“TURISTI IN CARROZZA”: ITINERARI IN TRENO ALLA SCOPERTA DELLA GRECìA SALENTINA
Il Salento è un mondo da visitare lentamente, per questo niente è meglio del treno.
Soprattutto poi, se si abbinano ai tratti di linea ferrata, passeggiate di media e lunga percorrenza, che permettono di assaporare il gusto dell’incontro con la gente, la bellezza della natura e la scoperta di culture e tradizioni di un Salento arcaico, essenziale, che più di tutti ha conservato gli elementi delle sue tipicità.
L’iniziativa “Turisti in Carrozza”,promossa dall’Associazione Salento Slow Travel, nata grazie al Concorso Regionale Principi Attivi 2010, propone una serie di itinerari all’insegna della lentezza e della sostenibilità.
L’Associazione sostiene e diffonde i principi e i valori del Turismo Responsabile, con l’obiettivo di promuovere a partire dal Salento, un turismo lento e sostenibile, attento ai valori di un territorio e alle sue tipicità.
Per tutto il mese di Agosto dalla stazione Ferroviaria di Zollino, sarà possibile scegliere di viaggiare in direzione Sternatìa, Soleto e Corigliano d’Otranto, alternando tragitti in treno a percorsi a piedi e/o in bici.
La stazione di Zollino diventa così capolinea di itinerari turistici sostenibili ma soprattutto responsabili : qui infatti due vagoni, altrimenti rifiuto per le Ferrovie Sud Est, sono stati appositamente restaurati e recuperati, per essere portati a nuova vita come contenitori di idee e cultura. All’interno, la proiezione di un documentario e una mostra di fotografie storiche (entrambi a
Tra latino e neretino, sospeso a un albero di fico…
“Siamo qui per la dignità”. Il volantino inizia con queste parole. Volti sorridenti, fra loro ci sono anche ragazzi di Tecnova, che già subirono l’umiliazione di nuove forme di schiavitù. Oggi chiedono solo banale “dignità” nel mondo luccicante della movida e dei turisti con il naso all’insù pronti a meravigliarsi di cotanto passato e nobiltà che racconta il barocco leccese.
Loro, i ragazzi, non sono arrivati qui per fare i turisti ma semplicemente per sentirsi persone.
“Chi ha gestito la vicenda Boncuri, noi delle brigate di solidarietà e l’Associazione Finis Terrae, ha trovato una situazione allarmante, campi stracolmi, sfruttamento, disservizi. E’ stato tutto molto complicato, centinaia di braccianti che non hanno aiuti da nessuno. La sorpresa positiva è stata la coesione che questa drammatica situazione ha generato. Camerunensi, nigeriani, tunisini e ragazzi di altre nazionalità hanno avuto la capacità di fare corpo unico ed autoorganizzarsi in questa manifestazione. Il sindacato è praticamente di appoggio, anche se in forte sinergia.
Loro subiscono i caporali, sono sottopagati, non lasciamoli soli, informate, fate sapere”. E’ quasi una preghiera la sua. “ Ivan è stato minacciato di morte dai caporali, questa è la situazione. Boncuri ha confini più vasti di quel che si crede, non è solo Nardò, arrivano anche da altri comuni i lavoratori. Ora siamo all’assurdo di un campo che dovrebbe contenere 200 persone, invece sono oltre 350, manca anche l’acqua calda, dovrebbe occuparsene l’amministrazione comunale, tutto tace. I ragazzi chiedono il rispetto dei diritti fondamentali, il caporalato è un cancro”.
A parlare è Francesco delle brigate della solidarietà. Ed i numeri sulla popolazione del campo ci vengono confermati telefonicamente da Gian Luca Nigro dell’Associazione Finis Terrae.
Antonella Cazzato, segretaria confederale CGIL precisa “Ovviamente ogni forma di protesta nasce per volontà dei lavoratori che non sopportano più. Nel nostro territorio è la prima volta che gli immigrati occupati in agricoltura decidono di scendere in piazza. Il lavoro del sindacato è, si, di sostegno, ma abbiamo il compito di organizzare la protesta cercando le soluzioni dei problemi. Senza la mediazione del sindacato rischierebbero di essere voci senza ascolto”.
“Caporalato, parliamone, non ci sono gli ispettorati del lavoro che controllano?”
“Abbiamo da tempo denunciato un calo di attenzione da parte della politica, delle istituzioni e dell’attività ispettiva. Questi lavoratori, di fatto, sono invisibili. Abbiamo chiesto da sempre di organizzare un’accoglienza dignitosa, a Boncuri volevamo uno sportello dell’occupazione che permettesse una vigilanza contro i caporali. Ai datori di lavoro chiedevamo invece il rispetto delle paghe e delle condizioni di lavoro. Il contratto prevede che a loro carico ci siano: vitto, trasporto, alloggio ed acqua. Nulla di tutto ciò esiste, parliamo di sfruttamento vero e proprio. Per non dire delle paghe irrisorie”.
Annotiamo che la paga dovrebbe essere tra i 6 e i 10 euro a cassone di pomodori, mentre ora per riempire un cassone di 100 chili vengono pagati 3,5 euro. In più alla fine della giornata il caporale rapina ai ragzzi 3 euro più altri 5 per il trasporto. Una giornata di oltre 10 ore di lavoro sotto il sole, dunque, frutta agli immigrati lavoratori stagionali meno di 20 euro.
Diritti, appunto. Abbiamo raggiunto telefonicamente il Sindaco di Nardò, Marcello Risi, che assicura dia aver fatto accertamenti personalmente nel campo e che non gli risultano problemi si sovrappopolazione. Secondo il Sindaco le tende a sei brandine, e quelle più piccole con meno posti letto, sono piene, ma non si va oltre. “Il problema dell’acqua calda esiste, in realtà, ed è in fase di risoluzione”.
Anche se siamo in agosto e una doccia fredda non fa poi così male, in fondo è pur sempre un servizio essenziale. Inoltre, secondo Risi, il problema caporalato è in mano interamente agli immigrati, “Non è un’attività criminosa gestita da italiani”.
Qualcuno saprà pur qualcosa fra datori di lavoro, controllori e osservatori, sembra però un muro di gomma contro il quale rimbalzano le responsabilità. Loro, i lavoratori, sono davanti alla prefettura, a ritmare con i loro tamburi il tempo che scorre e la rabbia pacata che hanno dentro. Caporali, sfruttamento del lavoro, migliaia di uomini invisibili che vagano per i campi a raccogliere angurie e pomodori, sembra un altro mondo, diverso dal luccichio delle sagre strapaesane e delle feste della taranta. Sembra il passato remoto. Eppure siamo nel 2011, in terra di Salento, con mare, sole, jentu che chiamano vacanzieri. Nel Salento dell’assenza dei politici a portare solidarietà. Neppure uno si presenta per tutta la mattina. Siamo quasi in ferie, e poi, diciamolo, i poveretti del PDL hanno già dovuto rinunciare al pellegrinaggio in Terra Santa, volete che perdano tempo qui in strada? Gli altri… beh, lasciamo andare. Tentiamo di dare visibilità ai fantasmi neri che vagano per i campi profumati di origano e mentastra. Ora anche di rabbia.
Camminando per il Salento: il territorio dell’Arneo
di Mino Presicce
L’Arneo: vasto territorio posizionato nel cuore della penisola salentina, in passato scenario di sanguinose lotte contadine.
L’Arneo: terra di latifondi, distese immense di pascoli, uliveti, macchia mediterranea; territorio aspro, crudo, arido, rifugio di briganti.
L’Arneo: terra rossiccia, terra deserta, terra assetata.
Per chi ha la fortuna di esplorarlo, oggigiorno, l’Arneo conserva ancora le cicatrici di un indelebile e triste passato. Quella fortuna noi l’abbiamo avuta e grazie all’abilità nonchè all’esperienza di Roberto (la nostra guida) in un caldo pomeriggio di luglio, abbiamo girovagato per una quindicina di chilometri, lungo i tortuosi sentieri dell’Arneo. Abbiamo visitato masserie, ville gentilizie, dimore signorili e incontrato, lungo il cammino, ruderi di antiche abitazioni, furnieddhi[1], vecchi pozzi per la raccolta dell’acqua piovana, torri colombaie, abbeveratoi per animali, ecc.
La nostra spedizione è partita da masseria Carignano Grande, in territorio di Nardò. Lo scenario che si presenta davanti ai nostri occhi è quello di un paesaggio in via d’estinzione: un impianto masserizio cinquecentesco con masseria fortificata (ben visibili ancora oggi le numerose caditoie lungo il perimetro della costruzione), ampio giardino con cisterne, chiesetta con campanile a vela e, poco distante, la torre colombaia. Già il primo impatto è
Niente di nuovo sotto il sole, ma il sole da qualche decennio non vede altro che il peggio del vecchio.
I proverbi qui raccolti in tre succinti gruppi rappresentano un’impietosa diagnosi dello stato morale comatoso dell’attuale società, con la differenza, non di poco conto, che i disvalori da loro fustigati costituivano in passato una rara eccezione. Nutro, tuttavia, una speranza e in questo credo di essere in buona compagnia: quando la corda è sottoposta ad un’eccessiva tensione inesorabilmente si spezza e finisce rovinosamente a terra chi imperterrito continuava a tirarla.
Non tutto il male vien per nuocere: il lettore trarrà giovamento dai conati di vomito (chiedo scusa per l’immagine) che mi impediscono questa volta di stilare la consueta trascrizione in lingua, qualche nota etimologica e qualsiasi ulteriore commento, fatta eccezione per l’ultimo proverbio del secondo gruppo da me adattato per la circostanza.
a) La meritocrazia, la raccomandazione e la fuga dei cervelli.
Lu pruèrbiu è generale,/lu canòsce ogni nazione:/ola l’omu senza ale,/basta ca hae nna proteziòne.
Ungi l’assu ca la rota camìna.
A cci fatìa nna sarda, a cci no ffatìa una e mmenza.
Ci càngia paese càngia sorte.
b) La litigiosità, l’ingordigia, la connivenza, l’opportunismo, la corruzione e il trasformismo della politica.
Li ciucci si àttinu e li bbarìli si scàscianu.
Ci cumànda no stracca mai.
Ci cumànda no ssuta.
La entre ggh’è co’ piddhècchia: quantu cchiù mminti cchìù si stindècchia.
Li sordi ndi càccianu l’uècchi allu tiàulu.
Lu tiàulu iuta li sùa.
Mangiàndu mangiàndu ti ene l’appetìtu.
Nna manu llava l’addha e tott’e ddoi si llàvanu la facce.
Rrobba t’addhi, curèscia larga.
Ti la capu nfitèsce lu pesce.
Nnu pete intr’a ddo’ scarpe no ppò stare (quando è un piede normale, non un piede “responsabile”).
c) La manovra finanziaria
Li sordi pòrtanu li sordi e li pitùcchi pòrtanu pitùcchi.
Gesù Cristu, pruìti li pruitùti ca li spruitùti sontu bbituàti.
Lu cane ci mòzzica? Lu strazzàtu.
Lu pesce cchiù grande si màngia lu pesce piccìccu.
Pùlici cu ppùlici fàcinu lìndini.
Quàndu lu pòveru tae allu riccu lu tiàulu si ndi rite.
Il grande poeta salentino Antonio Verri (un autore incredibilmente ancora escluso dalle antologie dei poeti nazionali), guardando il paesaggio caratteristico della sue parti, scrisse: “Continua il dialogo con la terra, con una realtà di volta in volta essenziale, lineare, un po’ amara, un po’ magica …”.
In queste parole sono racchiusi i contenuti di una serata straordinaria che viene proposta
Sabato 6 Agosto, dal tramonto all’alba,
presso l’Orto dei Tu’rat, un parco culturale/agricolo/ecologico, situato nel Comune di Ugento (Lecce), si terrà l’evento, dal titolo
“PAROLE SANTE… soffiate, musicate, perdute tra vento e acqua”
Durante la lunga serata si ascolteranno poeti, musicisti e performer, si guarderanno video artistici, si potranno assaggiare prodotti del Salento e bere vini di Puglia.
L’evento dà l’occasione di visitare e conoscere la bellezza disarmante dello scenario proposto da l’Orto dei Tu’rat, in assoluta sintonia con il paesaggio e l’atmosfera ambientale circostante. Entrando nell’orto ci si trova infatti di fronte a dodici mezze lune di pietra a secco immense, costruite con pietra di Alessano, e la prima cosa che a tutti viene spontanea è il silenzio. L’idea immediata di un vivere con lentezza, la suggestione di una natura impalpabile che respira e si mostra senza alcuna vanità.
Sandro è in compagnia del suo respiro, pesante come un carico di piombo.
Si sente risuonare nelle orecchie i soliti proverbi della madre: “Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te.”
Strana donna quella, non l’ha mai sentita parlare fuori da frasi fatte: ne è morta soffocata.
Questa volta, però, Sandro le darebbe ragione, anzi si autoaccuserebbe di stupidità davanti al mondo intero.
Da bravo ambientalista, milita da molti anni nel WWF: ne ha fatte di spedizioni punitive contro i trasgressori della natura! Lui, Carlo e Francesco, sempre uniti negli ideali e nella vita.
Mentre la fronte gli si ricopre di sudore, Sandro rimane immobile nel suo riparo di fortuna e per non pensare al pericolo che sta correndo, ricorda la volta in cui tutti e tre hanno disegnato un enorme fiore sulla pelliccia del sindaco Marina Salieri. Ha ancora davanti agli occhi l’immagine della faccia inviperita di quella: “Imbecille! I fiori a una donna si regalano, non si disegnano!”
Ma è un ricordo che si consuma in un lasso di tempo troppo breve per far dimenticare la paura.
Quando hanno liberato dalle ville i cani legati alla catena hanno ricevuto in cambio qualcosa di poco vicino alla gratitudine, ma di molto simile a un morso nel sedere.
Fortuna, poi, non aver subìto la legge del taglione il giorno in cui hanno svuotato un intero flacone di lassativo nella minestra del guardiano dei polli! Quel poveraccio non è più tornato al lavoro nell’allevamento!
Piccoli eroismi di ragazzacci idealisti, davvero poco consolanti ora che uno di loro si trova aggrappato a un tronco che può cambiare il suo destino. E poi parlano di abbattimento degli alberi!
Meno male che qualche mese prima il WWF si era battuto per la conservazione dei dieci ulivi secolari attorno alla zona industriale della città, altrimenti a
L’Associazione Porta d’Oriente propone, in collaborazione con il Centro Culturale Ricreativo Sportivo Lucugnanese e Casa di Ritrovo “Giovanni Paolo II”, la terza edizione de
La Sagra della Terracotta
il 1° Agosto 2011, con l’intento di recuperare e rivitalizzare la manualità, l’utilità e la creatività di un’arte che la nostra terra, in maniera esclusiva e plenaria, ha ereditato dalla notte dei tempi.
