La Maddalena in gloria del Lanfranco in San Pasquale a Taranto

 

Un inedito di Lanfranco

 

di Nicola Fasano

La sacrestia della chiesa San Pasquale di Bylon di Taranto conserva numerosi dipinti di autori importanti quali Cesare e Francesco Fracanzano, Leonardo Antonio Olivieri e una tela attribuita a Luca Giordano. Con questo mio articolo voglio fare luce su un dipinto di alta qualità, sfuggito alla critica, raffigurante la “Maddalena in gloria”, ascrivibile ad uno dei più importanti artisti del Seicento, Giovanni Lanfranco.

Il pittore, esponente di primo piano della pittura seicentesca e della decorazione barocca, fu allievo di Agostino e Annibale Caracci e si ricorda come autore di importanti cicli pittorici nelle chiese di Roma e Napoli, oltre ai molti quadri conservati nei musei più importanti del mondo tra i quali il Louvre.

Tornando alla tela tarantina, la Maddalena è raffigurata mentre sale in cielo sorretta da un gruppo di cherubini, uno di essi sembra mostrare compiaciuto allo spettatore il vaso contenente l’unguento che servì alla Penitente per profumare i piedi del Cristo.

L’iconografia è ricorrente nell’età barocca dove il soggetto viene rappresentato ignudo e coperto da fluenti capelli, adagiato su un banco di nubi come una Venere.

Dal punto di vista compositivo, il pittore si avvale di un luminosità rivelatrice, svelando nella parte bassa accesi contrasti chiaroscurali che esaltano il vigoroso incarnato dei putti e nella parte alta una luce abbagliante di provenienza ultraterrena, che staglia la Maddalena su un fondo dorato e dà risalto all’estasi della figura e alla forte carica spirituale, preludendo al clima esaltante del barocco.

Il dipinto si può mettere in relazione con una tela similare di analogo soggetto, esposta nella mostra sul pittore parmense tenuta a Napoli nel 2002, tela che si trovava a Genova in collezione privata, ed ora sul mercato antiquariale (AA.VV. Giovanni Lanfranco, Barocco in luce, Napoli 2001 p. 43) .

La tela in San Pasquale potrebbe provenire dalla ricca quadreria di casa Carducci che annoverava probabilmente l’apostolado dei Fracanzano, conservato ora nella stessa sacrestia. Solo degli approfonditi riscontri archivistici darebbero, però, la definitiva certezza sulla provenienza del quadro.

L’influenza di Giovanni Lanfranco a Taranto si riscontra anche in altre opere, come nel celebre affresco di Paolo De Matteis nel cappellone di San Cataldo, che nella disposizione dei personaggi e nel bagliore dorato richiama il Paradiso che Lanfranco aveva affrescato a Napoli nella Cappella del Tesoro.

Taranto si fregia così di un artista di primissimo piano della poetica barocca, nella speranza di un risveglio culturale e di una consapevolezza dei nostri tesori, spesso celati e poco fruibili.

Vini/ Jo, Figlio di Terre Libere

di Pino de Luca

Il nostro viaggio in compagnia di Bacco, Euterpe e Polinnia, ci porta da Copertino a Taranto.

È ancora estate, la costa dello Jonio, quando è scevra dall’opera dell’uomo, è splendida, spiagge bianche e acqua cristallina. Una volta a Cuba ci venne da dire: che bel mare, sembra di stare ai 4 Gatti …. Da Copertino si scende verso Porto Cesareo e si percorre la Litoranea: Torre Lapillo, Punta Prosciutto, Torre Colimena, Specchiarica, San Pietro in Bevagna, pausa, un vigneto a due passi dal mare, alberelli schierati come militari in formazione, alberelli che portano i segni del tempo, non sono reclute, sono veterani che hanno molto combattuto. Son li, testimoni di mezzo secolo di storia, senza piegar la testa, a difesa di un fazzoletto di terra rossa e feconda.

Poi ancora la costa fino a Lama, alla casa di un giovane che solo sette anni or sono ha deciso di diventare agricoltore, anzi vignaiolo. E di questa terra si è innamorato e di questi ceppi vetusti. E la vigna gli ha risposto non certo con la baldanza e la copiosità della gioventù ma con la forza serena della qualità e dell’esperienza.

Gianfranco Fino e sua moglie, Simona, (http://www.gianfrancofino.it )hanno legato alla terra il loro futuro, consapevolmente e per scelta. Non

Piazzetta Giosué Carducci a Lecce: luogo di cultura e vandalismo

Lecce, piazzetta Giosuè Carducci (ph Giovanna Falco)

di Giovanna Falco

 

Da le vie, da le piazze glorïose, / Ove, come del maggio ilare a i dí / Boschi di querce e cespiti di rose, / La libera de’ padri arte fiorí;

Questi versi di Carducci calzano a pennello con le vicende recenti e passate della piazza di Lecce dedicatagli nel 1904[1]:

 

le piazze glorïose: è pregno di storia questo larghetto su cui, sin dal XIII secolo, si affacciava il Convento di San Francesco d’Assisi, spiazzo la cui toponomastica ne sintetizza la storia: largo dei Gesuiti (1832), piazzetta degli Studi (1871), piazzetta Giosuè Carducci (1904);

Boschi di querce: richiama una delle figure nello stemma civico di Lecce;

cespiti di rose: Ilias Miahm è il venditore di rose aggredito nei pressi della piazzetta;

La libera de’ padri arte fiorí: è questo un luogo d’istruzione, che, dal 1816 al1960, ha formato generazioni di giovani leccesi.

L’ignobile aggressione a Ilias Miahm, avvenuta il quattro novembre nei pressi della piazzetta, ha scatenato una ridda di reazioni contrastanti, ben evidenziate dalla stampa nell’ultimo mese: se da una parte si è potuto assistere al flash mob antirazziale in piazza Sant’Oronzo[2] e ascoltare le critiche costruttive di Gerard Depardieu[3] e di tutti coloro che sono avvezzi a proporre e non a disporre, dall’altra si è assistito alla richiesta di far chiudere lo spiazzo, azione che causerebbe la conseguente migrazione in altro spazio dei maleducati che insozzano la piazza e le sue vicinanze, con la conseguente preclusione ad accedervi delle persone che la rispettano e la amano, anche nelle ore serali. Nel frattempo si sono intensificati i controlli delle forze dell’ordine. Ben venga! Da molto tempo gli esasperati residenti della zona, segnalano i disagi causati dal non saper convivere[4], sino ad ora, però, sono state pochissime o nulle le azioni mirate a far rispettare questo slargo[5].

Chi maltratta piazza Giosuè Carducci è consapevole di offendere, non solo i residenti della zona, ma anche un’istituzione fondamentale di Lecce e

Cosa bisogna sapere e come coltivare la rapacaula (Brassica rapa sylvestris)

Il Paesaggio del gusto del Salento: la rapacaula (Brassica rapa sylvestris)

di Antonio Bruno

Se da Lecce prendete la strada per Galatina e dopo aver percorso la deviazione per Soleto al secondo rondò (quello con la stazione di servizio del Metano) arriverete alla fine sulla strada per Collepasso. Dopo il rondò dell’incrocio con Cutrofiano ed Aradeo su quella strada di quella che fu la Villa Speziali che si dice sia stata realizzata dal Porcinai c’è una gran vendita di verdure. Sono coltivate sui terreni profondi che stanno a sinistra e a destra della strada e vendute da ognuno dei coltivatori.

Sono tutte verdure freschissime e gustose. Oggi mi soffermerò sulla rapacaula del Salento che viene detta a Bari “Cima di rapa” mentre a Napoli “friarielli”.

Poesie popolari del Salento/ Ton Dumenicu

Mamma Lucia Giustizieri (Neviano 1919-Collemeto 1994). Foto del 1993.

 

di Alfredo Romano

PREMESSA

Si tratta di una poesia popolare che mia madre Lucia declamava spesso, soprattutto nei matrimoni. Il linguaggio della poesia è piuttosto arcaico e devo dedurre che abbia avuto origine a Neviano dove è nata mia madre. In basso il link dove (con qualche mia commozione) si può ascoltare la voce di mamma che declama la poesia. La registrazione risale ai primi anni Ottanta del secolo scorso.

Ton Dumènicu

Pascalina ndrìzzate šciacquata netta netta
lu sciuppariennu mìntite cuarnitu te sarretta
sta bene ton Dumenicu e šcìa cu llu nutaru
facìmu stocchi stiendi carta penna e calamaru.

Ce beddha sorta ca te truàu lu tata
è beru ca cuarda pècure ma è ccòmutu binchiàtu
tene lu cranu a ttùmani chinu te vettuvàje
crišce ‘nu porcu màsculu quantu na muntagna.

Iu quandu ulìa ton Dumenicu sulu se nde venìa
ca iu chiaru li parlava ca iddhu sulu ulìa.
A propositu sulu sta se nde vene
trasi ca nun c’è ssìrama tte cuntu le mie pene.
Iu quandu vitti sìrata mmiènźu lla chiazza
zziccài ffucire comu nu lampu comu nu tronu
cu begnu bìsciu tie beddha racazza.

Osci è mmatrimoniu e tte tocca nu pecuraru.
Num bòju lu pecuraru ca me fete te rrumatu
voju tie ton Dumenicu ca sî beddhu e ssî ngraziàtu.

A ddhu frattiempu se truàu ttrasire lu Làźaru, lu sire e llu tutore.
Bongiornu ton Dumenico
Bongiornu Pascalina.
A ttutti lu postu ca li spetta
ton Dumenicu te coste mmie sse ssetta.

Pascalina, cce imu te fare?
Scrivi tavule e tristièddhi, saccuni e tre ccušcìni
lu nanti jettu scàpulu cu ssei lanzùli fini
tuvàje cuperte šciucamani
zzìnzuli scrivi na quarantina
fazzuletti trìtici te tela
na naca cu do’ càmpici semmai ffacìmu fili
na beddha càšcia usata
tunque nutaru scrivi casa è reggimentata.
Se po’ ssapìre lu mbròju ci facìti? tisse lu sire
ca a ccinca tati fìjama voju mme la ticìti.

Cittu tata ca iu su’ mmaritata circa tre giurni ca imu fattu la frittata.
Lu sire quandu ntise te cusìne zziccàu la seggia e nne la tiràu ‘n capu.
Tice: Cristiani mi’ iutàtime ca patiscu te cunvursioni
intru la ventre mia me sentu lampi e troni
e cci fìjama patišce te ‘sta mmalatìa ton Dumenicu cu sse la pija.[1]

La cernia che rese un tomolo di piselli

ph Giorgio Cretì

di Giorgio Cretì

Aveva dodici anni e andava in mare con Carmine, un vecchio pescatore cui mancava una mano, con un pic­colo schifo di non più di nove palmi(1). Suo padre ancora non lo portava con sé, perché riteneva che l’arte del padre, per impararla bene, bisognava stare sotto un altro che fa lo stesso mestiere. Almeno per un po’. D’altra parte, Carmine era una bra­va persona e, malgrado la mutilazione, anche un ottimo marinaio. Da lui Nunzio poteva imparare molte cose.

Con una barca così piccola non andavano molto lontano, ma, quando il mare lo per­metteva, doppiavano Punta Mucurone e si allontanavano, a volte, fino alle Striare dove Carmine conosceva un pascolo sotto una pic­cola sorgente di acqua dolce e, se ne valeva la pena, buttava una botta. Proprio fino a Santa Cesarea non ci arrivavano mai e pescavano sempre tra la Zinzulusa e Porto Miggiano.

Durante il tragitto era sempre Carmine a remare, ma quando si fermavano sopra un banco di sabbia o sopra una colonia di alghe, e bisognava tenere la barca in surplace  senza gettare la màzzara(2), ai remi stava sempre Nunzio.

Carmine non possedeva reti e pescava sempre con la togna(3), ma il pesce che prende­va in quei tempi di miseria profonda, gli era sufficiente per sopravvivere.

Nunzio non sempre si presentava al­l’appuntamento e Carmine, se non lo vede­va arrivare, partiva da solo. Poi, poteva trovarlo so­pra uno scoglio, oltre la Zinzulusa, che pe­scava da terra per conto suo. Le togne dei bambini erano fatte di cordicelle con alla fine legati peli di coda di cavallo strappati alle bestie sulla piazzetta del Porto; Nunzio pescava con quelle e porta­va a casa i pesci che prendeva, tutti pesciolini di scoglio, ottimi per la zuppa che sua madre chiamava brodetto e serviva per mangiare più volentieri il pane. Suo pa­dre a volte si complimentava con lui; altre, però, lo prendeva in giro dicendogli che i pesci grossi non abboccavano ai sui ami per compassione, per non doverselo

Graticciaia. Vino stranoto, figlio di vigna vecchia delle campagne di Brindisi

di Pino De Luca

“La discriminante è il tempo”. Così ha cominciato le sue conclusioni Antonello Maietta (Presidente Nazionale dell’AIS) dopo una verticale di otto annate di Graticciaia.

Vino stranoto, figlio di vigna vecchia delle campagne di Brindisi (c.da Flaminio) e San Pancrazio Salentino (c.da Jole), nato dalla mano di Severino Garofano in cantina e di Donato Lazzari in campagna per l’Azienda Agricola Vallone, è stato oggetto di una lezione di Storia nell’ambito del Congresso Nazionale dei Sommelier. Ambiente splendido come sa esserlo la Torre del Parco di Lecce, suggestivo angolo di storia in mezzo al traffico della città.

Otto annate, dal 1990 al 2006, illustrate sapientemente e degustate in religioso silenzio da una platea di esperti italiani e stranieri con l’impeccabile servizio della delegazione AIS pugliese. Un racconto di fatica e di speranza, di successi e di sconfitte.

Il Graticciaia non si fa sempre, il Graticciaia si fa con la pazienza e la rassegnazione al fato che i popoli salentini possiedono nel DNA.

E il fato a volte è generoso e a volte crudele. Specialmente quando si parla di vini caldi che hanno una personalità propria, forte e decisa. Evolvono a loro piacimento senza sconti, senza dar conto ad alcuno.

“La discriminante è il tempo” e il tempo ci ha detto tante cose attraverso la voce del Graticciaia, ci ha raccontato di annate bellissime nelle quali l’armonia

La chiài (la chiave)

di Armando Polito

Chi pensa che questa sia una recensione a scoppio ritardatissimo e per giunta in dialetto salentino del film del 1983 La chiave di Tinto Brass con Stefania Sandrelli nel ruolo di protagonista può tranquillamente passare oltre. Chi, invece, ha altri interessi, per dir così, meno epidermici…, forse mi onorerà della sua attenzione.

