Per una storia del teatro a Lecce

di Alfredo Sanasi

Lecce città colta, Lecce città d’arte, si sente ripetere da più parti, ricca di monumenti d’arte e di stimoli artistici, definita per questo anche la Firenze delle Puglie, la Firenze del Barocco, l’Atene d’Italia. In questo ambito ci piace sottolineare che Lecce ha amato il teatro, quale veicolo di manifestazioni artistiche le più svariate, da tempo immemorabile, almeno dal tempo di Roma antica. Ne è testimonianza non tanto l’Anfiteatro di piazza S. Oronzo, perché, si sa, gli spettacoli che ivi si svolgevano anticamente avevano un carattere e un richiamo popolare, ma soprattutto il Teatro Romano situato alle spalle dell’odierna chiesa di S. Chiara. Un teatro antico coinvolgeva e s’indirizzava ad un pubblico colto, e si badi bene, è il solo teatro romano che venne costruito nelle Puglie al tempo dell’antica Roma, segno che proprio qui, a Lecce, l’antica Lupiae, si sentì l’esigenza di intrattenere i Messapi romanizzati e di venire incontro sin d’allora alle loro esigenze di cultura. E non importa se esso debba essere classificato come un vero teatro romano scoperto o come un odeon, cioè un teatro coperto di modeste dimensioni per le rappresentazioni musicali, come si pensò in passato da parte di vari studiosi. In particolare lo sostenne il Della Seta, che per questo si basa sull’avanzo di un odeon a Reggio Calabria e di un altro edificio analogo ad Acre in Sicilia (1).

Nell’uno e nell’altro caso, sia che fossero spettacoli musicali sia che fossero opere drammatiche, si trattava senz’altro di un edificio destinato a spettacoli di notevole interesse e finalità culturali e quindi è sempre una chiara testimonianza degli interessi dei Leccesi per le manifestazioni di un certo spessore artistico-culturale.

Oggi però, in seguito agli ultimi scavi e indagini scientifiche condotte dall’Università di Lecce e grazie all’ultima sistemazione dovuta alla Fondazione Memmo, che vi ha affiancato il Museo del Teatro Romano, si è

Un gigante dell’enogastronomia viene in Puglia

di Pino de Luca

Che Oscar Farinetti venga in Puglia per investire non può che esser salutato come evento di indiscutibile positività. Eataly è, senza alcun dubbio, un marchio che riscuote successo a livello nazionale ed internazionale e confrontarsi con questo gigante dell’enogastronomia è, senza dubbio alcuno, elemento di sprone e occasione di sviluppo.
Altrettanto evidente, e lo deve esser anche questo senza dubbio alcuno, è che Farinetti viene in Puglia perché, essendo un imprenditore intelligente, in Puglia ha da guadagnarci.
Occorrerebbe quindi ragionare non tanto su “cosa ci guadagna Farinetti” quanto su cosa ci guadagna la Puglia e, soprattutto, i produttori e le maestranze della Puglia.
Innumerevoli sono le produzioni pugliesi di qualità alta e altissima, farei torto a molte se ne citassi alcune. E i Pugliesi lo sanno. Certo che ci sono ancora molte persone che comprano prodotti di bassissima qualità e, ovviamente, di bassissimo prezzo. Ma si tratta o di tirchi inveterati o di persone che si comportano così perché null’altro possono fare …. Vorrei vedere chiunque prenda 800 Euro al mese stare a discutere sul Gruyere o sul culatello.
Eataly, è evidente, si rivolge alla fascia di mercato che ha competenza alimentare e disponibilità di spesa. Una fascia che, in Puglia, non ha grande spessore e, però, ha non pochi concorrenti specialmente nell’ultimo periodo.

La mia stella

di Armando Polito

È una stella scarna, come qualsiasi cosa che ispiri o persona che nutra la speranza; una stella che affida, una volta tanto, ad una lingua “morta” e non all’inglese il compito di diffondere un auspicio universale. È inutile che il lettore perda tempo con i motori di ricerca per individuare l’autore dell’esametro e delle relative traduzioni: sono io, e si sente…

Non vorrei che quella in dialetto neretino, in cui prevale l’agricolo significato di base del primo verbo, fosse interpretata come la solita paternalistica allusione che il sacrificio su questa terra vale, per chi ci crede, un posto privilegiato nell’aldilà e, in ultima analisi, come un’esaltazione della rassegnazione. Vuole essere, al contrario, la prefigurazione di un mondo i cui protagonisti  trovano  il loro riscatto  nel bando dello spreco e del superfluo e nel rispetto reciproco. Insomma, il trionfo di quella rivoluzione che, anche se non da sola, più di duemila anni fa mise in ginocchio un impero e che in duemila anni ha avuto, quando le cose sono andate bene,  solo sbiadite controfigure del più grande e tradito rivoluzionario di tutti i tempi: Cristo.

Grotte nel territorio di Salve (Lecce)(seconda parte)

GROTTE  IN  LOCALITÀ  MACCHIE  DON CESARE  NEL  TERRITORIO  DI  SALVE (SECONDA PARTE)

 

  di Marco Cavalera – Nicola Febbraro
 

 

tratto iniziale del corridoio di Grotta Marzo

 

Alla cavità denominata dai fratelli Piccinno “Speculizzi IV”, distante circa 80 metri da Grotta Febbraro, è stato assegnato il nome del proprietario della particella in cui è ubicata diventando, pertanto, Grotta Marzo.

