Non sopporto le ombre fragili del salice piangente che seppure delicate e innocue appaiono superbe per ingannare il sole di settembre in crogiuoli cromatici di arcobaleni e m’annoio di illusioni di autunno che sempre tra l’estate se ne sta e morire mi fa l’attesa di un guizzo d’inverno.
Ora me ne starò buono a comporre l’epilogo del sole che nell’ assopirsi consente alla notte di governare i destini e assoggettare a sé lune disperate.
Scirocco con le labbra di miele ad est del mare dello Ionio accudisci onde ribelli e nelle ore del desio accomodi lune infeconde. In disubbidienza alle stelle ti inventi notti dal passo lento per ritardare avvenire di giorno.
Rivelerò i miei versi nell’ora dell’addio alla musa che sopportò e tacque e immaginò per me giardini di serenità strappati ai demoni dell’inquietudine che mal sopportarono l’idea di un altro demone a dominare su di loro e nelle ore del pianto comprenderanno d’essere stati stolti.
La città dei morti tra storia e memoria del passato.
Un esempio salentino: il cimitero di Nardò.
di Gabriella Buffo
“E’ da un pezzo che la Filosofia ha intimato il bando alle sepolture, e ai cimiteri non solo fuori delle chiese, ma anco fuori delle città, e lungi dall’abitato per la semplice ragione, che i morti non debbono ammorbare i vivi. Se le nostre Chiese sono pavimentate di cadaveri, qual maraviglia il trovarci spesso desolati da tante malattie pestilenziali”[1].
Così scriveva Francesco Milizia, teorico e critico di Oria, nel suo trattato Principi di Architettura Civile (1781), rilevando il grosso problema igienico sanitario legato alla consuetudine di tenere esposti i morti per lungo tempo nelle chiese e seppellirli poi sotto i loro pavimenti o nei cortili degli ospedali e delle confraternite.
Se il diritto funerario romano aveva respinto, per secoli, con la decima legge delle XII Tavole [2] (homine mortum in urbe ne pepelito neve urito) le sepolture fuori dalle mura delle città, per preservare la sanctitas delle abitazioni è “con il Cristianesimo che avviene il passaggio dalla negazione alla familiarità della morte che porterà in epoca medioevale all’inurbamento dei luoghi di sepoltura”[3].
Nei primi secoli dopo Cristo, infatti, si afferma la pratica delle sepolture ad sanctos o martyribus sociatus, affinché fosse più facile il cammino del defunto verso la resurrezione: in Christianis mors non est mors, sed dormitio et somnus appellatur, così afferma S.Girolamo nella XXIX epistola, secondo il quale la morte non può più far paura perché è vista come sonno eterno.
Le chiese accoglievano le sepolture dei nobili in ambienti ipogei posti in prossimità o davanti alle cappelle laterali di patronato di una certa famiglia; il clero, invece, aveva sepoltura in un unico ambiente sotterraneo, posto in prossimità del presbiterio e dell’altare maggiore; i popolani erano ammucchiati uno sopra l’altro senza cassa, avvolti solamente in un sudario, all’interno della navata centrale lungo due o più corridoi sotterranei ovvero in fosse molto larghe.
“Il posto più ricercato, e quindi più costoso, che si pagava generalmente tramite lasciti testamentari per le preghiere, era il coro ovvero vicino al punto in cui si celebra la messa e dove sono conservate le reliquie del santo. La scelta del posto di sepoltura da parte dei testatori restava subordinata comunque all’approvazione del clero. Ed era quasi sempre una questione di denaro”[4].
Nelle chiese conventuali trovavano sepoltura i frati ivi dimoranti e, in linea di massima, eventuali benefattori mentre, nelle chiese confraternali, erano ubicate le sepolture per i confratelli della congrega di pertinenza. In ogni paese, per sovvenire alle esequie dei poveri, c’era quasi sempre una confraternita della Buona Morte (spesso delle Anime Purganti) che provvedeva ai funerali e a fornire una cassa da usarsi solo per il trasporto (una sola cassa per tutti i beneficiati).
Il processo di separazione tra cimiteri e città inizia ad avviarsi già nel 1765 con un decreto promulgato dalle autorità civili parigine e, immediatamente dopo il 1787, con una disposizione austriaca nel Lombardo Veneto.
I Francesi, durante l’occupazione napoleonica (1809-1814), con la loro visione illuministica, che aspirava a rimodellare le città secondo criteri di ordine, bellezza e igiene, misero al bando la pratica medievale della sepoltura ad sanctos o apud ecclesiam.
L’EdittoNapoleonico di Saint Cloud del 12 giugno 1804, nell’occuparsi di molti aspetti di convivenza, entrò nel merito delle sepolture imponendo l’obbligo di seppellire i morti in appositi spazi recintati, fuori dall’abitato, allestiti per cura delle amministrazioni pubbliche, (art. 75, 76 e 77) e introducendo un controllo sulle iscrizioni funerarie, che dovevano essere consone allo spirito della rivoluzione francese e, pertanto, non contenere iscrizioni nobiliari. Le sepolture dovevano essere anonime e la collocazione della lapide era relegata ai margini dei cimiteri. La legge venne estesa all’Italia Meridionale con decreto del 5 settembre 1806.
Questa legge, senz’altro valida secondo il più freddo razionalismo, incontrò forti resistenze, perché lesiva di pratiche religiose profondamente sentite ma che impediva anche – come scriveva Ugo Foscolo nel carme dei Sepolcri (composto nel 1806) – quella “corrispondenza d’amorosi sensi” togliendo all’uomo l’illusione che egli potesse sopravvivere almeno nel ricordo dei suoi cari.
“Pur nuova legge impone oggi i sepolcri fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti contende. E senza tomba giace il tuo sacerdote, o Talia, che a te cantando nel suo povero tetto educò un lauro con lungo amore, e t’appendea corone”; così polemizza il Foscolo a proposito della disumana normativa sulle iscrizioni funebri che non permise al poeta Parini di essere sepolto con una lapide che ne tramandasse almeno il nome.
Lo stesso disagio culturale è, nel contempo, accusato da una intera generazione poetica europea a partire dall’anglosassone Thomas Gray con l’opera Elegy written in a country churchyard, a Edward Young nei Night Thoughts alle Meditations among the tombs di James Hervey per passare poi agli intellettuali francesi come Jacques Delille.
Sino al 1814 nei cimiteri è prescritta la costruzione di monumenti sepolcrali; successivamente a questa data nuovi emendamenti regoleranno il rilascio delle autorizzazioni per le sepolture private .
Durante il periodo della restaurazione borbonica nel Regno delle Due Sicilie determinante fu l’emanazione della legge nr. 653 dell’11 marzo 1817, che stabiliva la costruzione in ogni Comune di un camposanto fuori dell’abitato “in modo da servire ad un tempo a garantire la salute pubblica, ad ispirare il religioso rispetto dovuto alle spoglie umane, ed a conservare le memorie onorifiche degli uomini illustri”. La legge dava, inoltre, facoltà ai Decurionati di individuare i fondi di proprietà pubblica o privata idonei a tale destinazione procedendo là dove necessario all’esproprio.
Alla legge seguì il Regolamento di attuazione del 21 marzo 1817 che all’art. 2 prescriveva: “la figura dei campisanti sarà un quadrato, o un parallelogramma, avrà una sola porta d’ingresso, chiusa da un forte rastello di ferro, o di legno, e che la posizione sia scelta in un sito a circa un quarto di miglio lontano dall’abitato, nella direzione dei venti settentrionali in modo da evitare gli effetti sgradevoli dei miasmi”[5].
Purtroppo le disposizioni di legge tardarono ad essere applicate. Forti opposizione sia da parte del clero, timoroso di una diminuzione delle “pie elargizioni dei suffraganti”, sia dei ceti popolari, restii ad abbandonare la prassi della tumulazione apud ecclesiam, faticavano a far nascere i cimiteri extraurbani avallando la comune pratica di tumulare all’interno delle chiese con grave detrimento della salute pubblica anche considerando le ricorrenti epidemie di colera, si pensi alla terribile epidemia di colera asiatico del 1836, che flagellò il Regno. A ciò si aggiungeva una quale inerzia amministrativa e la penuria di fondi per la costruzione dei camposanti.
Il cimitero in Terra d’Otranto: il caso di Nardò
Il Real Rescritto dell’11 gennaio 1840 fu reso esecutivo in Terra d’Otranto il 25 gennaio 1840. Con la nota del 25.1.1840 sullo “stato progressivo de’ lavori de’ Campisanti” l’Intendente Marchese Della Cerda comunicava ai Sindaci la “definitiva chiusura delle tombe nelle chiese dell’abitato” e “sollecitava ancora l’edificazione delle città dei morti” [6].
“Il Comune di Lecce non si fa cogliere impreparato e si attiva giungendo a un risultato concreto con la predisposizione di una serie di documenti fondamentali: il primo e più importante di questi è datato 19 febbraio 1840 e contiene la relazione descrittiva del Progetto de’ lavori che occorrono per la costruzione del Cimitero nel locale di S. Nicola in Lecce con allegato lo Stato Stimativo firmato dal suo estensore nonché progettista delle opere, l’ing. Benedetto Torsello[7]. Il cimitero fu aperto ufficialmente il 1° gennaio 1845 ma il popolo leccese, ancora non convinto della necessità ed utilità di questo impianto extraurbano, nel 1848 manifestò aspramente il proprio dissenso con l’abbattimento delle porte e dei muri del Cimitero e con la dispersione delle croci”[8].
Nel territorio salentino il Comune di Galatina nel marzo del 1886 aveva ultimato i lavori per la realizzazione del cimitero ma, già nel 1894, approvava il progetto di ampliamento, presentato dall’ing. Giuseppe Greco, per la costruzione di nuove cappelle gentilizie nell’area prospiciente l’ingresso[9].
Analoga era la situazione a Gallipoli, dove l’ing. Luigi Pinto aveva già redatto nel 1868 un progetto di ampliamento del preesistente camposanto.
“Non manca di Cimitero il Comune di Nardò che si trova provveduto sin dal 1840 ed è posto in apposita località fuori l’abitato, i cadaveri vi si seppelliscono per inumazione ed anche tumulazione essendo permessa la costruzione di tombe particolari. Manca solo il Regolamento […] e quindi vengono adottati gli antichi del 1817” così scriveva il sottoprefetto di Gallipoli il 16 ottobre 1870 alla Prefettura di Lecce[10], alla quale spettava l’obbligo di vigilare sulla salute pubblica[11].
Al 1847 risale, comunque, un tentativo di spostarlo in altra area della città: una relazione, datata 17 gennaio, presenta all’amministrazione comunale il progetto di un nuovo campo santo “da costruirsi ad uno dei lati del Monastero dei P.P. Cappuccini, distante dalla città un terzo di miglio mentre l’attuale Campo Santo è d’un quarto ed alla medesima direzione di Nord Ovest. [ ] Inoltre li P.P. Cappuccini abbraccerebbero quest’occasione per loro peculiare interesse, cederebbero, forse, gratis, parte del di loro giardino pel Campo Santo”[12].
Ma la scelta del luogo è subito contestata dai neretini, come si legge in una missiva, datata 21 dicembre 1847, di un cittadino portavoce, il quale scrive all’Intendente della Provincia di Terra d’Otranto che “l’unica delizia che offre questa Nardò, si è incontrastabilmente il passeggio sulla via che mena al Convento dei PP. Cappuccini, ed al Capoluogo del Distretto, ove la popolazione si accalca, specialmente nei mesi estivi. Ora cercasi avvelenare questo pubblico ed innocente sollazzo ed collocare colà il Campo Santo e rendere così mesto e luttuoso quel luogo che oggi è ridente ed ameno. Né il pubblico diletto è il solo che debbasi tener presente”.[13]
L’antico impianto architettonico del cimitero neretino era tipologicamente definito da uno spazio geometrico regolare in cui due viali perpendicololari dividevano l’aia cimiteriale in quattro parti .
Il muro del recinto interno del camposanto, come disponeva l’art.10 dello stesso Regolamento, fu diviso in sezioni per essere acquistato, “ad un prezzo da determinarsi a favore del Comune, dalle famiglie le quali colà avrebbero potuto erigere monumentini, lapidi con bassorilievi ed epigrafi, cippi commemorativi al fine di conservare le memorie onorifiche dei loro trapassati”[14].
Inizialmente il cimitero era limitato da un “puro e semplice muro di cinta di determinata altezza con apposito ingresso su di un pubblico cammino, con dentro un infelice locale coperto con volta semicilindrica a cui dato il nome di Cappella. Tutto ciò praticato mancava non solo di quella decenza dovuta ad uno stabilimento di simil fatta, ma ancora di un locale per la custodia , e di altro pel provvisorio deposito dei cadaveri fino all’ora della inumazione”, così si legge in una relazione dell’arch. Gregorio Nardò.[15].
Incaricato “d’invigilare alla esecuzione delle regole prescritte sul modo della inumazione”[16] era il custode, di certo già in servizio nell’anno 1842, in quanto in una missiva, datata 8 maggio dello stesso anno, il sindaco di Nardò Gian Vincenzo Dell’Abate chiedeva all’intendente di Terra d’Otranto l’autorizzazione ad anticipare di giorni 15 la somma di denaro dalla Cassa Comunale, quale paga per il custode sig. Giuseppe Gioffreda, il quale si trovava in difficoltà economiche[17].
Alla costruzione del cimitero seguì presto il progetto, datato 10 aprile 1844 e firmato dall’ing. Benedetto Torsello, dei lavori che occorrevano “per la costruzione della nuova strada che dall’abitato di Nardò mena al Campo Santo, uscendo dalla nuova porta sul filo detto Boccaporto”[18].
Il 2 maggio 1844 l’Intendente approvò l’esecuzione dei lavori per la realizzazione della strada per la spesa preventiva di 260 ducati cioè ducati 70 di lavori a farsi e ducati 182 di compenso ai proprietari e di ducati 8 per competenze dovute allo stesso ingegnere.
Nella relazione di verifica, datata 8 aprile 1848, l’ing. delle Acque e Strade Vincenzo Fergola accertò che “l’inumazione nel Pio Stabilimento fu incominciata in febbraio 1840 e che fin ad allora vi erano n. 2834 cadaveri e che vi rimaneva ancora un’aia capace a potervi continuare l’inumazione fino a tutto luglio prossimo”[19].
Ma già in una relazione dell’Ufficiale Sanitario Comunale del 13 marzo 1911 si evidenziava che il cimitero era insufficiente ai bisogni del paese e che necessitava di un ampliamento e anche di un nuovo fabbricato con l’alloggio del custode, la cisterna e i locali richiesti dai Regolamenti, nonché di una nuova cappella per le funzioni religiose. La nuova cappella “in cui i fedeli nel giorno della commemorazione dei morti potranno recitare gli uffizi di pietà”, fu costruita al centro del muro opposto all’ingresso “di croce greca come quella che occupando lieve spazio meglio di qualunque altra figura […] nell’esterno saravvi un prospetto di stile greco”[20].
Il 9 gennaio 1915 l’ing. Gaetano Bernardini di Monteroni presentò il progetto di ampliamento del vecchio cimitero “che così ampliato e fornito di tali opere verrebbe a sostituire in parte l’antico, il quale resterebbe destinato in gran parte a tombe gentilizie ed in parte ad inumazione ordinaria”[21].
La zona di ampliamento fu individuata a lato dell’antico muro di cinta a ovest, interessando i fondi del cav. Giovanni Colosso e Benedetto Trotta. Essa confinava a nord con la via nuova detta Carignano, a est con l’antico cimitero, a sud con la proprietà Colosso e a ovest con la via vecchia vicinale Scapiciara. L’intera zona espropriata copriva una superficie totale di metri quadri 11537,98.
Il progetto di Bernardini, già approvato dalle Autorità Superiori il 6 luglio 1915, fu successivamente modificato dall’Ing. Luigi Tarantino.
Il 4 giugno 1916 fu contratto un mutuo di £. 30.000 con la cassa dei Depositi e Prestiti di Roma per l’esecuzione di nuovi lavori nel Cimitero.
Il Comune di Nardò, con delibera del 23 febbraio 1923, affidava i lavori di costruzione delle fondazioni dei muri di cinta del cimitero alla cooperativa dei muratori fascisti, il cui presidente era Vaglio Ermenegildo, anche al fine di contrastare la disoccupazione, che in quel periodo affliggeva gli operai del posto.
(continua)
[1] F. MILIZIA, Principj di architettura civile, Milano 1847, 289-290.
[2] Le leggi delle XII tavole (duodecim tabularum leges) è un corpo di leggi compilato nel 451-450 a.C. dai decemviri legibus scribundis, contenenti regole di diritto privato e pubblico. Rappresentano una tra le prime codificazioni scritte del diritto romano, se si considerano le più antiche mores e lex regia. Sotto l’aspetto della storia del diritto romano, le Tavole costituiscono l’unica redazione scritta di leggi dell’età repubblicana.
