Il giro lo faccio di mattina presto, ma oggi è domenica e le botteghe di Nardò son chiuse.
Sarà la domenica del villaggio.
Passo al market per i panini da preparare.
Qui son freschi anche oggi e non mi mancano i pomodori comprati ieri l’altro con i sanàpi.
Che son queste sul banco appena giunte?
“Pittèddhe e mustazzuèli. Cose duci.”
Naturaliter, leggere -ddhe come –gge.
Uhm e chi le fa?
“Mia nonna. Cioè ce le porta il nostro fornaio, ma la ricetta è di mia nonna.”
E me la dai questa ricetta?
“Sine”
Salento terra di santità. I Servi di Dio di Guagnano, Laterza, Latiano e Lecce
Giuseppe Maria del SS.mo Sacramento da Guagnano. Morto il 9 gennaio del 1819. Si distinse per il silenzio e l’umiltà. Frate minore.
Fra Angelo da Laterza, il 21 aprile del 1606. Cappuccino.
Fra Benedetto da Laterza, il 23 ottobre del 1575. Dopo circa cinque anni dalla sua morte il suo corpo fu trovato incorrotto. Cappuccino.
Fra Luca da Laterza, morto ad Avignone (Francia) il 24 novembre 1598. Notevole in lui lo spirito di mortificazione per cui fu elevato all’estasi della preghiera e insignito del dono della profezia e delle scrutazione dei cuori. Visitatore Generale a Parigi e a Marsiglia. Cappuccino.
Suor Orsula Bastante da Laterza, monastero di Castellaneta; morta il 21 ottobre 1666. Morta con l’odore soave della santità.
Fra Andrea Mansi da Latiano, Arcivescovo. Resse l’Arcidiocesi di Otranto per 15 anni con amore e rara bontà. Morto il 1 marzo 1832. Frate minore.
Fra Bonaventura del SS.mo Sacramento da Lecce, chiaro per santità di vita e miracoli. Morto a Lecce il 10 gennaio 1765. Frate minore.
Fra Roberto Caracciolo da Lecce, dottissimo teologo, scrittore, oratore sacro fra i più eccellenti del suo secolo, proveniente dagli Osservanti. Vescovo
Luna piena sul mare di San Cataldo. Onde neppure troppo rabbiose e sabbia nera, forse catrame, chissà. Il cagnolino bianco cammina sul lungomare seguito da uno color champagne, già lo champagne, festa festa festa… Che diavolo ci sarà mai da festeggiare? Mistero, forse l’economia che non gira, forse i ragazzi italiani in giro per il mondo. 70.000 se ne sono andati in un anno, contro i 20.000 immigrati che arrivano su barche, camion, pullman per cercare di sopravvivere. Qualcuno si lamenta per questi ultimi e dice che sono loro il vero problema. “Che mondo di merda” mi dice una signora tralasciando il bon ton e parlando, alla buon’ora, come si parla fra amici.
La luna ammicca, guarda, osserva, illumina il mare e il vento che soffia quasi benefico. “Tramontana?” “Libeccio” rispondo io senza sapere assolutamente nulla di venti, però mi piace il nome. Tramontana e scirocco sono abusati. Le previsioni dicono di poche nuvolette che nascondono solo un po’ il sole giallo, perché il sole è giallo per antonomasia, anche se io lo vedo sempre bianco, a volte arancio, una palla che si tuffa in mare, forse l’ha persa un bimbo, chissà. Intanto i pescatori con la lampada sulla testa come minatori e canne con la lucina in cima pescano, almeno, ci provano. Poi vado a casa e guardo il TG così mi informo delle cose del mondo, poi, solo poi. Sono mesi che le cose del mondo vanno come dice la signora che ha perso il bon ton. Un peana tristanzuolo di dolori, miserie, escort ed eserciti che combattono e perdono una guerra che dura da 10 anni, voluta dai peggiori della terra. Qualcuno dopo pochi mesi si spinse a dire “missione compiuta, abbiamo sconfitto i talebani” l’ha detto 10 anni fa e ancora stanno li a crepare i ragazzi di belle speranze e di grandi armamenti. Ah il Vietnam e la storia che non insegna nulla ai signori della guerra. A volte i politici si somigliano in modo impressionante, qualcuno qui da noi dice “noi l’abbiamo duro”, qualcuno negli USA disse “abbiamo vinto”, stessa filosofia, stessa potenza verbale, stesse parole gettate lì come al bar sport si fa fra ubriaconi. E prima di mandare ragazzi a crepare in Afghanistan disse “Vinceremo”, o parbleu, qualcuno già lo disse e sappiamo com’è finita. Solo che a pagare sono i ragazzi in divisa.
Ah la luna di San Cataldo, così uguale a quella di Alessandria dove “fa freddo, è arrivato l’inverno” mi dicono per telefono. Lei se ne strafrega se fa freddo o caldo, lei sta lassù e guarda qui sotto. Camminavo per il centro storico di Lecce, si avvicina la zingara col bicchierino di plastica per le elemosine, sempre lei, sempre la stessa, ormai è come andare al bar alla stessa ora. Poi l’altra si avvicina “ho già visto tua cugina” le dico. Mi guarda e sa che non avrà
Della “Dieta Mediterranea” patrimonio dell’umanità dicemmo, dei Gusti Mediterranei ne abbiamo fatto scelta di vita per amore, diletto e razionale contributo alla promozione del territorio.
Adesso in tanti ne discettano, spesso con competenza e buon diritto, a volte con marchiane sviste e intenzioni para-salutiste. Il desco non è una farmacia, mangiare è attività necessaria alla vita, è possesso per distruzione, lo si può fare distrattamente o con cognizione di causa. Quando ha un senso e investe il polisenso allora è arte.
Se posso mi nutro d’aromi e sapori, di immagini e suoni, di sensazioni tattili alla mano e alla papilla cercando nella necessità il piacere. E qualche volta anche di provvedere, perché possa godere con me anche chi m’è commensale, vicino o lontano che sia.
M’ha scritto dal Salento una salentina che ha del … cinghiale. C’è un modo salentino per preparare il cinghiale? No. C’è un modo meridionale di farlo, che fu meridionale prima d’essere assunto da latitudini più elevate.
Il cinghiale è cibo da ricchi o da cacciatori di lunga pezza. Suino e selvatico, va trattato come tale. Va “buglionato”, recuperando oggi dai toschi qualcosa che, molto probabilmente, i toschi presero dallo scalco di Federico II.
Il cinghiale arrosto allo spiedo va bene per le scene di film con accampamenti di forzuti guerrieri ma provate a mangiarlo o, se siete capaci, a sentirne l’odore ….
Tre passaggi deve fare la carne del suino selvatico: la frolla, la concia e la cottura.
La carne deve frollare almeno due/tre settimane, ancora meglio la
La vita artistica di Raffaella Liccardi, soprano lirico, vissuta nei luoghi della città di Lecce cari e frequentati a sua volta dal grande tenore Tito Schipa, è stata influenzata armoniosamente da questa vicinanza, non solo fisica ma quasi vocazionale. Tanto che si è sentita quasi investita del ruolo di testimonial del grande interprete salentino, che ha calcato i palcoscenici e i set del mondo, infondendo con la sua voce potente i teatri, nella rappresentazione dei personaggi che hanno contrassegnato le nostre più famose e apprezzate opere liriche (dalla Traviata, alla Tosca, alla Manon fino all’Elisir d’amore che chiude la sua carriera al Petruzzelli di Bari).
Tito Schipa giustamente è stato denominato “l’usignolo di Lecce” possiamo attribuire a Raffaella Liccardi il soprannome di Filomela, alla greca, perché si pone volutamente e umilmente, ma con grande determinazione e valenza artistica, sulla scia del grande tenore, del quale non si è mai stancata nel corso delle sue numerosissime e apprezzatissime esibizioni di decantarne la potenza vocale. A sua volta la voce di Raffaella Liccardi incanta per la purezza, la
Una conversazione a cinque su olio extravergine di oliva e olio lampante
Anche l’olio di oliva lampante del Salento leccese è usato per le frodi?
di Antonio Bruno
Mentre il dibattito sull’olio lampante del Salento leccese continua, il Nucleo agroalimentare del Corpo forestale dello Stato, a seguito di una lunga indagine iniziata nel settembre del 2010 e finalizzata a verificare la filiera di qualità dell’olio extravergine di oliva, hanno riscontrato, presso diversi stabilimenti di confezionamento a Firenze, Reggio Emilia, Genova e Pavia documenti di trasporto falsificati utilizzati per regolarizzare una partita di 450mila chilogrammi di olio extravergine di oliva destinata ad essere commercializzata, per un valore di circa 4 milioni di euro.
L’ipotesi degli investigatori è che i documenti siano stati contraffatti per ingannare sulla vera natura del prodotto che, secondo la Procura di Firenze, conterrebbe olio di oliva deodorato, di bassa qualità e dal valore commerciale tre volte inferiore a quello etichettato come extravergine.
La deodorazione è un’operazione di rettifica dell’olio di oliva che consente di trasformare oli di oliva non commestibili di scarsa qualità in oli di oliva senza difetti, ma che una volta subito questo trattamento non possono più essere commercializzati come oli di oliva extravergine. Questa pratica illecita diventa quasi obbligatoria quando passa molto tempo tra la raccolta dell’oliva e la sua trasformazione, visto che potrebbero insorgere fermentazioni dannose alla qualità del prodotto, o in caso di super-maturazione delle olive o ancora nei
Le Mani del Sud e altre poesie di Vittorio Bodini e Daniele Durante
in collaborazione con Arcadia Lecce e Cultura e Oltre
“LE MANI DEL SUD E ALTRE POESIE”
DI VITTORIO BODINI E DANIELE DURANTE
(NEGROAMARO EDIZIONI E ANIMA MUNDI)
Introduce Stefano Donno
Lunedì 10 ottobre 2011 ore 19,30
presso Cibus Mazzini via Lamarmora 4 a Lecce
Cibus Mazzini presenta in collaborazione con Arcadia Lecce e Cultura e Oltre la rassegna “30 minuti con l’autore” che si terrà lunedì 10 ottobre 2011 ore 19,30 con la presentazione de “Le Mani del Sud e altre poesie” di Vittorio Bodini e Daniele Durante (Negroamaro edizioni e Anima Mundi). Introduce Stefano Donno
Il libro – Vittorio Bodini, Le mani del Sud e altre poesie. La solarità mediterranea, la fantasia spagnola,il riflesso misterioso dei raggi di luna e le case imbiancate di calce nel Salento. Una voce poetica imprevedibile ci invita al di là degli stereotipi consumati dal folclore e dal clamore dei pregiudizi, a comprendere la realtà per trasfigurare la “rabbia di esistere” In amore. Vengono qui rappresentate le dieci poesie musicate,corredate da illustrazioni fatta dallo stesso Bodini.
Il Cd – Vittorio Bodini/ Daniele Durante , Le mani del Sud.
10 poesie di Vittorio Bodini musicate da Daniele Durante. Le mani del sud sono servite spesso a dilaniarsi e ad erigere paletti e barricate con cui inibire ed annientare tutto ciò che gli altri cercano di costruire; ma sono servite ance a produrre suoni che,stratificandosi, hanno dato origine a quel fermento musicale salentino invidiato da molti. Le mani del sud, con questo lavoro riconsegnano le parole di Bodini alla sua terra, nella speranza che la musica contribuisca a diffondere il magico suono.
I musicisti – Daniele Durante: voce e chitarre | Francesca Della Moncaca: voce, percussioni Luigi Bubbico: piano| Stefano Rielli:contrabasso
Vittorio Bodini (nato a Bari nel 1914, ma di famiglia e formazione leccese,morto a ROMA NEL 1970) è considerato tra i maggiori interpreti e traduttori italiani della letteratura spagnola(Lorca, Cervantes, Salinas, Rafael Alberti, Quesvedo). Fondamentali sono ancora oggi i suoi studi : I poeti surrealisti spagnoli(Torino 1963) e sul Barocco di Góngora (Roma 1964).
Bodini è stato soprattutto un poeta che ha attraversato con ironia quasi picaresca,tutte le avventure del Novecento europeo
Daniele Durante musicista e studioso di musica popolare. È tra i fondatori del Canzoniere Grecanico Salentino (1973) nel quale firma arrangiamenti ed elaborazioni e compone brani inediti. Ha inciso con Il Canzoniere Grecanico numerosi lavori e ha pubblicato da solista E allora tu si de lu sud(2008). Docente di ruolo di educazione musicale tiene il corso monografico Musiche e trance per l’insegnamento di Sociologia delle religioni presso L’Università Degli studi del Salento; insegna Musica d’insieme e Storia ed Estetica della musica popolare nel corso triennale di Musica popolare presso il Conservatorio di Lecce.
Nei giorni scorsi si è verificata l’ennesima tragedia sul lavoro. Il crollo dell’opificio di Barletta ha nuovamente suscitato accesi dibattiti sul lavoro nero e sulla fame di occupazione “a tutti i costi” diffusa nel sud. Come al solito, la cronaca ha tirato la volata a discussioni, polemiche e riflessioni che, nella classe politica nazionale e nell’opinione pubblica, dovrebbero rappresentare dei punti fissi e non spunti occasionali di pensiero ed azione. Il problema del lavoro nero e di tutti i rischi ad esso legati (precarietà, condizioni di vita e lavorative al limite della sostenibilità, etc.) non nasce di certo col crollo dell’opificio di Barletta.
A livello mondiale, nel corso degli anni ’90, i processi di “deregolamentarizzazione” e “flessibilizzazione” hanno avuto un incremento di tipo esponenziale. Sono nate nuove forme contrattuali deboli, adatte al clima di incertezza economica. Si è assistito ad uno sgretolamento del welfare state e al ritorno di forme lavorative e socio-economiche tipiche del capitalismo selvaggio. L’Italia, ovviamente, non è stata estranea a tali fenomeni.
Nel nostro paese, la prima finanziaria ad occuparsi di “nero” è stata quella del 1998 (governo Prodi). Le nuove norme in materia prevedevano una serie di benefici in cambio della regolarizzazione dei lavoratori con un contemporaneo mantenimento dei livelli di occupazione. Vennero migliorati i metodi ispettivi ed inasprite le pene per chiunque avesse fatto ricorso a forme di lavoro irregolari. Furono inoltre creati appositi comitati governativi, commissioni parlamentari, ma soprattutto furono coinvolte le autorità locali. L’applicazione di tali politiche favorì l’emersione dal nero di circa 400.00 lavoratori nel Mezzogiorno d’Italia.
La fase dei governi di centro-destra comportò una diversa forma di intervento, basata più che sulla repressione e gli incentivi all’emersione, sul ricorso a politiche di agevolazione fiscale. Tuttavia, i nuovi aumenti dei tassi di economia sommersa hanno dimostrato come tali politiche siano state insufficienti, incidendo solo sulle forme di lavoro irregolare ben strutturate e non sui casi di sottoremunerazione e lavoro nero in imprese parzialmente regolari.
Focalizzando come al solito la nostra attenzione sul piano locale, possiamo affermare che la provincia di Lecce, da anni, è inserita in quella che Giovanni Bianco definisce “la diabolica tradizione […] di controllare la società nelle sue espressioni di consenso politico attraverso le regalie finanziarie di vitalizi senza corresponsione di obblighi. [Una tradizione] che ha generato una cultura dell’opportunismo individuale e della assenza di regole sociali, di servilismo al potere, come unica possibilità di promozione sociale e di benessere” (G. Bianco, Il lavoro e le imprese in nero, Roma, Carocci, 2002, p. 177). Naturalmente le origini del lavoro nero vanno ben oltre questa cultura dell’opportunismo: squilibri nord-sud, elevata fiscalità, scarsa flessibilità del fattore lavoro, inefficienza dei sistemi burocratici ed infrastrutturali, riduzione dell’attività ispettiva, decentramento produttivo e smembramento industriale, incidenza della criminalità nell’economia e negli appalti, ritardo della cultura industriale di determinate aree…, sono tutti fattori favorevoli alla diffusione di un’economia sommersa.
Anche nel Salento l’impresa in nero si è imposta come il fulcro dell’economia locale. Riduzione dei costi di avviamento e del lavoro, maggiore controllo e sfruttamento della manodopera, minori spese di produzione: sono queste le principali caratteristiche di un mondo economico invisibile, esente da garanzie per i lavoratori, privo di doveri nei confronti dello stato e della comunità, oramai radicato nella “cultura” locale.