     La grotta si sviluppa nelle formazioni del Calcare di Altamura, lungo la stessa antica linea di costa sulla quale si aprono le grotte Febbraro e Montani, ad un’altitudine di 74 metri s.l.m.

L’accesso alla cavità è reso particolarmente difficoltoso dalla fitta presenza di macchia mediterranea. La sua apertura, di piccole dimensioni, presenta una regolarizzazione alla base, ottenuta mediante la realizzazione di un muro a secco. La grotta è costituita da un corridoio, dalla planimetria piuttosto regolare, così come le pareti e la volta che si caratterizzano, verso il fondo, per la presenza di concrezioni calcaree.

Un muro a secco di notevoli dimensioni separa il corridoio da un ampio cunicolo, il cui asse principale è pressoché perpendicolare al primo. La realizzazione del muro è da attribuire alla frequentazione d’età post-medievale della cavità da parte di contadini e pastori. Superato il muro si accede, con difficoltà, all’interno del cunicolo dove il notevole abbassamento della volta e il considerevole aumento del sedimento terroso (incoerente e pulverulento) consentono di procedere carponi per i primi 5 metri, dopodichè il cunicolo diviene inaccessibile. Grazie ad una

Un calendario, non solo per la nonna…

di Armando Polito

Ogni anno, succede ormai da più di dieci, dedico a mia suocera, 88 primavere, un calendario personalizzato. Negli anni precedenti il soggetto è stato sempre profano, anche se le allusioni alla sfera religiosa non mancavano e debbo dire che le punzecchiature ironiche erano comprese dalla nonnina in qualche caso anni luce prima dei suoi figli (compresa mia moglie; sui nipoti, comprese le mie figlie, stendo un pietoso velo, anche se prevedo qualche attentato ai miei danni… ).

Quest’anno ho deciso di uscire allo scoperto e mi è stato più difficile, perché ho scelto un tema a lei caro e, nel rispetto delle opinioni di ognuno che presumo di avere, ho avuto, appunto,  la presunzione di  interpretare il suo pensiero, anche se non coincide con il mio; le conclusioni, però, anche per chi, come il sottoscritto, ritiene che tutte le religioni si basino sul ricatto della paura della morte e che su questo ricatto abbiano costruito le loro fortune anche economiche, credo siano perfettamente in linea con quelli che , forse con eccessiva pompa e sicuramente con scarso rispetto, sono definiti diritto naturale e diritto delle genti. Per questo, solo per questo, ho pensato di rendere pubblico il calendario di quest’anno (solo la copertina ed il testo delle altre pagine) ed esprimere a modo mio, prendere o lasciare, l’augurio agli amici spigolatori di un anno non convenzionale, che dico!, di un’epoca diversa: sarà ottimismo malfondato ma, visto il punto al quale siamo arrivati, non dovrebbe essere difficile….

 

GENNAIO

Quistu è llu mese cchiù friddu ti l’annu

e ogne creatura an terra rriscela,

cc’e ccinca no ttene mancu nnu pannu

e ccu ssi fazza luce nna candela.

La forza talle tu, Matonna mia,

cu pozza scire nnanti e cu nno mmore;

Tu lu puè ffare, piccé tu si’ Maria

e ti mamma no ggh’è acqua lu core.

FEBBRAIO

Ti stu mundu capiscu picchi e nnienti,

tantu ca ticu sempre: mamma mia,

cce zziuni, cce ccristiani e cce ttiempi!

Ti campare sempre menu fantasia.

Tu, core ti Maria ‘ddoloratu,

pi ll’amore ca vuei allu Figghiu tua

quarda stu mundu co ggh’è scunsulatu

e falle truare lu cunfortu sua.

MARZO

Nnu fiuru sta sponta ripa all’era,

no ttene lu culore ti na fiata;

eppuru ggh’è rriata primaera

e l’aria sta ssentu ca è scarfata.

O core ti Maria ‘Mmaculata,

pensace tu cu ccresce bbellu bbellu;

e sobbra ogne ccriatura ‘mpassulata

lu tua stindi beneficu mantellu.

APRILE

A stu mese è ddoce lu turmire

ma pisci cusì non ndi pigghiamu;

nc’è ci no ddorme e ppensa a futtire:

è qquistu lu statu ca ndi truamu.

Sulu tu , Matonna mia, puè pinsare

cu ddiesciti li onesti ma ‘mpannati;

giacché ti truei, invece, ha ‘mpannare

li puerci e disonesti dichiarati.

MAGGIU

Ggh’è quistu lu mese ti li rose

e alli tiempi mia li giovanotti

ndi facianu omaggiu alli carose

cu ppicchi caramelle o gianduiotti.

A tte, Matonna mia, offru sta rosa;

puru ci no ggh’è ffresca fa’ tti bbasta:

pi tte no gh’è ddifficile la cosa,

pi tte ca si ppotente, beddha e ccasta.

GIUGNO

Lu cranu già è ccrisciutu e ppi ll’aria

la luce ete diversa, ete cchiù nnetta;

ssittatu allu sole nc’è ci sbaria,

ci culumbu lli cate an bocca spetta.

Pruiti tu, Maria, core preziosu,

allu premiu pi ccinca ha ffatiatu;

e ‘nvoglia alla fatia lu schizzinosu

ca sempre lu sutore  l’ha ppuzzatu.

