suoi innumerevoli cicli didattici, uno era rimasto l’alunno più indigesto alla Satti: Pietrino Sangallo, il figlio del sacrestano. La vecchia maestra se lo ricordava bene: secco come un chiodo, biondo di capelli e con uno sguardo talmente furbo, che pochi ne aveva incontrati così nella sua carriera scolastica. Era il 1952 e in quell’anno le era toccato insegnare alla scuola “Edmondo De Amicis”, in un paesino sperduto dell’entroterra lucano. Ad esclusione del signorotto del posto, lì la miseria alitava sul collo di tutti e un paio di braccia in più nel lavoro dei campi erano una manna dal cielo per ogni famiglia.

“Se io continuerei ad andare a scuola, poi mio padre che fa? Chi potesse aiutarlo a mantenere mia madre e i miei fratelli?” si era giustificato un giorno Sangallo dopo due mesi d’assenza dalle lezioni. Tutta la comprensione del

La spiulèddha, un caso di razzismo botanico…

di Armando Polito

Alla spiulèddha l’amico Massimo Vaglio ha dedicato con la consueta bravura un recentissimo post. Le mie considerazioni saranno, perciò, solo di natura filologica e dettate dalla simpatia che, essendo tutt’altro che attraente, provo per tutto ciò che, almeno apparentemente, non gode, nell’immediato, di una grande considerazione anche da parte di persone di notevole intelligenza.  Pure io, però, indipendentemente dall’intelligenza che lascio agli altri giudicare con benevolenza non pietosa, tra Manuela Arcuri e una cozza…E la Manuelona nazionale non me ne vorrà se la userò come metafora per dire che tra lei e una cozza c’è lo stesso rapporto che intercorre tra la spiulèddha e il melone. Un rapido sguardo ad alcuni dei  sinonimi citati da Massimo (meloncella, menuncèddha e cucumeddha) conferma per spiuleddha la forma diminutiva. Infatti la nostra voce, come dimostra la variante di Melpignano (spurièddha), quella di Galatina e Ruffano (spiurèddha) e soprattutto quella di Parabita (sburièddha) è diminutivo da sbùria che, come il corrispondente italiano spuria è dal latino spùri(am), accusativo femminile dell’aggettivo spurius/a/um=spurio, illegittimo, bastardo, che ha origine etrusca e non è, come si potrebbe suggestivamente supporre, da ex privativo+purus. Insomma tutta la negatività della voce risulta appena appena ingentilita dal diminutivo nella nostra spiulèddha che, perciò, alla lettera, significa piccola bastarda, in contrapposizione, naturalmente al sanguepuro (me lo invento dal momento che purosangue è stato  riservato, sempre dall’uomo…, al cavallo) melone. Quanto agli altri sinonimi, per alcuni parla altrettanto chiaramente  il suffisso (questa volta, a scanso di equivoci, dispregiativo) –àzzu (corrispondente all’italiano –àccio) (cummarazzu, cucumbarazzu), sicché solo pagghiòtta del Brindisino e Tarantino (che trova il suo omologo nel Leccese in paddhòtta e in italiano in pallotta=piccola palla, oggetto di piccole dimensioni e forma tondeggiante) sembra essere, tra tutti, il meno offensivo e razzista.

Salento terra di santità. I Servi di Dio di Carpignano, Casarano, Castellaneta, Castrì, Ceglie, Cisternino e Copertino

di fra Angelo de Padova

 

Fra Francesco da Carpignano, pio, osservante delle Sante leggi, caritatevole, obbediente, devotissimo all’Immacolata. Morto il 1°marzo 1645. Frate minore.

Fra Gaetano di San Francesco da Casarano, distintosi per le virtù dell’obbedienza, povertà e carità. Morto a Oria il 10 agosto 1785. Frate minore.

Fra Bartolomeo da Castellaneta, morto l’11 settembre 1652. Ottimo predicatore e devotissimo alla Madonna del Carmelo. Frate minore.

Suor Cherubina Perrone di Castellaneta morta nel 1682. Morta con l’odore soave della santità.

Fra Primaldo Marulli da Castrì: rifulse per la carità e la regolare osservanza. Morto il 16 febbraio 1854. Frate minore.

Venerabile F. Angelo Vitale da Ceglie,  nato il 26 novembre del 1595; morì

Storie di piccioni e di ciabattini tra Marittima, Diso, Castro e Andrano

torre colombaia, ph Rocco Boccadamo

I piccioni, nel palummaru della “Arciana”

e secondo il racconto del ciabattino

di Rocco Boccadamo

Costeggiando e tenendo a manca la civettuola villetta con fontana a zampillo di Piazza della Vittoria, sorta nello slargo già denominato “Campurra”, che, sino a cinquantacinque/sessanta anni fa, era in parte occupato dalla cappella di S. Giuseppe e, per il resto, fungeva da campetto alla buona per giocare al calcio, s’imbocca via Giuseppe Parini che, praticamente, delimita, in quel senso direzionale, il vecchio centro abitato di Marittima e, una volta superato l’incrocio con via Murtole, recente nastro d’asfalto su cui s’affaccia uno sparuto numero di costruzioni, segnando in prevalenza, d’ambo i lati, i confini di fondi agricoli, inizia la cosiddetta via vecchia per Andrano.

Il primo appezzamento di terreno che scorre sul relativo versante sud è storicamente denominato “Arciana”, accezione di significato sconosciuto, almeno per lo scrivente, contraddistinto, lungo il confine con la strada, da un’infilata di bellissimi, datati e svettanti pini, dagli ampi cappelli di verde che sembrano sfiorare insieme sole e cielo.

Più o meno al centro della “Arciana”, si erge una solida e massiccia torre colombaia (in dialetto, palummaru), per stagioni secolari in funzione di rifugio, praticamente casa e nido, grazie alla ragnatela di cellette ad incollo ricoprenti l’intera estensione interna delle pareti cilindriche, di nutrite colonie di colombi o piccioni.

Nei tempi andati, tali volatili abitatori si annoveravano, a buon titolo, fra gli animali domestici o da cortile, seppure allevati in libertà e a campo aperto senza reticolati,  il loro  nutrimento consisteva unicamente in semi, erbe, insetti, larve, frutti sui rami o avanzi dei medesimi caduti sulle zolle rosse, davano carni assolutamente commestibili, anzi di particolare leggerezza, digeribilità e pregio.

Sicché, di frequente, finivano con arricchire la tavola delle famiglie abbienti, benestanti. Inoltre, anche da parte dei nuclei comuni e poveri, non si mancava d’acquistare almeno un esemplare di colombo, allo scopo di preparare un brodo e una pietanza speciali per le puerpere: piccolo segno di festa in ogni grande evento, quale, al paesello, era considerato l’avvento di una nuova nascita.

I ragazzini della metà del ventesimo secolo, fra i quali il sottoscritto, avvertivano sin  da lontano il vociare dei pennuti del palummaru , risuonante a guisa di un coro, una successione di uhù, uhù, uhù…, che, nel sentire e nella suggestione di quelle individualità infantili e ingenue, s’interpretava come Gesù, Gesù, Gesù…, la qual cosa incuteva sprazzi di timore, se  non di vera paura.

Oggi, purtroppo, degli antichi, familiari e domestici colombi, non residua alcuna traccia, sulla cinta di copertura e nelle cellette del palummaru s’aggirano sparuti esemplari di piccioni che, già osservandoli a distanza, danno l’idea d’essere come spaesati, imbastarditi, identici, o quasi, a quelli presenti in abbondanza fra i condomini e negli spazi delle città, che, però, non rendono più alcun contributo utile alle mense, anzi nessuno s’azzarderebbe a mangiare la loro carne, al contrario creano problemi, giacché, con i loro escrementi, imbrattano, su scala diffusissima, edifici, monumenti, chiese, balconi, cortili, inferriate, al punto da far sorgere una linea di produzione, un mercato di aggeggi, marchingegni dissuasori e ritrovati vari anti colombi.

Adesso, com’è noto, si vive in un contesto, una sorta di cornice di globalizzazione di portata planetaria e, invero, non si fa che parlarne e sottolineare a ogni piè sospinto tale realtà che avrebbe rivoluzionato tanti aspetti, lo stesso metro esistenziale e d’abitudini.

Tuttavia, il concetto di coinvolgimento collettivo e d’interazione allargata non è un’autentica novità, si manifestava nei fatti e nelle azioni concreti, pure nel secolo e nei decenni trascorsi.

Ad esempio, le comunità di Marittima, Diso, Castro e Andrano, sebbene separate da qualche chilometro di distanza e collegate da arterie strette, sconnesse e martoriate dai solchi dei traini, erano ambiti di scambi e d’incroci di frequentazioni, scenario reale e antesignano di piccole globalizzazioni interpaesane, in seno agli abitanti ci si conosceva in  molti. E ciò era, già di per sé, bello.

ph Rocco Boccadamo

Si snodavano minuscoli cortei umani, sullo stimolo di devozioni religiose, ma, parimenti, alla ricerca di divertimenti, svaghi, incontri e così via, ogni domenica e, particolarmente, in occasione delle feste patronali.

Il giorno d’oggi, sembra un paradosso eppure, nonostante la disponibilità e la diffusione in termini massicci, di mezzi di comunicazione e di contatto, raramente sono vissuti e alimentati effettivi e personali tratti di frequentazione e reciproca consuetudine al di fuori dai confini comunali o della singola, propria località e comunità.

Eccezione, in confronto al quadro della realtà così radicalmente evolutasi e mutata, ad Andrano, permane verde un “pezzo d’antico”, un riferimento desueto, nella persona di un  artigiano, meglio dire un calzolaio, Maestro D., classe 1930. Egli incarna, oltre che l’operatore tradizionale al desco da ciabattino, il gestore di un’utile bottega, anche l’animatore e la voce di un minuscolo ma attivo salotto vecchia maniera.

E’ originario di Diso, Maestro D., dove ha esercitato il solito mestiere in collaborazione con il padre sino alla prima giovinezza, servendo una vasta clientela sia a Diso, sia e soprattutto nella più popolosa frazione di Marittima, intessendo intense conoscenze  in special modo con le famiglie di ceto medio elevato, le quali, chiaramente, meglio potevano permettersi d’ordinare calzature di pelle e cuoio di manifattura spiccatamente artigianale.

Sposatosi, si trasferì in Andrano.

Adesso, Maestro D., di scarpe nuove ne confeziona poche, mentre è impegnato da una buona domanda d’interventi di riparazione su calzature moderne, non necessariamente di cuoio e pelle, ma pure di para, plastica e stoffa: il ciabattino sopravvissuto è in grado di porre rimedio un po’ a tutti i leggeri e gravi deterioramenti.

Da quando ho fatto ritorno nel Salento, anch’io sono divenuto cliente di Maestro D., in proprio e ancor più per conto di mia figlia, la quale vive e lavora all’estero, ma, in occasione dei saltuari weekend e/o vacanze da queste parti, non manca mai di portarsi appresso qualche paio di scarpe per l’amico artigiano.

Interessante si rivela che, a ogni accesso alla bottega di Maestro D., si ha agio di recepire un fatto, o ricordo o racconto inedito. L’altro giorno, al mio accenno che per raggiungere Andrano in  motorino ero passato davanti alla “Arciana” e al “palummaro” , il calzolaio ha prontamente fatto notare che quel fondo, in anni lontani, è stato per lui un abituale territorio di caccia.

Già, perché lo sport venatorio ha rappresentato da sempre la sua principale passione.

Difatti, fece domanda per il rilascio del porto d’armi a 18 anni, all’epoca ancora minorenne e, perciò, con la necessità dell’assenso paterno; dovette versare una tassa di concessione governativa di 1300 lire e acquistare marche da bollo per altre 850 lire. L’agognato porto d’armi giunse in prossimità del Natale 1948 e Maestro D., ansioso di toccar con mano il tanto sognato permesso, si spinse addirittura a fare  pressioni sul  Sindaco, in modo che la pratica fosse perfezionata a stretto giro. Osservazione di quel primo cittadino: “Maestro D., ma proprio in questi giorni di Natale è atteso l’arrivo di tanti…piccioni?”, laddove non mancava una chiara, maliziosa allusione a bersagli tutt’altro che volatili.

Maestro D. acquisto il suo primo fucile, usato, per 17.000 lire, dopo di che, per la messa a punto e previa prudenziale richiesta e ottenimento di un preventivo di spesa nell’ordine di ulteriori 14.000 lire, gli tocco d’inviare l’arma ad una famosa casa di produzione del bresciano. Per maggiore garanzia, Maestro D. preferì rivolgersi al più lontano e costoso indirizzo e  non far capo ad un artigiano d’Andrano, tale “Rondone” di soprannome, un autentico genio, il quale costruiva e affilava falci per lavori agricoli, ma sapeva anche costruire, riparare fucili, avancariche eccetera. Prova ne è che, emigrato a distanza di tempo in Lombardia, si occupò in una grande azienda del settore, svolgendo il compito d’istruttore dei giovani operai.

Ritornando al tema delle sue conoscenze e dei rapporti dei tempi passati, Maestro D. mi ha chiesto notizie sugli eredi di una determinata famiglia del mio paesello, non  senza regalarmi la chicca della notizia che, nel momento della dipartita, intorno al 1950, del capo della medesima famiglia, gli fu ordinato e, insieme con il padre, dovette confezionare lavorando anche la notte, un paio di scarpe in capretto: un cult, frutto della volontà e della speranza  dei congiunti, di poter così rendere comodi e leggeri i passi del viaggio del loro caro, con traguardo l’aldilà.

Mario Cala, parabitano doc

MARIO CALA: L’UOMO DAI MILLE VOLTI

 

di Paolo Vincenti

La scrittura, la poesia e la pittura si intrecciano nella  variegata carriera artistica di Mario Cala, parabitano doc, un passato da sportivo e insegnante di educazione fisica di cui rimane traccia nel suo fisico robusto ed asciutto, come quello di un ragazzino, a dispetto dei suoi settanta anni e più di età. Fra i primi operatori culturali parabitani, Mario Cala, ex ufficiale carabiniere, ex insegnante elementare, è oggi un distinto signore che non lesina energie in fatto di ricerca storica, di scrittura e di promozione territoriale della sua adorata madre patria Parabita. Uomo garbato e gentile, sempre disponibile con gli altri, subito pronto, quando la conversazione tocca argomenti a lui congeniali, ad investirti come un fiume in piena di parole, di conoscenze e di saggezza. Mai a corto di ironia e di nuovi progetti, Cala, Vice Presidente della Società di Storia Patria-Sez. di Gallipoli (di cui è Presidente Vitantonio Vinci), è autore di numerose pubblicazioni in cui ha toccato  i più disparati argomenti, da quelli letterari e storici, alla cronaca giornalistica, alla poesia, in lingua e in vernacolo, al teatro, allo sport,  che hanno contribuito a far luce sia sul passato remoto che sul passato più recente della sua adorata Parabita e del Salento.Con Ortensio Seclì e Aldo D’Antico, suoi amici e sodali, costituisce la  aurea triade della pubblicistica parabitana, la “vecchia guardia”, se così si può dire, dove il termine “vecchia” non vuole ovviamente riferirsi al  fattore anagrafico, ma  vuole invece connotare  l’anzianità di servizio dei tre, vale a dire la loro

Gallipoli. Una questione di patronato nella chiesa dei domenicani

Una questione di jus patronato

Vicenda storica dell’altare di San Tommaso d’Aquino nella chiesa del S.mo Rosario e di San Domenico in Gallipoli

di Antonio Faita

Considerata la grande diffusione che, soprattutto dal XV al XVII secolo, ebbero in tutto il Meridione d’Italia gli ordini monastici non meraviglia affatto che a Gallipoli si fosse fondato un convento, con annessa chiesa dell’ “ordo predicatorum” ossia dei frati predicatori, comunemente chiamati «Domenicani», prendendo il nome del loro fondatore San Domenico.

Sin dal loro arrivo a Gallipoli, nel 1517 i Reverendissimi Padri edificarono il loro convento con la chiesa ad esso attigua sotto il titolo di Maria Santissima Annunziata, sulle rovine dell’antico monastero dei Padri Basiliani[1]. Dopo quasi due secoli l’originaria chiesa mostrò le offese del tempo e si rese necessario procedere alla sua riedificazione. L’impresa della ricostruzione della nuova chiesa, avvenuta nel 1696 e terminata nel 1700, fu certamente l’episodio più espressivo della presenza dei domenicani a Gallipoli nei secoli dell’età barocca. Della vicenda relativa l’abbattimento e la successiva ricostruzione della nuova chiesa, ad opera del “magister fabbricator” di Martano, Valerio Margoleo e del suo “clan” se ne è occupato, per la prima volta, in maniera ampia e dettagliata, lo storico Mario Cazzato, nel suo saggio del 1978[2].