Parlando di “cultura”, si vuole sottolineare come una tradizione di lavoro, forzatamente orientata al mondo del sommerso, esista da tempo nel Salento, come nel resto del meridione. Negli anni ’50 e ’60, l’emigrazione verso il nord Italia (verso imprese a base fordista, fortemente controllate da sindacati) e lo sviluppo, sul piano nazionale, di estese politiche di welfare state, avevano fortemente ridotto il ricorso a questo tipo di occupazioni. Nel Nord perdurava soprattutto come seconda occupazione, mentre nel sud rimaneva legato all’arretratezza industriale ed all’esistenza di forze illegali. Dagli anni ’70, la crisi economica e le sue conseguenze costituirono un terreno fertile per una rinnovata crescita del fenomeno. Ritornò in auge una prassi imprenditoriale finalizzata al completo sfruttamento dei fattori produttivi. Una prassi tuttora diffusa, ma difficilmente rilevabile con dati precisi.
Come accennato precedentemente, la gran parte degli analisti economici ha registrato, dal 2003 ad oggi, una nuova fase di eccezionale ripresa del lavoro nero soprattutto nel sud Italia (e quindi anche nel Salento). In Italia la percentuale di economia illegale nei confronti del PIL si aggira attorno al 26,2%, con una quota dei partecipanti all’economia sommersa (rispetto alla forza lavoro ufficiale) che oscilla, da regione a regione, tra il 30 ed il 48%.
Al sud la percentuale di lavoro in nero supera spesso il 50% (nel comparto agroalimentare si arriva al 95%). Nell’industria pugliese si contano irregolari nell’ordine del 35,3%. Cifre impressionanti, che diventano ancor più rimarchevoli se si considera, all’interno della stessa Puglia, alcuni distretti economici (come Bari, Brindisi e, per il Salento, Lecce-Casarano) con dei tassi di economia sommersa che superano, in settori quali l’edilizia e la produzione di vestiario, abbondantemente il 50%. Agricoltura e servizi riscontrano dei tassi ancora più alti, ma difficili da definire precisamente, anche da specifici studi di settore.
Le linee di massima sono complessivamente sconvolgenti e rilasciano l’immagine di un’economia priva di qualsiasi controllo e del tutto deregolamentata. Come al solito, però, l’opinione pubblica riscopre tutto ciò solo all’indomani di un evento luttuoso, per poi ricadere in un nuovo oblio, nella “mediatica” attesa dell’ennesima tragedia del lavoro.
RITUALI MAGICO-RELIGIOSI NEL SALENTO FINE OTTOCENTO
SANTONI E LICANTROPI
Se il lupo mannaro aveva il pelo nero, l’uomo era stato maledetto dal padre. Se aveva il pelo grigio, a maledirlo era stata la madre. Se il pelo era rossiccio, si trattava di una potente fattura.
L’ESORCISMO IN CAMPAGNA
SOTTO DUE ALBERI DI CARRUBO E IN UNA NOTTE
DI LUNA PIENA
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
L’insonnia, vista come problema patologico in sé concluso – cioè svincolato da stati febbrili o altri malesseri -, non rientrava nelle abituali esperienze contadine, solo concessa – e quasi a larvato privilegio – ai molto vecchi, i quali, per essere cucchi a lla mpannàta longa (vicini alla lunga dormita, cioè alla morte), potevano permettersi di pitticulisciàre cu lla cuccuàscia, ti menzanotte sinca a mmatutìnu (pettegolare con la civetta, da mezzanotte a mattutino).
Partendo da tale costante, e nel criterio aprioristico che il dormire non fosse solo un’esigenza fisica necessaria al ripristino delle forze, ma anche un mantenersi nell’equilibrio degli avvicendamenti cosmici, il popolo si allarmava di fronte a un’immotivata insonnia, scorgendovi un’alterazione dello stato di coscienza e diagnosticandola come anticamera della pazzia. E poiché le patologie mentali, per un permanere di concezioni medievali, non venivano ritenute infermità a insorgenza spontanea, bensì frutto di orditure esoteriche, si arrivava alla conclusione che il poveretto era certamente vittima o di un sortilegio d’amore degenerato in fissazione o, peggio ancora, di una fattura malevola il cui scopo fosse proprio quello di procurargli uno squilibrio psichico. “Nsignàle ti nnu scusu ca àe cirnùtu ti pressa…” (”Segnale di un qualcosa di nascosto che va indagato d’urgenza…”), dicevano infatti le donne allorché un loro congiunto o vicino di casa per più notti non riusciva a chiudere occhio; e facendo valere ataviche esperienze, consigliavano di rivolgersi contemporaneamente e a S. Donato, recandosi in pellegrinaggio al santuario di Montesano – dove convenivano tutti i malati di mente -, e a una fattucchiera esperta in magie neutralizzanti.
Se poi il disturbo aveva manifestazione ciclica, ogni volta coincidendo con la fase di luna piena, e alla difficoltà di prendere sonno si aggiungeva
Resta con me sole, non portarti dietro i colori del mondo, quelli che accendono i sorrisi e la fantasia, la voglia di fare e di volare.
So quello che mi dirai ora, mi dirai che altri colori lascerai per me sotto i tappeti di foglie e le nubi frizzanti. Grazie, ma… Certo, il rosso mi piace come la passione, l’arancio come il tramonto, il giallo come il mio vestito nuovo, ma… Aspetterò.
Fino ad allora il tuo mare sarà il mio, finchè giungeremo al bianco del sonno d’inverno e insieme attenderemo Primavera…
Cartoline vecchie e nuove da Taranto. Il ponte girevole o ponte di Paola
Taranto, città magno-greca, si affaccia sul golfo cui dà il nome e lungo il lato meridionale è bagnata dal mar Grande. Queste acque, in cui le navi sostano prima di entrare in Mar Piccolo, sono separate dal mar Ionio dalle Isole Cheradi di San Pietro e San Paolo e da Capo San Vito.
Prima delle invasioni saracene, i tarantini per difendersi strategicamente dai nemici, scavarono nel fossato del castello aragonese un doppio canale che disgiunse l’estremità della penisola dalla terraferma.
Nel 927 la città fu distrutta dai saraceni; nel 967 fu ricostruita dai Bizantini sull’antica “Acropoli”, fortificata da torri e cinta di mura strapiombanti sul mare lungo i versanti a nord, sud ed ovest, ed unita alla terraferma dal lato di levante, in direzione della strada che porta a Lecce. Ai fini di una strategica difesa nei confronti dei Turchi che, assediata Otranto, minacciavano di assalire anche Taranto, fu scavato nel 1481, sotto Ferdinando I D’Aragona, un nuovo canale (un primo fossato era stato scavato in quello stesso punto ai tempi di Annibale quando le navi romane posizionate all’ingresso del porto minacciavano la città), detto “fosso”. Filippo II successivamente lo rese navigabile “per congiungere mediante impalcatura in legno, mobile dalla parte dell’abitato, la cortina a sud della torre di Mater Domini (discesa Vasto) alla sponda opposta, quasi in direzione dell’attuale Corso Umberto”(1).
Il canale, purtroppo per incuria, si riempì di sabbia fino a quando Carlo III fronteggiò il problema e nel 1755 ne decise la riapertura.
Successivamente Ferdinando I di Barbone fece costruire nella parte nord, in sostituzione del preesistente ponte di legno, uno nuovo ponte in muratura che fu detto Ponte di Porta Lecce.
Nel 1882 iniziarono gli studi e la progettazione per la costruzione del canale navigabile fra le rade di Mar Grande e Mar Piccolo. Il Mar Grande doveva essere unito al Mar Piccolo. Si provvide così ad allargare il fossato del castello per rendere possibile l’accesso alle navi in questo braccio interno ove doveva sorgere l’Arsenale Militare Marittimo.
Il vecchio ponte fu demolito nel 1885.
La costruzione del nuovo ponte girevole fu ultimata e la struttura fu inaugurata con solennità il 23 maggio 1887 dall’Ammiraglio Ferdinando Acron.
Costruito dall’Impresa Industriale Italiana di Napoli, stabilimento Cottrau, per conto del Ministero Marina e su progetto dell’Ing. Giuseppe Messina che ne diresse i lavori di costruzione, era originariamente costituito da un grande arco a sesto ribassato in legno e metallo, diviso in due braccia che si riunivano nella sezione mediana (chiave dell’arco) e giravano indipendentemente l’una dall’altra attorno ad un perno verticale posto su uno spallone corrispondente. Il funzionamento avveniva grazie a turbine idrauliche alimentate da un grande serbatoio posto sul castello aragonese attiguo, capace di 600 metri cubici di acqua che in caduta avviavano le due braccia del ponte.
“Il nuovo ponte lo vollero azzurro nella tinta, snello nei lineamenti, armonioso nel disegno, girevole e agile nel movimento reso silente dall’energia elettrica preferita alla primitiva rumorosa manovra a pressione idraulica per l’apertura a chiusura dei suoi robusti bracci aleggianti, e soprattutto forte nelle costole ferrose per sopportare il peso della funzione della colonna vertebrale del’unica e vitale arteria cittadina inarcata sul canale aperto al traffico marittimo”(2).
In onore del Santo Protettore e del Sovrano allora regnante gli vennero imposti i nomi di “Cataldo” e “Umberto”.
Durante i due conflitti mondiali la struttura rimase sempre e costantemente aperta per facilitare le operazioni militari e per salvaguardarlo da eventuali bombardamenti aerei, creando però non pochi disagi alla popolazione civile.
Scartata per ragioni economiche e per amore al vecchio ponte l’ ideazione e la progettazione di un tunnel sotto il canale, il Ministero dei lavori si orientava verso la costruzione di un nuovo ponte girevole utilizzando le esistenti antiche spalle in muratura che si presentavano ancora in buono stato, capaci di “assorbire con sicurezza le sollecitazioni dinamiche prodotte dal nuovo ponte” (3).
La demolizione del Primo Ponte cominciò il 18 agosto 1957. Negli anni 1957-1958 la struttura venne rimodernata sulla base di un progetto realizzato dalla Società Nazionale Officine di Savigliano, che riguardava gli organi meccanici ed i comandi elettrici. Fu introdotto un funzionamento di tipo elettrico, ma rimasero inalterati i principi ingegneristici della Direzione del Genio Militare per la Marina. Questa opera fu realizzata nei Cantieri Navali di Taranto. Il nuovo ponte fu inaugurato dal Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi il 9 marzo 1958.
Il significato di questa realizzazione si legge nel messaggio augurale del Capo di S.M. della Marina Militare di SQ. Corso Pecori Giraldi: “…Oggi che il vecchio ponte, caro al cuore di tutti i marinai d’Italia, se ne va in pensione e viene sostituito da un altro, più moderno e funzionale, rievochiamo brevemente le tappe salienti della storia marinara di Taranto, poiché il ponte, inaugurato nel 1887, si inserì come elemento vivo ed operante della evoluzione della città, testimone e, insieme protagonista del movimento del suo porto militare…Oggi che il vecchio ponte tarantino cede il posto alla nuova imponente realizzazione di ingegneria, la città vive un significativo istante della sua secolare storia marinara…”(4)
Il Ponte venne dedicato a San Francesco di Paola, protettore delle genti di mare. La linea architettonica del nuovo ponte, che ricalca la struttura del vecchio, misura attualmente 90 metri di lunghezza,9 metri di larghezza e pesa circa 1600 tonnellate.
Interventi di manutenzione periodica sono effettuati sugli organi meccanici e sulla struttura metallica del ponte. Ciascun semiponte, che costituisce di fatto la sua armatura, combacia in chiave ad arco di cerchio con centro nel perno di rotazione della volata rotante sulla spalla del ponte. Ciascuna delle due grandi mensole ruota così intorno ad un perno centrale ancorato, tramite tirafondi, alla banchina in cemento, muovendosi sopra una cremagliera mediante un pignone sempre in presa azionato da un motore elettrico. Il tutto poggia su una pista di rotolamento composta da una serie di cilindri di acciaio. Due gruppi motogeneratori fanno da corredo per l’alimentazione elettrica in caso di emergenza e di comando a mano.
La gestione della manutenzione così come l’apertura sono affidate alla Marina Militare Italiana. L’apertura del ponte consente il passaggio delle grandi navi militari dirette alla Stazione Navale situata nel Mar Piccolo. Le manovre sono condotte dall’interno di due cabine di pilotaggio situate nei pressi di ciascun semiponte, mentre quattro operai controllano il corretto funzionamento dei dispositivi automatici, pronti ad intervenire in caso di avaria degli stessi. Le prime operazioni manuali da compiere sono quelle di rimozione degli otto calaggi e di sganciamento dei due chiavistelli posti alle estremità, che garantiscono la stabilità del ponte quando è chiuso. L’apertura vera e propria inizia con la rotazione di circa 45° del semiponte lato Borgo Antico, quindi con la rotazione di 90° del semiponte lato Borgo Nuovo, seguita dal completamento della rotazione di quello lato Borgo Antico.
Da sempre il Ponte Girevole, che collega la penisola del Borgo Nuovo con l’isola della Città Vecchia, separate dal canale navigabile, è il simbolo della città dei due mari, e si presenta come una grandiosa ed unica opera di architettura, di costruzione meccanica e d’ingegneria navale.
Lo scenario che si schiude davanti allo sguardo incredulo del turista incuriosito, ma anche di fronte allo stesso tarantino che non si assuefa mai di fronte a tale spettacolo indescrivibile, esprime come la bellezza naturale si coniuga in perfetta simbiosi con la creatività umana.
Il grande Gabriele D’Annunzio nelle sue Laudi non poteva non declamare di fronte a questa straordinaria ed unica opera di ingegneria:
Taranto, sol per àncore ed ormeggi
Assicurar nel ben difeso specchio,
di tanta fresca porpora rosseggi?
A che, fra San Cataldo e il tuo vecchio
Muro che sa Bisanzio ed Aragona,
che sa Svezia ed Angiò, tendi l’orecchio?
Non balena sul Mar Grande né tuona.
Ma sul ferrato cardine il tuo Ponte
Gira e del ferro il tuo Canal rintrona.
Passan così le tue belle navi pronte
Per entrar nella darsena sicura,
volta la poppa al jonico orizzonte.
( Gabriele D’Annunzio, Laudi del Cielo, del Mare della Terra e degli Eroi, Libro IV)
Meno famosi, ma di eguale valenza letteraria e sentimentale sono i versi in cui il nostro concittadino Pietro Piangiolino dipinge questo momento di vita e di storia:
T’ ‘onne nzippate dopo sette mise
de fatie toma toma e situate,
maestranza paisane e giargianise
cu quante aggarbamiente ‘onne fatiate!
‘U giurne ca metterne ‘u prime stuezze,
addà stave pur’ie quedda matine;
lijtte de zite, proprie na biddezze
te prepararne cumm’a ‘na spusine;
E ‘a grue, da marite, fatte e dijtte
Inde a le vrazze sue te sullevòie
E doce doce t’appuggiò su a ‘u lijtte
E cu tanta dulcezze te vasoie.
Da osce mò ca t’onne naugurate
Accumenze pi te ‘nu gran travagghie,
spiriame ca si sembe affurtunate!
Nisciune cu te face ‘u tagghie tagghie.
Vintequatt’ore a ‘u giurne de fatie
Pi ciend’anne, sta bene, amiche care?
No appennè ‘u muse e statte in allegrie,
guèdete ‘u ciele e spicchiate inde a ‘u mare.
E quanne, no sia maie, vene ‘na die
Ca te porte amarezze, buene frate,
non ci te fa vincè da picundrie
sta sembe nziste e ardite cumm’a ‘u tate.
Tu ca d’u tate si cchiù larie assaie,
p’accugghiè sus’o lijtte tanta gende
a rimedià cu face stu via vaie
cchiù liste, cchiù sicure e cchiù scurrende.
E cumm’u tate tue si sperti ‘u suenne
Cu ‘a Marine, sciuscietta preferite,
accussi a fa tu, sembe ridenne,
sine a quanne ‘u Signore ti dè vite.
Quanne spalanche tu sti vrazze bedde,
pi dà ‘u passaggie a sti nave putiente,
salutele pi nù e ‘na bona stedde
cu l’accumpagne e manne a poppe ‘u viente.
Quanne da sotte a te matine e sere
Passe ‘a piscaturegne inde a le varche,
oze ‘a cape e te manne ‘nu pinziere,
naucanne a ricatte sotte all’arche;
Surride tu a sti paisane nueste,
ncuraggele a fa chijne le rezze,
cu no màngene cchiù stu pane tueste
de fatie, de miserie e d’amarezze.
Cu sie pi nu cumm’a’n’archebalene
Sta campate de ponde c amò à nate,
cu porte tiempe sembe cchù sirene
e tanta die cuntiente e affurtunate.