LUGLIO

Lu state ggh’è zzaccatu e ttutti quanti

moscianu a ggara cellulite e crassu;

a cci cchiù si spongghia, no nc’è santi,

e ti li discoteche nnu fracassu!

L’uecchi, Maria mia, no ha cchiutire

e mmancu li recchie t’ha bbuddhare,

sulu tu, beddha mia, puè ‘ntervenire

e tuttu stu casinu sistimare.

AGOSTO

Lu cautu a cchiù ti unu tae an capu

e la paccìa ormai è nnormalità,

comu se no bbastaa lu crattacapu

ti la crisi e la ddisonestà.

Fande passare ogni ffumisia;

giacchè ti truei, puru ogne probblema,

tatte ta fare tu, Matonna mia,

cu questa umanità totta scema.

SETTEMBRE

Lu cautu s’è llintatu e li sciurnate

ti fannu inire la malincunia

piccé cchiù corte mo so’ ddivintate

e ndi curcamu prestu e cusì ssia.

Tu, core ti Maria, tande luce,

llunghisci li confini ti lu bene,

rinnova tuttu quiddhu ca si strusce,

e allu mundu risparmia tante pene.

OTTOBRE

L’autunnu ggh’è trasutu e li fugghiazze

sta ccatinu ‘ngiallute e ‘nfrizzulate

an terra sobbra a queddhe matarazze

ca iti pi lla strata bbandunàte.

Tu, Matonnina mia, fa’ pulizia

ti li mundezze ca a totte l’ore

mmuntunamu no ssulu pi lla ia

ma purtroppu puru intr’allu core.

NOVEMBRE

Lu mese ti li muerti è llu cchiù vveru,

ma nci so’ puru muerti sfurtunati;

veru ca tuttu spiccia a ccimiteru,

ma no tutti li muerti so’ ppricati.

Matonna, tande a ttutti sipurtura,

non di fare mancare stu dirittu;

no ttene distinzioni ti cultura

e vale puru pi llu derelittu.

DICEMBRE

L’annu è quasi passatu e ti ringraziu,

Core santu, ‘ddoloratu  e ppuru,

e, ssenza cu ccunsumu tantu spaziu

(ci no mi ticinu ca no  ccarburu…),

grazie mille pi totte li fritture

ca ma ffattu ‘mbaccare a ogni ora;

pi lli dorci, lu mieru e li verdure,

pi queddhu ca vuei mmi lassi ancora.

Le tre varietà salentine del cisto, noto come ‘mucchiu’

Il mùcchiu

di Armando Polito

Rispondo alla gentile richiesta avanzata dall’affezionato spigolatore prof. Luigi Cataldi nel suo recente commento al post Purciddhuzzi day del 27. u. s. e lo ringrazio perché mi consente di fare nnu iàggiu e ddo’ sirizzi (un viaggio e due servizi), dal momento che mi ero ripromesso di trattare a breve di quest’altra essenza componente immancabile della nostra macchia mediterranea e la risposta, d’altra parte, sarebbe stata troppo lunga per l’apposito spazio.

Non so se per fare onore al nome dialettale dell’arbusto (ammesso che corrisponda al nome comune italiano mucchio) il nostro territorio ne vanta la presenza di tre varietà (l’ultima credo che sia la più diffusa), sicché la scheda questa volta va così compilata:

cistus creticus

nome italiano: cisto rosso, mucchio (quest’ultima voce regionale toscana)

nome scientifico: Cistus creticus L.

famiglia: Cistaceae

nome dialettale : mùcchiu

 

cistus salvifolius

nome italiano: cisto, mucchio (quest’ultima voce regionale toscana), scornabecco

nome scientifico: Cistus salvifolius L.

famiglia: Cistaceae

nome dialettale : mùcchiu

 

 
 

nome italiano: cisto di Montpellier, cisto marino

cistus monspeliensis

 

nome scientifico: Cistus monspeliensis L.

famiglia: Cistaceae

nome dialettale : mùcchiu

 

Etimologie:

Nomi italiani: cisto dal latino cisthos, dal greco kisthos o kisthòs; mucchio (vedi etimologia della voce dialettale); scornabecco in riferimento al fatto che è rifiutato dagli animali perché troppo aromatico.

 

Nome scientifico, prima parte comune (Cistus): dalla voce latina precedente1 .

Nome scientifico, secondo componente della prima scheda (creticus): la voce latina significa cretese e si riferisce al luogo di origine o di particolare diffusione.

Nome scientifico, secondo componente della seconda scheda (salvifolius): la voce latina, di formazione moderna,  significa dalle foglie di salvia.

Nome scientifico secondo componente della terza scheda (monspeliensis): forma aggettivale latina moderna da Montpellier, città dove la pianta venne descritta per la prima volta (1753).

Nome della famiglia: forma aggettivale dal citato Cistus.

Nome dialettale: per il Rohlfs è “dal latino mùtulu(m)=pietra di confine>mucchio>pianta che si presenta in forma ammucchiata”.