Fino al 1684, però, nessun elemento lasciava intravedere la necessità di una sua ricostruzione, anzi, i frati avevano programmato di ampliare la “loro” cappella, intitolata a San Tommaso d’Aquino, occupando lo spazio di quella attigua

Pingula pingula… antiche filastrocche

Albert Anker I bambini

di Armando Polito

Lo spigolautore Rocco Boccadamo proprio all’inizio del suo recente post Un’antica filastrocca e la chiapparata del camposanto riportava il testo che giù riproduco, definendolo una filastrocca alla buona, vuota di significati e nessi e, perciò, leggera, autenticamente d’altri tempi, sopravvissuta a stagioni, abitudini, modi d’essere, soli e cieli lontani.

Pìngula, pìngula, barbarìa,

vi ce dice la mescia mia,

la mescia mia, la Pignatara,

vi ce dice la cucchiara,                

la cucchiara netta netta,

vi ce dice la trummetta,

la trummetta tuu, tuu,

essi fori, ca tocca a tu.

Quanto osserverò è un tentativo di fornire le prove del giudizio che ho citato, anche se io andrei cauto con il vuota di significati e nessi, convinto come sono che anche le più astruse testimonianze del passato ci appaiono tali solo perché ci sfuggono alcuni riferimenti che l’inesorabile trascorrere del tempo ha reso via via più labili fino, paradossalmente, ad indurci nell’errore opposto, quello di attribuire al documento un significato arbitrario in virtù di qualche segnale che ci è parso di dovere interpretare in un certo modo; senza tener conto degli errori di trascrizione e del pericolo, direi congenito ai bambini (solo a loro?…), di deformazione delle parole.

Ma voglio partire da quel sopravvissuta a stagioni, abitudini, modi d’essere, soli e cieli lontani, riportando altri testi (in numerazione progressiva) che rientrano come il nostro nella categoria delle filastrocche popolari finalizzate nei giochi alla fase della conta che si operava da destra a sinistra sillabando, appunto, delle filastrocche e toccando per ogni sillaba ognuno dei giocatori; colui sul quale cadeva l’ultima sillaba ricopriva il ruolo che era stato stabilito all’inizio (capogioco, primo giocatore, etc. etc.).

Mi avvarrò di un maestro del settore: Giuseppe Pitrè.

1) Dal suo Curiosità popolari tradizionali, L. P. Lauriel, Palermo, 18901. Alle pagg. 12-13 (sezione Alcune tradizioni ed usi nella penisola sorrentina): “Pingula! Pingula! è un altro giuoco. Si raccolgono parecchi ragazzetti e si pongono in giro da formare una ruota, e con gl’indici destri sul ginocchio del padrone. Il quale col suo indice destro, toccando su ciascun dito, ad ogni parola, recita:

Pingula pingula, mio Martino,

Cavaliere ‘e la Regina,

Uno vaje pe’ la Spagna,

Pe’ truva’ li quinnece anne.

Io ho la gallina zoppa,

Vaje pe’ la rocca,

Rocca romana,

Sciola a la fontana

Sciola à fontanella,

Iesce tu ca si’ ‘a chiù bella.

Iemme a la sera accatta’ bottune,

N’accattammo ciento e uno,

Ciento e uno  e ‘na patacca.

Uno, lu ruje, lu tre e lu quatto.

Culu cucù, culu cucù,

Ausa l’anca, lu peru e curre.

Chi esce deve andarsene con un sol piede e porsi vicino al muro, solendosi praticare in mezzo alla strada. La padrona, sotto voce, domanda all’orecchio di ciascuna delle altre ragazze: – Tu che vurrisse? ‘Nu canisto r’oro?- -Sì- e la manda via. All’altra: -Vulisse ‘na campana rotta?- -Sì- Ad una terza: –      Lu sierpu ‘nturcenatu vecina a le gambe?- E così a ciascuna, servendo queste parole di segno convenzionale. Chiede a quella, che è uscita: -Vulisse ‘na campana rotta?- Eccetera, eccetera. Quando le piace, si ferma. E costei deve andare a prenderla e portarla sulle spalle. Indi di nuovo la padrona chiede: -Da to ne viene?- – Ra la fornace- -Torna ra qua, torna ra dà, ca staje pace!- Se ne torna nuovamente in ispalla. la padrona rinnova la richiesta. Invece della fornace dice: -Ra lu furniddu- -Torna ra quà, torna ra dà, ca staje friddu!-”.

Non è che la descrizione del Pitrè mi abbia aiutato molto a capire l’effettivo svolgimento del gioco, anche se una trattazione più chiara certamente non avrebbe gettato luce sul senso della filastrocca che, però, pare intessuta di elementi storici, probabilmente politici al tempo in cui nacque (Cavaliere, Regina, Spagna) e della cultura contadina (gallina, fontana, fontanella, bottune), questi ultimi quasi esclusivi della parte, per così dire, dialogata del gioco (canisto, campana, sierpu, fornace, furniddu). Sulle prime due parole della filastrocca (pingula pingula) in comune con quelle del documento di partenza ritornerò dopo.

Dopo la filastrocca campana eccone altre registrate dallo stesso autore nel testo Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, L. P. Lauriel, Palermo, v. XIII, 18832, nella sezione Canzonette e filastrocche dei fanciulli per contarsi.

2) A pag. 28, per Ragusa:

“Spinguli spinguli s’arrimina

‘N capu ‘u lettu d’’a rigina.

Rigina spagnola;

Tiritàppiti, nesci fora!

Fora quaranta,

Tuttu lu munnu canta,

Canta lu jaddu

Appisu alla finèscia

Cu tri palummi ‘n testa:

Jaddu, jaddina, Palermu e Missina”

Ancora elementi storici (rigina spagnola) e della cultura contadina (jaddu, palummi, jaddina). Il Pitrè stesso  a pag. LXIII  di Giuochi fanciulleschi siciliani, L. P. Lauriel, Palermo, 1883scrive: “Nella canzonetta ragusana Spinguli spinguli s’arrimina non è fuori del probabile la ricordanza di Simone Chiaramonte, che volle assediare la regina spagnuola Bianca, e poi fu appiccato alla finestra di una torre; ma non oserei affermarlo”. Debbo dire che apprezzo questa dichiarata mancanza di audacia dal momento che tutte le fonti che ho consultato parlano della morte di Simone Chiaromonte poco tempo dopo che per intrighi di potere gli venne precluso il matrimonio (il volle assediare del Pitrè deve essere letto metaforicamente?) con la principessa (non regina!) Bianca, sorella del re; fra l’altro, si sparse la voce che si fosse suicidato per la delusione o che, addirittura, fosse stato avvelenato (e qui l’interpretazione metaforica, ammesso che ci fosse, di appiccato alla finestra di una torre diventerebbe veramente problematica…).

3) a pag. 29 per Alcamo

“Pingula pingula maistina

Di Palermu la Rigina,

Centu quaranta

Tuttu lu munnu canta;

Canta lu gaddu,

Rispunni la gaddina.

Manna la Francischina

Affacciata a la finestra

Cu tri palummi ‘n testa,

Bianca bianchina

Palermu e Missina”

4) a pag. 31 per Palermo

“Pingula, pingula maistina,

‘Na paletta di rigina

Cu l’aneddu ppiscaturi

Chi ti vegna ‘u bon amuri!

Bon amuri e tricchitrà:

Un, dui, tri e quà”

Nella stessa pagina l’autore invita ad un confronto con:

5) il canto n. 24 della raccolta di G. Amalfi e E. Correra Cinquanta canti popolari napolitani, Ambrosoli, Milano, 1881

“Spincula spincula San Martino;

O cappelletto ra regina,

O cappelletto re spade,

L’ainiello va jettanne,

Va jettanne e tricche tracche

Una, roie, tre e quatte”

6) il canto abruzzese riportato da Antonio De Nino in Usi e costumi abbruzzesi, v. II, Barbera, Firenze, 18814, pag. 91 (reperibile all’indirizzo http://www.archive.org/stream/usiecostumiabruz02ninouoft#page/88/mode/2up) pag. 91

“Pinguija, pinguija, San Martino;

La cavalla de la regine.

È menùteju spaccaterre

Pi sparti’ la robba bella”

7) La Corsa di Pontelagoscuro, in Giuseppe Ferraro, Canti popolari di Ferrara, Cento e Lagoscuro, Taddei e figli, Ferrara, 1877, pag. 1425; riporto direttamente dal testo originale (insieme con la descrizione del gioco) perché la citazione del Pitrè contiene alcuni errori e stranamente6, un taglio che ha salvato solo i primi due versi:

“Mìngula màngula,-Par matina,

Son la fiola – Dla regina,

E mo gnuda, – To surela

A spartir, – La roba bela.

Gran gron –Rampin Giuda.

Cava la rava,- Mettla int la busa.

Si fa un circolo di ragazze. La direttrice del giuoco le tocca una per una, pronunciando uno dei suddetti mezzi versi; colei, su cui cade l’ultimo deve inseguire le compagne alla corsa fino a tanto che tutte non le abbia toccate”.

Il Pitré ha riportato dal testo indicato al n. 5 solo la cantilena in cui è nominato San Martino; io  riporto anche le altre tre in cui compare la voce iniziale del testo da cui è partita la nostra indagine:

8) pag. 90

“Pingula, pingula sotto la spina,

Mina ferrà, ‘ntona de là.

Cippe palumme, cippe palumme,

Mena la palma lu mese de giugne”

9) pag. 91

“Pingula, pingula,

Caccia la spingula;

Fuse e cucchiare,

Patella e callare”

10) “Pingula, pingola, ammattonà

Ca va ‘lletto la regina.

Damme ‘nu ba’, damme ‘nu ba’,

Tienghe ‘na figlia che sta gioca’;

E se gioca le ventiquattre,

Uno e due e tre e quattre”

È tempo di tornare al documento iniziale, che riproduco per facilità di lettura, e di trarre le conclusioni.

Pìngula, pìngula, barbarìa,

vi ce dice la mescia mia,

la mescia mia, la Pignatara,

vi ce dice la cucchiara,                

la cucchiara netta netta,

vi ce dice la trummetta,

la trummetta tuu, tuu,

essi fori, ca tocca a tu.

Va notato che rispetto alle altre cantilene la nostra dal punto di vista metrico è meno reprensibile (due quartine, la prima di novenari, la seconda di ottonari; tutti i versi sono a rima baciata). Quanto al contenuto, noto  i soliti riferimenti al mondo di allora, dal mestiere (pignatara7, lo scriverei con l’iniziale  minuscola), all’ attrezzo domestico (cucchiàra8) al giocattolo (trummetta).

Dico brevemente della voce che ripetutamente mi sono riservato di esaminare alla fine: pìngula.

Considerando che essa compare in cantilene per lo più riguardanti la conta e che la stessa cantilena doveva essere recitata dal “maestro” o dalla “maestra” del gioco, non mi pare azzardato supporre che il dito protagonista indiscusso fosse metaforicamente un pungolo e che, sostanzialmente, pìngula sia una variante di spìngula (spillo), dal latino tardo spìnula(m), diminutivo del classico spina, attraverso spignula (variante di Carovigno). Non credo, invece, che vada presa in considerazione la locuzione camenare pìngulipìnguli registrata dal Rohlfs col significato di camminare lentamente e con incertezza e tratta da Enrico Bozzi, I tesori del nostro dialetto. Libro per gli esercizi di traduzione dal dialetto leccese, parte III, Milano, senza anno.

traduzione dal felino in neretino:

*Pingula pingula, a Armandu Politu/li face tantu schifu lu bollìtu/quantu invece pi nui la scatuletta,/no queddha marcata, ggh’è pperfetta./Pingula pingula cumpare mia,/osce pacenzia e cusì sia!/Ha dittu la conta ca sî sfurtunàtu:/la scatoletta tua m’àggiu mbac-ca-tu!

** No tti  pinsare ca standu cu Ppolitu/mi faci ddivintare rimbambìtu./La fazzu iò la conta quand’è ccrai/ e la scatoletta tua tocca mmi tai.

traduzione dal neretino in italiano:

*Pingula pingula, a Armando Polito/fa tanto schifo il bollito/quanto invece per noi la scatoletta,/ non quella economica, è perfetta./Pingula pingula, compare mio, oggi pazienza e così sia!/Ha detto la conta che sei sfortunato: la scatoletta tua ho divorato!

Non pensare che stando con Polito/mi fai diventare rimbambito. La faccio io la conta quand’è domani/e mi dovrai dare la tua scatoletta.

________

1 http://www.archive.org/stream/curiositpopola08pitruoft#page/12/mode/2up

2 http://www.archive.org/stream/giuochifanciull00pitrgoog#page/n0/mode/2up

3 http://www.archive.org/stream/giuochifanciull00pitrgoog#page/n5/mode/2up

4 http://www.archive.org/stream/usiecostumiabruz02ninouoft#page/88/mode/2up

5 http://www.archive.org/stream/cantipopolaridi00ferrgoog#page/n4/mode/2up

6 Non vorrei che fosse stata esercitata una forma di censura che in uno studio scientifico è assolutamente inconcepibile; lo dico in virtù delle allusioni che (forse mi sbaglio) trovo in  E mo gnuda to surela a spartir la  roba bela intervallate da due quasi bestemmie [Gran gron (Il gron, leggo nel Vocabolario domestico ferrarese-italiano di Carlo Azzi, Buffa, Ferrara, 1857, è una specie di erba cattiva); rampin Giuda] e, ripeto, forse mi sbaglio, riprese in Cava la rava, mettla int la busa.

7 Antonio De Nino, Usi…, op. cit, pag. 86: “Nelle provincie meridionali, abbiamo sempre pignata e pignataro con una sola t. La pignatara, cioè una donna che fa o vende le pignatte, si sente dire soltanto nei giuochi de’ fanciulli. E abbiamo appunto qui un giuoco, dove c’entrano le pignate  e la pignatara. E che credete voi chi siano le pignate? Sono anche fanciulle e fanciulli; e la pignatara è la più svelta fanciulla. Questa pignatara mette in ordinanza le sue pignate, e attende i compratori. Passa una donna. La pignatara dice:-Dove vai?- Risponde l’altra:- Vado a comprare il prosciutto-. Ripiglia a dire la venditrice: -Me ne dai un poco?- Risponde sì o no…”

8 Come la pignatàra per quello che s’è detto nella nota precedente evoca una sorta di contaminazione tra aree diverse, cucchiara non può, attraverso l’oggetto intermedio non citato (pignata) non evocare il nostro proverbio Li quai ti la pignàta li sape la cucchiàra (I guai della pignatta li conosce la cucchiaia). Il ruolo egemone della pignatara (direi nella realtà, nella metafora e nel gioco) è ribadito dal proverbio calabrese  A mastra pignatara metti ‘u manicu aundi voli (La maestra pignatara mette il manico dove vuole).

Un salentino sulle tracce di luoghi e personaggi di Cesare Pavese. Seconda Parte.

di Alfredo Romano

SECONDA PARTE: il colloquio col Nuto, l’amico più stretto di Pavese e protagonista del romanzo La luna e i falò.