[3] L. BERTOLACCINI, Diritto d’asilo e sepolture nelle città medievali, in “I servizi funerari”, n. 4 , Rimini, ottobre-dicembre 2000.
[5] P. PETITTI, Repertorio amministrativo del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1856, vol. III, 428-429.
[6] A.S.L, Intendenza di Terra d’Otranto, affari generali, busta 35 fascicolo 718.
[7] G. CATALDO, Il ‘Campo Santo’ di Lecce, ……, pag. 153.
[8] V. MATRANGOLA, Il giardino degli addii, Lecce 2005.
[9]Delibera del Consiglio comunale del 5.12.1893. A.S.L., Prefettura, serie II versamento III busta 24 fasc.307. Sul Cimitero di Galatina cfr. Percorso extraurbano alla riscoperta dei più bei monumenti funebri in “Galatina da scoprire… con la guida degli alunni del Liceo Scientifico Statale “A. Vallone” di Galatina,” Galatina 2004, pp. 11-25.
[10] A.S.L., Prefettura, II serie I versamento fascicolo 44 – 45 busta 37.
[11] La prima legge sanitaria del Regno d’Italia è contenuta nel Regolamento per l’esecuzione della Legge sulla sanità pubblica presentato dal Governo Lanza e approvato con Regio Decreto n. 2322 dell’8 giugno 1865, il quale fissava le responsabilità dei Prefetti, Sottoprefetti e Sindaci in merito ai problemi riguardanti la sanità pubblica .
[12] A.S.L., Prefettura, serie II versamento I fascicolo 44 busta 37.
[13] A.S.L., Prefettura, serie II versamento I fascicolo 44 busta 37.
[14] P. PETITTI, Repertorio amministrativo del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1856, vol. III, pp. 428-429.
[15] Archivio Storico Comune di Nardò (ASCN), Progetto per la nuova Cappella ed Ingresso al Camposanto di Nardò.
[16] Art. 11 della Legge 11/03/1817, in P. Petitti, Repertorio…., op. cit, p. 430.
[17] A.S.L., Prefettura II serie I versamento fascicolo 44 busta 35.
[22] A. MANTOVANO, Il Cimitero Monumentale di Lecce, in V. Cazzato – S. Politano, Architettura e Città a Lecce. Edilizia privata e nuovi borghi fra Otto e Novecento, Galatina 1997, 32.
[23] L. BERTOLACCINI, Sepolture individuali e tombe di famiglia. Immagini e simboli della morte, in “I servizi funerari”, n.1, Rimini, gennaio-marzo 2001
[24] M. GABALLO, Araldica civile e religiosa a Nardò, Nardò 1996.
Una promessa mantenuta che rinvigorisce l’orgoglio di essere gravinesi. La visita effettuata nell’agosto 2010 dall’équipe italo-giapponese che curerà lo studio delle “Tebaide del Sud Italia” era solo di ricognizione, ma adesso il progetto entra nel vivo con l’avvio della campagna di indagini.
La delegazione di studiosi nipponici, guidata dal prof. Takaharu Miyashita, docente di storia dell’arte occidentale all’Università di Kanazawa e italiani rappresentati dagli architetti toscani CarloBattini e Massimo Chimenti, è così composta: professori Masaaki Omura, Nozomu Eto, Shigaru Sanada, Shinichi Igarashi; dai tecnici ricercatori dott.sa Mitsumi Miyashita, dott.sa Mutsuyo Miyashita, dott.sa Shigemi Shimomura, dal ricercatore coordinatore dott. Daisuke Kamiguchi e dagli studenti universitari Mariko Oso, Tomohisa Sekiya, Hitomi Kimura, Kota Kawakubo.
Le giornate di studio e catalogazione, iniziate il 5 settembre scorso, verteranno sulle pitture rupestri delle chiese di San Vito Vecchio, San Michele e Padre Eterno, dureranno fino al 16 settembre e si articoleranno in rilievi ad alta definizione tridimensionale, attraverso scanner laser, nel seguente modo:
Al “canto” della paludata e un po’ sterile editoria culturale e storica salentina, Alessano risponde con il “Controcanto” di una agile ma preziosa rivista, fondata e diretta da un gruppo di giovani intellettuali del paese di San Trifone. Della serie “siamo piccoli ma cresceremo”. “Controcanto – Rivista Culturale del Salento”, nasce con alcuni numeri O nel 2004, con limitatissima foliazione ed ancor più esigue risorse finanziarie. Ma l’audacia e le penne di Raimondo Massaro, Patrizia Morciano, Antonio Ippazio Piscopello, Alfredo Massaro, Antonio Marzo e Francesco Primiceri portano la rivista a diventare un piccolo punto di riferimento per appassionati e studiosi di storia alessanese e del Capo di Leuca.
Al primigenio gruppo di lavoro si unisce Sergio Torsello, che firma la rivista come Direttore Responsabile, e dà un apporto notevole, grazie alla sua vastissima conoscenza storica e antropologica, che distilla in brevi ma intensi saggi che appaiono di volta in volta sulle pagine di Controcanto. Anche Antonio Caloro, decano degli studiosi alessanesi, benedice la rivista e la nobilita con il suo contributo. La rivista nei suoi numeri si occupa del culto di San Trifone, protettore di Alessano (Raimondo Massaro), della storia messapica della frazione Montesardo ( ancora Raimondo Massaro), di Placido Boffelli, fra i più noti architetti scultori pugliesi del XVII secolo (Antonio Marzo), dell’antico casale di Provigliano (Alfredo Massaro), di Piero Panesi, pittore alessanese scomparso nel 1990, (A.M.Marzo e Patrizia Morciano), della signoria dei Gonzaga su Alessano nel Cinquecento ( Raimondo Massaro), degli Alessanesi di Anders,vale a dire un contingente di soldati polacchi che, durante la seconda guerra mondiale, fecero stanza ad Alessano, cui Antonio Caloro ha recentemente dedicato un libro ( “Gli Alessanesi di Anders. Un liceo-ginnasio polacco in Alessano. 1945-1946”, Gino Bleve Editore 2006), con un dibattito, sulle pagine di Controcanto, fra Mario Quaranta e lo stesso Caloro.
Scorrendo i vari numeri della rivista, Antonio Piscopello si occupa di molti alessanesi illustri, come Antonio Amoroso, tra i primi maestri delle scuole pubbliche di Alessano nel XIX secolo, del partigiano Negro Arturo Rosario (1917-1948), di Francesco Antonio Duca, ultimo vescovo di Castro del Settecento, delle Società Segrete nella Alessano del XIX secolo, e della “Nobile Accademia di Santa Teodora Imperatrice”.
Sergio Torsello si occupa della letteratura sul tarantismo, con interviste ad Antonio Prete e a Donato Valli, e traccia un profilo biografico di Davide Monaco, sacerdote e letterato alessanese (1863-1916), mentre Daniela Colaci si occupa del Catasto Onciario di Alessano (1742-1743).
Una rivista “in progress”? Certamente, una rivista in movimento che, distribuita in fotocopie in tutta Alessano, accende il dibattito, vuole scuotere le coscienze e ricordare il passato glorioso di una cittadina ricca di storia, arte e cultura, come Alessano.
Eccomi quaggiù tra Porto Selvaggio e la Palude del Capitano, in questa parte del Salento dove da anni il tempo dell’ozio mi trascina prendendomi per il cuore e per la mente.
Ho con me un libricino del 1641, Della Dissimulazione onesta,recuperato su di una bancarella delle occasioni, scritto da Torquato Accetto un filosofo pugliese, (nacque a Trani e visse ad Andria, un po’ più a nord di dove mi trovo) riscoperto da Croce.
In esso si discetta della dissimulazione, materia ben nota ai politici di alto lignaggio e ai loro numerosi emuli di condominio. E si ritiene che: “La dissimulazioneè una industria di non far veder le cose come sono. Si simula quello che non è, si dissimula quello che è.”
E si discetta pure dell’ozio: “Pitagora, sapendo parlare, insegnò di tacere; ed in questo esercizio è maggior fatica, ancorché paia d’esser ozio.”
Lo metto un po’ da parte in attesa che qualcuno taccia sapendo ben parlare e si dedichi così all’ozio sapiente.
Prendo l’altro libricino che con me avevo già portato l’anno passato e che ritrovo in fondo alla borsa del notebook.
Il pane di ieri di Enzo Bianchi, il priore della comunità monastica di Bose.
Prende spunto padre Bianchi dal proverbio che la mamma gli ripeteva: “ el pan ed sèira, l’è bon admàn, il pane di ieri è buono domani” perché “le grosse pagnotte che venivano conservate per più tempo non si prestavano a essere mangiate fresche, ma davano il meglio del loro gusto un paio di giorni dopo essere uscite dal forno.” Ma il proverbio va oltre e allude al fatto che “il nutrimento solido che ci viene dal passato è buono anche per il futuro”
Nascono così le tante storie del tempo che fu quando “il cibo, a ben guardare, oltre che un nutrimento necessario è anche qualcosa di cui si deve aver cura. La tavola è luogo di incontro e di festae la cucina è un mondo in cui si intrecciano natura e cultura. Preparare il ragù può diventare allora un momento di meditazione e la bagna cauda un vero e proprio rito in cui gli ingredienti che lo compongono rappresentano uno scambio di terre, di genti, di culture.”
Ecco, ho deciso: Il pane di ieri sarà quest’anno il breviario che scandirà il tempo della mia sosta salentina.
Mi accolgono un mare cupo e un cielo uggioso.
Ma poi un sole deciso squarcia le nubi e illumina i fiori e i cespugli dei capperi che crescono selvatici lungo i sentieri fino al mercato di Sant’Isidoro dove mi incontro con le cose buone di questa terra e di cui tenterò di farne un diario.
L’okra (Hibiscus esculentus) del Salento leccese richiesta dalle “persone venute da lontano”
Nel Salento leccese, in ognuno dei 100 Comuni da cui è formata la nostra comunità di 800mila persone, vivono persone “venute da lontano” per cercare lavoro in questo territorio. Insieme alla loro cultura e tradizioni si sono portati dietro anche le piante di cui si cibano. Una di queste è l’okra.
Il genere Hibiscus
Al genere Hibiscus, della famiglia delle Malvacee, appartengono circa 200 specie di piante erbacee (annuali o perenni) o arbustive (sempreverdi o a foglia caduca) dalle magnifiche e generose fioriture. A seconda delle specie, queste piante crescono spontaneamente in Asia, Africa, America ed Europa, in zone a clima temperato, subtropicale e tropicale. Nel nostro Paese sono presenti allo stato spontaneo solo Hibiscus palustris, Hibiscus trionum e Hibiscus syriacus, quest’ultimo originario di Cina e India, ma che ormai si è inselvatichito da diverso tempo in alcune regioni italiane del centro-meridione.
L’okra (hibiscus esculentus)
L’ okra, conosciuta anche come gombo ma anche come Abelmoschus esculentus è una pianta tropicale che appartiene alla famiglia delle Malvacee. Proviene dal lontano Sud-Est asiatico ed è coltivata nei Paesi tropicali e subtropicali di tutto il mondo. E’ una pianta che è già coltivata in Italia, soprattutto al sud e quindi che si adatta benissimo alle condizioni climatiche del Salento leccese dove avvia il suo ciclo colturale in primavera, fruttificando
Copertino, comune dalle probabili origini bizantine, adiacente alla più antica ed estesa città di Nardò, presenta numerose caratteristiche interessanti. Ha una storia singolare e intrigante come moltissimi centri della penisola circondata dal mare.
Cultore delle storie ispirate a Bacco, il luogo mi ha colpito perché è quello della nascita della prima Cantina Cooperativa del Salento. 1935: trentasei persone decidono di fondare una Cantina Sociale che, in qualche modo, proteggesse i contadini dal rasoio che i compratori di uve, noti per lo spessore del pelo sullo stomaco, usavano mettere alla gola di chi coltivava. Il rischio di svendere il prodotto o lasciarlo marcire sulla pianta era scongiurato. Ma quanta fatica per tenere insieme una comunità di soci in una terra nella quale la cooperazione non aveva alcuna esperienza.
E invece, negli anni, la Cupertinum s’è rafforzata, ha acquisito un ruolo produttivo e una rilevanza nazionale e internazionale valorizzando le uve prodotte delle terre di Carmiano, Arnesano, Monteroni, Galatina e Lequile oltre che di Copertino. Ora viaggia sotto la guida di Mario Petito, socio dal 1966 e Presidente dal 1985 e la supervisione tecnica dell’enologo Giuseppe Pizzolante Leuzzi, chiamato a sostituire un mostro sacro dell’Enologia, l’irpino di nascita e salentino d’adozione Severino Garofano, ormai in meritata pensione.
La Cupertinum ha storia salda e radici d’antica tradizione, ma come tutto ciò che è forte di una identità consolidata, non teme sperimentazione e
Ore cinque di mattina, fa un caldo bestia, la sera prima ho mangiato qualche diavoleria, assonnato vago per casa verso il frigorifero, bevo acqua gelida. Stupenda sensazione. Poi torno verso il letto.
Mentre passo lui è lì da almeno 60 anni, sempre fermo, immobile. Lo conosco solo da un anno ma già abbiamo familiarità e ci rispettiamo a vicenda. La sonnolenza, la fretta e l’abitudine, in estate, di camminare scalzo fanno la differenza. Camminare a piedi nudi in casa lo ritengo un privilegio, un modo per radicarmi, per essere a contatto con la casa, quasi un gesto d’amore. E poi, diciamolo, con questo caldo settembrino è anche piacevole. Forse gli sono passato accanto senza degnarlo di uno sguardo, forse si sentiva solo, chissà, fatto sta che sbaglio mira e gli rifilo un calcione con il quinto dito del piede sinistro. Lui è lo spigolo del muro. Forse si è messo a ridere, chissà. Io mi sono fermato, ho guardato il mio dito ferito che iniziava, dopo alcuni minuti a dolere. Mi sembra gonfio, accidenti, provo a mettere la scarpa. Lui, il mignolino, è leggermente deviato, la scarpa entra ed ottengo il primo risultato positivo, torna al suo posto. Però pulsa, le scarsissime conoscenze di medicina dicono che debbo mettere ghiaccio sul piede per evitare che gonfi. Bella storia, avercela una borsa del ghiaccio, soprattutto avere del ghiaccio nel freezer. Le uniche cose ghiacciate sono: qualche fettina, cubetti di spinaci e uno di quei cosi che si mettono nella borsa frigo per tenere le cose al fresco, questo si chiama “Siberin”. Mai nome fu più confortante. Rimane un problema, il piede non è una tavola piatta, anzi, è tutto curve. Riesco, facendo un gioco di equilibrismo e di contrappesi, a farlo stare fermo. Nel frattempo sono le sei, devo assolutamente farmi un caffè, quindi tutto lo sforzo fatto fin’ora è vano. Aspetto che il caffè salga ed inondi tutto con il suo aroma. Dopo il caffè una sigaretta si impone, sul balcone però. E reggendomi sul piede destro ovviamente. Poi finalmente rifaccio il gioco di contrappesi e mi fermo. Alle otto, dopo il primo e il secondo TG, mi dico che forse è meglio uscire, prenderò il giornale e farò due passi. Al giornale arrivo, il quinto passo diventa un problema. Torno a casa e telefono al mio medico di fiducia salentino. “Marcellooooooooooo” lui risponde gentile, serio e professionale come sempre, (come fa un vero amico anche con gli amici rompiscatole), gli spiego l’antefatto, mi dice “riposo e fatti una lastra, potrebbe essere rotto”. Uh questi medici, a volte sono catastrofisti. Non mi sono mai rotto nulla in 60 anni, proprio ora e proprio un mignolo? Del piede per giunta. Che figura ci faccio? Uno si rompe il braccio, il femore, l’astragalo. Vuoi mettere la differenza? “Mi sono rotto un braccio cadendo mentre scalavo il Cervino” con “Mi sono rotto il mignolo mentre bevevo acqua in casa”? Dopo qualche ora di impacchi di siberin e una pomata che mi ha dato la farmacista, mi chiama Pierpaolo “Se fosse rotto sentiresti molto dolore” mi dice. Fra un medico molto esperto e un filosofo che non conosce la differenza fra il femore e l’ulna a chi credo? Fossi serio crederei a Marcello, di istinto e per scaramanzia tifo Pierpaolo.