A misera integrazione e, forse, a miserabile correzione di quanto riportato dal maestro preciso che mùtulus (di cui il precedente mùtulum è caso accusativo, dal quale di norma derivano le voci italiane) nel latino classico significa mensola2 e, in architettura, modiglione3 (nell’ordine corinzio e successivamente in altri tipi di fregi e cornici, piccola mensola di forma parallelepipeda, con profilo sopra concavo e sotto convesso e doppie volute laterali e foglia di acanto nella fascia inferiore usata a sostegno della fascia che forma il cornicione; in arredamento elemento a forma di S, con funzione di sostegno o decorativa, presente specialmente nei mobili del sec. XVI4) (foto in basso).

È nel latino medioevale che la voce assumerebbe il significato di pietra di confine, almeno stando a quanto si legge nel Du Cange5 ed a lui il Rohlfs (se ho ricostruito esattamente il percorso da lui fatto) ha dato una fiducia probabilmente eccessiva.

Debbo dire ancora, ad essere sincero, che la proposta etimologica citata è ineccepibile sul piano fonetico (mùtulum>*mutlum>*muclum>mùcchiu), non totalmente convincente, almeno per me, (al di là delle perplessità espresse in nota 5) su quello semantico: mi appare, infatti, un pò forzato il passaggio pietra di confine> mucchio>pianta che si presenta in forma ammucchiata proprio nel percorso dalla prima alla seconda tappa (dalla pietra isolata per arrivare al concetto di mucchio bisogna passare all’insieme di pietre), nonostante qualcuno potrebbe considerare come pezza giustificativa o prova a conforto proprio l’integrazione che poco prima ho fatto.

E allora? Nel mio piccolo avrei anch’io una proposta da avanzare, anche se a prima vista più contorta della precedente dal punto di vista dell’evoluzione fonetica. Il padre di mùcchiu potrebbe essere il latino tùmulu(m)=monticello, attraverso la trafila seguente: tùmulu(m)>*mùtulum (metatesi a distanza, fenomeno abbastanza frequente nel salentino)>*mutlum>*muclum>mùcchiu (il lettore avrà notato che gli ultimi tre passaggi denotano gli stessi fenomeni fonetici presenti nella proposta ufficiale). Se così è ogni riferimento architettonico e di arredamento andrebbe escluso e tutto si ridurrebbe alla forma della pianta che evoca proprio quella di un monticello.

Che abbia detto un… mucchio di fesserie?

Meglio chiudere con una testimonianza sicura, quella del solito Plinio (I° secolo d. C.): “I Greci con vocabolo vicino al nostro chiamano cisto un arbusto più grande del timo, con le foglie di basilico. Due sono i suoi generi. Il maschio ha il fiore color rosa, la femmina bianco. Ambedue giovano a chi è colpito da coliche o e da dissenteria, in vino aspro, quanto se ne può cogliere con tre dita e così bevuto due volte al giorno; (giovano) con cera alle vecchie piaghe e alle ustioni e da soli alle ulcerazioni della bocca6”.

________

1 Più correttamente sarebbe dovuto essere Cisthus con desinenza tipicamente latina dal citato cisthos che non è altro che la trascrizione della voce greca; il rapporto, poi, tra cisto e cisti/ciste (circolante in Rete) è assolutamente improponibile dal momento che quest’ultimo è dal latino medioevale cystis, a sua volta dal greco kustis (da notare, dettaglio importante, l’assenza di aspirazione, questa volta,  tanto in latino quanto in greco, dopo –t-).

2 Varrone (I° secolo a. C.), De re rustica, III, 8:…pro columbariis in pariete mutulos aut palos in ordinem, supra quos tegeticulae cannabinae sint impositae (…per le colombaie [la costruzione abbia] nel muro mensole o pali in ordine, sopra i quali siano collocate coperture di canapa); III, 16: …easque alvos ita collocant in mutulis parietis, ut ne agitentur neve inter se contingant, cum in ordinem sint positae (…e collocano le arnie sulle mensole del muro in modo che non si diano reciprocamente fastidio né si tocchino tra loro essendo state poste in ordine).

3 Vitruvio (I° secolo a. C.), De architectura, I, 1, 5; IV, 1, 2; 2, 3; 2, 5; 7, 5; VI, 2, 2; 7, 6;

4 Dizionario italiano De Mauro, Paravia, 2000.

5 Glossarium mediae et infimae Latinitatis, L. Favre, Niort, 1883, tomo V, pag. 562: “Lex Ripuar. 60, § 4: Si autem ibidem infra terminationem aliqua indicia sua arte, vel butinae aut Mutuli facta extiterint, ad sacramentum non admittatur, etc. Ubi mutuli videntur esse aggeres terrei, quos Motes nostri vocant: aut forte lapides ii quos Mutos vocant Agrimensores, i sine inscriptione vice terminorum positi. Vide Bonna 2.” (Legge ripuaria 60, § 4: Se poi lì nella determinazione dei confini siano emersi alcuni segni fatti ad arte o di … [per butinae vedi più avanti] o di… [per Mutuli vedi quanto in questo stesso testo è detto più avanti] non sia ammesso al sacramento, etc. Dove mutuli sembrano essere mucchi di terra che i nostri chiamano Motes: o forse quelle pietre che gli agrimensori chiamano Muti, quelle posti senza iscrizione invece dei confini. Vedi Bonna 2 [ci andremo più avanti]).