Il Nuto per Pavese era l’infanzia, era la terra a cui era legato, era la gente delle colline con la sua saggezza popolare, era colui che conosceva i segreti della vita e a lui ci si poteva affidare con sicurezza. E proprio quando la vita sembrava sfumargli o aveva paura di perdersi in mezzo a gente che non capiva o che era legata a lui per degli interessi, visto che era uno scrittore affermato, allora era il momento che si legava di più al Nuto. Pavese in ogni modo ha sempre cercato un colloquio con la gente, che solo dopo la morte però ha potuto trovare. A quel tempo scriveva sull’ “Unità” e su “Rinascita” del nuovo ruolo degli intellettuali in quella società nata dalla Resistenza. Parlava dell’artista non isolato che produce le sue opere scavando nel sociale l’individualità di un personaggio. In quanto a questo è stato coerente. L’accusa rivoltagli da Alberto Moravia di essere stato uno scrittore provinciale, si trasforma nella lode più degna, proprio per il merito che ha avuto di far assurgere la provincia, i personaggi e i luoghi più comuni agli onori della letteratura. Pavese ha scritto traendo dalla realtà e dalla realtà è scaturita la storia, la vita, le sofferenze antiche e attuali di una gente, quella delle Langhe, soprattutto contadina e, come tale, fuori dalla cultura ufficiale. Una gente che Pavese ha riscattato, facendo trasparire una cultura « minore » degna di essere capita da quella colta.

lo starei a sentirlo chissà per quanto. Nuto va a ruota libera, è un vulcano di parole, mi parla di tutto e non solo di Pavese. Così faccio fatica a fargli seguire l’ordine delle mie domande, che faccio pure brevi, ma sulle quali mi preme molto sentirlo raccontare.

Nuto, si sa che Pavese prima di morire veniva spesso a trovarti: com’era negli ultimi tempi?

«Vidi Cesare l’ultima volta un mese prima che morisse in modo così sfortunato. Ricordo che stava molto giù, non dormiva, non mangiava e così era anche fisicamente distrutto e s’era preso un esaurimento nervoso. lo che sapevo quanto lui amasse la vita, ricordo di non averlo mai visto così prima d’allora. Quelli però che dicono che Cesare coltivasse il suicidio fin da ragazzo, dicono delle panzane. E poi Cesare era ormai un uomo fatto e a quarantadue anni aveva

Meloncelle o spiuleddhe

di Massimo Vaglio

Le Meloncelle ovvero Menunceddhe o Spiuleddhe, (Cucumis melo L. varietas inodorus) sono delle varietà orticole di melone esclusive del Salento, appartengono quindi, alla famiglia delle Cucurbitaceae. Note pure come Cummarazzi; Cucumbarazzi, Cucumeddhre, Pagghiotte, sono, con le due varietà principali, una a buccia chiara e l’altra a buccia verde scuro, le varietà di melone attualmente più diffuse nella Provincia di Lecce.

La loro coltivazione, un tempo, limitata a piccoli lembi di terreno fertili, profondi, e soprattutto con marcate caratteristiche di precocità, ha avuto notevole impulso, con l’aumento delle superfici irrigue, e oggi è largamente diffusa e alimenta abbondantemente il mercato salentino.

Le piante, hanno la peculiare caratteristica di allegare i frutti già sul primo internodo, per cui hanno un ciclo molto breve, il periodo-semina prima

Salve… un saluto ed un balzello

di Gianni Ferraris

Il comune di Salve (appunto) dà il benvenuto ai turisti adottando per primo  la famigerata tassa di soggiorno, ogni famigliola di 4 persone pagherà, per dormire là, 6 euro al giorno per un massimo di 10 giorni.  Siccome le spiagge sono belle veramente, il turista può tranquillamente pernottare a pochi km di distanza e raggiungerle in auto o in bicicletta..  In fondo un risparmio di 15 euro a testa per 10 giorno non è poi così male, e una tassa odiosa la si può evitare.

Copia della lettera di notifica del regolamento comunale sull’imposta di soggiorni inviata agli operatori, a firma della responsabile dell’ufficio finanziario e tributi dell’ente, Donatella Tasco, parla di:  “presupposto del contributo è il pernottamento in strutture ricettive all’aria aperta, campeggi, agriturismi, aree attrezzate per la sosta temporanea, bed and breakfast, case e appartamenti per vacanze, affittacamere, case per ferie, residenze turistiche alberghiere e alberghi ed ogni altro alloggio gestito da agenzie di intermediazione immobiliare e simili, situati su territorio comunale”.

“Esenti dal pagamento i minori fino al decimo anno di età, i malati e coloro che assistono degenti ricoverati presso strutture sanitarie, in ragione di un accompagnatore di paziente. I genitori che accompagnano malati minori di diciotto anni, gli autisti di pullman e gli accompagnatori turistici che assistono gruppi organizzati dalle agenzie di viaggi”. Il contributo di soggiorno va da 1,50 al giorno per persona sino a 2 euro per le strutture a quattro o cinque stelle e si prevede applicato fino ad un massimo di 10 pernottamenti consecutivi.

Situato nel versante ionico del basso Salento, a 61 km da Lecce,capoluogo provinciale, comprende anche le marine di Pescoluse, Torre Pali, Posto Vecchio e Lido Marini (quest’ultima in parte amministrata dal comune di Ugento) e la frazione di Ruggiano.
Il litorale di Salve ha ricevuto nel 2009 e nel 2010 la bandiera blu e per il 2010 la Marina di Pescoluse è stata segnalata tra le 25 spiagge a misura di bambino.

 http://www.salveweb.it/cartina_salento.htm   

Borgagne, incastonata nel paesaggio di pietra e di ulivi…

di Pino de Luca

 

40° 16′ 35” Nord; 18° 20′ 15” Est. Ci vivono circa duemila abitanti, a due passi dal Mare Adriatico, nel cuore del Salento. Borgagne, frazione di Melendugno. Dal 23 al 26 di giugno si veste a festa. Raccoglie poeti, musicisti, scultori e pittori nelle sue corti e nelle sue stradine, s’ illumina questa “chiccara di porcellana” incastonata nel paesaggio di pietra e di ulivi che scivola verso un drappo di costa così bella, così bella che un suo angolo si chiama “Poesia.”

Borgoinfesta non è una festa nel senso classico delle feste, non ha riti propiziatori da richiamare e nemmeno ringraziamenti ultraterreni. Borgoinfesta è un mutuo che si paga per poter godere della felicità. Un mutuo in conto capitale per investimenti sicuri e redditizi. Un mutuo per poter coltivare la memoria al di fuori di ogni retorica, semplicemente come radice feconda che nutre l’albero del presente e fa ben sperare per una copiosa raccolta di frutti nel futuro.

Angelo (si chiama così, quando si dice i nomi …) ha pensato a suo nonno, a quel patrimonio di scienza e di conoscenza che poteva perdersi con la naturale, anche se dolorosa, fine del percorso terreno. E ha messo in piedi questa idea di vita. Condivisa e partecipata perché la memoria non è di Angelo ma di tutti, è diventata un grande appuntamento con un calendario straordinario. Esporlo? Nemmeno per sogno: www.borgoinfesta.it la tecnologia ci soccorre evitandoci la pena della didascalia ed evitandovi la noia dello spulcio.

Immergersi in Borgoinfesta è riprendersi il tempo per pensare, per essere, per vivere: “settàmune nu picca/ ca difriscàmu…” (sediamoci un momento/che riposiamo) dicono due versi della poesia “Sentiti Genti” che apre il racconto.

Entrando a Borgoinfesta non si entra nella sagra paesana, nel fumo di improbabili servole e patatine fritte nel bisunto. Si respira l’aria della comunione di genti che si raccontano con i propri linguaggi, si partecipa ad un piccolo pezzettino di ragioni per le quali vale la pena vivere.

Borgoinfesta è partecipazione di numerose comunità del cibo, è creazione di pozzi in Africa ed ora che i pozzi ci sono, di orti insieme a Slow Food ed al Vescovo di N’Dali, Mons. Martin Adijou, che sarà a Borgagne il 26 giugno.

Gli umani, quando rivendicano il diritto ad essere umani, sono capaci di miracoli strabilianti: a Borgagne canti con le ‘Ngrecalate e torni a Roma più sereno e più lucido, a Borgagne bevi un bicchiere di vino e aiuti una cipolla a crescere in Benin. Io lo trovo semplicemente straordinario.

Ho fatto ad Angelo qualche domanda, anche perfida, dei suoi rapporti con la politica e con le istituzioni. Ed Angelo, candido, mi ha risposto che tutti sono i benvenuti a Borgoinfesta, che ogni contributo è utile a far comunità, a tessere socialità, a includere partecipazione. Lo scrivo nella speranza che chi legge intenda e silente agisca, in cambio di nulla, solo perché va fatto.

E per Slow Food ho chiesto quale fosse il prodotto caratteristico di Borgagne, Angelo non lo sa.

In realtà Borgagne non ha prodotti da presidio. Borgagne potrebbe essre un prodotto da presidiare, anche ricordando quello che disse Antonio Muci al Congresso Slow Food del 2010: “vanno bene i magazzini per prodotti della terra e delle mani dell’uomo, ma forse è ora di edificare anche i magazzini della memoria, scrigni preziosi di conoscenza e di emozioni.”

Si cominci da Borgagne, che chi ben comincia è a metà dell’opera. E da Angelo, e da suo nonno, e da tutti coloro che si impegnano a Borgoinfesta una cosa è evidente: si può fare, basta farlo.

Un salentino sulle tracce di luoghi e personaggi di Cesare Pavese. Prima parte.

di Alfredo Romano

Si tratta di un viaggio compiuto nel maggio 1976 alla ricerca dei luoghi e dei personaggi pavesiani, soprattutto di Pinolo Scaglione, il Nuto del romanzo La luna e i falò di Cesare Pavese. Da quel viaggio tornai con tanti appunti. Ne venne fuori una specie di reportage conservato nel cassetto per tanti anni. Il Nuto è morto nel 1990 all’età di novant’anni. Il mio vuole essere un omaggio al Nuto, ma anche una testimonianza sull’uomo Pavese visto non dai soliti critici, ma dall’amico più caro che letterato non era.  Il racconto fu pubblicato sulla rivista IL PONTE, nn. 8-9, 1991, col titoloLe Langhe, il Nuto. Viaggio intorno a Cesare Pavese.

PRIMA PARTE: l’arrivo a Canelli, il mio amico Ghione, il primo approccio col Nuto.

Non l’avevo mai viste queste colline, eppure affacciato dal finestrino del treno prossimo a Canelli, non posso fare a meno di osservarle con gli occhi di Pavese. È come se anch’io vi avessi trascorso l’infanzia. E cosi mi appaiono familiari le loro forme di poppe e i vigneti sui fianchi, a ricordarmi grappoli rossi che fan venir le voglie e… non solo di vini corposi. E poi questo verde fitto a fine maggio, quando, nel mio lontano Sud, i campi sono gialli e ardono di stoppie. E l’acqua, tanta, dei continui torrenti e canali, e un fiume (sarà forse il Belbo?) che fluisce lento sotto le rotaie. E cosi mi sono rivisto anch’io, nudo e ragazzo a fare il bagno tra quelle rive e, da grande, disteso sul greto con la pelle al sole, fumando la pipa sull’erba all’ombra dei canneti e, accanto, la carne soda di una donna che non è tua. È, come al solito, di un altro.

Alla stazione Ghione è venuto a prendermi con l’auto del padre. Son passati degli anni, ma

è ancora rimasto quel ragazzotto contadino di quand’era soldato a Foligno, col suo piemontese ostinato che non si capiva un accidente specie quando imprecava per qualche ingiusta consegna. In caserma, sapendolo di Canelli, m’era premuto familiarizzare con lui e quale sorpresa fu per me scoprire che suo padre, che faceva il bottaio, era un amico del Nuto, il protagonista del romanzo La luna e i falò. E quando a Ghione raccontavo di Pavese e del Nuto come personaggi mitici tra le colline di Canelli e di Santo Stefano Belbo, lui m’interrompeva sorpreso: “Ma chi, il Pinolo? Quello che fa le bigonce? Ma sì, sta sulla strada dì Canelli per Santo Stefano e ci passo tutti i

Albicocche e Templari nel Salento

albicocche

I Cavalieri Templari hanno portato l’albicocca nel Salento leccese

di Antonio Bruno

A Galatone nel Salento leccese, si coltivava una varietà di albicocca che si dice sia antica al punto che, agricoltori molto anziani, ricordano che già ai tempi della loro infanzia questa coltura era molto diffusa sia come alberi isolati ma anche come veri e propri frutteti specializzati.

Vediamo di fare due conti, un agricoltore molto anziano oggi avrebbe 80 anni e sarebbe nato nel 1930. Quindi ai primi del secolo scorso c’era una varietà di albicocca diffusissima nei territori di Galatone, Nardo’, Seclì e Sannicola, tutti paesi del Salento leccese.
Certo è che, l’albicocco Prunus armeniaca L. ( = Armeniaca vulgaris Lam.), per i botanici ebbe come luogo di origine l’Armenia che è una zona compresa tra l’Iran, la Turchia e che va sino al Caucaso, terra di passaggio tra Oriente e Occidente, luogo d’incontro tra le culture delle persone umane sin dai tempi più antichi.

Questo porta a individuare la zona d’origine dell’albicocca molto più a Oriente ovvero nella misteriosa Cina. La conferma viene dal ritrovamento di molti esemplari spontanei in Manciuria, nel deserto dei Gobi e nell’Asia centrale. I

Il marchese di Martignano Giuseppe Palmieri (1721 – 1793)


di Tommaso Manzillo

Nel preparare un breve contributo sul tema dell’economia salentina, la mia ricerca è penetrata fino agli albori del pensiero economico liberale, per conoscere un illustre protagonista del Settecento salentino, il marchese di Martignano, Giuseppe Palmieri (1721 – 1793).

Fu discepolo, possiamo dire, di Antonio Genovesi (1713 – 1769), titolare della cattedra napoletana di economia politica (la prima in Europa), che diede un grande impulso agli studi economici del tempo, con proposte di riforme per favorire la produttività.

Giancarlo Vallone, nell’Introduzione al libro di Manzillo e Lattarulo (2010) afferma che “Genovesi e Palmieri, uno di queste parti, avevano ben avvertito la necessità, di orientare il sistema dei poteri sul sistema della proprietà, secondo il modello inglese e, per quel che riguarda le tecniche agricole, anche francese”.

Alfiere in un reggimento del re di Napoli, primo tenente e maggiore col rango di tenente-colonnello nel reggimento di Calabria, si distinse negli studi delle leggi e coltivò la pratica del foro. Incaricato dell’amministrazione generale delle dogane in provincia d’Otranto, dimostrò intelligenza, rettitudine e

Figlio, per giunta dubbio, di semiconsonante

di Armando Polito

* (Si scrive) gghiè o non (si scrive) gghiè? Questo è il problema…

** (Mala)sorte mia, in che mani sono capitato!

Non è un nuovo insulto, per quanto annacquato rispetto ad altri in uso da tempo e che scomodano la voce iniziale indicante rapporto di parentela, come qualcuno potrebbe essere indotto a credere dalla presenza di semi– e di dubbio che pur sempre indicano qualcosa di incompiuto, di difettoso, insomma di negativo.

È solo, lo ammetto, un furbesco espediente per far sì che l’unico lettore condannato all’origine dal destino a leggere questo post diventi, nella circostanza, uno e mezzo; la negatività del mezzo  evocata dal precedente semi– coinvolge solo il sottoscritto che, al di là del carattere settoriale, stavo per sciacquarmi la bocca con specialistico, del tema trattato, evidentemente si becca questa volta l’attenzione che si merita.

– Come- mi sembra di sentir dire da quei lettori che hanno la voglia e il tempo di accedere alle statistiche riguardanti il sito -sputi nel piatto in cui, metaforicamente come tutti noi, mangi?-

Già in passato ebbi ad osservare che stranamente avevano riscosso successo certi miei post degni, tutt’al più, di essere letti su cesso e poco dopo gettati nello stesso con immediato azionamento dello sciacquone… Aggiungo, comunque, che la generosità della redazione che non ne ha (secondo me colpevolmente…) cestinato nemmeno uno (questa sarebbe la volta buona per iniziare…), la frequenza (maniacale, si dice così…) con cui scrivo e, per tornare alla redazione, l’aggiunta al titolo originale di un altro più accattivante,  hanno la loro determinante parte di responsabilità nella configurazione delle statistiche.

Oggi tento di fare tutto da solo e, dopo aver giustificato il titolo ad effetto (lettore, non lasciarti prendere dalla curiosità, interrompi la lettura finché sei in tempo!), entro, era ora!, in argomento.

Il verbo essere nel dialetto neretino, tanto quando funge da predicato verbale che da copula, è preceduto solo nella terza persona singolare da  un nesso particolare: cce ggh’è? (che è?); cce ggh’è buènu! (quanto è buono!).

Il Rholfs nel suo vocabolario si limita a registrare no gghiè (non è), cce gghiè e cce gghiète (che cosa è) senza aggiungere altro.