Anche la visita in farmacia, ormai zoppicante, è stata da manuale. Lei è giovane. Il dialogo è andato più o meno così “Desidera?” “Ho dato un calcione ad uno spigolo”. Mi guarda allibita, avessi potuto leggerle nel pensiero probabilmente avrei visto “il caldo fa brutti scherzi, questo è da psichiatria, non da farmacia”. Poi ho proseguito però. Mi ha dato la pomata per impacchi e mi ha detto, “però dovrebbe fare una lastra, le microfratture al mignolo sono perfide”. Esco pensando che al liceo era sicuramente rimandata in filosofia.
Il giorno passa, il gonfiore aumenta in tutto il piede, il giorno dopo vado a fare ste maledette lastre. Per una serie di casi le guardo prima del medico e dico fiero di me “nulla di rotto, tutto sano, non c’è neppure una crepetta, aveva ragione Pierpaolo” arriva il medico, le guarda appena e dice “frattura composta”. Lo guardo “ma dov’è? Non si vede” “Non la vede lei, è qui, mi fa vedere una sciocchezzuola da nulla, mi prende il piede e mi incerotta le ultime due dita. “Me lo stecca?” altro sguardo incredulo “come faccio a steccare il mignolo? Glielo immobilizzo come posso”.
Mia madre sarebbe comunque fiera di me, con tutte le volte che mi diceva “almeno a tavola stai composto”, ora vedrebbe che non tutto è scomposto.
Uscendo chiamo Marcello (senza dirgli nulla del referto di Pierpaolo ovviamente) e lo aggiorno. “Lo sospettavo”. Ho anche chiamato Pierpaolo, però non si manda al diavolo un filosofo, soprattutto se è un amico.
L’assunto contenuto nel titolo prescinde ed è indipendente dal calendario stagionale, afferendo, bensì, a situazioni concrete, reali e cogenti di tutt’altro genere, ancoraggio e peso.
Evitando di schermarsi attraverso mezzi termini e con tisane ideologiche di mera convenienza, bisogna prendere coscienza del dramma sul fronte economico e finanziario collettivo, riconoscere che, laddove non si porrà immediatamente un baluardo di sostegno fatto di sacrifici, volontà e interventi comuni, l’epilogo è in via di compimento e d’esplosione: non dietro l’angolo, bensì al cospetto di tutti, come dire, viepiù brutalmente, che è il caso che vedano finanche i ciechi, sentano i sordi e parlino i muti.
A questo punto, nessuno, a qualsiasi livello, può essere sicuro e tranquillo che, nel proprio divenire esistenziale, si susseguiranno i capitoli con le solite scansioni e scadenze naturali, senza terremoti.
In fondo, c’è motivo di provare nostalgia delle minuscole cicale alate di color bruno giallastro, sebbene stordiscano per via del loro indefesso, incontrollabile e insaziabile frinire, un’esibizione, nella torrida atmosfera del solleone, talmente “sentita” dalle stesse protagoniste, al punto da far loro
Taranto, la città dei due mari: Mar Piccolo e Mar Grande
“ Il Mar Piccolo ricorda da vicino lo stagno di Berre, le cui pittoresche e classiche bellezze sono ammirate da chiunque vada a Marsiglia. Tutto il paesaggio è inondato di luce, quasi bagnato in un’atmosfera d’oro che rende più dolci i contorni e ne fonde armoniosamente i toni. Mi meraviglio che nessun pittore si sia spinto fin quaggiù: in questa prima veduta di Taranto vi è un quadro completo, mirabilmente composto: basta trasportarlo sulla tela come la natura ce lo consegna… Sulla riva Nord di Mar Piccolo, si trova il grazioso villaggio di Citrezza, sede favorita per le gite dei Tarantini, che vi vanno nei giorni di festa a far colazione sull’erba e a ballare sotto i limoni. Un ripiegamento della collina rocciosa disegna qui un anfiteatro di poco meno di un chilometro di lunghezza, dai pendii cosparsi di fichi d’india e piantati ad oliveti, aperto sul mare alla sua estremità meridionale; giardini lussureggianti di verde ne occupano il fondo. Fra questi giardini sgorga dalla terra una copiosa sorgente d’acque limpide come cristallo, la cui conca, circondata da alte canne, ricorda la fonte Ciane, nei pressi di Siracusa. Un profondo ruscello, largo circa tre metri, trascina con rapida corrente le acque della sorgente, che mai si esaurisce, nemmeno nei periodi estivi più critici, e si getta nel golfo. Il percorso è di circa cinquecento metri, abbastanza per creare un’oasi dolce e tranquilla, dove la bellezza delle acque e gli alberi ombrosi e fronzuti ricreano una sensazione di fresco, il cui fascino, in questo clima ardente, non si potrebbe descrivere” (1)
Alla stazione centrale di Milano vi costa un euro fare la pipì, pertanto, se avete una vescica ancora in discrete condizioni ed il biglietto pronto per un espresso notte in partenza per il Sud, cercate di trattenerla fino ai primi sussulti del vostro treno, quando sarebbe ancora vietato disporre dei servizi nonostante sia una grande soddisfazione lasciare una traccia del vostro passaggio lì, dopo i tanti rifiuti in malo modo ricevuti in tutti i bar in stazione in cui vi negano l’uso della toilette pur avendone il diritto per aver acquistato qualcosa.
Dopo aver consumato la mia personale vendetta sull’antipatico personale milanese della stazione centrale ho cercato il mio scompartimento, cuccetta a sei posti, scelta necessaria non dico per riposare ma almeno per distendere le ossa dopo quattro giorni in giro per il Nord e troppe ore passate sui treni. Le cuccette sul notturno Milano-Lecce erano già tutte occupate, pertanto ho ripiegato per il Milano-Crotone con cambio a Foggia, da dove un regionale mi avrebbe condotto infine a Lecce mettendo fine al mio peregrinare.
Quando, appena salito su treno, avevo lasciato lo zaino nello scompartimento vi avevo trovato solo un passeggero, un marcantonio taciturno sui quarant’anni che, nonostante mancasse almeno un quarto d’ora alla partenza, si era già sistemato nella sua cuccetta in alto, dentro alla quale ci entrava a mala pena contorcendosi come un clandestino nascosto nella stiva di un mercantile. Cercava già ad occhi serrati di prender sonno, nonostante un caldo asfissiante e quell’odore stagnante tipico dei treni lerci per terronlandia. Io avevo atteso nel corridoio la partenza e poi mi ero infilato lesto e vendicativo in bagno. Tornato nello scompartimento vi trovo un nuovo viaggiatore, un signore basso e tarchiato sulla sessantina, con un testone tondo e pelato, un baffone poderoso che gli sporge sotto il naso e una terribile camicia fiorata color senape sbottonata sul petto villoso.
“Buonasera” – gli dico.
“Buonasera” – mi risponde.
“Stai qua dentro?” mi chiede. Ha due occhi rotondi, vivi, due guance rosee e un’espressione contenta e simpatica incorniciata in un faccione sudato senza collo.
“Si, sono là sopra”. Il mio posto è quello superiore, di fronte al marcantonio taciturno che già sonnecchia. Salgo sulla scala e mi siedo sul mio lettino,
Torre Inserraglio, Salento. I sanàpi e una ricettina sciuè sciuè
Beh ogni volta che li cerco il lunedì, mercoledì o venerdì tra i cesti dei venditori che si affollano sul lungomare di Sant’Isidoro per offrire i frutti degli orti salentini si ripropone la vexata quaestio: come li chiamate questa specie di broccoli di rapa?
“Sanàpi.”
“No sanapìddi.”
“None, sanapùddhi”, laddove il suffisso –ddhi leggasi più o meno -ggi.
E tutto dipende dalla frazione di Nardò in cui essi si raccolgono.
Mi è sempre piaciuto il loro sapore.
Anche se sono controtempo.
Il periodo migliore per gustarli, infatti, non andrebbe oltre maggio.
A crudo le foglie più tenere ricordano al naso e al palato sentori misti di rafano e rucola.
In padella a seconda dei tempi della cottura (ah, gli antropologi direbbero in senso diacronico) si va dalla torzella al friariello.
Talvolta ho ritrovato il sapore dei miei dimenticati e cari vruoccoli rucoli acerrani.
Insomma mi piacciono.
E mi ha sempre intrigato, al pari delle più rare brassicacce campane, conoscerne l’origine.
Cosa difficilissima a farsi da queste parti soltanto con l’ausilio di net.
Ricordo, però, che il Penzig ritiene i sanàpi la sinapis alba, cioè la senape da cui si ricava la salsetta di senape.
Luigi Sada, grande gastronomo, pugliese invece fa cenno alla Sinapis erucoides, quella selvatica che più si avvicina alla rucola.
Anche la Sinapis nigra, la più piccante, viene evocata.
Qualche chef salentino si limita a dire: “Son broccoletti amarognoli”.
Eh già, vogliamo cavarcela così?
Mi aspetto, invece, che qualche dotto salentino al riguardo mi dia i suoi graditi
Pensare la Ferrovia Sud-Est vuol dire porsi più di un problema di ordine metafisico, equivale a chiedersi quale modalità dell’essere la connota principalmente, significa chiedersi qual è la sua inafferrabile natura, quale il suo essere. Venne concepita in epoca fascista la via della Littorina, oggi come via di trasporto appare anacronistica per le usanze salentine di spostarsi solo con mezzi privati tra i vari paesi. Non è bene, non è sapiente, ma è così. No, non esiste la Ferrovia Sud-Est come esiste la Nord-Milano, non esiste come rete di trasporto, come possibilità effettivamente contemplata da qualcuno per andare in qualche posto in cui ha da essere, fatta eccezione per sporadici casi, per lo più studenti che qua e là ogni tanto usano il trenino per andare a scuola o per marinarla. La modalità di essere della ferrovia non rientra più nel quotidiano ma nell’extra-ordinario. Essa è ormai fuori dall’ordinario, è altrove. Ti accorgi che la Sud-Est esiste, come la maggior parte degli abitanti di Terra d’Otranto, solo per caso, se andando di fretta in paese un passaggio a livello ti sbarra la strada per far passare un
In passato di ogni animale utilizzato per fini commestibili non si buttava via pressoché nulla. Oggi non è raro, andando a deporre la spazzatura nel cassonetto, vedere sbucare da qualche busta un pollo arrosto che a qualche famiglia africana garantirebbe la sopravvivenza alla fame per più giorni…
Appartiene proprio a polli e galline il dettaglio anatomico su cui oggi mi soffermerò: li cicèri, cioè l’intestino. Per trovare una voce non dialettale che somigli alla nostra1 basta mettere in campo il francese gésier=ventriglio, senza scomodare il turco ciğer=fegato2. Non sorprende, comunque, più di tanto il fatto che l’italiano, erede diretto del latino, non abbia conservato, pur con le dovute trasformazioni, gigèrium, che è il padre della voce francese e di cicèri (a Nardò e Gallipoli nel Leccese; cicièru a Francavilla Fontana nel Brindisino; cicièri a Brindisi e, nel Tarantino, a Manduria e Sava; sciuscèri ad Aradeo, S. Cesarea Terme, Castrignano del Capo, Lucugnano, Ruffano, Spongano, Tricase e Vernole, sempre nel Leccese).2
Gigerium compare come ingrediente in due ricette di Apicio (vissuto probabilmente nel I° secolo d. C.; i suoi suggerimenti culinari vennero compilate due secoli dopo da un certo Celio nel De re coquinaria), che riporto integralmente nella mia traduzione: “Pasticcio di sgombri e cervella. Friggi uova sode; lessa e sfibra le cervella; cuoci ventrigli di polli; sminuzza tutto fuorché il pesce; versa la mistura in un tegame; metti in mezzo lo lo sgombro salato dopo averlo cotto. Trita pepe e ligustico; bagna con vino di uva passa o con vino al miele perché sia dolce; metti la salsa pepata in un tegame e falla bollire. A bollitura avanzata agita il tutto con un rametto di ruta e addensalo con amido:”3; “Piselli falsi4 buoni per tutte le occasioni5. Cuoci i piselli. Metti in una pentola cervella o uccelletti o tordi privati delle ossa del petto, lucaniche6, fegatelli, ventrigli di polli, salsa, olio; tagliuzza un mazzetto di porro dalla grossa testa, coriandro verde e metti a cuocere con le cervella. Trita pepe, ligustico e (aggiungi un po’ di) salsa.”7.
Il nostro cicèri era stato oggetto, addirittura, di poesia qualche tempo prima in un frammento di Lucilio (II° secolo a. C.): “…se non ci sono gli intestini di pollo o soprattutto i fegatini…”8 e, più o meno al tempo di Apicio, in Petronio: “Abbiamo avuto tuttavia per primo un maiale incoronato di salsicce e intorno sanguinaccio e ventrigli di pollo ottimamente preparati e pure bietole e pane integrale autentico, che io preferisco a quello bianco, inoltre ti dà forza e quando faccio i miei bisogni non piango.”9
A confermare il significato di gigerium/gizerium soccorre Nonio (IV° secolo d. C.): “GIGERIA: intestini di galline cotti con i fegatini”10, mentre nel latino medioevale la variante zizèrium è attestata dal Du Cange: “ZIZERIUM per gigerium, nome col quale i Latini chiamano gli intestini delle galline e ciò che viene cotto insieme con essi”11.
Chiudo con una nota nostalgica: io e mio cognato Giuseppe Presicce, quando eravamo verdi (lui più di me…), usavamo i cicèri come esca per catturare i capitoni nella Palude del capitano: lasciavamo le lenze legate allo scoglio e la mattina dopo le ritiravamo.
Lascio all’amico e spigola(u)tore Massimo Vaglio, competente pescatore oltre che cuoco raffinato e tanto altro ancora, il compito di confermare quanto appena detto e proporci qualche ricetta che, senza dubbio, sarà più allettante di quelle di Apicio e di Petronio…
* Ma perché non parli come ti ha insegnato tua madre? Prima mi hai portato questi ceci lessi che hai chiamato pois chiches dans le bouillon. Ora mi stai sfottendo con questi gésiers frits. Ma chiamali cicéri fritti!
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1 Come il siciliano gisèri.
2 Dal persiano čiger, il che fa pensare ad una comune radice indoeuropea.
3 Leggo in Atti della società italiana di scienze naturali, La Società, Milano, voll. 26-27, 1883, pag. 117: Potrà essere interessante per alcuno il conoscere l’etimologia di questo strano nome di gigerium dato allo stomaco muscolare degli uccelli. Zizer o Giger era il nome che gli antichi Cartaginesi davano a un piccolo uccello dell’Africa, il cui stomaco era ricercato dagli epuloni romani come un ghiotto boccone. L’appellativo di gigerium fu impiegato poi ad indicare lo stomaco di altri uccelli. Interessantissimo, solo che che l’enorme interesse iniziale per me scema drasticamente quando tali notizie non sono corredate della doverosa citazione delle fonti.
4 De re coquinaria, IV, 21: Patina ex lacertis et cerebellis. Friges ova dura; cerebella elixas et enervas; gigeria pullorum coques; haec omnia divides, praeter piscem; compones in patina praemista; salsum coctum in medio pones. Teres piper, ligusticum; suffundes passum vel mulsum, ut dulcis sit; piperatum mittes in patinam; facies ut ferveat. Cum ferbuerit, ramo rutae agitabis et amylo obligas.
5 Potrebbe alludere al rubiglio (Pisum arvense) usato come foraggio.
6 Traduco così versatilis; altri lo interpretano da voltare di continuo durante la cottura.
7 Salsicce.
8 De re coquinaria, V, 8: Pisa adultera versatilis. Coques pisam. Cerebella, vel avicellas, vel turdos exossatos a pectore, lucanicas, jocinera, gigeria pullorum in caccabum mittis, liquamen, oleum; fasciculum porri capitati, coriandrum viride concides et cum cerebellis coques. Teres piper, ligusticum et liquamen.
9 Satire, VIII, 12: …gizeria ni sunt sive adeo hepatia…
10 Satyricon, 66, 2: Habuimus tamen in primo porcum botulo coronatum et circa savunculum et gizeria oprime facta et certe betam et panem autopyrum de suo sibi, quem ego malo quam candidum et vires facit et cum mea re facio non ploro.
11 De proprietate sermonis, 119, 16: GIGERIA, intestina gallinarum cum hepatiis cocta.
12 Glossarium mediae et infimae Latinitatis, Favre, Niort, 1883, tomo VIII°, pag. 432: ZIZERIUM pro gigerium, quo nomine Latini appellant gallinarum intestina, et quae cum iis coquuntur.
A ridosso delle murge salentine, a 165 metri sul livello del mare, sorge “Borgo Cardigliano”, un unicum nell’ambito del turismo rurale, sia per la sua struttura che per la sua storia.