Subito dopo alla stessa voce le integrazioni supplementari al Du Cange di altri autori complicano ulteriormente la situazione: “Errat Cangius, si fides Eccardo, in Notis ad legem citatam, quam ad calcem Legis Salicae edidit. Mutuli enim sunt machinationes clandestinae, vel seditiones clam excitatae, a veteri German. Meuten, clandestine agere, unde Meutmacher, Flabellum seditionis, Gall. Mutin. Haec vir eruditus; quae tamen in meam fidem recipere nolim” (Sbaglia il Du Cange se si dà credito all’opinione che Eccardo espresse nelle note alla legge citata e da lui pubblicata in calce alla legge salica. I mutuli infatti sono le macchinazioni clandestine o le ribellioni suscitate di nascosto, dall’antico germanico Meuten, agire clandestinamente, donde Meutmacher, vento di ribellione, gallico Mutin. Questo sostiene quell’erudito; tuttavia non mi sentirei di accogliere questa opinione)

Riprendo il butinae prima lasciato in sospeso. Non è voce del latino classico ma di quello medioevale e, infatti, nello stesso glossario (tomo I, pag. 794 leggo: “Lex Ripuariorum tit. 60, § 4: Si ibidem…[è ripetuto lo stesso testo di prima fino ad admittatur]; sed in praesente cum legis beneficio cogatur restituere. Codices alii habent Bucinas, Bucinae et Bucine. Omnes erronee, inquit Eccardus in hunc locum, ubi addit: Butinam hic ego idem esse reor ac Gall. Butin a Germanico Beute, Sax. Büte, Italis Botino et Butino, praeda derivatum.” (Legge ripuaria….; ma al presente sia costretto a restituire con beneficio di legge. Altri codici hanno Bucinas, Bucinae e Bucine. Tutti erroneamente, dice Eccardo in questo passo dove aggiunge: Io credo che Butina come il gallico Butin, sia derivato dal germanico Beute, sassone Büte, per gli Itali Botino e Butino, preda).

Al lettore lascio ogni giudizio, se si sente di emetterlo,  su come veramente potrebbero stare le cose.

6 Naturalis historia, XXIV, 48: “Graeci vicino vocabulo cisthon appellant fruticem maiorem thymo, foliis ocimi. Duo eius genera: flos masculo rosaceus, feminae albus. Ambo prosunt dysintericis et solutionibus ventris in vino austero ternis digitis flore capto et similiter bis die poto, ulceribus veteribus et ambustis cum cera et per se oris ulceribus”.

 

Pubblicità salentina (e non solo) di 2000 anni fa (e non solo)…

di Armando Polito

Brundisii sargus bonus est; magnus si erit, sume.

Apriculum piscem scito primum esse Tarenti.

(Il sarago di Brindisi è buono; se è grande compralo!

Sappi che il pesce-cinghiale di Taranto è il primo)

I due esametri appena tradotti sono di Quinto Ennio, poeta nato a Rudiae nel 239 a. C., uno dei padri della letteratura latina. Purtroppo di lui ci restano solo frammenti delle opere, pervenutici per tradizione indiretta. È il caso anche dei due versi qui citati facenti parte di un gruppo di undici ed appartenenti all’opera Hedyphagetica (Squisitezze, dal greco edýs=piacevole e fagèo=mangiare); titolo dell’opera e versi sono citati da Apuleio di Madaura (II secolo d. C.) nel capitolo XXXIX della sua Apologia.

In altra occasione parlerò più estesamente di questi due pesci. Oggi non posso farlo perché vivo nel terrore di dover scontare una pena storica…

Un mio antenato, pescivendolo non digiuno di latino,  in epoca rinascimentale pensò bene di sfruttare il messaggio enniano per dare lustro alla sua bancarella, e di immortalare l’evento nell’arazzo riprodotto in testa e a me pervenuto, questa volta, per tradizione diretta.

Vivo, come ho già detto, nel terrore che prima o poi l’Agenzia delle entrate, applicando qualche dispositivo “tecnico” dell’ultima ora con valore retroattivo per i pescivendoli e senza prescrizione del reato e  bypassando pure il controllo della Finanza (l’arazzo parla chiaro…), mi commini qualche multa per evasione fiscale “storica” (avrebbe fatto bene il mio antenato a lasciarmi, allegato all’arazzo, almeno un centinaio di ricevute di pagamento, cosa superflua e non dovuta per quelle contemporanee che sguazzano non compilate e libere nei paradisi fiscali…) e che anche i vigili urbani (di Roma o di Nardò?) me ne comminino una supplementare perché sui cartelli del mio antenato mancava l’indicazione del prezzo…

Il finocchio selvatico e l’atroce sospetto di Maratona…

di Armando Polito

nome scientifico: Faeniculum vulgare M.

nome italiano: finocchio selvatico

nome dialettale neretino: finucchiu crièstu

famiglia: Apiaceae

La prima parte del nome scientifico  è la voce con cui i Romani  indicavano la nostra pianta (faenìculum, o foenìculum o fenìculum o fenùculum) ed è diminutivo di fenum (o faenum o foenum)=fieno; vulgare significa comune. La voce italiana è dalla variante fenìculum attraverso la normalissima trafila: fenùculu(m)>*fenùclu(m)>*finùclu(m)>*finòclu(m)>finocchio.  La voce neretina è anch’essa da fenìculum con conservazione quasi integrale del vocalismo originario; crièstu corrisponde all’italiano agreste ed ha la stessa etimologia: dal latino agrèste(m)=selvatico, da ager=campo. Apiàceae è forma aggettivale da àpium=sedano.