La storia ci porta a considerare gli eventi degli ultimi tremila anni che hanno visto protagonisti la creta e i suoi innumerevoli utilizzi: la sua duttilità, la sua facile reperibilità, la sua durata nel tempo, la sua resistenza alle alte temperature, all’acqua e ai cambiamenti climatici e la sua facilità di trasporto ci inducono a scommettere sulle notevoli potenzialità dei manufatti da essa ottenuti anche in futuro.
Il bacino del Mediterraneo è stato notoriamente la culla delle lavorazioni di questa materia prima anticipando di diversi secoli uno dei fenomeni culturali, sociali ed economici più attuali: la globalizzazione.
Difatti, la sua praticità rese la creta uno degli elementi fondamentali nella vita quotidiana di diverse popolazioni delle più svariate ere e per tale motivo divenne oggetto di scambi commerciali, culturali religiosi dell’intero Mediterraneo.
Oggi, l’immaterialità delle relazioni sociali e l’indifferenza verso la storia, le identità e le usanze che ci appartengono hanno deviato l’attenzione e l’interesse delle nostre generazioni dalla portata artistica della terracotta, quale motivo di valorizzazione del territorio e di riqualificazione sociale. L’unica eccezione all’oblio di questa tradizione perdura nel Salento ed in particolare nella nostra cittadina, Lucugnano.
L’Associazione culturale e di volontariato Porta d’Oriente intende dar seguito al successo ottenuto il 1° Agosto 2009 e 2010 con la prima e seconda edizione de “La Sagra della Terracotta”, tenutasi nell’ambito del Coordinamento delle Sagre del Capo di Leuca. L’evento è stata occasione per le centinaia di persone presenti per degustare le specialità culinarie tipiche della nostra terra, per ascoltare e ballare la musica popolare de “Lu Rusciu Nosciu” e, soprattutto, per ammirare la lavorazione e la decorazione sul posto dei manufatti degli artigiani lucugnanesi. Grande curiosità ed apprezzamento, infatti, sono state manifestate dai visitatori salentini e dai turisti delle più svariate provenienze che per tutta la serata hanno potuto constatare con i propri occhi il significato raffinato e concreto della lavorazione della creta e il connubio tra la fantasia e la laboriosità artigianale di tale attività. Per tale motivo, con lo stesso entusiasmo e la stessa passione della passata edizione, Porta d’Oriente, C.C.R.S.L. e Casa di ritrovo “Giovanni Paolo II” rinnovano le loro intenzioni per l’estate 2010, precisamente il 1° Agosto in Piazza Comi, quale ulteriore occasione per il pubblico di avvicinarsi alla evoluzione storica della nobile arte, alle tecniche di manipolazione della materia e di creazione dei prodotti e alla decorazione artistica degli stessi.
Alla realizzazione della Sagra collaborano (attraverso l’esposizione dei loro lavori) gli stessi artigiani figuli di Lucugnano, i “critari” (“La Terracotta” di Giampiero Indino, “La Bottega” di Giuseppe Indino” e “Ferrari Ceramiche” di Massimo Ferrari”) impegnati nell’evoluzione delle tecniche di lavorazione della creta, la quale continua ad offrire numerosi oggetti di grande bellezza artistica, che fanno da sfondo a tutti i prodotti genuini dell’agricoltura lucugnanese.
Numerosi gli stand, ben undici, che arricchiranno l’evento, offrendo davvero di tutto a residenti e turisti che si annunciano numerosissimi: antipasti caserecci, pasta, carne arrosto e alla griglia, rosticceria, “pittule”, angurie paesane, dolci, crépes, bibite e vino. Ad allietare ed a rendere più invitante il tutto ci penserà, immancabilmente, la musica.
Tutelare le nostre eccellenze agricole è un dovere di tutti
Tutelare le nostre eccellenze agricole è un dovere di tutti.
Non solo il vino, ma anche l’olio extravergine d’oliva, le angurie, i pomodori, le patate, la frutta e gli ortaggi del Salento devono avere il giusto riconoscimento a livello nazionale ed europeo.
Creare un marchio d’eccellenza in sinergia con una buona politica di marketing sarebbe auspicabile per risollevare dal tracollo il lavoro e i prodotti sani della campagna salentina!
Talvolta, accadeva nel guado fra le residue ombre del buio e gli affioranti barlumi, dai contorni viepiù nitidi e indorati, dell’aurora, nell’immaginifica veste di giovinetta tenera e mite; talvolta ancora, nell’incedere, con movimento lento e lieve, di gruppi di nubi chiare e leggere, in spettacolare passeggio sull’appena dischiusosi tappeto azzurro, oppure all’atto dell’emersione dei primi, sottili raggi dell’immenso astro, dall’orizzonte dell’altra, liquida, distesa.Parimenti, in circostanze di tempo cupo e intristito, punto sempre fermo, anelito, testimonianza, grido o, se così si vuol dire, suono o semplicemente voce, ecco l’inconfondibile e ineguagliabile chicchirichì.
Lungo il tracciato dei mitici e, agli albori, considerati portentosi binari delle linee Sud Est, nella sezione incedente fra la mediana e il termine del Salento, si ergeva la stazione di Sanarica, strutturalmente simile alle altre umili casupole di fermata, salita e discesa, e però dotata, aggiuntivamente, di un accessorio speciale: un pozzo d’acqua sorgiva, sormontato da una pala fatta ruotare dal vento e, dopodiché, azionante una pompa d’aspirazione e attrezzato, infine, con una sorta di grande rubinetto, anch’esso girevole e orientabile.
A Sanarica, con il prolungamento della sosta per alcuni minuti, si rifornivano della materia prima dell’acqua le grandi caldaie a vapore delle locomotive, acqua poi riscaldata e fatta arrivare ad ebollizione e pressione grazie e corpose palate di carbon fossile lanciate e rovesciate con forza, dall’aiuto macchinista, nel “forno” delle stesse macchine.
Tra sbuffi incalzanti, ondate di nero fumo a spargersi copiose sulla superficie del gigante a vapore e parimenti a ricoprire la divisa, il berretto, quando non anche il volto dell’operatore, così lo stantuffo prendeva abbrivo possente e ritmato, i cerchi del convoglio rinnovavano il movimento scorrendo sulla strada ferrata, con lentezza ma con sicurezza, colmando chilometri: un mondo, le cose, la gente, andavano avanti, verso avventure, destinazioni, obiettivi, mete, o, semplicemente, occupazioni quotidiane.
Nell’arco della stagione bella, piena e calda, fra un raccolto e l’altro, alle luci dell’alba, padri e figli contadini sortivano, incedendo silenziosi per non turbare il sonno continuante a beneficio delle donne di casa, fuori dagli usci, in direzione dei poderi, in piano o alle marine, fra piccole distese uniformi o fazzoletti frammisti di terra rossa e roccia.
Il loro obiettivo, o missione, era un lavoro faticoso e, insieme, di pazienza, appellato, dagli addetti, “roncare”, consistente nello strappo, lo sradicamento,
C’è tempo fino al 31 agosto per visitare la mostra personale di pittura di Ezio Sanapo ospitata nei locali appena restaurati di Palazzo Arena in via S. Spirito n° 14 nella città di Tricase.
Patrocinata dal Comune di Tricase, dal Comune di Supersano e dalla Banca Popolare Pugliese e inaugurata il 16 luglio da Alessandro Laporta e Francesco Accogli, la mostra raccoglie una sessantina di opere tra disegni, bozzetti e dipinti.
Un autodidatta Ezio Sanapo che dipinge per intimo bisogno, per “esigenza dell’anima” per caparbia volontà di comunicare e di raccontare in un connubio sublime di poesia, ironia ed utopia.
Il racconto che scaturisce dal percorrere le diverse sale della mostra trasporta piano piano il visitatore in un tempo sospeso dov’è possibile incontrare coppie di amanti che danzano o che ricamano , uomini che fanno bolle alle finestre o vanno in cerca di lumache o le sognano…
Il racconto si fa sogno (Cercatore di lumache – il sogno o Stefania ripassa a memoria il suo sogno) e via via emozione appena accennata…così come lo stile pulito, lineare appunto essenziale con pochi elementi caratterizzanti che colpiscono immediatamente e coinvolgono piacevolmente l’osservatore.” (F. Accogli).
Le opere in mostra tutti i giorni dalle 9, 30 alle 12,30 e dalle 18,30 alle 23,30 “ridanno smalto a un artista già completo che in questa anteprima, che è un’ennesima conferma, sa insinuare il dubbio, padre di tutte le certezze, sa affascinare e far riflettere, sognare e commuovere”. (A. Laporta)
Uno scempio storico-artistico tra Seclì, Galatone e Aradeo
di Annunziata Piccinno
Nelle campagne salentine sono disseminate le cappelle e le edicole votive; di alcune di queste spesso si ignora l’esistenza o le radici storiche, altre invece sono conosciute e frequentate, altre ancora, sebbene si conoscano le radici storiche e l’importanza che hanno avuto anche in un recente passato, sono abbandonate a se stesse in uno stato di precaria conservazione. La grande quantità di testimonianze del passato, se da un lato ci riempie di orgoglio, dall’altro ci pone di fronte a delle responsabilità nel custodire questa grande mole di opere che i nostri avi hanno saputo realizzare.
Il nostro presente non può esistere senza il passato, e noi abbiamo il dovere di conservare e tutelare ciò che abbiamo ricevuto per trasmetterlo alle nuove generazioni.
In un saggio del 1997 il sovrintendente ai beni culturali, Giovanni Giangreco, denunciava il senso di impotenza ad operare per ragioni magari comprensibili, come la carenza di risorse, ma che non cancellano la nostra responsabilità storica. E scriveva:«Che fare? Questa domanda diventa sempre più pressante col passare degli anni perché le nuove generazioni incalzano […] Bisogna allora individuare la causa di tale impotenza e, se le leggi non aiutano, bisogna adoperarsi con la cultura e con la fantasia per tentare strade nuove che portano alla risoluzione di questi problemi»[1].
Problemi che si ripropongono ogni qual volta veniamo a conoscenza o constatiamo direttamente il degrado in cui certi monumenti sono caduti, nonostante la ricerca storica e il vincolo. Un caso esplicito è la piccola chiesa rurale della Madonna di Luna, in agro di Seclì.
Abbandonata a se stessa versa in uno stato di deplorevole degrado, ridotta quasi a un rudere; riconoscibile a malapena da chi ne ricordasse le primigenie sembianze, non tanto per il logorio dei secoli, ma soprattutto per l’incuria e il vandalismo cui è stata soggetta in questi ultimi anni[2].
La storia della chiesa la conosciamo attraverso le ricerche del sacerdote Sebastiano Fattizzo, pubblicate nel suo volume sul Crocifisso di Galatone[3] e in seguito riproposte in un saggio edito dal Comune di Seclì[4].
Sulla scia delle ricerche del sacerdote galateo, è facile tracciare brevemente le vicende della chiesetta, a partire dall’inusuale intitolazione alla Madonna di Luna.
Probabilmente nell’area dell’attuale edificio esisteva un sacello già in epoca pagana. Il titolo dunque deriverebbe da un luogo di culto dedicato alla dea Luna, consacrato alla Vergine una volta scomparso il paganesimo. Ecco perché la festa della titolare, fino a pochi decenni addietro, veniva ancora celebrata alla fine di agosto o ai primi di settembre, in prossimità della luna piena. Nei pressi della chiesetta, del resto, vi era un grosso macigno in pietra viva, chiamato pietra di luna, posto sul ciglio di un quadrivio campestre e poi gettato nel fondo della cava, ormai esaurita, della Masseria Gentiluono. Sarebbe una reliquia dell’antico tempio pagano, o addirittura un resto dell’ara su cui si immolavano sacrifici alla dea.
Sta di fatto che la fantasia popolare dei galatei non disdegnò di imbastire leggende su quello strano cimelio. Così recita una strofa dialettale, che l’ignoto scopritore della pietra avrebbe trovato incisa sul retro, dopo averla rivoltata:Iata a ci mi ota!
E mò ca m’ha bbutàta
M’aggiu totta ddiffriscàta.
Òtame e sbòtame ‘n’addha fiata.
che si traduce così:
Beato chi mi volta!
E ora che mi hai voltata
mi sono tutta rinfrescata.
Voltami e rivoltami di nuovo.
La chiesa, come accennato in precedenza, è sita nei limiti di feudo tra Seclì (appartiene territorialmente a questo comune), Aradeo e Galatone.
L’originaria costruzione è di indubbia antichità, anche se ricostruita ed ampliata nel corso degli anni. La chiesa, nell’Inventario dei Beneficji Ecclesiastici di Galatone, redatto nel 1678, appare esistente dal 1657. Ivi si apprende che, in quella data, tal Francesco Buia ristrutturò un’antica cappella preesistente, la ampliò e la dedicò, per una sua particolare devozione, alla Madonna di Costantinopoli; il popolo, però, continuò a chiamare la chiesa con il suo vecchio nome di “Madonna di Luna” e così fino ad oggi.
La chiesetta, sollevata sul piano stradale di circa un metro e mezzo, è a due vani con volta a botte. Nel vano rettangolare, addossato al muro, vi era un altare sormontato dall’affresco della Madonna con in braccio Gesù Bambino. Era dotata degli arredi sacri e di una pregevole acquasantiera. Sul fronte dell’edificio, affacciato sulla strada principale, vi era (e oggi se ne può vedere solo una parte) un piccolo campanile a vela con una campana. Questo fino ad una ventina d’anni fa.
Un campanello di allarme sullo stato del monumento trillava già in un articolo del 1989 dove, tramite un altro scritto di Sebastiano Fattizzo, si denunziavano le pessime condizioni dell’affresco e la necessità di provvedere alla custodia della chiesa:
«[…] l’affresco […] è circondato da una magnifica cornice di pietra scolpita: se non si provvederà quanto prima a riparare il guasto, qualche piromane brucerà i vecchi scanni rimasti dentro la chiesa… ed altri sfonderà l’altare e il pavimento… ed in questo modo tutto sarà sfasciato…».
Profezia che purtroppo si è avverata!