I primi documenti ufficiali riguardanti il territorio di Cardigliano risalgono alla metà del 1400 ma la scoperta di alcune tombe ipogee lascia supporre che il luogo fosse sede di insediamenti umani già nell’età del bronzo, mentre altri reperti archeologici inducono a ritenere che esso sia stato abitato anche dall’antico e, per molti aspetti, ancora misterioso, popolo dei Messapi.
Nel 1452, comunque, il nome di Cardigliano compare in alcuni documenti aragonesi che riportano il territorio come parte dei possedimenti dei Baroni Balsamo, nobile famiglia di origine siciliana che arricchisce Specchia (paese in cui vive e nel cui agro l’attuale borgo rientra) di varie ed interessanti opere architettoniche ma si disinteressa di Cardigliano che rimane un disorganico insieme di “pajare” (tipiche costruzioni a secco simili ai nuraghi sardi) usate dai contadini nella stagione estiva.
Verso la metà del 1700 tutta la zona risulta appartenere ai Duchi Zunica di Alessano i quali ne mantengono la proprietà fino al primo ventennio del 1900, quando viene acquistata dai Greco, ricca famiglia di commercianti di tessuti originaria di Castrignano dei Greci.
Il borgo, inteso nella sua attuale struttura, nasce negli anni tra il 1920 e il 1930 per volere di Giovanni Greco il quale, forte dell’amicizia con Achille Starace, uno dei gerarchi fascisti più in vista, ottiene la concessione per trasformare una comune distesa di campi di circa 200 ettari in una moderna azienda agricolo-industriale per la lavorazione dei tabacchi levantini e, in segno di riconoscenza, intitola allo stesso Starace e alla di lui moglie, donna Ines, le due ville da poco ultimate.
La costruzione della piccola chiesa, che per la sua particolare facciata ricorda la basilica di San Marco a Venezia, completa la struttura urbana del piccolo borgo, struttura in tutto rispondente ai canoni dell’epoca caratterizzati da un estremo rigore formale unito ad una chiara esigenza di rappresentatività.
Cardigliano, così, inizia a vivere un periodo di intensa attività: c’è il forno, il frantoio, uno spaccio di generi alimentari, un “dopo lavoro”, viene aperta anche una scuola per i figli di quei contadini che qui abitano stabilmente e che, ormai, hanno raggiunto le cento unità mentre nelle ore lavorative si contano anche seicento persone.
Alla morte di Giovanni Greco, avvenuta nel 1949, i figli fanno costruire un cimitero, unica opera mancante, in cui far riposare le spoglie del padre.
Verso la metà degli anni sessanta, per Cardigliano, comincia un lento ma inesorabile processo di emigrazione, anche a causa della fine del monopolio dei tabacchi, che culminerà, nel decennio successivo, in un definitivo abbandono.
Il piccolo borgo diventa, quindi, luogo di ritrovo per gruppi di vandali il cui unico divertimento è quello di distruggere edifici ed attrezzi arrecando gravi e, spesso, irreparabili danni all’intera struttura.
Negli anni ottanta l’Amministrazione Comunale di Specchia acquista l’intera struttura ed i terreni circostanti ed avvia una serie di lavori di recupero. A completare il quadro vi è stato un progetto pilota del Ministero dell’Ambiente in base al quale, grazie ad un sistema eolico-fotovoltaico-solare, tutto il Borgo viene alimentato da fonti di energia pulita nel più completo rispetto della natura e del paesaggio.
Descrizione:
Villaggio agricolo della prima metà del ‘900, dedito alla coltivazione e lavorazione dei tabacchi levantini, Borgo Cardigliano si presenta come singolare hotel-resort nella penisola salentina. Immerso nel verde e nella quiete di un ambiente rurale seducente, il Borgo è stato restaurato nel più assoluto rispetto del paesaggio e dell’ambiente; conserva, infatti, tutte le caratteristiche architettoniche tipiche del Salento, dalle volte a stella e a botte ai pavimenti in basolato e granigliato. L’atmosfera incantata che vive nei profumi e nei colori di questo posto riporta alla mente il vecchio Meridione bucolico. Allo stesso tempo, l’hotel offre ai suoi ospiti tutti i moderni comforts di una struttura all’avanguardia per incontri di lavoro, esclusivi eventi e ricevimenti ed indimenticabili vacanze.
A disposizione degli Ospiti, il ristorante ‘il mandorlo’ dove degustare piatti ispirati alla cucina italiana classica o tipica pugliese, esaltati dalla freschezza e genuinità dei prodotti, un’accogliente sala tv e sala lettura, internet-point con rete wi-fi, sale per incontri di lavoro fino a 250 posti, una piscina semiolimpionica e una per bambini immerse nel verde e costeggiate da un inebriante viale della lavanda; campo da tennis e da calcetto, un incantevole giardino di melograni per momenti di relax, ampi spazi verdi per salutari passeggiate in un ambiente tranquillo e incontaminato, una chiesa dallo stile orientaleggiante che si impone sulla maestosa Piazza delle Fontane, un ampio parcheggio interno.
L’albergo, ricavato negli antichi magazzini del tabacco, riceve i suoi ospiti in un’ampia hall dove il brillante pavimento in battuto veneziano e le luminose vetrate esaltano le caratteristiche volte a stella, finemente affrescate dalle mani esperte di abili artigiani locali. Dalla lobby due ampi corridoi conducono alle camere junior suites e superior, tutte situate al piano terra, arredate in modo elegante con mobili raffinati in stili differenti da camera a camera, sono dotate di tv-color, frigo-bar, aria condizionata, telefono, asciugacapelli e servizi. Le camere standard, da due e quattro posti letto, più semplici e sobrie, ma nel contempo comode e funzionali, hanno l’ingresso dalla piazza delle fontane o dal giardino dei melograni.
Il residence, ottenuto da un attento recupero delle vecchie abitazioni dei coloni, tutte con soffitti a stella, è suddiviso in appartamenti da due e sei posti letto,e alloggi con soppalco da 4 posti letto, tutti dotati di tv-color, telefono, frigo e servizi.
Meeting e congressi
Un incontro d’affari, un prestigioso convegno, un congresso, una convention aziendale, uno special event trovano una cornice funzionale e suggestiva a Borgo Cardigliano. Gli spazi disponibili, quattro sale riunioni tutte con luce naturale, in grado di ospitare fino a 250 persone, permettono grande flessibilità nell’organizzazione e gestione di diversi appuntamenti. Le sale sono perfettamente attrezzate con la tecnologia più innovativa e possono essere allestite secondo le richieste di ogni singolo evento.
Gli ambienti, preziosi e curati, si adattano a qualunque esigenza: i giardini, la Corte delle Tabacchine e la Piazza delle Fontane sono location ideali per l’allestimento di coffee-break e aperitivi d’incontro, sempre raffinati e personalizzati. Il ristorante ‘Convivio’ organizza colazioni di lavoro e cene di gala per rendere gli incontri memorabili.
La cura dell’evento in ogni suo dettaglio è affidata alla professionalità e cortesia dello staff.
Sala dei Melograni
Ricavata dai vecchi magazzini del tabacco, è situata al piano Hall, gode di luce naturale e offre un ambiente elegante e raffinato con vista sulla piazza adiacente da un lato e su un suggestivo giardino di melograni dall’altro. Ideale per incontri e riunioni che richiedano un ambiente caldo ed accogliente, è indicata per presentazioni di libri e mostre di pittura in una cornice unica per eleganza e prestigio.
Sala Greco
Sala plenaria, situata al piano terra, ha un’imponente volta a botte ed è illuminata da ampie finestre. Può ospitare fino a 220 persone disposte a platea, è dotata dei più moderni supporti tecnologici e offre la possibilità di usufruire di un ampio patio esterno che dà sulla piazza principale. L’ingresso laterale si apre su un ampio spazio adibito a welcome-desk e guardaroba.
Sala degli Ulivi
Caratterizzata da alte volte a stella in pietra salentina a vista e dalla pavimentazione in chianche di pietra leccese, la sala gode di luce naturale e si affaccia su una suggestiva corte. Ideale per la presentazione ed esposizione di prodotti e lanci promozionali, è fruibile anche per l’allestimento di rinfreschi e buffet.
Sala delle Mangiatoie
Nasce dalle vecchie stalle, ne conserva le mangiatoie e il pavimento in basolato, usufruisce di un angolo bar funzionale e di un ampio cortile antistante.
In occasione della rituale Festa dell’Amicizia, l’UDC ha pavesato di bandiere e vessilli anche la cittadina di Andrano, amena località del Basso Salento, specialmente lungo la centrale Via Roma.
Tutto normale, nulla da dire circa tale addobbo, salvo che per un particolare, invero non di poco conto. L’asta di plastica di uno dei vessilli bianchi con fondo scudato è appoggiata, e fissata mediante filo metallico, al cartello turistico indicatore dell’antica Chiesa (o Convento) dei Domenicani, risalente al 1615, paletto posto a meno di un metro dal fronte dell’edificio sacro, sulla destra guardando il portale d’ingresso.
Si ha l’impressione che il diavolo, proprio così specie di questi tempi, intinga il dito nell’acqua santa.
A parte i responsabili dello schieramento politico, il Sindaco, i Vigili Urbani e il Parroco della cittadina – non possono non aver visto – non dovrebbero adoperarsi per l’immediata rimozione e una diversa sistemazione della bandiera in discorso?
Inglese di nome e di fatto. Una camicia realizzata in Terra d’Otranto per il principino William
E’ della sartoria di Angelo Inglese di Ginosa (Taranto) la camicia bianca che oggi indosserà il principe William in occasione delle nozze con Kate Middleton.
Il celebre camiciaio, risaputo fornitore di camicie per il primo ministro giapponese e diversi ministri tedeschi, confeziona fin dal 1955 camicie per illustri e facoltosi personaggi italiani, elogiate da prestigiose riviste di moda e particolarmente apprezzate nell’ultimo appuntamento di Pitti uomo.
“Non è venuto lui. – dice Angelo – Tutto nasce grazie a suoi amici intimi che d’estate trascorrono le vacanze in Puglia. Sono miei clienti, il turismo in Puglia è di alto livello, e gli hanno portato un paio di camicie in regalo». Come sarà la camicia? “Ovvio che la camicia sarà classica ma innovativa e
Questo post è la naturale integrazione del precedente sull’Asso del 19 agosto u. s. Nel primo atto del 31 dicembre 1427 ivi citato compare la locuzione in loco nominato de Ponte, la quale, in concomitanza di rivum ricorrente poco dopo, fa pensare all’esistenza di un ponte, a meno che Ponte non contenga un riferimento ad altro, come, per esempio, il nome del proprietario di quel tempo o di tempi addirittura anteriori. Tuttavia, che si tratti effettivamente di un ponte, con funzioni molto simili a quelle che a Venezia hanno le passerelle in caso di acqua alta (con la differenza che queste sono mobili, mentre quello era fisso), sembrerebbe confermarlo quanto scrive Giovanni Bernardino Tafuri1: Tiene ella (la porta di S. Paolo) avanti a se (sic!) un largo, e spazioso atrio con proporzionata strada dirimpetto, che conduce ad un’antica Cappella detta la Madonna del Ponte, così detta per alcuni ponti quivi vicini fatti fabbricare dal pubblico per comodità non men de’ cittadini, che de’ forestieri viandanti per l’acque, che ne’ tempi piovosi quivi soglionsi fermare.
Stando al Tafuri, dunque, i ponti (con funzioni di passerella) sarebbero più di uno. Ho già avuto occasione di parlare della nota scarsa attendibilità storica del Tafuri noto confezionatore, insieme col Pollidori, di documenti falsi; nella fattispecie, però, lo ritengo attendibile perché non vedo quale elemento di esaltazione truffaldina delle memorie patrie possa essere ravvisato nell’attestazione fasulla dell’esistenza di uno o più ponti.
Lascia inizialmente perplessi, piuttosto, il fatto che un ponte risulta raffigurato solo in una delle due tavole2 che corredano lo scritto prima riportato, che di seguito riproduco.
La perplessità iniziale, però, si ridimensiona considerando che nella seconda tavola, che è una vera e propria mappa, tutta l’attenzione è dedicata agli edifici e, d’altra parte, la rappresentazione di un ponte sarebbe stata inusuale oltre che difficile.
Già, mi si potrebbe far osservare, ma egli parla di ponti . Non credo neppure, a tal proposito, che il plurale abbia un valore enfatico perché la presenza di una passerella di tal fatta, totalmente staccata dalle mura e, addirittura, al loro interno sarebbe attestata dalla cartografia del Blaeu datata 1663 (nelle foto sottostanti l’insieme e il dettaglio).
La didascalia al numero 4 che contraddistingue il nostro dettaglio recita, infatti, Altra porta falsa e quella relativa alla lettera z (visibile nel dettaglio sottostante) Porta falsa, donde esce l’acqua che piglia la città per le pilogge (sic!); è chiaramente visibile, questa volta all’esterno della cinta muraria, un ponte.
A poco più di cinquanta anni dalla tavola del libro del Tafuri il ponte appare con una conformazione assolutamente uguale nell’acquerello dI J. L. Desprez datato 1785, di seguito riprodotto.
Riassumendo: il nostro ponte è presente nella prima tavola del Tafuri ma assente in quella del Blaeu. Il plurale ponti usato dal Tafuri potrebbe anche essere inteso come la sommatoria diacronica di un unico ponte (o di un sistema di ponti) più volte ricostruito e il rifacimento e l’ampliamento commissionati dall’Università di Nardò al maestro Nicola Pugliese, di cui è testimonianza un atto del 2 settembre 1594 redatto dal notaio Giovanni Francesco Nociglia3, non sarebbero altro che un anello di una lunga storia iniziata probabilmente molto prima del 1427.4
E oggi? Recentemente è stato approvato un piano che prevede la deviazione del canale dell’Asso5 per scongiurare le esondazioni tutt’altro che rare, proprio come secoli fa, in caso di pioggie abbondanti. Anche se non dovesse esserci nessun errore di progettazione, la normale manutenzione fosse regolarmente condotta e l’Asso non dovesse più procurare paura e danni, rimarrà, purtroppo, attuale il mio gemellaggio (totalmente gratuito, questo, per il contribuente…) con Venezia, dal momento che questa zona del territorio neretino di cui mi sono occupato non è la sola a rischio allagamenti (e solo indirettamente per cause naturali, nel senso che se l’antropizzazione non rispetta le pendenze o ostacola in qualsiasi modo il deflusso delle acque anche un semplice, in altri tempi innocuo, acquazzone può provocare disastri ). Ma, almeno fino a quando le casse comunali manderanno eco di vuoto, non vedremo mai, come a Venezia, installate passerelle mobili.
Meglio così, perché quasi sicuramente la gestione di un simile servizio costerebbe molto più che dotare di uno yacht di medie dimensioni le persone interessate all’attraversamento…
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1 Cito dalla prima edizione parziale (primi sei capitoli del primo libro) di Dell’origine, sito ed antichità della città di Nardò di Gio. Bernardino Tafuri, pubblicata nel tomo XI degli Opuscoli scientifici e filologici dedicati da Angiolo Calogierà (così è scritto nella dedica, Calogerà è la grafia abituale) al benedettino Bernard Pez, tomo uscito a Venezia per i tipi di Cristoforo Zane nel 1735, pag. 41. L’opera integrale uscì in Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Gio. Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò a cura di Michele Tafuri a Napoli per i tipi della Stamperia dell’iride nel 1848.
2 Entrambe con l’indicazione tomo XI pag. 34 e presenti solo nella prima delle due edizioni di cui si è detto nella nota 1.
3 Giovanni Cosi, Il notaio e la pandetta, Congedo, Galatina, 1992 pag. 79.
4 Si riferirebbero proprio al ponte del 1594 (ad onor del vero questa è la data del conferimento dell’appalto; si sa poi che Nicola Pugliese morì prima della fine dei lavori e che i due figli s’impegnarono con un atto redatto dal notaio Fontò il 29 luglio 1595 a completare l’opera del padre) le strutture rinvenute nel corso degli scavi per la fornitura del gas secondo quanto riportato dal quotidiano locale on line Il tacco d’Italia in un articolo del 16 gennaio 2007 (http://www.iltaccoditalia.info/sito/index-a.asp?id=5424) a firma di null (sic!).
5 Non sapremo mai, forse, se il nostro ponte scavalcasse o meno l’Asso (nome che non compare in nessuno dei documenti ricordati), ma è incontrovertibile che il fiume, vicinissimo, alimentato dalle piogge, fosse soggetto ad esondare, tanto che, per ovviare agli allagamenti dovuti alle piogge e ai concomitanti straripamenti del fiume, venne realizzato più che un ponte un sistema di ponti, come chiaramente si evince dal testo dell’atto del 1594 dove, fra l’altro, si legge: “…s’havria da revestire il detto ponte da dove sta oggi per larghezza et correrà per lo ponte de le Rene che hoggi si trova fatto a così il brazzo del primo ponte seno alla Tufara…”.