Chi pensa che per colpevolissima ignoranza calcistica abbia scritto nel titolo Maratona per Maradona passi ad altra lettura.

Chi pensa pure, tra i lettori più giovani,  che per errore abbia attribuito alla stessa voce l’iniziale maiuscola sappia, se nessuno ancora glielo ha detto, che la gara prende il nome dalla località in cui si svolse nel 490 a. C. una battaglia memorabile tra Greci e Persiani e, più precisamente, per metonimia, dal luogo (Maratona, appunto) da cui partì Fidippide o Filippide (le fonti ci hanno tramandato queste due varianti) per annunziare, una volta giunto sull’Acropoli, la vittoria sui Persiani; fatto questo, passi pure lui ad altra lettura.

A chi, infine, è conoscitore della storia antica (e tutti i frequentatori più assidui del sito lo sono più di me) mi permetto di dare lo stesso consiglio dato ai primi che mi hanno attribuito l’ignoranza sportiva, di passare, cioè, ad altra lettura: so che sarà dura perché la curiosità di prendere atto anche delle bestialità altrui è la molla che muove la conoscenza…ma io ho sentito, in un sussulto di umiltà, il dovere morale di farlo.

Con i tre lettori rimasti (avendoli avvertiti la mia coscienza è a posto…) inizio il viaggio. Intanto c’è da registrare una partenza “ritardata” perché sull’argomento mi ha preceduto pochi giorni fa l’amico Massimo Vaglio col suo Finocchio, finocchietto e caruselle, per cui non mi resta che tentare solo un’integrazione con il taglio che mi è più congeniale.

Ormai gli autori antichi si staranno rivoltando nella tomba (l’espressione, con tutto il rispetto, mi fa ridere pensando a che cosa è rimasto, per fortuna solo fisicamente parlando, di loro…) stanchi come sono di fungere da spalla (e che spalla!) ad un attore da quattro soldi (comunque, fra poco saranno una cifra…) come me. Nel loro intimo (altro che tomba!), però, saranno contenti (ah!, la debolezza umana che continua al di là dello spazio e del tempo…) di essere ricordati, sia pure da un disgraziato e indegno come il sottoscritto.

Seguirò un ordine cronologico, perciò cedo la parola ai Greci. Per indicare il finocchio essi usavano la parola màrathon (anche nella variante màrathron). Vedo già i lettori più attenti e memori del titolo drizzare le orecchie, ma non è ancora il momento di farlo, anche per evitare un improvviso abbassamento delle stesse, fenomeno  che, con coinvolgimento di un altro organo, costituisce il tragico epilogo di una delusione di carattere non culturale ma sessuale. Le dèfaillances vanno riservate sempre, quanto più è possibile, alla fine…

Ippocrate (V-IV secolo a. C.), De morbis mulierum (Le malattie delle donne) , I, 73: Se il latte non c’è (la puerpera) beva anche il succo del finocchio e quello estratto dalle sue radici.

Ateneo di Naucrati (II-III secolo d. C.) ne I deipnosofisti (I saggi a banchetto), II, 56, c cita Ermippo di Smirne (storico, di cui nulla ci è pervenuto,  del III-II secolo a. C.): …Ermippo dice che alla fine memori del lieto evento di Maratona tutti mettono sempre il finocchio nelle olive in salamoia.

Questa pratica (in alternativa al rametto di pepe), ben nota a chi ancora, pur disponendo delle materie prime, non ha ceduto alle lusinghe delle conserve alimentari di origine industriale, sarebbe, dunque, antichissima, ma è necessario fare un chiarimento. In greco màrathon, come s’è detto, è il nome del finocchio; ma c’è pure Marathòn, anzi ce ne sono due: il primo corrisponde al Maratona ricordato all’inizio, il secondo ad una località della Spagna di cui parla Strabone (storico e geografo greco vissuto fra il I secolo a. C ed il I d. C.), Geographia, III, 4, 9: …e attraverso la pianura chiamata in lingua latina Maratona, che produce abbondantemente il finocchio.

Va detto che i due Maratona geografici presentano entrambi la o finale lunga (omega), mentre il màrathon (finocchio) la presenta breve (omicron); inoltre l’accento è sull’ultima sillaba nei primi, sulla prima nel secondo. Questi dettagli fonetici, però, non possono prevalere sulle testimonianze, in un certo senso concordi, di Ermippo e di Strabone (anche se temporalmente lontane dalla battaglia di Maratona e tra loro), anche perché la toponomastica, specialmente quella antica, è legata spesso al nome dell’essenza vegetale particolarmente abbondante in loco. Nulla impedisce, perciò di ritenere che la Maratona spagnola fu così chiamata dai Romani con nome greco, tal quale quello della più celebre Maratona greca, per l’abbondanza di finocchio, presumibilmente selvatico, che cresceva nell’una e nell’altra.

Nicandro di Colofone (II secolo a. C.), Theriakà (Antidoti contro gli animali velenosi), vv. 31-34:…quando (il serpente) ancora intorpidito dal letargo si spoglia della vecchia pelle a stento strisciando, quando in primavera uscendo dalla tana è quasi cieco, un’umida cima di finocchio lo rende veloce e di vista acuta.