Il monumento, sottoposto dalla Soprintendenza a vincolo di tutela con declaratoria del 19-08-1987, è beneficio dell’Insigne Collegiata di Maria SS.ma Assunta di Galatone. Per tale motivo i canonici galatei avevano l’obbligo di celebrarvi un certo numero di messe e di impegnarsi nella manutenzione e conservazione del monumento. Oggi, messo da parte tale obbligo morale, la chiesa è quasi del tutto inesistente se non per le mura, anch’esse percorse da numerose e profonde crepe. Soggetta a furti ripetuti, da quanto ho potuto personalmente appurare, dell’antico corredo la chiesa non conserva nulla. Durante un mio sopralluogo nel 2001 notai che l’altare era stato asportato e mancava l’acquasantiera. L’affresco della Vergine, picconato giù dalla parete, era a terra, fatto a pezzi, ridotto a un cumulo di frammenti informi; coperti da strati di polvere e calce, si potevano riconoscere come tessere di un mosaico il manto azzurro della Vergine, i piedi del Bambino e altri particolari[5]. Ora neppure questo. È lo scempio più totale! È addirittura arduo e pericoloso poterci entrare, giacché l’architrave è lesionata, così come la volta, e a terra vi sono pietre disseminate dappertutto. Uno scheletro che a malapena si mantiene in piedi, così è disgraziatamente ridotta la chiesetta.
Intanto, a braccia conserte, si resta a guardare. Che ne sarà di Luna? Ai posteri l’ardua sentenza.
[1] G. Giangreco, La Chiesa di S. Angelo De Salute in Galatone o l’eredità culturale del passato, in L’oro di Galatone, Lecce 1997, 135.
[2] Cf M. Grasso, Li petre ti luna, in «Il giornale di Galatone», 29 (2000), 11.
[3] S. Fattizzo, Il Crocifisso di Galatone, Galatina 1982, 484-492.
[4] S. Fattizzo, La leggenda della pietra di luna, in Seclì. Almanacco di storia arte e società 2003-2004, a cura di V. Zacchino, Galatina 2003, 105-113.
[5] A. Piccinno, La Chiesa di “Madonna di Luna”nella Visita Pastorale di Mons. Antonio Sanfelice del 1719, in «Piazza San Paolo, periodico di Seclì», 4 (2001), 9.
pubblicato su Spicilegia Sallentina n°6
Il tonno del mare Jonio. Metodi di pesca, qualità, ricette…
Sui tunnidi, o più specificatamente su tombarelli, alalunghe, palamite, tonni rossi, ecc… la gastronomia pugliese poggia su una tradizione peschereccia che risale sin ai tempi della Magna Grecia e che perpetuatasi nei secoli costituiva, in periodo bizantino, come si legge in un antico documento, il ramo più lucroso dell’industria peschereccia e l’oggetto più interessante dell’economia pubblica pugliese. In seguito ebbe grande sviluppo, grazie alle numerose tonnare introdotte durante la dominazione spagnola.
La città di Gallipoli, ebbe secoli di controversie con la limitrofa Nardò proprio per le tonnare e nonostante che la prima esibisse un privilegio attestato in un regio decreto del 1327 a firma del re di Napoli Roberto d’Angiò, la cosa non impensierì mai troppo i rivali, che continuarono imperterriti ad intercettare per primi i tonni che discendevano dal Golfo di Taranto con ben due tonnare, una sita nelle acque di santa Caterina e una nelle acque di Sant’Isidoro.
In seguito al duello si aggiunsero le tonnare di Porto Cesareo, sempre in territorio di Nardò, e quella di Torre Pizzo in territorio di Taviano. Un’altra tonnara fu per un certo periodo in attività anche a Torre Ovo nei pressi di Campo Marino.
Situate lungo le rotte seguite dai branchi dei tonni e degli altri pesci pelagici, durante le loro migrazioni primaverili e autunnali, queste tonnare erano costituite da una serie di reti disposte nei punti della costa che l’esperienza suggeriva come più adatti. Lo sbarramento principale, detto pedale, era ormeggiato a terra e proseguiva verso il largo per circa due, tre miglia: le reti alte dai venti ai settanta metri, costituite da robuste corde di canapa, erano mantenute a galla da sugheri e fissate sul fondo mediante ancore e grosse
Il j’accuse di Marcello Gaballo. Lettera aperta ai cittadini di Nardò
Domenica pomeriggio, 24 luglio 2011. Sono stato invitato a guidare un gruppo di circa 150 persone, tutte convenute a Nardò per un convegno nazionale. Con me anche l’architetto Giancarlo De Pascalis, con cui ho illustrato alcuni dei monumenti in città.
Il gruppo il giorno prima aveva visitato Lecce ed Otranto, riservando la conclusione del soggiorno salentino alla nostra città, preferita a Gallipoli per la festa in corso che lì si teneva.
Non mi soffermo sull’esigenza dei partecipanti di trovare un rivenditore di cartoline e souvenir, impossibile a soddisfarsi per essere venuti in un giorno festivo.
Voglio invece riferire delle considerazioni offerte al sottoscritto tra uno spostamento e l’altro.
L’itinerario prevedeva la visita alla chiesa di Santa Chiara, da qui alla chiesa di Sant’Antonio, quindi piazza Salandra, San Domenico e la Cattedrale. Un breve tour, rapportato alle circa 2 ore e mezza a disposizione.
Se soddisfazione, almeno questo è apparso, hanno avuto dall’illustrazione dei monumenti, diverse sono state invece le lamentele per le condizioni urbane e il mancato decoro.
Piazza Sant’Antonio piena di rifiuti, Via Muricino con le erbacce da entrambi i lati, auto a tutta velocità in Piazza Salandra, essendo le restanti parcheggiate in ogni dove nei pressi della chiesa di San Domenico, la cui facciata è stato impossibile guardare per l’incapacità agli ospiti a potervi sostare anche per pochi minuti.
Dovunque sacchetti di immondizia depositati, ubriachi ad occupare le panchine della piazza, astemi in canottiera e pantaloncini corti, con ventri esorbitanti a prendere il sole che da un bel pezzo era tramontato.
Eppure avevo anticipato nella prima tappa che Nardò è il secondo comune dopo Lecce per numero di abitanti ed estensione del territorio;16 Kmdi costa meravigliosa; tradizione culturale millenaria; frazioni attivissime; terra fertile e ubertosa; arte in ogni dove.
Mi son dovuto rimangiare tutto, convenendo con i presenti, accorsi da ogni parte d’Italia, che questo è il profondo Sud, l’arretrato e incivile entroterra salentino, che d’estate si preoccupa solo di far apparire linde e
Tra chi si occupa di preparare delle bevande complesse (ad esempio i cocktails) e chi degli alimenti solidi polisensoriali (ad esempio i pasticcieri) è che i secondi, oltre ad aromi, colori e sapori devono anche occuparsi delle “consistenze”.
Da tempo immemore in cucina si sono instaurati processi chimico-fisici che hanno modificato la struttura degli alimenti, dalla lievitazione al congelamento, dalla gelatina alle meringhe.
Prosegue la ricerca e la selezione di processi e prodotti, naturalmente impegnando ambiti diversi e strutture culturali più evolute.
E dunque in una torrida mattina del torrido luglio 2011, nella fresca ed ampia sala del Centro Congressi dell’Università del Salento c’è stata una sessione di Laurea di Scienze Biologiche. Sharon, da Brindisi, consegue la Laurea triennale con una tesi di ricerca che ha studiato un nuovo tipo di “Glassa”. Una consistenza talmente importante e di tanta tradizione che esiste un sito alle glasse dedicato. Di glasse ne esistono tante, per il dolce e per il salato. La novazione è che la glassa di Sharon è prodotta esclusivamente con prodotti naturali: pectine estratte da bucce d’arancia e Vincotto PrimitivO. Ho avuto il piacere e il privilegio di gustarne sapore e consistenza, nulla da invidiare a
Gigetto di Noha, nel solco di una tradizione musicale propriamente salentina
L’INCONTRO CON GIGETTO DI NOHA OVVERO LUIGI PAOLI
L’ULTIMO «FURESE ‘NNAMURATU» DEL SALENTO
di Alfredo Romano
“Durante la guerra mio padre suonava il flauto per gli Americani a Brindisi, ed io l’accompagnavo con la mia voce bianca di bambino, per campare. Tempi tristi!”.
Comincia così il racconto di Luigi Paoli, un cantastorie, un menestrello, un musicista popolare nato a Noha 48 anni fa e residente a Spongano in una bianca e comoda casa di periferia, con immancabile terrazza e orto giardino, e la cantina, dove le botti suonano di pieno e versano a me, fortunato visitatore, un negramaro robusto, profumato.
Non è facile orientarsi nel mercato minore della canzonetta popolare ora che molti improvvisatori sprovveduti si sono lanciati in questo folk alla moda che non ha niente di peculiare e scimmiotta anzi un certo liscio romagnolo omogeneizzato che imperversa nelle sale e sulle piazze di tutt’Italia.
Basta un po’ di gusto però per capire che Luigi Paoli, da trent’anni, nel solco di una tradizione propriamente salentina, elabora testi popolari, li arrangia, ne inventa di nuovi per un pubblico non solo salentino, meridionale in genere, emigranti soprattutto (in Australia perfino, in Canada) che curano l’amara nostalgia al ritmo di suoni e canti che ricreano l’atmosfera della terra natia. II suo racconto si dipana lentamente in un gesticolare ampio. La voce, il corpo, assumono una dimensione teatrale, un viso pienotto, da scatinatore, occhi neri e luminosi, a sottolineare un sorriso perenne, contagioso.
Il più piccolo di cinque fratelli maschi, orfano di madre a quattro anni, a otto guardava le capre presso un guardiano di Noha. Un giorno, per via che, assetato, aveva impunemente bevuto in un secchio d’acqua tirata dal pozzo destinata alle capre (pare che le capre si rifiutino di bere dove ha già bevuto un altro, ndr.), venne appeso al ramo d’un albero a testa in giù, e, come una bestia, bastonato di santa ragione. Quest’episodio acuirà la sua sensibilità di fanciullo, rivelatore di una futura carica umana che Paoli, da grande, saprà trasfondere nella sua musica.
Di quei tempi funzionava a Noha una, chiamiamola così, palestra di vino e
Cronache galatinesi fra gli anni ’20 e ‘40 del secolo scorso
Galatina, è noto, racchiuse in sé un movimento abbastanza largo di opposizione al regime, comprendente tutte le categorie sociali e varie ispirazioni politiche.
Tale opposizione aveva sfumature, valenze e incidenze diverse: si andava dalla non omologazione di alcune famiglie cattoliche, al disimpegno dei socialisti ( Avv. Gaetano Cesari), alla ostilità dei comunisti rappresentata da una nutrita schiera di artigiani (barbieri, meccanici, muratori, falegnami), capeggiati da Carlo Mauro.
L’adesione al fascismo, a Galatina come in gran parte d’Italia, fu propria della piccola borghesia, del sottoproletariato e delle classi ricche. La maggior parte della gente accettava con passività il Regime, senza partecipazione ma anche senza ostilità “Duce, Duce lu pane ci lu ‘nduce/ lu ‘nduce lu furnaru, menzu ducee menzu ‘maru”
Galatina da “Valloniana” a fascista
La Galatina ufficiale, quella delle istituzioni comunali e del notabilato, divenne fascista solo dopo la presa del potere da parte di Mussolini. La famiglia Vallone, che sin dall’Unità d’Italia aveva governato la città, aveva espresso in diverse legislature il proprio deputato nella persona del repubblicano ing. Antonio Vallone. Sindaco della città era il fratello , il medico Vito.
I Vallone, come si è detto, rimasero estranei al fascismo, tanto che Vito Vallone aderì solo a cose fatte (1923) ed il popolo istintivamente distingueva tra la minoranza estremista degli squadristi e “i fascisti di don Vito”, moderati per natura.
Il 7 febbraio 1925 muore l’on. Antonio Vallone e la partecipazione al lutto è corale.
Il Partito Fascista dice che “onorare il Cittadino benemerito è sacro dovere di tutti” e invita i propri iscritti a partecipare ai funerali che si svolgono il giorno 8.
“Ti mandu lu Caddara”
Gli anni ’30 furono terribili anche per i Galatinesi, la miseria dilagava e la disoccupazione era alle stelle; con salari di fame le tabacchine prendevano la tubercolosi nelle fabbriche di tabacco.
Per cucinare la povera gente, non potendo comprare la legna, usava le “ramaje” risulta della monda delle olive.
Non era spettacolo raro vedere in giro braccianti di poco più di cinquant’anni letteralmente piegati in due a causa del duro lavoro, e non era raro neanche vederli la domenica sotto i grandi portoni padronali in attesa di ricevere l’elemosina.
I senza tetto venivano ospitati in un grande locale in via Tanza, chiamato “cambarone” (camerone), dove le famiglie si divedevano gli spazi con lenzuola appese ai fili di ferro.
Il giovedì giorno di mercato in piazza S. Pietro, venivano effettuate delle vendite all’incanto di beni pignorati a poveracci insolventi dall’Ufficiale Giudiziario d’allora soprannominato “caddara”; da qui il detto “ti mandu lu caddara” cioè “ti faccio pignorare la casa”. Qualche sollievo alla miseria dilagante lo diedero i lavori per la fognatura e per la costruzione dell’Edificio Scolastico di Piazza Cesari: per poter lavorare il Sabato (il “sabato fascista” era dedicato alle esercitazioni premilitari e alle “adunate”) bisognava ottenere il permesso scritto dal Segretario Politico.
La vita culturale
La vita culturale era molto stentata e le pubblicazioni erano scarsissime. L’unica rivendita di giornali era presso la cartoleria Mengoli, in Via Vittorio Emanuele II, vicino all’antica e rinomata pasticceria Ascalone.
Circolava uno strillone di nome “lenardu”, che per strillare “La Tribuna” gridava “Latri….buna”; circolava anche un banditore chiamato “Giuju” (Giulio) che faceva precedere le comunicazioni ufficiali ai cittadini dal suono di una campana. Altre figure caratteristiche erano”lu Chiccu”, venditore ambulante di gelati (Gelati alla Maiella, quattru sordi la pagnottella) e due bravi pupari (“Pici Nera” e “Naticeddrhu”) che allietavano i bambini con spettacoli di marionette.
Il Razzismo e demografia
Nel 1939 il Comune di Galatina si adegua alle leggi razziali e nel regolamento organico degli impiegati e salariati comunali stabilisce che gli stessi debbano essere cittadini italiani “di razza ariana”, avere buona condotta morale e politica ed essere iscritti al Partiti Nazionale Fascista. Per attuare la politica demografica del Regime si insediala Commissione Comunaleper l’assegnazione dei premi di natalità.
Radio Londra
Anche a Galatina nel ’39 si svolsero manifestazioni per chiedere l’entrata in guerra, che videro però la partecipazione del solo mondo studentesco, dagli alunni delle elementari agli universitari.