A prima vista (anche in filologia è questo il senso di partenza, poi bisogna impegnare le altre capacità sensoriali, e non solo quelle) sorprende che la voce abbia un’unica forma per il singolare e per il plurale: la chiai/li chiai (la chiave/le chiavi). Si tratta, insomma, di quello che in grammatica è definito un sostantivo invariabile, come in italiano il re/i re.  Non ho scelto a caso questa parola italiana perché essa deriva dall’accusativo singolare di un sostantivo latino della terza declinazione [rege(m)], proprio come il nostro chiai è, come l’italiano chiave, dal latino clave(m)1. Quello, però, che è successo a re non è toccato a chiave che, come sappiamo, non è un sostantivo invariabile, dal momento che al plurale (almeno, come si vedrà, quello più antico ed autorevole oltre che l’attuale) è le chiavi e non le chiave. D’altra parte, se prendiamo in considerazione altri casi, quello di  re ci appare inspiegabile: cònsule(m)>il console, i consoli; mìlite(m)>il milite, i militi.  Lo stesso è avvenuto, con coinvolgimento dei due generi, per il teste, la teste/i testi, le testi, da teste(m)=testimone. A questo punto qualcuno mi chiederà: ma perché hai messo in campo sostantivi latini il cui nominativo ha più di una sillaba [miles per mìlite(m)], mentre il nominativo latino del nostro re è monosillabico (rex)? Domanda sacrosanta, anche perché ci consentirà di chiarire la stranezza. Prendiamo il caso di lex=legge, dal cui accusativo lege(m) è nato il nostro legge, che, se avesse avuto lo stesso destino di re, sarebbe dovuto essere la le/le le e non la legge/le leggi. La lingua, come ho avuto occasione di dire altre volte, è quanto di più capriccioso e apparentemente irrazionale possa esistere perché si intrecciano vari fenomeni non sempre facilmente decifrabili e, in qualche caso, ancora indecifrati. Per tornare al nostro re bisogna riconoscere che in origine  esso fu conservatore (cosa storicamente  più consona ad un sovrano…), nel senso che la prima forma nata dall’accusativo rege(m) fu rege, voce diffusissima (all’inizio l’unica) nell’italiano antico. Poi per lui ci fu il taglio della coda (e non della testa…contrariamente a quello che spesso, sempre storicamente, è stato il suo destino), cioé l’indebolimento e poi la scomparsa della sillaba finale atona, fenomeno trasmesso anche al plurale. Perché tutto questo per re e non per legge? Con un pizzico di ironia che potrebbe avere un fondo di verità mi limito a far osservare che il passaggio da rege a re comportava tutt’al più un possibile equivoco con la nota musicale (questa sì, sempre nobile…), quello da legge a le avrebbe ridotto lo strumento principe per la convivenza civile (almeno sul piano teorico…) a qualcosa di troppo simile, e nelle dimensioni grafiche e nel peso concettuale, alla modestia di un articolo.

Dopo esserci aggirati tra gli oscuri meandri dei tre poteri è il momento di tornare a chiai. Ho già detto che è da clave(m), ma bisogna integrare, colpo di scena!, dicendo che clavis fa parte di un gruppo di nomi che all’accusativo possono terminare, oltre che in –em, anche in –im; e proprio da questo clavi(m)2 è derivata  (con sincope di –v– e normalissimo passaggio cla->chia-) la nostra voce di oggi. Una volta formatosi il singolare chiai, era normale che la stessa forma valesse anche per il plurale a causa di una desinenza (-i) che del plurale aveva già tutta la parvenza3.

Un’ultima osservazione: oltre a  la chiai c’era in passato anche lu chiaìnu, una chiave più grossa per le serrature di portoni. Abituati come siamo a considerare –ino come un suffisso diminutivo, ci sorprende il fatto che lu chiaìnu fosse notevolmente più grande de la chiai. E, infatti, in questo caso –ino non è un suffisso diminutivo ma indicante pertinenza, come in vicino, che è dal latino vicìnu(m), a sua volta da vicus=villaggio, per cui il suo significato di partenza era di pertinenza del (dunque che sta vicino al) villaggio4.  Così da chiai si formò chiaìnu, con passaggio dal femminile del nome primitivo al maschile di quello derivato; e in questo, a costo di essere accusato di annegare nella fantaetimologia, io ci vedo un pizzico (e sto esagerando in difetto) di maschilismo…

Chiudo, e questa volta veramente, con l’unica cantilena salentina a me nota in cui questa parola compare.

Ti l’ora ca nascìi

fuèi sbinturàta,

ti tandu parse la sbintura mia:

mi purtàra alla chièsia pi bbattizzàre

e morse la mammàna pi lla ia,

si pèrsira li chiài ti l’Uègghiu santu

e ppuru queddhe ti la sacristìa. 

(Dall’ora che nacqui fui sventurata, da allora si manifestò la mia sventura: mi portarono alla chiesa per battezzarmi e morì per la strada la levatrice, si smarrirono le chiavi della teca dell’Olio santo e pure quelle della sagrestia)

Come si vede, è un testo tutt’altro che allegro5; esso, tuttavia, può essere una tessera di un virtuale mosaico leggibile on line mediante la digitazione, è il caso di dire, di una parola-chiave. Ma questo è un progetto che nemmeno un individualista sfrenato come me può affrontare e realizzare da solo….

______

1 Clavis (terza declinazione) è parente di clavus (seconda declinazione) che significa chiodo; quest’ultima voce italiana deriva proprio da clavu(m) e il passaggio –v->-d– è dovuto ad incrocio con clàudere=chiudere (dalla radice kleid– del greco klèis=paletto, chiave,da cui anche il verbo klèio=chiudere). Sul piano semantico, poi, non ci vuole molta fantasia e non è necessario essere uno scassinatore per capire che un chiodo può essere una forma rozza e primitiva di chiave, come non è necessario essere un maniaco sessuale per capire come chiavàre dal concetto originario e non sempre innocente di inchiodare [Jacopone da Todi (XIII secolo), Il pianto della Madonna, vv, 56-59): Succurri, piena de doglia/ché ‘l tuo figliol se spoglia;/e la gente par che voglia/che sia en croce chiavato] è passato all’attuale, unica, valenza definita oscena da tutti i dizionari. L’incrocio tra chiave e chiudere continua anche in chiavistello, da un latino *claustèllu(m), diminutivo del classico clàustrum (come castellum=fortezza lo è di castrum=accampamento)=chiusura (dal citato clàudere; da claustrum è l’italiano chiostro), con influsso di chiave.

2 Attestato in Plauto (III-II secolo a. C.), Mostellaria, v. 77:  Clavim cedo, atque abi hinc intro, atque occlude ostium: et ego hinc occludam (Dammi la chiave e tu da qui entra in casa e chiudi la porta; io da fuori chiuderò a chiave) ed in Tibullo (I secolo a. C.) nella quarta elegia del secondo libro, della quale riporto, per la loro attualità (anche se, va detto, non tutte le donne sono così) i vv. 15-29 nella mia traduzione (e si sente…): Ad dominam faciles aditus per carmina quaero:/ite procul, Musae, si nihil ista valent!/At mihi per caedem et facinus sunt dona paranda,/ne iaceam clausam flebilis ante domum,/aut rapiam suspensa sacris insignia fanis,/sed Venus ante alios est violanda mihi./Illa malum facinus suadet dominamque rapacem/dat mihi: sacrilegas sentiat illa manus!/O pereat quicumque legit viridesque smaragdos/et niveam Tyrio murice tingit ovem!/Hic dat avaritie causas et Coa puellis/vestis et e Rubro lucida concha mari./Haec fecere malas: hinc clavim ianua sensit/et coepit custos liminis esse canis./Sed pretium si grande feras, custodia victa est,/nec prohibent claves et canis ipse tacet (Tento di procurarmi l’amore della mia signora per mezzo di poesie: andate a farvi fottere, o Muse, se queste non funzionano! Debbo procurarmi i doni per lei commettendo un delitto e una scelleratezza, per non abbandonarmi al pianto davanti alla sua casa chiusa, oppure sarò costretto a fottere qualche offerta votiva esposta in un sacro tempio, ma prima di ogni altro debbo profanare Venere. Essa mi spinge al delitto e nelle braccia di una donna rapace: sia lei a sperimentare le mie mani sacrileghe! La morte colga chiunque raccoglie  verdi smeraldi e tinge con porpora di Tiro la bianca lana di pecora! Costui e la veste di Coo e la luminosa perla del Mar Rosso danno occasione alle fanciulle per manifestare la loro rapacità. Tutto ciò le ha rese cattive: da qui la porta cominciò a sentire (il peso del)la chiave e un cane a fare il guardiano sulla soglia. Ma se tu porti un dono di pregio ogni custodia è vinta, né c’è chiave che tenga e pure il cane tace).

Non posso non notare come la parte iniziale della poesia di Tibullo ricalca lo schema del paraklausìthyron=lamento presso la porta chiusa, sorta di serenata (da parà=presso+klàio=piangere+thyra=porta), un classico della poesia greca che continua nel mondo romano e nel nostro (chi non ricorda, della canzone Ancora portata al successo nel 1981 da Eduardo De Crescenzo, i versi: …e prima o poi farò lo sbaglio/di fare il pazzo e venir sottocasa,/tirare sassi alla finestra accesa,/ prendere a calci la tua porta chiusa…?

3 Le chiave è l’unica forma di plurale attestata negli autori fiorentini dal Trecento (ad eccezione di Dante: Inferno, XIX, 91: Che ponesse le chiavi in sua balia?) in poi e la forma ricorre anche in documenti in prosa, di carattere letterario e non, dove è da escludersi qualsiasi condizionamento metrico o stilistico. La forma attuale si afferma dal XVIII secolo, come dimostrano le commedie del Goldoni in cui compare le chiave nei dialoghi in dialetto e le chiavi in quelli in italiano.

4 Il neutro sostantivato vicìnum (anche nella forma vicìnium) insieme con vicìnitas nei primi secoli del medioevo indicava l’assemblea dei cittadini invitati ad assistere ad un processo particolarmente difficile in cui la testimonianza di alcuni di loro sarebbe stata determinante per l’emissione della sentenza da parte dei giudici; insomma, una valenza esclusivamente laica.  Successivamente vicìnum, vicìnium e vicìnia indicarono solo  quella parte del quartiere cittadino (pittàci) situata nei pressi di una chiesa.

5 Quello della lamentazione (non solo per un amore contrastato come nel caso del paraklausìthyron della nota 2) ma, in generale, per il proprio destino sfortunato è un topos letterario. Riporto la prima quartina di un sonetto di Bartolomeo di Castel della Pieve (XIV secolo), anche per la presenza del plurale le chiave di cui ho parlato nella nota 3: Morte ha tenuto del mio cor le chiave/dal primo dì ch’io nacqui e tien ancora, e con pensieri amari aspetto l’ora ch’ella il dissolva con tempesta grave.  Sul tema vedi pure la nota 8 del post Sul termine “naca”, la culla dei nostri avi del 17 agosto u. s.

Piccole storie nascoste di ceramisti neretini: I Perrone

di Riccardo Viganò

Non è facile raccontare la storia di una famiglia mitica,  interprete e protagonista dell’ultima stagione delle produzione ceramiche neretine, della  quale nulla si conosceva  tranne qualche notizia estrapolata dal Catasto onciario e per di più mal riportata.

Giuseppe Domenico Perrone, al secolo Domenico, nasce a Nardò il 18 luglio del 1714 da Giovanni Battista Perrone e Rosa Rutigliano, entrambi provenienti dal  famoso centro di produzioni ceramiche di San Piero della Lama, conosciuto anche come San Pietro degli èmbrici. Essi arrivano  a Nardò intorno al 1711,  cavalcando l’onda migratoria che percorse la Puglia e non solo,  tra la seconda metà del XVII  e il primo ventennio del XVIII secolo, probabilmente richiamati  dall’opportunità di prendere il posto che le vecchie famiglie di ceramisti neretini avevano lasciato libero.

Poco si sa, ma la famiglia era certamente  molto numerosa  e per brevità non faremo l’elenco di tutti i componenti. Certamente i due coniugi dovevano essere molto giovani. Il primogenito della famiglia,  il nostro Domenico,  sposa, il 23 novembre 1728 la  neretina Cristina Marangella, come lui quattordicenne; due anni dopo, il 6 giugno 1731, nasce il primo dei suoi dieci figli, quasi in contemporanea con l’ultimo dei suoi fratelli, Francescantonio, che ritroveremo in seguito a lavorare con lui.

Che il clan familiare fosse teso ad affermarsi nel tessuto sociale neretino, lo si  coglie nello stesso anno della morte del patriarca Giovanni, avvenuta   il 22 Marzo 1741, quando Domenico prende le redini della famiglia, dimostrando di essere un personaggio dinamico e dotato di un vero e proprio spirito imprenditoriale. In quello stesso anno infatti tale Giovanni Lisi chiede, davanti al Mastro di mercato, o Magister nundinarum, dai

Come ti sistemo il bimbo!

 

Capitarru e spuèrtu

 

di Armando Polito

Il capitàrru nel dialetto neretino era un contenitore di legno o di creta, con una stabile base, munito di poggiatesta, opportunamente imbottito, nel quale le mamme ponevano il bambino in fasce per potersi dedicare tranquillamente alle faccende. La voce, per la quale il Rohlfs, limitandosi a registrare solo la forma capicàrru di Cutrofiano, Galatina e Soleto,  non fa nessuna proposta etimologica, secondo me potrebbe derivare da un  latino *capitàriu(m) forma deverbale dal tardo latino capitàre=prendere, dal classico càpere. Per indicare lo stesso oggetto a Bagnolo, Castrignano dei Greci, Cursi, Lecce, Martano e Squinzano si usava testa, femminile di tièstu1 (vaso di terracotta), con riferimento, credo, al materiale con cui l’oggetto veniva realizzato prima dell’uso del legno.

A Specchia era in uso il sinonimo stompu, che in altre zone del Salento (a Nardò nella forma stuèmpu) indicava un grande mortaio per sbucciare o pigiare il grano (da stumpàre=pigiare, per il quale il Rohlfs invita ad un confronto con il greco moderno stumpòno=pestare e che, aggiungo io, potrebbe essere collegato al classico stufo=contrarre, dal momento che qualsiasi materiale frantumato occupa uno spazio minore rispetto a quello che occupava da integro2. Non posso fare a meno di far notare che, se le etimologie proposte sono quelle esatte, mentre la prima voce (capitàrru/capicàrru) privilegerebbe l’idea del prendere, contenere e proteggere, la seconda (stuèmpu) evocherebbe l’immagine del bambino che appare come il pestello del mortaio. Poi vennero prima il seggiolone3 e poi iI box superaccessoriato di oggi, con ruote in lega leggera, dal fondo regolabile e plurivano, dotato di impianto di tv satellitare, che nella versione pieghevole (vedi foto) occupa, quando non è utilizzato, lo spazio del vecchio capitàrru; non ho difficoltà a dire che seggioloni e box non mi ispirano, pur con la fantasia straripante che gli altri mi attribuiscono, considerazioni analoghe a quelle che, a proposito di capitàrru e stompu, ho fatto sul rapporto stretto che un tempo c’era tra l’uomo, la natura, gli oggetti da lui creati e i nomi usati, direi con consapevole empito affettivo e, forse inconsapevole, vena poetica, per indicarli.

Un destino simile ha subito lo spuèrtu4 (il girello), nel quale i cambiamenti estetici, che in più di un dettaglio sembrano mediati dagli studi aerodinamici della Formula 1, hanno trasfigurato la struttura originaria. Anche qui per le opportune valutazioni, a partire proprio da quelle estetiche, lascio al lettore la possibilità di esprimere il suo giudizio con l’ausilio delle immagini.

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1 Dal latino testu(m); dalla forma femminile testa (con lo stesso significato di vaso di terracotta, credo per analogia di forma e non per intento ironico…) è derivata la corrispondente voce italiana.