Pietro Piangiolino, Taranto, 10 marzo 1958
Sono queste le parole che l’autore ha voluto racchiudere ed armonizzare in versi, sono queste le emozioni che ha provato di fronte a questo scenario di vita, sono questi i sentimenti che pullulano nell’intimo di ognuno di noi.
Una poesia che non morrà mai, esattamente come le scene che si spiegano di fronte ai miei occhi quando passeggio lungo la ringhiera che dal Lungomare apre la strada al Ponte Girevole. Nonni dai capelli radi e bianchi accompagnano i loro piccoli nipoti a pescare. Li trovi lì fermi ore ed ore anche sotto un sole “cocente” con la canna che tende impalpabile la lenza in attesa che qualche “gobbione” abbocchi ingenuamente alla lenza.
Questa è Taranto, questa è la bellezza della Città che amo.
NOTE:
1) A. Semeraro, Storia vecchia, speranza nuova, in Rassegna e Bollettino di Statistica, Comune di Taranto,Luglio-Agosto 1957, pag.28;
2) A.Semeraro, Storia vecchia, speranza nuova, op. cit. pag.29;
3) A.Svelto., Il nuovo ponte girevole di Taranto, in Rassegna e Bollettino di Statistica, Comune di Taranto, Marzo-Aprile 1958, pag. 3;
4) A.Svelto, Il nuovo ponte girevole di Taranto, op. cit. pag. 5.
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Etimologie: scilla dal latino scilla(m), dal greco skilla; maritima=marittima, con riferimento alla sua preferenza per l’ambiente costiero; Liliaceae è forma aggettivale da lìlium=giglio.
Il nome dialettale cipuddhàzzu, corrispondente formalmente all’italiano cipollaccio (che, però, indica il lampascione) è da cipòddha, corrispondente all’italiano cipolla, dal latino cepulla(m)1, diminutivo di cepa. il suffisso –azzu (in italiano –accio) ha, di regola, la duplice valenza dispregiativa (mumintàzzu/momentaccio) o accrescitiva (catenaccio/catinàzzu)2. Voglio augurarmi che nel nostro caso sia prevalente quest’ultima (con riferimento alle dimensioni superiori a quelle di una cipolla di media grandezza) e non la prima, probabilmente con essa convivente nell’immaginario collettivo, anche perché il nostro bulbo (al quale certamente, quando lo incontriamo, dedichiamo appena uno sguardo fugace) certamente non lo merita. Basta leggere cosa di lui scriveva Plinio nel I° secolo d. C.: “Dalle piante che nascono nei giardini si ricava il vino dalla radice dell’asparago, dalla cunila3, dall’origano, dal seme del sedano, dall’abrotono, dalla menta selvatica, dalla ruta, dalla nepitella, dal serpillo, dal marrobbio. Mettono due fascetti in un orcio pieno di mosto, un sestario4 di mosto cotto e mezza coppa di acqua marina. Col mosto cotto si fa aggiungendone due denari4 di mosto, allo stesso modo con la radice della scilla6”; “Si dice che se il fico viene piantato nella scilla -questa è un bulbo- rapidissimamente fruttifica e non è soggetto all’inverminamento, difetto da cui sono immuni anche gli altri alberi da frutto piantati allo stesso modo7”; “In verità nobilissima è la scilla, sebbene nata per i medicamenti e per rinforzare l’aceto. Non c’è bulbo più grande e che abbia maggior forza. Due sono le varietà della medicinale, il maschio dalle foglie bianche, la femmina dalle foglie nere. Ma la terza varietà è un cibo gradevole, si chiama Epimedio, dalle foglie piccole e meno aspro. Hanno tutte molto seme; tuttavia crescono abbastanza celermente con i bulbilli nati attorno e, perché crescano, le foglie, che hanno ampie, si sotterrano; così i bulbilli ne assumono le sostanze nutritive. Nascono spontaneamente numerosissime nelle isole Baleari e ad Ibiza e per tutta la Spagna. Il filosofo Pitagora scrisse un libro su di loro, compendiandone le proprietà medicamentose di cui parlerò nel prossimo libro8”; “ Tra le scille con proprietà medicinali la bianca è il maschio, la nera la femmina; la più bianca è la migliore. Tolta a questa la scorza secca, fatta a fette la parte verde restante, si pongono queste su un panno a piccola distanza l’una dall’altra. Poi i pezzi seccati vengono sospesi in un orcio pieno di aceto quanto più forte possibile in modo che non tocchino nessuna parte del vaso. Si fa questo quarantotto giorni prima del solstizio. Poi il vaso otturato con gesso viene posto sotto le tegole perché ricevano il sole dell’intera giornata. Dopo quel numero di giorni si tira fuori il vaso, si estrae la scilla e si cola l’aceto. Questo rischiara molto la vista, è salutare per lo stomaco, per i dolori al fianco assunto a digiuno ogni due giorni. Ma è tanto forte che assumendolo con troppa avidità per un momento sembra che uno sia morto. Giova pure alle gengive e ai denti anche solo masticandola. Assunta con aceto e miele elimina le tenie e gli altri parassiti del corpo. Messa fresca sotto la lingua fa che gli idropici non sentano sete. Si cucina in diversi modi: in una pentola che si mette nel forno spalmata di grasso o di fango o a pezzi in tegame. E cruda viene seccata, poi si taglia a pezzi e si cuoce nell’aceto, quando serve contro i morsi dei serpenti. Quando è arrostita si netta e la sua parte centrale viene cotta di nuovo in acqua. Così cotta viene somministrata agli idropici, per stimolare la diuresi bevuta nella dose di tre oboli9 con miele ed aceto, allo stesso modo ai sofferenti di milza e ai sofferenti di stomaco, se non avvertono i sintomi dell’ulcera, che abbiano problemi di digestione, per le coliche, per i sofferenti di bile, per la tosse cronica che toglie il respiro. In soluzione con le foglie per quattro giorni combatte la scrofolosi, cotta in olio ad empiastro la forfora e le ulcere che emettono liquido. Si cuoce pure nel miele per cibo, soprattutto per favorire la digestione. Così purifica anche l’intestino. Cotta in olio e mista ad acquaragia sana le screpolature dei piedi. Il suo seme viene applicato con miele nel caso di dolore dei fianchi. Pitagora tramanda che la scilla sospesa anche sulla porta è efficace a tenere lontani i malefici10”. “L’aceto di scilla quanto più è invecchiato tanto più è utile. Giova, oltre a quanto abbiamo detto, ai cibi inaciditi perché li rende più gradevoli al gusto; parimenti a quelli che vomitano a digiuno perché dà insensibilità alla gola e allo stomaco. Elimina l’alitosi, cicatrizza le gengive, rende saldi i denti, dà un colorito migliore. Gargarizzandolo elimina la durezza di orecchi e apre le vie dell’udito. In pari tempo acuisce la vista. È straordinariamente utile agli epilettici, ai biliosi, contro le vertigini, i restringimenti della matrice, gli urti, le cadute e gli ematomi che ne conseguono, i nervi ammalati, le malattie dei reni, da evitare in caso di ulcera11”; “Le rane cotte con la scilla curano la dissenteria, come dice Nicerato12”.
Basta e avanza per ricrederci sul conto del cipuddhàzzu. Vale pure la pena ricordare che è utile (anche se non efficace come un diserbante …) contro l’orobanche: basta ridurla in poltiglia, aggiungere acqua e lasciarvi i semi a bagno per almeno 36 ore.
Ma non è finita. Esso ci ha lasciato il ricordo degli antichi fasti anche nella toponomastica se una delle torri di avvistamento (Squillace13) deve il nome proprio alla notevole presenza in zona di questo bulbo14.
________
1 Attestato solo nel De re coquinaria di Apicio (probabilmente I° secolo d. C.).
2 Nel dialetto, poi, può assumere addirittura tre valori e questo non è sintomo di ambiguità ma di maggiore creatività (proprio come avviene nella poesia); per esempio, fimminàzza, a seconda del contesto, nel dialetto neretino può indicare una donna prosperosa (valore accrescitivo) o che sa il fatto suo (valore migliorativo) o che sa troppo il fatto suo…(valore dispregiativo). E poi, quale valore attribuire, per esempio, a sangunàzzu (sanguinaccio)? Per me, che non lo gusto, sarebbe fin troppo facile optare per il peggiorativo, per un patito sarebbe il contrario. Il fatto è che il suffisso –àccio/-àzzu deriva dal quello aggettivale latino –àceu(m) che di per sé non aveva valore positivo o negativo. Comunque, a beneficio dei buongustai, a costo di darmi con la zappa sui piedi, riporto le parole di Plinio (I° secolo d. C.) a proposito del sanguìculus, che può essere considerato l’antenato del nostro sanguinaccio: (Naturalishistoria, XXVIII, 58) Utuntur ad utrumque vitium et coagulo haedi in vino myrtite fabae magnitudine poto et sanguine eiusdem in cibum formato, quem sanguiculum vocant (Si servono per l’uno e l’altro problema [debolezza di stomaco e coliche] anche del caglio di capretto del peso di una fava bevuto in vino al mirto e del sangue dello stesso addensato in cibo, che chiamano sanguiculus).
3 Varietà di origano.
4 Circa mezzo litro.
5 Circa 30 g.
6 Naturalis historia, XIV,19, 4: Ex his quae in hortis gignuntur fit vinum e radice asparagi, cunila, origano, api semine, habrotono, mentastro, ruta, nepeta, serpyllo, marruvio. manipulos binos condunt in cadum musti et sapae sextarium et aquae marinae heminam. E napis fit duum denariorum pondere in sextarios binos musti addito, item e scillae radice.
7 Op. cit., XVII, 87:Ficus si in scilla -bulborum hoc genus est- seratur, ocissime ferre traditur pomum neque vermiculationi obnoxium, quo vitio carent et reliqua poma similiter sata.
8Op. cit., XIX, 93-94: Proxima hinc est bulborum natura, quos Cato in primis serendos praecipit celebrans Megaricos. verum nobilissima est scilla, quamquam medicamini nata exacuendoque aceto. Nec ulli amplitudo maior, sicuti nec vis asperior. Duo genera medicae, masculae albis foliis, feminae nigris. Set tertium genus est cibis gratum, Epimedion vocatur, angustius folio ac minus asperum. Seminis plurimum omnibus; celerius tamen proveniunt satae bulbis circa latera natis et, ut crescant, folia, quae sunt his ampla, deflexa circa obruuntur; ita sucum omnem in se trahunt capita. Sponte nascuntur copiosissimae in Baliaribus Ebusoque insulis ac per Hispanias. Unum de eis volumen condidit Pythagoras philosophus, colligens medicas vires, quas proximo reddemus libro.
9 Circa 2 g.
10 Op. cit., XX, 37: Scillarum in medicina alba est quae masculus et femina nigra; quae candidissima fuerit, utilissima erit. Huic aridis tunicis direptis quod reliquum e vivo est consectum suspenditur lino modicis intervallis. Postea arida frusta in cadum aceti quam asperrimi pendentia inmerguntur, ita ne ulla parte vas contingant. Hoc fit ante solstitium, diebus XLVIIII. Gypso deinde oblitus cadus ponitur sub tegulis totius diei solem accipientibus. Post eum numerum dierum tollitur vas, scilla eximitur, acetum transfunditur. Hoc clariorem oculorum aciem facit, salutare est stomachi, laterum doloribus ieiunis parum sumptum binis diebus. Sed tanta vis est, ut avidius haustum exstinctae animae momento aliquo speciem praebeat. Prodest et gingivis et dentibus vel per se commanducata. Taenias et reliqua ventris animalia pellit ex aceto et melle sumpta. Linguae quoque recens subiecta praestat, ne hydropici sitiant. coquitur pluribus modis: in olla, quae coiciatur in clibanum aut furnum, vel adipe aut luto inlita, vel frustatim in patinis. Et cruda siccatur, deinde conciditur coquiturque in aceto, cum serpentium ictibus inponitur. Tosta quoque purgatur et medium eius iterum in aqua coquitur. Usus sic coctae ad hydropicos, ad urinam ciendam tribus obolis cum melle et aceto potae, item splenicos et stomachicos, si non sentiant ulcus, quibus innatet cibus, ad tormina, regios morbos, tussim veterem cum suspirio. Discutit et foliis strumas quadrinis diebus soluta, furfures capitis et ulcera manantia inlita ex oleo cocta. Coquitur et in melle cibi gratia, maxime uti concoctionem faciat. Sic et interiora purgat.Rimas pedum sanat inoleo cocta et mixta resinae. semen eius lumborum dolori ex melle inponitur. Pythagoras scillam in limine quoque ianuae suspensam contra malorum medicamentorum introitum pollere tradit.
11 Op. cit., XXIII, 28 Acetum scillinum inveteratum magis probatur. Prodest super ea, quae diximus, acescentibus cibis, gustatu enim discutit poenam eam; item iis qui ieiuni vomant, callum enim faucium facit ac stomachi. Odorem oris tollit, gingivas adstringit, dentes firmat, colorem meliorem praestat. Tarditatem quoque aurium gargarizatione purgat et transitum auditus aperit. Oculorum aciem obiter axacuit. Comitialibus, melancholicis, vertigini, volvarum strangulationibus, percussis aut praecipitatis et ob id sanguine conglobato, nervis infirmis, renium vitiis perquam utile, cavendum exulceratis.
12 Op. cit., XXXII, 31: Dysintericis medentur ranae cum scilla decoctae ita, ut tradit Niceratus.
13 Squillàci o Scianùri all’origine. L’attuale denominazione risale al 1777.
14 La supposizione nasce dal fatto che parecchi toponimi sono legati ad una caratteristica del sito, quale può essere, una specie animale [per esempio, la torre di S. Caterina nel 1601 si chiamava Scorzòne (un serpente), ma potrebbe anche darsi che il nome sia stato dato per il fatto che la costa in quel tratto ne rievocava la forma] l’abbondanza di una specie vegetale (per esempio, torre Uluzzo (asfodelo), che nel 1601 si chiamava Crustimi, probabile deformazione del greco krethmon o krethmòn =finocchio marino; torre Inserraglio potrebbe essere deformazione di saracchio. Il nostro caso è ancora più problematico per la terminazione del nome, che non esclude, a mio avviso, un rapporto con il greco skulon=spoglia, preda (riferimento alle incursioni saracene?), mentre non mi sentirei (voglio esagerare!) di trascurare pure il latino squilla=cicala di mare.
Il ponte di Pietra, detto anche Ponte di Porta Napoli e dedicato oggi a sant’Egidio Maria da Taranto, è una struttura in muratura lunga 115 metri che domina il canale naturale a nord-ovest della città.
La data in cui questo ponte fu edificato è incerta.
Un’ ipotesi attendibile è quella proposta dall’egittologo francese François Lenormant, che lo fa risalire agli ultimi anni del primo millennio (X secolo) per volere di Niceforo II Foca. L’opera, strutturata in sette arcate, si estendeva secondo un asse che proteggeva e difendeva la città dai frequenti attacchi esterni.
“Da allora, annotò il Lenormant, il ponte è stato rimaneggiato molte volte, ma la parte inferiore dei suoi piloni presenta ancora tutti i caratteri della costruzione bizantina”.
Nel 1404 fu fortificato con l’innalzamento nella Piazza Grande, l’attuale Piazza Fontana, della Torre di Raimondello e della Cittadella, una massiccia torre quadrata cinta di mura e fiancheggiata da due torrioni.
Nel 1865 un decreto del Re Vittorio Emanuele II di Savoia dichiarò Taranto città aperta e libera da qualsiasi giogo militare, ragion per cui si decise per la distruzione di tutte le mura e le fortificazioni esistenti. Questo verdetto coinvolse la stessa Cittadella, rasa al suolo in vari momenti che intercorrono dal 1884 al 1893.
Il ponte invece era stato distrutto da una violenta alluvione nella notte fra il 14 e il 15 settembre del 1883.
Fu ricostruito a tre arcate, pochi metri più a destra rispetto a quello caduto in
Passando da un ipermercato, settore frutta e verdura, s’osserva facilmente che il mese d’ottobre è quello dell’uva da tavola. La più economica e saporita tra i frutti presenti.
Nell’area Jonica vi sono numerose coltivazioni d’uva da desco e, data la disponibilità, ho voluto cimentarmi con un menu che avesse l’uva come fulcro. Anche quella molto bella e poco saporita derivata da incroci e ibridi d’ogni risma.
Ad esempio alternando acini d’uva apirena (senza semi) e tocchi di formaggio affumicato di Giovanni Spina si possono fare degli eccellenti spiedini da servire come antipasto.
Con l’uva pizzutella e il capocollo di Martina degli straordinari fusilli
Con l’uva Italia e del macinato di agnello un meraviglioso arrosto, contornato da una bella insalata arricchita con noci, uva Palieri e formaggio di capra.