Qual è l’etimologia di ggh’ (secondo me va scritto correttamente ggh’è e non gghiè, come ggh’ete e non gghiète1), anzi, prima ancora, qual è la vocale finale elisa? Non appaia strano se alle due domande risponderò alla fine e ancor più strano se parto da lontano e precisamente dalla semiconsonante j che nelle parole italiane derivate da quelle latine in cui essa compare ha dato come esito gi (jam>già; jacère=giacere, etc. etc.). Ancora: la forma  italiana letteraria ormai da tempo obsoleta (sopravvive solo nel participio passato femminile sostantivato gita) di andare è gire che suppone un latino *jire (classico ire). Questo è il fenomeno verificatosi, per una via appena appena più traversa, nel nostro ggh’. L’espressione corrispondente al nostro cce ggh’è? in latino sarebbe stata quid ibi est? (che cosa là c’è?). È intuitivo che, se cce corrisponde a quid ed è ad est, ggh’ corrisponderà a ibi (da cui gli italiani  ivi e vi). La trafila: quid ibi est?> *qui(d) ji (sincope di –b– che rende semiconsonante la prima i) e(st)?>*cce gi è? (passaggio ji->gi)>cce ggh’è? (elisione di i di gi che ha indotto non solo il raddoppiamento espressivo di g– ma anche l’aggiunta di h per conservare il suono gutturale della g tipico dei dialetti meridionali: napoletano se n’è gghiùto (da jiùto)=se ne è andato.

In conclusione, per rispondere alle due domande rimaste in sospeso: ggh’ sarebbe dal latino ibi e la vocale elisa proprio la sua i finale.1

Per completezza d’informazione debbo dire che il fenomeno  di cui si è parlato in altri casi non coinvolge direttamente la j. Per esempio: ngheta è figlia della seguente trafila: latino beta=bietola>*bleta (per influsso di blitum=spinacio)>bièta>(passaggio bl->bi-come in biasimare dal latino tardo blastemàre, dal classico blasphemàre, a sua volta dal greco blasfemèo=ingiuriare)>  ièta (aferesi di b– come in iastimàre da *biastimàre, a sua volta dal citato latino blastemàre)> *ggheta>ngheta (dissimilazione gg->ng-) e nghefa è dal latino gleba=zolla>glefa>*gghefa>nghefa.

Come ipotesi alternativa, senz’altro più lineare (ma la lingua molto spesso, proprio come chi la usa, segue percorsi tortuosi…), partendo proprio dall’ultimo esempio, il nostro nesso potrebbe nascere da un’espressione che in italiano suonerebbe che gli è (cfr. il toscano gli è un bravo ragazzo  e, in uso impersonale, gli è vero come nel francese il est vrai) , in cui gli è per aferesi da egli. La formazione in questo caso sarebbe relativamente recente, perché, derivando gli dal latino illi e tenendo presente che egli nel dialetto neretino è iddhu [da illu(m)], se il nostro nesso avesse avuto un’origine antica non sarebbe stato ggh’ ma ddh’. Anche in questo caso, però, la vocale elisa sarebbe ancora i e, pur dovendo rinunziare alla malizia del titolo, la grafia corretta sarebbe, comunque, ggh’è.

_____

1 Per quanto riguarda la grafia (il nesso è presente anche nel dialetto siciliano) nelle opere letterarie noto che gghiè  e ggh’è si alternano, anche se quest’ultima è costantemente adottata  in Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane di Giuseppe Pitrè, Pedone-Lauriel, Palermo, 1872-1919 e in Novecento dialettale salentino di D. Valli e A. G. D’Oria, Manni, Lecce, 2006.

Vita da Marinai. Un naufragio a Gallipoli nel 1707

Vita da Marinai

Il naufragio della tartana nominata “Ecce Homo e Santo Stefano

di Antonio Faita

Nei secoli, leggende di frontiera, navi fantasma, vascelli abbandonati, naufragi spettacolari, disastri navali di particolare ingenza, hanno avuto un grande fascino sull’immaginario collettivo, ognuno dotato di una propria storia. Naturalmente gli eventi metereologici detengono il record assoluto dei disastri navali: venti, uragani, tempeste improvvise, banchi di nebbia, sono in grado di rendere la navigazione estremamente pericolosa. Non ultimo il fuori rotta causato dai venti che può trascinare le imbarcazioni contro le secche, la costa o gli scogli rendendo impossibile riguadagnare il largo.  E’ ciò che avvenne ai marinai e componenti la ciurma della tartana[1] nominata “Ecce Homo e Santo Stefano” del Padrone Agostino Castagnino di Genova:

Il 5 novembre 1707 in Gallipoli, presso il notaio Carlo Megha[2] e alla presenza dei testimoni, il chierico Gaetano Buillo e Pietro Adamo si presentarono Domenico Costa, Giuseppe Ramundo, Giovanni Costa e Blasio Cusettola di Napoli, scrivano e marinai della tartana nominata “Ecce Homo e Santo Stefano” del Padrone Agostino Castagnino di Genova, presente in Gallipoli. Essi affermarono, che il Padron Castagnino, con la sua tartana, si trovava a Venezia per caricare 40 casse d’azzari[3], per conto del signor Giacomo Tomasi (come risultava anche dalla bolla di carico), per condurle e scaricarle al porto di Livorno.

Inoltre asserirono che furono caricate, per conto del padrone Castagnino, nove casse di lastre ed un caratello[4] d’ottoni. Il 4 settembre, “avuto” il buon tempo, salparono da Venezia facendo vela per Ancona dove giunsero il 28 settembre e dove in sei giorni caricarono 300.000 pezzi di zolfo “…per conto di chi appare nelle polizze di carico…”, da condurre a Livorno.

Per via della bonaccia, dovettero però sostare fino a quando non si alzò il vento, e ciò avvenne il 15 ottobre. La tartana, salpata l’ancora e issate le vele, fece rotta verso le Tremiti, dove giunse e rimase ferma per un giorno e una notte aspettando nuovamente il vento favorevole.

La mattina successiva, date le vele al vento, si navigò sino al porto di Trani nel quale giunse il 18 ottobre, rimanendovi per due giorni e ripartendo il 20 alla volta di Livorno. Venerdì 21, alle ore 16, navigarono con il buon tempo e il vento a favore, raggiungendo il mare di Leuca e, nella notte alle ore 2, la tartana ed il suo equipaggio erano nel mezzo del Golfo di Taranto. Il vento però cambiò in “…scirocco levante e immediatamente si turbò con densa oscurità con vento burrascoso…”. Incominciò a piovere e sotto una pioggia battente per ben quattro ore continue, “…navigarono alla trinca…”[5], ma non potendo più resistere al forte vento e al mare impetuoso, fu necessario virare di bordo facendo nuovamente rotta per Leuca.

Per non rischiare di affondare, si decise all’unanimità di buttare delle “robe” in mare per alleggerire la tartana, ciò che permise di resistere alla forza del mare per altre cinque ore. Poichè il mare s’ingrossava ancora di più, si decise nuovamente di alleggerire il carico, per cui la tartana, pur essendo rimasta con

Si può restare Sud scoprendosi anche Nord e Ovest di altri

Fontanelle – SantaCesarea (ph Federica Ricchiuto)

Riva Sud riva Nord 

Il Mediterraneo ri-chiama il Mezzogiorno

di Gianluca Palma

Non c’è alcuna profezia o teoria economica che spieghi in maniera chiara ed esaustiva perché tanti Paesi così diversi del Nord Africa siano stati infiammati, in questi ultimi mesi, da impetuose rivolte di piazza contro decennali regimi.

È di questi giorni anche il malcontento degli Indignatos spagnoli che protestano contro lo stato di precarietà che attanaglia le vite di molti giovani iberici … e non solo.

Nell’imminenza di questa estate, più che mai Mediterranea, provo a riflettere sul possibile ruolo che l’identità meridionale giocherà nel prossimo futuro di queste speculari sponde.

Facciamo un passo indietro: cosa si intende per identità meridionale?

L’identità si qualifica in una forte consapevolezza di tutti quei fattori (esogeni ed endogeni, materiali ed immateriali) che ci vengono consegnati dalla geografia e dalla storia, dal contesto naturale e dall’accumulo delle esperienze culturali, e che indicano non l’esistenza di un’unica e compatta “civiltà meridionale”, ma piuttosto di un complesso di esperienze maturate nei diversi luoghi del tempo, e sedimentatesi in altrettante occasioni della memoria. L’esperienza storica, invece, ci insegna che spesso si commette l’errore di arroccarsi in una mera esaltazione identitaria, o peggio ancora, si impone “la propria cultura” come egemone, dimenticandosi di volgere lo sguardo altrove, fuori dai nostri confini e dai nostri stereotipi.

Compito di tutti, per meglio dire esigenza etica comune, è quella di non piegarsi ad una logica di “pensiero unico”, ma impegnarsi invece nella costruzione di un’identità aperta al mondo, e nel caso meridionale protesa al Mediterraneo.

È da questo insieme plurale, eppure fortemente unificato da una comune dimensione culturale e simbolica, che nasce l’idea viva di un’identità meridionale. Un’idea mobile, non aggrappata alla contemplazione di sé (e della propria presunta superiorità, magari nell’arrangiarsi, nell’essere furbi, nel trasgredire, ecc.) né protesa alla rincorsa di un’imitazione a tutti i costi di modelli esterni, e alla ricerca di un appannamento delle proprie caratteristiche costitutive (Franco Cassano docet !).

L’identità aperta e positiva di cui il Mezzogiorno oggi può giovarsi è quella che riordina le esperienze del proprio passato, da quelle più lontane a quelle più recenti, ricostruendole attorno a un insieme di luoghi fisici e simbolici. Un’identità plurale quindi: non omogenea, monolitica, “meridionale”; piuttosto articolata, riconoscibile, ma non univoca, fatta di condivisioni e differenze.

Ecco un pensiero dalle forti radici “locali”, ma non “localistico”: un pensiero che non si vergogna delle proprie origini, che tiene ben piantati i piedi nella sua terra, ma non rinuncia a rivolgere lo sguardo al di là di sé, curioso del mondo. Un po’ come sosteneva Corrado Alvaro in Gente in Aspromonte, quando scrisse: “È una civiltà che scompare, e su di essa non c’è da piangere, ma bisogna trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie”.

L’identità aperta diventa così un potente fattore di civicness (senso civico), in quanto orienta e stabilizza le direzioni di un governo del territorio. Essa sostiene la creazione di nuovi strumenti di valutazione delle politiche. Rafforza, in una sola espressione, il capitale sociale necessario per lo sviluppo. Sviluppo inteso non come mera crescita economica, mercato selvaggio, omologazione e massimizzazione dei profitti, quanto piuttosto come attuazione di “sviluppi territoriali integrati” che rispettino gli equilibri dinamici dei singoli territori e le peculiarità delle rispettive comunità. Nel caso del Mezzogiorno questo tipo di sviluppo passa attraverso una valorizzazione sistemica delle risorse locali e una fattiva collaborazione ed integrazione con i popoli del Mediterraneo. Tutto il meridione d’Italia è chiamato ad essere in prima linea nel riaffermare l’importanza mondiale del Mediterraneo e immaginarsi come la porta d’Europa.

Corigliano Calabro, balconata (ph Federica Ricchiuto)

Si può restare Sud scoprendosi anche Nord e Ovest di altri. Mantenere i fondamentali legami con l’Unione Europea moltiplicando anche quelli balcanici. Certo è difficilissimo. Perché difficile è usare risorse differenziate in modo interconnesso, è arduo iniziare laddove non c’è esperienza passata; le fasi più dure dei processi di sviluppo sono quelle iniziali: far nascere imprese dove sono poche, suscitare fiducia, incrociare risorse, integrare competenze, realizzare politiche coerenti. Ogni facile ottimismo va bandito: serve un impegno solidale di tutta la popolazione, non solo meridionale. È doveroso per tutti noi avere chiaro che i problemi sociali ed economici che investono le regioni meridionali non riguardano solo una parte della nostra penisola bensì tutta la nazione e l’Europa intera.

Concludendo, per intraprendere un corretta crescita economica, sociale e politica del Meridione d’Italia è auspicabile che si impari a sfruttare questo universo composito che il Mezzogiorno rappresenta. Bene sarebbe se si provasse a sviluppare pratiche di solidarietà intragenerazionale e intergenerazionale, che sostengano e preservino questo territorio per le future generazioni; un territorio, come suggeriva Alberto Magnaghi, che venga eletto ad opera d’arte da preservare e mai più un asino da soma da sfruttare.

http://www.ciclostyle.it (08 giugno 2011)

* foto di Federica Ricchiuto

Vademecum del contadino del tempo che fu

di Armando Polito

immagine tratta da http://tangalor.blogspot.com/2010/11/affrontare-tutte-le-stagioni-della-vita.html

Da sempre strettissimi sono stati nella civiltà umana i rapporti tra l’alternarsi delle stagioni, quella che alle origini e per millenni fu la principale attività, l’agricoltura, e la religione. Poi vennero l’ industria, l’inquinamento, i mutamenti climatici, l’agricoltura transgenica (quella biologica, più che un’inversione di tendenza frutto di un ravvedimento, a me sembra solo una perversa contraddizione che, sempre in nome del dio profitto, fa leva sulle nostre, pur fondate, paure e rischia di essere una delle tante mode che puntualmente vengono imposte) e tutto quello che di spiacevole il futuro ci riserverà. Chi scrive ha un concetto molto personale della religione (anzi, ad essere sincero, debbo dire che mi ripugna alla mente ed al cuore un credo, e in questo tutte le religioni passate e presenti si somigliano, che trae la sua ragion d’essere dalla paura di un fenomeno altrettanto naturale come la nascita qual è la morte), ma un minimo di onestà intellettuale mi obbliga a riconoscere che nel passato, almeno, quei rapporti ai quali ho fatto cenno all’inizio hanno garantito un certo rispetto dell’ordine naturale delle cose e della vita. Con un sentimento che è nello stesso tempo nostalgia e rabbia mi piace perciò qui ricordare sette antichi proverbi che il cosiddetto progresso ha reso quasi del tutto obsoleti nel volgere di pochi decenni. E se per gli altri la fine o quasi è stata decretata dalle serre, non mi meraviglierei se il primo, sconfessato (nella sua interpretazione letterale) dalla scienza per quanto osservo in nota 1, si prendesse la sua brava rivincita e fosse, paradossalmente, l’unico ad essere attuale per colpa del sovvertimento totale che l’uomo sarà stato in in grado di produrre pure a livello astronomico…

1 Ti santa Lucia llunghèsce la tia

quantu lu pete ti la iaddhìna mia.

Il giorno di santa Lucia (13 dicembre) si allunga il dì

quanto il piede della gallina mia.1

 

2 Ti santu Frangìscu

la seta2 allu canìsciu3.

Il giorno di san Francesco (4 ottobre)

la melograna nel canestro.

 

3 Ti santu Gisèppu

la simènte all’uèrtu.

Il giorno di san Giuseppe (1 maggio)

la semente nell’orto.

 

4 Ti santu Lionàrdu

chiànta la faa ca è tardu.

Il giorno di san Leonardo (6 novembre)

pianta la fava perché è tardi.

 

5 Ti santu Lorènzu

lu noce ggh’è mmiènzu.

Il giorno di san Lorenzo (10 agosto)

la noce è a metà (del suo sviluppo).

 

6 Ti santu Subbistiànu

li cìciri4 alla manu.

Il giorno di san Sebastiano (20 gennaio)

i ceci in mano (pronti per la semina).

 

7 Ti Tutti li santi

la simènte alli campi.

Il giorno di Ognissanti (1 novembre)

la semente nei campi.

____

1 Com’è noto il 21 dicembre,  inizio del solstizio d’inverno, è la data dell’anno in cui il giorno ha la durata più breve. È dal 22, dunque, che il giorno comincia progressivamente e lentamente a crescere. Credo, perciò, che il proverbio vada interpretato non tanto come intriso di sarcasmo (anche se il piede della gallina, per quanto piccolo, sempre piede è…) ma come una sorta di miracolo più agognato che realizzato (in fondo santa Lucia non è la protettrice della vista, cioè, in ultima analisi, della luce?). A meno che, quel “ti” corrisponda non a “di” ma a “da” , cioè a “subito dopo”.