2 Solo per dovere di completezza riporto l’opinione del Garrisi, che, come al solito, facendo concorrenza all’omonimo salto mortale, mette in campo l’incrocio, questa volta addirittura triplo, tra greco stumpiz, italiano tombare e leccesse zumpare. Di questo (greco!) stumpiz ma pure di analogo vocabolo di altre lingue non sono riuscito a trovare, nonostante i ripetuti tentativi, nemmeno l’ombra.

3 L’eliminazione della fasciatura tipo mummia, che in passato conferiva al neonato una notevole rigidità, non gli avrebbe consentito di restare ritto nel capitàrru.

4 L’uso della stessa voce a Felline col significato di cesto cilindrico di paglia e della variante sportu ad Alessano col significato di sporta in forma di grossa tasca ed a Corigliano in quello di canestro a sponde basse dove si mettono a seccare i fichi suggerirebbe la derivazione dal latino sporta(m)=cesta; non mi sentirei di escludere, tuttavia, un’origine deverbale dal latino exportàre=portar fuori, trasportare, parente, con lo stesso significato, di deportàre (alla lettera portare fuori porta), da cui il francese déporter=divertirsi, che ha dato vita, a déport=divertimento, dal quale, attraverso la variante antica desport, è derivato l’inglese sport; se così fosse spuèrtu (con la sua idea di base di divertimento e di attività fisica per il bambino) avrebbe bruciato sul tempo, essendo presumibilmente più antico, se non la voce francese, almeno quella inglese nata nel 1829.     

Tradinnovazione di Piero Cannizzaro

di Pier Paolo Tarsi

Piero Cannizzaro e Uccio Aloisi

Se in generale, per dirla con Franco Battiato, “è difficile restare calmi e indifferenti mentre tutti intorno fanno rumore”, ancor più complicato è senza dubbio, per andare allo specifico, incamminarsi ben oltre l’indifferenza, i cliché, i luoghi comuni ed i tanti equivoci nell’enorme e disorientante baccano relativo alle manifestazioni etno-musicali contemporanee salentine (e non solo), ricercando e interpretando con rigore antropologico e intelligenza nell’ambito di fenomeni identitari complessi intorno ai quali molti fanno per lo più, appunto, solo rumore e confusione. Per riuscirvi ci vuole una dose notevole di equilibrio, acume, ricerca oltre che tutta l’esperienza e la padronanza dei linguaggi cinematografici di un autore di valore come Piero Cannizzaro.

Il risultato tangibile di questi sforzi di ricerca di una cornice di lettura coerente e meditata della realtà musicale e coreutica glocal in varie regioni d’Italia (Puglia, Sardegna e Piemonte) è  “TRADINNOVAZIONE: UNA MUSICA GLOCAL”, ultima fatica firmata per  “RAI – MAGAZZINI EINSTEIN (a cura di Paola Orlandini)” da un autore e maestro che arricchisce così una personale catena di lavori semplicemente eccellenti. Si tratta di un film documentario dal titolo già molto eloquente, un viaggio affascinante in cui si è autorevolmente condotti (prezioso in tal senso è ad esempio il contributo dell’antropologo salentino Eugenio Imbriani) tra realtà e contenuti complessi, espressi tuttavia in modo coinvolgente e chiarissimo. Di tale lavoro, abbiamo l’onore e il piacere di proporre sul nostro sito per i cari Spigolatori tanto la tappa del viaggio che riguarda il Salento, dal titolo “TRADINNOVAZIONE: IL GLOCAL IN PUGLIA TRA MUSICA E DANZA”, quanto quella che riguarda la Sardegna ed il Piemonte, dal titolo “TRADINNOVAZIONE: UNA MUSICA GLOCAL TRA PIEMONTE E SARDEGNA”.

Non prima di aver ringraziato di cuore Cannizzaro per il generoso dono offertoci, invitiamo i lettori a cogliere la preziosa occasione raccomandando loro la visione delle due tappe che compongono il film – accessibili dai  link che seguono – ed invitandoli a

TRADINNOVAZIONE: il Glocal in Puglia tra musica e danza

Proponiamo di seguito l’ottima introduzione al film documentario di Piero Cannizzaro, scritta e pubblicata da Mauro Marino sulle pagine del quotidiano “PAESE NUOVO” dallo stesso diretto. Ringraziamo per la gentile concessione.

La redazione

di Mauro Marino

Il suono è la via di comunicazione che più facilmente può essere percorsa dalla suggestione, dalla memoria, dal pensiero.

Suoni sono i rumori, i linguaggi, le musiche.

Ogni suono è il segnale di una presenza, il veicolo di un messaggio, la componente essenziale di un territorio, di un paese, di un ambiente.

Un fenomeno caratteristico della corsa alla globalizzazione, ma anche un fenomeno particolarmente rispettoso delle diverse identità locali: si unisce, si mescola senza distruggere.

Magia tarantismo, disse Ernesto De Martino, sono forme arcaiche di cura, nelle quali si leggono aspirazioni e valori, tradizioni ed esigenze ludiche.

Ma oggi che la società contadina è notevolmente cambiata cosa è rimasto di quei suoni? Stiamo assistendo ad un nuovo interesse da parte di molti giovani che suonano e fruiscono di questa “nuova” musica. Suoni che oltre  agli strumenti tradizionali come la voce, il tamburello, i fiati, il violino e le percussioni popolari si aggiungono anche il violoncello, il contrabbasso, la tromba, la batteria, la chitarra, l’ organetto, la fisarmonica etc.

Abbiamo viaggiato nell’Italia attraverso la musica etnica e le sue commistioni, i contatti con le culture e i modi che questa musica alimenta e assorbe per produrre a sua volta altra musica.

Quello che si prefiggono i musicisti (ma anche i danzatori) che abbiamo incontrato, è quello di andare oltre alla tradizione cercando di creare un ibrido tra il passato ed il presente, per rendere ancora oggi viva la tradizione.

Anna Cinzia Villani

In Puglia abbiamo incontrato e ascoltato la cantante salentina Anna Cinzia Villani, il gruppo “Mascarimirì” il cui sguardo è volto alla world music, al raggamuffin, al dub, alla techno, alla contaminazione con esperienze, suoni, voci, ritmi di altri paesi vicini e lontani. La loro idea di fondo è quella di mettere in musica le sensazioni, gli umori e gli odori delle feste tipiche del sud. E il “Canzoniere Grecanico Salentino” che è stato il primo gruppo di riproposta musicale della tradizione salentina ad essersi formato in Puglia nel 1975, ben trentacinque anni fa per

Piero Cannizzaro, un autore glocal

Piero Cannizzaro

Il rinnovamento del documentario italiano, avvenuto negli ultimi anni, ha in Piero Cannizzaro uno dei suoi maggiori artefici, come testimonia la sua ampia filmografia, che si muove su molteplici latitudini (ha realizzato documentari e reportage in America, Russia, Siberia, Sri Lanka, Sud Africa, Golfo Persico, Norvegia, Lapponia), sempre alla ricerca di nuovi universi da esplorare. La curiosità è alla base del lavoro di Cannizzaro che con la sua macchina da presa entra in ambienti chiusi aprendo un dialogo che coinvolge lo stesso spettatore, invitandolo a raccogliere il testimone del regista e mettersi anche lui in viaggio. Realtà diverse, apparentemente marginali, fonti invece di insegnamenti fondamentali, sfilano quindi dinanzi ai nostri sguardi, rieducandoli ad un ritmo e a un linguaggio smarriti nel caotico flusso delle immagini di cui siamo aggrediti. «Lo stile armonioso e rispettoso […], il sincero desiderio di comprendere vari aspetti della spiritualità umana gli hanno permesso di entrare nello zone più segrete e quotidiane» (Silvana Silvestri).

Isole, la musica,  le città sotterranee, le città slow, la spiritualità e il monitoraggio dello sviluppo sociale sono i principali temi di cui Cannizzaro si occupato per approdare infine alla dimensione ideale del glocale (direttore artistico a Capalbio della rassegna “Il Glocale nel Documentario 2005”) e della musica etnica, soprattutto nell’Italia del Sud. Segnaliamo a questo proposito “La notte della taranta e dintorni”, “Ritorno a Kurumuny”, “Ritratti dal Salento”. “Il cibo dell’anima”, film-documentario ambientato in altrettante comunità spirituali sul tema del cibo e della spiritualità, racchiude il senso della ricerca di Cannizzaro e, come i precedenti lavori del regista, è stato visto e apprezzato in numerosi festival, conseguendo premi e riconoscimenti vari (dal catalogo CINEMA TREVI – Roma – Cineteca Nazionale).

“Città Slow” il film-doc dedicato  ad alcune tra le più significative città che hanno aderito al movimento internazionale Città Slow (dic 2010).

“Tradinnovazione: una musica glocal” è il suo ultimo lavoro.

 

Per ulteriori notizie su Piero Cannizzaro rimandiamo al seguente link:

http://www.cinemaitaliano.info/pers/014707/piero-cannizzaro.html

E oggi disquisiamo di aghi

 

L’acu e l’acucèddha, ovvero quando nelle parole l’affinità dell’uso e quella omofonica non coincidono con quella della nascita.

di Armando Polito

Nel dialetto di Nardò l’ago (di dimensioni normali) è chiamato acu, mentre quello più lungo e grosso, utilizzato un tempo per rammendare i sacchi e, in una versione ancora più lunga, per infilare le foglie di tabacco1 da sistemare poi sui tiralètti2 per l’essiccazione, prende il nome di acucèddha.

A prima vista si direbbe che entrambe le parole hanno come nucleo l’antichissima radice ak– indicante cosa pungente, la stessa di acido, aceto, acciaio, acuto, etc. etc. Cedendo per un momento a questa impressione non rinunciamo, tuttavia, a ragionarci sopra: su acu c’è ben poco da dire, è quasi tutto radice; acucèddha ha l’aria di essere un diminutivo di acu, ma, operando il suo smontaggio, dopo aver tolto la presunta radice ac– e il presunto suffisso diminutivo –èddha, ci ritroviamo di fronte ad un gruppo centrale –uc– che da qualche filologo un po’ troppo fantasioso potrebbe essere interpretato come una replica della radice o come parte integrante di un suffisso diminutivo –ucèddha3.  Dando pure per buono tutto questo, i conti, tuttavia, non tornano per motivi semantici: se acucèddha è veramente una forma (sia pur strana per via del presunto raddoppiamento della radice o del presunto, più esteso suffisso) di diminutivo di acu, come mai proprio questa forma è stata utilizzata per indicare un oggetto di dimensioni notevolmente maggiori rispetto a quello indicato dal nome primitivo?

C’è qualcosa che non quadra e bisogna perciò operare diversamente: se per un attimo togliamo ad acucèddha la a– ci rimane cucèddha che non esiste nel dialetto neritino ma a Parabita (Le), in quello tarantino (nella variante cucèdda) e brindisino (nella variante cuscèddha) designa esattamente lo stesso oggetto. E’ evidente, allora, che cucèdda e cuscèddha sono deverbali da cùsere/còsere/cusìre, varianti salentine dell’italiano cucire, che è dal latino medioevale cusìre (Glossario del Du Cange, ed. 1883, pg. 678), dal classico consùere, composto da cum=insieme+sùere=cucire; l’ultima variante (cusìre) è quella neritina, identica alla voce medioevale, mentre le prime due sono più vicine a quella classica. Da notare che le tre forme verbali salentine riportate hanno conservato la –s– latina (a differenza dell’italiano che l’ha sostituita con –c-) per evitare confusioni con cucìre/còcere che significano cuocere, salvo, poi, non essendoci più lo stesso pericolo, seguire il destino della voce italiana in modo netto in cucèdda, ambiguo in cuscèddha; inoltre, proprio perché deverbali, in esse il suffisso ha attenuato, anzi perso il suo originario valore diminutivo (come in cacarella da cacare, in pisciarella da pisciare, in rivoltella da rivoltare etc, etc.).

Tornando alla neritina acucèddha, essa è, dunque, il risultato di questa filiera: la cucèddha>l’acucèddha (agglutinazione della a dell’articolo).  

E i conti, questa volta, quadrano tutti.

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1 L’acucèddha, lunga almeno trenta cm., recava nella cruna un filo di spago di circa un metro; essa veniva inserita con precisione nel segmento inferiore della nervatura centrale di un sufficiente numero di foglie che, fatte scorrere lungo lo spago fino a riempirlo, costituivano la ‘nserta [dal latino insèrta(m), participio passato di insèrere=intrecciare, con aferesi di i-].  Le ‘nserte, poi, venivano appese a due ganci contrapposti sul tiralèttu ed esposte al sole; tutte le operazioni avvenivano in pieno agosto.

2 Diminutivo, con metatesi propiziata dalla presenza di due sillabe consecutive contenenti una consonante liquida (l e r), di tilàru=telaio (tilarèttu>tiralèttu).

3 È l’opinione del Garrisi che mette in campo un “latino volgare acucella”. Come ho più volte ribadito, le forme latine volgari o ricostruite, insieme con gli incroci, costituiscono per il filologo l’ultima spiaggia alla quale ricorrere quando non risulta percorribile altra via più o meno documentabile. Ora, nel latino classico non è attestata nessuna voce con un suffisso diminutivo –ucellus/ucella, mentre una sola volta ricorre il suffisso –icella: in navicella , diminutivo di navis. Per completezza d’informazione va detto che nel latino medioevale è attestato (Glossario, op. cit., pag. 66), come diminutivo di acus, acùcula, che, se avesse avuto uno sviluppo nel dialetto salentino, avrebbe dato vita ad acùcchia (acùcula>acùcla>acùcchia). Tutto ciò, come si vedrà nel prosieguo del ragionamento, non è, tuttavia, sufficiente per mettere in campo un *acucèlla. E il Rohlfs? Alla voce acucèddha si limita a rinviare a cucèddha)/cucèdda e da queste alla prima: per me è la prova che nemmeno lui pensava alla nostra voce come ad un diminutivo desostantivale.

Racconti/ Il triste annuncio

 

Antonello da Messina, Sorriso dell’ignoto marinaio (1470-1472) Museo della fondazione Mandralisca – Cefalù

di Raffaella Verdesca

Si schiarì la voce più volte e fissandosi attentamente nello specchio, sussurrò valutando l’effetto scenico che ne veniva fuori:

“Mi dispiace molto, ma il povero zio Pierino ci ha lasciato per sempre.”

Accidenti! Erano ore che provava e riprovava a dire questa frase col pathos e l’intonazione migliore, ma dalla sua voce non usciva niente di buono.

Per non parlare poi di quell’espressione da salame che gli veniva fuori quando scandiva “…ci ha lasciato per sempre”!

Non poteva, zia Mara, affidare a qualcun altro l’ingrato compito di dare il triste annuncio?

In lista c’erano Marisa, Lucilla e Concetta che in quanto a recitazione non le batteva nessuno, non per niente si erano sposate gli uomini più facoltosi della città!

E Gino? Gino non sarebbe stato certo da sottovalutare, con quella sua naturale inclinazione alle espressioni lugubri e agli sguardi persi.

E invece no, e invece zia Mara aveva pescato proprio lui che faceva il cameriere sulle navi da crociera! Inutile dire che questo triste dovere gli costava forse di più degli altri perché zio Pierino lui l’amava e l’aveva amato come un padre.