Con la Red Globe un dessert imperdibile.
Dell’antipasto ho detto, per i fusilli la procedura è molto semplice. Mentre l’acqua per la pasta fa il suo dovere, in una padella al salto si friggono delle fette sottili di capocollo finché non diventano croccanti, quindi si levano e si mettono ad asciugare su carta assorbente. Nella stessa padella si mette della cipolla tritata sottile, quando appassisce si aggiunge l’uva in acini interi (magari privati dei vinaccioli) e il capocollo sbriciolato. Si tiene un minuto mescolando il tutto. Si toglie la padella dal fuoco e si aggiunge della panna da cucina, si regola di sale e di pepe e si scodellano nella pentola i fusilli bollenti cospargendo il tutto di parmigiano grattugiato. Si mescola per bene e si serve caldissimo.
Per l’agnello: si prepari un impasto per polpette con pan carré bagnato nel latte, un uovo, menta secca, carne di agnello macinata e regolare il tutto di sale e pepe.
Preparare una polpetta con al centro un acino di uva Italia. Infilare le polpette trafiggendo l’uva in spiedini di legno separandole con fette di peperone o di cipolla, spennellare gli spiedini con OEVO e cuocerli alla griglia.
Il dessert va preparato per tempo. Si montano degli albumi a neve, si immerge un chicco di Red Globe lavato e asciugato e si ripassa l’acino in zucchero semolato, si scuote e si poggia su un vassoio ricoperto di carta da forno unta. Quando l’uva è disposta si mette in freezer e si lascia cristallizzare. Togliere dal freezer almeno mezz’ora prima di servire.
Per l’insalata fate da voi.
Il tutto si accompagni con un vino di grandi profumi e corpo robusto, suggerisco Vigna Electa della Cantina Leuci, Chardonnay del Salento bianco di grande spessore.
“…Quando arrivo ai laghi di Monticchio, in Basilicata, e mi ricordano il lago di Tovel, sopra la Val di Non e insieme la laguna di Apoyo in Nicaragua, e mi chiedo cosa voglia dire tutto ciò…” Sono parole di una cara amica, Francesca Caminoli in “Viaggio in Requiem”. Frase che ha ripreso per parlare di Sud su Paese Nuovo del 28 settembre scorso, che a sua volta riprende un articolo uscito su un numero dedicato al Sud dalla rivista toscana Il Grandevetro nell’agosto-settembre 2010…”
Così i pensieri volano fra nord di ogni nord e sud che più sud non si può. Salvo poi accorgersi che anche il nord è sud di altre terre. Che i migranti vengono chiamati da qualcuno “terroni”, a prescindere dalla provenienza. Quelli che negli anni ‘60 arrivavano nelle ricche terre del nord, fossero essi calabresi, pugliesi o veneti poco importava, erano “terroni”, in quanto altro da sè. Pochi anni dopo il Veneto mostrerà le pulsioni anti immigrati più vivaci, e si scoprirà che le rimozioni sono ovvie e scontate. Senza generalizzare mai per carità, non i veneti, solo i trogloditi.
Arrivavano da tanti nord i Crociati, fino in terra di Leuca, il finis terrae. Da lì c’era solo mare e dopo, molto dopo, altre terre. Troppo sud laggiù a sud. Era l’ultimo baluardo di incivile civiltà, si parlavano lingue strane, quasi come quelli che vivevano oltre mare, barbari da condurre sulla retta via a costo di stuprare qua e là, di rubare un pochettino.
Arrivano disperati i nuovi crociati della sopravvivenza, a Lampedusa e in Salento. Per loro è il nord, per qualcuno ne è solo l’inizio, nulla da spartire comunque con il loro sud. I crociati antichi andavano a fare guerre di religione, quelli di oggi sono crociati nel senso più letterale del termine: messi
Sud e Magia: nasce l’Enciclopedia filosofica del Rinascimento in Terra d’Otranto
Domenica 25 settembre 2011 a Specchia, nella sala Convegni di Palazzo Risolo si è svolto il Convegno di Studi intitolato Sud e Magia. La tradizione magico-astrologica nel Rinascimento Meridionale, organizzato dalle “Officine Filosofiche di Terra d’Otranto” (Segreteria organizzativa M. De Carli e D. Verardi), e patrocinato dall’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale, dal Dipartimento di Filologia classica e di Scienze Filosofiche dell’Università del Salento, dall’Assessorato alla Cultura della Provincia di Lecce e dal Comune di Specchia.
I lavori sono stati aperti nel pomeriggio, alle ore 18.00, da Vincenzo Santoro, responsabile cultura dell’A.N.C.I., nonché presidente delle “Officine filosofiche di Terra d’Otranto”, il quale ha esposto gli obiettivi per l’anno 2011-2012 dell’associazione. All’intervento di Santoro sono seguiti i saluti di Marco Santoro dell’Università “La Sapienza” di Roma, anche a nome dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale di cui egli è il vicepresidente. Luana Rizzo, docente di Storia della Filosofia del Rinascimento presso l’Università del Salento ha relazionato sulla figura di Matteo Tafuri, mago e astrologo salentino operoso anche nel contesto napoletano dei fratelli Della Porta. Donato Verardi ha affrontato il tema della magia astrale nel pensiero magico di Della Porta, mentre Francesco Giannachi è intervenuto sul
Edilizia e arte funeraria a Nardò e nel Salento (II parte)
Le cappelle gentilizie costruite tra fine ‘800 e primi ‘900
di Gabriella Buffo
Il cimitero, ideato e costruito come un’ideale città dei morti, cinto dalle nuove mura, si isolava così dalla realtà circostante, anche se dal punto di vista morfologico richiamava paradossalmente l’immagine stessa della città dei vivi con i viali, le piazzette, i palazzi isolati e i blocchi condominiali a cui si aggiungono anche tutte quelle norme, regolamenti e prescrizioni che regolano ogni sistema sociale. E, come avviene nel tessuto urbano, anche qui si presenta la zonizzazione per classi sociali: gli spazi riservati agli infettivi – relegati nella parte più retrostante del camposanto – , ai non cattolici, ai non battezzati, al campo della pietà o cimitero dei poveri, in cui la nuda croce rileva appena il nome, alle cappelle di confraternite, infine gli spazi più rilevanti alle edicole gentilizie.
Infatti, sul finire del XIX secolo e nei primi anni del XX secolo, alla crescita della città borghese corrisponde il proliferare di un’architettura funeraria che, seppure in miniatura, ripropone in scala ridotta le medesime soluzioni formali impiegate nelle architetture urbane.
Le famiglie benestanti, l’intera borghesia, ormai consolidatasi nel potere politico ed economico, vogliono esprimere, anche attraverso la costruzione funeraria, il segno del proprio passaggio su questa terra e, dopo aver fatto costruire il proprio palazzo in città e la villa in campagna e al mare per la villeggiatura, commissionano agli stessi ingegneri la loro edicola funeraria con quello stesso gusto eclettico tanto allora di moda.
Le famiglie, ma anche le congreghe, si affrettano a presentare all’amministrazione comunale le loro richieste di acquisto di suolo (in concessione perpetua) per l’edificazione delle tombe private.
Nelle richieste, secondo il Regolamento, devono essere specificati i materiali scelti e allegati i grafici dei progetti (alcuni sono firmati da noti progettisti quali Quintino Tarantino, Gregorio Nardò, Luigi Tarantino, Giuseppe Sambati, Benito Leante).
Come avviene per l’architettura civile e religiosa ottocentesca così anche per quella funeraria la ricerca stilistica utilizza l’antichità per trarre motivi e forme architettoniche semantiche e comunicative, tutti gli stili architettonici costituiscono modelli di riferimento da utilizzare in base alle differenti esigenze di rappresentatività. Ogni civiltà conosciuta, ogni forma di conoscenza, acquisita attraverso gli scavi archeologici e la letteratura dei viaggi, fornisce,quindi, tutti quegli elementi stilistici che, in un certo senso, soppiantano i simboli delle catacombe cristiane, le quali avrebbero dovuto, invece, essere il referente più vicino alla cultura religiosa italiana oltre ad essere quello più raccomandato dalle gerarchie ecclesiastiche. Ma l’Ottocento, sappiamo, è stato il secolo di affrancamento dal “dominio religioso”, di istanze politiche di laicizzazione e modernizzazione dello stato, secolo anticlericale per eccellenza, più vicino alle correnti di pensiero europee.
Lungo tutto il perimetro del vecchio cimitero, una accanto all’altra le cappelle delle famiglie più in vista della città neretina ripropongono un vero revival di stili: dal gotico al rinascimento al barocco a forme dell’architettura classica o a quella di civiltà egiziane e mesopotamiche.
Alcune sono posizionate come fondali prospettici, quale punto estremo della crux viarum. Infatti, entrando dall’ingresso del vecchio cimitero al termine del viale a sinistra svetta la cappella in stile neogotico, costruita dall’ing. Antonio Tafuri nel 1902. Sopraelevata su un basamento scalinato e fastosamente decorata con archi ogivali e rosoni, è il sepolcro della famiglia Tafuri, baroni di Persano e Melignano, la cui arme è effigiata al di sopra della porta di ingresso. A pianta quadrata si struttura su ordini e termina con un grappolo di pinnacoli. Il secondo piano è alleggerito da ampie bifore con vetrate colorate.
Neogotica è anche la cappella del barone Francesco Personè, il cui prospetto, tripartito da pilastri poligonali, è ritmato da ogive traforate e lateralmente da fiaccole rovesciate con ali.
Un tempio greco-romano, con un pronao sorretto da colonne corinzie e sovrastato da timpano, si trova realizzato nella cappella Gioffreda.
Neorinascimentale è invece la cappella del Capitolo della Cattedrale di Nardò.
Quasi assente, poiché poco apprezzato dalla storiografia di quegli anni, lo stile Barocco, rinvenibile soltanto in una cappella con il frontone curvilineo e il portale con un arco a doppia voluta in chiave.
Altre tombe si ergono assumendo l’aspetto di piccoli mausolei, come la cappella Conte-Filograna,la cui costruzione fu autorizzata dalla Commissione edilizia del Comune di Nardò nel 1929. Altre non sono altro che palazzi in miniatura, come la cappella Bove, in cui la scala, a doppie rampe contrapposte, con balaustra a pilastrini, conduce al piano sopraelevato.
A volte si presentano edicole con compresenza di più stili, veri e propri pastiches architettonici eclettici e retorici, in cui la significazione ridondante di indici escatologici si dibatte tra sacro e profano; ne è un esempio la tomba della famiglia Dell’Abate-De Pandi-Zuccaro- Giulio, dove elementi prettamente neogotici – apertura ogivale con arco trilobato – si uniscono ad elementi neoegizi, quali le colonne angolari fasciate a metà circa della loro altezza con motivo a bulbo sovrastato da capitello a canestro.
Lo stile egizio, molto in voga sul finire del XIX, è limitato solo ad alcuni elementi architettonici, probabilmente perché non incontra il gusto della committenza neretina, a differenza degli altri cimiteri del Salento (per esempio a Galatina, dove neoegizia è la cappella delle famiglie Galluccio, Venturi, Candido, Greco, Romano) e di Lecce (tombe di M. Piccinni, Stampacchia, Fumarola), in cui “figure quali la piramide, l’obelisco, la mastaba, che hanno conservato nel tempo i propri caratteri originari senza grossi cambiamenti, assumono il valore di elementi astratti, posti al di sopra della storia: simboli eterni dalle forme semplici e solenni”[22]. Sono i resoconti delle spedizioni e i rilievi eseguiti in Egitto da viaggiatori inglesi settecenteschicome Norden, Pocock o Dalton, quindi divulgati attraverso specifiche pubblicazioni in tutta Europa, che contribuiscono alla diffusione di elementi decorativi e architettonici “all’egiziana”[23].
Negli anni del XX secolo, accanto agli ornati e logori stilemi dettati dall’Eclettismo, viene a convivere il linguaggio del Modernismo, un nuovo stile che sintetizza l’essenzialità della forma architettonica attraverso volumi puri, carichi di potere evocativo già nella forma geometrica. Qui le suggestioni della pietas cristiana sono enfatizzate dalla morbidezza delle linee decorative del liberty floreale, a cui si aggiunge la forza evocativa della scultura.
La cappella dei baroni Personè, a pianta quadrata, si presenta come un blocco geometrico puro delicatamente decorato, altamente simbolico, con i quattro angoli della terra e le quattro direzioni cardinali, che rimandano sia alla condizione terrena dell’uomo sia alla eternità. Un nastro, intagliato con serti di foglie e fiori, avvolge l’edifico modellandolo e la stessa funzione svolge la finestra laterale in cui un cordone orizzontale definisce l’immagine di un sole che sta per tramontare.
Fiori e foglie, legati dal lenisco, decorano l’ingresso della cappella simboleggiando la vittoria sulle tenebre e sul peccato.
Come nelle loro dimore civili, anche sul prospetto delle cappelle delle famiglie Personè, Baroni di Ogliastro, Carpignano Salentino, Castro e Pallio[24], si osserva un tentativo di ribadire lo status sociale imprimendo nella pietra lo stemma nobiliare “spaccato di azzurro e di verde e sul tutto due atleti di oro ignudi, in atto di lottare, accompagnati nel capo da una testa di Mercurio con il motto et pace et bello”.[25]
La simbologia
Nel cimitero di Nardò, come in tutti gli altri del Salento, non è il prezioso marmo la materia prima decorativa delle tombe ma la pietra leccese che diventa il morbido tessuto su cui ricamare tutta la simbologia della morte, tanto eloquentemente rappresentata dallo scheletro con la falce. È un simbolo, questo, creato dall’uomo, che andrebbe indagato perché lo si colga in tutto il suo significato. La falce è il simbolo della morte che recide la vita, come si recide l’erba o il grano. Essa è il simbolo dell’uguaglianza tra gli uomini. Se la falce in sé richiama l’idea della falciatura del grano, la morte con la falce rimanda a una suggestione di raccolto, di traguardo di un ciclo naturale che inizia con la semina, continua con la fioritura, poi con la maturazione del frutto destinato ad essere raccolto per finire con la morte del grano ormai secco dal quale si estrae la spiga.
Altri elementi caratteristici delle edicole funerarie in oggetto sono poi le tibie incrociate, la clessidra, simbolo del lento scorrere del tempo infinito, le ali aperte a simboleggiare la capacità di sollevarsi dal peso della vita, le fiaccole che indicano la redenzione e la speranza nel buio della morte (sei fiaccole ornano il fastigio della cappella della congregazione dell’Immacolata), le ghirlande di fiori e foglie quali segno incorruttibili di fede e di giustizia, i tralci di vite e l’uva simboli eucaristici che indicano il sacrificio e la redenzione.
E ancora gli insetti quali l’ape, simbolo dell’anima, segno di sopravvivenza dopo la morte – nella cappella del barone Personè tre api sono intagliate sulla cornice che separa la parte superiore da quella inferiore del prospetto architettonico – ;gli animali delle tenebre come il gufo e la civetta con la loro capacità di vedere nel buio e ancora l’uroboro, il serpente che si morde la coda, metafora espressiva della riproduzione ciclica, simbolo ambivalente che collega la vita alla morte, il pesce il cui termine greco Ichthys è l’acrostico di Iesous Cristos Theou Hyios Soter cioè Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore.
Tra le più scenografiche è la cappella della famiglia Tommaso Zuccaro. Il progetto, firmato dal noto ing. Quintino Tarantino, si avvale di un ricco repertorio simbolico.
Il colore è bandito, resta solo il colore neutro della pietra. Un timido accenno di colore possiamo intravedere nella facciata della cappella Borgia, su cui sono dipinte fasce orizzontali bianche e grige.
Il motivo delle fasce bicrome viene mutuato dall’architettura civile, per esempio villa Lezzi a S. Maria al Bagno di Nardò, dove però i colori usati sono quelli caldi del rosso e del giallo ocra più appropriati ad abitazione di villeggiatura.
Certamente nella realizzazione di queste cappelle gentilizie gli architetti, gli ingegneri e le maestranze del tempo si avvalsero dei vari repertori a stampa che subito dopo l’Unità d’Italia iniziarono a circolare su tutto il territorio nazionale. In special modo, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, fiorì una serie di scritti e raccolte iconografiche sull’architettura cimiteriale.