Dioscoride Pedanio (I secolo d. C.), De materia medica (La medicina), III, 74: Quest’erba (il finocchio) quando viene mangiata aumenta la secrezione del latte e lo stesso potere ha il seme bevuto o assunto come tisana. Il decotto della chioma bevuto è utile nelle malattie dei reni e della vescica, poiché stimola la diuresi. È utile inoltre, bevuto nel vino,  a chi è stato morso da un serpente e stimola il ciclo mestruale. In caso di febbre, bevuto in acqua fredda, placa la nausea ed il bruciore di stomaco. Le radici pestate e applicate con miele sanano i morsi dei cani. Il succo estratto dal gambo e dalle foglie e seccato al sole viene utilmente aggiunto ai medicamenti degli occhi adatti ad accrescere l’acutezza visiva. A questo scopo è efficace anche il succo estratto dal seme fresco insieme con le foglie e i rametti. Inoltre il succo viene estratto allo stesso modo dalle radici appena cominciano a svilupparsi. Nella parte della Spagna rivolta ad occidente il finocchio dà pure un liquido simile alla gomma. Gli abitanti del luogo quando l’erba fiorisce raccolgono la parte intermedia dello stelo e lo accostano al fuoco perché più facilmente trasudando grazie alla forza del calore faccia uscire la sostanza gommosa. Essa è ancora più efficace dello stesso succo nella preparazione di medicamenti per gli occhi; (IV, 75): Preparano allo stesso modo (immergendovi i semi) il vino aromatizzato  col finocchio (nel testo originale marathìtes), con l’aneto e col prezzemolo, con le stesse proprietà (di quello aromatizzato con il sedano, di cui ha parlato prima e che sono: stimolazione dell’appetito, conforto per i sofferenti di stomaco, facilitazione della diuresi e soluzione contro l’alitosi).

Secondo alcuni proprio l’abitudine di certi osti ad aromatizzare il vino con i semi di finocchio per mascherarne la qualità scadente sarebbe alla base di infinocchiare nel significato di raggirare.

È tempo di passare agli autori latini: Lucio Giunio Moderato Columella (I secolo d. C.), De re rustica, VI, 5, 2:  Le malattie poi, per quanto infettive, debbono essere debellate cercando un rimedio. Allora vanno mescolate le radici di ligustico e di eringio coi semi di finocchio e insieme con farina di frumento fritto e macinato debbono essere cosparse di acqua e con questo medicamento bisogna stimolare la salivazione nel bestiame1.

È come al solito, però, il suo contemporaneo Plinio  a fare la parte del leone, anche se la prima testimonianza sembra ricalcata su quella molto più antica, prima riportata,  di Nicandro: Il serpente che a causa del letargo ha la pelle contratta si libera di quest’impedimento col succo del finocchio (nel testo originale fenìculum) e fa la mura in primavera. Si spoglia a cominciare dal capo impiegandoci non meno di un giorno e di una notte, in modo che la parte interna della pelle diventa esterna. Poi per ovviare alla vista offuscata dal letargo invernale strofinandosi contro  il finocchio (nel testo originale herba màrathrum; l’uso del nome greco invece del precedente fenìculum tradisce secondo me  la dipendenza da Nicandro) si unge gli occhi e si ristora; se le scaglie si fossero appiccicate se ne libera grattandosi contro le spine del ginepro2; Le altre piante sono della specie simile a canna, come il finocchio graditissimo, come ho detto, ai serpenti, adatto a condire più cose quando è secco3; I serpenti nobilitarono il finocchio perché gustandolo, come ho detto, si spogliano della pelle vecchia e col suo succo ripristinando l’acutezza visiva, per cui si capì che poteva anche negli uomini eliminare l’offuscamento della vista. Il finocchio si raccoglie quando il gambo comincia ad ingrossare, si secca al sole e si unge col miele. Nasce dappertutto. Pregiato è il succo che si ricava in Spagna dalle sue lacrime e dal seme fresco, nonché dalle radici incise nella prima germinazione4; Di questa specie c’è anche la selvatica che alcuni chiamano ippomaratro5, altri mirsineo6, con le foglie più grandi, dal gusto più aspro, più alto, grosso un braccio, dalla radice bianca. Nasce in luoghi caldi ma sassosi. Diocle parla di un’altra specie di ippomaratro, dalla foglia lunga e stretta, col seme simile a quello del coriandolo. Da quello coltivato si ricavano medicine contro il morso degli scorpioni e dei serpenti, bevendone il seme nel vino. Il succo si stilla nelle orecchie e in esse ammazza i vermetti. Esso si mette in quasi tutti i condimenti ed è adattissimo anche ai cibi piccanti. Si mette anche sotto la crosta del pane.  Il seme placa i dolori di stomaco, assunto anche se c’è febbre.  Pestato in acqua placa la nausea. È molto consigliato per i polmoni e per il fegato. Blocca la diarrea quando se ne prende un po’, stimola la diuresi, cotto mitiga le coliche e bevuto favorisce la secrezione del latte. La radice assunta con acqua di orzo purifica i reni dopo che si è assunto il succo cotto della pianta o il seme. La radice cotta nel vino giova anche in caso di idropisia o di convulsioni. Le sue foglie imbevute di aceto si applicano sui gonfiori ardenti. Fanno eliminare i calcoli della vescica. Bevuto in qualsiasi modo aumenta la produzione di sperma. È adattissimo per le parti genitali sia con la radice cotta nel vino da applicare calda che da spalmare pestata in olio. Molti l’applicano con cera sui gonfiori e sulle contusioni. Usano pure la radice nel succo o con miele contro il morso dei cani e col vino contro quello del millepiedi.L’ippomaratro è molto più potente in ogni uso. Soprattutto fa espellere i calcoli. Giova alla vescica con vino leggero e nelle donne risolve i ritardi mestruali; in questo è più efficace il seme della radice. La dose nell’uno e nell’altro, da bere dopo averli pestati,  corrisponde a quanto se ne prende con due dita. Petrico, che scrisse sui serpenti, e Mittone, che scrisse sulle medicine che si estraggono dalle radici, ritennero che nulla fosse più efficace dell’ippomaratro contro i serpenti. E Nicandro giustamente non lo pose tra gli ultimi7.  