Gli sembrava strano pensare al modo rocambolesco in cui lo zio si era tolto di mezzo.

Due sere prima si era alzato da tavola dopo cena, aveva salutato moglie e suocera come tutte le volte, e si era incamminato placidamente verso il Circolo di caccia del paese.

Era socio da anni di questo posto, pur non essendo mai stato un cacciatore.

Diceva che gli piaceva il fine ricreativo di quella tana di vecchi lupi d’assalto e

Patù, il paese delle 100 meraviglie

Le Centopietre di Patù (ph M. Gaballo)
Le Centopietre di Patù (ph M. Gaballo)

di Paolo Vincenti

A Patù si respira un fermento culturale particolarmente stimolante, sia per i cittadini locali sia per tutti gli amici della città dei patusci (come simpaticamente vengono soprannominati i patuensi).

Patù il paese delle 100 meraviglie è il titolo di un opuscolo in distribuzione gratuita, realizzato dalle due associazioni di via dei commercianti di Patù e della marina San Gregorio. L’obbiettivo, come spiegano Giovanni Spano, Presidente dell’ “Associazione di Via Centro Storico Patù”  e Antonio De Marco, Presidente dell’ “Associazione di Via San Gregorio”, è quello di unire gli sforzi per rivitalizzare un paese che ha tanto da offrire a tutti coloro che lo vanno a visitare, creando una sinergia fra turismo, artigianato e

L’abbaglio della cicerchia

 

di Giorgio Cretì

Periodicamente, nel corso della storia della cucina hanno avuto luogo movimenti per il  ritorno ai prodotti naturali e periodicamente si è ricaduti nell’errore di puntare più sulla moda che sulla genuinità. All’epoca di Apicio non c’era piatto che non contenesse il garum, ci fu poi un tempo in cui ogni pietanza era sommersa dalle spezie orientali, oggi siamo nell’era del dado, del glutammato monosodico.

Avviene poi che qualcuno si ribella, e torna alla cucina contadina, o perlomeno in essa cerca ispirazione per la propria arte, a volte prendendo anche lucciole per lanterne. L’ulltimo grande abbaglio, secondo me, è costituito dalla cicerchia, passione di molti giovani chef di grido, dal Nord al Sud. E chi non segue il modello non si sente trend. Si vuole spacciare una civaia disprezzata dai nostri nonni per un legume povero ch’entrava nella dieta, povera, di tutti i giorni. Niente di più falso.

A memoria mia e di altra gente anche più vecchia di me, nata nel Sud dove in un periodo in cui i legumi, al pari degli ortaggi e delle erbe spontanee, erano cibo quotidiano, a memoria d’uomo la cicerchia detta anche dolega era un legume al quale si ricorreva soltanto quando non c’era altro da mangiare ed

Archeologia ed ambiente rurale: il caso Valesio in Terra d’Otranto

di Chiara De Luca

IL GRUPPO ARCHEOLOGICO DI TERRA D’OTRANTO A PAESTUM PER PROMUOVERE IL SALENTO

Il sito archeologico di Valesio, nel territorio di Torchiarolo, inteso come paradigma di sinergia tra Cultura e attività produttive. Sarà questo l’oggetto della presentazione dell’area archeologica e della sua valorizzazione all’interno del workshop che si terrà a Paestum, il 18 novembre p.v. alle ore 15.00, in occasione della 14° Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico. La Borsa è l’unico salone al mondo destinato al turismo di matrice prettamente archeologica che si propone di costruire una relazione tra le diverse culture dei singoli Stati al fine di incrementare lo scambio culturale e la destagionalizzazione turistica. Alla manifestazione, realizzata sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica Italiana, partecipano tutte le realtà più importanti relative al patrimonio archeologico mondiale.

Il sito di Valesio e la sinergia che esso può avere con il territorio del Comune di Torchiarolo e dell’intero Salento sarà oggetto della relazione presentata da Elvino Politi, direttore del Gruppo Archeologico di Terra d’Otranto, che avrà come titolo:” Archeologia ed ambiente rurale: binomio di salvaguardia e sviluppo territoriale. Il caso Valesio in Terra d’Otranto”.

Il sito, tra i più significativi dell’area nord salentina, caratterizzato

Anteprima di un cielo in evoluzione

 

di Elio Ria
santa-caterina

 

Quanto mi piace osservare i cieli di Santa Caterina che discendono dall’alto della torre e accarezzano il mare; solleticano le onde affinché facciano baccano; distolgono sguardi; placano subbugli.

Di questa mia terra io sono innamorato e dei suoi silenzi di paglia annoto poesia.

 

Disquisendo sul termine salentino l’uèrtu

di Armando Polito

* Traduzione: “Quardàti comu ha ridottu l’uèrtu cu ppensa all’etimologia ti orte; st’annu ‘ndi ssàggia cicòre…” (traduzione della traduzione: “Guardate come ha ridotto l’orto per pensare all’etimologia di orte; quest’anno ne assaggia cicorie…”.

Nel dialetto neretino (ma anche in altre zone del Salento) la voce è usata nel senso di orto, ma anche come unità di misura di superficie equivalente a dieci are, cioé a mille mq.

L’entità della superficie indicata dal secondo significato  induce immediatamente  nella tentazione di pensare che esso abbia la stessa etimologia del primo, che, come l’italiano orto, è dal latino hortu(m) che significa luogo recintato o delimitato da un semplice confine, giardino, a sua volta dal greco chortos=recinto, erba, foraggio, pascolo, nutrimento. La voce latina in composizione con cum (=con) ha dato vita poi a cohors (o chors o cors) che dal significato di recinto assume pure quello militare di coorte (=schiera serrata) e, per traslato, quello di guardia del corpo, séguito (da cui l’italiano corte).

Balzano evidenti, però, per tornare al nostro uèrtu, due stranezze: come mai nel secondo significato il plurale è orte e non uèrti e, rispetto al presunto singolare, c’è stato un cambiamento di genere? Per questo secondo fenomeno

Libri/ Taranto. Correva l’anno 1710

Due terremoti (1710-1743), storie di vita tra i vicoli, tradizioni scomparse e ancora in vita. Tutto questo e altro ancora nel segno della devozione della città di Taranto verso la sua patrona, assieme a San Cataldo: la Vergine Immacolata.

Testimonianze, racconti di tarantini veraci, vicende di confraternita, storie di monumenti legati al culto della Vergine e veloci scorribande nella gastronomia legata alla festività. Senza dimenticare quanto accade nei comuni della provincia.

Se ne parla nel libro “Correva l’anno 1710”, realizzato da Angelo Diofano (Edit@, di Domenico Sellitti), e arricchito della presentazione del noto storico Vittorio De Marco.

Questa storia (scrive il prof. De Marco) si snoda attorno a una confraternita, quella dell’Immacolata, intenta ogni anno a celebrare e solennizzare la festa

Un contributo di testimonianza dal vivo sul “Travancore”

L’Acquaviva di Marittima

di Rocco Boccadamo

Ho letto – con particolare piacere, essendo nativo di Marittima e rappresentando, l’insenatura “Acquaviva”, una sorta di mia seconda culla – l’articolo di Giorgio Cretì sul naufragio del piroscafo inglese “Travancore”.

Per fedeltà e precisione storica, mette conto di sottolineare che l’affondamento si consumò a seguito dell’urto dell’unità  contro gli scogli dell’imboccatura dell’Acquaviva, nulla c’entra, invece, Punta o Pizzo “Mucurune” che delimita, verso nord/nord est, la vicina rada di Castro.

Il punto del naufragio è costituito da fondali relativamente bassi, da 6 a 10 metri, in acque più che trasparenti, cristalline, tanto è che, una sessantina d’anni addietro (a metà, quindi, dell’arco temporale trascorso dal 1880, data dell’evento), durante le mie prime nuotate,  giusto lì, mi era spesso dato di scorgere a occhio nudo, ancora adagiato giù, qualche frammento dello scafo.

Minuscola, eppure eccezionale coincidenza rispetto al tema e all’oggetto materiale della rievocazione di Cretì, alla fine degli ultimi anni 80, un mio amico e compaesano, il quale s’era immerso con un minimo d’attrezzatura per

1880, naufragio del piroscafo Travancore wreck all’Acquaviva

 

di Giorgio Cretì

Travancore (archivio Ninì Ciccarese)

Alla masseria di Capriglia tutto procedeva secondo il susseguirsi delle stagioni e l’attività della gente era legata esclusivamente alle pratiche agricole. Massaro Rosario, oltre che occuparsi delle direttive generali, teneva per sé anche certe incombenze di particolare delicatezza e perizia come, per esempio, la semina e la vendita dei prodotti; Crocefissa badava alla casera e alle faccende di casa e Rocco seguiva tutti i lavori: dall’aratura alla mietitura, dalla mungitura alla tosatura delle pecore, dalla chiamata dei giornalieri al pagamento del vino che essi bevevano nelle botteghe del paese a fine giornata. Gabriella era lì ormai da un anno e s’era integrata nella famiglia: non aveva nessun incarico particolare, a causa del suo impegno continuo con il piccolo Rosario che cresceva bello e sano, ma aiutava qua e là secondo le necessità. Suo padre Peppino ora aveva il lavoro assicurato, ed anche il vino. A volte Gabriella andava nei campi perché erano necessarie anche le sue braccia e allora il bambino restava con Crocefissa, ormai mamma Fissi per Gabriella, che l’adorava e lo teneva in braccio con tanta tenerezza come se tenesse il suo Pasquale ch’era tanto lontano.

Era serena, Crocefissa, e si faceva ogni tanto rileggere le lettere che Pasquale scriveva e specialmente i passi che la riguardavano. Temeva il mare perché lo sapeva infido per i marinai e quando pensava al figlio sopra una nave, le tornava in mente il ricordo di quando, una trentina d’anni prima, c’era stato un naufragio non molto lontano.

Una notte di marzo, un piroscafo inglese che veniva dalle Indie era affondato davanti al canale dell’Acquaviva, alle marine di Marittima. Molta gente allora era accorsa generosamente con le barche, soprattutto da Castro, ed i passeggeri e l’equipaggio erano stati tutti tratti in salvo prima che la nave affondasse completamente; del carico, però, non s’era salvato nulla: al buio era letteralmente scomparso… e non in fondo al mare. Che gente!, pensava.

C’era stata, però, una storia diversa, quella del brigadiere Rizzelli di Gallipoli che, avendo trovato un cofanetto di monete l’aveva subito consegnato al legittimo proprietario, ma gli era toccato solo un encomio. Così erano i carabinieri! I quali, durante le loro perlustrazioni, passavano dalla masseria e v’entravano a salutare chi trovavano ed a scambiare qualche parola: a volte massara Crocefissa regalava loro qualche ricotta o del formaggio da portare a casa. I carabinieri andavano a cavallo o a piedi, ma avevano anche le biciclette. Non erano molto istruiti e la maggior parte di essi sapeva leggere e scrivere quel tanto che serviva  per il proprio ufficio; non davano mai opinioni sugli avvenimenti politici.

Il riferimento al naufragio dell’Acquaviva è tratto dal capitolo terzo di “Poppiiti”, uscito nel 1996 ed io l’avevo ricavato da “La corografia fisica e storica della provincia di Terra d’Otranto”, stampato a Lecce da Giacomo Arditi nel 1879.

L’Arditi afferma che tutto il carico della nave fu oggetto di sciacallaggio e salva solo “la gara ospitale ed umanitaria di alcuni signori e delle autorità accorse”. Nel verbale del processo tenutosi a Londra il 12 aprile successivo si dice, però, che non tutto andò perduto: “they ultimately succeeded in saving a portion of the cargo”.

Scorriamo ora il processo verbale dei fatti come redatto a Londra un mese dopo da quella Camera di Commercio.

Il piroscafo affondato all’Acquaviva si chiamava Travancore e apparteneva alla Peninsula and Oriental Steam Navigation Company. Era addetto al trasporto misto di persone e merci. Misurava 1.903 tonnellate di stazza lorda e 1.172 di stazza netta con motori da 350 c.v. Era partito dal porto di Alessandria in Egitto il 5 marzo ed era diretto al porto di Brindisi, con 108 membri di equipaggio, 57 passeggeri e un migliaio di tonnellate di merci, per lo più cotone.

La nave faceva rotta verso il Capo d’Otranto per poi, ivi giunta a circa un miglio dalla costa, segnalare la sua posizione a terra. Da dove avrebbero telegraficamente avvertito Brindisi del suo arrivo perché si approntasse in tempo il treno speciale, pronto per il trabordo dei passeggeri e della posta nello stesso porto. Alle 11 di sera, il Travancore era in vista del faro di Santa Maria di Leuca e tracciata la rotta per proseguiire il capitano se n’era andato sottocoperta. Il tempo era bello, il cielo sereno e il mare completamente piatto, spirava una leggera brezza.

Poi le cose si complicarono in quanto le valutazioni del comandante e del suo vice non coincidevano ed anche per la nebbia calata sulla zona. Il comandante aveva controllato le carte nautiche e tornando sul ponte, verso le tre del mattino, ordinò di cambiare la rotta, ma improvvisamente si trovò la costa molto vicina e la cambiò nuovamente. E fu proprio in quel momento che la nave urtò violentemente contro uno scoglio della “Baia di Castro dentro Punta Mucurone (Maccarone nel testo inglese) a circa 9 miglia dal Capo d’Otranto”. La prua era staccata dalla riva meno di 50 metri e la poppa meno di 100.  Erano le 4 del mattino. Furono immediatamente calate in mare le scialuppe e portati a terra i passeggeri e la posta. La nave imbarcava acqua molto in fretta, però, ma il capitano e l’equipaggio rimasero a bordo  per tentare di disincagliarla anche se l’acqua entrava sempre più copiosa nelle stive. Alle 7 di sera fu del tutto abbandonata. Ma gli uomini della ciurma vi ritornarono il giorno successivo e riuscirono a salvare una parte delle merci. La nave rimase poi abbandonata al suo destino ma non ci furono perdite di vite umane.

Il 12 aprile pressso Westminister il capitano Robert Scott e Melbourne Denny Blott, vicecomandante, furono processati, ritenuti responsabili del naufragio e condannati alla sospensione per tre mesi della loro patente nautica. Motivo: la nave non era stata governata with proper and seamanlike care, con la necessaria accortezza degli uomini di mare.

L’episodio è rimasto generalmente dimenticato per più di un seccolo, fino a quando nel 2005, il giorno 8 di marzo, l’Amministrazione comunale di Diso, del cui territorio fa parte la frazione di Marittima e quindi dell’Acquavia, non ha deciso di porre una targa con la scritta: “A ricordo del 125° anniversario del naufragio della nave Travancore”.

L’episodio del piroscafo inglese è stato studiato in modo approfondito da Ninì Ciccarese, discendente di una famiglia di Castro, presso la quale alcuni passeggeri della nave avevano trovato ospitalità nel marzo del 1880.

Gli stessi fatti sono stati trattati dal professor Alfredo Quaranta di Marittima con il titolo “La valigia delle Indie” stampato per i tipi di Capone Editore nel 2003. “Valigia delle Indie”, poi, era stato il nome italiano del treno postale e per viaggiatori che da Modane (in Francia) aveva portato a Brindisi, attraverso la penisola italiana, i viaggiatori e corrispondenza da Londra a Bombay (via Canale di Suez) nel periodo  dal  1870 al 1914.