Una fulgida testimonianza dell’influsso bizantino nella Valle dell’Idro
di Dania Nachira
Nella valle dell’Idro, nella zona meglio nota alla gente del luogo come “Le Padule”, in agro di Uggiano la Chiesa tra la frazione di Casamassella ed Otranto, sorge Monte Sant’Angelo.
Qui la natura sembra proseguire il suo corso indisturbata, da sempre, con una folta macchia mediterranea ben rappresentata da pini, lentischi, cespugli di edera che si inerpicano sul pendio del monte ricoprendolo quasi interamente, se non fosse per il costante e sapiente lavoro di generazioni di contadini del luogo che, negli ultimi secoli, hanno bonificato e terrazzato, strappando lembi di terra alla vegetazione spontanea per far spazio agli ulivi.
In realtà, sia la natura che l’uomo in epoca moderna hanno soltanto nascosto ed in parte contribuito con la loro opera a preservare e a distruggere quel che rimane di un luogo che conserva interessanti testimonianze medievali.
Si riconosce, infatti, una fortificazione sulla sommità del monte con torre a pianta quadrata di dieci metri di lato, con spigoli orientati ai quattro punti cardinali.
Sullo spigolo est si innesta la cortina muraria, di cui sono visibili venti metri circa ben conservati, probabilmente facente parte di un recinto fortificato.
In quel che resta della torre non c’è traccia del varco di ingresso, poiché non si trova il piano di calpestio originario sommerso da diversi centimetri di terra. La muratura, costituita da grossi e piccoli blocchi tenuti insieme da una malta tenacissima, e spessa fino a due metri sui lati esterni, lascia presagire che la torre fosse abbastanza alta e probabilmente aveva piani in tavolato ligneo comunicanti con scale a pioli o scale ricavate nello spessore della muratura stessa.
(Agosto ti fa passare i colpi di testa! perchè il caldo estenuante mette a dura prova chiunque, facendo svanire ogni pensiero, sia esso cattivo o buono).
Acostu ‘ccite l’ omu e marzu nd’ hae la nòmina
(ancora per risaltare la fiacca determinata dal caldo estenuante di agosto. Letteralmente: agosto ammazza l’uomo e marzo ne ha la condanna).
Lugliu e acostu: mugghere mia no tti canoscu
(per tutto l’anno la coppia dorme nello stesso letto, ma in questi due mesi è solita dormire separatamente)
Acostu manda littri cu tti riccugghi li zzìnzuli
(Agosto manda messaggi perchè tu possa metter via le masserizie e gli attrezzi. La pioggia attesa per i primi di settembre, e oggi diremmo la riapertura delle scuole, interrompono le ferie, un tempo trascorse in campagna).
Mara alla pastanaca ca ti acostu no ggh’è nnata,
ma cce dicu nata, armenu siminata!
(triste destino per la carota non ancora spuntata in agosto o perlomeno seminata).
Mara a queddha rapa
ca ti acostu non è siminata
(ancora un consiglio per l’agricoltore, che in agosto avrà dovuto seminare le rape).
Acostu gnòrica l’ua e lu mare
(in agosto il negramaro è ormai maturo e il mare varia il suo colore a causa del cielo che tende ad essere nuvoloso).
Note storiche su torre Squillace, detta Scianuri, sul litorale di Nardò (Lecce)
Sul finire del XVI secolo la città di Nardò è un cantiere aperto e si registra il rifiorire di ogni attività edile pubblica e privata, civile e religiosa. I documenti già attestano la presenza di decine e decine di complessi masserizi, specie nelle vicinanze della foresta dell’Arneo, rinomato luogo di caccia per cervi e cinghiali per ricchi proprietari e cortigiani al servizio della celebre famiglia dei duchi d’Acquaviva d’Aragona, che aveva scelto di dimorare in città.
Ma la tranquillità dei luoghi viene turbata in questo quarto di secolo dalle continue scorrerie di orde di barbari e corsari, che dal mare possono sbarcare in un qualsiasi punto della estesissima costa, in particolar modo nel nostro distretto, costellato da numerosissimi insediamenti produttivi fortificati e non.
In obbedienza a quanto promulgato a Napoli nel 1563 e 1567, ci si preoccupa di difendere il pingue territorio con la fortificazione della costa, ricorrendo a collaudati sistemi di avvistamento come le torri, alcune delle quali anche adatte a fronteggiare sparuti manipoli di pirati assetati e famelici e perciò bisognosi di far provvista di acqua e viveri.
In tutto il regno sorgono le torri, più rade nei tratti di scogliera alta ed impervia, più ravvicinate in tratti di costa bassa, come nel tratto ionico di nostro interesse.
L’incremento maggiore si ha sotto il governo dei vicerè don Pedro da Toledo e don Pedro Afan de Ribera (1559-1571). L’ordine di realizzarle, promulgato dalla Regia Camera di Napoli attraverso il suo presidente Alfonso de Salazar, avviene nel 1563, indirizzato ai regi ingegneri, che devono perciò erigerle su tutta la costa del regno, con il contributo delle universitas che distano meno di 12 miglia dal mare. Alcuni mastri giungono da Napoli nella nostra provincia, altri si formavano in loco, sino a diventare essi stessi i principali referenti della Regia Camera, come sono stati i neritini Vincenzo ed Angelo Spalletta, padre e figlio.
Furono essi i più abili costruttori, realizzando poderose torri a pianta quadrata, che dall’ architetto Faglia, massimo studioso del sistema torriero del Regno, sono classificate come torri “della serie di Nardò” (Fiume, S. Caterina, dell’Alto, Uluzzo, Inserraglio, S. Isidoro, Squillace, Cesarea, Chianca, Lapillo, Colimena).
La peculiarità di questa serie, oltre la pianta, è data dalla scala esterna, spesso aggiunta successivamente, la conformazione troncopiramidale, la presenza di caditoie (una o due per lato ed in corrispondenza delle aperture), la cornice toriforme marcapiano che divide la parete verticale da quella a scarpa, i beccatelli in leggero sbalzo, la cisterna nel piano inferiore e la zona abitabile in quello rialzato, la scala interna ricavata nel notevole spessore murario, la guardiola posta sulla terrazza.
Ad ogni torre era assegnato almeno un caporale e un cavallaro, entrambi stipendiati dall’università locale, ed ognuna di esse disponeva di un armamentario (un documento notarile elenca un mascolo di ferro, uno scopettone, uno tiro di brunzo con le rote ferrate accavallato, con palle settanta di ferro).
La torre allora denominata Scianuri fu iniziata in località San Giorgio, in corrispondenza del porto omonimo, negli ultimi mesi del 1567, ma i lavori restarono fermi per oltre un anno a causa delle difficoltà finanziarie della competente università di Copertino. Risulta completata nel 1570, ad opera del mastro copertinese Pensino Tarantino, avendo richiesto circa ottomila ducati per la sua realizzazione. Sei anni dopo viene dotata di scale mobili e vengono completati gli infissi, registrandosi ulteriori spese sostenute ancora dai copertinesi, che nel frattempo avevano anche provveduto a retribuire i cavallari ad essa deputati.
Nel 1640 viene dotata della scala esterna in pietra, che ancora può vedersi, pur nel suo deplorevole stato.
Tralasciamo ogni altra notizia certa e documentata nel corso dei secoli, ricordando solo che la nostra torre nel 1707 ospita nelle sue prigioni sedici turchi, naufragati lungo la costa, per osservare la rigorosa quarantena prevista per scongiurare la peste.
Da un sopralluogo del 1746 viene attestato che non abbisogna di alcuna manutenzione, per essersi conservata molto bene.
Nel secolo successivo viene data in custodia alle guardie doganali (1820), quindi all’Amministrazione della Guerra e della Marina (1829). Nel 1940 i soldati dell’Esercito vi installano una postazione di artiglieria, rimasta attiva fino all’armistizio del 1949.
La torre, con quella di S. Caterina e del Fiume, è stata vincolata dal Ministero nel 1986, grazie alle pressanti segnalazioni del circolo culturale Nardò Nostra, che se occupò con una mostra itinerante e con una pubblicazione.
Festeggiare sant’Oronzo mangiando in suo onore un galletto di primo canto
PER LA FESTIVITA’ DI SANT’ORONZO I CONTADINI REGALAVANO AL LORO PADRONE UN GALLETTO DI PRIMO CANTO
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
L’uso leccese di festeggiare sant’Oronzo mangiando in suo onore un galletto di primo canto, traeva origini da un’antica leggenda secondo la quale il Santo – consacrato vescovo personalmente dagli apostoli Pietro e Paolo – aveva celebrato la sua elezione sgozzando un gallo ai piedi di san Pietro, che da poco approdato sulla costa di Bevagna dimorava nella macchia d’Arneo. Un gesto altamente simbolico in quanto, rifacendosi al racconto evangelico, cioè alla valenza di rimprovero che il canto di un gallo nel pretorio di Gerusalemme aveva avuto nei confronti di san Pietro, con l’uccisione della bestia il neo Vescovo aveva voluto attestare la vittoria spirituale del Principe degli Apostoli, ormai così forte nella fede da non avere bisogno di svegliarini.
Partendo da tali presupposti ne conseguiva che, ammazzando il pollo in onore di sant’Oronzo, in definitiva si recava tributo a san Pietro, ed era proprio in virtù di questa coordinata di approccio che l’usanza, nata in ambito cittadino, aveva messo radici anche nelle campagne, dove, però, le originarie intenzioni puramente laudative avevano sviluppato significanti a pretto interesse categoriale.
I contadini si facevano sì dovere di allevare uno o più galletti per il 26 di agosto, ma solo per farne un presente al signor padrone, mai nell’intento di regalarlo a un loro pari o, meno che meno, per usufruirne personalmente; e questo anche quando particolari situazioni (buone condizioni economiche,
Ruggiano. Gli amici abitanti di questo piccolo centro mi perdoneranno ma, prima di arrivarci il giorno della festa dedicata a Santa Marina, il 17 luglio, non ne conoscevo l’esistenza. Mai sentito nominare. Leggendo e approfondendo gli aspetti religiosi e le peculiarità delle tradizioni e delle credenze che ruotano intorno a questo centro e al Santuario dedicato alla Santa, devo dire che non la conoscenza è a me colpevolmente imputabile.
Ruggiano rappresenta un importante punto di riferimento nella storia delle nostre tradizioni e, in particolare, in questo percorso di descrizione e sommaria rappresentazione della devozione a Santa Marina.
La santa che secondo la tradizione è la santa bella per eccellenza. La santa che con la sua bellezza, come abbiamo avuto modo di leggere nella nota su Muro Leccese dedicata alla Chiesa di Santa Marina, fece invaghire il governatore del luogo e che per il suo rifiuto a cedere alle sue lusinghe fu martirizzata.
La santa che sfuggendo alle grinfie del diavolo che si era manifestato nelle vesti di un drago squarciandogli la pancia, non solo è ricordata come la protettrice delle partorienti ma è soprattutto celebrata come la santa del bel colorito.
Nel passato, come abbiamo avuto modo di leggere in più occasioni, la religione si è spesso sostituita alla medicina, quando la medicina del tempo non riusciva a trovare una soluzione e soprattutto quanod si riteneva che “non era cosa per medici”. E questo accadeva anche per i casi di ittero. Allora si ricorreva a Santa Marina, la santa bella, la santa del sano colorito.
A Ruggiano è presente un Santuario dedicato al culto di Santa Marina. Qui accorrevano a piedi, in pellegrinaggio, i malati di itterizia (anticamente chiamato “male d’arco” in quanto si riteneva responsabile della malattia l’arcobaleno).
La tradizione voleva che i pellegrini prima di arrivare a Ruggiano, dovevano fermarsi ad orinare nei pressi di qualcosa che avesse la forma di un arco, recitando i seguenti versi:
“Arcu pint’arcu, tie sì bbèddu fattu.
Ci nò ttè saluta, de culùre cu ttramùta.
Ieu sempre te salutài e la culùre no ppèrsi mai”.
Giunti nel piazzale del Santuario poi, si acquistavano le “zigaredde”, i tradizionali nastrini colorati che, una volta strofinati alla statua della Santa, acquisivano il potere di prevenire la temuta malattia.
Ruggiano è un piccolo centro agricolo a circa un chilometro da Salve. Percorrendo la statale che porta da Gallipoli a Santa Maria di Leuca, attraversato il centro di Salve dopo una ripida discesa molto suggestiva per il panorama che si può ammirare, scendendo dalle ultime propagini delle serre salentine, si giunge a questo piccolo centro. Qui a partire da una preesistente chiesa di origine medioevale, nel ‘600 le maestranze locali ne hanno ampliato il sito costruendo il Santuario così come appare adesso. Nel ‘700 venne realizzato il bell’altare che si può ammirare all’interno e rifatta la facciata.
Parcheggiata la macchina all’ingresso del centro, ho seguito il flusso della gente che a piedi si indirizzava verso il Santuario. Oggi come allora all’esterno del Santuario si trovano le “zigaredde”.
Quando sono arrivato, di prima mattina, la chiesa era stracolma per la celebrazione della messa e il flusso di gente e di devoti per il tempo che vi sono stato, è stato sempre consistente e costante a testimoniare come ancora oggi certe tradizioni e devozioni sopravvivono e sono partecipate.
Non ho visto nessuno, come vuole la tradizione, strofinare sulla statua della santa i nastrini colorati, ma tantissimi si avvicinavano con in mano un fazzoletto. Prima lo strofinavano sui piedi della santa e poi se lo passavano sulla faccia, conservandolo poi in tasca o nella borsa.
Vi devo confessare che questa visita è stata bella ma al tempo stesso emozionante per la semplicità del luogo e dei gesti delle persone.
Le mie spigolature questa volta riguardano il porto di Taranto, uno dei luoghi più celebri della città ionica. Ubicato sulla costa settentrionale del golfo è costituito da una rada, denominata mar Grande e da un’insenatura interna più piccola chiamata Mar Piccolo.
Il porto comunica col Mar Piccolo tramite un canale di scarsi fondali, il Ponte di Pietra di Porta Napoli. A sua volta il Mar Piccolo è messo in comunicazione con il Mar Grande a mezzo di un altro canale più a sud, artificiale, il canale navigabile con il ponte girevole in ferro.
Il porto è una struttura che impera al centro della città e nel cuore del Mediterraneo.
In passato era uno degli approdi più ambiti e sicuri del Mediterraneo. Il sito, infatti, dove ebbe origine Tarantos era abitato sin dall’epoca preistorica da genti che ebbero contatti con le popolazioni dell’Egeo (1) e ricoprì un ruolo egemone fino agli inizi dell’età ellenistica.
La scelta di questa confortevole meta favorì lo sviluppo della città in età classica ed ellenistica e le assicurò l’interesse di Roma che la utilizzò per il commercio con il sud del Mediterraneo.
Le fonti letterarie, infatti, attestano che in età classica il porto era un “rifugio” importante per le navi militari. Nella seconda metà del IV secolo a. C., la struttura portuale era operativamente attiva nell’esportazione dei prodotti dell’artigianato, quali vasi, rilievi in pietra tenera, mosaici, che inviava in Sicilia, in Grecia e in molti Paesi del Mediterraneo.
La sua decadenza ebbe inizio nel III secolo, dopo che Taranto cadde sotto il controllo dell’autorità di Roma: gli eventi si susseguirono e ne determinarono la storia e il destino. Le guerre annibaliche, il saccheggio e la distruzione del 209 crearono uno dei momenti più critici per la vita della città e di
Quando ero piccola come tutti i bambini frequentavo le lezioni di catechismo. La signorina delle “cose di Dio” ci raccontava delle storie affascinanti sulla creazione dell’uomo.
Io immaginavo Dio che modellava l’uomo dal fango a sua immagine e somiglianza. La parte della storia che mi interessava di più era quando Dio prendeva questo “pupazzo” e gli soffiava dolcemente sul viso; da quel momento non era più “fango”, perché era diventato un essere vivente, un uomo,.
Ho imparato, diventando più grande, che quel soffio vitale, quell’anima Dio se la riprende e la stessa ritorna a Lui nell’attimo in cui l’uomo esala l’ultimo respiro.
Questo associare l’anima al vento è un’idea che ho ritrovato studiando la letteratura greca. I greci chiamano il vento “anemos”, niente di più appropriato. E’ l’anemos, che rende vive cose inanimate. E’ il vento che muove i panni stesi al sole e li dondola, li sbatte, li attorciglia in una danza senza tempo. E’ il vento che rende vivo il mare e lo spinge contro la sabbia e la scogliera in un alternarsi di abbracci e carezze, ora dolci ora brutali. E’ il vento che modella le dune del deserto e ne scolpisce la forma cambiandola eppur lasciandola sempre uguale. Il vento, l’anemos, l’anima del mondo. E noi uomini, pervasi da questa scintilla divina, tentiamo a volte di ripetere ciò che Lui ha fatto con noi. Cerchiamo di dare la vita ad oggetti inanimati e ci riusciamo… sentendoci per un momento creatori e non solo creature.