L’Arte Funeraria Italiana, raccolta di tavole fotografiche, pubblicata a Milano, rappresentò per i professionisti del tempo il manuale del pratico operare dal quale attingere nuove soluzioni formali e stilistiche. Preziosa guida nell’ambito della progettazione fu anche il Manuale dell’Architetto, in cui l’autore Daniele Donghi aveva dedicato una consistente sezione all’architettura cimiteriale corredata di fotografie e planimetrie dei maggiori cimiteri italiani e stranieri. È anche pregevole l’opera di G.B. Savio Lapidi e monumentini funerari. Progetti con piante e particolari n.40 tavole, edita a Torino da l’Artista moderno.[26]
In definitiva il cimitero di una città rappresenta la summa degli stili e degli stilemi che si sono stratificati nell’architettura del centro abitato, ed è perciò che non si può fare a meno, al fine di un’analisi esaustiva del tessuto culturale di un territorio, di tenere nella massima considerazione anche queste propaggini, questi luoghi della contiguità fra fisica e metafisica, e dunque ontologicamente affatto lontani dai non-luoghi augeiani [27], i quali son di solito poco reputati dalle trattazioni storico artistiche. Scrive Anna Belardinelli: “Mai ho visitato un paese senza cercare di aggiungere al suo mosaico una tessera particolare: quella del luogo riservato ai morti. Spesso questo si è rivelato il tassello risolutivo per ricomporre in un disegno comprensibile tutto ciò che avevo visto fino ad allora. Sempre trovavo l’incastro giusto con tasselli che sembravano appartenere a scene di tutt’altro genere: del tempo operoso, delle relazioni sociali, dei bisogni elementari, dei desideri, in definitiva della vita. Sempre ho riportato dalla visita a questi luoghi speciali e appartati una ricca messe di informazioni e, nello stesso tempo, un’emozione forte, la sola mistura che può produrre conoscenza, entrarti dentro e modificarti”[28].
È anche molto interessante la prospettiva di sfruttamento economico di queste ulteriori sorprendenti risorse culturali. Nella città di Milano è statisticamente acclarato che, dopo il Duomo, il Cimitero Monumentale (costruito su progetto presentato nel 1860 dall’architetto Carlo Maciachini) rappresenta la seconda meta frequentata dai turisti stranieri, con “oltre 10 mila visitatori nel periodo marzo 2003 / giugno 2004”[29] .
I cimiteri salentini, opportunamente restaurati, possono, dunque, a buon diritto essere inseriti nel più ampio circuito degli itinerari culturali che, com’è noto, attirano nel nostro lembo di terra migliaia di turisti affascinati dalle straordinarie ricchezze storico artistiche che questa terra conserva.
pubblicato su Spicilegia Sallentina n°7.
Taranto. Nel passato è esistito un ponte ad ovest della città?
La questione è tuttora discutibile. Fra gli scrittori locali c’è chi sostiene l’esistenza, in antico, di un ponte ad ovest della Città, nei pressi di quello attualmente denominato di Porta Napoli; c’è chi lo nega supportato da proprie argomentazioni o da quanto presente nel Platone in Italia. Gli antichi scrittori, come Strabone, Polibio e Livio, e i più recenti come Filippo Cluverio, Viola, Dal Lago, Wuilleumier lo ammettono.
Il noto Lenormant sostiene che l’imperatore Niceforo Foca per la prima volta fece costruire il ponte a sette archi sul canale di Mar Piccolo, “come si può rilevare dai pilastri che presentano tutti i caratteri della costruzione bizantina”. Tale tesi risulta molto discutibile in quanto l’archeologo e storico, che per la parte topografica ha attinto dagli scrittori locali, doveva dimostrare che prima della costruzione bizantina il ponte non ci fosse. Pertanto, per supportare tale affermazione risulta insufficiente sostenere semplicemente che sui pilastri sono presenti i segni della costruzione bizantina.
Dato certo è comunque quello che ai tempi di Niceforo Foca, quando fu “terrapienata” l’Acropoli, si costruì “quel” ponte (distrutto nel 1883) e che i pilastri presentavano le tracce della costruzione bizantina.
La questione ora da chiarire è un’altra: il ponte che i Bizantini edificarono dopo la distruzione da parte dei saraceni, verificatasi quarant’anni prima, fu ubicato nello stesso luogo in cui si trovava precedentemente o, per effetto del “terrapienamento” della Acropoli, fu eretto in altra zona? La risposta, qualunque essa sia, deve essere sostenuta da una dimostrazione.
La tesi del Lenormant che sostiene che il ponte sia stato edificato “per la prima volta” dai Bizantini, se fosse stata completata con la frase “in quel sito”, non
Secondo la tradizione popolare salentina l’orzaiolo, volgarmente detto “rasciulu”, si manifesta dopo aver assistito a scene particolarmente piacevoli (tra gli esempi: una bella donna, una tavola imbandita, oggetti preziosi).
La fastidiosissima infezione batterica delle ghiandole palpebrali procura arrossamento del margine della palpebra, bruciore, fastidio alla luce, con la sensazione di corpo estraneo nell’occhio.
Il disturbo può durare anche dei giorni, finchè non compare al centro dell’orzaiolo un puntino giallognolo, che poi si rompe spontaneamente con riduzione o scomparsa del dolore.
Per curarlo oggi si ricorre alle pomate antibiotiche, ma un tempo, quando queste ultime non erano ancora disponibili, le nostre nonne applicavano sull’occhio dolente un impacco tiepido contenente semi di lino preventivamente bolliti in poca acqua lasciata poi raffreddare.
Era questo uno dei rimedi validamente consigliati dal medico curante o dal farmacista di fiducia, cui non sempre ci si rivolgeva per una così apparentemente banale infezione.
Il popolo più sprovveduto, come mi raccontava mia nonna, ricorreva allora ad una tecnica di cui non si conosce l’epoca di adozione e che consisteva nello strofinare per 3-5 volte sul bordo della palpebra il dorso della fede nuziale, d’oro.
Il ricordo do questo metodo empirico, da me stesso ritenuto del tutto inutile e senza logica, mi è sovvenuto oggi, scorrendo le agenzie di stampa medica che riportano testualmente:
Letteratura Scientifica
Cerotti con nano-filamenti d’oro riparano il cuore infartuato
Creati dei ‘cerotti’ capaci di riparare il cuore colpito da infarto grazie a dei piccolissimi filamenti d’oro, che migliorano la trasmissione dell’impulso
Villaggio Tramonti, Salento. Lu purpu di Enrico e la ricetta di papà
Lo confesso: ho ancora il piacere che i miei pargoli più che ventenni stiano con me nel mio tempo salentino.
Eh già, questo posto gli piace e pure a me piace.
Enrico si diletta, tra un tuffo e l’altro, a pescare tra gli scogli.
E fa a gara con Tommaso, mio omonimo amico e suo maestro di pesca in apnea tentata, ah ah!
Devo dire, a mio dispetto però, che le immersioni son fruttifere.
Sarà il mare pescoso, ma questi qua ogni volta riemergono con la preda.
Oggi polpi di scoglio veraci.
Quelli con le due file di bottoni lungo le ‘ranfie.
All’opera dunque.
Affido la crudele pratica della battitura del polpo a loro.
Ho il cuore tenero e preferisco non guardare.
Penso a Napoli, però, per questo cefalopode.
La ricetta salentina la lascio a Romualdo.
In verità Allan Bay direbbe che questo mio piatto è senza confini.
Ingredienti:
Polpi veraci pescati da Enrico nel mare di Porto Cesareo
Pomodorini maturi di Nardò
Aglio uno spicchio
Olive nere una manciata
Un venerdì del mese di luglio dell’anno 2011, durante la lettura della Repubblica, il titolo “Colonie: sport, musica e niente cellulare, bimbi in vacanza come una volta” attira la mia attenzione.
Va letto! Mi piace quel “come una volta”, a significare l’importanza delle cose di una volta.
Rovisto nella memoria e quanto sono riuscito a raccogliere ve ne parlo adesso, con la convinzione che se non vi annoierò, vi avrò almeno resi partecipi di qualcosa che fa piacere ricordare. Nulla di speciale, soltanto semplici cose… di una volta.
I giorni della colonia, quei giorni ormai lontani erano belli. Negli anni Settanta, con un corredo fatto di piccole ed essenziali cose mi allontanavo dai miei genitori per trascorrere a Villa Tabor, località Cenate di Nardò, un mese di vacanza con altri ragazzi.
All’inizio tutti eravamo tristi e impacciati, ma con il passare delle ore ritrovavamo il sorriso e quel luogo sconosciuto si apriva lentamente per offrirci il meritato divertimento estivo. C’erano le regole da rispettare: l’alzabandiera mattutina, il canto, la preghiera, il silenzio, la messa.
La villa era gradevole, immersa nel verde con alberi di pino dritti e dalla chioma fluente; un viale conduceva alla chiesa e tutt’intorno uno spiazzo immenso delimitato da un muretto che non infastidiva ma proteggeva la nostra permanenza. Si respirava serenità simile all’aria fresca e dolce di un mattino di primavera. Quando il sole alto s’apprestava a discendere sugli alberi, dileguandosi lentamente, con discrezione, e nel cielo apparivano i colori del tramonto, sedevo sul muretto a immaginare respiri di luna.
Alle undici di mattina andavamo a Santa Caterina, scortati dalle signorine che in certe situazioni facevano fatica a contenere la nostra esuberanza.
Non eravamo abituati all’abbondanza delle cose; la fanciullezza era scandita da tante rinunce e quando riuscivamo ad avere qualcosa – che comunque ci
La “carpìa”, ovvero il sedicente intellettuale sfaticato e zozzone…
Di solito la parte di pavimento occupata dal letto è, per motivi facilmente comprensibili, quella meno soggetta ad una quotidiana pulizia, nonostante la presenza sul mercato di aspirapolvere dotati, tra gli accessori, anche di testa ultrasottile, snodabile, magari con telecamera incorporata, a fare concorrenza ad un endoscopio di ultima generazione. Basta, perciò, che questo attrezzo trascuri la zona in questione per una decina di giorni perché, sollevando le reti, si noti la presenza di una inconfondibile formazione, una sorta di peluria grigio cenere, leggerissima1: è la carpìa, voce usata a Nardò, S. Cesarea Terme, Cutrofiano (in quest’ultimo centro anche col significato di insieme di pagliuzze), Gallipoli, Montesano, Muro Leccese; scarfìa a Bagnolo, Calimera, Castrignano dei Greci, Lecce, Martano, Sternatia; al plurale scarfìe a Calimera, Melpignano, scarfèi a San Cesario di Lecce, per il Leccese; per il Brindisino scarfìi a Mesagne. Tutte le varianti riportate sono tratte dal vocabolario del Rohlfs, il quale alla voce carpìa, dopo aver ricordato che “anche in Toscana carpìa=peluria nella Versilia” rinvia a scarfìa, dove replica questa informazione, senza fornire, dunque, proposta etimologica.
Va preliminarmente detto che la voce in questione non è esclusivamente toscana o pugliese, ma alla sua ampia diffusione non ha corrisposto la sua registrazione nei comuni dizionari della lingua italiana, sicché a tutt’oggi
Maria Teresa Sparascio, staffetta partigiana salentina
Il 16 ottobre 1906 nasce a Caprarica, comune di Tricase, Maria Teresa Sparascio. Cresce e vive nel basso Salento, nel comune dell’immensa quercia vallonea che ancora troneggia fra Tricase e il mare.
Nel 1932 nella caserma di Tricase arriva il carabiniere Licheri Efisio Luigi. E’ sardo di Villamar (Ca) ed dal1920 hatrovato il suo lavoro nell’arma, lui è nato nel 1901. I due sud si incontrano e si innamorano. Il 28 agosto del1934, inpieno regime fascista, si sposano a Lecce. Un incontro fra due sud, storia comune in fondo.
Ma lui è carabiniere, viene trasferito in Emilia, prima a Farini D’Olmo (Pc), poi a Langhirano (Pr). Intanto nascono Maria D’Itria nel 35, Irene nel 36, Antonietta nel 38 e Giacomo nel 42. Tutto sommato stanno bene, sono alloggiati nella caserma del Carabinieri. La situazione precipita l’8 settembre del 43. Lui diventa appuntato ma rimane fedele alla patria e si congeda dall’arma, sbanda e diventa partigiano nella brigata Pablo con il nome di “Torino”.
Nel luglio del 44 Langhirano subisce rastrellamenti e la ferocia prima della X mas, poi dei nazisti. La provincia di Parma è martoriata come tutto il nord Italia dalla violenza nazi fascista, i consuntivi parlano di 1675 civili caduti dall’inizio della guerra alla liberazione, di questi 506 erano donne, molte ammazzate senza pietà e senza motivi apparenti, come Adele Nardi, colpita da un proiettile nazista mentre giocava con la sua figlioletta in strada.
Maria Teresa intanto aiutava come poteva il marito e la resistenza era staffetta e basista.
Quel maledetto 26 settembre 1944 Efisio era fuori, lei era in casa con la figlia Maria D’Itria che così ricorda gli avvenimenti:
“… Ricordo che mentre si affrettava a mettere a posto alcuni documenti che il marito le aveva affidato per motivi che non potevo conoscere ma che intuivo, e poi a sistemare indumenti di noi bambini e infine a raccogliere da terra, presso al finestra, le scarpe della figlioletta più piccola, mi invitava a tenermi pronta per andare a ripararci anche noi insieme all’altra sorellina Irene. Dopo qualche minuto una fucilata partita da un mitra piazzato di fronte alla nostra abitazione la colpiva ferendola a morte. Io, che stavo dietro di lei, fui salva per miracolo. Loro, i nemici tedeschi, avevano raggiunto il loro scopo: erano venuti per punire…”*
Maria Teresa, unica partigiana salentina, morì il 7 ottobre 1944 all’ospedale di Parma, ferita mortalmente ad un polmone.
Scrive Nello Wrona che in prossimità del 50° anniversario della morte di Maria Teresa si spinse a Langhirano per fare ricerche:
“… Non ricordava il sindaco, ma promise ricerche: non ricordava l’arciprete… non ricordavano gli uomini della Resistenza, rintracciati e scovati sotto i nomi di battaglia, sempre disponibili, mai reticenti, spesso sorpresi: “La moglie di Torino? Si, successe qualche cosa, qualcuno sparò – i tedeschi, certo, durante una puntata – ma se fu per vendetta o per errore o per delazione non saprei dire” … Nella capitale del prosciutto la rimozione era totale, quasi fisica.
E così, di questa donna, morta di piombo tedesco per essere stata porta ordini e moglie di partigiano, si può solo scrivere una storia a togliere. E levando di scena tutto, tranne la morte e le origini. Solo in questo modo la sua storia ha un senso. Nella misura in cui Langhirano e Tricase sono sulla stessa latitudine antropologica: “cafoni” da una parte, “scariolanti” dall’altra; mercato della braccia a Lecce come a Faenza o a Parma; la stessa malaria; la stessa staffa di cavallo dietro la porta; gli stessi abiti di cotonina, lo stesso volto rugoso di aceto e tabacco, sotto lo stesso velo nero delle donne…. Così morire a Langhirano o a Tricase, ha solo un valore incidentale, perché il sud è sempre un meridione planetario, sempre uguale quando la storia la scrivono gli altri. Colpisce solo il silenzio di quarant’anni, quando la storia, a scriverla, è una donna, e una donna meridionale….” *
*Da: Maria Teresa Sparascio – Staffetta partigiana salentina. A cura di Francesco Accogli e Massimo Mura Ed. dell’Iride – dicembre 2004 –
(Mentre la città di Gravina in Puglia si appresta a festeggiare san Michele Arcangelo, suo santo protettore, come sancito dalla Bolla papale di Clemente X del 10 marzo 1674, contestualmente siamo venuti a conoscenza di uno scritto del professore Ieva, che di seguito riportiamo nella sua versione integrale, tratto da “Il Campanile, periodico di informazione e cultura, anno XVII, n. 1, Gen- Feb. 2009, in cui si afferma, sia pure in forma dubitativa, interrogativa e deduttiva, che san Sabino potrebbe essere, oltreché patrono di Canosa, anche di Gravina. San Michele, quasi come un qualsiasi inquilino, potrebbe essere sfrattato? Questo, se fosse accertato, soprattutto dagli storici, significherebbe stravolgere l’intera storia di una comunità che ha basato la sua fede, la sua tradizione religiosa verso il principe della Milizia celeste sin dal suo apparire alle pendici del Gargano, e anche oltre, giungendo a convivere con la non distante Lucania. Noi, naturalmente, sic et simpliciter, non possiamo sposare la tesi del professore Ieva, se non altro perché è molto debole e non supportata da prove storiche e documentali attendibili. Riteniamo, però, che il suo contributo possa far nascere un serio e sereno dibattito finalizzato all’approfondimento e ad una ulteriore ricerca. Può essere considerata una buona e sana “provocazione”per poter confermare, smentire o riscrivere una nuova pagina di storia. Ai posteri, storici sinceri e non, l’ardua, l’ardita, la faticosa, la provvisoria, la confermativa, definitiva o innovativa sentenza (g.m).