2 Dal greco side=melograno. Come avviene per i più titolati palinsesti televisivi anticipo che un post con foto originali sarà dedicato al melograno in settembre, quando matureranno i frutti dei miei numerosi alberi. La riproduzione di questa pianta, infatti, è quanto di più facile si possa immaginare: basta scalzare, alla fine dell’autunno o all’inizio dell’inverno, uno dei numerosissimi polloni che tendono a svilupparsi nelle immediate vicinanze del piede (non quelli che spuntano direttamente dal piede e che non hanno apparato radicale), invasarlo o piantarlo direttamente nel terreno.

3 Nel dialetto neretino canestro [dal latino canìstru(m), dal greco kànastron, probabilmente connesso con kanna=canna]  è canèscia (con cambio di genere e normale passaggio –str->-sci-, come in maestra/mèscia, finèstra/finèscia, etc, etc.). La variante canìsciu rende possibile l’assonanza. Da notare che questo dettaglio prosodico ricorre pure nel proverbio successivo (Gisèppu/uèrtu), negli altri si ha regolare rima.

4 Plurale più fedele di quello italiano (ceci) all’originale latino (cìceres).

Seclì, 19 luglio 1739: festività di S. Antonio. Botte da orbi tra Galatonesi e Seclioti

 

di Marcello Gaballo

Più volte ho avuto modo di riferire su fatti e cronache di qualche secolo fa, che il solito prodigo Archivio di Stato di Lecce ci propone nello spoglio degli atti notarili in esso conservati. Buona parte di questi generalmente tratta di compravendite, concessioni, donazioni e altri rogiti più o meno interessanti, ma di uno sono rimasto particolarmente colpito, se non altro per la sua originalità.

Mi piace raccontarlo, perché è giusto che si abbia modo, come lo è stato per me, di riflettere su come i tempi cambino, ma il carattere e i vizi umani restino sempre, anche se adeguati ai costumi dell’epoca in cui si vive.

La vicenda si svolge dunque a Seclì nel 1739, in occasione della festa di S. Antonio (la “festa cranne”, per distinguerla dalla “piccinna” del 13 giugno, come ancora si pratica)  per la quale erano “a tal’ effetto concorse diverse persone di Galatone e di altri luoghi convicini”, tra cui un tal Carmine d’Amici di Aradeo e Giuseppe Donadei di Neviano.

Seclì, prospetto principale del palazzo ducale realizzato dai D’Amato

I due dichiarano di fronte al notaio di aver assistito personalmente “che in detto giorno, a circa l’ore venti una, si attaccò fra alcune persone cittadine di Seclì e di Galatone littigio avanti la porta di Seclì“.

L’occasione della lite nasceva dal fatto che alcuni galatonesi si erano opposti alla carcerazione di “un di loro concittadino di nome Marco Longo, come si pretendeva da quelli di Seclì”. Riusciti dunque a ottenerne la liberazione, pur con la viva opposizione dei Seclioti, ne nacque una rissa e nel pieno dei litigi “comparve il magnifico Carlo Guida di Galatone, che cavalcava una giumenta, il quale fattosi mezzo alla calca della gente che ivi era accorsa, fra quali anche esistevano Diego Carlucci di Seclì, che portava in mano un legno seu margiale, Diego Farlisci, il quale con una pietra grossa che afferrò da terra minacciava di tirare, senza che essi suddetti constituti avessero potuto indagare a chi, e Sigismondo Sizari di Seclì, il quale con una scialla in mano nuda faceva segno di dare”.

Il nobile a cavallo tentò inutilmente di sedare i rivoltosi e poco dopo lo si vide allontanarsi per andare nel paese a riferire al Duca, sperando che almeno quello riuscisse a quietare gli indomiti. Tornato tra la folla “che continuava a stare avanti la porta sudetta di Seclì” spese ancora qualche tentativo per componerla e quietarla.

Nel frattempo ecco “comparire dalla parte della chiesa di S. Antonio il magnifico Giuseppe Arnesano, che anche andava a cavallo, e nell’approssimarsi verso la porta di Seclì, se gli fece avanti molta della gente di Galatone che aveva procurato la libertà del detto Longo”.

Seclì, la chiesa “vecchia”, restaurata di recente

Il signorotto, fattosi avanti, “posto mano a una voglina (scudiscio) scaricò più colpi con quella sopra diverse persone di Galatone, sgridandogli d’imprudenti e malandrini, ed incaricandogli la quiete“.

Ottenuta un po’ di calma l’Arnesano si ritrasse poco lontano col notaio Orazio Latini e conversò a lungo, quindi tornò tra i facinorosi e riprese a dare scudisciate con la stessa “voglina”, ottenendo finalmente quiete.

Lo stesso giorno, sempre di fronte al medesimo notaio, altra dichiarazione di due aradeini, Antonio e Nicola Blaco, che attestano di essersi recati la Domenica precedente, 19 luglio, “a visitare la chiesa di S. Antonio extra moenia di Seclì, dove si solennizzava la festività del medesimo Santo”.

Antonio stava sulla terrazza di don Francesco Stifani, “vicino la porta della terra di Seclì”, e Nicola davanti alla casa di Donato Calò, “anche vicino la porta sudetta”, quando “intesero grida e rumori avanti la riferita porta, occasionati, per quanto intesero, da persone di Seclì e Galatone per la carcerazione intendevano fare detti di Seclì, e che se gli contrastava da quelli di Galatone, di una persona sopranomata il Tignoso, fratello di mastro Filippo di Galatone”.

I due riferiscono i fatti già esposti, aggiungendo che i galatonesi si erano rivolti all’Arnesano per invocare la difesa di quanto reclamavano, cioè la liberazione del loro concittadino, senza tuttavia ottenere alcunché se non “più e più colpi di volpino, o sia vollina, che portava in mano”, oltre ad essere “caricate di parole e villanie come di bricconi”.

Parco dell’Alta Murgia da intitolarsi ad un figlio illustre di Gravina?

PARCO NAZIONALE DELL’ALTA MURGIA “GIUSEPPE LOPRIORE”?  E’ UN’IDEA, UNA PROPOSTA

 

di Giuseppe Massari

Il 14 gennaio 2011, a Ruvo di Puglia, uno dei 13 comuni compresi nel territorio del Parco dell’Alta Murgia, presso l’ex convento dei domenicani, fu inaugurata ed aperta ufficialmente la sede dell’Officina del Piano per il Parco. Nel corso dell’evento, quella che potrebbe essere definita la sede tecnica del parco è stata intitolata a Don Francesco Cassol, il parroco di Longarone (Bl) ucciso da un bracconiere nel territorio del Parco, nell’agosto dello  scorso anno. Questa decisione è stata una scelta mirata, un segnale e un messaggio di solidarietà nei confronti di questo sfortunato sacerdote bellunese, ucciso mentre era in vacanza in Puglia, in quella zona di murgia che egli conosceva molto bene per esserci stato molte altre volte in passato. E’ stato un messaggio forte contro il presunto colpevole e contro tutti coloro che praticano, non sappiamo se per arte o per sport, il bracconaggio in questo territorio arido e brullo.

Comunque sia, dopo quello che poteva essere e sembrare un atto dovuto nei confronti di don Cassol, approfittando di questa intitolazione, ci piace poterne suggerire una che riguarda la sede del parco che si trova a Gravina. La ragione è semplice ed elementare. Facilitata, anche, da una felice circostanza.

Questa città annovera fra i suoi figli più illustri, Giuseppe Lopriore, a cui, pure, è dedicata una via. Ma chi era costui?  Conosciamolo insieme.

Lopriore nasce a Gravina il 12 settembre 1865 da umile e modesto casato. Tale appartenenza non poteva garantirgli il proseguimento degli studi per il quale si sentiva vocato, per cui alcuni mecenati gravinesi: Luigi e Giovanni Pellicciari lo avviarono agli studi. Compiuti, così, i primi studi a Gravina prima e poi a Bari, con lodevolissimi risultati, fu, a spese del nostro Comune, inviato nella Regia Scuola Agraria di Portici. A Portici, nel novembre del 1887 ne uscì laureato con

Maglie e Federico Garcìa Lorca (1898-1936)

MAGLIE E FEDERICO GARCIA LORCA. DALLA “LUNA GITANA” ALLA  “LUNA DEI BORBONI”

di Paolo Vincenti

“Federico Garcìa Lorca fu una creatura straordinaria. Creatura questa volta significa più che uomo. Federico infatti ci metteva in contatto con la creazione, con questo tutto primordiale dove risiedono le fertili forze. Quell’uomo era prima di tutto sorgente, freschissimo zampillo di sorgente, trasparenza originaria alle radici dell’universo”: così ricorda Federico Garcìa Lorca il suo amico Jorge Guillèn, nel suo Prologo alle Obras completas di Lorca, riportato da Claudio Rendina in “ Libro de Poemas. Edizione intergrale” (Newton Compton 1995).

Al grande poeta spagnolo è stata dedicata, mercoledì 6 dicembre, una serata, “ Omaggio a Federico Garcìa Lorca (1898-1936)”,  dal Liceo “Francesca Capece” di Maglie. Aggiungere il qualificativo “bellissima” al termine “serata può sembrare una formula di rito, così come siamo abituati a sentir definire “glorioso” lo storico Liceo Capece di Maglie. Però, mai come in questo caso, gli usati aggettivi sono appropriati: perché una serata che ha regalato fortissime emozioni agli astanti dall’inizio alla fine ed è riuscita a mettere tutti d’accordo sulla sua ottima riuscita non è se non un piccolo miracolo ( abituati come siamo alla  superficialità e all’improvvisazione delle serate culturali a cui mediamente assistiamo,) e un Istituto Scolastico che riesce ad organizzare tutto ciò conferma che la ottima fama di cui gode è più che meritata.

Nel 70° Anniversario della morte di Lorca, si è tenuta, nell’Aula Magna del Liceo magliese, una Tavola Rotonda e un Recital di musica e poesia nel segno del grande poeta del Romancero gitano. Tutte queste arti infatti si intrecciano nella sua poesia, la cui vasta teatralità è stata messa in evidenza da tutti i critici,  secondo quanto lo stesso Lorca aveva affermato, cioè che “il teatro è la poesia che si eleva dal libro e si fa umana” (dall’intervista di Felipe Morales in Obras completas).

L’amore per il teatro da parte di Lorca trova ampie conferme nella sua carriera, a partire da El maleficio de la mariposa, la sua prima, fallimentare, rappresentazione teatrale con marionette disegnate dal pittore uruguaiano Rafael Barradas, fino a La Barraca, teatro popolare da lui progettato, nel 1931, gratuito e ambulante.

Dopo l’Introduzione del Prof. Vito Papa, Preside del  Liceo Capece, hanno preso la parola la Prof.ssa Valentina Sgueglia, vice presidente dell’Adi Sd, Le-Br-Ta, il Prof. Diego Simini, docente di Lingua e Letteratura Spagnola dell’Università di Lecce, e il Prof. Antonio Lucio Giannone, docente di Letteratura Italiana Contemporanea presso l’Università leccese. Gli interventi dei relatori sono stati intervallati dalle esibizioni di danza curate dalla Prof.ssa Maria Josè Cueto Martìnez e dalla lettura di poesie lorchiane, nella doppia versione spagnola e italiana, ad opera degli studenti delle V Classi internazionali di Spagnolo del Liceo Capece e da canti, ad opera degli stessi studenti, di alcuni famosi brani di Lorca, con la Direzione artistica e musicale a cura dei Professori Angelo Pulgarìn Linero, Soledad Negrelos Castro e Josè Manuel Alonso Feito. Gli studenti della sezione spagnola del Liceo Capece  sono coordinati dalla Prof.ssa Isabel  Alonso Devila, che è stata anche relatrice della serata.  La musica era stato il primo amore del poeta spagnolo, che aveva studiato piano e composizione con il maestro Antonio Segura, scrivendo numerose canzoni, ed aveva avuto una speciale amicizia col grande maestro spagnolo Manuel De Falla.

Il nome di Garcìa Lorca, poeta molto amato e conosciuto in Italia, è legato anche al  Salento, grazie alla magistrale traduzione che hanno fatto dei suoi versi due grandi intellettuali ed ispanisti della nostra terra, vale a dire il magliese- fiorentino Oreste  Macrì (soprattutto con Canti gitani e prime poesie, pubblicato con Guanda nel 1949, poi ampliato e pubblicato col nuovo titolo Canti gitani e andalusi e con nuova sua Introduzione nel 1951 e ancora nel 1961 ) e il leccese Vittorio Bodini ( in particolare, Tutto il teatro 1952).

Macrì e Bodini costituiscono, insieme a Carlo Bo (cui spetta forse il primato degli studi lorchiani in Italia, a partire da Poesie, pubblicato nel 1940 con Guanda, che ha avuto numerosissime riedizioni, passando per Poesie sparse, Guanda 1976), la triade dei maggiori studiosi del poeta spagnolo (cui aggiungeremmo, anche per quantità di contributi offerti, Claudio Rendina). Nel suo intervento alla serata del 6 dicembre, A.L.Giannone si è occupato del rapporto fra Garcìa Lorca e Vittorio Bodini, scrittore leccese a Giannone da sempre molto caro.

Il docente, che ha dedicato a questo argomento molti suoi studi , soprattutto Corriere Spagnolo (Manni 1987), che raccoglie reportage dalla Spagna e prose di Bodini,  ha tracciato un profilo delle influenze che direttamente o indirettamente il Bodini poeta ha tratto dal Bodini ispanista, o, per meglio dire, le influenze che Bodini ha ricevuto, nella sua produzione poetica,  dalla poesia di Lorca, di cui è stato fine traduttore.

Bodini ha avuto nella sua carriera una lunghissima frequentazione con la letteratura spagnola, avendo tradotto, oltre a Lorca, il Don Chisciotte di Cervantes (Einaudi 1957), Visione celeste di J.Larrea e le Poesie di Salinas (Lerici 1958), il Picasso di V. Aleixandre (Scheiwiller 1962), l’antologia I poeti surrealisti spagnoli ( Einaudi 1963;  ed è stato proprio Bodini, come ha sottolineato Giannone, a definire tale questa scuola poetica spagnola, mutuando la definizione dal surrealismo francese), I Sonetti amorosi e morali di Quevedo (Einaudi 1965), Degli Angeli di Rafael Alberti (Einaudi 1966) e Il poeta nella strada dello stesso autore (Mondatori 1969), infine il Lazarillo de Tormes (Einaudi 1972).

L’amore di Bodini per Lorca era iniziato già nel 1945 con la prima traduzione europea della farsa di Lorca,  Il Teatrino di don Cristobal, del 1931, come ricorda Ennio Bonea in “Comi Bodini Pagano. Proposte di lettura” (Manni 1998). Anche Giannone, così come Macrì, ricordato da Bonea nel saggio testé citato, ritiene che l’influenza del grande Lorca su Bodini  inizi già prima del suo viaggio in Spagna del 1946.

La permanenza nella penisola iberica , comunque, dal 1946 al 1949,  fu fondamentale per l’ispanismo di Bodini e rafforzò ancora di più la sua ricerca, perché, come scrive Giannone nella sua Introduzione a “Barocco del Sud. Racconti e prose” (Besa 2005), “gli permette di scoprire un altro Sud, che gli serve per capire meglio anche il suo. Nei reportage e nelle prose che egli continuò a pubblicare dopo essere tornato in Italia, è possibile notare il tentativo di penetrare nella realtà profonda della Spagna, alla scoperta della sua dimensione invisibile e sconosciuta, del suo ‘spirito nascosto’ per usare un’espressione di Lorca. Proprio Lorca, che diventa la guida ideale di Bodini in questo viaggio, gli insegna a scavare nell’inconscio collettivo del suo popolo partendo dalle manifestazioni più tipiche del folclore iberico: il flamenco, la corrida, i serenos, i combattimenti dei galli, i riti della Settimana Santa e così via. Lo scrittore leccese si va gradualmente accorgendo delle numerose affinità tra il popolo spagnolo e quello salentino, legati anche nell’intimo da un sentimento tragico della vita, e trova in quel paese il ‘suo’ Sud, come egli stesso scrive in una poesia di Dopo la luna, Omaggio a Gongora[…]”.