Il dialetto è a volte più espressivo dell’italiano e per indicare che un orologio è funzionante dice “sta camina”, quando non funziona “s’è firmatu”. Di tutti gli oggetti che ci circondano l’orologio è sicuramente uno tra i più affascinanti. Ho un ricordo di mio padre che ogni sera prima di andare a letto dava la corda al suo orologio da polso. Gli dava “l’anima” per farlo camminare un giorno intero. Le sensazioni dell’infanzia rimangono per sempre nel cuore e ne risvegliano altre: i rintocchi di una pendola in casa di una vecchia zia, l’orologio a cipolla con lo scatto, proprietà di un distinto signore, i rintocchi dell’orologio della piazza.
Piazza Salandra, il cuore di Nardò. E in una notte d’estate, con le finestre aperte, la mia mente registra lentamente un suono, un altro ed un altro ancora. I rintocchi dell’orologio della piazza scandiscono la mia notte insonne e mi fanno compagnia. Poi , come nella migliore tradizione, l’alba mi consegna nelle braccia di Morfeo. Al risveglio, i rintocchi dell’orologio, così chiari nel silenzio della notte, sono svaniti con la luce coperti dai rumori.
Un’idea si fa strada nella mia mente: parlare con chi per anni ha dato pazientemente vita a quest’orologio che fa parte di me, di noi tutti.
E’ Aldo Spano la persona che voglio incontrare. Il motore dell’orologio, il suo anemos. Preparo l’incontro. Mi annuncio con una telefonata. Prendo un
Ivan non lavora più nei campi di Nardò, è fuggito via. Lui ha 26 anni, è arrivato dal Camerun per studiare ingegneria al Politecnico di Torino, in estate invece scende al sud, in Salento a raccogliere angurie e pomodori per mantenersi gli studi. A Nardò sono decenni che i lavoratori neri fanno i braccianti nei campi. Da due anni, alla buon’ora, il comune, spinto dai sindacati, in primo luogo dalla CGIL, ha messo in piedi un campo di accoglienza fatto di tende blu. Non troppo vicino al paese, in realtà. Passare vicino alla masseria Boncuri mette angoscia, li vedi a decine sciamare per strada verso il supermercato lontano, sotto il sole, quando non sono nei campi oppure muoversi per andarew chissà dove. Al sindaco di Nardò, Marcello Risi non risulta quel che invece è noto ai ragazzi del campo e ai sindacati, Boncuri è sovrappopolato. Almeno 350 persone contro le 200 previste. Inoltre, per quant origuarda la mancanza di acqua calda dice: “ci stiamo lavorando, in settimana la faremo arrivare” solo che siamo in agosto, la stagione sta finendo, è da giugno che le cose stanno così. Prima di andarsene, i negretti, potranno farsi una doccia tiepida, forse. E poi c’è la sciagura più infame, il caporalato che decide chi dovrà lavorare, li porta nei campi e a fine giornata intasca 5 euro per il trasporto e altri per il lavoro procurato. Fatto sta che 12 ore sotto al sole a schiena piegata fruttano ai ragazzi non più di 20 euro. I proprietari delle terre non ne sanno nulla (?), per loro è tutto regolare. I caporali sembrano cosa altra, diversa, lontana dai loro campi pieni di immigrati portati dai caporali. E non sono bianchi i kapò, macchè, sono scelti fra loro, i neri. Criminali ce ne sono di ogni colore. Le scorse settimane però qualcosa è mutato, Ivan si è messo alla testa dei suoi amici ed è diventato leader. Per la prima volta uno sciopero dei braccianti contro i caporali. Le loro t-shirt avevano una scritta: ingaggiami contro il lavoro nero. Hanno fatto un composto casino, sono arrivati dal prefetto di Lecce, sono stati ricevuti, hanno parlato. Anche il PD, dopo lungo sonno provocato dal caldo, ha fatto, tramite la deputata Bellanova, una interrogazione parlamentare. Ivan la sera prima della manifestazione pacifica davanti alla prefettura venne minacciato di morte dai caporali. Oggi, grazie a lui e ai suoi amici, esiste anche in Italia una legge contro il caporalato. Però la notte fra l’11 e il 12 agosto Ivan ha dovuto fuggire. Dal tempo dello sciopero non trovava più lavoro e altre minacce proseguivano.
L’invocazione a due santi per tenere lontana la morte
I CONTADINI INVOCAVANO I DUE SANTI TAUMATURGICI PERCHE’ CONVINTI CHE TENESSERO LONTANA LA MORTE
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
Con l’avanzare della vecchiaia e il proporsi sempre più frequente degli acciacchi propri dell’età, i vecchi entravano nel clima depressivo dell’incombente fine e se da una parte, per non tradire alla loro rassegnazione cristiana, si dicevano pronti a “partire” (“Stàu cu llu pete ssuétu a lla partùta”), dall’altra cercavano di esorcizzarne lo spettro ricorrendo allo scongiuro:
“Sbatte lu palùmmu sbatte l’ale
Santa Cisària nganna lu male;
intra’a lla limma lu palùmmu patésce,
Santa Cisària la ita llunghésce;
cappa tagghiàta no tt’à ddulire
ca Santu Martiniéddhru ti face criscìre”.
(“ Sbatte… il colombo sbatte le ali / Santa Cesarea inganna il male [il padre, ossia il diavolo che lo tenta]; // nel bacile, il colombo soffre: / Santa Cesarea allunga la vita; // mantello tagliato [ridotto a metà] non te ne dolere // ché San Martinello ti fa ricrescere [ridiventare intero]”).
Ricorso al magico-religioso che, come si può notare, risulta imperniato sulle figure protettrici di due santi le cui note agiografiche venivano astutamente convogliate a proprio tornaconto.
Per sfuggire all’imposizione paterna che la voleva sposa di un ricco mercante, Santa Cesarea era ricorsa a uno stratagemma: la mattina delle nozze, prima di calarsi dalla finestra e raggiungere il convento scelto a suo rifugio, aveva versato un po’ d’acqua in un catino, sistemandovi poi dentro un colombo impastoiato. Col suo sbattere d’ali, la bestiola aveva
La dieta mediterranea cura anche il “Mal di Prostata”, parola di andrologo
di Lamberto Coppola*
Il “Mal di Prostata” contrariamente a quanto si può pensare, non è solo una prerogativa della “terza età”, ma affliggere l’uomo nelle varie età della vita.
La prostata è una ghiandola dell’apparato genitale maschile che normalmente ricorda, per dimensioni e forma, una piccola castagna.
È situata alla base della vescica, anteriormente all’ultimo tratto dell’intestino retto, nel punto di incrocio tra le vie urinarie e le vie seminali. Infatti essa è attraversata dall’uretra, che costituisce l’ultima porzione delle vie urinarie, e dai dotti eiaculatori che costituiscono l’ultimo tratto delle vie seminali. La prostata è quindi una ghiandola che per l’uomo riveste un’importanza particolare in quanto permette di mantenere una giusta acidità all’urina,
Da sempre il comportamento umano, e sottolineo umano, è soggetto a cambiamenti, ma il processo di trasformazione (non mi sento di chiamarlo evolutivo) nella fattispecie ha subito negli ultimi decenni un’accelerazione progressiva (anche qui l’aggettivo ha tradito il significato letterale del padre sostantivo) e imbroccato strade che è eufemistico definire pericolose, sicché la morale oggi appare più legata al suo significato etimologico-filosofico (ciò che attiene al comportamento) con la sua progressiva subordinazione ad una graduatoria, sempre più purtroppo condivisa, di quelli che in passato sarebbero stati considerati, senza ombra di dubbio, disvalori.
La sessualità, in particolare, da questo punto di vista ha registrato forse i cambiamenti più macroscopici sotto la spinta, da un lato, della sacrosanta liberazione femminile, dall’altro, della ineluttabile perdita di credibilità del cattolicesimo caparbiamente ancorato ad una visione antiquata del sesso considerato peccato se praticato al di fuori del matrimonio. In altre occasioni su questo ho fatto conoscere il mio pensiero che qui riassumo nell’antico detto il troppo storpia.
Ad ogni modo, il tramonto del maschilismo e della sessuofobia hanno comportato anche l’obsolescenza di alcune voci dialettali, fra cui spuddhitrìna, che definiva una ragazza ribelle e libera, un po’ troppo per i gusti dell’epoca, in cui nell’immaginario maschile la donna seria (a partire, naturalmente dalle rappresentanti familiari del gentil sesso, che sempre lo erano…) doveva essere tutta casa e chiesa, quasi un essere amorfo, privo di passioni e forse anche di sentimenti.
Ogni etimologia illumina diacronicamente e sincronicamente un fenomeno umano e la nostra voce di oggi non si sottrae certamente a questa costante. Spuddhitrìna risulta formata da s– intensiva [dal latino ex=lontano da(lla norma)] e puddhitrìna, diminutivo di puddhìtra, con lo stesso significato ed etimologia dell’italiano puledra, dal latino medioevale pollètra(m)1, a sua volta dal classico pulla=piccola di animale. Il passaggio dal mondo animale a quello umano nel significato metaforico di giovane vivace dev’essere stato immediato nella civiltà contadina, così come il suo slittamento nella sfera sessuale di cui sono testimonianze i significati, sempre metaforici, di cavalcare e di correre la cavallina (altre spie del maschilismo…). Così la nostra spuddhitrìna, dall’originario significato innocente, è slittata a significare giovane donna di costumi piuttosto facili, ancorché non prostituta.
Il processo è antichissimo e la spuddhitrìna non è altro che la versione femminile del centauro e del satiro, figure etimologiche in cui si fondono l’uomo e la bestia. Il centauro (nella foto in basso una statua ritrovata nel 1736 nel giardino di Villa Adriana a Tivoli, ora custodita a Roma nei Musei Capitolini, copia di un originale ellenistico attribuito a Aristeas e Papias), si sa, è metà uomo e metà cavallo, una creatura rozza, selvaggia e a volte brutale; il capostipite della razza era nato dall’amore sacrilego tra Issione, re del Lapiti, e da Nefele, una sosia della dea Era (altro nome di Giunone, la moglie di Giove, che, almeno in questo caso non può essere considerato, per restare in tema, un cornuto).
Il satiro2 (la sua iconografia si confonde con quella del sileno; nella foto in basso un satiro con una baccante, affresco pompeiano custodito al Museo Archeologico di Napoli) era un uomo con orecchie, coda e talvolta zoccoli di cavallo. Le sue caratteristiche più salienti erano l’aggressività ed una sessualità spinta che amava esercitare inseguendo nei boschi le ninfe, non certo con l’intenzione di spiegare loro il teorema di Pitagora… Non a caso satiro e ninfa hanno dato vita a satirismo e a ninfomania. Tra l’altro amava esercitare la sua attività preferita in branco e quest’ultima parola non può non evocare quella puntualmente utilizzata dalle cronache nel commentare il delitto forse più odioso (e poi ci autoproclamiamo superiori alle cosiddette bestie, che non hanno mai commesso reati di tal fatta..): lo stupro.
Il maschilismo imperante, che non concepiva la donna come protagonista nemmeno nel male, nella fattispecie ha dovuto arrendersi all’arte e all’araldica che hanno introdotto, sia pur tardivamente, la figura della centauressa o centaurella: nella foto in basso la fontana di epoca barocca di piazza Duomo a Taormina, lo stemma della stessa città e quello di Stare Drogi (Bielorussia) .
Oggi la spuddhitrìna potrebbe essere rappresentata come nell’immagine che ho tratto da http://freeforumzone.leonardo.it/lofi/Barzellette-o-/D4188180-8.html)
Così la par condicio è rispettata e nessuno mi accusi di aver chiuso con un tuffo nel maschilismo e nella celebrazione della donna oggetto: comunque sia, al di là dei legittimi gusti di ognuno, vuoi mettere questa centauressa finale col centauro iniziale? Totò avrebbe detto: “Ma mi faccia il piacere!”.
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1 La voce è riportata da tutti i dizionari come ricostruita; in realtà essa è ampiamente attestata nel latino medioevale (Du cange, Glossarium mediae et infimae latinitatis, Favre, Niort, 1883, tomo VI, pag. 393).
2 Dal latino sàtyrus, a sua volta dal greco sàtyros. Nonostante un certo aggancio semantico, satira (composizione moraleggiante) ha un’altra etimologia: dal latino sàtura(m)=componimento misto di prosa e versi, da satura=piena, ricca.
Giudice Giorgio, regina delle masserie del neritino
Il territorio del comune di Nardò è straordinariamente ricco di strutture masserizie, tra le più variegate per tipologia ed estensione rispetto ad altri territori a vocazione contadina del Salento e della Puglia.
Il territorio del secondo comune della provincia si affaccia sul mare, nel tratto di costa ionica di circa 22 Km. compreso tra Torre del Fiume e Punta Prosciutto, estendendosi per circa 2000 ha. anche nell’ interno, arrivando ad ovest sino al confine provinciale Lecce-Taranto.
Il suolo è pianeggiante con qualche ondulazione che, nella parte Sud, si eleva in collinette che fanno parte del sistema orografico delle Serre Salentine, propaggine delle Murge, abbassandosi con varia pendenza verso il mare.
Il cuore del territorio neritino è rappresentato dall’Arneo, che fino a qualche decennio addietro ha rappresentato la zona più importante dal punto di vista economico-agricolo, caratterizzata dal latifondo e dal bracciantato, il quale, nel primo e secondo dopoguerra, ha occupato buona parte di quelle fertili terre, con scontri sociali che hanno scritto le pagine più accorate della storia contemporanea del Salento.
L’ amenità dei luoghi e la fertilità dei terreni, un tempo occupati da foresta e macchia mediterranea, ha spinto i diversi proprietari a realizzarvi, nel corso dei secoli, insediamenti produttivi come le masserie, spesso fortificate per frequenza delle incursioni piratesche dalla costa.
Molte masserie dell’Arneo si impongono per la bellezza architettonica, la varietà delle tipologie, l’imponenza delle dimensioni, l’alto livello degli elementi fortificativi, il raccordo con le vie di comunicazione e la compiutezza delle espressioni collegate all’attività produttiva agricola e pastorale.
Fra tutte ritengo che una in particolare meriti il titolo di regina, la masseria Giudice Giorgio, una delle masserie strategicamente più importanti, sulla strada statale 164, Nardò-Avetrana (da secoli denominata strada tarantina, a circa 10 km dal centro abitato di Nardò.
Caratterizzata dall’imponente torre cinquecentesca a pianta quadrata, a tre piani, dei quali l’inferiore, cui si accede attraverso un artistico portale bugnato, leggermente scarpato, fu adibito un tempo al deposito e alla lavorazione delle olive. È collegata a vista con le masserie Bovilli e Roto Galeta, che tuttavia non possono competere con essa in altezza e particolarità architettoniche.
Il pianterreno, voltato a botte ed assai più antico rispetto al resto, era collegato al primo piano da una scala a pioli che portava alla scala in muratura impostata a circa
“Ditemi voi se non è troppo magro!” esclamò a gran voce Cristina nel corridoio dell’ospedale, vedendo comparire il nipote durante l’orario delle visite.
Il brusio di approvazione delle compagne spinse l’anziana signora ad emozionarsi per dimostrare ancor meglio la sua disperazione.
Gianluca sorrise schernendosi davanti a quel gruppo attempato di sconosciute: “Che stupido che son stato a chiedere dov’era la tua stanza, nonnina! Bastava solo affacciarsi per riconoscerla dalla tua solita lagna. Scommetto che ti lamenti che son troppo magro anche quando non mi vedi!
Intanto, buonasera a voi, signore, e scusate questa piccola divagazione familiare!”
Il coro di sorrisi sdentati esibito in risposta, fece capire al ragazzo che lì dentro l’età media non superava la speranza d’incontrare una bella ragazza in degenza ed era di poco inferiore ai settant’anni.
“Non state a sentire mia nonna! Se fosse per lei dovrei mangiare primo, secondo e terzo anche a merenda!”
“La nonna ha ragione, invece.” parteggiarono per l’amica le presenti “Guarda che bel giovanotto alto che sei, ma senza carne, però!”
“Sono nel reparto di Medicina Generale o al banco macelleria della COOP?” rise Gianluca divertito.
“Che simpatico!” pensò ad alta voce una delle vecchiette “Simpatico, ma sciupato!” si corresse poi subito dopo temendo di essere linciata dalle altre.