“Liberata Gerusalemme da Goffredo di Buglione, i Latini costituirono Nazareth Metropoli. Ma in seguito la Palestina fu ripresa dai Saraceni e il 2 ottobre 1187 il sultano d’Egitto Saladino entrò trionfante nella città, dopo che il suo
Castro, fulgida perla del meraviglioso Salento, si pone alla stregua di sublime crogiolo, fantastico concentrato di bellezze e tesori, fra angoli d’incanto, fondali cristallini, luminosi soppalchi d’azzurro vivo.
Tale e tanto insieme, immerso in un’atmosfera che avvolge, accarezza e rigenera lo spirito, alleviandone ambasce, debolezze e sfinimenti.
E’ un sito di sogno, Castro, che si fa ammirare sotto un moto irresistibile, un bene, un tesoro che si lascia amare e preservare.
Intorno ai bastioni possenti e alle mura di cinta del Borgo, alle chiazze verdeggianti e profumate degli orti, giardini e frutteti in declivio verso la marina, al palpito che aleggia e si muove silenzioso nelle piazzette raccolte e lungo i vincoli trasudanti storia e testimoni di vestigia lontane, si avverte la sensazione di essere più lievi e insieme più pieni. Si riscoprono ricordi ed emozioni, si compongono pensieri positivi, si vivono autentici stacchi rispetto al vortice e ai sobbalzi del quotidiano, ai malesseri della realtà, agli affanni nell’attesa del divenire.
In termini diversi, ciascuno ha agio di tirar fuori la propria anima autentica, magari a lungo negletta, nella semplicità dell’accontentarsi dell’essenziale, come dire dei valori veri.
Solo in apparenza, insomma, limitazioni e rinunce, mentre, nella realtà, si avverte, invece, appagamento, anzi gioioso appagamento.
A seguire, quali e quanti misteri di sogno, spunti d’immaginazione e d’estasi nel rimirare le onde di Castro, nel trattenere lentamente lo sguardo a ridosso degli sviluppi – in su e giù, va e vieni – dei suoi confini di rocce brune, lunga e tratteggiata collana di tonalità scura e dolce.
E’ bello, conferisce gioia, sebbene sotto un alone di mistero, il lontanissimo impatto del pugno di legni condotti dal troiano Enea di fronte agli scogli, al minuscolo falcato seno da riparo e al promontorio di Castro.
Canto unico e senza confronto, poesia nel poema, i versi del terzo capitolo dell’Eneide:
Le brezze sperate
rinforzano, ormai vicino si
schiude un porto e sulla rocca si
profila il tempio di Minerva.
I nostri ammainano le vele e
volgono a riva le prue.
Il porto si inarca curvato dalle
onde d’oriente; una barriera di
roccia biancheggia di spume
salate e lo ripara; scogliere
turrite lo presidiano
con duplice abbraccio,
e il tempio arretra da riva.
Una sorta di singolare battesimo per una creatura senza pari, come, fuor d’ogni esagerazione, si può definire Castro.
E dopo l’antichissimo approccio dell’eroe esule, sullo scorrere del tempo e dei millenni, una ridda di altre immagini storiche, una lunga catena di personaggi, eventi e accadimenti grandi e minuscoli, che hanno lasciato segni e orme nell’habitat d’intorno e, soprattutto, fra i respiri di quanti c’erano e vivevano, volti e voci a loro volta perpetuatisi, idealmente ma inequivocabilmente, nelle albe che si sono susseguite e levate sino ai calendari presenti.
Ci vuole poco per sognare, per richiamare, dal profondo, il meglio di sé, per scoprire, dentro, un altro io, un’essenza migliore.
Come dire, l’umile moderno cantore di Castro non smette mai di volgere gli occhi verso Punta o Pizzo Mucurune, lingua naturale che si colloca fra i più conosciuti simboli della località; oltre a indirizzare lo sguardo, sofferma la mente sulla gran parte dell’estensione del promontorio, che, pur ricca di vegetazione che spontaneamente nasce e resiste nel tempo, di strati verdi che si rinnovano ad ogni primavera, di rovi riarsi e secchi quando il bacio del sole estivo diventa rovente, tuttavia, forse, non è mai stata calpestata da essere umano, è rimasta così come si trovava millenni fa.
Deriva, da ciò, il ritorno a mondi per un verso lontani e distanti, e però vivi e vicini almeno sottoforma di speciali pensieri che si rincorrono, in particolar modo nelle calde e intriganti notti estive.
Godere di simili spettacoli ed effetti nutre meglio di qualsiasi sontuoso banchetto, è il cibo ideale per ogni animo sensibile, amante del bello e dell’autentico, amante della natura.
Sud e Magia. La tradizione magico-astrologica nel Rinascimento Meridionale
Domenica 25 settembre 2011, presso la Sala Conferenze di Palazzo Risolo di Specchia (LE), alle ore 18.00, si terrà il Convegno
Sud e Magia. La tradizione magico-astrologica nel Rinascimento Meridionale
Il convegno è organizzato dall’Associazione culturale denominata Officine filosofiche di Terra d’Otranto, nata con lo scopo di promuovere iniziative culturali concernenti il pensiero filosofico in Terra d’Otranto, con particolare attenzione al Rinascimento, che nell’occasione presenterà il programma delle sue attività. L’evento vedrà la partecipazione di rinomati studiosi provenienti dal mondo universitario, nonché di giovani studiosi emergenti del panorama culturale salentino. Aprirà i lavori Vincenzo Santoro, responsabile dell’Ufficio Cultura dell’Anci, presidente dell’Associazione. Nel corso dell’evento verrà presentato inoltre il sito Accademia Hydruntina. Enciclopedia filosofica del Rinascimento in Terra d’Otranto, diretto da Donato Verardi e con la partecipazione di un prestigioso comitato scientifico internazionale. Interverranno Marco Santoro (Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale – Università degli Studi di Roma “La Sapienza”), Donato Verardi (Officine Filosofiche di Terra d’Otranto), Luana Rizzo (Università del Salento), Adele Spedicati (Università del Salento), Francesco Giannachi (Università del Salento). È inoltre prevista la presenza di Simona Manca (Vice Pres. e Ass. alla Cultura della Provincia di Lecce e di Valerio Stendardo (Assessore alle Politiche Giovanili del Comune di Specchia).
Programma
Sud e magia. La tradizione magico-astrologia nel Rinascimento meridionale
Specchia (Le), sala conferenze di Palazzo Risolo 25 settembre, ore 18
Interverranno: Vincenzo Santoro, Presidente Officine Filosofiche di Terra d’Otranto Sud e Magia. Le ragioni di un convegno
Marco Santoro, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale, Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Il Rinascimento meridionale. Ragioni e prospettiva di ricerca
Luana Rizzo, Università del Salento Matteo Tafuri mago e astrologo di Terra d’Otranto
Donato Verardi, Officine Filosofiche di Terra d’Otranto Le immagini celesti nella “Magia naturalis” di Giovan Battista Della Porta
Francesco Giannachi, Università del Salento Da Casole a Zollino. Divinazione ed Astrologia in Terra d’Otranto tra Medioevo e Rinascimento
Adele Spedicati, Università del Salento Il tema della magia nelle “Opere magiche” di Giordano Bruno
Porteranno i loro saluti Simona Manca, Vice Presidente e Assessore alla Cultura della Provincia di Lecce, Valerio Stendardo, Assessore alle Politiche Giovanili del Comune di Specchia
Nel corso dell’evento verrà presentato il sito Accademia Hydruntina. Enciclopedia filosofica del Rinascimento in Terra d’Otranto (www.accademiahydruntina.it) a cura di Donato Verardi
con il patrocino di Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale Dipartimento di Filologia Classica e di Scienze Filosofiche dell’Università del Salento Assessorato alla Cultura della Provincia di Lecce Comune di Specchia
Luca Giordano: documento inedito del dipinto di Maria SS.ma della Purità di Gallipoli
di Antonio Faita
Nella seconda metà del Seicento la pittura napoletana rinnovò il suo linguaggio in modo moderno e maturo grazie alla presenza e all’attività di due artisti: Mattia Preti e Luca Giordano.
Interpreti felici della pittura barocca, i due artisti dettero inizio alla loro carriera con un’adesione sentita e partecipata al naturalismo caravaggesco. I termini maggiormente utilizzati per definire Luca Giordano sono libertà espressiva, energia creativa, rapidità dell’esecuzione, vastità della produzione. La libertà espressiva fu ciò che lo contraddistinse sin da giovane, quando, allievo di Mattia Preti, apprese soprattutto lezioni di metodo. In tal modo iniziò a dar corpo al suo giovanile desiderio di rinnovamento, dettato da quell’energia creativa che lo accompagnò durante tutto il suo lungo percorso formativo.
Luca Giordano diede vita ad un numero ingente di opere con una rapidità nell’esecuzione ineguagliabile al punto che gli valse, secondo quanto riportato dal biografo Bernardo de Dominici, il soprannome di “Luca fa presto”.
Anche Gallipoli, la bella città jonica, può vantare una testimonianza del grande pittore napoletano. Trattasi del dipinto su tela del grande altare marmoreo del ‘6001, raffigurante “Sancta Maria Puritatis”, ubicato in una delle più interessanti chiese della città, la chiesa a lei intitolata, un vero gioiello che raggiunge le tonalità più alte dell’arte plastica figurativa2.
Il dipinto è un autentico capolavoro, uno dei pochi quadri del pittore napoletano, siglato in basso sulla destra, con le lettere L. G., intrecciate e seguite da una F (Luca Giordano fece). Da notare, inoltre, che nella
Anche Muro Lucano rivendica un posto nella santità di Benedetto XIII
Giustamente, anche la città di Muro Lucano, in provincia di Potenza, essendo stata uno dei feudi della famiglia Orsini, rivendica un posto nel processo di beatificazione e nella futura gloria degli altari del servo di Dio, Benedetto XIII. Purtroppo, per noi, ma non è mai tardi per venire a conoscenza delle cose, a circa oltre un anno di distanza abbiamo appreso di un carteggio tra il comune di Muro e il vicariato di Roma. Infatti, il 3 giugno dell’anno scorso, così scriveva, il sindaco della cittadina lucana, Gerardo Mariani, al cardinale Vallini, vicario del papa per la città di Roma: “Eminenza Reverendissima, questa Amministrazione Comunale con grande esultanza ha appreso l’inizio del processo canonico di beatificazione per il papa Benedetto XIII, al secolo Pierfrancesco Orsini, in quanto da seminarista frequentò il seminario diocesano di Muro Lucano, della cui città gli Orsini erano feudatari. Il seminario vescovile, fondato nel 1565, è stato tra i primi in Italia. A tal fine mi permetto di sottoporre all’attenzione di Vostra Eminenza reverendissima che
Quando finisce l’estate? Domanda banale in fondo. Per i calendario termina il 21 settembre. Posto questo assioma, supponiamo che il 22 settembre ci siano 38 gradi, chi di noi uscirebbe con un maglioncino di lana, l’ombrello e un giubbino perché “l’estate è finita”? Soprattutto chi, se libero da impegni, non approfitterebbe per passare una giornata al mare?
Mi ponevo questa domanda domenica 18 settembre rosolando al sole a Castro Marina. La temperatura era estiva nel senso più caldo del termine, e l’acqua piacevolmente fresca. Di solito frequentiamo spiagge libere, non certo perché ci fanno ribrezzo gli stabilimenti, anzi, sostanzialmente per abitudine, oltre che per la scelta di poterci spostare dove ci piace.
Oggi lo stabilimento, l’unico, di Castro marina era aperto e senza cassa all’ingresso. Era diventato spiaggia libera. Spariti ombrelloni, lettini, sdraio, sparite le docce sostituite poi da una gomma per annaffiare le piante, ed era stata smurata (letteralmente visti i frammenti di cemento pericolosi, pungenti e zozzi che stavano lì attorno) la scaletta che agevolava la risalita dall’acqua. Il chioschetto bar era rigorosamente chiuso e squallidamente era in pieno sole il gazebo di fronte al chiosco in quanto le coperture erano state tolte.
Semplicemente, banalmente, ironicamente, i gestori hanno stabilito che il 15 settembre l’estate era finita. Alla faccia di chi parla di destagionalizzare il turismo. Le centinaia di persone che affollavano Castro erano praticamente allo sbando, solo i bar della piazzetta funzionavano, ma quelli stanno aperti
Argenti salentini. Il tronetto eucaristico della cattedrale di Gallipoli
Quando Montesquieu, in una delle sue famose Lettres persanes, condannava l’oro e l’argento come “metaux d’eux-memes absolument inutile et qui ne son des richesses que parce qu’on les a choisis en etre les signes”, faceva torto al suo pur acutissimo senso storico, dal momento che trascurava di metter nel conto della nobiltà e “utilità” di quei metalli, la consistenza e il significato della lunga tradizione artistica alla quale essi sono collegati.
Meno raro dell’oro, meno diffuso del rame nel mondo antico, l’argento ha assecondato, da sempre, con la sua malleabilità e con la bellezza del suo bianco fulgore, la fantasia creativa dell’uomo, nell’inesauribile istinto di trasfondere un’idea di bellezza sugli oggetti consueti della vita quotidiana, non meno che sugli strumenti e i simboli delle manifestazioni religiose.
Ora, assodato il ruolo-guida demandato agli argenti per accrescere la solennità della liturgia, è da rilevare che tanto le statue e i busti dei santi, quanto gli apparati da utilizzare sugli altari concorrevano, insieme alle stoffe preziose, a riverberare il brillìo delle luci in un’atmosfera di forte misticismo, ma anche di teatrale rappresentazione.
Napoli, primi scorci del Settecento: trecentocinquanta e più botteghe di argentieri convertivano gli enormi quantitativi di argento provenienti dalla Spagna e da questa importati da Città del Messico, in splendidi oggetti per una committenza ecclesiastica e laica di alto rango, dalle illimitate disponibilità economiche e per una classe poco abbiente, ma spinta dalla cieca fede a generose offerte. Sono questi gli ingredienti che, all’alba del XVIII secolo, trasformarono una materia, un regno e un’attività artigianale, in una delle massime e qualificate espressioni artistiche della civiltà rocaille, fino a toccare vertici produttivi e artistici, talmente alti e vasti da non trovare riscontro in altri centri italiani ed europei.
Sul piano ecclesiastico, dopo la Riforma Cattolica, la creazione di un “tesoro” patrimoniale e devozionale era quanto veniva raccomandato ai vescovi all’atto della nomina, e soprattutto nel Regno di Napoli, questa indicazione venne eseguita senza reticenze, ma con molta convinzione.
Gallipoli, sede di cattedra vescovile da secoli, fu assorbita enormemente in questo vortice di munificenza e magnificenza dell’arredo ecclesiastico e i vescovi che si alternarono nel XVIII secolo, in una tacita emulazione, fecero a
Quando provare ad eliminare significa recuperare, ovvero il capitone e il compositore…
Chi, soprattutto tra persone della mia età avvezze da tempo all’uso del pc, non decide ogni tanto di fare un po’ di pulizia eliminando files obsoleti, programmi superati o mai usati e simili? La cosa è piuttosto frequente quando il materiale da eliminare si trova su un hard disk (anche perché, al di là dei tera di cui si dispone e dei dispositivi interni o portatili, arriva sempre il momento in cui lo spazio per memorizzare altro è insufficiente) ma quando esso è stato depositato a suo tempo su un supporto non riscrivibile l’operazione viene sempre rimandata perché è fastidiosa (bisogna controllare il contenuto, il che richiede tempo e la richiesta diventa intollerabile quando del contenuto del supporto vale la pena salvare qualcosa), senza trascurare quelle motivazioni psicologiche (probabilmente distorte, forse un po’ meno di quelle di coloro che buttano via il cibo fresco o un paio di scarpe quasi nuovo… ) che spingono qualcuno come me in un eccesso di affettività a non sbarazzarsi di ciò che per gli altri (inclusa mia moglie…) è solo cianfrusaglia.