Gli slogan erano i soliti.:gli “Eia, Eia, alalà” si sprecavano. Si cantava “ e se la Francia ci fa la spia/Nizza,Savoia e Tunisia”; ma dopo l’ubriacatura iniziale, l’atmosfera cupa della guerra spinse gl’italiani a “controllare” l’andamento delle vicende belliche attraverso l’ascolto di emittenti radiofoniche straniere quali Radio Londra e Radio Mosca. Dell’EIAR non si fidava nessuno.
Erano seguiti i commenti del Col. Stevens e di Mario Correnti (Palmiro Togliatti), e i locali pubblici erano tappezzati con cartelli con su scritto: “Vincere”, “taci il nemico ti ascolta”, e l’oscuramento era rigoroso.
L’ascolto delle radio straniere, non avveniva solo nelle poche case fornite di tali apparecchi, ma anche in sedi pubbliche, e molti degli ascoltatori erano iscritti al fascio.
Una casa in cui l’ascolto era metodico e continuo era quella di Carlo Mauro, in piazzetta S.Lorenzo, 8. L’ubicazione non era delle più felici perché era circondata dalla Casa del Fascio, sempre piantonata, e dall’abitazione del Maresciallo dei Carabinieri.
La sera, confusi tra i clienti dello studio legale, convenivano nel salotto della casa dove era installata una Radio Marelli, persone della più varia estrazione sociale: meccanici come Gino Luceri, barbieri come Pippi Marra, falegnami come Gaetano Cudazzo, avvocati come Gaetano Cesari, medici come Pietro Miorano, giovani magistrati come Giacinto Epifani. Naturalmente non tutti in una volta e con una certa discontinuità per non dare nell’occhio.
Duelli aerei su Galatina
Quando la guerra cominciò a farsi sentire, ci furono mitragliamenti e bombardamenti al vicino campo d’aviazione.
Per le segnalazioni delle incursioni aeree, il Comune istituì il servizio di allarme e cessato pericolo affidato ai sagrestani, e Anglani Paolo, è incaricato come motociclista per il segnale di allarme a mezzo di sirena a mano.
La grazia della Madonna delle Grazie.
Il 25 Luglio 1943 la radio annuncia la caduta del regime fascista, e l’8 Settembre fu proclamato l’armistizio (giorno della Madonna delle Grazie e l’evento fu considerato dal popolo una grazia).
I Tedeschi abbandonarono l’aeroporto, e grazie all’intercessione di una figura prestigiosa quale quella di Carlo Mauro, si evitò il peggio dei tumulti in città, così come invece avvenne nella maggior parte delle città pugliesi.
Si cominciarono a vedere in giro le prime truppe alleate: indiani, neri,inglesi, americani. La miseria dilagava e il contrabbando e la prostituzione proliferavano.
Si rivedeva il pane bianco, si scoprivano le chewin gum e le caramelle col buco e ci si prostituiva per una stecca di sigarette
I Galatinesi si vestivano con i tessuti dei paracadute, il Commissario Prefettizio, Luigi Vallone cercava di coordinare gli aiuti e la distribuzione di viveri, mentre il comune di Galatina doveva ricorrere a prestiti presso la locale Banca Fratelli Vallone per pagare gli stipendi ai propri dipendenti.
Rinasce la Democrazia
A fatica iniziano a ricostituirsi le leghe dei lavoratori , e i vecchi partiti rinascono. Il I° Luglio 1945 si insediala Giunta Comualesu designazione del locale Comitato di Liberazione Nazionale.
La vita sociale dei contadini si svolgeva in piazza e nelle rinomate cantine de “lu Muscia” “l’Ossu” “luRasceddhra” tutte nel centro storico.
Vi era una frequentata casa di tolleranza “la Rosetta”, ed il ceto medio si ritrovava nei Bar Cafaro e Gran Caffè.
Il ceto medio-alto conveniva nei vari Circoli “Savoia” “Cittadino” o dei “Signori”.
Escono le prime pubblicità dell’”Idrolitina” dell”Amarena Fabbri” e del “Rabarbaro Zucca” mentre sugli schermi del cine-teatro Tartaro compaiono i primi film americani con attori protagonisti come Glenn Miller, George Murphy, Mirna Loy. Le attrici italiane più conosciute sono AlidaValli e Clara Calamai.
Le prime elezioni amministrative
Alle prime amministrative del dopoguerra, a Galatina entrano in competizione tre liste:
A destra,“Lu Tarloci” (l’Orologio) capeggiata daLuigi Vallone ,la Democrazia Cristiana col debutto in politica di Beniamino De Maria con lo Scudo Crociato e le sinistre unite con la lista del “Sole”.
La vittoria dell’Orologio è schiacciante, perché raccoglie i consensi del vecchio notabilato prefascista, mentrela D.C. Raccogliei suoi voti nella classe impiegatizia e nel ceto medio.
L a sinistra, nonostante avesse come capo lista l’avv. Gaetano C esari, non riesce a mandare neanche un rappresentante.
La campagna elettorale si svolge in perfetto stile prefascista: comizi, volantini e manifesti polemici. Particolarmente accesa fu la contrapposizione tra valloniani e democristiani: ai primi si rinfacciava la posizione sociale “fatto v’avete Dio d’oro e d’argento”; per i secondi gli epiteti più gentili erano “collitorti”, “baciapile” e “democristiani”. Famoso rimase un volantino dal titolo “Viva viva lu Tarloci” che iniziava così “ viva viva lu Tarloci/ pè lle terre e pè lli mari,/ Se squajara Soli eCroci/ se scacara l’avversari”.
Il 7 Aprile 1946 si riunisce il primo Consiglio Comunale e viene eletto Sindaco Luigi Vallone con 25 voti.
Eppùru scia chiànu chiànu…(Eppure andava piano piano…)
Il nesso chiànu chiànu è usato nel dialetto neretino in funzione di avverbio di grado superlativo ottenuto con la reiterazione della stessa voce, inizialmente aggettivo, tal quale nell’omologo italiano piano piano, sicchè esso compare in locuzioni del tipo sta sciàmu chiànu chiànu (stiamo andando piano piano) o sta scìamu chiànu chiànu (stavamo andando piano piano). La grammatica definisce questo fenomeno (uso di una parte del discorso per un’altra, nel nostro caso dell’aggettivo per l’avverbio) enallage, dal greco enallaghè=scambio, da enallàsso=scambiare, a sua volta formato da en=in+ allàsso=cambiare, a sua volta, e sono arrivato all’osso con un gioco di parola di cui mi accorgo solo ora, da allos=altro. Il fenomeno non è di formazione recente, dal momento che esso è presente in greco e in latino; per quest’ultima lingua un solo esempio: veramente si può esprimere con vere, vero o verum, ma delle tre forme solo la prima è formalmente un avverbio, le altre due sono rispettivamente un ablativo e un accusativo dell’aggettivo in funzione avverbiale. Piano e il corrispondente neretino chiànu, com’è noto, sono dal latino planu(m)1=piano, piatto e, per traslato, facile; sempre in latino con valore sostantivato, poi, assume il significato di pianura, come succede pure in italiano (un piano coltivato). Dall’idea di piano (senza asperità) con ulteriore riferimento alla pendenza (nel nostro caso assente) si è sviluppato il concetto di relativamente lento in contrapposizione a quello di veloce (connesso con una discesa) e a quello di estremamente lento (connesso con una salita). Anche la musica ha dovuto fare i conti con questa trafila concettuale, tant’è che nella parola pianoforte (all’origine clavicembalo col piano e col forte) il piano e il forte corrispondono alla minore o maggior forza con cui si premono i tasti. E planare non significa compiere un volo discendente a motore spento o al minimo, sfruttando la forza di sostentamento delle ali? E complanare non significa strada di grande comunicazione, che corre parallela a un’altra con funzioni complementari di svincolo o raccordo (che poi effettivamente assolva a tali funzione per cui, almeno sulla carta, sarebbe stata progettata, questo è tutt’altro discorso…)? E proprio la voce planare sopravvive nel dialetto neretino sia pure nella forma composta ‘nchianàre=salire. Si direbbe che il significato di salire sia in assoluta contraddizione con quanto prima detto. Lo è solo apparentemente, perché ‘nchianàre è da un latino *implanàre2 formato da in (preposizione di moto a luogo) e il planum detto all’inizio, sicché la forma verbale alla lettera significa andare verso il piano, cioè verso il raggiungimento della perfetta coincidenza tra il livello attuale (più basso) e quello da raggiungere (più alto).
________
1 Il gruppo latino pl seguito da a, da e o da u sviluppa rispettivamente pia/pie/pio in italiano (planus>piano/plenus>pieno/plumbum>piombo) e chia/chi/chiu in neretino (chiànu/chinu/chiùmbu). Non mancano, per il neretino, le eccezioni: per esempio, dal latino placère in italiano si ha piacere ma in neretino piacìre e non, come ci saremmo aspettato, chiacìre (si spiega col fatto che la voce deriva non da un sostantivo ma da un verbo in cui la vocale che segue il gruppo pl è atona, cosa che non succede, per esempio in ‘ccucchiare=accoppiare che ha seguito la trafila *adcopulàre>*adcoplàre>*accocchiàre>’ccucchiàre) ; da un latino *plattum a sua volta dal greco platýs=largo, piatto si ha in italiano piatto nel duplice valore di aggettivo e di sostantivo, mentre nel neretino piàttu è riservato al sostantivo e chiàttu all’aggettivo (l’eccezione qui è in funzione di differenziazione semantica).
2 Nel latino medioevale è attestato (Du Cange, Glossarium mediae et infimae Latinitatis, Favre, Niort, 1883, pag. 309) un implanàre, ma il suo significato di ingannare lo rende inequivocabilmente trascrizione del greco en=in+planào=illudere; perciò la nostra voce è preceduta dall’asterisco.
Li carmati ti Santu Paulu e la cattura della serpe
Un rifugio stagionale salentino: la pagghiàra (quarta parte)
“LA MBRIGGHIATA SANTA”
(LA CATTURA DELLA SERPE)
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
Per catturare la sacàra, lu carmàtu pretendeva di trovare nei pressi della pagghiàra più persone, fra le quali potere scegliere li quattru niéddhri ti mbrigghiàta (i quattro anelli d’imbrigliata), ossia quattro persone adatte a coadiuvarlo nell’operazione. Nell’ora fissata – di solito l’ora ti lu fuécu, cioè quella successiva al mezzogiorno – c’era perciò sempre una piccola folla ad attenderlo al limitare del campo: uomini e donne, che se pure atterrite dalla prospettiva di essere scelte come niéddhri e quindi trovarsi costrette ad assistere alla cattura da una distanza ravvicinata, per nessuna cosa al mondo avrebbero disertato il campo: la mbrigghiàta santa* veniva considerata alla stregua di un intervento miracoloso e quindi occasione spettacolare da non perdersi.
Nell’attesa, per farsi coraggio e ingannare il tempo, si raccontavano l’un l’altro i particolari delle ‘mbrigghiàte alle quali avevano assistito, decantavano i prodigi operati da San Paolo e qualche volta si spingevano a fare scommesse sulla lunghezza della serpe nonché sul tempo che sarebbe occorso per la cattura. Un cicaleccio che si smorzava di colpo non appena si profilava la sagoma di lu carmàtu, messa in evidenza dal rosso di una sciarpa che portava sulle spalle a mo’ di stola: era la pezza rricanusciùta, equivalente a un’insegna e contemporaneamente usata come arma durante la cattura dei serpenti; arma ritenuta santa, in quanto il 28 di giugno di ogni anno veniva portata a Galatina nella cappella dedicata a San Paolo e deposta per un’intera notte ai piedi dell’effige del santo affinché ne assorbisse, unitamente alle benedizioni, le particolari virtù taumaturgiche.
Sventolandone i lembi come fossero bandiera, lu carmàtu faceva il suo ingresso nel campo, camminando lentamente e tenendo gli occhi fissi per terra, quasi fosse alla ricerca di misteriosi segni a lui soltanto noti. Avanzava sino alla pagghiàra, vi girava tutt’intorno, spargeva qua e là pizzichi della sua prodigiosa terra**, tornando più volte sui suoi passi forse a riannodare il filo delle sensazioni o intuizioni che, a quanto diceva, gli permettevano di
E non è un modo di dire! E’ vero, Alessio era distratto, disordinato, a volte smemorato, ma questa volta era stata solo sfortuna nera.
“Buoni questi saraghi che ti ho preparato, vero amore? Mi son ricordata che sono il tuo pesce preferito e quando stamattina li ho visti sul banco al mercato, non ho resistito alla tentazione di comprarli.” la moglie.
“Grazie tesoro, davvero squisiti.” lui.
Era stata una giornata infernale: il commercialista gli aveva riservato la stangata a tradimento, un autovelox mimetizzato in un cespuglio lo aveva folgorato, sempre a tradimento, a una velocità di oltre 160 km/ora su una statale con il limite dei 70, il figlio minore aveva ritirato la scheda di valutazione scolastica che definire tradimento era solo un simpatico eufemismo e la piscina, che gli era costata quanto il Tower Bridge, si era arrugginita tradendo sfacciatamente il suo conto in banca.
All’improvviso, il consueto silenzio dell’ora dei pasti in casa Stecchi fu lacerato da un’imprecazione sommessa: “Aarrgh! Cara…! Coff! Coff! Aiut…!”
“Che ti prende, amore? Sembra quasi che soffochi.”
“Una spina, cazz…! Un bicchiere d’acqua, svelta!”
Ci mancava pure quel maledetto sarago a mettere in onda l’anteprima del Giudizio Universale!
Più che di un ennesimo tradimento, a questo punto si trattava di una vera e propria congiura!
La donna, senza riempirsi la testa di inutili supposizioni, tornò lesta dalla cucina con in mano una caraffa d’acqua da due litri: “Manda giù, manda giù, amore!” e presa dalla foga del soccorso, travasò fino all’ultima goccia del recipiente nella bocca del marito, neanche fosse stato un imbuto.
Mai occhi umani furono più espressivi di quelli di Alessio in quel momento: rossi, fuori dalle orbite, bagnati come se tutta quell’acqua se la fossero bevuta loro.
“Il medico! Chiamiamo un medico!” riuscì a balbettare l’uomo con sgomento, sentendosi la spina sempre più conficcata in gola, come se quella schifosa
Ha dell’inverosimile la storia della maschera mortuaria di Padre Pio, ovvero l’ultimo ritratto originale della sua persona eseguito dal vivo immediatamente dopo il Transito terreno, realizzata dall’artista Michele Miglionico, originario di San Giovanni Rotondo, pittore, scultore e incisore.