Il mio omaggio a Grigoriu

di Armando Polito

Tra i tanti meriti di questo sito c’è anche quello, certamente non secondario, di tramandare il ricordo di persone “qualsiasi” eppure non comuni, di scrivere, senza velleità manzoniane, e più tardi bretchiane, una storia, non solo locale, parallela a quella ufficiale o, addirittura, alternativa ad essa. Né è da trascurare la conseguente stimolazione di interessi col correlato sorgere di domande che probabilmente mai ci saremmo posto.

È il caso, per esempio, per quanto mi riguarda, di sgherru, soprannome del personaggio magistralmente delineato da Salvatore Chiffi nel suo recente post Grigoriu lu sgherru, un contadino amato da tutti  e in modo sublime sintetizzato nella vignetta di Melanton.

La voce nel vocabolario del Rholfs è registrata solo per Nardò e, dopo aver riportato il significato (“guercio, strambo”), lo studioso aggiunge: “[ cfr.  il calabrese a sgherra=a modo bizzarro, italiano sgherro=bravaccio armato]; v. sghèu”.

A sghèu (voce registrata per il Brindisino a Mesagne e per il Tarantino a Grottaglie) dopo i significati di “guercio, strambo, storto (di occhio)” leggo: “uècchji sghèi=occhi strambi; sghèu, sgheo=brutto, deforme; fàccia di sghèu (Oria)=fraccia brutta [cfr. l’italiano sghembo=storto]”.

In assenza di qualsiasi indicazione etimologica diretta il rinvio, da una parte, da sghèrru/sgherro a sghèu e dall’altra da sghèu a sghembo autorizzano a supporre che per il Rohlfs i collegamenti tra le voci appena elencate non siano solo di tipo semantico ma probabilmente anche etimologico, tenendo presenti i principi da lui stesso enunciati sull’argomento nell’introduzione della sua opera: “Per comodità del lettore abbiamo pensato di indicare brevemente le etimologie, senza però tenerci a norme rigide.Sono state omesse generalmente le etimologie che non offrono nessun problema. Abbiamo pensato di dare preferibilmente le etimologie quando di tratti di parole piuttosto rare ossia quando credemmo, mediante un accenno, di poter facilitare la soluzione del problema etimologico2. In altri casi, in cui la storia della parola non è ancor ben chiarita, abbiamo preferito non sforzar l’etimologia, lasciando agli studiosi che verranno dopo di noi, il compito di approfondire la questione. Per tutte le parole che i nostri dialetti hanno in comune con la lingua nazionale italiana, il lettore potrà trovar utili schiarimenti nei vocabolari etimologici della lingua italiana”.

La nota 2 presente nella citazione precedente così recita: “Diamo i raffronti etimologici in [] fine di ogni articolo.

Proprio il fatto che l’uno e l’altro lemma recano in chiusura un testo fra parentesi quadre rende legittima l’autorizzazione di cui parlavo prima, facendo rientrare entrambi i nostri casi nel punto due del metodo di indicazione etimologica teorizzato nell’introduzione.

Se però dal punto di vista semantico, non c’è ombra di dubbio, qualche perplessità circa la loro comune origine le nostre voci suscitano sul piano della fonologia.

Vediamo brevemente per sgherro e sghembo l’etimologia ufficialmente accreditata (non significa che è quella vera, ma quella, almeno per il momento, accertata):

SGHERRO: dal longobardo skarrjo=capitano.

SGHEMBO: dal latino medioevale sclimbu(m), a sua volta dal gotico o longobardoslimbs=obliquo, dall’alto tedesco medio slimp.

L’etimologia finora concordemente proposta di questa seconda voce non mi convince per motivi fonetici. La presenza, infatti, di c nella voce latina si spiega perfettamente tenendo conto della voce (addirittura preclassica, altro che Goti!) stlembus presente in un frammento di Lucilio (poeta del II secolo a. C.) tramandatoci da Pompeo Festo (grammatico del II secolo d. C.): “STLEMBUS gravis, tardus, sicut Lucilius pedibus stlembum dixit equum pigrum et tardum”1 (pesante, lento, come Lucilio definì sghembo [?] di piedi un cavallo pigro e lento). Sono un incosciente ad aver tradotto (sia pure dubitativamente) lo stlembum con sghembo? E ad immaginare che un cavallo che appoggi gli zoccoli obliquamente sia meno rapido di uno che procede normalmente (la stessa cosa succede, scambiando gli zoccoli con i piedi o con delle scarpe non adatte, agli umani)? Semanticamente ci sta, ma foneticamente come si fa a passare da stl- a sgh-? La risposta è estremamente facile:  come in Persio (I secolo d. C.) accanto a stloppus è attestato scloppus che continua nel latino tardo accanto a stoplus e stolpus; e, come stoplus attraverso *scoplus ha dato vita a scoppio, e scloppus a schioppo, così stlembus attraverso *sclembus potrebbe aver dato vita a schiembo, a sua volta padre di sghembo.

Comunque stiano le cose, allo stato attuale mi sembra quanto meno prudente considerare sgherro e sghembo accomunati solo semanticamente ma non etimologicamente.

Approfitto dell’occasione per chiudere con una nota erotica o, se si preferisce, pornofonica. Negli anni ’60 i più audaci tra noi si esibivano in una nnascàta2, non per quella sorta di simpatico tic di Grigoriu (a parte il canto intonato una volta inforcata la bicicletta dopo il pediluvio e la metafora legata alla foratura) ma per manifestare la loro eccitazione (non a caso imitando il maiale…) al passaggio di qualche avvenente donzella.

I problemi che mi son posto e che sono rimasti sostanzialmente irrisolti costituiscono il mio modo di onorare un campione di un’umanità forse perduta, anche se con esiti infinitamente meno suggestivi di quelli del post di riferimento. E, se anche fossi riuscito a dare un risposta alle domande, mi sarei sentito, comunque, piccolo piccolo di fronte ad un uomo che poteva permettersi il lusso di apparire, tutto sommato, saggio, senza conoscere, probabilmente…, né la grammatica né, tantomeno, l’etimologia.

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1 De verborum significatu, XVII; cito e traduco il testo dell’edizione  di M. A. Savagner, Panckoucke, Parigi, 1846, XVII, pag. 561.

2 Da nnascàre, a sua volta da ad+nasca=narice, e questo dal  latino Nasìca, soprannome degli Scipioni, che, secondo Arnobio (III-IV secolo), avevano il naso appuntito; comunque sia, è chiaro che nasìca (se è diventato un soprannome vuol dire che all’origine era un nome comune) appare forma aggettivale sostantivata femminile (com’è successo, sottintendendo dies=giorno, per alba che, come aggettivo, significa chiara) dal classico nasus=naso. Mi permetto poi di confermare per” zzappa ti scatèna” la derivazione dal verbo “scatenare”, ma nel senso di “liberare la terra dalle catene”.

Che ci azzeccano insieme?

di Armando Polito


Oggi presenterò l’albero genealogico di una famiglia piuttosto numerosa, cominciando, come si conviene, dal capostipite e indicando per lui e per ognuno dei suoi discendenti il significato italiano, il corrispondente formale italiano (quando c’è, anche se, il più delle volte, come vedremo,  esso ha un significato traslato abbastanza spinto, comunque non tale da renderlo irriconoscibile, rispetto alla voce latina di partenza e a quella dialettale) e, poteva mancare?, l’etimologia. La s di ccunsàre, la seconda di scunsàre, quella di consa e di cuènsu hanno in realtà una pronuncia tra s e z, tant’è che il suono da molti viene rappresentato con quest’ultima consonante.

ccunsàre aggiustare, riparare; italiano acconciare, da un latino *adcomptiàre, composto dalla preposizione ad=vicino a+*comptiare, dalla radice del classico comptum, participio passato di còmere1=unire, ordinare, adornare. Nel latino medioevale (Du Cange, Glossarium mediae et infime Latinitatis, Favre, Niort, 1883, pag. 472 è attestata la forma (senza epentesi di –i-) comptàre=ornare come avviene pure in epoca classica: per esempio, dal participio passato di càpere (captum)=prendere si è formato captàre=tentare di prendere; oltre a comptàre lo stesso glossario registra anche la forma frequentativa comptitàre.

scunsàre mettere fuori uso;  italiano sconciare, dalla preposizione ex=fuori da+ *comptiàre.

consa malta italiano concia, da conciàre.

cuènsu  attrezzo per pescare costituito da una lenza lunghissima con molti ami e galleggianti; formalmente corrisponde all’italiano concio per cui vedi cuzzèttu; naturalmente, mentre per il concio il concetto originario di còmere (unire, ordinare) sostanzialmente è slittato verso quello di preparare per la messa in opera, cioè squadrare, nel cuènsu (chi se lo è costruito da sé sa cosa vuol dire, a parte l’abilità nell’usarlo, in assenza della quale è più probabile che i pesci catturinio il pescatore che viceversa…) è rimasto il concetto fondamentale di unire.  

cuzzèttu diminutivo dell’italiano concio (da pietra concia; concia nasce come participio passato di conciàre, per la cui etimologia vedi ccunsàre)

‘ncuzzittàre appioppare (m’ha ‘ncuzzittatu lu pièrnu=mi ha appioppato la fregatura, un fastidio); la voce, che non ha corrispondente formale in italiano, è, secondo me, da in+cuzzèttu, quasi caricare un peso sulle spalle di un altro. Per questa etimologia il Rohlfs è abbastanza ambiguo, nel senso che registra ncuzzettàre limitandosi a dare la definizione assestare un colpo sulla nuca per Lecce e dare con violenza, scagliare per Otranto. Alla voce cuzzèttu1 (diversa da cuzzetto2 corrispondente al nostro, cioè al concio) dà la definizione di nuca, occipite e pone il confronto con il calabrese cuòzzo=nuca. Subito prima di cuzzettu1 è riportata per Copertino la voce cuzzettàre col significato di scagliare con impeto, scaraventare, assestare un colpo sulla nuca e col rinvio al già visto ncuzzettàre.  Comparendo la nuca nelle definizioni riportate, debbo concludere che per il Rohlfs (anche se, ripeto, non lo dice espressamente e questo tradisce, secondo me, come avviene più palesemente in altre circostanze, quanto meno un dubbio) la base è questo cuzzèttu1. Per concludere, se ‘ncuzzittare dovesse derivare da cuzzèttu1, è evidente che l’evocato calabrese cuòzzo (ma lo stesso Rohlfs registra la voce per Alezio, Galatone, Galatina e Gallipoli col significato di roccia affiorante, sasso sporgente) corrisponde al neretino cuèzzu (stessa etimologia dell’italiano coccio), come altrettanto evidente è per il lettore che ho tentato di ‘ncuzzittàrgli, sia pure in buona fede, un’etimologia fasulla.

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1 A voler essere pignoli non è còmere il patriarca, se si pensa che esso è composto da cum (=con)+èmere=comprare. Dunque, il vero responsabile di tutto è èmere che, oltre che con cum (dando vita anche a coèmere=comprare insieme), si è accoppiato pure con dis– (prefisso con idea di separazione) dando vita a dirìmere=separare, con de (=lontano da) dando vita a dèmere=togliere e con sub (=sotto) dando vita a sùmere=prendere. Che abbiano ragione coloro per i quali il denaro è tutto?  

Sapiens e noi

di Mauro Marino

Il primo Homo sapiens europeo è salentino, pardon… pugliese, no anzi, italiano. Era molto piccolo e  non era ancora allenato ai distinguo “regionalisti” apparteneva alla Natura, era sua intima cosa nella bellezza di Uluzzo che chissà com’era in quel remoto tempo, 43 – 45mila anni fa.

Certo la Grotta del Cavallo davanti non c’aveva il mare. Una foresta forse, oh!, che foresta… o forse una palude?

I resti del pargolo, due dentini attorniati da conchiglie, vennero trovati negli anni Sessanta del Novecento, e in prima battuta vennero attribuiti all’estinto Neanderthal e per cui datati ancora più indietro. Oggi finalmente è tutto chiaro l’Uomo Moderno, il Sapiens più antico che “conosciamo”   in Europa, viveva lì, a due passi da Nardò. È Storia, una delle tante che fanno unico questo territorio, luogo di transiti, d’arrivi e partenze…

Anche dall’altra parte, dov’è Badisco, le tracce dell’Uomo ci portano a Millenni fa, ma son cose dimenticate, invisibili e preda dell’incuria. Ma che fa, le notizie durano il tempo che durano e si è sempre pronti a strillare per poi farsi muti.

Grande pompa s’è consumata in questi giorni, locandine e paginoni che inneggiano alla primogenitura e alla pubblicazione sull’autorevole rivista britannica “Nature” della ricerca guidata da Thomas Higham dell’Università di Oxford e da Stefano Benazzi dell’Università di Vienna..

Poi, battuta la news, finito lo sturbo, tutto cadrà nel dimenticatoio e nenche un pannello avvertirà che lì, due denti da latte, hanno dato la prova che un gradino dell’evoluzione della nostra “dannata” specie è passato da lì… ma chissà da quante altre parti dimenticando di far ritrovare i dentini…

Ciò che preoccupa è la modalità ormai di “moda” nel Salento di “sparare” le notizie “salentocentriche”, con un enfasi che è roba da psichiatria.

Modo “barocco” che innalza facciate e poi immediatamente dopo dimentica di nutrire la necessaria operatività per valorizzare la “ricchezza” che il territorio ha custodito. Citavo prima Badisco e la Grotta dei Cervi, che non ha alcuna “evidenza”, ma l’elenco è lungo, interminabile se ci mettiamo a guardare. È come se il tanto osannato marketing territoriale si fermasse alle parole e alla prima scrematura di denari, poi nulla diventa cultura, educazione, pratica e semenza di crescita. Usurare soltanto questo lo stile. Consumare, tanto che poi di noi, non ritroveranno neanche i dentini!

La zappa sui piedi

di Michele Stursi

Oggi mi rifiuto di comprare il giornale e di accendere la TV. Oggi mi rifiuto di essere pilotato su immagini strazianti, considerazioni raccapriccianti, racconti appassionati. Oggi pretendo il silenzio per celebrare l’ennesima disfatta dell’incuria dell’uomo sulla natura. Voglio spegnere il brusio stomachevole che puntuale segue eventi di questa portata e riflettere da me, senza alcun condizionamento, su quanto è accaduto a Genova (e poi di rimando in Lunigiana, Roma, L’Aquila e così indietro nel tempo, perché la storia come si sa non è nuova).