Recentemente son rimasto senza pc per una settimana e, siccome credo che anche un nano (con tutto il rispetto) non sarebbe in grado di usare la tastiera del palmare di mia moglie senza premere almeno tre tasti contemporaneamente, ho rinunziato perfino a controllare con quello strumentino (tiè!…) la casella email. Per non annoiarmi ho deciso di fare un po’ di pulizia nella stanza in cui lavoro (anzi, gioco, sempre secondo mia moglie…) e solo nel riordinare (lungi da me l’idea di buttare qualcosa, anche perché bisogna prima controllare, ma senza pc come si fa?…) le pile di cd e dvd mi sono imbattutto in un cd con la dicitura (per mia sfortuna essa non compare in tutti) backup novembre 1999. Mi ha assalito un attacco di autovoyeurismo che ho potuto soddisfare solo l’altro ieri, al rientro del pc. Vi ho trovato, tra altre cose da buttar via, due che mi sono precipitato a memorizzare su un nuovo dvd (lascio alle mie figlie l’incarico di controllarlo prima di buttarlo…e la perversione continua ). Si tratta di un fotogramma tratto da una vecchia pellicola in super 8 in cui si vede mio cognato Giuseppe accanto a sua sorella (mia moglie Annarita) a sua madre (Concettina) e al cognato Luciano che esibisce un capitone di notevoli dimensioni; io non compaio perché ero in quel momento l’operatore. Quel fotogramma era destinato ad attestare la veridicità di quanto asserivo nel post Li cicèri del 6 settembre u. s. ma, dopo averlo cercato inutilmente per più giorni, avevo rinunziato ad inserirlo. Lo faccio ora.
L’altro documento ritrovato è enormemente più importante, e non solo perché risale al 1575 e riguarda un compositore di Nardò.
Si tratta della copia digitale di una copia fotostatica, consultabile al CRSEC di Nardò, di un libro custodito nella Biblioteca Estense di Modena. Eccone il frontespizio.
Siamo in presenza di un’opera seriale, dal momento che ho notizia di un terzo1 libro del Serafico stampato nel 1581 sempre a Venezia ma, questa volta, da Girolamo Scoto erede e custodito a Bologna nel Museo Internazionale e Biblioteca della Musica. Va detto che pubblicazioni di tal genere fiorirono nella seconda metà del XVI° secolo e che il nostro autore probabilmente è un pigmeo (almeno rispetto alla quantità, sulla qualità, totalmente digiuno di cultura musicale, non ho l’incoscienza di dire la mia) rispetto a giganti come Giovanni Andrea Dragoni2 e, soprattutto, Filippo di Monte3.
Ma chi era Fra’ Benedetto Serafico? Mi ero posto questa domanda la prima volta che incontrai il testo in questione, ma riservai la risposta a tempi migliori; poi il destino ha voluto che essi coincidessero con l’avaria del pc.
Il suo nome non compare nel Dizionario biografico degli uomini illustri di Terra d’Otranto (Lacaita, Manduria- Roma, 1999) e quest’assenza è giustificata solo in parte dal fatto che non ne conosciamo la casata, dal momento che Benedetto Serafico è il nome assunto nell’Ordine. Tutto ciò che è dato sapere sul suo conto è legato al contenuto delle dedica che di seguito riproduco e trascrivo fedelmente.
ALL’ILLUSTRISSIMO ET ECCELLENTISSIMO SIG. MIO E PADRONE OSSERVANDISSIMO Il Signor Nicolò Bernardino Sanseverino Prencipe di Bisignano.4
Nel dar in luce questo mio primo parto Illustrissimo & Eccellentissimo Sig. Ho voluto fare a quella guisa che ne’ Theatri sogliono far coloro, che della prospettiva non sono ignoranti, i quali le statoue (sic) e li segni che per alcuni mancamenti dubitano ch’a gli occhi de’ loro (corretto manualmente) riguardanti non abbiano da sodisfare nelle parti più alte, & estreme ripongono, accioche (sic) con la lontananza ricoprano il difetto di quelli. Perciò che vedendolo io già maturo, e che le mie forze non possono farlo più perfetto, e conoscendolo non essere così intiero nelle sue parti,come si devrebbe; ho voluto porlo alla vista de gli huomini discosto da ogni occhio nella lontananza, e sublimità della grandezza di V. E. rendendomi sicuro, che sì come il Sole col molto lume abbaglia talmente la vista di chi mira, che no’l lascia scerner le stelle (non che l’altre cose più oscure, che per lo cielo insieme con lui corrono;) così anco il molto lume ch’a questi miei Madrigali darà lo splendore del sangue, e della virtù di V. E. farà, che non siano visti da quelli, che con maligno occhio li riguardano. Ella li prenda in grado solamente, ch’a me basterà, ch’à lei non dispiacciano. Non starò a dire, che miri l’animo grande di servirla, non alla piccolezza delle cose mie, e del dono, che se l’appresenta. Perciò che la generosità dell’animo suo è tanto grande, che supplicandola di questo le farei torto. Onde baciandole humilmente le mani, e pregando nostro Signor che le dia ogni colmo di felicità, quì fò fine. Di Napoli. A l’ultimo d’Aprile 1575.
Di Vostra Eccellenza
Obbligatissimo Servitore
F. Benedetto Serafico.
Non aggiunge granché alla nostra conoscenza la pagina seguente dedicata ai lettori, che, tuttavia, riporto (e trascrivo) perché costituisce una, simpatica quanto inconsueta, precauzionale rivendicazione del diritto d’autore ante litteram, con l’applicazione di una sanzione esclusivamente morale, anche se gli strumenti notarili citati suppongono una sorta di registrazione dell’opera e non escludono un’eventuale richiesta di risarcimento per avvenuto plagio.
AI LETTORI IL SERAFICO
Sono già da quattro anni benignissimi Lettori ch’io diedi questo medesimo libro di Madrigali a cinque voci a M. Oratio Salviani Romano libraro in Napoli, perch’egli li mandase a stampare a Venezia. Poi havendomi detto il medesmo M. Oratio haverlo inviato a detto loco, et che si fusse smarrito, io mi posi di nuovo a copiarlo et darlo fuora, toltone però alcuni Madrigali che erano in quello, et aggiontone gl’altri che dopò (sic) era venuto componendo. E perche (sic) dubito, che qualch’uno (sic) non l’habbi occupato overo attribuito a se stesso, ho voluto di ciò avertirli (sic), accioche (sic) se ciò accadesse, o fusse accaduto possiate convincerlo di manifesto furto, et tornate le sue fatiche al proprio auttore far quella beffa di lui che fecero i Pavoni della sfacciata Cornacchia, e così l’insegnaste a tenersi dentro la sua pelle, come si suol dire, e chi a pieno vorrà di ciò certificarsi, potrà il tutto vedere in Napoli nella Curia di seggio di Nido per un’istrumento fatto per mano del (sic) egregio Notaro Coluccio Casanova ne l’anno 1571 nel dì diece, et nove di Maggio; et per un’altro (sic) nella Vicaria scritto li dì diece di Ottobre, ne l’anno 1573 per mano del magnifico Terracciano Maestro de atti di detta Vicaria, presente il Reverendo Don Francesco Orso di Cilano Stefano Felis, et il Magnifico Messer Tarquinio persona di Gallipoli mio Procuratore in detta causa, et con questo vivete lieti virtuosi Lettori, e rendetevi sicuri che il Serafico è più di voi che di se stesso, tanto più s’intenderà havrete aggradite, queste sue fatiche, il che facendo li darete animo a gustar dell’altri frutti che produrrà piacendo al Signore il giardino del suo, benche (sic) non molto fertile ingegno.
Non domo per il mio fallimento come storico, mi avventuro ora su un terreno a me, almeno in teoria, più congeniale. Non esordisco felicemente neppure in questa parte perché per la definizione della parola madrigale cito passo passo quanto è riportato nel vocabolario Treccani on line:
madrigale s. m. [etimo incerto].
1.
a. Componimento poetico di origine popolare, che compare in Italia almeno dal sec. 14°, consistente all’inizio in un breve quadretto di natura campagnola e pastorale, talvolta tendente all’epigramma, con uno schema metrico fisso (due o tre terzine di endecasillabi variamente rimati seguiti da 1 distico a rima baciata o 2 a rima alternata), più tardi di tono complimentoso e galante, in endecasillabi o settenarî.
b. In musica, il termine indica sia le intonazioni a due o tre voci di madrigali trecenteschi, opera di musicisti italiani attivi nel sec. 14° e che appartenevano alla corrente stilistica dell’ars nova, sia la maggior parte delle composizioni polifoniche su testi profani non strofici scritte, soprattutto in Italia, a partire dalla prima metà del sec. 16° e che erano denominate madrigali indipendentemente dalla forma metrica del testo musicato (poteva trattarsi di madrigali cinquecenteschi, di stanze di canzone o di ballata, di ottave, di sonetti, ecc.): i m. di F. Landini, di C. Monteverdi, ecc. M. spirituale, madrigale poetico o musicale d’argomento sacro o devozionale. M. concertato, madrigale musicale scritto per un organico vocale e strumentale secondo la tecnica del basso continuo e molto diffuso nei primi decennî del Seicento.
2. fig. Complimento galante, scherzoso o lezioso: si compiaceva nell’ascoltare i madrigali dei suoi ammiratori. Dim. madrigalino, madrigalétto; spreg. madrigalùccio; accr., scherz.,madrigalóne.
È evidente che i madrigali scritti dal nostro rientrano in 1b, ma è altrettanto evidente che tutti i madrigali musicalmente intesi sono figli, per quanto riguarda il testo, di quelli letterari. A questo punto era fatale per me restare vittima della voglia di individuare le fonti testuali. Siccome, però, il risultato è piuttosto corposo, mi limito qui a proporre solo un saggio: un pezzo del Petrarca (XIV° secolo) ed uno del Sannazaro (XV°-XVI° secolo), ma il Serafico si serve anche di altri autori come l’Ariosto e il Bembo (XV°-XVI° secolo).
Francesco Petrarca, Canzoniere, rime in morte di Madonna Laura, canzone XLVI, vv. 67-72
O voi che sospirate a miglior notti,
ch’ascoltate d’Amore o dite in rime,
pregate non mi fia più sorda Morte,
porto delle miserie e sin del pianto.
Muti una volta quel suo antico stile,
ch’ogni uom’attrista e me può far sì lieto.
Jacopo Sannazaro, Rime, canzone V, vv. 13-18
O fere stelle, omai datemi pace;
e tu, fortuna, muta il crudo stile:
rendetemi a’ pastori ed alle selve,
al cantar primo, a quell’usate fiamme;
ch’io non son forte a sostenere la guerra
ch’Amor mi fa col suo spietato laccio.
Ho già detto della mia totale ignoranza della musica, ma gli spartiti appena riprodotti vogliono costituire un invito all’appassionato e al competente perché dia a questo post l’integrazione che il compositore di Nardò, comunque, merita.
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1 Il secondo è definito perduto in Claudio Sartori, Enciclopedia della musica, Rizzoli-Ricordi, Milano, 1972-1974, v. IV°, pag. 298.
2 Di Giovan’Andrea Dragoni da Meldola maestro di capella di s. Gio. Laterano, il primo libro de madrigali a cinque voci, con un dialogo a otto nel fine, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1575.
Di Giovan’Andrea Dragoni da Meldola maestro di capella di s. Gio. Laterano, il secondo libro de madrigali a cinque voci, Venezia , erede di Girolamo Scoto, 1575.
Di Giovan’Andrea Dragoni da Meldola maestro di capella di s. Gio. Laterano, il terzo libro delli madrigali a cinque voci, con uno a sette nel fine, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1579.
Di Giovan’ Andrea Dragoni maestro di capella di s. Gio. Laterano, il primo libro de madrigali a quatro voci,Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1581.
Di Giovan’ Andrea Dragoni maestro di capella di s. Giovan Laterano, il primo libro de madrigali a sei voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1584.
3 Il primo libro delli madrigali a sei voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1574
Di Filippo Di Monte maestro di cappella della s.c. maestà de l’imperatore Massimiliano secondo, il primo libro delli madrigali a cinque voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1576.
Di Filippo Di Monte maestro di cappella della s.c. maestà dell’imperatore Massimiliano secondo, il quarto libro delli madrigali a cinque voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1576.
Di Filippo Di Monte maestro di cappella della s.c. maestà dell’imperatore Massimiliano secondo, il secondo libro delli madrigali a cinque voci. – Venezia : erede di Girolamo Scoto, 1576.
Di Filippo Di Monte maestro di cappella della s.c. maestà dell’imperatore Massimiliano secondo, il secondo libro delli madrigali a sei voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1576.
Di Filippo De Monte maestro di cappella della s.c. maestà dell’imperatore Massimiliano secondo, il terzo libro delli madrigali a cinque voci, con uno a sette nel fine, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1578.
Di Filippo Di Monte maestro di cappella della s.c. maestà dell’imperatore Rodolfo secondo, il secondo libro delli madrigali a cinque voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1580.
Di Filippo Di Monte maestro di cappella della s.c. maestà dell’imperatore Massimiliano secondo, il primo libro delli madrigali a sei voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1582.
Di Filippo Di Monte maestro di cappella della s.c. maestà dell’imperatore Massimiliano secondo, iI secondo libro delli madrigali a sei voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1582.
Di Filippo Di Monte maestro di cappella della s.c. maestà dell’imperatore Rodolfo secondo, il primo libro de madrigali a sei voci , Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1583.
Di Filippo De Monte, il primo libro de madrigali a quatro voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1586.
Di Filippo Di Monte maestro di cappella della s.c. maestà dell’imperatore Rodolfo secondo, il secondo libro delli madrigali a cinque voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1586.
Di Filippo Di Monte maestro di cappella della sacra cesarea maestà de l’imperatore Rodolfo secondo, l’ottavo libro delli madrigali a cinque voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1586.
Di Filippo Di Monte maestro di cappella della sacra cesarea maestà dell’imperatore Rodolfo secondo, il secondo libro delli madrigali a cinque voci, Venezia, erede di Girolamo Scoto, 1598.
4 (1541-1606), V° principe di Bisignano, figlio di Pietro Antonio e Irene Castriota Scanderbeg, sposò nel 1565 Isabella della Rovere, principessa di Urbino.
Col tempo e con la paglia maturano le nespole (Meddrhe – Mespilus germanica L.)
di Antonio Bruno
Mespibis germanica L. i Greci antichi lo chiamavano méspilon, Linneo pensava, sbagliando, che la Germania fosse l’area d’origine. Il caro amico Gigi, grande affabulatore, narratore del mondo che riesce a penetrare con le sue parole misteri altrimenti inesplicabili ha puntato il faro della sua sapienza sulle Meddrhe o Nespolo Comune costringendomi a ricordarlo e a farvelo ricordare.
“Thre suntu le cose ca ti nnudacanu lu core: le meddrhe, li cutugni e le male parole” Traduzione “tre sono le cose che lasciano senza respiro il cuore: le nespole, i cotogni e le cattive parole”
Se l’agricoltura e il turismo vanno di pari passo ecco che nelle strutture di accoglienza appaiono gli alberi da frutto di cui sente parlare poco che producono frutti misteriosi e tra questi le “Meddrhe”, che poi sono le Nespole che vengono prodotte dal Nespolo Comune o Mespilus germanica. Era domenica scorsa quando Gigi Di Mitri sapientemente ha iniziato a parlare di ciò che nella vita conta, dei sapori e degli odori del Salento leccese ed è così che me l’ha ricordato durante una cena vegetariana a Zollino. Il caro amico Gigi, grande affabulatore, narratore del mondo che riesce a penetrare con le sue parole misteri altrimenti inesplicabili ha puntato il faro della sua sapienza sul Nespolo Comune costringendomi a ricordarlo e a farvelo ricordare.
Chi fa accoglienza rurale, e anche chi fa accoglienza in questi splendidi alberghi del Salento leccese, se offre agli ospiti il gusto di questo frutto ecco che riesce a dare un immagine di genuinità evocata da queste essenze arboree dell’ambiente antico del nostro Salento leccese che in tutti i tempi, e ora come allora, è stato attraversato dai popoli della terra che dal Nord andavano ad Est e che oggi da Sud arrivano in Europa.
I Greci antichi lo chiamavano méspilon e nespolo deriva dal latino Mespilium, tradotto dal greco mespilon, che si riferisce a biancospini orientali simili a questa pianta da frutto.
Le meddhre (Mespilus germanica) erano frutti consacrati al dio greco Crono e al Dio latino Saturno perché era considerato utile arma di difesa contro le energie negative degli stregoni.
Pare che il primo maggio, secondo la credenza, gli stregoni potevano privare la pianta del fogliame e renderlo sterile per non riprodurre i suoi frutti, ma solo se la pianta non era stata benedetta.
Anticamente i medici credevano che avesse il potere di regolare i flussi intestinali. Questa utilizzazione riprese all’inizio del secolo con una sperimentazione a livello ospedaliero da parte di un medico francese, il Dott. Mercier, che ottenne buoni risultati sulla regolazione delle diarree.