“Ho sempre creduto che i santi non sarebbero mai morti”, pensò subito Miglionico, figlio spirituale del frate stimmatizzato e abituale frequentatore del convento francescano, quando all’alba del 24 settembre 1968 ricevette la notizia del triste accadimento. Alle tre del mattino l’artista si recò così nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, dove era stata composta la salma, assieme al
Irene Mancini intervista Alfredo Romano sull’emigrazione salentina a Civita Castellana. ULTIMA PARTE.
C’era il progetto di tornare giù o si pensava di rimanere qui a Civita?
“Alcuni si fermavano a Civita solo per il lavoro stagionale del tabacco, da marzo a settembre, ma i restanti mesi li trascorrevano nel Salento. Altri prendevano fissa dimora qui a Civita col solo obiettivo di trovare delle opportunità di lavoro che non fossero quelle del tabacco. Il tabacco non costituiva un avvenire. I miei genitori sono rimasti qui per dieci lunghi anni, fino a quando io e i miei fratelli non siamo diventati economicamente autonomi. Sono stato io stesso a incoraggiarli a tornare al paese. «È tempo che torniate, che ci fate più qui? Giù avete un pezzo di terra, una bella casa, c’è gente che parla come voi…». Sono tornati e hanno vissuto più da ‘cristiani’ gli anni che gli rimanevano da vivere. Ma quante lettere ci siamo scritti e quante telefonate. Spesso tornavo giù a sorpresa, anche dopo un anno. Erano emozioni, era festa, irripetibile la gioia”.
Oggi tornerebbe a vivere giù?
“No, non tornerei giù… o almeno non so… È che ormai, sradicato dal paese, sono diventato un cittadino del mondo… Anche se poi in effetti a Civita Castellana ho messo radici: il lavoro, le persone, gli amici di sempre, le conoscenze, i luoghi… Sono sicuro che se dovessi allontanarmi da Civita Castellana, finirei per relegarla nel mito. In fondo, 35 anni non sono pochi: ho amato, ho avuto tante cose belle qui… alla biblioteca comunale ho dato molto, ma poi sono stato ‘ricambiato’ in qualche modo. Di esperienze brutte, a Civita, ne ho avute tante, ma anche tantissime belle. E sono queste ultime che ti restano”.
Ho trovato dei leccesi che come ritmi, come orari, hanno preso la piega dei civitonici…
“Sì, lo capisco, anche nello stile di vita. Per tanti il bisogno di integrazione è stato così forte, da diventare, come si dice, più realisti del re, cioè più civitonici dei civitonici. La ricerca di un’identità è qualcosa di molto complesso, e non mi meraviglio se talvolta il diritto alla sopravvivenza passa per la perdita delle proprie radici: certo, è un prezzo troppo alto per integrarsi. Io ho un’idea di integrazione diversa, che non passa per il diventare civitonici a tutti i costi, anche perché civitonici non si diventerebbe mai, per via che le radici sono un imprimatur che non si cancella. L’integrazione passa
Salento terra di santità. I Servi di Dio di Galatina, Galatone, Gallipoli, Galugnano, Giuliano e Grottaglie
Fra Francesco Antonio da Galatina, detto “Vantaggiato”, ultimo Ministro Provinciale dell’unita provincia Riformata di S. Nicolò. Morto a Galatina il 22 settembre 1847. Frate minore.
Fra Giacomo Gatto da Galatina, morto il 10 luglio 1639. Grande spirito di umiltà, di sacrificio, di penitenza, di preghiera. In alcuni giorni dell’anno si stendeva per terra e voleva che i frati lo calpestassero in segno di disprezzo. Passava le notti in preghiera, portava sulle carni il cilicio, digiunava spesso. Devotissimo alla Madonna e alla Passione di Gesù; usava dormire sulla nuda terra, senza pagliericcio, riparato da una semplice stuoia. Frate minore.
Suor Elisabetta Andriani, Suor Chiara Congedo, Suor Benedetta Mangiò, Suor Brigida Gallucci di Galatina, morte nel 1600.
Fra Francesco da Galatina, il 24 ottobre del 1574. Insigne oratore, lavorò con grande interesse per la salvezza delle anime. Cappuccino.
Fra Ludovico Scorrano da Galatone, il 30 settembre del 1644. Dotto, insigne oratore, predicò con plauso nelle principali città d’Italia. Mentre era Guardiano a Mesagne, ospitò e perdono agli uccisori del proprio fratello. Cappuccino.
Fra Silvestro da Gallipoli, morto il 2 agosto 1674. Molto compassionevole con i poveri; si privava sempre del secondo piatto e lo davo loro. Aveva il dono dell’estasi. Chiaro per la santità della vita, per l’eroicità delle virtù praticate e per i numerosi miracoli operati in vita e in morte. Frate minore.
Fra Antonio da Gallipoli, il 23 luglio del ???; mentre si recava in Sicilia fu raggiunto in alto mare dai pirati Turchi che lo presero come schiavo e poi lo uccisero barbaramente. Cappuccino.
Fra Gregorio da Gallipoli, il 2 marzo del 1580. Cappuccino.
Madre Carmela del Cuore di Gesù, al secolo Alda Piccinno, nacque a Gallipoli il 7 marzo 1872 da Emilio e Maria Fiorito. Ricca di doni di natura e di grazia, manifestò, fin dalla prima infanzia, una tenera devozione per la
Pietas popolare salentina. Madonne del Carmine sotto campana
Non è il caso di soffermarsi ulteriormente sulla pietas del popolo salentino nei confronti del divino, rimandando all’altro post di Daniela Lucaselli su questa particolare forma espressiva del sentimento religioso e della devozione.
Ci si limita dunque a descrivere succintamente alcune statue che raffigurano la Madonna del Carmine, esposte in occasione dell’unica mostra di tal genere che si tenne nel 1998 a Nardò, essendo vescovo Mons. Vittorio Fusco, parroco don Angelo Corvo, nella parrocchia del Sacro Cuore di Gesù (con catalogo di 88 pagine stampato a Nardò da Biesse).
La statua, alta 65 cm., poggia su un basamento in legno dorato, di forma quadrangolare, sostenuto da quatto piedini. Composta da un manichino di fil di ferro e canapa, ha i volti e le mani della Madonna e del Bambino in terracotta policroma decorata a mano; entrambi i volti sono rotondeggianti e con coloritura rosea delle guance.
La Vergine indossa un vestito di raso color tanè (come quello dei frati carmelitani), con decorazioni ricamate con filo dorato, evidenti su tutto il bordo inferiore, ed un semplice ed ampio mantello, sempre in raso color panna e con orlatura a frangia dorata. Con la mano destra tiene lo scapolare di raso, anche questo color tanè e con frangia dorata.
Più scura è la tunica del Bambino, che la Vergine sorregge con il braccio sinistro, arricchita da merletto e frangia dorata nella parte inferiore e sui bordi delle maniche.
Caratterizzanti sono la corona regale in stagno sbalzato e terminante in una croce, posta sul capo della Vergine, e la folta chioma di fili di canapa a riccioli. Sembrano posticce la collana di perline artificiali e quella con medaglia.
Graziosa e per certi aspetti fuori dagli schemi usuali è l’altra statua della Madonna del Carmine, alta circa 75 cm., poggiante su un basamento in legno di forma quadrangolare su cui si alzano quattro nembi, che servono da supporto per i tre angeli, di terracota policroma lavorata a stampo, e per la Vergine con il Bambino.
Quest’ultima, aureolata, tiene in grembo il Figlio, anch’esso in terracotta e, come gli angeli, coperto all’inguine da una fascia di tulle rosso.
Anche qui Maria veste l’abito carmelitano (tunica tanè e mantello panna), con velum anch’esso chiaro e orlato in tutto il suo perimetro con pizzo, utilizzato anche per decorare gli scapolari tenuti da Madre e Figlio.
Caratterizzano il manufatto i decori dorati, a motivi fogliari e arabescati, che sono dipinti sulle parti frontali dei vestiti. Originale la cornice di fiori d’arancio, ottenuti, secondo le dichiarazioni dei proprietari, da teneri rametti di fico.
E’ sprovvista di scapolari, ma si tratta pur sempre della Madonna del Carmelo la terza delle statue. La conferma la forniscono i colori degli abiti e il velum, anch’esso color panna e orlato in tutto il suo perimetro con pizzo.
Maria, con aureola raggiata di metallo dorato, è alta 61 cm e poggia su un basamento in cartapesta su cui posano due angeli in terracotta policroma, come le mani e i volti di Maria e del Figlio, coperto all’inguine da una fascia di bisso bianco.
La composizione è decorata co due mazzetti di fiori d’arancio di cera e stoffa, di cui uno tenuto dalla mano destra della Vergine, l’altro posto all’altezza dei fianchi, mentre il terzo, meglio rifinito e con fiori di stoffa e cera, è adagiato sulla base, tra i due angeli.
La discreta fattura del manufatto acquista maggior pregio grazie alle due composizioni floreali, anch’esse sotto campana di vetro soffiato, realizzate per essere collocate ai lati dell’elemento centrale.
In un vaso di porcellana nera, trovano posto margherite, gelsomini, garofani, dalie, rose e fiori di pisello odoroso, realizzati in stoffa, cera, organza e carta.
Gusto il mio caffelatte mentre osservo dalla finestra della mia cucina la bandiera italiana che sventola sul terrazzo “te lu Pippi”; il momento della colazione è per me quello in cui sono sola a riflettere e e rimuginare i miei pensieri, e mentre lo faccio osservo il cielo e quella bandiera, che oltre ad indicarmi la direzione del vento nella giornata, facendomi intuire il clima che dovrò affrontare, è il mio contatore personale delle vittime Italiane, nei vari conflitti in cui L’italia è impegnata con il suo esercito: stamattina era a mezz’asta, si onorava la 40a vittima Italiana nel conflitto Afghano, Roberto Marchini 28 anni.
Era assente “lu Pippi” il 02 luglio, quando è caduto il caporal maggiore scelto Gaetano Tuccillo 29 anni; lui non era in casa era andato a far visita alla figlia che si trova in Basilicata, e mi sembrava strana quella bandiera che sventolava al vento, svettante in cima all’asta.
“lu Pippi”, la prima cosa che ha fatto al rientro dal week-end, è stato salire sul terrazzo ed ammainarla, in segno di rispetto per il soldato caduto, per la patria, per suo figlio che combatte in prima linea questa assurda guerra e per se stesso.
Ad ogni notizia di soldati caduti in quello e altri conflitti in cui ci sono presenze dell’esercito italiano, “lu Pippi” si affanna a salire sul terrazzo ad ammainare la bandiera , per rendere onore alle giovani vittime, sperando sempre nel suo cuore che non sia la volta in cui deve essere lui a raccogliere l’infausta notizia, e sperando sempre che suo figlio torni sano e salvo.
E’ in questo modo che “lu Pippi” vive questa condizione di padre di un soldato (giovane ufficiale dell’esercito) impegnato a portare la “pace” in quelle terre
Nato, cresciuto e fattosi adulto, e oltre, a contatto, in familiarità e consuetudine con un habitat marino di tutt’altro genere, ossia scogli, calette, pizzi e fondali subito profondi, chi scrive può disporsi a un approccio con l’arenile sabbioso esclusivamente per amore dei nipotini, i quali vi giocano, si divertono, compiono infiniti dentro e fuori nell’acqua bassa senza pericolo alcuno, trovano il loro gradito daffare con buche, castelli e opere varie. Il lido è discretamente alla moda e i frequentatori ospiti racchiudono e simboleggiano le più svariate tipologie, in tutti i sensi, dalla fisicità, agli atteggiamenti e ai comportamenti: a voler cogliere qualche spunto di richiamo o di amenità pura e semplice, v’è solo l’imbarazzo della scelta.Senza malizia, un aspetto si offre, innanzitutto, all’osservazione: la silhouette, o meglio la figura ragguardevole, quando non proprio imponente, diffusa in particolare a livello di sesso femminile. Quanti chili o taglie in sovrabbondanza! In siffatto scenario a tutto campo, un maschio di mezza età, già bruno di suo e per aggiunta abbrustolito dai raggi a guisa d’acini di caffè, va bighellonando a intervalli uguali, con vasche modello sfilata, tra gli ombrelloni da un confine all’altro dello stabilimento. Pretesto, forse, la fumata golosa di una sigaretta, ma, chissà se si tratta di ciò e basta.Altro flash, una giovane mamma, diciamo così, genere Penelope Cruz d’estrazione salentina, abbronzata artisticamente, con perfetta uniformità, senza nemmeno un millimetro quadrato d’eccezione, mentre sta arrivando al bagno si esibisce con una fantastica osservazione riferita al figlio ragazzino che le va dietro: “Sei molto cattivo, Romeo, sai, mamma!” Evidentemente, in ogni manifestazione, c’è modo e modo.All’interno del vano bar del lido, campeggia un cartello “Aperitivo con frutti di mare e flute di prosecco, € 15”, che fa chiaramente sfigurare l’ordinazione del cronista di un caffè caldo e uno “in ghiaccio soffiato” per il figlio.Non può mancare, da ultimo, l’immigrato venditore di abitini leggeri e variopinti, parei e foulard: è letteralmente assediato dalle bagnanti d’ogni età e di tutte le fasce di peso. Il bravo ambulante appaga anche la curiosità fine a se stessa: i capi hanno prezzi da 10 a 18 euro, in fondo, dunque, per qualsiasi tasca.Scivola il mattino in spiaggia, grazie anche a una nuotata laddove l’acqua è finalmente un po’ alta e al vento che arriva vivace dal quadrante di tramontana, reso per fortuna meno caldo dal contatto ravvicinato con la distesa liquida.Da domani, partiti i nipotini, il ritorno ai preferiti scogli.
Pubblici appalti per la pavimentazione della città di Nardò tra 1582 e 1584
Pubblici appalti per la pavimentazione della città di Nardò tra 1582 e 1584, sull’esempio di quella già eseguita a Lecce e Francavilla Fontana
di Marcello Gaballo
L’amico Angelo Micello mi ha dato l’opportunità di riprendere un rogito notarile che avevo gelosamente custodito tra le carte, avendolo studiato non pochi anni fa. L’occasione è data da un altro suo bel contributo sulla ottocentesca pavimentazione con basoli di Castro, pubblicato sul suo interessante sito.