“L’interesse per Lorca”, ha spiegato Giannone durante il suo intervento, “è culminato con la pubblicazione, presso Einaudi, nel 1952,  del Teatro”, ed ha citato alcune parole di Bodini, tratte dalla sua Prefazione dell’opera, da cui si evince che Bodini, da acuto interprete e autentico poeta, aveva colto perfettamente il messaggio della poesia di Lorca: “ La sua [di Lorca] presenza aderiva alla vita in modo così pienamente meraviglioso che egli era la vita stessa nel suo infinito presente. Tutta la sua poesia era una dichiarazione obbiettiva dell’essere, che la mancanza di sforzo rendeva estremamente gioconda: bastava che dicesse luna e la luna esisteva, che dicesse coltello e un coltello brillava, che dicesse stella, cavallo, fiore …”.

Il 1952 è lo stesso anno in cui Bodini pubblica la sua prima opera poetica La luna dei Borboni (di cui, recentemente, è stata pubblicata una nuova versione, a cura di Antonio Mangione, da Besa, 2005) ) e Giannone ha rilevato quanto forte fu l’influenza che le traduzioni di Lorca ebbero su questa sua poesia. “Tipicamente lorchiana”, ha detto Giannone, “è, ad esempio, l’apparizione improvvisa, straniante, di figure e animali, che a prima vista risulta inspiegabile, come ‘il cavallo sorcino’ che ‘cammina a ritroso sulla pianura’, il ‘gatto’ che ‘trotta magro e sicuro nel Sud nero’, definizione, quest’ultima, ripresa proprio da Lorca che aveva definito la sua ‘Spagna nera’.

E a Lorca, da lui definito ‘il poeta più cromatico che il mondo conosca’, risale la ricchezza dei colori nella poesia bodiniana, come, ad  esempio, il ‘nero’ dei gatti e dei capelli delle donne, del catrame, delle monache, il ‘bianco’ della calce, il  ‘rosso’ del sangue, dei peperoni e dei pomodori, il ‘verde’ dei portoncini, il ‘giallo’ dei limoni e delle zucche, ecc.  Nella raccolta I poeti surrealisti spagnoli, poi, è presente la traduzione integrale della raccolta Poeta en Nueva York, composta da Lorca negli Stati Uniti e che è considerata da Bodini, come scrive nella sua Introduzione, ‘un grido di appassionata protesta contro l’americanismo e la civiltà meccanica raffigurate come un ossessionante trionfo della morte’.

Questo libro ebbe un innegabile influsso sulle raccolte bodiniane Metamor, Zeta e La civiltà industriale, dove il surrealismo che contraddistingue queste raccolte si carica di valenze polemiche nei confronti della società tecnologicamente avanzata”.

Gino Pisanò individua un ideale asse Salento-Spagna, similate “in un’unica spazialità categoriale il cui baricentro era costituito dall’ecumene mediterranea”, nel suo saggio “La leucadia salentina nell’archivio letterario del Novecento” (in “Andrano e Castiglione d’Otranto nella storia del Sud Salento”, Pubbligraf 2004). In quello che definisce “l’animismo folklorico-surreale di Vittorio Bodini”, i cui connotati indica nella triade “luna-gufo-gatto”, “segni persefonici di un universo infero e invisibile”, Pisanò traccia dei parallelismi fra la Spagna nera di Lorca e il Salento luttuoso e misterioso di Bodini, iconizzato dalla dominanza del buio dei suoi paesaggi e dal vocalismo chiuso e fonosimbolico di molte sue poesie.

Anche secondo Pisanò, la “pena vivente” dei gitani di Lorca è la medesima dei contadini del sud, degli ppoppiti bodiniani, e l’autore della Luna dei Borboni, fatalmente attratto dall’archetipo lorchiano, “trasfigura il Salento in emblema del Sud, di ogni Sud trascorso da presenze-assenze, introiettando e restituendo omologati il duende di Lorca, los angeles di Alberti, i lemuri salentini”.  Giannone, a conclusione del suo intervento, si è anche soffermato sulla morte del poeta di Canciones, i cui veri motivi, a distanza di tanti anni, rimangono ancora poco chiari. “Yo tengo el fuego en mis manos”, dice Lorca a Gerardo Diego, in “Poesia espanola contemporanea” (Madrid 1962) per  definire l’origine della sua poesia. Da Poema del cante jondo a Oda a Walt Whitman, da Romancero gitano a Divàn del Tamarit, la sua poesia continua a scorrerci dentro, bruciando come fuoco nelle vene.

Muretti a secco e serpi nel Salento di fine Ottocento

CIVILTA’ CONTADINA DI FINE OTTOCENTO 

A TU PER TU CON I SIPALI 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

   (…) Se nella zona arida delle masserie e in quella marginale degli oliveti la sacàra  (serpe) nidificava intr’a lli scrasciàli (muretti a secco rivestiti di scrasce [rovi]), nella campagna pienamente vissuta, ossia quella coltivata a ficheti, vigne e ortaggi in genere, trovava rifugio nei sipàli, essendo pressoché uguali le caratteristiche di asilo che le due strutture di recinzione offrivano. Per scrasciàli – come già detto – si intendevano i muretti a secco appositamente costruiti, livellati nell’altezza e intenzionalmente ricoperti di rovi; i sipàli invece, di solito situati ai confini interni del fondo come linea di demarcazione fra due proprietà diverse o come prode ai canali di scolo,  erano stati elevati man mano nel tempo con elementi casuali, ossia attraverso un progressivo accumularsi di detriti, originariamente costituiti da risulte di spietramento e via via incrementati dallo scarico dei rifiuti casalinghi e da pietre occasionali.    All’epoca, se si escludeva la sparuta presenza di uno o due spazzini, incaricati solo di scopare le vie centrali del paese, non esisteva servizio di nettezza urbana che assicurasse lo smaltimento dei rifiuti; e se li rumàte, ossia  i rifiuti trasformabili in concime (rumàtu), avevano facile deflusso nella foggia* e li mmunnàzze t’ampa (le immondizie da fuoco) venivano utilizzate come mpizzicatùru (esca) nel camino, li scigghe toste (le scorie dure) nonché li cupérchi e lli itri rutti (i cocci e i vetri rotti) non trovavano altra destinazione se non proprio quella di…sobbra’a llu sipàle.

   Qui però occorre intendersi, cioè non visualizzare i sipàli come dei grandi immondezzai partendo dalla connotazione del consumistico getta-getta odierno, che se perpetrato all’epoca li avrebbe resi sì altrettante scale di Giacobbe alte sino al cielo: la vita correva sui binari dell’essenzialità e l’alimentazione stessa assumeva in pieno il concetto dell’indispensabile, basata com’era, da un anno all’altro, sulla pietanza unica di legumi e verdure, inframmezzata dal domenicale piàttu ti mmaccarrùni e solo rallegrata dalle purpètte ti ciùcciu (polpette d’asino)  in occasione delle grandi festività. Se sui sipàli arrivavano valve di mitili erano quasi sempre di provenienza padronale,

Come ci inventiamo una cultura: il caso della Notte della Taranta

di Pier Paolo Tarsi

Possiamo partire da un’interessante intervista (interamente disponibile al seguente link: http://www.vincenzosantoro.it/nottedellataranta.asp?ID=233) rilasciata il 13 agosto 2005 a Carla Petrachi da Eugenio Imbriani, docente di Antropologia Culturale all’Università del Salento, studioso serio del tarantismo e non solo. È opportuna anzitutto una precisazione: Imbriani, per anni impegnato nel seno dell’Istituto Diego Carpitella, al momento in cui l’intervista è stata rilasciata si era già volontariamente allontanato da questo ente, battezzato “nell’estate del 1997 con il proposito di studiare e valorizzare il patrimonio artistico e culturale del Salento” (fonte: sito dell’Istituto Diego Carpitello: http://www.lanottedellataranta.it/istituto_carpitella.php) e poi finito per diventare di fatto, con un evidente restringimento dei vasti intenti sopra indicati e a scapito in specie dell’attività di ricerca scientifica, semplicemente (o almeno, soprattutto) il promotore e l’organizzatore della famigerata Notte della Taranta, cioè – eventualmente qualcuno avesse passato gli ultimi anni su Marte e non lo sapesse – della estiva kermesse musicale itinerante per vari comuni salentini che conclude il suo ciclo a Melpignano, ove raggiunge il suo clou nel mega-concertone e show-mediatico finale negli ultimi giorni di agosto. Data la situazione descritta, il detto antropologo, interessato ovviamente più che altro alla ricerca e allo studio, finalità purtroppo “fagocitate” dalla Notte della Taranta che, per sforzi e risorse economiche e organizzative richieste, “cannibalizza” necessariamente tutto il resto delle attività per cui era sorto l’Istituto stesso, se ha inteso come anticipato prendere a suo tempo le distanze da questo, non ha ritenuto opportuno sollevare polemica alcuna. Imbriani infatti ribadisce spesso nella sua intervista di voler rimanere assolutamente lontano dalle polemiche su un eventuale “tradimento” dell’ampiezza di finalità per cui l’Istituto si era costituto e in particolare di voler astenersi da polemiche sul fagocitante e totalizzante evento mediatico (che vede almeno tanti detrattori, per ragioni molto diverse e spesso distanti tra loro, quanti sono i tifosi, motivati da ragioni anche qui molto variegate, ragioni che per continuità tematica non interessa ora analizzare).

Scelta arguta questa astensione dalle polemiche che non è dovuta (come si potrebbe pensare) ad una sobria pacatezza della persona in questione, a indifferenza o addirittura a una accondiscendenza remissiva e arrendevole della stessa, quanto al fatto, ben più interessante e istruttivo qui per noi, che Imbriani, con la mentalità tipica dello studioso, è interessato più a

Cinque proverbi estivi

di Armando Polito

Non è un caso che il senso letterale di tutti i proverbi legati alle stagioni sia strettamente connesso con la cultura contadina di un tempo e soprattutto con gli eventi che ne scandivano il duro lavoro. Non fanno eccezione quelli che qui riporto. Di ognuno do, nell’ordine, la trascrizione  in italiano, le osservazioni metriche e, laddove è necessario, il commento e le etimologie.

1) ACQUA TI SCIUGNU/PISCIU TI TIAULU

Pioggia di giugno/piscio di diavolo

Due quinari legati da assonanza (sciùgnu/tiàulu) la cui vaghezza è ridimensionata ai fini musicali da ti che funge da cerniera comune tra le due parti di ogni verso con il suo valore allitterativo ribadito in tiàulu, cui è complementare la ripetizione della sillaba sciu tonica in sciùgnu e atona in pìsciu.

La nocività della pioggia in questo periodo in cui la umidità favorisce il proliferare dei parassiti è compendiata nell’espressione st’acqua ggh’è totta malatia= questa acqua è tutta malattia.

Spigolature gallipoline e noterelle galateane

Gallipoli (ph Vincenzo Gaballo)

di Paolo Vincenti

Sulla contrada che da Gallipoli porta a Chiesanuova si trova il complesso Magettaro, un insediamento rupestre medievale.  Per quanto riguarda Torre Pizzo, un’antica masseria, così denominata dal luogo in cui essa sorge, nei pressi della torre d’avvistamento cinquecentesca, sono stati individuati dei resti di un insediamento risalente all’età romana.

Testimonianze preistoriche ha dato anche Torre Sabea, presso Rivabella, e per l’esattezza testimonianze dell’età neolitica quando questo luogo era frequentato da gente che svolgeva un’attività prevalentemente pastorale.

Un notevole complesso di importanza artistica e storica è San Pietro dei Samari, risalente al Medioevo.

La Chiesa del Sacro Cuore  risale agli inizi del Novecento.Nel 1912, il vescovo Gaetano Muller decise di elevare a parrocchia la chiesa di Santa Maria del Canneto e Monsignor Sebastiano Natali, nominato dal vescovo parroco di questa chiesa, volle edificare nel Borgo un grande centro di accoglienza per i giovani che erano a rischio di devianza ed assicurare a loro un avvenire certo. Il progetto venne elaborato dall’Ing. Luigi Pastore,  e venne approvato dalla Commissione edilizia comunale nel gennaio del 1922. I lavori per erigere la chiesa procedevano a singhiozzo in quanto, nel frattempo, era stato anche progettato l’annesso Istituto Michele Bianchi, che venne inaugurato nel 1930. Anche a causa delle indisposizioni dell’Arch. Napoleone Pagliarulo, che doveva seguire i lavori, la chiesa fu terminata e aperta al culto nel 1943. Il Vescovo trasferì la sede parrocchiale di Santa Maria del Canneto alla chiesa del Sacro Cuore di Gesù, che risulta costruita a pianta basilicale, suddivisa in tre navate, culminanti in tre absidi, da due file di colonne su cui poggiano quattro arcate a tutto sesto. Don Sebastiano Natali, principale promotore della costruzione della Chiesa del Sacro Cuore di Gesù, nel 1938 pubblicò un raro volume dal titolo “Una storia di un’opera della divina Provvidenza e di una vita di apostolato”, in cui ricordava le sue disavventure con il regime fascista che gli causarono anche il confino a Cefalonia.

Nella Chiesa del Rosario, si trova la tela del patriarca San Domenico di Guzman, recentemente restaurata, che si trova al centro del coro, opera di Giandomenico Catalano (1560-1626). In questo dipinto, San Domenico, in atto benedicente, stringe con la mano destra il Crocefisso e recita il Salmo penitenziale quaresimale “Parce Domine parce populo tuo”, mentre con la sinistra indica la città di Gallipoli chiedendone il perdono e la benedizione. Molto interessante la veduta di Gallipoli nel Seicento. Con lo stesso soggetto, il Catalano realizzò anche due tele nel Santuario dell’Alizza di Alezio, ovvero San Pancrazio e San Carlo Borromeo e un’altra tela raffigurante i Santi Eligio e Menna, un tempo nell’omonima cappella ed oggi nella sacrestia della Cattedrale gallipolina.

Queste le antiche mura fortificate della città di Gallipoli: il torrione trapezoidale nei pressi della chiesa di San Francesco di  Paola; il fortino di San Giorgio, adiacente ad una chiesetta dedicata a San Giorgio, ora distrutta; fortino di San Benedetto; torrione di San Guglielmo, anche detto delle Ghizzene o della Purità, perché situato nei pressi della chiesa della Madonna della Purità; fortino di San Francesco d’Assisi, il più importante Forte di tutta la cinta muraria, adiacente alla chiesa di San Francesco d’Assisi e attiguo convento.Questo Forte venne restaurato nel 1684 e notevolmente ampliato. Vennero apposte le armi della casa regnante e all’interno una statua raffigurante San Fausto, uno dei protettori della città, con una lapide, ora distrutta. La tradizione vuole che la chiesa sia stata fondata per volere di San Francesco che, nel XIII secolo, sbarcò nel Salento di ritorno dalla Terra Santa. Accanto a questa fortezza esisteva anche una  antichissima chiesetta dedicata a Santa Maria del Cassopo, distrutta, assieme alla costruzione fortificata, nel 1819; questa chiesetta era stata costruita in epoca bizantina sui resti di un distrutto tempio pagano e il suo nome, Cassopo, riportava all’origine bizantina del culto e ricordava Corfù con cui Gallipoli intratteneva lucrosi rapporti commerciali; in questa chiesetta era venerata un’antichissima immagine della Vergine che, secondo la leggenda, riferita da Ettore Vergole, in “Il Castello di Gallipoli” del 1933, era miracolosa. Infatti la sacra immagine era riposta in un angolo molto buio e stretto dell’edificio sacro e chiunque volesse conoscere la sorte di qualche familiare che era andato per mare e non era più tornato, si inoltrava nell’angusto passaggio per pregarela Vergine del Cassopo e chiederle se il congiunto fosse vivo o morto; dopo aver rivolto innumerevoli preghiere, sempre senza muovere la bocca ma con contrizione e raccoglimento,  il fedele si affacciava su una finestrella che dava sul mare e gridava il nome del proprio parente di cui voleva conoscere la sorte; angeli o demoni, allora, rispondevano se il parente fosse vivo, morto o gravemente ferito, ecc. ; questo era udito anche da tutti quelli che erano presenti; Torre del Ceraro, così chiamata dai lavoratorio della cera che la frequentavano nel Settecento quando fu costruita; il Forte di forma pentagonale di San Domenico o del Rosario, così chiamato dalla attigua Chiesa del Rosario o di San Domenico con l’annesso convento dei Domenicani; anticamente questo bastione era chiamato Baluardo di Santa Maria delle Servine, per un antico monastero bizantino esistente nelle vicinanze, e poi fu chiamato Torre degli Arsi, a causa di un incendio che, nel 1595, divampò in una fabbrica di polvere da sparo.