Nel Bollettino della Società dei naturalisti in Napoli è riportato uno scritto del Della Porta sulle varietà di nespolo (Mespibis germanica L.) che si coltivavano ai suoi tempi:
“I nostri nespoli sono di due specie, uno a frutto grande quasi quanto una mela, coi rami privi di spine, ed è coltivato e perciò ha perduto l’abito selvatico; l’altro, irto di spine, che nasce nelle selve e nei luoghi incolti , a frutto piccolo e più acerbo e che appena si può mangiare dopo che si è maturato lungo tutto l’inverno, e a Napoli lo chiamano niespolo canino. Ve n’è poi una terza specie, a frutto più stretto ed allungato, senza noccioli, che credo piuttosto un prodotto della coltura e della bontà del terreno, piuttosto che un genere diverso, perchè dallo stesso albero si hanno frutti rotondi con nòccioli e frutti oblunghi e senza noccioli”.
Quindi ci sono tre varietà di nespolo cioè il Mespilus germanica L., che corrisponde al nespolo canino; il M. g. apyrena, che è Vinternis ossihìiscarens di Della Porta; e il M. g. fructìt maximo, che è quello descritto
E’ un un albero che ha avuto origine nella penisola balcanica sud orientale, nel Caucaso, in Crimea, nel Nord dell’Iran ed in Turkmenistan. Il nome germanica che fu adottato da Linneo riteneva da una presenza molto forte in Germania che fece pensare a Linneo che quella fosse l’area d’origine.
Era noto insieme al cotogno come frutto astringente; infatti Nicolas Alexander, benedettino, nel 1751 scrive: “lo si impiega all’interno ancor verde, nei flussi di ventre, la dissenteria, i vomiti, la nausea e in tutti i casi in cui le fibre rilasciate hanno bisogno di essere ristrette”.
Henry Leclerc medico francese 1870-1955 scrittore del libro Lineamenti di Fitoterapia fece uno sciroppo di nespolo che risultò efficace nelle diarree infantili.
L’albero può raggiungere l’altezza di 6 metri ed è caratterizzato quasi sempre da un tronco storto. Le foglie sono grandi e caratterizzate da una leggera peluria nella pagina inferiore e una seghettatura vicino alla punta, i fiori sono bianchi. Interessante la maturazione dei frutti: ricordate il vecchio adagio “col tempo e con la paglia maturano le nespole”? Bene, le nespole o meddrhe vengono raccolte in autunno e lasciate ammorbidire in un cesto mettendogli accanto un paio di mele per un paio di mesi. In questo modo diventano dolci altrimenti sono molto astringenti.
La decozione delle foglie e dei frutti è utile come gargarismo nei mal di gola.
La tradizione popolare conosceva l’impiego antidolorifico, in caso di mal di stomaco, dei frutti secchi polverizzati.
Il decotto dei frutti freschi, non ancora maturi, era somministrato nelle affezioni epatiche.
Forse ho scritto delle nespole, oltre che per la fortissima suggestione che mi ha dato domenica Gigi Di Mitri, perchè il tempo è galantuomo, lo riscontro in ogni circostanza e con il tempo “i muri si abbassano” come mi disse Rino De Filippi un vecchio ormai scomparso segretario di un vecchio e ormai estinto partito nel quale mi onoro tuttora di aver militato in giovinezza. Bibliografia
Giancarlo Bounous, Elvio Bellini, Gabriele Beccaro, Laura Natarelli: Piccoli Frutti e Fruttiferi minori in montagna tra innovazione e tradizione Markus Kobold:Liquori d’erbe e grappe medicinali I Nostri frutti nelle TRADIZIONI POPOLARI e nella fitoterapia, Categoria Etnobotanica, Frutti, Tradizioni Popolari, Contributo al Convegno sui Frutti Dimenticati di Casola Valsenio http://www.etnobotanica.org/category/tradizioni-popolari/ Bollettino della Società dei naturalisti in Napoli 1914 http://www.archive.org/stream/bollettinodellas26soci/bollettinodellas26soci_djvu.txt
Henry Leclerc : Lineamenti di Fitoterapia
Elvio Bellini – Edgardo Giordani: Riscopriamo i fruttiferi minori
Taranto, Ponte Punta Penna Pizzone. Realtà o fantasia?
“Anche a non essere mai esistito, bisogna inventarseloil ponte che alcuni studiosi di antichità tarantine dicono congiungesse la Penna al Pizzone”
(Vito Forleo, Taranto dove lo trovo)
Non tutto ciò che affermiamo è documentato come dato certo… spesso c’è traccia di leggenda…
E allora scopriamo e cerchiamo di saperne di più di questa città. Una prima disquisizione interessa il Ponte Punta Penna Pizzone.
Scrittori antichi e moderni hanno trattato o accennato all’antico ponte di Taranto. Esaminiamo insieme questi aspetti che risultano interessanti ed intriganti.
Il Merodio (1), nella sua Historia tarentina parladell’esistenza di un ponte fra Punta Penna e il Pizzone. Testualmente così scrive: “Però si vede chiaramente che il gran sito dell’antica città prima che fusse soggiogata da Fabio Massimo, poiché si vede il principio delle fosse della lama di S. Giovanni, luogo ormai distante dalla città 5 miglia circa, come anco hanno osservato li nostri antichi. Nel luogo dove oggi si dice il Pozzone era il Myonceo, come scrive Polibio (libro VIII), vicino al quale vi era il poggio detto di Apolline Giacinto alla riva del Mar Piccolo; dove anco era la famosissima porta chiamata Temenida dalla quale cominciava un superbo ponte sotto il quale scorreva detto mare e terminava alla riva opposta detta la Penna, dove era un gran borgo abitato dalli Piscatori, e guardato da una forte torre, per lo che fu detto Turripenna”.
Tale dato, riportato quasi esclusivamente da scrittori locali, lascia spazio a tanti quesiti, in quanto ci domandiamo come un’opera tanto determinante in
Suoni di pietra: indagine del Cnr nella chiesa grotta di San Michele
Le chiese rupestri di Gravina in Puglia continuano a suscitare sempre di più e nuovi interessi da parte di studiosi e ricercatori, assetati e affamati di storia vera, autentica e genuina. O più esattamente, sempre più desiderosi di accostarsi alle fonti primordiali di una storia sacra che ha lasciato i suoi segni indelebili con le pitture murali, sottoforma di affreschi, ora bizantini, ora medioevali, ora tardorinascimentali.
Dopo l’intenso periodo di lavoro, durato circa 15 giorni e di cui abbiamo già scritto su questo sito, vissuto dall’ équipe di giapponesi, provenienti dall’Università di Kanazawa, guidata dal professor Miyashita, ecco che la città, situata sull’orlo del burrone e torrente da cui prende il nome, viene nuovamente “presa di mira”, con un nuovo progetto denominato: “Suoni di Pietra”.
Suoni di pietra è un progetto promosso dal Dipartimento di Architettura e Urbanistica del Politecnico di Bari, dedicato alla caratterizzazione acustica di alcune chiese rupestri dislocate in diverse zone della regione: fra esse anche la Grotta di San Michele a Monte Sant’Angelo sul Gargano.
Scopo principale del progetto, finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Puglia, è lo studio, la catalogazione e la fruizione dell’ambiente sonoro delle chiese, al fine di valorizzare le caratteristiche acustiche e ricreare in realtà virtuale le atmosfere delle celebrazioni sacre dei secoli medievali.
Anche Gravina è stata inserita nell’iniziativa grazie al coinvolgimento, come storico locale, della prof.ssa Marisa D’Agostino, presidente dell’Associazione Amici della Fondazione E. Pomarici – Santomasi, incaricata di fornire un supporto storico alla ricerca, relativamente al sito preso in considerazione.. Infatti, nei giorni scorsi e quasi contestualmente alla missione giapponese, un gruppo del Cnr si è messo a lavoro, per conto del Politecnico, per effettuare alcune prove tecniche e rilievi con il laser scanner all’interno della chiesa grotta di San Michele, la più rappresentativa del patrimonio rupestre gravinese. Dai dati che emergeranno, frutto di due giorni di permanenza in questa cavità naturale, potrebbero essere coinvolte anche altre chiese di ugual natura che insistono sul territorio, ma potrebbero essere coinvolte anche alcune scuole cittadine, soprattutto quelle medie di secondo grado. Mentre la stessa chiesa, alcuni giorni fa è stata fatta oggetto da parte di vandali, incoscienti e criminali, di quell’atto sacrilego e blasfemo culminato nel trafugamento della corona dal capo della statua di san Michele.
Mentre da ogni dove vengono segnalati analoghi atti di insipienza umana, culturale, di aberrante inciviltà contro alcune testimonianze storiche e patrimoni culturali, che, comunque sono stati, purtroppo segnalati, nella speranza di sensibilizzare quanti e tutti a recuperare una dimensione di tutela, salvaguardia, vigilanza e fruizione, dall’altra si notano segnali positivi di ripresa di studi, di ricerche, finalizzati a far conoscere i misteriosi valori e potenzialità che questi tesori posseggono e conservano e mai esplorati fin d’ora.
Tutto quello che è avvenuto, nel più stretto rigore scientifico, di competenza, di passione, di professionalità, può essere soltanto l’inizio di un interesse ridestato da parte di chi, facendo cultura tutti i giorni, è capace di dimostrare quanto siano importanti certi studi.
Quanto sia importante, non solo ai fini della conoscenza, non fermarsi nello scrutare ciò che non è mai un bene abbastanza definito o conosciuto. La internazionalizzazione, da una parte, con i docenti e gli alunni universitari di Kanazawa; la regionalizzazione o localizzazione, dall’altra, con il Politecnico di Bari, produrranno i loro frutti. Le loro risultanze saranno un’altra tappa fondamentale nel cammino di ricerca, ma soprattutto, di nuovi strumenti da fornire ai visitatori, ad altri studiosi, ai turisti non distratti e non superficiali che interagiranno con le stesse realtà storiche già conosciute, ma con nuovi risvolti, con gli arricchimenti che la tecnologia più avanzata è stata capace di mettere e mettersi a servizio dell’uomo contemporaneo, frastornato, forse, negativamente dai bombardamenti del tecnologismo abusato, incontrollato e non da quello positivo che lascia i suoi segni per riscrivere nuove e fresche pagine di storia.
“L’uomo ha raccolto tutta la saggezza dei suoi predecessori,
e guardate quanto è stupido“
(Elias Canetti)
San Mauro con il tetto rosa. Parto dal bell’articolo pubblicato oggi, sabato 17 su Paese Nuovo, a firma Francesco Pasca (il sorriso rosa di San Mauro) per comprendere, almeno per tentare di farlo. “Spero in un inizio di questo tipo se si vorrà raccontare un luogo. E’ così che vorrei iniziasse la nuova storia dell’abbazia di San Mauro… nella fattispecie di quel che oggi è un composto rudere onorato dal restauro posto “ieri” da altre motivazioni sulla Serra Salentina, sul gigante millenario che non è dato, né curato mai tingersi di verde, di spontanea macchia mediterranea…” prova ne siano le (artatamente) bruciacchiate sterpaglie attorno alla chiesetta che possono preludere ad un tentativo di cementificazione ulteriore della costa salentina. E termina l’articolo con parole di liberazione autentica “Potessi farei tinteggiare di rosa il mondo, per ripulirlo con il Nuovo che non è questo Nuovo.”
I giovani, plurale, arduo e troppo complesso per una sola persona, foss’anche un artista delle tinteggiature, hanno osato sfidare ed hanno dato visibilità, oltre che suscitare l’indignazione collettiva, ad una chiesetta abbandonata nonostante restauri fatti negli anni, hanno osato osare l’impossibile. Confesso
La chiesa di San Mauro, austera, solitaria e guardinga. Un monoblocco di cristiane speranze, scarno, allocato sulla “rupe dritta”, fra sassi secolari e sterpi spinosi. Il Sud ha tanto da raccontare di chiese e di santi. Sciocchi noi a non sapere ascoltare. Stupidi a non apprezzare la bontà di una chiesa così singolare e umile. L’attrazione del mare è più forte e la chiesa vive il tempo dell’eternità, sconquassato nei mesi estivi dai rumori della discoteca sita a valle, sulla strada Sannicola-Lido Conchiglie.
Questa chiesa che per secoli ha vissuto nell’anonimato di un luogo, fra tante difficoltà, ha saputo resistere all’incuria degli uomini. Oggi però è alla ribalta della cronaca per un atto vandalico perpetrato da ignoti disonesti.
Quando ho letto sul sito Spigolature salentine la notizia che il tetto della chiesa era stato imbrattato da vernice rosa, istintivamente ho sorriso. Ciò non sia inteso però come atto d’irriverenza. Ho invero ritenuto il gesto inusuale e inaspettato e sotto certi aspetti simpatico, perché colorare di rosa il tetto di una chiesa è in sé un fatto originale. Ovviamente questa mia riflessione è da condurre alle concezioni e forme proprie della mia poetica e non vuole in nessun modo giustificare l’atto. Quanto è stato fatto alla piccola chiesa è deplorevole e inqualificabile. Forse l’autore del gesto voleva lasciare una traccia di sé, un segno che potesse soddisfare la sua voglia di testimoniare qualcosa, come a volere dire “io ci sono”, “sto qui”. Forse ha voluto emulare qualcuno che solo pochi giorni fa si è distinto a Roma per un altro gesto simile. È necessario capire e intervenire per aggiustare meccanismi perversi di rappresentazioni di follie individuali e collettive.
Ora la chiesa di San Mauro è in sofferenza, e solo Dio nella sua infinita bontà può perdonare l’uomo che ha sfigurato il monumento e il paesaggio rupestre. Gli uomini facciano il proprio dovere, attivandosi immediatamente per riportare le cose come erano prima, affinché la chiesa possa continuare a perpetuare il sentimento religioso di quei monaci basiliani che intesero tanti secoli fa erigere con la pietra dura e forte della terra del sud.
Non mi dò pace. Inutilmente cerco di darmi una spiegazione sul gesto inconsulto commesso nella giornata del 15 settembre ai danni del monumento insigne che da secoli domina il bellissimo tratto di costa ionica tra Gallipoli e Lido Conchiglie.
Alla cura meticolosa e sacra dei monaci italo-greci di rito bizantino che vi hanno officiato per secoli subentrò l’abbandono per oltre un secolo. Qualificati mercanti nel frattempo strappavano alcuni dei bellissimi affreschi che la decoravano. Finalmente il recupero da parte dell’amministrazione di Sannicola, nel cui territorio ricade il bene, con tentativi di rivitalizzazione dell’ameno luogo. Denaro speso per proteggerlo, per restaurarlo nelle parti più
San Mauro. Il Gruppo Archeologico di Terra d’Otranto si costituisce parte civile
All’indomani della denuncia contro ignoti presentata dal Comune di Sannicola (Le) proprietario dell’abbazia bizantina di San Mauro, nel tratto costiero S. Maria al Bagno – Gallipoli, a seguito dell’ignobile atto vandalico che ha colpito la chiesa abbaziale tingendone il tetto e le murature di vernice rosa, il Gruppo Archeologico di Terra d’Otranto esprime tutta la propria indignazione per il grave gesto, che testimonia ancora una volta lo stato d’emergenza in cui versano i beni culturali della Nazione.
Da tempo denunciamo ripetutamente lo stato di abbandono e negligenza di chi, pur avendo l’obbligo di provvedere alla cura e salvaguardia dei monumenti, di fatto non reputa necessario procedere ad azioni all’uopo mirate, e che costituisce la base su cui si sviluppano gli atti vandalici che tristemente registriamo in maniera ripetuta.
Augurandoci che le forze di pubblica sicurezza concludano nel tempo più breve le indagini e si giunga all’identità dell’attentatore, sin d’ora comunichiamo la nostra intenzione a costituirci parte civile nel processo a
E’ stata una particolare esperienza quella del calarsi nella vita di Giuseppe Desa da Copertino. Il santo dall’eccezionale carisma della profusione completa, di corpo e spirito, nel Verbum Dei, sino a sollevarsi in volo.
Tutti i suoi accadimenti sono diventati per me come una seconda pelle, da cui permeare le difficili vicissitudini della sua vita. Ad iniziare dalla sua fanciullezza passata in solitudine a causa della sua salute, passando poi alla sua, spesso ribadita, inettitudine. Senza poi tralasciare il suo particolare attaccamento all’immagine della Madonna della Grottella. Nella quale probabilmente, sublimava il mancato affetto di sua madre Franceschina, donna parca di effusioni, dal carattere duro.
Le poesie che qui seguono nascono, e si ascrivono, all’interno di una
La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione
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