Su uno degli appalti neritini di cui si dà nota ne aveva già in parte scritto Giovanni Cosi[1], ma sembra utile riprendere ed integrare con alcuni stralci, che danno meglio l’idea su come venissero commissionati i lavori pubblici e quali norme di dovessero rispettare in quel secolo. Il tutto vergato dal notaio, che nel nostro caso è Cornelio Tollemeto, che registra la convenzione in data 2 gennaio 1582, nell’abitazione che fu di Fabio Calò, dove risiede il regio Commissario per la Redenzione della città di Nardò. Sono presenti il sindaco dei nobili Filippo Sambiasi e quello del popolo Girolamo Burdi, gli auditori e gli ordinati dei nobili e del popolo, e quali tutti sono amministratori della città per l’anno in corso. Partecipa anche il Commissario Giacomo Antonio Seribella quale ufficiale del Regno; l’altro comparente è mastro Nicolao de Aricza de Litio. Il motivo del raduno è dettato dalla necessità di ufficializzare i capitoli et convenzioni statuite tra l’universitas di Nardò e il predetto mastro sopra il partito de l’insilicare detta città di Nardò.
Innanzitutto si conviene che detta università di Nardò dia al detto mastro Nicolò una stanza comoda, uno saccone, una lett(i)era, uno paro di lanzoli, una coperta gratis et che tanto esso mastro Nicolò quanto soi compagni purchè siano forestieri siano franchi di tutte gabelle et datii d’essa università, oltre agli alloggiamenti per il mastro e i suoi collaboratori.
Che detta università abbia l’obbligo di portare le pietre sul luogo in cui verranno collocate: sia tenuta scappare le pietre et portarle sopra il lavoro di detto insalicato a sue spese, pericolo et interesse et che fanno spesa di far cavare la terra delle strade dove se haverà de insalicare, levare e mettere secondo sarà bisogno per l’insalicatore.
Item che detta università sia tenuta accomodare detto mastro di ducati trenta al principio del lavoro di detto insalicato, et che gli si habbia da scomputare ogni mese cinque ducati sopra le fatiche del lavoro di detto insilicato, et che detto mastro sia obligato a dar plegiarìa di detti ducati trenta, osservando tutti i capitoli dell’accordo stipulato tra le parti.
Il mastro da parte sua si obbliga a far bono et perfetto lavoro et le pietre lavorarle come quelle di Lecce, alte et bascie con le sue pendentie di manera che l’acque vadano fora di detta Città, et se ne receva utile a beneficio di detto insalicato, quale s’habbia d’incominciare la prima volta da la strada de la Chiesa Madre verso la piazza, et poi la detta piazza, et appresso l’altre strade ad elettione di detta università.
Il mastro si impegna a lavorare le pietre nello stesso sito in cui sono estratte, quindi sarà l’università a portarle così lavorate sul luogo di applicazione.
Il mastro con quattro dei suoi collaboratori si troverà in città a partire dal primo marzo, data in cui avranno inizio i lavori et che ne lui ne detti mastri si possano partire da detto lavoro per tutto il mese di settembre ma continuamente lavorare le petre et attendere a detto insilicato. Trascorso tutto il mese di febbraio dell’anno 1583 il mastro e i suoi collaboratori riprenderanno la messa in posa, lavorando fino a tutto settembre 1583, e così per l’anno successivo, fino al completamento dei lavori, secondo le esigenze dell’università. Quest’ultima si impegna a versare in anticipo i trenta ducati, all’inizio dei lavori, scomputando dalla somma prevista pari a cinque ducati per mese.
Item detta università sia obligata a dare le petrelle […] al detto mastro e compagni affinché nello […] per tutto tempo in detto lavoro e mancando detta università e detti mastri perdendono tempo per culpa o defetto de detta università sia essa università obligata pagare a ciascuno mastro la ragione di carlini quattro il dì, salvo e reservato quando essa università fusse impedita da legittimo impedimento, che in tal caso non sia obligata alle giornate di detti mastri.
Il lavoro sarà valutato di mese in mese, con sopralluoghi, e si provvede dunque al credito dovuto.
Nell’atto si stabilisce anche il salario finale per detto lavoro di insalicato di detta città: a mastro Nicola carlini dieci e grana due e mezza la canna, che gli saranno consegnati poco prima del completamento dei lavori, a patto che li faccia bello lavorocon pendentia debita per restare bene limpia e netta la città in occasione delle piogge. E siccome spesso venivano aggiornate le unità di misura, ecco che nell’atto si precisa che la canna si intende otto palmi di quattro, conforme allo insalicato canniggiato nella città di Lecce, con declarationeet pacto che quando il partito de l’insalicato della terra di Francavilla fusse stato fatto per meno prezzo che li carlini dieci e grana due e mezza per canna, il presente partito d’insalicare detta città di Nardò s’intenda essere stato fatto per quello meno che si trovarà detto partito di Francavilla.
I convenuti – si legge ancora- si impegnano ad osservare et fare osservare tutta la consistentia de li presenti capituli con la pena et sotto la pena de onze XXV ogni qualvolta sia trasgredito un qualsiasi punto di detta capitulazione.
Dato che le pietre erano state già estratte dai mastri nella cava in località San Leucio (nei pressi della masseria Torsano), l’università stringe accordo con i cittadini Lucio Bove e Mariano Calabrese perché portino “le chianche” in città, pagando loro 34 grana la canna quadrata. Ma essi dovranno effettuare almeno quattro carichi al giorno, per impedire il fermo dei lavori da parte dei mastri insalicatori. Se così non fosse stato i trasportatori avrebbero dovuto pagare quattro carlini per ognuno di essi.
L’atto si conclude con la formula di rito, sottoscritto dal giudice regio Domenico Musachio, dai testimoni don Cicco Calò, Scipione Farina e il notaio Aquilante Costa.
Un anno dopo, quindi 1583, il 5 ottobre, il governo della città si ritrova per riproporre il capitolato per la pavimentazione. Il sindaco dei nobili per l’anno in corso è Giovan Bernardino Sombrino e quello del popolo è Cicco Gaballone, in carica da settembre, che pattuiscono con il mastro Paulo de Arice de Litio e con Lupo Antonio Mergola de Neritono le regole per insilicato faciendo in civitate Neritoni.
I due magistri in solidum prometteno et se obligano d’insilicare detta città di Nardò, far bono et perfetto lavoro et le pietre lavorare come quelle di l’insilicato fatto sin ad hoggi in detta città, alte et bascie con le debite pendentie di maniera che l’acque vadano di fora di detta città, et se ne receva utile et benefitio di detto insilicato, quale s’habbia da fare in quelle strate primieramente che da detta magnifica università gli saranno ordinate, et detto insilicato s’habbia d’incominciare al primo di marzo pr(oss)imo venturo dell’intrante anno 1584 et che per fare detto insilicato detti mastri siano obligati a loro proprie spese scappare et dolare le pietre in quello loco dove si scappano, et da là condurle in la città, farne detto insilicato, cernere la terra sopra detto insilicato et impirlo di terra a tutta perfezione, cavar la terra da le strate, con ponerci essi mastri tutti manipoli et ferramente a loro spese.
Ma, continua ancora l’atto, anco cacciare et portare tutta la terra (che) sarà soverchia alle muraglie di la città o in quel loco ove gli sarà ordinato da detta magnifica università purchè non si porti fuori della città.
Non si prevedono altri impegni da parte del governo municipale se non reperire il sito di lavorazione delle pietre, in cui scappare et dolare dette pietre, luogo che sarà distante dall’abitato entro tre miglia. Se il sito sarà più lontano dallo stabilito, l’università si impegna a risarcire l’eccesso di distanza (la strata che giustamente gli competerà di più).
I mastri et loro discipuli forastieri che saranno impiegati all’esecuzione del lavoro saranno esentati (franchi et immuni) da dazii e gabelle. La paga stabilita è di carlini diciotto la canna per ognuno, così come è stato aggiudicato in seguito a pubblico bando tenutosi nello stesso giorno in città, come ultimi licitatori et plus offerenti ad extintum candelae. Difatti, secondo la norma, al mattino era stato messo all’asta il lavoro, bandito quattro giorni prima.
Ad inizio lavori l’università versa ai mastri cento ducati, con l’impegno di darne sufficiente pleggiaria per una perfetta esecuzione dei lavori. Ancora un impegno dalla civica amministrazione: non sarà annullato il lavoro, né sarà dato ad altri per minor prezzo. Se mai ciò dovesse accadere, la penalità sarà di cinquanta ducati.
Anche questo atto si conclude con la formula di rito e il giuramento, sottoscritto dal giudice regio Tommaso Manieri, dai testimoni suddiacono don Tommaso de Ruggiero, Ottaviano de Castello e il mastro Ercole Pugliese.
Con altro atto del 1586 ai mastri si aggiungerà il figlio di Paolo de Arice, Nardo.
[1] G. Cosi, Il notaio e la pandetta, Galatina 1992, pp. 84-85.
Sembra ancora ieri, quando i nostri padri emigravano in nazioni come Germania e Francia, per poter migliorare il loro status sociale,con l’ausilio di un lavoro che la madre patria non riusciva ad offrirli.
Durante i loro ritorni in patria, al paese, facevano “incetta” di quei beni di prima necessità, come il caffè da portare con sé in quei paesi freddi e senza sole, dove la cultura dell’espresso all’italiana, andava prendendo piede lentamente, in sordina, e dove per poter accedere a quel gusto bisognava organizzarsi.
Le madri , le nonne ed i parenti, quando i loro familiari partivano, iniziavano un piccolo via vai, quasi come fosse una processione di quelle in cui si rende onore al santo , e si portavano in dono pacchi di zucchero e caffè, indispensabili per la “sopravvivenza” di coloro che si apprestavano a partire.
Quando l’emigrante si sedeva davanti a quella tazza di bollente liquido di color nero intenso, si inebriava di quel profumo, che lo trasportava indietro, nella sua terra d’origine facendogli rivivere momenti d’appartenenza, indispensabili per poter proseguire quel percorso intrapreso per migliorare se stesso e la famiglia, privandolo del beneficio primario che poteva donargli la sua terra.
Retaggi d’altri tempi, qualcuno oserebbe pensare, e invece no, se ci guardiamo intorno ci accorgiamo che sono più vivi che mai, a dispetto del tempo che è trascorso e della tecnologia che ha preso il sopravvento, e dal fatto che gli emigranti non sono più gli italiani in cerca di lavoro all’estero, ma gli extracomunitari che vengono a lavorare da noi, come mano d’opera a basso prezzo o come badanti.
Sono i datori di lavoro, gli amici e le varie conoscenze (nei rapporti che ognuno di loro è riuscito a costruire) che, nel momento in cui o viene il familiare a trovarli in Italia o sono loro stessi a partire per tornare al paese d’origine per un periodo più o meno breve, rinnovano la processione del “caffè” , rimasta immutata nel tempo, a dispetto delle regole e dei limiti che impone oggi la tecnologia nei mezzi di trasporto, e in quei15 kgdi bagaglio massimo che ognuno può portare con sé in aereo, troveremo sempre un pacco di “caffè” italiano, che intraprende un lungo viaggio verso paesi e culture lontane.
La pasta prodotta nel Salento. Sempre di grano duro pugliese?
Da dove viene il grano impiegato per la produzione della pasta prodotta dalle industrie agroalimentari del Salento leccese?
di Antonio Bruno
Domenica 10 luglio 2011 a Merine, una piccola frazione di Lizzanello del Salento leccese, c’è stata la Sagra te lu ranu (Festa del grano). Sono andato ogni anno e ci sono andato anche questo. Le spighe dorate, la pasta e la gioia che accompagna l’abbondanza del raccolto. Ma è proprio così?
Il grano di San Cesario di Lecce
Già il grano, quello che la mamma del mio amico Luigi Pascali in autunno seminava nei campi vicino a casa di mia madre, quel grano che da ragazzo vedevo crescere sotto i miei occhi, prima quel tenue ed esile filo di verde e poi le prepotenti spighe che viravano improvvisamente in giallo prima della raccolta. Quello stesso grano che viene seminato ogni anno dietro alla casa in cui abito adesso in Via Vittorio Emanuele III che vedo ogni anno nascere, crescere e dare frutto, tanto frutto.
Il grano duro in Italia
A livello nazionale nel 2011 secondo l’ufficio studi di Toscana Cereali si è registrata una diminuzione su superficie investita a grano duro di 207.441 ettari , passando da una superficie di 1.257.074 ettari a 1.049.633; inoltre da una resa (2010) di 3 tonnellate ad ettaro si è passati alle 2,8 tonnellate ad ettaro (2011) per una produzione complessiva di 3,8 MT ad una previsione di 2,9 MT. Si avrà così una perdita di circa 9 milioni di tonnellate in termini di quantità.
Tutte le Regioni produttrici di grano duro, ad eccezione della sola Sardegna (+9%) fanno registrare una diminuzione delle superfici coltivate nel 2011. Le aree con maggiori diminuzioni sono quelle del nord: Lombardia -48%, Veneto -47%, Emilia Romagna -41%, Piemonte -31%. Ma non va molto meglio nel resto d’Italia: -21% Lazio, -19% Calabria, quindi la Toscana, Umbria, Basilicata e Sicilia che si attestano al -18%; Campania -17%; Molise -13%, Puglia – 12%, Abruzzo -9% e Marche -7%.
Il grano duro del Salento leccese
Nella Provincia di Lecce negli anni dal 2003 al 2005 si sono coltivati circa 29mila ettari di grano duro ovvero circa il 7% della superficie investita a grano della Regione Puglia con una produzione media di 3 tonnellate per ettaro e una produzione complessiva di circa 87mila tonnellate di grano duro.
Il grano duro dà ai proprietari del paesaggio rurale del Salento leccese un reddito da fame
Si può concepire che tre tonnellate di grano duro diano un reddito per ettaro al proprietario del paesaggio rurale di 810 euro lordi? E’ pensabile che 29mila ettari della Provincia di Lecce diano un valore lordo, da cui cioè vanno tolte le spese, di 261mila euro?
Ma quali sono le spese per produrre il grano duro?
Secondo l’INEA le spese specifiche rappresentano il 32% di cui: sementi 9%; fertilizzanti 10%; fitofarmaci 4%; noleggi 8% e altre spese specifiche 1% con l’impiego di 15 ore lavoro per ettaro di manodopera.
La pasta Cavalieri
Sono rimasto suggestionato dall’intervista a Benedetto Cavalieri del giornalista Adelmo Gaetani del Nuovo Quotidiano di Puglia.
Ho cercato, senza successo, il sito dell’Antico Pastificio Benedetto Cavalieri, invece per chi ne volesse sapere di più rimando a Wikipedia, l’enciclopedia libera http://it.wikipedia.org/wiki/Antico_Pastificio_Benedetto_Cavalieri .
Un secolo di successi e di tradizione a Maglie del Salento leccese ed è li che alla Via Garibaldi al 64 c’è l’opificio.