Il grande Galateo si occupò di Gallipoli nella “Descriptio urbis Callipolis”, un trattato dedicato all’amico Pietro Summonte in cui descrive Gallipoli del Cinquecento con tutte le sue bellezze ed arriva a definire Gallipoli un angolo di Paradiso, per il suo clima salutare e mite, per i suoi usi e costumi, per le sue bellissime tradizioni popolari. Galateo, medico alla corte aragonese, usava trascorrere a Gallipoli le sue vacanze estive, quando ritornava in patria da Napoli. Accenna a Gallipoli anche nella sua opera maggiore, il “De situ Japygiae”.  Inoltre il Galateo ha anche lasciato un epigramma, dedicato a Nifi, una giovane amata dal poeta, in cui canta la bellezza delle donne gallipoline.

Numerosi i contributi sul Galateo apparsi su Anxa News, rivista di storia e cultura gallipolina, arrivata al quinto anno di vita: “Il Galateo a Gallipoli”, di Vittorio Basile, marzo 2003; “Nifia, la bella gallipolina amata dal Galateo”, con una traduzione dell’epigramma galateano dedicato alla bella Nifia, fatta dall’illustre poeta gallipolino Luigi Sansò ed un’altra fatta dal prof. Gino Pisanò dell’Università di Lecce, settembre 2003; nel novembre 2003, in occasione del 490° anniversario della “Callipolis descriptio” (12-12-1513), Anxa ricorda il grande amore perla Città bella di Antonio De Ferrariis, galatonese di nascita ma gallipolino di adozione, con “Ancora su Gallipoli e sul Galateo” di Vittorio Basile e “Nifi, vamp gallipolina di 500 anni fa”, di Vittorio Zacchino; “Nifi, la bella gallipolina amata dal Galateo”, del gennaio 2004, con  traduzioni dell’epigramma latino del Galateo, da parte di alcuni alunni del Liceo Classico Quinto Ennio di Gallipoli; “Emanuele Barba per Antonio Galateo”, di Vittorio Zacchino, marzo 2004; “La presa di Gallipoli del 1484 nelle testimonianze letterarie di Antonio Galateo” di Vittorio Zacchino, maggio 2004; nel numero del luglio 2004, viene pubblicata parte dell’Introduzione curata da Vittorio Zacchino alla sua recente edizione del De situ Iapygiae, dal titolo “Orgoglio Iapigio”: si tratta di una nuova edizione del capolavoro dell’umanista salentino “Antonio Galateo De Ferrariis, Lecce e Terra d’Otranto – De Situ Iapygiae” (Edi pan 2004),  con prefazione appunto dello Zacchino e traduzione italiana a cura del prof. Nicola Biffi, dell’Università di Bari. L’opera, che presenta anche traduzioni in inglese e tedesco, è un prodotto editoriale di taglio veloce e moderno, rivolto anche ai non addetti ai lavori;  “Il De neophitis del Galateo e Benedetto Croce”, di Vittorio Zacchino, marzo 2005; inoltre Vittorio Zacchino ha recentemente raccolto insieme alcuni suoi contributi sul Galateo apparsi su vari fogli salentini, fra cui anche Anxa News, e li ha pubblicati in una miscellanea dal titolo “Noterelle galateane”, per la collana “I quaderni del Brogliaccio” , diretta da Gigi Montonato. Questo fascicolo è stato allegato come omaggio al numero del dicembre 2005 di Presenza Taurisanese, mensile di politica cultura attualità, diretto dallo stesso Montonato.

Soleto. Matteo Tafuri il Sapiente

di Massimo Negro

La recente ed interessante nota del caro amico Marcello Gaballo sul bellissimo campanile di Soleto, pubblicata su questo sito, mi ha riportato alla memoria una passeggiata fatta all’incirca un anno fa, in occasione della festa di Sant’Antonio da Padova, per le strade del piccolo centro salentino.
Sono così andato a riguardare le foto di quella giornata, tra le bancarelle, in chiesa alla consegna del pane benedetto ammassato nelle ceste, tra i confratelli della congrega all’uscita della processione, seguendo il simulacro del santo portato in spalla tra le vie del paese.

Ma tra queste vi sono alcune foto di un posto un po’ particolare, forse non propriamente bello anche per lo stato in cui si trova, ma che a mio avviso ancora oggi a saperlo scovare esercita una qualche forma attrazione se non si limita a guardarlo superficialmente. Non sono foto del noto campanile, ma di una vecchia casa. Una casa tra le strette stradine del centro storico, la casa di quello che la gente del posto ebbe a definire il “mago di Soleto”, Matteo Tafuri.

Marcello racconta con molta efficacia nella sua nota le incongruenze che gli studi ci hanno restituito nel legame tra questo “strano” personaggio e la costruzione del noto campanile, avvenuta ben prima della sua nascita. Ma le leggende non guardano le date, anzi se ne fanno beffa; così si racconta come il Tafuri in quest’opera si fosse avvalso dell’aiuto di figure diaboliche e di streghe che, seconda la leggenda, il presunto “mago” aveva con chissà quale rito costretti a servirlo.

Tutto in una notte.

Una lunga notte durante la quale il Tafuri secondo la leggendo piegò a se le forze diaboliche, pronunciando strane formule latine  mai udite. Strane ombre si affaccendarono quella notte su e giù lungo il campanile, realizzando eterni ricami con la morbida pietra leccese.
Forse anche il sorgere sole venne rallentato  per dare modo di portare a compimento l’opera; ma la luce per quanto la si possa ritardare nel suo incedere alla fine ha sempre la meglio sulle tenebre e i diavoli, improvvisati manovali al servizio del mago in questa opera immane, persero anch’essi la cognizione del tempo restano pietrificati, bloccati in alto sul campanile, dai primi raggi del sole.

Ma chi era questo strano personaggio? Era veramente un mago? Un occultista capace di comandare alle oscure figure dell’inferno? O fu altro?
Matteo Tafuri nacque a Soleto nel 1492, ove nel 1584. Non fu un personaggio da poco..
Dopo i primi anni della sua formazione passati tra Soleto e Zollino a seguire il magistero di Sergio Stiso ad apprendere lettere greche e latine, lasciò il Salento approdando dapprima a Napoli dove studia matematica, medicina, filosofia, appassionandosi alla magia naturale, all’astrologia e alla fisiognomica. Dopo Napoli iniziò il suo peregrinare prima in Italia e poi nel resto d’Europa. Prima Padova e poi Venezia dove entrò in contatto con i filosofi salentini Marcantonio Zimara e Girolamo Balduino.
Lasciò l’Italia per dirigersi in Inghilterra prima e in Irlanda poi. In questi paesi iniziarono per lui i primi seri problemi causati dalla sua passione per la magia. La stessa Inquisizione si ebbe ad occupare di lui ma venne scagionato grazie all’intervento del Pontefice.

Dopo un passaggio in Germania approdò a Parigi alla Sorbona dove pare ebbe a conseguire il dottorato in filosofia e medicina. Un suo ritratto col rosso copricapo della Sorbona si trova nel dipinto del 1580  della Madonna del Rosario nella navata sinistra della Chiesa Matrice di Soleto. Il quadro, pur non in buone condizioni, ci restituisce la figura barbuta e con il capo coperto del Tafuri, con le mani giunte e lo sguardo rivolto verso la Madonna e il Bambino.

Dopo Spagna, Grecia e forse anche Asia Minore, nel 1550 torna a Napoli dove entra a far parte dell’Accademia dei Segreti fondata da Giovan Battista Della Porta, che giunge a citarlo nella sua opera Coelestis Physiognomonia indicandolo come esempio di coloro che eccellono nell’arte della fisiognomica.

A  Soleto è rimasta la sua casa natale dove sull’architrave di un antico arco è inciso il motto: « HUMILE SO ET HUMILTA’ ME BASTA. DRAGON DIVENTARO’ SE ALCUN ME TASTA »
Con quest’iscrizione Matteo Tafuri esprimeva e manifestava ai cittadini e a chiunque passasse dalla sua dimora la sua mite e umile natura caratteriale, avvertendo però che poteva trasformarsi in un dragone qualora qualcuno lo avesse ingiuriato e si fosse fatto beffe di lui. Purtroppo il Tafuri trascinò con se, anche nella sua natia e piccola Soleto, le maldicenze che ebbero già a colpirlo in Inghilterra e in Irlanda. La sua passione per la magia e l’alchimia lo rendevano un personaggio scomodo forse anche “pericoloso” e sicuramente temuto per la società di allora.

Tafuri_Casa_Interno

“Del salentin suol gloria ed onore” lo definisce il De Tommasi; “assiduo verso gli infermi”, esercitò con impegno e successo la professione di medico ma mentre era “di modello coi suoi scritti, di ammirazione e rispetto coi suoi consulti” fu dalla ignoranza popolana ritenuto un “Mago”.

Il De Giorgi nei suoi Bozzetti scrive “Fu l’idolo dei grandi, la delizia dei letterati, lo spavento degli idioti”.
Un suo discepolo e concittadino Francesco Scarpa in una sua opera lo definisce l’Atlante filosofo salentino.

Il De Giorgi, dopo averlo definito un “genio enciclopedico”, continua scrivendo:

I ciuchi del suo tempo  e del suo paese attribuirono alla stregoneria la potenza del suo genio e della sua dottrina. Mille fiabe curiose si inventarono su di lui, le quali se avessero avuto anche un sentore di verità non sarebbe egli certamente sfuggito alle zampe leonine dell’Inquisizione, in quei tempi così propizii agli arrosti! Ed ora il suo nome giace dimenticato, e fra i ritratti degli illustri salentini che decorano la Biblioteca provinciale di Lecce si cercherebbe invano la effigie di Matteo Tafuri, che fe’ stordire i dotti di Salamanca e di Parigi con la sua immensa dottrina!  Che si ripari e presto alla inconsulta oblivione!

Tafuri_Casa_Interno_2

Di questo personaggio misterioso non restano opere, se si escludono un Pronostico ed un Commento agli Inni Orfici, contenuto nel Codice Vaticano greco 2264.

Di lui resta anche l’antica casa dove ebbe ad abitare. La casa, di proprietà privata, si trova in cattivo stato di conservazione. Un bellissimo pozzo decorato all’interno ma danneggiato con delle brutture per far passare dei tubi dell’acqua e i resti poggiati all’interno dell’antico arco crollato, dove era posto il motto del Tafuri, è quello che rimane di lui.
Tafuri_Casa_Pozzo

Riprendendo l’esortazione finale del De Giorgi, ritengo cosa doverosa da parte del Comune di Soleto e della cittadinanza rendere omaggio a questa straordinaria figura provvedendo al recupero dell’immobile, rendendogli finalmente in tal modo gli onori che gli spettano.

A Matteo Tafuri “il Sapiente”!

 

Tafuri_Esterno_2

La Puglia Colada, prodotto tipico regionale della Puglia

di Pino de Luca

Ogni promessa, si sa, è un debito. Certo si può esser marinai oppure ospiti di Vespa e, in un caso per imponderabilità dell’onda marina e nell’altro per missione ed emissione dell’onda elettromagnetica, far orecchio da mercante o negare l’impegno assunto.

Ma qui è carta stampata, ieratica, persistente e consistente. Quand’anche per incartare il pesce o pulire i vetri può cadervi l’occhio, e la promessa viene ricordata e richiamata lasciando all’incauto l’onere della risposta per difesa dell’onore.

Fu promesso di raccontar de la Puglia Colada. A ciò mi accingo senza tema e senza inganno. Anche il “beverage”, ovvero dell’arte di consumar alimenti liquidi per necessità, obbligo o puro piacere, è arte del mangiare. E come i solidi da masticazione anche i liquidi son di varia composta e variamente miscelati, fatti derivare dall’occidente per uso e abitudine anglosassone, nati per truffa, inclinazione a delinquere, voglia di nuovo o semplice buon gusto.

La base primaria fu, e spesso resta, l’alcool. Veleno, piacevolissimo ma sempre veleno, con la straordinaria dote di chiamarsi anche spirito e il suo pari stimolare. Ne esistono di alcoolici, a seconda dell’intenso, della estrazione e gradazione. Vini, Birre, Whisky, Rum, Whiskey, Metzcal, Tequila, Aguardiente, Gin, Vodka, Grappa, Ouzo, Saké, Sidro, Kirsh, Calvados, Cognac, Brandy, Sherry, ecc. di varie sensazioni gustolfattive.

Ma alla curiosità e fantasia umana non bastano, miscelando e mescolando si

Marmi e marmorari nel Salento

 

Il “Comunichino” della chiesa di Santa Teresa di Gallipoli alla luce di nuovi documenti

 

di Antonio Faita

Nell’ottobre del 1992, fu pubblicato il libro “Il Monastero delle Carmelitane scalze di Gallipoli”, edito dalla Tiemme di Manduria (TA) e scritto, all’epoca, dalla laureanda insegnante Carmela Casole[1].

Un lavoro paziente e appassionato, in cui la Casole ricostruisce storicamente, sia la realizzazione del monastero e chiesa, voluta dalla costante tenacia del suo fondatore, il vescovo Mons. Antonio Perez, che la vita claustrale, di preghiera e contemplazione delle figlie di Santa Teresa d’Avila. Il tutto, attraverso un’attenta lettura dei documenti archivistici, ma soprattutto di quelli inediti conservati da trecento anni nel monastero[2] delle Carmelitane scalze.

Dalla lettura di questo lavoro ho estrapolato alcuni passaggi interessanti che mi hanno consentito di approfondire alcuni aggiornamenti su determinati aspetti:

Il 30 luglio 1700 si insediò a Gallipoli, proveniente da Napoli, il Teatino Mons. Oronzo Filomarini succedendo a Mons. Perez, la cui morte avvenne il 14 gennaio 1700, lasciando un dolore inimmaginabile per le Carmelitane e per tutti coloro che lo conobbero[3]. Nel verbale redatto durante la Visita Pastorale del 1714 Mons. Filomarini ci descrive minuziosamente il complesso monastico e la chiesa che, dalla costruzione (1687) fino al loro completamento (1690), non subirono molti cambiamenti, per cui la descrizione riportata dalla Casole sul suo libro, è anche quella dell’attuale sistemazione[4].

La chiesa è dominata dal barocco degli altari, un esempio significativo, se non unico, in cui la tenerezza della pietra leccese ha certamente costituito un invito all’esuberanza della decorazione, consentendo nello stesso tempo un linguaggio assai ricco di motivi. Da un accostamento con altri altari in alcune chiese di

Totò

Quello che segue è un raccontino a cui chi scrive è molto affezionato, non perché sia questo scritto particolarmente degno o elegante (tutt’altro!) ma solo e soltanto per essere l’unico che non è andato perduto tra i tanti composti da ragazzo. Avevo appena terminato il primo anno di superiori, era d’estate, mia madre mi raccontò la breve storia terrena della primogenita della sua famiglia, della quale lei, nata seconda, porta il nome e il ricordo di quanto le venne riferito. Da quelle sue parole trassi appunto “Totò”, titolo ispirato dal nome del mio nonno materno, scomparso quand’io ero un bambino. Lo scrissi su un foglio da lettera – all’epoca non avevo ancora un computer – così come facevo ogni tanto in quegli anni quando qualcosa mi ispirava o quando mi innamoravo perdutamente di qualche ragazzina a cui poi, naturalmente, finivo per non spedire mai nulla. Di tutti quei fogli sono riuscito a conservare solo quello su cui avevo impresso a matita questa storiella, trascritta poi per caso in un documento word quando ebbi il mio primo pc, qualche anno dopo. Il file che lo conteneva è sopravvissuto incredibilmente a decine di virus informatici e a serie interminabili di formattazioni dei vari computer utilizzati nel corso del tempo, giungendo sano e salvo fino a oggi: ne concludo che era destinato o caparbiemente intenzionato ad essere condiviso un giorno con gli amici di Terra d’Otranto, così come venne scritto quell’estate, cioè con tutte le sue ingenuità e leggerezze, mantenute e preservate come nell’originale in quanto per chi scrive preziose sopra ogni cosa. Ai lettori l’invito finale a tollerarle con la generosità di cui son certamente capaci. 

 Pier Paolo Tarsi

Totò 

Di buona famiglia e lavoratore, raccolse la corda rossastra di terra, rossa nell’odore, la terra.