E nel silenzio rifletto: basta davvero poco per sentirsi al sicuro, è sufficiente saperci in uno spazio, in un contenitore, separati dal resto del mondo da effimere barriere di legno, cemento, tufo o pietra. Ignoriamo d’essere solo povere creature nude e insignificanti dinanzi al mistero dell’universo, in continua ricerca di spazi delimitati, chiusi, accaldati, poiché riteniamo che è solo in questi scatoloni vuoti e bui che riusciamo ad avere la sensazione di “esistere” nel creato. Abbiamo inconsapevolmente ripudiato l’idea di “essere” parte del creato stesso e spendiamo la nostra vita a rincorrere quel po’ di solitudine in grado di tirarci fuori dal mondo che ci scorre addosso. Ci aggrappiamo alle cose effimere pur di non farci trascinare dalla corrente e costruiamo immense opere di cemento dietro le quali nascondere le nostre fragilità.
Aver paura della natura è una sciocca convinzione plurisecolare e pensare che quattro mura scrostate che ci separano dal mondo siano sufficienti a proteggerci da tutto, un gioco di luci e ombre, un’illusione. Ma da cosa fuggiamo allora? Perché la nostra casa ci infonde nel cuore quel grande senso di sicurezza che ci permette poi di affrontare con serenità i problemi della vita? A cosa dobbiamo questa perdita di fiducia negli spazi aperti, questa agorafobia compulsiva che ci porta a preferire una serata in casa davanti al televisore a una bella passeggiata in riva al mare o in montagna? La solitudine è la chiave di questi tempi moderni. La sensazione di essere soli e distanti dal mondo che ci regala una trasmissione televisiva è incomparabile con quella di appartenenza all’universo che ci infonde una serata di luna piena. E tuttavia schiviamo volentieri la possibilità di sentirci parte della natura, pur di non provare per un istante il brivido della fragilità e della limitatezza.

La lastra di cemento che si diffonde incontenibile come macchia d’olio sulla nostra terra è sufficiente per riempirci l’animo di soddisfazione e di orgoglio, disegnare sul nostro volto quel falso sorriso che solo l’effimero valore del dio denaro è in grado di elargire e farci salire su piedistalli di ghiaccio che si sciolgono ai primi bagliori dell’alba. Illudersi di poter sfuggire al mondo, di poter salire sulle spalle della natura per ammansirla: questo è il vero guaio dell’uomo. E si continuano a fare scelte scriteriate ancora oggi, pur di rimandare a domani l’amara constatazione che deturpando la natura non abbiamo fatto altro che darci con la zappa sui piedi.

L’escort e la pulàndra

Alfons Maria Mucha (Ivančice, 24 luglio 1860 – Praga, 14 luglio 1939), pittore e scultore ceco, spesso anglicizzato come Alphonse Mucha. È stato uno dei più importanti artisti dell’Art Nouveau

di Armando Polito

Chi fosse interessato alla prima si rivolga a chi da tempo ha nel campo una fama mondiale; se poi l’interesse dovesse vertere solo sull’etimologia della parola, può leggere la nota 1 del mio post Piero Angela ha battuto Simona Ventura del 30 maggio dello scorso anno. Insomma, sperando che almeno il titolo abbia attratto il maggior numero possibile di lettori (chi non ricorda le copertine dell’Espresso e dell’Europeo che facevano a gara nell’esibire figure femminili scollacciate col bel risultato di offrire a chi non digeriva le loro tesi politiche l’occasione di incriminarli per oltraggio al comune senso del pudore?), passo direttamente a pulàndra, una voce del dialetto salentino dalle molteplici sfumature semantiche. Essa, infatti, significa (cito dal vocabolario del Rohlfs)  lembo inferiore sudicio e inzaccherato della gonna a Casarano, Castro, Galatina, Gagliano, Gallipoli, Martano, Maglie, Nardò, Otranto, Soleto, Tricase e Ugento; gonna sporca a Nardò, donna sporca, malvestita, trascurata a Galatone, Galatina e Nardò, puttana a Galatina e Maglie e nel Supplemento donna sporca e disordinata a Sternatia.

Alphonse Mucha

Trascurando quest’ultimo significato (che coincide con quello comune a Galatone, Galatina e Nardò) e considerando i rimanenti, il lettore noterà che essi sono sistemati dal Rohlfs in ordine peggiorativamente crescente, che all’inizio coinvolge solo un dettaglio di un capo d’abbigliamento, poi, via via, tutto il capo, per trasferirsi subito dopo alla persona e per costituire alla fine del percorso un vero e proprio marchio infamante.

Per questa voce il filologo tedesco non propone alcun etimo, ma mi rifiuto di credere che l’ordine con cui ha registrato i vari significati sia casuale; penso, invece, che vi abbia a suo tempo nascosto un suggerimento per chi in futuro avesse avuto l’intenzione di affrontare la questione, un’intuizione, forse, che per un motivo o per l’altro non è stato possibile controllare e confermare. Lo sfrutterò, anche se è da me lungi l’idea, degna di uno stregone, che sia io l’eletto (mi piacerebbe, ma non credo a queste cose) attraverso il quale il maestro intende completare ciò che lasciò sospeso.

E partirò proprio da un capo di abbigliamento di altri tempi cioè dalla palandra o pelandra (cito dalla Treccani on line): “[alterazione di pelanda] in origine altro nome della pelanda o pellanda, rimasto poi nel secolo XVII a indicare una veste lunga e larga, ricamata e foderata di pelliccia”; e a pelanda: “(o pellanda; anticamente anche opelanda, pelarda) [dal francese antico houppelande, voce di origine incerta]. Ampia sopravveste, tipica della moda francese tardo gotica, diffusa anche nell’abbigliamento maschile e femminile dell’Italia settentrionale nei secoli XIV e XV; introdotta inizialmente nell’abbigliamento di corte, con strascico e fodera di pelliccia, era aperta davanti, con maniche lunghe e assai abbondanti, negli esemplari più tardi stretta in vita da una cintura”.

Alphonse Mucha

Dell’obsoleto palandra  sopravvive oggi il derivato palandrano (o palandrana) ad indicare (cito dalla fonte di prima) “Veste larga e lunga come un gabbano, usata in casa dagli uomini, specialmente nei sec. XVII e XVIII; nell’uso comune, ironicamente e scherzosamente, abito lungo, largo, goffo e privo di eleganza”.

La caratteristica più appariscente della pelandra (scelgo fin da ora questa variante per motivi che saranno espressi più in là)  è senz’altro la lunghezza accompagnata dallo strascico, il cui destino fatale è quello di sporcarsi, a meno che non si proceda su un pavimento o una strada lucidati a specchio. Da ciò il  significato iniziale di  lembo inferiore sudicio e inzaccherato della gonna dal quale, come ho ipotizzato all’inizio, sono derivati, in un’escalation di negatività, gli altri.

La variante pelandra mi consente, da un punto di vista fonetico, di arrivare agevolmente a pulandra attraverso un passaggio intermedio *pilàndra.

Tutto risolto? No, perché in greco esiste l’aggettivo polýandros (composto da polýs=molto e anèr=uomo), che riferito a luogo significa popoloso, a persona numeroso;  è, però, usato nella sua parafrasi del Vangelo secondo Giovanni da Nonno di Panopoli (probabilmente V secolo d. C.) in unione a gyné=donna ad indicare una rappresentante del gentil sesso che ha avuto molti mariti. Il contesto in cui il nesso è inserito esclude qualsiasi interpretazione maliziosamente eufemistica di quel “mariti”; al fine di consentire a chi ne ha voglia un controllo e a me stesso di essere cortesemente avvertito di qualche abbaglio, che è sempre in agguato, riporto il brano, che si riferisce, fra l’altro, alla notissima parabola di Gesù e la samaritana1: “E [Gesù] interrogava con un comune e alterno scambio di parole una donna dai molti mariti (polùandron gynàika). –Va’ e chiama tuo marito e fallo venire qui di corsa dalla città!-, disse. E la samaritana ribattè : – Non ho un marito, da dove lo chiamo?-. Gesù rimproverò la donna: -Io so che non hai marito, ma ne hai avuti cinque ed ora stai illegittimamente con un sesto uomo-“.

Alphonse Mucha

Non mi pare a prima vista sufficiente questa illegittimità, anche applicando la più stretta morale cristiana, a bollare la donna come una prostituta o quasi. Tuttavia, lo stesso aggettivo era stato usato circa quattro secoli prima in forma sostantivata da Filone di Alessandria (I secolo d. C.) in De fuga et inventione col significato di prostituzione2 (tò legòmenon polýandron kakòn; alla lettera: il male cosiddetto dai molti uomini) dato da tutti i commentatori. Per me, sempre in base al contesto, la voce potrebbe alludere ad una frequentazione sessuale, anche spinta, non necessariamente a scopo di lucro. L’una e l’altra, però, nella morale cristiana (ne sono testimonianza, d’altra parte, sia pure in tempi diversi, i due autori riportati) hanno costituito un’equazione che solo in tempi recenti è stata ridimensionata in base a sottili distinzioni cristalizzate in voci nuove che vanno da mantenuta a ragazza squillo e, ultimamente, a escort (la sostanza non cambia, proprio come, in riferimento al linguaggio politico, succede per il vecchio cambiamento, via via sostituito da alternanza, discontinuità e, ultimamente, passo indietro).

Concludo questa, spero non oziosa e noiosa, disquisizione:  se pulàndra non è da pelàndra, è la conferma che l’abito non fa il monaco (ma nella civiltà dell’immagine e dell’apparire questo antico proverbio mi sembra decisamente obsoleto…); se non è neppure dal greco polýandros (e da questo non derivano neppure i significati, per così dire, innocenti, tramite un’inversione del processo indicato all’inizio: non dall’oggetto alla persona, ma viceversa), allora vuol dire che la mia  ricerca etimologica è finita come fra poco finirà, per tacere, in un sussulto di orgoglio patrio, dell’Italia,  il TFR (Trattamento di Fine Rapporto…nomina, anzi acronima, omina ), cioè…a puttane.3   

Ma ecco la soluzione politica (questa volta nel senso di Polito): per pulandra andrebbe registrato un doppio lemma: pulàndra 1 coi significati di lembo inferiore sudicio e inzaccherato della gonna,  gonna sporca, donna sporca, malvestita, trascurata e donna sporca e disordinata (da pelàndra) e pulandra 2 col significato di puttana (dal greco polýandros).

La pelandra (http://ugobardi.blogspot.com/2010/07/clima-e-parrucconi.html)
La pulandra1 (http://malvestite.splinder.com/archive/2005-11)
La pulandra2

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1 Traduco dal testo originale dell’edizione Nonni Panopolitani Graeca paraphrasis sancti evangelii secundum Joannem, a cura di Francesco Nansio, Apud Franciscum Raphelengium, Lugduni Batavorum, 1589, pagg. 44-46.

2 Traduco dal testo originale incluso in Philonis Iudaei opera omnia, Tauchnit, Lipsia, 1851, tomo III,   pag. 149.

3 Unica consolazione, si fa per dire, dell’ipotetico fallimento (aver compagno al duol scema la pena…) sarebbe l’esilarante etimologia proposta dal Garrisi, dal cui vocabolario riporto l’intero lemma: “Pulandra s. f. 1 -Cascame di fibre tessili *2 -Peluria che si attacca ai vestiti *3- Sfilacciatura all’orlo di indumenti. [da un incrocio tra italiano pula e pulandra]”. Non mi era mai capitato di incontrare un’etimologia “autoreferenziale”, ma la cosa più tragica, per me, dopo quella comica, è che non compaia ombra di avverbio tipo forse o probabilmente.

Le feste dei Morti: antiche tradizioni di Monte sant’Angelo e Peschici

Cimitero di Lecce, tomba della famiglia Pranzo

di Teresa Maria Rauzino

Giovanni Tancredi, nel volume “Folclore garganico”,  pubblicato nel 1938, dedica una bella pagina alla festa di Ognissanti e al giorno dei Morti. Esordisce dicendo che sulla sommità del Monte Gargano, tutta la natura sembrava partecipare all’evento: un sole smorto e le prime nebbie avvolgevano i monti e la città di Montesant’Angelo, mentre le foglie gialle e rossicce si staccavano dai tronchi e frusciavano sulla terra brulla ai primi soffi di vento gelido.

Un quadro d’insieme completato dal volo di uno stormo nero di cornacchie, che si alzavano pigramente e si disperdevano nell’aria, emettendo un rauco funebre grido.

Le donne del popolo “montanaro” il 1 novembre, giorno di Ognissanti, per devozione alle anime dei morti, lessavano nel latte delle piccole quantità di grano e granturco, condendone  i chicchi con il vincotto di fichi.

La festa si connotava per l’attesa dei doni dei morti. Nella notte che precedeva il due novembre, i bambini di sette, otto anni appendevano una calza nella cappa del camino oppure dietro la porta dell’ uscio, le imposte dei balconi e delle finestre. Credevano che i morti, tornati dall’oltretomba, dopo aver vagato qualche ora per il mondo, scoccata la mezzanotte, si sarebbero fermati anche nella loro casa per esaudire i loro segreti desideri. La credenza era puntualmente confermata dai fatti. Durante la notte, effettivamente, la calzetta si riempiva di ogni ben di Dio: fichi secchi, castagne, noci, ceci arrostiti, mele, melacotogne, e talvolta anche di dolci e giocattoli.

I morti incutevano ai bambini un po’ di paura, specie prima addormentarsi, pur tuttavia la tetraggine del nome non impediva loro di addentare una mela, di sgranocchiare una cialda, di rompere una noce, anzi. Il senso di

All Hallows eve, ovvero Halloween!

di Paolo Vincenti

Tra zucche, mostri e scheletri, puntuale, anche quest’anno, arriva Halloween, tradizione anglosassone importata in Italia alcuni anni fa, con un successo sempre crescente. Quale è il significato di Halloween e quali sono le sue origini? La parola Halloween, di origine anglosassone, deriva da “All Hallows Eve”, che significa “Notte di Ognissanti”, festeggiata il 31 ottobre, data che era molto significativa nell’antichità. Le origini di Halloween ci riportano ad un’epoca antichissima, cioè all’età dei Celti, che dominavano l’Europa prima dell’avvento dei Romani. L’anno nuovo, per gli antichi Celti, iniziava il 1 Novembre, quando i lavori nei campi erano ormai conclusi ed il raccolto era stato messo al sicuro; in quella data, erano ricordate tutte le divinità pagane ed erano ringraziate per la riuscita del lavoro nei campi, anche come auspicio per la nuova stagione. Questa ricorrenza era chiamata Samhain, ed i suoi colori

Maurizio, Nocera e Maurizio (e altri Arsapi volanti)

di Paolo Vincenti

Maurizio Nocera continua a scrivere e ad “agire” cultura, non solo in Salento, ma in tutta Italia, e le sue pubblicazioni sono sempre preziose per tutti quelli che, come me, hanno a cuore la cultura salentina che, nel caso di Maurizio, diventa cultura universale. La bibliografia da me compilata nel precedente libro (di cui scrivo sopra) si fermava a settembre-ottobre 2007. Altri tre anni di produzione sono stati intensi e prolifici per Nocera. Questo mi ha spinto a ritornare sulla materia, ossia su quel lavoro che, essendo scritto su un personaggio vivente e in attività, non può essere conchiuso, ma anzi è un “work in progress”.  Così ho pensato bene di aggiornare la bibliografia, con tutte le uscite che ci sono state  nel 2008-2009-2010.

Un  triennio importante,  per l’autore, oggetto e protagonista di questa trattazione. So benissimo, come lo sapevo per il primo libro, che il rischio dell’agiografia, dell’adulazione, è dietro l’angolo. Io corro questo rischio, pubblicando questa plaquette sul Nostro, come l’ho corso quando ho fatto altrettanto con Aldo de Bernart, in occasione del suo 82° compleanno, e quando ho tracciato le bibliografie degli amici  Ortensio Seclì e Mario Cala, due importanti studiosi parabitani, nel libro Di Parabita e di Parabitani ( Il Laboratorio Editore, Parabita 2008) e più  recentemente, dell’amico Ermanno Inguscio.