In sintesi l’Antico Pastificio Benedetto Cavalieri è da tutti unanimemente riconosciuto come sinonimo di pasta di prima qualità apprezzata in tutto il mondo e prodotta ancora oggi con il metodo di lavorazione originale.
Ma quanto costa la Pasta dell’Antico Pastificio Benedetto Cavalieri
Le confezioni della Pasta dell’Antico Pastificio Benedetto Cavalieri costano 3,12 euro e pesano 500 grammi ovvero un chilo di pasta costa 6,24 Euro.
Ma da dove viene il grano della Pasta dell’Antico Pastificio Benedetto Cavalieri?
Anche se sulla confezione da 500 grammi della pasta dell’Antico Pastificio Benedetto Cavalieri si può leggere Maglie – Terra d’Otranto – Italia io non ho trovato alcun riferimento sulla provenienza geografica del grano duro. Già perché in Italia la pasta si può fare solo di grano duro infatti la legislazione italiana (Legge n. 580 del 1967) prevede che la pasta secca debba essere fabbricata solo ed esclusivamente con semola di grano duro. Qualsiasi aggiunta, anche se parziale, di grano tenero costituisce una frode. Non è però così in altri Paesi in cui è possibile utilizzare la farina di grano tenero anche per la pasta.
Chiarezza sulla provenienza della materia prima
Intanto cominciamo con l’affermare che non è chiaramente scritta sulla confezione da 500 grammi di pasta dell’Antico Pastificio Benedetto Cavalieri la provenienza geografica del grano con cui si fa la farina da cui si fa la pasta. Quindi il grano duro che viene molito e trasformato in farina che poi sarà successivamente trasformata in pasta potrebbe avere qualunque provenienza. Ma anche ammettendo che l’Antico Pastificio Benedetto Cavalieri utilizzi per la produzione della pasta solo grano della Provincia di Lecce dovremmo fare un po’ di conticini.
I conti non tornano
Ho già scritto che una confezione da 500 grammi di pasta dell’Antico Pastificio Benedetto Cavalieri costa 3,12 euro come è possibile verificare al link http://www.pedrelli.com/it/prodotti/id/4034 ovvero 6mila240 euro alla tonnellata. Mentre un produttore di grano duro della Provincia di Lecce vende una tonnellata di grano duro nella migliore delle ipotesi a 270 euro la tonnellata come si può verificare al link http://www.ilgranoduro.it/userfiles/quotazione%2027a%20settimana%202011.pdf
Una filiera della pasta tutta del Salento leccese
Sarebbe bello per un proprietario di paesaggio rurale coltivare grano, è una coltivazione facile, si ara, si semina, si concima e si raccoglie. E sarebbe bello sapere che dalle tre tonnellate che il buon Dio con la Sua provvidenza regala a noi umani si potrebbe ottenere un reddito in grado di far vivere tante famiglie. Per farlo c’è bisogno di mettere tutto insieme il grano duro del Salento leccese e comunicare i dati della produzione. Sempre insieme si dovrebbero trasformare le 87mila tonnellate di grano duro del Salento leccese in farina. Un buon impianto di macinazione ha una resa del 60-64% di semola e dell’8-12% in farinette. Il Salento leccese è in grado di dare 55mila tonnellate di farina! E che fare delle 50 mila tonnellate di pasta?
Il consumo della pasta del Salento leccese
L’Italia, con oltre 3.1 milioni di tonnellate prodotte e 28 kg di consumo medio pro capite annuo, figura come il Paese leader indiscusso della tradizione pastaia. Ogni 10 piatti di pasta sfornati a ogni longitudine e latitudine, ben 3 sono infatti realizzati con pasta italiana. Quindi noi 800mila abitanti del Salento leccese potremmo auto consumare circa la metà della pasta prodotta ovvero 25mila tonnellate delle 55mila se scegliessimo da consumare in casa solo pasta prodotta con il grano duro del Salento leccese. Vi lascio pensare che cosa significhi conquistare anche un solo mercato estero! Una coltivazione facile diverrebbe anche una coltivazione che da la ricchezza! Una filiera tutta del Salento leccese è la soluzione! Le Organizzazioni professionali dei produttori agricoli dovrebbero lavorare su questa ipotesi e sin d’ora metto a disposizione l’Associazione Dottori in Scienze Agrarie e Forestali della Provincia di Lecce che ho l’onore di presiedere per costruire insieme un progetto che sta in piedi con le sue gambe e senza finanziamenti da parte di nessuno!
Mino de Santis. Una pagina di canzone popolare vera, del popolo del Salento … lento … lento …lento
San Simone è un bel posto. Nel cuore messapico del basso Salento a due passi di Sannicola (di cui è frazione) e tre da Alezio, uno sputo da Tuglie.
San Simone ha un rilievo con un grande spazio: Oasi dei Francescani si chiama. Luogo dal profumo vintage e dall’aura di pace.
San Simone è li, in un fazzoletto di terra la contraddizione umana plasticamente rappresentata: Oasi di pace con un cannone a far bella mostra, vintage con affianco un tetto solarizzato. Declinazione straordinaria della velocità della storia quando si muove su piccoli spazi.
San Simone e l’Oasi francescana che ospita uno spettacolo culturale: Mino De Santis presenta (finalmente) il suo primo CD e, dopo, la cultura: mieru e pezzetti te cavallu!!!
Accostamenti ardui nello spazio e nel tempo, forse anche raffazzonati e stridenti, ma sempre accostamenti.
Un palco scarno con tre sedie e il groviglio di fili d’ordinanza, una approssimata amplificazione e luci rosso-verdi che proiettano sul suolo e sui muri strane ombre da anaglifo …
La platea in una cornice d’altri tempi, popolata da sedie di plastica, metà rosse e metà bianche, s’anima e in breve tempo non c’è più un posto che non sia occupato da culo umano, si occupano anche gli spazi per accovacciarsi sui
Irene Mancini intervista Alfredo Romano sull’emigrazione salentina a Civita Castellana. TERZA PARTE.
di Irene Mancini So che venivano impiegati anche i ragazzi nella lavorazione del tabacco, lei che ricordo ha?
“La maggior parte delle famiglie aveva figli piccoli. Di ragazzini che infilzavano tabacco e che aiutavano i grandi anche sul campo raccogliendo i mazzi raccolti, ne ho visti a iosa. Ma chi aveva 12 anni circa già lavorava come un adulto. Io, ‘fortunato’, ho cominciato a 16, Eugenio, mio fratello più piccolo, a 11; Aldo e Angelo a 12. Il primo ricordo (la cosa mi fa ancora tenerezza) è quello di certe mattine quando ci svegliava la pioggia. Eravamotalmente ragazzi che, quando al risveglio sentivamo la pioggia per noi era una festa: quella mattina non si sarebbe raccolto il tabacco, perché bagnato. Un dono poter dormire qualche ora in più. Eravamo proprio incoscienti noi ragazzi, perché in testa ai nostri desideri c’era sempre la pioggia a ogni risveglio. E un anno venne la grandine che spazzò via tutto il tabacco alto e rigoglioso. Mio padre e mia madre piangevano, noi ragazzi, invece, di nascosto, a fregarci le mani per la gioia, ignari e felici. Alzarsi ogni mattina prima dell’alba era dura. Mio padre si svegliava ch’era ancora buio e si recava a perlustrare la striscia di terra per la raccolta, quella con le foglie di tabacco più mature. La pianta veniva sfogliata dal basso in alto; per ogni pianta si sfogliavano 6-7 foglie; tutto il campo veniva mediamente passato 6 volte. Le foglie, a seconda della loro altezza, avevano un nome: frunzone quelle più basse, poi, salendo, quarta, terza, seconda, prima e primiceddha. Le prime raccolte ci costringevano a stare più chini. Per sopportare il piegamento, s’appoggiava l’avambraccio sinistro sulla coscia sinistra dell’anca, che così reggeva il peso del corpo. Nel punto d’appoggio si formava un vero e proprio callo. Con l’ultima raccolta, prima e primiceddha, finalmente si raccoglieva stando in piedi e sembrava quasi una passeggiata; così veniva anche più facile parlare e cantare, avendo come colonna sonora il monotono ticchettio delle foglie sfrondate. Si raccoglieva la mattina fino alle 10, quindi si tornava a casa con una fame da lupi. Quelle fette di pane leggermente bagnate e condite con olio, pomodoro, origano, sale e spicchi di cipolla, erano la nostra colazione. E anche se oggi sono passato a colazioni più ‘civili’ come latte e biscotti, il sapore di quel pane e pomodoro non è stato ancora superato”.
Ma la scuola?
“Mio fratello Aldo, il secondo, quando è arrivato a Civita aveva appena preso la licenza media. Lui avrebbe voluto continuare, ma non gli fu possibile. Ancora
Non bisogna bere il mare per capire che l’acqua è salata
Incombe cupo un cielo da temporale estivo, un mal di testa insistente lo accompagna. Si scatena la bufera, l’acquazzone, la tempesta. In pochi minuti un vento possente spara secchiate d’acqua sulle finestre che gli si oppongono. Dalla verandina trasparente mi godo un piccolo esempio della potenza della natura.
È luglio, il principio di luglio che mi regala, per quest’anno uno spettacolo che adoro.
È luglio. Il principio di luglio. Il sette. Il mio ultimo giorno di colloqui d’esame di Stato si è consumato. Un altro impegno incombe. Sono le 13.30, stiamo per terminare l’ultimo candidato che, faticosamente, esala le ultime parole di un dialogo costruito a interesse zero.
“Non bisogna bere il mare per capire che l’acqua è salata” si sostiene saggiamente intorno al fulcro che temporaneamente rappresento. Forse è vero, forse è eccessivo dedicare tanto tempo per cercare qualche forma di vita in nozioni alle quali nessun tempo è stato dedicato, ma abbiamo davanti una persona che, per quanto priva di interesse per lo studio ha diritto allo stesso interesse di chi ha studiato. Persone diverse e tutte persone, qualcuna che ha raggiunto un gradino verso la sua meta, qualcun’altra delusa nelle attese altre ancora, tantissime, ad un bivio che s’allontanerà definitivamente dal cammino fin’ora percorso.
Mi lasciano la bocca amara questi esami, non per le innumerevoli mancanze dell’istituzione scuola, non per gli innumerevoli capricci di cui ciascuno di noi è capace appena investito da un lembo di potere, nemmeno per il caldo afoso di questi giorni.
Ho la bocca amara perché nei ragazzi, in gran parte, ho visto occhi spenti, letto la sensazione di aver perduto del tempo, percepito un rifiuto del baraccone che a nulla è servito, che ha sempre chiesto tanto senza mai chiedere conto, che ha riservato sermoni e paternali senza mai provare a dare un senso alla vita, una speranza alla conoscenza, una gioia da portare a casa.
Ho la bocca amara perché mi sento impotente, perché quei ragazzi hanno ragione, sono stati blanditi, giocati, illusi da mille luminarie e cento specchietti. E lasciati soli con i loro mille bisogni indotti e pochissime possibilità di realizzarli, in una società capace di riempire gli scaffali di merce che promette la felicità e i marciapiedi di persone che son li a guardare le vetrine con le tasche vuote. E vent’anni di mitologia di una scuola che serva, di insegnanti che, in cambio di un pugno di cartamoneta aggiuntiva, hanno rinunciato al ruolo di intellettuali per diventare formatori, hanno prodotto solo e soltanto una scuola serva. Una scuola che non insegna più a conoscere per disobbedire, imparare per mettere in discussione, ma solo a “determinate abilità che possano aiutare l’inserimento del mercato del lavoro”, come se un mercato del lavoro esistesse per davvero, come se le parole di Mario Capanna, splendide, potessero davvero esser lume d’altro cammino.
Non ho commenti da fare Antonio caro, le parole belle son terminate, altri ci chiesero di lasciare la nave per scalare montagne, pifferai magici ne abbiamo conosciuti. Guardiamoli con grande simpatia anche quando dicono cose che sono roba da seconda elementare, in fondo son bravi e magari l’ingenuità ha qualche speranza di vincere. Noi che abbiamo percorso i mari in tempesta e in essi ci troviamo a nostro agio, continueremo a domandarci per quale oscura ragione alcuni ingenui diventano ricchi e famosi e altri, altrettanto ingenui, restano dei morti di fame. Eppure camminano sulla medesima strada.
Son qui, in bermude e canotta, di fronte a questo fido compagno al quale raccontare le mie stolte illusioni, ad attendermi una serata bellissima in un luogo d’incanto di natura. Un rifugio, per respirare “toda joia toda belleza porque se no me muero” senza pifferai, magari con un buon trombettiere, che le catene son pesanti da tirare e l’energia non é più quella d’un tempo.
E non abbiamo insegnato nulla, abbiamo continuato a narrarlo questo mondo invece di coniugarlo, forse paghi o forse solo sciocchi, abbuffati di aggettivi e arruffati nei verbi, e ora tutto ci torna addosso. Vomitato.
Ma abbiamo imparato che non possiamo abbandonare la lotta perché alla lotta apparteniamo, e continueremo, in memoria di Bertoldo, perché “la Terra non si può inchinare alla Terra”.
Non sono un suonatore in senso prettamente musicale, conosco a stento la sequenza verbale delle sette note.
E, tuttavia, attraverso momenti e situazioni in cui avverto improvvisi, quanto irrefrenabili stimoli a riempire ideali spartiti, a intrecciare incorporee ghirlande d’armonie melodiose.
Fonte d’ispirazione e, in pari tempo, insieme di strumenti sonori, gli incanti naturali che ho la fortuna di poter cogliere con lo sguardo, toccare con mano, respirare, vivere intensamente e assimilare dentro.
Qui, in questo natio angolo salentino, fra cielo che rievoca l’azzurro profondo delle volte di talune basiliche e distese d’acqua dalle nuance cangianti e ammalianti quasi per un arcano e invisibile estro d’artista, tra profumi di mirto, carrubi, menta, gelsomino e basilico che s’intrecciano e si fondono lievi, attutendolo, con il frinire delle cicale, è realmente dato, si ha agio di godere di giorni e notti ristoratori e gratificanti.
E’ Castro, a sola e con i deliziosi dintorni, il fulcro e il cuore di tanta bellezza e meraviglia: un autentico mito, che arriva a trattenere chi scrive finanche dal desiderio d’accostarsi, conoscere e frequentare lidi, siti e ambiti più decantati e famosi.
Domenica mattina, uscito dalla messa nella minuscola e graziosa ex cattedrale, mi sono diretto in fondo al contermine vicolo S. Dorotea che si chiude con un belvedere: dal relativo davanzale, gli occhi si sono riempiti di un orizzonte d’immagini e visioni che, per il mio sentire e le mie suggestioni, sono valse alla stregua di un mappamondo dischiuso e disteso, di un pianeta intero.