“E’ naturale!” esordì allora nonna Cristina gonfia di tutto il suo diritto di parentela “Cosa volete che ne venga fuori da un signorino che si alza a mezzogiorno,…”
Boato di disappunto.
“…beve cinque bicchieri d’acqua e ci annega dentro fette di mela con flessioni?”
“Dai nonna, smettila!” cercò di opporsi il nipote in visibile imbarazzo.
“Ho appena cominciato invece!” lo zittì risentita la donna prima di continuare il sermone: “Sapete poi che fa il nostro giovin signore? Si veste, legge i giornali
Appuntamento in Piazza Dante a Vaste il 18 agosto 2011 con la tradizionale “Fiera delle Trozzelle”, organizzata dalla Pro Loco di Vaste, con il patrocinio e la collaborazione dell’Amministrazione Comunale di Poggiardo e dell’agenzia di servizi ITALIAAMBULANTE di Poggiardo.
Obiettivo della manifestazione è di valorizzare il simbolo dell’antica civiltà messapica, la trozzella, recipiente dalla forma di un anfora dal corpo panciuto che deve il suo nome alle quattro coppie di rotelle, le trozze, disposte alle estremità dei manici, usato dalle popolazioni messapiche per il trasporto dell’acqua, simbolo dell’antica civiltà salentina.
La manifestazione inizierà alle ore 21:00 e prevede una mostra-mercato di antiquariato e artigianato tipico locale, con l’ormai tradizionale dimostrazione al tornio della lavorazione della terracotta. Non mancherà, naturalmente, uno
La festività del Ferragosto: una duplice identità religiosa e civile
La festività del Ferragosto, il 15 Agosto, è una ricorrenza tutta italiana, sconosciuta in tutti i paesi europei, ad eccezione della Francia. Nel calendario, è una festa che ha una duplice identità sia religiosa che civile, in quanto da un parte la sacralità cattolica celebra l’ Assunzione di Maria Vergine (madre di Gesù) in cielo e dall’altra la tradizione popolare festeggia questo giorno all’insegna della scampagnata, del divertimento, delle gite fuori città, di momenti trascorsi serenamente e allegramente al mare, in montagna o in collina. Caratteristici e tipici, visto anche le alte temperature stagionali, i rinfrescanti e suggestivi bagni in acque marine e fluviali a mezzanotte.
La celebrazione del Ferragosto (il termine deriva dalla locuzione latina feriae Augusti, riposo di Augusto) fu istituita dall’imperatore Ottaviano Augusto nel 18 a. C. e si inseriva nel calendario di altri antichissimi eventi ricorrenti nello stesso mese, come i Consualia, teso a celebrare i raccolti e il termine dei principali lavori agricoli. Il Ferragosto in passato nel mondo contadino aveva lo scopo di concedere un adeguato e meritato periodo di riposo, detto anche Augustali, dopo le grandi fatiche profuse durante le settimane precedenti.
Secondo un antico modello religioso, che trova la sua origine molto prima che nel 18 a. C. Augusto istituisse alle calende dell’ottavo mese le Feriae Augustales, era il tempo anche del ringraziamento. In tale circostanza era radicata l’usanza da parte dei lavoratori di porgere gli auguri ai padroni, che ricambiavano tale gentilezza con una mancia. Nel corso dei festeggiamenti, in tutto l’impero si organizzavano corse di cavalli e gli asini e i muli, usati come animali da lavoro, venivano dispensati dalle dure fatiche, restavano a riposare e venivano ornati con ghirlande e fiori. Tali tradizioni vengono rimembrate ancora oggi durante il Palio dell’Assunta che si svolge a Siena il 16 agosto. Sempre in quel periodo hanno origine le processioni con i carri di donativi ( in latini donativao liberalitates: ricompensa eccezionale), i covoni (un fascio di steli di grano falciati alla base, con in sommità le spighe), le conche ( tradizionale contenitore domestico di liquidi, realizzato in rame con due manici ad ansa, usato soprattutto dalle donne nel passato per portare a casa l’acqua dalla fontana tenendolo in equilibrio sula testa) offerti ai santuari fuori dell’abitato, dove i credenti cattolici hanno successivamente sostituito i primitivi altari con quelli consacrati all’Assunta e a San Rocco.
Da queste cerimonie derivano anche quei riti notturni, quali i fuochi, i canti, i balli eseguiti davanti ai santuari e ritmati dal suono di un antico tamburo di capra, caratteristico della nostra Magna Grecia.
Il 15 agosto non è solo un giorno di festa popolare ma, come abbiamo accennato, è anche una ricorrenza di grande valore sacrale per i cristiani, cattolici ed ortodossi: l’Assunzione di Maria in Cielo.
L’Assunzione di Maria in Cielo è un dogma cattolico (proclamato da papa Pio XII nella Costituzione apostolica “Munificentissimus Deus” (“Dio generosissimo”) il 1 novembre dell’anno santo 1950) nel quale viene affermato che Maria, “terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo”. Nel Cristianesimo il trapasso di Maria, madre di Gesù viene chiamato dormizione (in latino dormitio), in quanto, secondo alcuni teologi, Maria non sarebbe veramente morta, ma sarebbe soltanto caduta in un sonno profondo, dopodiché sarebbe stata assunta in cielo.
La Dormizione e l’ Assunzione non sono la stessa cosa. Dal punto di vista temporale le due ricorrenze liturgiche coincidono. La Dormizione di Maria si festeggia il 15 agosto nella Chiesa ortodossa e tradizionalmente nella Chiesa cattolica di rito bizantino, mentre l’Assunzione si celebra nello stesso giorno nel calendario liturgico cattolico di rito romano. La Chiesa cattolica e quella ortodossa affermano la dottrina dell’Assunzione.
Le prime indicazioni sull’Assunzione di Maria – Sant’Efrem il Siro († 373); Timoteo di Gerusalemme (sec. IV); Sant’Epifanio († 403) – risalgono al periodo compreso tra la fine del secolo IV e la fine del V. Fonti antiche ci riportano la leggenda del ramo di palma.
Specifici riferimenti a questi avvenimenti li troviamo in alcuni testi apocrifi:
La Dormizione della Santa Madre di Dio, attribuita a San Giovanni il Teologo, ovvero l’Evangelista (sec. VI) e Il Transito della Beata Maria Vergine, attribuito a Giuseppe d’Arimatea e posteriore al primo, narra della Madonna che aveva chiesto al Figlio di avvertirla della morte tre giorni prima. E così accadde. Il secondo anno dopo l’Ascensione, Maria stava pregando, quando le apparve l’angelo del Signore. Teneva in mano un ramo di palma e le disse: “Fra tre giorni sarà la tua assunzione. “La Madonna convocò al capezzale Giuseppe d’Arimatea e altri discepoli del Signore e annunciò quanto aveva udito. In quel momento Satana incitò gli abitanti di Gerusalemme a prendere le armi, dirigersi contro gli apostoli, ucciderli e impadronirsi del corpo della Vergine per bruciarlo.
Ma una cecità improvvisa impedì loro di attuare il piano. Gli apostoli fuggirono con il corpo della Madonna, trasportandolo fino alla valle di Giosafat, dove lo deposero in un sepolcro. In quell’istante – narra il Transito della Beata Maria Vergine – li avvolse una luce dal cielo e, mentre cadevano a terra, il santo corpo fu assunto in cielo dagli angeli.
Un augurio per questa festività è rivolto a tutti coloro che vorranno vivere, nel rispetto della libertà di pensiero e di fede, questo giorno con spirito religioso e animo popolare.
A pochi giorni dalla festa di San Rocco ripesco nel mio archivio fotografico e in qualche partizione sperduta della mia memoria, le foto e i dialoghi di un caldo pomeriggio di agosto della scorsa estate, passato a Torrepaduli, piccola frazione di Ruffano, dove è sito il Santuario dedicato a San Rocco.
Questo piccolo paesino è ormai diventato un centro di notevole attrazione non solo per la devozione verso San Rocco, che da sempre ha fatto muovere devoti da tutta la provincia per rendere visita al santo, ma soprattutto in questi ultimi anni, per la ormai famosa danza delle spade.
Un rito etnico, sociale, musicale e con il tempo sempre più culturale che si svolge nel piazzale antistante il santuario nella notte tra il 15 e il 16 agosto. Un evento che richiama migliaia e migliaia di visitatori, attirati da questa sorta di duelli che si svolgono al suon ritmato dei tamburelli.
La danza delle spade ha origini antichissime ed è presente in molti paesi d’Europa; non solo nella latina Spagna o nei vicini Balcani, ma addirittura, riti di questo tipo, si possono rintracciare in Scozia. Ma ci si può spingere anche oltre arrivando in alcuni paesi dell’Africa del nord e via via più lontano.
Non è un semplice ballo. Non è un musical casareccio in cui si mima un duello con i coltelli e, per certi versi, anche il semplice termine “duello” si può considerare non esaustivo. Secondo alcuni studiosi nasce come rito di iniziazione, di passaggio; c’è chi amante dell’esoterismo ha ritenuto di rintracciare nella forma circolare delle ronde alcuni collegamenti e rimandi con riti ancestrali. Se ne raccontano tante e come spesso accade per tutto ciò che ha antiche origini popolari, la documentazione storica spesso non è presente e la tradizione orale può spiegare alcune cose ma fino ad un certo punto e sino ad un certo tempo.
Le versioni a noi più vicine parlano di duelli che servivano per affermare la supremazia di una famiglia o di una singola persona sul gruppo. Rito, o duello che fosse, si svolgeva con armi vere e non semplicemente mimando l’utilizzo del coltello. Le lame erano concrete e affilate.
Ma su questi aspetti consentitemi di fare un passo indietro e di lasciar spazio al contributo sempre ben accetto degli studiosi della materia.
Veniamo invece al pomeriggio passato a Torrepaduli, in occasione di un workshop sulla danza delle spade.
A prescindere dalle origini, la danza delle spade si svolge secondo regole e codici precisi. Nulla di scritto, non c’è un bando di gara, non c’è un allegato tecnico da leggere prima della danza ma ci sono regole d’agire e soprattutto comportamentali che vengono tramandate di generazione in generazione e che nessuno si permette di non osservare, pena l’esclusione dalla ronda e forse anche l’essere “banditi” dal luogo.
Le regole non vengono imparate e trasmesse per semplice osservazione visiva. La modalità è molto è più complessa. La trasmissione avviene nell’ambito della famiglia. E’ l’anziano che inizia i giovani alla danza e sono quest’ultimi che la coltivano e la tramanderanno a loro volta a chi verrà dopo. In ogni passaggio generazionale ognuno ci mette anche un po’ del suo stile personale, per cui non è esattamente una mera riproposizione di regole apprese, ma una interpretazione in chiave personale pur nell’ambito di alcune regole immutabili.
Ogni famiglia ha il suo stile. Ogni stile è frutto di una serie di fattori non ultimo anche il lavoro che il “duellante” svolge. Chi fa il barbiere sarà portato a compiere dei gesti come se avesse in mano un rasoio, movimenti più stretti e dall’alto verso il basso; chi miete il grano farà dei gesti più ampi e circolari.
Chi può duellare? Non è per tutti. Consentitemi questa sorta di risposta semplicistica.
I “duellanti” sono circondati da un cerchio, una ronda, di altri “duellanti” che ne prenderanno il posto man mano che la danza procede e gli sconfitti dovranno lasciare il centro del cerchio. Nelle ronde in cui sono presenti gli anziani, l’accesso è selezionato e vi può accedere solo chi è conosciuto e ha dato prova di conoscere le regole e di non essere un attaccabrighe.
Proviamo a dare una definizione di attaccabrighe.
Primo esempio concreto raccontato quel pomeriggio. Un giovane un po’ su di giri aveva cercato di entrare nella ronda senza permesso. Dopo l’ennesimo tentativo a fronte di altrettanti rifiuti, è stato con fermezza accompagnato a debita distanza come persona non gradita. Non si è più ripresentata.
Secondo esempio molto più grave. Quando si duella l’obiettivo è colpire al tronco l’avversario, non bisogna mai puntare alla faccia in quanto la cosa è considerata come un gravissimo gesto di offesa. Capita che succede e quando capita la persona viene “invitata” a non farsi più vedere da quelle parti, soprattutto se le intenzioni provocatorie erano per così dire dolose e non colpose.
Il duello inizia con la cosi detta apertura, cioè mimando il gesto con cui si sfila il coltello dal fodero. I gesti successivi mirano a far assumere delle posizioni attendiste, durante le quali i duellanti si osservano e cercano di capire i punti deboli dell’avversario, o posizioni di invito a combattere, a colpire facendo visibilmente vedere il punto del corpo verso il quale si chiede di essere colpiti.
Il braccio che entra tra le braccia dell’avversario, non parato, puntando al corpo, è il colpo che viene portato a buon fine.
Come scrivevo ad inizio della nota, la Notte di San Rocco è diventata un evento che richiama un’enormità di persone. Molti turisti e ormai anche molte telecamere. Questa sorta di spettacolarizzazione di antichi riti sta causando qualche malessere in particolare tra i più anziani. Per loro la danza delle spade è un rito, l’essere lì nel piazzale è una forma di devozione verso il santo. Non è un divertimento, non è un gruppo folk, è una cosa seria.
Le telecamere e l’umanità molto varia e molto eventuale che accompagna quelle ore delle notte, qualche fastidio ed imbarazzo lo creano.
Quest’anno non so se andrò la notte in attesa delle ronde. E’ da un po’ di anni che l’eccessiva confusione (anch’io incomincio a diventare un po’ anziano) mi porta a non essere presente. Se Dio vorrà ci sarò la mattina presto del 16 per ascoltare messa e, al termine, se come ogni anno sono già pronti, fare colazione mangiando un bel panino con i pezzetti.
Perché pensare al Ferragosto solamente come culmine del rito modaiolo delle vacanze estive, con oceaniche migrazioni verso spiagge e monti e interminabili rosari di sagre eno – gastronomiche e feste varie, stile vip e non?
La ricorrenza, a parere di chi scrive, merita considerazione anche sotto l’aspetto di sintesi, di celebrazione intensa e di sublimazione dei sapori, dei gusti e dei piaceri, che la stagione più attesa dell’anno reca con sé.
Fra le godurie per la soddisfazione del palato, occupano certamente un posto d’eccellenza i fichi, senza, beninteso, tralasciare, in parallelo, gli omonimi frutti di genere femminile.
Fra le due apparentemente identiche accezioni di specialità, mette ovviamente conto di fare non pochi distinguo, fra cui uno con sfaccettature del tutto particolari.
I primi, ossia i fichi, risultano, ormai da molti anni, portatori di un handicap non indifferente: ancora prima di raggiungere lo stadio di maturazione, diventano, purtroppo in notevole quantità, verminosi, marciscono dentro e cadono in un poltiglioso guazzetto ai piedi dell’albero.
Provvidenzialmente, una iattura analoga, non si verifica, nemmeno un po’, per le “gemelle” dell’altro genere, le quali tengono e campeggiano bene in auge, proprio specialmente d’estate.
Ritornando alla precipitazione dei fichi, sembra che la relativa causa vada ricercata nell’abbandono da parte dell’uomo – contadini, agricoltori o semplicemente proprietari di detti alberi da frutta – di una vecchia, buona abitudine, consistente nel proteggere e cautelare l’ingrossamento e la maturazione dei succulenti frutti, mediante il ricorso ad un sistema naturale, quello dei “brufichi”, in corretto termine agricolo – tecnico, caprifichi.
Nelle campagne, crescevano e, per la verità, tuttora crescono esemplari di piante di fichi selvatici (maschi?), i cui frutti, in dialetto “scattareddri” o “brufichi” , non arrivano mai a piena maturazione, registrando appena un
Nella calda notte di Ferragosto a Torrepaduli di Ruffano si tengono i festeggiamenti in onore di San Rocco, che conservano intatto il fascino della tradizione. Dentro il santuario i devoti di San Rocco gli chiedono grazia o lo ringraziano per il miracolo ricevuto.
Nella piccola cappella continuamente si recitano lodi e preghiere, si bacia ardentemente e si accarezza il simulacro ligneo del Santo che lo rappresenta come un giovane pellegrino, con ai suoi piedi un piccolo cane che gli lecca la piaga sulla gamba, provocata dalla peste. È questo forse l’aspetto più spontaneo e squisitamente devozionale che non si è mai perso, che continua di anno in anno come succede da secoli. Fuori dalla cappella, invece, si svolge l’aspetto più magico e spettacolare: sotto il ritmo incalzate dei tamburelli si svolge la nota “danza dei coltelli”. Si comincia alle 23, dopo che la statua del Santo è rientrata nella sua chiesa, per durare fino alle 5 del mattino seguente, quando al primo suono delle campane si annuncia la prima Messa: così l’aspetto religioso prende nuovamente risalto rispetto a quello profano.