Dirò, a mia discolpa, che io non ho nessun interesse a captare la benevolenza del Nocera o degli altri e niente mi aspetto da loro in cambio. E,’ il mio, un atto d’amore nei confronti della cultura salentina, e vuole essere anche un servizio, sincero e disinteressato, che spero di poter rendere alla comunità  tutta dei cultori di studi salentini, seguendo in ciò l’esempio  del grande Ennio Bonea, il quale si occupava di tutto quello che veniva pubblicato in Salento e sul Salento ed anche di autori minori, se non minimi, ai quali non faceva mai mancare un suo piccolo scritto, una recensione, una semplice segnalazione, un incoraggiamento. Non sono d’accordo con coloro che, dopo l’uscita di A volo d’arsapo, hanno osservato che  un saggio come il mio dovrebbe essere necessariamente pubblicato post mortem, cioè una volta che il personaggio trattato sia passato a miglior vita.

Quella di Maurizio Nocera è una figura che io amo molto e che mi riporta alla lezione dell’Umanesimo, quel movimento culturale che, fra il Quattrocento e il Cinquecento, rivoluzionò il nostro Paese, riportando l’uomo al centro dell’Universo; quell’uomo che riprende in mano il proprio destino e si sente libero di autodeterminarsi, quell’uomo che, secondo la definizione di Leonardo Bruni, “è epilogo, sintesi perfetta di corpo e mente”, di “spirito e natura”,  e riflette in sé la perfezione della creazione divina. E le lettere diventano il terreno ideale sul quale confrontarsi e nel quale esplicare la propria libertà.

Questa idea dell’uomo come libero creatore di sé stesso, che partecipa alla bellezza divina, è un tema fondamentale della filosofia neoplatonica che si sviluppa grazie ad autori come Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, ecc.. La filosofia neoplatonica, come dice il suo stesso nome, voleva riportare in auge il pensiero del grande Platone. E la stessa filosofia platonica ispira l’opera e gli studi di un importante pensatore cileno contemporaneo: Sergio Vuskovic Rojo, grande amico di Nocera. Le humanae litterae,dunque,costituivano, in quell’epoca storica, attraversata da una renovatio culturale, un dialogo perenne fra gli uomini e un mezzo di comunicazione spirituale. Senza questa nuova concezione di humanitas, che si deve proprio all’Umanesimo e al Rinascimento, non ci sarebbero stati il pensiero e le opere dei grandi autori venuti dopo, dal Seicento fino ai giorni nostri. Nel Quattrocento vengono superati tutti gli steccati fra le varie discipline, che fino ad allora erano stati dei compartimenti stagni, e il sapere diventa partecipato, condiviso. Le varie arti e competenze entrano in contatto e dialogano fra di loro, in un reciproco e proficuo scambio.

Maurizio Nocera mi ricorda proprio questa figura di homo novus, di intellettuale, libero artefice del proprio destino, che abbatte tutti gli steccati fra le varie materie del sapere e si occupa di tutto, dalla  prosa alla poesia, dall’esegesi critica dei testi alla produzione di testi propri, dalla promozione culturale all’editoria, dal magistero del suo insegnamento all’impegno politico, dal giornalismo alla fotografia, ecc., ecc.. Egli mi sembra il tipo dell’uomo universale, alla Leonardo Da Vinci. L’intellettuale come Nocera, attraverso questo esercizio quotidiano di libertà, acquisisce più piena consapevolezza della propria dignità e del proprio ruolo sulla terra, della propria funzione nella società odierna, e questa consapevolezza lo rende forte e al tempo stesso impaziente verso tutte le forme di repressione, lo rende intollerante verso la prevaricazione e i pregiudizi e verso tutte le vecchie oppressioni.

Nella carriera di Maurizio Nocera, in questi tre anni, si può notare un grande impegno nella promozione del libro, inteso come oggetto, spesso opera d’arte, e nella promozione e valorizzazione dell’antica arte tipografica, che lo ha portato a intrecciare rapporti con alcuni fra i maestri stampatori più importanti d’Europa, come, ad esempio, i Tallone di Alpignano. Ma potrei citare anche la sua fruttuosa collaborazione con l’editore milanese Mario Scognamiglio, che lo ha portato a pubblicare suoi scritti di varia bibliofilia sulla prestigiosa rivista “L’Esopo”.

Un altro polo attrattivo per Maurizio è stata la poesia. E sempre più spesso la poesia per Nocera si lega indissolubilmente ad un nome: quello di Pablo Neruda. L’amore per Neruda lega Maurizio ad un altro grosso personaggio, il già citato filosofo cileno Sergio Vuskovic Rojo, e questo ci porta a quella vocazione multinazionale o “transfrontaliera”, come  ho  già avuto modo di definirla,  dell’intellettuale Nocera.  Da sempre egli pubblica opere proprie e degli altri, organizza presentazioni, promuove incontri, sinergie, progettualità. Come dicevano gli umanisti, “excelsum et divinum quiddam cum colloquimur inter nos”: quando gli studiosi dialogano tra loro, fanno qualcosa di eccelso, quasi divino, perché attraverso questi incontri, possiamo davvero fare cultura e possiamo ritrovare noi stessi e gli altri diversi da noi e a noi uguali. In particolare, in questi ultimi tempi, metà privilegiata dei viaggi di Maurizio e delle sue divagazioni letterarie è il Cile, patria di Neruda e Rojo, soprattutto Valparaiso, “porto mondiale della pace e della poesia”.

In Cile, il nome di Maurizio è molto conosciuto e  apprezzato. L’altro centro di interessi, non trascurato in questi anni, è la promozione culturale in Salento, il che lo porta a patrocinare tante e tante pubblicazioni che vedono la luce nei nostri paesi salentini e a partecipare a tantissime manifestazioni culturali che si svolgono da un capo all’altro di questo tacco d’Italia. Come non parlare della politica, primo e mai rinnegato amore di Nocera, e quindi della passione civile che muove e ha mosso tante sue iniziative; c’è tanta solidarietà sociale nel cuore, che batte sempre a sinistra,  di Maurizio Nocera, e tanto amore per gli umili, gli emarginati, tanto rispetto per le minoranze e le diversità, tanto libero e laico cercare corrispondenze nel suo quotidiano apostolato culturale. C’è ancora, in lui, l’amore per l’insegnamento, che lo porta a ricoprire due cattedre: oltre a quella di Filosofia presso l’istituto Magistrale “Siciliani” di Lecce, anche quella di Antropologia Culturale presso l’Università degli Studi del Salento.

Molto fitta e intensa è stata la collaborazione con le pagine culturali del quotidiano leccese “Il Paese Nuovo”, ma anche puntuale è stata la presenza della sua firma sulle ormai storiche riviste salentine “Anxa News”, “Il Bardo”, “Il filo di Aracne” e “Presenza Tuarisanese”. Nocera continua a coltivare le sue relazioni, si pensi ai Tallone, oppure a Oliviero Diliberto, al già citato Mario Scognamiglio, a Gianfranco Dioguardi, a Gianni Cervetti, a Ignazio Delogu, ad Antonio Massari; e in questo è sempre appoggiato dalla consorte Ada Donno, donna intelligente e intellettuale coltissima e raffinata, al pari dell’irrequieto consorte, ma sicuramente più schiva. Ma non voglio annoiare i pazienti lettori e lascio spazio al resto dell’eterogeneo materiale che compone questo libro, nonché, last but not least, alla bibliografia noceriana.

Tratto dal libro di Paolo Vincenti  Nocerancora  (Postille Bio-Bibliografiche Su Maurizio Nocera), di imminente pubblicazione.

La chiesa matrice di Avetrana

di Raimondo Rodia
Incomplete e sommarie appaiono le ricerche sulla chiesa matrice di Avetrana e pertanto oggetto ancora di studio.
A tutt’oggi non si è ancora riusciti a determinare l’anno di fondazione, anche se da uno studio di D. Vendola (1939) la chiesa di Avetrana (XIII – XIV sec.) appare già iscritta al pagamento o alla riscossione di decime.
Un documento risalente al 1468 ci conferma che è la chiesa di Avetrana a riscuotere decime. Importantissimo è chiarire il passaggio in quanto ancora una volta la storia di questo paese sarebbe da riscrivere. Certo è che l’edificio a cui si riferiscono quelle antiche carte non è quello odierno; infatti, invisibili al pubblico, dietro l’altare maggiore, giacciono le fondazioni di un edificio absidato e non è facile spiegare i differenti livelli tra l’ufficio parrocchiale, la sala ora adibita a piccolo museo e la restante parte dell’edificio come fatto di maggior vetustà di quest’ultimo.
Il nuovo impianto parte con la torre campanaria la cui edificazione è posta nel XVI secolo. Documenti recentemente ritrovati risalenti al 1583 e riferentisi al 1565 ci permettono di affermare che in quell’anno erano in atto i lavori di costruzione del ‘campanaro’. Il completamento della costruzione dell’intero edificio si protrae lungamente né tanto meno apparirebbe completato al tempo che ci indica la data posta all’esterno, in cima al timpano del frontone (1756).
Lo stile, anche se con molti spunti di tradizione locale, richiama le molte chiese dei nostri paesi di Terra d’Otranto.
L’intero edificio si articola su tre navate coperto con la tecnica dell’incannucciata sospesa mediante tiranti che la collegano al tetto vero e proprio a capriata. Partendo dall’ingresso della navata destra osserviamo l’altare di S. Giuseppe, quindi quello dedicato al Cuore di Gesù (cui corrispondono le sepolture dei notabili del paese) e l’altro dedicato alla

La mucca podolica pugliese

Mucche della bella e pregiatissima razza Podalica Pugliese, allevata nei secoli passati, con numerose mandrie nel cuore del Salento. Numerose ossa fossili trovate nel feudo di Maglie testimoniano la presenza dell’Uro nelle aree del Bosco Belvedere già in epoca paleolitica. Un graffito rupestre paleolitico sulle pareti di Grotta Romanelli a Castro, raffigura proprio un Uro

Ritornino in tutta la Terra d’Otranto le vacche sacre della razza autoctona podolica pugliese. Il Toro di razza “Pugliese”!

di Oreste Caroppo

Nel paesaggio d’un tempo del cuore del basso Salento, tra le sue Serre orientali e quelle occidentali, dominato dall’estesissima Foresta del Belvedere, allo stato brado si allevavano le mucche della razza autoctona “Podolica Pugliese”!
Il suo allevamento esteso e brado, che connotava il paesaggio del sud Salento fortemente con note pittoresche uniche collegate anche al bellissimo portamento di questa mucca dalle grandi corna ed ai suoi colori, è però venuto meno con il disboscamento selvaggio, dall’800 ad oggi, tanto che orami solo pochissime masserie nella zona dell’Arneo (Nardò) allevano questa specie nel sud Salento.

Tra ‘800 e ‘900 molto importanti sono stati gli allevamenti nel basso Salento della razza bovina detta “pugliese” appunto, (quella che oggi in terminologia zootecnica si chiama “podolica pugliese” sui testi), del senatore Vincenzo Tamborino di Maglie.

Nella sua masseria Franite in feudo di Maglie, ma non solo, ancora nella prima metà del ‘900, possenti tori di razza pugliese, dal mantello scurissimo, erano impiegati per la monta.
Ancora nei racconti di mia madre, all’epoca bambina, ritorna spesso il ricordo di quella furia della natura che a stento le catene di ferro riuscivano ad imbrigliare, una furia che nel ricordo di una fanciulla non poteva che impressionarne profondamente ed indelebilmente la fantasia, quando per una gita domenicale o per qualche faccenda al seguito dei suoi genitori ebbe modo di visitare quella operosa, all’epoca, masseria!
Alcuni tori del senatore si distinsero per importanti riconoscimenti da primato nelle gare zootecniche nazionali!

Eccezion fatta per l’ Arneo, ed anche lì per pochissime masserie, altrove oggi

Senza titolo, per non metterne più di uno…

di Armando Polito

L’occasione offertami da Pier Paolo Tarsi con il suo commento al recente post Cento anni di storia delle Ferrovie nel Capo di Leuca  era troppo ghiotta perché io me la cavassi con la segnalazione di due link in cui, per giunta, il mio intervento (nonostante i complimenti dell’amico Marcello, il quale a breve si vedrà recapitare una diffida dal mio avvocato di fiducia…cioè, scusate la presunzione, da me stesso, a costo di essere incriminato per esercizio abusivo della professione forense) faceva la figura di un nano tra giganti.

L’occasione è ghiotta per due motivi, uno fondamentale e di largo, anzi larghissimo  respiro, l’altro, per così dire, contingente. Comincio da quest’ultimo.

Pier Paolo ha ricordato il copertinese macu, che il Rohlfs registra anche per Melendugno, Tricase e Vernole.  Superfluo attardarsi sul fatto che esso è deformazione di mago, come pure sull’ambiguità di questa voce che, partendo dal concetto di persona dotata di poteri non comuni (dunque, un concetto che suscita meraviglia, ammirazione  e invidia) subisce uno spettacolare slittamento semantico passando, attraverso quello di diverso (con tutti i disorientamenti che la diversità suscita nei cosiddetti normali, concetto che per me è puramente statistico, la cui epidermicità potrà essere superata solo quando si potranno censire anche le coscienze, cosa che, paradossalmente, e qui sembro un cane che si morde la coda, mi auguro non avvenga mai, e non certo per motivi di pura e semplice privacy), al significato totalmente negativo di scemo.  Sintetizzando: dall’ammirazione, dal rispetto e forse anche dalla paura e dalla speranza (vedi il successo dei maghi dei nostri tempi), alla commiserazione, al dileggio, al disprezzo. Macu è in buona compagnia; il nomignolo degli abitanti di Soleto, appioppato dai Galatinesi e dai Leccesi, infatti, è masciàri, forma aggettivale sostantivata da mascìa=magia, anche se qui ci si è fermati, credo, al significato di stregoni, strani.  Il femminile singolare masciàra non si spinge neppure esso all’estremo limite nonostante qualche volta sia usato nel senso dell’italiano megera (donna brutta, discinta, sguaiata; donna di carattere perfido, irascibile e maligno), che con la magia ha a che fare solo indirettamente e non etimologicamente, nel senso che deriva dal latino Megaera(m), a sua volta dal greco Megàira, una delle tre Erinni, dal verbo megàiro=considerare eccessivo, rifiutare, invidiare, incantare (sequenza semantica che ben spiega, nonostante il diverso vocabolo di partenza, il destino che lo accomuna a masciàra), a sua volta da megas=grande.

Per riassumere: masciàra è da mascìa, dal latino tardo magìa(m) e questo dal greco magèia, a sua volta da magèuo=essere mago, da magos=mago, stregone, incantatore, ciarlatano; megera è dalla voce greca prima indicata, che nulla ha a che fare etimologicamente con magia.