I confini di quello scenario mi sono rimasti stagliati in fondo all’anima, me li porterò sicuramente con me fino all’ultimo.
Si riconduce ancora di Castro, il meraviglioso colpo d’occhio di ieri pomeriggio, fissato nell’unita foto.
Lasciatemelo dire, in una stagione caratterizzata, se non dominata, da brutture, atti ed eventi sporchi, lotte, guerre e miserie, sopravvivono, per fortuna, frammenti, minuscoli fogli di ambienti sani, puliti e leggeri.
Scrutando e guardandosi intorno, senza volerlo, si dischiudono oasi di frescura e di sollievo, rispetto alle soverchianti montagne d’immondizie e ambasce.
San Foca. Quando il mare impetuoso riempie la grotta della jannara…
Quannu lu mare rusce a la Jannara, pigghia li boi e va’ a ara’
di Gianni Ferraris
La jannara è un luogo, una spiaggia, un mare-lago (apparente ossimoro), che si trova andando verso San Foca. Ci andiamo spesso per farci il bagno. Ci sono bimbi che giocano e genitori tranquilli perché l’isolotto veglia su di loro. Lei, la grande roccia con la caverna, galleria, antro dei misteri che porta nel mare aperto, è lì a proteggere dalle mareggiate e dalle onde. Quando ci passi dentro e superi quelle colonne d’Ercole per addentrarti verso il mare aperto, verso l’ignoto che rumoreggia, quando hai davanti il mondo ignoto anche se sai che le coste albanesi sono a poche miglia, però fingi che ci sia l’ignoto davanti a te, allora puoi pensare a mille cose, magari ti torna in mente Lucio Lombardo Radice quando scriveva del concetto di infinito, quello che noi, miseramente umani, grandiosamente persone, immensamente soli di fronte all’immenso, non riusciamo a concepire. Cos’è il nulla e cos’è l’infinito? Macchè, abbiamo i sensi e intuiamo, almeno pensiamo di farlo, una fine ed un limite, che è quello dello
Salento terra di santità. I Servi di Dio di Corigliano, Diso, Erchie, Francavilla Fontana
Fra Bernardino Delli Monti da Corigliano. Rinunciò ai titoli della primogenitura al fratello ed entrò nell’Ordine dei Frati Minori dell’Osservanza, passando così dalle piume alle paglie, dalle sete alle lane, dalle vivande squisite alla penitenza. Pervenuta a Roma la fama della sua santa condotta fu mandato Visitatore nelle Calabrie, nella Sicilia e nella Provincia Romana e Gregorio XV lo destinò Visitatore Apostolico per buona parte delle Province Italiane. Morì a Roma il 22 ottobre del 1621.
Fra Diego da Corigliano, morto il 26 settembre del 1674. Uomo della bontà e della semplicità, veniva chiamato “il santarello” umile, obbediente, dotato di scienza infusa. Aveva una spiccata conoscenza delle Scritture; pur essendo illetterato parlava meravigliosamente delle cose divine. Grande spirito di preghiera. Esalò la sua santa anima con gli occhi fissi al cielo e dicendo: “Signore nelle tue mani consegno il mio spirito”. Frate minore.
Fra Francesco De Blasi da Diso, il 19 novembre ???; conte di Lenos e signore di Castro, fatto cappuccino visse e morì santamente. Cappuccino.
Fra Stefano di S .Teresa da Erchie. Distintosi per la virtù dell’obbedienza. Morto il 14 gennaio1814 a Oria. Frate minore.
Fra Alessio da Francavilla Fontana, morto il 9 ottobre 1679, lavoratore, devoto della Madonna, dotato del dono dell’estasi e della profezia, morì al
Irene Mancini intervista Alfredo Romano sull’emigrazione salentina a Civita Castellana. SECONDA PARTE.
Ma c’erano salentini che abitavano nel centro storico? non stavano tutti nelle campagne?
“Abitare nel centro storico, per i salentini, era una conquista: significava aver rotto i legami col tabacco e aver trovato un lavoro più da cristiani, un lavoro preferibilmente in ceramica, ma anche nelle cave di tufo o nell’edilizia. Tutti miravano a uno di questi traguardi, dipendeva dalla composizione del nucleo familiare. Là dove c’erano figli piccoli, l’unica risorsa era il tabacco, e in tal caso anche i bambini davano una mano, ma, giunti i figli in età da lavoro, e trovata un’occupazione, cambiava il tenore di vita, fino al punto di poter dire addio al tabacco e potersi affittare o comprare una casa nel centro storico. Certo, si trattava di case spesso fatiscenti che i civitonici avevano abbandonato per case o villette più comode in periferia, ma il costo a quei tempi non era eccessivamente caro. Oggi, con gli immigrati stranieri, c’è speculazione, gli affitti sono vergognosi ed è più difficile comprare una casa. Al nostro posto adesso ci sono i rumeni nel centro storico; anche tunisini, marocchini, latino-americani e altri. C’è un avvicendamento. I salentini ormai sono bene integrati, anche loro hanno raggiunto sistemazioni più comode in periferia. A dire il vero c’è anche un fenomeno inverso: quello di civitonici che ristrutturano una vecchia casa e decidono di tornare a vivere nel centro storico. Si tratta di una scelta culturale, perché il centro storico dà il senso della comunità: si apre la finestra e si può parlare col dirimpettaio, ci si può sedere sotto casa e chiacchierare coi vicini, ci si scambiano i primi piatti, il sale, il prezzemolo, una bottiglia di vino. Fuori dal centro storico, invece, ma più in periferia, abbondano case e villette quasi tutte con recinto e cane da guardia. Qui è esclusa la possibilità di comunicare, e ognuno si gode, si fa per dire, la sua piccola isola”.
Chi viveva nel centro storico era privilegiato rispetto a chi viveva nelle case coloniche?
“Lo era soprattutto perché non coltivava più tabacco, perché era finita una maledetta schiavitù, perché, cambiato lavoro, era pure migliorato il suo tenore di vita; in paese poi c’erano più spazi per la socializzazione. Ma qualche rimpianto restava per quella vita all’aria aperta, o per quel pezzo d’orto che era una genuina fonte di frutta e verdura e al tempo stesso di svago; il rimpianto anche per amici e parenti lasciati lassù nella tenuta. C’erano circa 45 famiglie su a Terrano: occupavano altrettanti casali divisi per caseggiati; la distanza tra un caseggiato e l’altro era pressappoco di300 metrie ognuno era intitolato a un santo: il mio si denominava San Massimo. Qui eravamo tutti parenti, il cognome prevalente era Romano, per cui finirono per chiamarlo il ‘casale dei Romani’. D’inverno, quando non si lavorava il tabacco, di domenica pomeriggio, ci si incontrava talvolta con quelli degli altri caseggiati, e allora si ballava, si faceva la pizza insieme, ci si ritrovava a far festa insomma. Era difficile d’altronde
A chi si interessa veramente alla figura di don Tonino Bello, in questi ultimi anni analizzato ed approfondito in diverse pubblicazioni, non può certamente sfuggire uno degli ultimi volumi dati alle stampe, che affronta l’operato del grande arcivescovo di Molfetta in una chiave del tutto nuova.
Si tratta di “Tonino Bello. Danza la vita”, a cura di Maria Gabriella Carlino e Maria Occhinegro, pag. 150, euro 18.00, Lupo Editore. L’antologia che raccoglie scritti, omelie e lettere di Don Tonino, si avvale di una singolare prefazione esperenziale resocontata da Nichi Vendola e nasce, prende forma e si sostanzia, sotto una preziosa quanto inusuale veste didattica. Vuoi per il substrato professionale degli stessi autori, vuoi anche per il progetto perseguito da una casa editrice come la “Lupo”, la quale affida a queste pagine anche una
Come ci inventiamo una cultura: il caso della Notte della Taranta. Parte seconda.
Distinzioni e chiarimenti sulle categorie e le esperienze del tipico, del tradizionale e del popolare: strumenti minimi per difendersi da stereotipi e clichè
di Pier Paolo Tarsi
Il fatto che, passata l’estate, nel corso dell’anno la Pizzica scompaia quasi completamente dalle nostre vite (questione empirica incontestabile e salutare) significa qualcosa di ben più profondo di quello che si potrebbe credere a prima vista, significa, come mostreremo analiticamente, che questa non si può affatto considerare musica tipica salentina né musica popolare salentina e credere che tale sia per davvero significa solo confondere la rappresentazione generata dalle forze sociali – la finzione auto-etero-rappresentativa ad uso turistico di un patrimonio culturale nella sua versione più semplificata di cui abbiamo detto nella prima parte: http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2011/06/08/come-ci-inventiamo-una-cultura-il-caso-della-notte-della-taranta/– con il reale, il quale va cercato nella concretezza della vita e dei contesti esperienziali in cui questa si esprime, non nelle guide turistiche e negli spot pubblicitari confezionati dagli assessorati per il turismo.
Tutte le precisazioni che faremo potrebbero sembrare pedanti sottigliezze se non fossero, come intendiamo mostrare ai lettori che avranno la pazienza di non abbandonarci, agili strumenti euristici in grado di spiegare diverse esperienze comuni nell’incontro con varie manifestazione della nostra cultura. La percezione a livello intuitivo della confusione nel minestrone stereotipico tra “tradizionale”, “tipico”, “popolare” (categorie su cui cercheremo di fare chiarezza) spiega ad esempio perché tutti noi salentini abbiamo riso (quando non ci siamo indignati) del feticcio di tipicità incarnato (o meglio indossato, recitato affettatamente, stereo-tipicamente appunto) dalla graziosa salentina che ha partecipato ad una recente edizione del Grande Fratello. Questa signorina infatti si è presentata come una vera “femmina salentina”, donna “legata alla sua terra”, alle radici, inscenando questo attaccamento in un video che la vedeva in un campo a ballare la “pizzica” (per chi volesse proprio farsi del male, il video è reperibile qui: http://gossip.fanpage.it/grande-fratello-11-concorrenti-francesca-giaccari-salentina-doc-foto-e-video/). Il risultato non era solo una finzione per molti irritante e per tutti distante anni luce dalla realtà attuale, il risultato era soprattutto risibile e ridicolo, perché fondato e stereo-tipicamente sbilanciato interamente sulla semplificazione della rappresentazione ad uso turistico del Salento! Siamo insomma di fronte a un caso evidente e parossistico di auto-etero-rappresentazione estremamente irrealistica e ad un pasticcio categoriale del tradizionale, del tipico e del popolare per come ne facciamo esperienza nel quotidiano: sappiamo tutti infatti che nessuna “tipica” ragazza salentina – mentalmente in salute si intende – se ne va in giro scalza nei campi a ballare la pizzica raccogliendo fichi d’india!
Dovremo dotarci di alcuni strumenti di carattere logico-linguistico essenziali per trattare in modo adeguato le questioni che ci interressano.
Per cominciare, chiariamo che cosa significa propriamente “tipico” in senso antropologico.
La migliore definizione antropologica (migliore dal punto di vista logico e
Irene Mancini intervista Alfredo Romano sull’emigrazione salentina a Civita Castellana. PRIMA PARTE.
L’intervista è tratta dal libro I leccesi a Civita Castellana: storia di emigrazione e di tabacco,edito dalla Biblioteca Comunale di Civita Castellana nel 2008. L’autrice, Irene Mancini, è nata a Civita Castellana. Vive e lavora a Viterbo, dove insegna sociologia e svolge il ruolo di operatrice sociale presso la casa circondariale. Si è laureata in Lettere alla Sapienza di Roma (Ndr.).
Premessa dell’autrice Alfredo Romano è nato a Collemeto, una frazione di Galatina in provincia di Lecce, nel 1949. È arrivato con la sua famiglia a Civita Castellana nel 1965 per la lavorazione del tabacco. Dal 1970 dirige la biblioteca comunale ‘Enrico Minio’ di Civita Castellana. È autore di vari volumi (poesie, racconti, due romanzi, raccolte di tradizioni popolari salentine) e articoli su periodici nazionali e locali. Ispirandosi alla storia dei suoi paesani a Civita Castellana e ai temi della tradizione salentina, ha portato in scena degli spettacoli dove narra e canta accompagnandosi con la chitarra e il tamburello. Ha dato uno spettacolo anche a Roma, al mitico Folkstudio, e a Wholen, in Svizzera, per gli immigrati italiani. Negli incontri periodici con i ragazzi della scuola dell’obbligo, oltre al compito di far loro conoscere i servizi della biblioteca, li intrattiene con letture animate di poesie e racconti, nonché cantando delle filastrocche su testi di Gianni Rodari, che lui stesso ha messo in musica. Lo incontro diverse volte. Poter raccontare la sua storia lo appassiona. Mi aiuta a cercare tutto il materiale possibile sull’argomento, perché l’idea che qualcuno faccia conoscere le vicende della comunità salentina immigrata a Civita Castellana, gli sembra un lavoro molto importante per la memoria storica non solo dei salentini, ma anche dei civitonici [abitanti di Civita Castellana. Ndr.]. Partecipa all’intervista con manifesta sensibilità, passando dall’ironia alla malinconia, fino alla commozione.
Come si arrivava a Civita Castellana?
“In genere, come nel caso della mia famiglia, perché qualcuno c’era già stato, e, tornando una volta l’anno al paese natio, ti invogliava a partire. Fu gente di Collemeto emigrata a Civita alcuni anni prima a capacitare mia madre; mio padre invece era restio. E non gli si poteva dare torto, visto che emigrare a 52 anni, quanti ne aveva allora, non era cosa semplice. La verità è che papà da qualche tempo aveva perso il lavoro (commerciava in tufi da costruzione) e a casa si attraversava un momento difficile. Perciò Civita Castellana apparve come una soluzione. Ho saputo in seguito che a quei tempi ogni proprietario terriero usava sborsare circa 50 mila lire di premio a chiunque convincesse una famiglia salentina a migrare a Civita per lavorare nella propria azienda. Nel 1965 erano soldi! Per cui, chi ti sollecitava a partire aveva un qualche interesse
La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione
al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.
C.F. 91024610759 Conto corrente postale 1003008339 IBAN: IT30G0760116000001003008339
www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.
Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi: Gestione contatti e invio di messaggi MailChimp Dati Personali: cognome, email e nome Interazione con social network e piattaforme esterne Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo Servizi di piattaforma e hosting WordPress.com Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio Statistica Wordpress Stat Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo Informazioni di contatto Titolare del Trattamento dei Dati Marcello Gaballo Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com