La “danza dei coltelli” consisteva appunto in un duello di coltelli, danzato a ritmo della pizzica salentina. La sfida avveniva fra le comunità Rom per la contesa del territorio e delle mercanzie, aspetto quindi che in origine non apparteneva propriamente alla popolazione torrese e ruffanese. Ora questa tipica manifestazione è simulata come svago.
Tra i più interessanti e storici documentari sulla “danza dei coltelli” troviamo il cortometraggio “Osso Sottosso Sopraosso. Storie di Santi e di coltelli la danza scherma a Torrepaduli” girato nel 1983 e realizzato da Annabella Miscuglio (Lecce 1939 – Roma 2003) e Luigi Chiariatti, con la regia di Annabella Miscuglio e le riprese di Nicolai Ciannamea.
Nel 2004, su iniziativa dell’Associazione Ernesto de Martino – Salento e il Comune di Ruffano, questo filmato è stato pubblicato per le edizioni di Kurumuny (Numero 11 – Quaderni dell’Associazione E. de Martino – Salento), allegato insieme ad un volume, dove si ricorda la figura della compianta Miscuglio (Per informazioni: www.kurumuny.it).
La denominazione “Porticelli” identifica il tratto mediano della fascia costiera di Marittima, nel Salento, fra Castro e Marina d’Andrano, delimitato a nord dalle Marine dell’Aia e sul lato opposto dalla zona “Serriti”.
L’appellativo “Porticelli” trae storicamente origine dalla presenza di minuscoli seni o rientranze lungo le brune rocce bagnate dal mare, con contatti carezzevoli in situazioni di “biancata” (calmo), altrimenti con l’infrangersi lieve o forte delle onde.
Anche mio padre possedeva, giustappunto nel comprensorio di “Porticelli”, un fondo agricolo di terra rossa e rocce, con strati degradanti fino alla scogliera demaniale, immobile acquistato grazie ai primi risparmi del lavoro integrati dalla paga di soldato volontario nella guerra in Africa Orientale.
Successivamente, nell’ormai lontano 1949, egli prese la decisione di farvi costruire, ad opera di un capomastro del paese, Vitale T., una casetta nelle immediate vicinanze del mare, quasi affacciata sull’incantevole seno “Acquaviva”, destinata a dimora di soggiorno, durante l’estate, dell’intero nucleo familiare: marito, moglie e cinque figli, più un sesto in arrivo.
Beninteso, nulla di particolare, solamente un vano di medie dimensioni, con annesso cucinino cui si accedeva dall’esterno, investimento pensato e negoziato in regime d’assoluta economia.
E, però, la nuova casa presentava una caratteristica insolita, essendo fatta non di pietre – come la quasi totalità delle costruzioni insistenti sui fondi agricoli – bensì di conci (in dialetto, “piezzi”) di tufo, estratti localmente da cave appositamente scavate a mano, conci poi saldati fra loro con malta (“conza”) di graniglia di tufo, ovvero della stessa materia prima, frammista a calce viva resa
Sfogliando e scorgendo fra le pagine di una pubblicazione curata dai domenicani di Bergamo, per festeggiare i novant’anni del loro ritorno al servizio religioso della città lombarda, “Domenicani a Bergamo”, Edioni Kolbe, dicembre 2010, abbiamo fatto una scoperta. C’è una scheda biografica sul papa gravinese con questo titolo “Venerabile Papa Benedetto XIII”. Il volume, oltre a trattare di tutti i santi e beati domenicani, raffigurati in opere d’arte conservate nel convento bergamasco e diventati oggetti di una mostra celebrativa per il novantesimo anniversario, presenta, anche una serie di immagini relative ad oggetti ed arredi sacri. Ogni opera raffigurata od oggetto sono accompagnati da schede biografiche, didascalie e note critiche, soprattutto per quanto riguarda alcuni dipinti di pregio e di valore.
Per quanto riguarda Benedetto XIII, vi è un quadro che lo raffigura, ed è quello che si conserva nel convento domenicano di Bergamo. Forse, una copia dello stesso che si conserva altrove. Ma non è questo il problema e il nocciolo del discorso. E’ ben altro e riguarda il titolo riservato al capitolo e al p
Notte di San Lorenzo. La notte delle stelle cadenti…
Piccole meteoriti per grandi desideri: 10 Agosto la notte di San Lorenzo, la notte delle stelle cadenti…
di Daniela Lucaselli
Nei ricordi più remoti, tra magia e realtà, è sempre presente con il suo intramontabile fascino, lo splendore della notte tra il 9 e il 10 agosto. Un evento, un momento unico ed irripetibile nella grandiosità dell’attimo, dell’istante in cui si avvera e che stupisce gli occhi increduli e sbalorditi di tutti coloro che, incontrandosi in spiaggia, in piazze pubbliche, in luoghi all’aperto, con il nasino all’insù, guardano fra la costellazione di Cassiopea e quella di Perseo, attenti per osservare, ammirare e godere incantati questo fenomeno spettacolare delle stelle cadenti regalato dal firmamento notturno. Il cielo oscuro si illumina per magia, la scia luminosa delle stelle si avvicina a noi come per regalarci una speranza di un sogno da realizzare. Le stelle cadenti con la loro luce sanno incantare ed emozionare. L’anima vibra in attesa che l’evento tanto desiderato si realizzi.
Ma le stelle cadono per davvero nella nostra atmosfera? Se ciò fosse malauguratamente accaduto noi oggi non esisteremmo più. Allora cerchiamo di saperne di più…
Nel periodo estivo, e precisamente dal 25 luglio fino al 18 agosto, l’orbita della Terra , che si trova nella costellazione di Perseo, incrocia frammenti residui di roccia e ghiaccio della cometa Swift-Tuttle ( l’ultimo passaggio vicino al sole è stato nel 1992, osservato da un astrofilo giapponese che vide un puntino luminoso nella costellazione dell’Orsa Maggiore. Il prossimo appuntamento sarà nel 2126), che penetrano nell’atmosfera e, a circa un centinaio di chilometri di altezza, diminuiscono la loro velocità.
Come avviene questo fenomeno?
Le comete durante i loro avvicinamenti al sole evaporano formando una lunga coda di gas e polveri spazzata dal vento solare e sulla stessa orbita lasciano numerosi detriti (pezzettini di ghiaccio, sassolini, polveri). Quando la terra, viaggiando nello spazio, attraversa queste regioni i frammenti più piccoli entrano nell’atmosfera terrestre ad altissima velocità ed evaporano (consumano e bruciano la materia di cui sono composti, in poche parole le loro molecole a contatto con l’aria s’incendiano) a causa del forte attrito e surriscaldamento, producendo reazioni fisico-chimiche che determinano l’affascinante scia luminosa, dovuta alla ionizzazione dell’aria.
La cometa, partendo dai confini del sistema solare, si avvicina verso la terra ogni 130 anni, sciogliendo parte del suo mantello di ghiaccio, nel momento in cui si avvicina al sole. Il tratto di orbita più vicino alla cometa è quello più ricco di polveri e quindi l’attività dello sciame meteorico si accentua negli anni più vicini al transito della cometa.
Nel lontano 36 d. C. i Cinesi notarono per primi l’evento. Seguirono i giapponesi, i coreani ed infine gli europei. Ma fino all’inizio dell’800 il fenomeno celeste non destò particolare interesse negli astronomi che ritenevano giustamente che si trattasse di meteore, una particolarità di carattere atmosferico e meteorologico. Attorno al 1830 si appurò che questo stabiliante avvenimento ricorreva annualmente. Nel 1862 Lewis Swift ed Horace Tuttle identificarono la cometa per la prima volta, ma fu l’eclettico astronomo italiano Giovanni Virgilio Schiapparelli colui che collegò la scia di polveri alla cometa.
Le stelle cadenti sono gli asteroidi della costellazione di Perseo, dette appunto Perseidi, che vengono attraversate dall’orbita terrestre creando questa vera e propria pioggia meteorica. Le Perseidi , uno sciame meteorico tra i più rilevanti tra tutti quelli che incrociano il nostro pianeta nel corso della sua rivoluzione intorno al Sole, sono popolarmente denominate lacrime di San Lorenzo, in quanto in passato il picco di visibilità avveniva intorno al 10 agosto, mentre ora è intorno al 12 agosto, a causa della precessione degli equinozi, del variare dell’inclinazione dell’asse di rotazione terrestre (lentissima rotazione dell’asse di rotazione terrestre nello spazio), quando la pioggia di stelle è visibile ad occhio nudo e a tutte le ore dalla Terra. Questo mutamento si registra un giorno e mezzo circa ogni 100 anni. Quando poi si è in presenza di Luna Nuova e la luminosità lunare è inferiore lo spettacolare sciame meteorico ha un fascino che non ha eguali.a
Di fronte a tanta meraviglia e stupore pochi si ricordano che questa notte, in cui le stelle sono più abbondanti, è dedicata al martirio di San Lorenzo, avvenuto il 10 agosto del 258 d.C., le cui reliquie riposano nell’omonima basilica a Roma. Durante la persecuzione dei cristiani, avvenuta durante il III secolo d. C. da parte dell’imperatore Valeriano, Lorenzo si rifiutò di adorare le divinità pagane e fu arrestato il 6 agosto dalla Guardia imperiale mentre assisteva Sisto II durante una Messa. Dopo essere stato torturato fu decapitato. La pioggia di stelle sono le lacrime che il santo versò durante il supplizio della decapitazione e che scendono sulla terra il giorno in cui il martire morì. Le stelle sono chiamate anche fuochi di San Lorenzo, in quanto nella tradizione popolare si pensa che il santo fu bruciato vivo su una graticola arroventata da carboni ardenti e i lapilli derivanti da questo atroce e doloroso martirio siano poi volati in cielo e giungono sulla Terra il giorno in cui morì per portare agli uomini la speranza. Infatti in Veneto un detto appunto popolare è San Lorenzo dei martiri innocenti, casca dal ciel carboni ardenti.
La sfavillante pioggia di stelle è stata evocata poeticamente e tragicamente anche dal grande Giovanni Pascoli, che dedicò un canto, chiamato appunto X Agosto, al padre ucciso in un’imboscata proprio quel giorno. In questi versi il poeta universalizzava il dolore personale e, attraverso varie similitudini, evidenzia sensibilmente le ingiustizie umane di fronte alle quali il Cielo riversa sulla terra, atomo opaco del male, il suo pianto. Il cielo infinito, immortale, immenso guarda dall’alto con sdegno e amarezza la terra, luogo pieno d’insidie e di contrasti.
Il tempo è trascorso, ma amaramente persistono ingiustizie e crudeltà. Artefice immutabile nei secoli è sempre l’uomo…
X Agosto
di Giovanni Pascoli
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero; cadde tra spini;
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.
Ora è là come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero; disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido
portava due bambole in dono…
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano
E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
Oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!
(da Myricae)
Bibliografia:
J. Bellavita, Le lacrime di San Lorenzo, Italiadonna. it;
INAF, Istituto Nazionale di astrofisica, Le lacrime di san Lorenzo, 2007 .
10 Agosto 2011, ore 19:00 – San Menaio (Foggia) Sala conferenze dell’Hotel Orchidea Blu
Il 10 agosto si svolgerà a San Menaio il convegno “San Michele Arcangelo in “Feste e Riti d’Italia”, organizzato dal Centro Studi Giuseppe Martella e iil Comitato per la promozione del patrimonio immateriale (ICHNet), in collaborazione con il Centro Studi sul patrimonio immateriale Lucano di Sala Consilina e l’Associazione culturale Carpino Folk Festival.
L’incontro avrà come tema il culto di San Michele Arcangelo e le sue valenze culturali, oltre che religiose, tema, questo, affrontato nell’ambito dello studio “Feste e riti d’Italia” realizzato dall’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia del Ministero per i beni e le attività culturali in collaborazione con gli organizzatori dell’evento.
Al convegno parteciperanno esperti del culto di San Michele Arcangelo provenienti da tutta Italia, oltre a coloro che hanno contribuito alle realizzazione del volume “Feste e riti d’Italia” che è il primo di una serie di studi scaturiti dall’incontro tra l’Istituzione che in Italia ha competenza sui beni demoetnoantropologici e le comunità che custodiscono i beni viventi, che cercano di prendersene cura attraverso la ripetizione e la trasmissione e si oppongono alla folklorizzazione del loro patrimonio.
L’evento si svolgerà a pochi mesi dall’iscrizione del Santuario di San Michele Arcangelo di Monte San’Angelo nella lista del patrimonio Unesco ed affronterà anche il tema della valorizzazione sostenibile del patrimonio culturale e delle relazioni esistenti tra patrimonio materiale ed immateriale.
L’incontro rientra nell’ambito del progetto nazionale “Beni immateriali in azione” inaugurato nel 2008 con l’obiettivo di individuare spazi di confronto tra quanti manifestano la loro creatività culturale all’interno delle comunità, s’impegnano nella salvaguardia, attraverso la trasmissione o lo studio, del patrimonio culturale immateriale, alimentano in valore della differenza e dei diritti culturali, animano e arricchiscono le comunità con valori, saperi, espressioni culturali che riaffermano il senso e l’importanza dei beni viventi.
Il convegno ha il patrocinio dell’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia del Ministero per i beni e le attività culturali e del Comune di Vico del Gargano (FG).
Gli atti saranno pubblicati dal Centro Studi sul patrimonio immateriale Lucano di Sala Consilina.
PARTECIPERANNO AL CONVEGNO:
Luigi Damiani – sindaco di Vico del Gargano
Maria Elvira Consiglio – vicepresidente dell’Amministrazione Provinciale di Foggia
Stefano Pecorella – commissario del Parco Nazionale del Gargano
Don Antonio Cantelmi – parroco della chiesa della SS. Annunziata di Sala Consilina
Antonio Basile – Associazione Culturale Carpino Folk Festival
Un rappresentante della Procura di San Michele Arcangelo di Sala Consilina
INTERVENTI
Teresa Maria Rauzino – presidente del Centro Studi “Martella” di Peschici – “San Michele Arcangelo a Monte Sant´Angelo”
Barbara Terenzi – Antropologa – “Culture viventi”
Antonio Tortorella – Coordinatore ICHNet – “Il culto micaelico nella Lucania tardoantica e altomedievale”
Matteo Fusilli – Docente di Antropologia del Turismo presso Università degli Studi Siena-Grosseto – “La convenzione del Patrimonio mondiale Unesco”: “La convenzione del Patrimonio mondiale Unesco”
Gian Paolo Vigo – presidente dell’Associazione San Rocco Italia – “San Michele, le Confraternite e la Liturgia”
Arcangelo Palumbo – Fototeca Palumbo – “Le immagini della Fototeca Palumbo sul culto micaelico a Monte Sant’Angelo”
Lidia Croce – scultrice e pittrice – Presentazione di una tela ispirata alla “Francigena” e di uno studio per una scultura bronzea dell’Arcangelo.
Giuseppe Torre – Coordinatore nazionale ICHNet – “Salvaguardia del patrimonio immateriale e sviluppo turistico, economico e sociale”
Moderatore
Piero Paciello – Direttore del quotidiano “L’Attacco”
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Feste e Riti d’Italia Istituto Centrale per i beni demoetnoantropologici Roma, De Luca Editore, 2009
Elenco delle feste BASILICATA Madonna del Sacro Monte, Viggiano Santissimo Crocifisso, Brienza Madonna del Pollino, San Severino Lucano/Terranova del Pollino Madonna della Bruna, Matera Madonna del Carmine, Avigliano San Rocco, Tolve Madonna del Carmelo, Pedali di Viggianello CALABRIA Settimana Santa. Battenti rossi, Verbicaro San Rocco, Gioiosa Jonica Madonna di Polsi o della Montagna, Polsi di San Luca Santi Cosma e Damiano, Riace CAMPANIA Maria Santissima del Carmine detta delle Galline, Pagani Madonna dell’Arco, Sant’Anastasia San Michele Arcangelo, Sala Consilina San Michele Arcangelo, Padula San Michele Arcangelo, Rutino Gigli per la festa di San Paolino, Nola Santa Maria della Neve, Ponticelli San Silvestro, Sessa Aurunca MOLISE Carnevale. Il Diavolo, Tufara Madonna Incoronata, Santa Croce di Magliano Carrese per la festa di San Leo, San Martino in Pensilis Mája, Acquaviva Collecroce Corpus Domini. Misteri, Campobasso Volo dell’Angelo per la festa della Madonna delle Grazie, Vastogirardi PUGLIA Maria Santissima Addolorata, Molfetta Settimana Santa, Ruvo Settimana Santa, Taranto San Michele Arcangelo, Monte Sant’Angelo
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