Dopo il motivo contingente che ha ispirato questo post, passo a quello di più ampio respiro, ma pur sempre intimamente connesso con il primo. Sarebbe bello se anche noi nel nostro piccolo sfruttassimo, più di quanto fino ad ora non abbiamo, pur lodevolmente, fatto, le enormi potenzialità offerte dalla rete (per gratitudine dovrei scriverlo, come pure qualcuno fa, con l’iniziale maiuscola, ma mi rifiuto perché sono allergico all’uso, figurarsi all’abuso!, di questa convenzione grafica, anche perché fra poco i vocabolari, dovendo sistemare i vari significati in base alla frequenza d’uso e non alla cronologia, saranno costretti a collocare al primo posto il significato informatico del nostro vocabolo e la rete del nostro letto, quella del pescatore e persino quella televisiva dovranno rassegnarsi a competere al massimo per il secondo posto…) e stimolassimo in chi, anche occasionalmente, ci segue il piacere di dare il suo contributo, magari segnalando una semplice voce, purché ispirato dalla buona fede e dal rispetto della verità, contrariamente a quanto succede in alcuni saggi (pubblicati a stampa!) in cui non è raro trovare il riferimento a documenti inesistenti. E vedo già il Rohlfs arriderci, sorriderci e, dirà il solito maligno, deriderci…

Un anno fa l’ultimo viaggio di Ucciu Aloisi, il cantore antico del Salento

di Paolo Rausa

Un anno fa, il 21 ottobre 2010, si spegneva nella sua casa di Cutrofiano, un paesino del Salento, a sud di Lecce, il grande aedo Ucciu Aloisi. La sua storia è  narrata dai mille concerti tenuti in tutte le piazze del sud, in ogni sagra o festa paesana, quando si presentava l’occasione di cantare le gesta non dei grandi eroi, ma delle fatiche inenarrabili dei contadini, della povera gente che si sforzava di riuscire a vivere e che trovava solo nel ritmo irrefrenabile, cadenzato delle canzoni, la vaghezza di perdersi, quel sollievo necessario a sopportare le sofferenze, la rudezza tipica della vita popolare. Ma non di meno colpivano anche, nelle espressioni e nelle immagini dei suoi testi, il calore e la passione di uno sguardo, di un amore fugace, così come l’invito a danzare ritmi forsennati, il piroettamento senza fine delle tarantate, portate alla cronaca antropologica da Ernesto De Martino nel suo celebre saggio “Sud e magia” del 1952. Nel suo nome Ucciu, diminutivo di Antonio o Raffaele, divenuto esso

Insubordinazione, litigi e botte tra militari nella Gallipoli del 700

L’Ordine: elemento fondamentale del sistema militare

di Antonio Faita

Sulla rivista “Finanzieri e cittadini” del mese di Gennaio 2011  è stato pubblicato, nella sezione “Nuovi ordinamenti”, un articolo tratto dallo studio “IL CITTADINO MILITARE Principi costituzionale e Ordinamento Militare” di Cleto Iafrate e Bruno Forte, dal titolo “L’ORDINE: Elemento fondamentale del sistema militare”.

Dall’articolo emerge che l’attività, svolta dalle Forze Armate e dalle Forze di polizia militarmente organizzate, si realizza attraverso uno strumento i cui requisiti formali sono ridotti all’osso: L’ORDINE MILITARE; che, però, è anche il motore primo della potentissima macchina militare. L’ordine militare può definirsi un atto autoritativo discrezionale, che si configura come atto amministrativo a tutti gli effetti, completo dei suoi elementi essenziali. L’elemento soggettivo è costituito dalla legittimazione dell’emittente e, quello oggettivo, dalla manifestazione della sua volontà, cui consegue lo stato di soggezione del ricevente ed, in caso di violazione, la comminazione di sanzioni disciplinari o penali[1].

L’art. 173 del Codice Penale Militare di Pace punisce “il militare che rifiuta, omette o ritarda di obbedire ad un ordine attinente al servizio o alla disciplina, intimatogli da un superiore”. L’art. 51 del Codice Penale sancisce che “Non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine”[2]. Tutto viene lasciato all’alea della valutazione del militare, il quale si trova come in una morsa, le cui ganasce sono raffigurate dall’art. 51 CP e l’art. 173 CPMP e sulla cui forza di serraggio pesa il disposto di un regolamento (atto emanato dal solo potere esecutivo).

Il tutto è inserito in uno scenario in cui anche il decorrere del tempo ha rilevanza penale. Dunque, la mera inosservanza di un ordine, solo perchè provenga da militare più alto in grado, non per ciò costituisce reato. La giurisprudenza militare di merito, più attenta alle esigenze di tutela effettiva del servizio militare, piuttosto che del grado, ha recentemente confermato (marzo 2010) che la disobbedienza di cui all’art. 173 c.p.m.p. è necessariamente attinente ad un atteggiamento di ribellione del reo rispetto ad un ordine che oggettivamente sia funzionale alle esigenze della disciplina e /o del servizio.

Una conferma in tal senso si ebbe anche in tempi passati, in un episodio di due secoli fa, grazie al ritrovamento di due documenti presso l’Archivio di Stato di Lecce.

L’episodio si svolge presso il Regio Castello di Gallipoli, nel 1711.

In quel periodo, e precisamente tra il 1707 e il 1714, il Regno di Napoli fu

La produttività degli onorevoli

di Rocco Boccadamo

Nell’articolo di Sergio Rizzo pubblicato a pagina 1 del “Corriere” di martedì
18 ottobre 2011, si evidenzia che le leggi d’iniziativa parlamentare approvate
da gennaio 2011 ad oggi sono niente poco di meno che quattordici. Pensare,
annota il giornalista, che l’attività del Parlamento, già nel 2010, aveva
toccato i minimi storici con cinquantotto provvedimenti varati nell’arco dei
primi dieci mesi.
Non c’è che dire, da siffatti numeri emerge nitida e palese la dimostrazione
della grande mole di lavoro prodotta dai rappresentanti del popolo italiano.
Ciò, nonostante i lauti emolumenti e i molteplici privilegi di cui
beneficiano.
E, del resto, come potrebbe essere altrimenti?
Ciò si chiede e chiede, l’osservatore di strada scrivente, non perché colto da
un improvviso impazzimento o per mera provocazione, bensì in quanto diretto
spettatore, giustappunto nella mattinata del 18 ottobre, di una scena, una
circostanza particolare, che sembra essersi presentata proprio come il cacio
sui maccheroni rispetto ai risultati dell’inchiesta-analisi di Rizzo.

Sul volo AZ1624 Brindisi – Roma delle ore 11,20 è presente mezzo Parlamento,
ossia un foltissimo numero di eletti/nominati salentini, 14 o 15 fra deputati e
senatori di vari schieramenti, in atto di far rientro nella Capitale, dopo il
fine settimana trascorso in famiglia.

Ma, quanti giorni lavoreranno, gli onorevoli, nei Palazzi in cui si legifera?
Dal martedì pomeriggio al mezzo venerdì, il calcolo darebbe tre, tre su sette.
Davvero, fiumi di sudore sulla fronte dei poveretti!
Intanto, al parco buoi dei comuni cittadini tocca solo di assistere senza
poter fare nulla.

Fra lo sconforto per il poco edificante esempio dell’orario di lavoro dei
parlamentari, un barlume di consolazione: all’aeroporto di Roma, almeno lì, in
un anonimo martedì ottobrino, si registra un movimento da periodi di punta, il
che dovrebbe indicare che, sul fronte del turismo, le cose non vanno male.
Sebbene, sempre al “Leonardo da Vinci”, una bottiglietta di comune acqua
minerale da cinquanta centilitri ha dato luogo all’emissione di uno scontrino
di 2,50 euro.
Esclamare “scorno della faccia!” è poco.

Le vignette di Paolo Piccione al Salon International du Dessin

Il vignettista salentino Paolo Piccione per la 4^ volta ospite del prestigioso Salon International du Dessin

Anche quest’anno nella prima metà di ottobre si è rinnovato l’appuntamento del Salon International de la Caricature du Dessin de Presse et d’Humour a Saint Just le Martel in Francia, rendez-vous planetario delle migliori matite satiriche provenienti da ogni parte del mondo.

La famosa kermesse, stavolta, si è impreziosita di due eventi nell’evento: il primo, il 30° anniversario della manifestazione, prestigioso traguardo per gli organizzatori di questo straordinario evento; il secondo, l’inaugurazione del Centre International Permanent de la Caricature et du Dessin de Presse, struttura che ospita in forma permanente moltissimi splendidi lavori provenienti da ogni parte del mondo.

Tra gli artisti italiani presenti alla manifestazione, oltre a Sajni, Claudio Puglia e Carlo Sterpone,  era presente anche il vignettista salentino Paolo Piccione, il quale insieme a tutti gli altri vignettisti si è esibito realizzando vignette e caricature in estemporanea.

Dal 2008, quattro sono le presenze consecutive del vignettista pugliese (è originario di Manduria) alla manifestazione, come quattro le sue vignette-illustrazioni esposte nel Centro Permanente.

Tra queste, una sui 150 anni dell’unità d’Italia rappresentata da una zattera (con una vela lacera battente il tricolore italiano) in balia di un terribile fortunale; un’altra costituente un fantasioso ‘ritocco’ fotografico del famigerato baciamano di Berlusconi a Gheddafi; un’altra, sullo stile delle storiche illustrazioni della bell’epoque francese, commemorativa del 30° anniversario del Salon; infine, l’ultima, già vincitrice (a settembre 2011) del Marengo d’Oro messo in palio dall’Associazione delle Arti Artigiane di Verbania, raffigurante un attonito Garibaldi al capezzale di un’Italia morente.

Il Centro Permanente, inoltre, ospita altri schizzi satirici realizzati negli anni da Piccione su delle sagome bianche a grandezza naturale di vacche e su blocchetti di legno incastrati a formare un murales insieme a quelli disegnati da tantissimi altri artisti.

La manifestazione, come sempre, ha riscosso uno straordinario successo in termini di presenze di artisti e di pubblico, confermandosi uno dei massimi eventi mondiali del settore.

Donne gravide nella tradizione popolare salentina

di Marcello Gaballo

Per il nostro popolo la gravidanza era un evento voluto sì dalla coppia, ma sempre “con la mano di Dio”, senza il cui intervento nulla sarebbe potuto accadere. Si poteva richiedere l’intercessione di Sant’Anna, la mamma di Maria, protettrice delle partorienti, alla quale si sarebbero accese lampade e rivolte preci, fino all’ottenimento della grazia. In verità la santa poteva riuscire nella determinazione del sesso del nascituro, meno nella gravidanza, atto più sublime e perciò di competenza di chi “stava più in alto di lei”.

Una volta scoperto lo stato interessante le gravide primipare, senza esperienza, raccoglievano avvertimenti e precauzioni, che avrebbero osservato nei nove mesi. Principali informatrici erano le madri, poi le suocere, quindi le amiche intime e per ultime le vicine, come al solito invidiose, anche se apparentemente gentili.

Ecco allora una serie di norme che esse dovevano rispettare, con dei pregiudizi e credenze che ai giorni nostri fanno certamente ridere, ma che allora venivano presi come sacrosante verità, tanto da sentirsi in obbligo di trasmetterle oralmente alle proprie figlie.

Se una donna durante la gravidanza avesse bevuto in un otre il parto sarebbe stato certamente difficoltoso; non poteva neppure tenere al collo catenine o collane, che avrebbero causato un attorcigliamento del funicolo ombelicale sul collo del bambino, con conseguente morte per asfissia durante il parto.

Secondo un’altra credenza se la madre e il figlio sono nati entrambi in un anno bisestile, quest’ultimo sarà sfortunato in vita, così come lo sarà anche quello concepito in un anno bisestile.

In passato le donne salentine per pudore non ostentavano mai la gravidanza, se non quando si fosse al V-VI mese, in quanto indice di inevitabile attività sessuale col coniuge e quindi di facili costumi o comunque di scarsa serietà. Dell’evento, almeno per i primi tre mesi, venivano informati solo il marito, la madre e la suocera.

Se mai la gravidanza fosse capitata a una nubile si può facilmente immaginare lo scandalo: la sfortunata doveva fasciarsi il ventre per celare l’evento, fino ad arrivare al parto senza che nessuno avesse mai saputo nulla dello stato interessante, che nel frattempo aveva portato a termine nella segregazione domestica, adducendo malattie gravi della poveretta, pur di non rendere manifesta la sua imperdonabile “scappatella”.

Chi seguiva la donna nel corso della gravidanza era sempre l’ostetrica, riservando il consulto medico solo per i casi difficili. Quando ci si sarebbe dovuti rivolgere al ginecologo, lo si sarebbe fatto di nascosto dalle solite curiose vicine e dai parenti, che venuti a conoscenza, sarebbero stati portati a pensare a “malattia fiacca”.

Di analisi cliniche o visite di controllo neanche a parlarne, perché, sempre per il popolo, solo le donne sane e forti avrebbero potuto condurre a termine una gravidanza.

Esistevano anche dei pronostici, gettonatissimi, riguardo al sesso del nascituro; l’elemento principale era costituito dal profilo della pancia materna: se la pancia risulta pizzuta, come si dice essere la lingua delle donne, nascerà certamente una femmina, mentre se la pancia avrà la forma schiacciata nascerà un maschio. Per questo si recitava una quartina, assai nota:
Entra pizzuta
porta la scupa;
entre cazzata
porta la spata
.
A tal proposito, scrive Emilio Rubino nel III numero di Spicilegia Sallentina, spada e scopa, come la forbice e il coltello, sono i simboli più veri che sin dall’antichità sono stati presi a significare le attività casalinghe per la donna e quelle virili e marziali proprie dell’uomo.

16 ottobre 1911-16 ottobre 2011. Cento anni di storia delle Ferrovie nel Capo di Leuca

Ferrovie nel Salento di Dario Carbone

di Marco Cavalera

Il 16 ottobre 1911 fu inaugurata, con una solenne cerimonia, la stazione di Gagliano del Capo, da dove partì, esattamente alle ore 05:07 del mattino, il primo treno in direzione Maglie, tra l’euforia della popolazione locale che da anni attendeva con ansia la realizzazione di tale opera.

La linea Maglie – Leuca fu fortemente voluta dalle personalità politiche di spicco del Basso Salento dei primi anni del Novecento, tra cui il barone Filippo Bacile, gli onorevoli Ruggieri, Codacci Pisanelli, Giuseppe Romano (fratello di Liborio Romano) e Domenico Daniele. Lungo la tratta Maglie – Leuca erano dislocate le seguenti stazioni ferroviarie: Tiggiano, Alessano, Tricase, Miggiano, Castiglione, Spongano, Poggiardo, Sanarica e Muro Leccese. Le stazioni furono intonacate di color rosso pompeiano, realizzate su due piani e dotate di servizio igienico, cisterna, piano caricatore e rimessa, ponte e binari di stazionamento[1].

Al momento della progettazione della linea ferroviaria si sono registrati diversi episodi di accentuato “campanilismo” tra i paesi, desiderosi chi più chi meno di vedere il proprio territorio servito dalla ferrovia. Emblematico è quanto ci riporta Santo Marzano, a proposito della vicende storiche che hanno preceduto la costruzione della stazione di Miggiano, Specchia, Montesano, la cui ubicazione poneva il primo centro in una posizione strategica, mentre isolava fortemente Specchia e Montesano. Il comune di Specchia aveva

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