La sera si sforzava già di catturare la luce del tabacco ardente e stanco, legare la cassa al ferro della lambretta era un’operazione calma di boccate fumo e agrodolce senso di una fine.

I profili degli ulivi più in là, le pile di pietra sull’unica strada per il ritorno. Quel sud. Finiva un giorno di raccolta e la cassa era piena di stracci e di legumi buoni per sua moglie, quella santa donna che stava per dare alla luce il primo figlio di Totò.

Si andò e il suono del ciclomotore si sparse intorno, respinto a tratti dai muri in pietra che delimitavano un fondo da un altro, un fondo dalla strada, così fino alla principale e da lì lontano per casa.

Nel cortile spense la lambretta presa da poco, slegò la cassa e con questa nelle braccia venne dentro. L’aria era calda e corposa, nel camino un fuoco s’addormentava ed accanto la donna dormiva in una sedia.

Scenario consueto ormai da tempo, Totò poggiò la cassa, si avvicinò a lei senza far rumore e allungando un braccio prese la pignatta dal camino, si sistemò lì

La Puccia salentina fidanzata ideale del Prosciutto San Daniele

Le pucce “fatte a casa” con le olive Celline

di Pino de Luca

Eustachio Cazzorla è uno che si intende molto di vini ed enogastronomia, ho il privilegio di annoverarlo tra le mie conoscenze. Qualche giorno fa mi ha informato che per tutto il 2011, in seguito ad accurata selezione, i friulani del San Daniele hanno scelto accuratamente il pane che accompagnrà il Prosciutto (quello con la P maiuscola). Tra quelli esaminati la Puccia salentina (quella con la P maiuscola) del Panificio Caroppo di Minervino (di Lecce non delle Murge) è risultata la fidanzata ideale del Prosciutto San Daniele.

La Puccia salentina è prodotto tipico della Puglia … e come tutti i prodotti tipici ha una sua storia da raccontare, capita però che chi tipizza i prodotti spesso dimentica di farlo, e allora occorre rimediare.

Qualche mese addietro, una serata sul vino fatta nella cantina dei Feudi di Guagnano di Gianvito Rizzo, ha visto ospiti alcuni personaggi straordinari tra cui un artigiano panificatore che ha fatto le pucce in diretta secondo la tradizione leccese. Ne serbo ancora un video che prima o poi ritroverò. Lui diceva che da sempre si faceva così.

Questo stimola la mia curiosità: quando comincia il sempre? Il termine deriva da Buccellatum, tipico alimento militare delle legioni romane, portato in salmeria da ciascun legionario (era repubblicana). I soldati romani dovevano avere una autonomia di 16 giorni. Portavano anche frumentum (in realtà era

Antonio De Viti De Marco. Una storia degna di memoria

di Tommaso Manzillo

Dovrebbe pazientare il lettore se si insiste con un ulteriore approfondimento su Antonio De Viti De Marco, ma lo spessore culturale, economico e politico dell’uomo impone un altro contributo su una figura storica grandiosa. Per gli addetti ai lavori, per gli amanti della scoperta e della ricerca, cercare di capire meglio il marchese di Casamassella è sempre appagante, pieno di sorprese, e riempie l’animo di grande soddisfazione e orgoglio per aver saputo portare il Salento nel mondo. Si, nel mondo. Perché la sua fama si estese presso i più grandi economisti americani, tedeschi, inglesi, oltre agli italiani Vilfredo Pareto, Maffeo Pantaleoni, Luigi Einaudi ed altri.

L’uomo che approntò la nuova scienza delle finanze viene dal Salento ed è Antonio De Viti De Marco. Sarebbe l’ora di iniziare anche a parlare, oltre che di federalismo fiscale, anche di federalismo culturale. Ce lo chiedono i protagonisti più grandi di ogni particolare territorio, che molto spesso rimangono oscurati dalla Storia, lontani dalle aule scolastiche ed univesitarie, dopo aver offerto decisivi contributi nel panorama culturale, storico, politico, economico e sociale. E il Salento, soprattutto Galatina, hanno una lunga schiera

Arriva l’estate e il salentino che fa? Si scrucùddha e ssi ssòssula.

di Armando Polito

 

Nonostante l’allarme puntualmente lanciato dagli studiosi sui pericoli di una prolungata esposizione al sole, rimane indubbio che una carnagione ambrata è, almeno per chi scrive, più attraente di una chiara se non pallida, mentre nell’immaginario collettivo essa è indizio di una vita sportiva e sana, a contatto diretto con la natura; poi, magari, quell’invidiata tintarella è il costoso, artificioso frutto delle cosiddette lampade, ancora più pericolose e dannose, sempre secondo gli studiosi, del buon, vecchio sole; mi rimangio il buon appena pronunciato perché da tempo si parla di sole malato  per i danni che abbiamo arrecato alla fascia protettiva dell’ozono e che hanno ridimensionato se non ribaltato i benefici della nostra stella.

Ed ecco il businnes delle creme protettive e di quelle che, magari,  ti garantiscono un’abbronzatura da negro in tre giorni e il melanoma fra una decina di anni…

Il dialetto neretino ha due verbi riflessivi (ma l’ausiliare, anche per loro, è avere) molto pittoreschi, specialmente il primo, usati all’indirizzo dei fanatici dell’abbronzatura ad ogni costo: scrucuddhàrsi e ssussulàrsi; sicché, almeno un

La maggiorana (lu zzànzicu)

di Armando Polito

immagine tratta da http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Starr_070906-8857_Origanum_majorana.jpg?uselang=it

nome italiano: maggiorana

nome scientifico: Origanum maiorana L.

famiglia: Lamiaceae

nome dialettale neretino: zzànzicu

Etimologie: quella della voce italiana è incerta, per i più probabilmente è da connettere al nome latino (amàracus o amàracum), che è da quello greco (amàrakos o amàrakon).1 Lo stesso dicasi per la seconda parte (maiorana) del nome scientifico, la cui prima parte (origanum) è dal greco orìganos=origano. Zzànzicu è dal greco sàmpsucon (o sàmpsychon), altro nome, oltre a ad amàrakos o amàrakon, della maggiorana. Il nome della famiglia (Lamiaceae) è forma aggettivale di lamium, varietà di ortica di cui parla Plinio2 (I° secolo d. C.).

E proprio dal naturalista latino inizia, come di consueto, la carrellata delle testimonianze antiche: “… è lodato quello (l’unguento) di amaraco a Coo; poi lì fu preferito quello di martora.”3; “Il medico Diocle e i Siciliani chiamarono amaraco quello che in Egitto e Siria si chiama sampsuco. Si riproduce in entrambi i modi, per seme e per ramo, è più longevo delle piante citate prima e

Toponomastica/ Li ‘mpistàti: un caso simile a via Scapigliari?

di Armando Polito

Li ‘mpistati (gli impestati) fino a qualche anno fa era il nome di una località periferica di Nardò, adibita in passato a lazzaretto. Oggi è una via, sia pure periferica, e sulla tabella viaria si legge via S. Gregorio Armeno e, sotto, in caratteri più piccoli, già via Impestati; è un altro esempio (diverso nella procedura, ma analogo nella motivazione psicologica iniziale e negli effetti finali, dopo quello di via Scapigliari di cui ho parlato nel post La scapece e una, forse indebita, illazione toponomatica del 18 u. s.; l’assenza di qualsiasi replica mi autorizza

Ancora una volta la potenza creativa del dialetto salentino!

Un’insospettabile parentela: fricìre, frìzzulu, ‘nfrizzulàre e ‘nfrizzulisciàre

di Armando Polito

Ad essere sincero l’insospettabile del titolo anche a un non addetto ai lavori potrebbe sembrare poco discutibile, relativamente alla prima voce rispetto alle altre tre, per i modesti dettagli fonetici in comune (in pratica fri-) e per agganci semantici che, almeno a prima vista, non sono immediati.

Partiamo da quello che si rivelerà essere il capostipite: fricìre. Esso ha il suo omologo italiano in friggere, che è dal latino frìgere (superfluo far notare che si tratta di una radice onomatopeica). La forma dialettale ha comportato un normalissimo passaggio alla quarta coniugazione e relativo spostamento dell’accento (come in liggìre, italiano lèggere, latino lègere).1

Passiamo a frìzzulu che a Nardò indica le briciole della crosta del pane (in altre zone pezzetti di pane fritto) e, al plurale (li frìzzuli), le olive avvizzite e cadute. Prima di passare alla sua etimologia, per rendere di più immediata

Da Tricase a Civita Castellana: il racconto di Lutgarda Turco / Quarta ed ultima parte

LUTGARDA TURCO, LA PIETRA E IL PESCATORE

La costa di Tricase si estende per otto chilometri, con numerose grotte che il mare ha sapientemente scavato nei secoli tra le scogliere. Per raggiungerle si accede solo con le barche, il loro interno pullula di pipistrelli e colombi selvatici che vengono a nidificare.

La marina principale è quella di Tricase Porto. C’è la certezza che il porto, essendo un’insenatura naturale, esista da sempre. Per la sua bellezza, i signorotti del paese vi costruivano le loro ville in stile liberty, mimetizzate tra una magnifica e lussureggiante vegetazione. Il pittoresco porticciolo è incastonato tra le scogliere che finiscono a strapiombo nel mare limpido e azzurro, una vera medicina dell’anima.

Arrivata a Tricase, nonostante siano trascorsi tanti anni, mi sono ben ricordata della mia casa in Via della Carità: come avrei potuto dimenticarla? È là che ho visto la luce! Dalla strada si entrava in un grande cortile dove noi più piccoli giocavamo a campana e alle signore[1], oppure ci raccontavamo storie fantasiose. Dal cortile si accedeva all’abitazione, una stanza grande con annessa cucina e un camino al centro; dalle scale si accedeva al piano superiore con camera e bagno. Al di sopra, una grande terrazza dove in grandi vasi mia madre coltivava basilico, prezzemolo, rosmarino e peperoncini piccanti, detti da noi tiaulicchi, piccoli diavoli. Dalla terrazza si scopriva parte del centro storico, i giardini con le piante di limoni e arance, le piazze, i monumenti e le chiese. Nelle serate d’estate, quando la gente usciva per la passeggiata, si poteva udire il chiacchiericcio, quasi fosse una melodia, salire fin sulla terrazza. Ricordo anche quando insieme a mia sorella passavamo interi pomeriggi a giocare con le bambole di pezza che confezionavano le sorelle più grandi.

Ricordando tutto questo, a stento potetti trattenere le lacrime e il pensiero corse ai miei genitori e alla loro sofferenza nel lasciare la casa costruita con tanti sacrifici. Nel fare il giro del mio paese, mi fermai nella piazza principale dove delle persone sedute sulle panchine chiacchieravano del più e del meno e

Dal clima, alle vicende politiche e ai prezzi: effemeride della quotidianità

di Rocco Boccadamo

L’estate è alle porte, lo scirocco e l’afa mordono, sfiancano, generano fastidio.

In siffatto contesto meteo – climatico, s’innesta, per di più, l’affanno al seguito di avvenimenti e scadenze altrettanto defatiganti, quali elezioni, ballottaggi, referendum: da parte della folta casta di sacerdoti e bramini addetti ai riti della politica, si sostiene che trattasi di momenti di alta e pura democrazia, da viversi senza se e senza ma, sermoni, invero, che suonano poco convincenti. Al di là, a prescindere dalla pletora di formazioni politiche e/o partitiche, di movimenti e di orientamenti, dai simboli e dai proclami che sembrano assicurare paradisi terrestri a ogni piè sospinto, sembra che sia giunta la stagione in cui, pur con gli occhi doverosamente rivolti al presente e soprattutto al futuro, è necessario guardarsi dentro, riandare alle essenze positive delle generazioni passate, alle pietre miliari solide che segnavano rapporti, dimensioni, misure, equilibri, in ogni campo.

Già, perché, ormai da lunga pezza, si ha la sensazione che numeri, valori e beni siano finiti in una sorta d’impazzimento senza regole e ragioni, in giro si capisce poco e niente.

Qualche spigolatura esemplificativa. Sulle vetrine di un elegante bar vicino casa, è stato da poco affisso un cartello, dal contenuto secco ma indicativo “NO self service!!! Ai tavoli, vi serviamo noi!!!” . Dice il gestore, qualche avventore ci marciava, al banco, il caffè si paga 70 centesimi, per chi lo desidera sorbire comodamente seduto ai tavolini fuori, il prezzo è invece di un euro.

Ma, prodotto e opzioni simili, a Roma, l’ordine delle cifre è di 95 centesimi /un

Erbe infestanti. La cramègna (la gramigna)

di Armando Polito

nome italiano: gramigna

nome scientifico: Cynodon dactylon (L.) Pers.

famiglia: Poaceae

Il nome dialettale e quello italiano sono dall’aggettivo latino femminile gramìnea(m)1=di erba, da gramen=erba. Cýnodon è un aggettivo che significa con denti di cane, modellato alla greca sul sostantivo greco kynòdus=dente canino, formato a sua volta da kyon=cane e odùs=dente; dactylon è dal greco dàktylos=dito2. Poàceae è forma aggettivale latina moderna dal greco poa=erba

È l’infestante più nota, diffusa e temuta sul globo; eppure, paradossalmente ha dato vita al nome della famiglia (Graminaceae) dell’essenza alimentare per eccellenza: il grano.

Nel mondo greco quest’erba era nota col nome di àgrostis3, da agròstes=selvatico, a sua volta da agròs=campo.

Per quello romano ecco la testimonianza di Plinio(I° secolo d. C.): “Proprio la gramigna è conosciutissima tra le erbe. Serpeggia con i suoi internodi a forma di ginocchio e frequentemente da essi e dalle punte sparge nuove radici. Le sue foglie nel resto del mondo assottigliandosi terminano a punta, solo sul Parnaso hanno l’aspetto di quelle dell’edera, più folte che altrove, dal fiore candido e profumato. Non c’è erba più gradita di questa agli animali, sia verde, sia seccata come foraggio purché sia data dopo averla spruzzata di acqua. Dicono pure che il succo si estrae da quella del Parnaso per la sua abbondanza. Esso è dolce. Nel resto del mondo al posto del succo si usa il decotto per cicatrizzare le ferite, al che è utile anche l’erba pesta e preserva le piaghe dall’infiammazione. Al decotto si aggiunge vino e miele, altri vi aggiungono pure un terzo di incenso,

Cefalea in camice

di Raffaella Verdesca

Era quasi tutto pronto per il convegno internazionale sulle cefalee.

L’avevano preparato in gruppo per ben quattro mesi, collaborando con i più famosi specialisti del campo: Zimmermann, Devor, Zhang e una copiosa schiera di addetti ai lavori provenienti da ogni parte del mondo.

Squallida storia quella dei ‘cervelli in fuga’ dall’Italia: studiosi, ricercatori, scienziati divenuti famosi in Stati capaci e felici di rendere onore e merito alla loro intelligenza. Lui, Salvatore Bensi, era rimasto stoicamente in Italia ad esercitare la professione di neurologo e neurochirurgo, naturalmente non di ricercatore.

Aveva lavorato duro e ogni giorno era riuscito a guadagnarsi un gradino in più in fama e potere, tanto da essere stato scelto come coordinatore del convegno in assoluto più prestigioso nel campo delle emicranie e delle cefalee.

Oltre questo, dov’era il merito?

Sicuramente quello di aver portato un simile clamore scientifico fino al suo paese piccolo e sconosciuto: Algìa.

Ridete?

Algìa era l’unico luogo degno di fare da spalla a un convegno sul dolore.

Heng Zhang, esimio rappresentante della Repubblica Popolare Cinese, saputa la traduzione del nome del paese, non aveva smesso di ridere per giorni, convinto che gli italiani fossero davvero insuperabili a creare scherzo e buonumore da tutto.

E se quel simpatico luminare cinese avesse scoperto che proprio lui, il dottor Bensi, ideatore e relatore della convention, nonché illustre cittadino di Algìa, proprio quel giorno era portatore di una cefalea all’ultimo stadio?

“Italiani mattacchioni, ih, ih, ih!”

Eh no, il viso stravolto e tumefatto di Bensi faceva capire lontano un miglio che non c’era proprio niente da ridere! Salvatore non era nuovo a forti mal di testa in seguito ad esplosioni di ansia incontrollata, ma in quell’occasione,

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!