Voglio chiudere con un sorriso,  non tralasciando quello che secondo me va inquadrato in un fenomeno tipico della superbia degli uomini, cioè il traslare i propri difetti o, comunque, tutto ciò che appare al di fuori della normalità corrente e pertanto viene giudicato negativamente, nella sfera animale e vegetale; non a caso, per limitarmi a quest’ultima, sono nate le espressioni come testa di rapa o epiteti come citrullo (dal napoletano cetrùlo, corrispondente all’italiano cetriolo), zuccone, baggiano (da baggiana, qualità di fava, dal latino Baiana faba=fava di Baia, etc.etc. Analogo destino potrebbe aver subito, secondo me, complice anche lo scarso valore del suo seme di fronte ad altri aromatizzanti, finòcchio prima nel significato oggi obsoleto di incapace e poi in quello di omosessuale maschio8. Gli autori più seri a tal proposito si limitano a parlare di etimologia incerta, ma non mancano proposte a dir poco fantasiose (che ben si guardano, naturalmente, dal citare le fonti…), tra le quali spicca quella che legherebbe (partendo dall’inglese faggot, che significa fascina ma anche omosessuale) l’etimo al finocchio che sarebbe stato gettato sui roghi cui venivano  condannati nel medioevo, fra gli altri,  gli omosessuali e le streghe, per mascherare l’odore sgradevole della carne che brucia. Non mi meraviglierei, perciò, se a breve da qualche parte dovessi leggere che gli Ateniesi sconfissero a Maratona i Persiani perché questi ultimi avevano schierato un esercito di omosessuali e, sublime conclusione, che il luogo della battaglia non si sarebbe chiamato all’epoca Maratona (e come, allora?) ma assunse questo nome dopo che il maschio eroismo dei Greci aveva salvato l’Occidente dalla dissolutezza e dalla mollezza degli orientali. In fondo pure dalle nostre parti Beneventum non subentrò all’originario Maleventum dopo la vittoria su Pirro?9

Non mi meravigliere neppure, e questa volta chiudo veramente, se qualcuno più o meno interessato affermasse che finocchio è da fin occhio (altro che la donna come simbolo prevalente di bellezza e oggetto del desiderio!) e se qualche misogino inveterato convalidasse quest’asserzione…

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1 Evincendi sunt autem quamvis pestiferi morbi, et exquisitis remediis propulsandi. Tunc panacis et eryngii radices foeniculi seminibus miscendae, et cum fricti ac moliti tritici farina candenti aqua conspergendae, eoque medicamine salivandum aegrotum pecus.

2 Naturalis historia, VIII, 41: Anguis hiberno situ membrana corporis obducta, feniculi succoimpedimentum illud exuit, nitidusque vernat. Exuit autem a capite primum, nec celerius quam uno die ac nocte replocans, ut extra fiat membranae quod fuerat intus. Idem hiberna latebra visu obscurato, marathro erbae sese adfricans, oculos inungit ac refovet: si vero squamae obtorpuere, spinis juniperi se scabit.

3 Naturalis historia, XIX, 56: Reliqua sunt ferulacei generis, ceu feniculum anguibus, ut diximus, gratissimum, ad condienda plurima, quum inaruit.

4 Naturalis historia, XX, 95: Feniculum nobilitavere serpentes gustatu, ut diximus, senectam exuendo oculorumque aciem succo eius reficiendo, unde intellectum est hominum quoque caliginem praecipue eo levari. Colligitur hic caule turgescente et in sole siccatur inungiturque ex melle. Ubique hoc est. Laudatissimus in Hiberia e lacrymis fit et e semine recenti. Fit et e radicibus prima germinatione incisis.

5 Da ippos=cavallo+màrathron=finocchio; a che altro si può pensare se non al fatto che era molto gradito dai cavalli?

6 Forma aggettivale (probabilmente indicante somiglianza) dal greco myrsìne=mirto.

Naturalis historia, XX, 96: Est et in hoc genere silvestre, quod alii hippomarathron, alii myrsineum vocant, foliis maioribus, gustu acriore, procerius, brachiali crassitudine, radice candida. Nascitur in calidis, sed saxosis. Diocles et aliud hippomarathri genus tradit, longo et angusto folio, semine coriandri. Medicinae in sativo, ad scorpionum ictus et serpentium, semine in vino poto. Succus et auribus instillatur, vermiculosque in his necat. Ipsum  condimentis prope omnibus inseritur: oxyporis etiam aptissime. Quin et panis crustis subditur. Semen stomachum dissolutum adstringit,vel in febribus sumptum. Nauseam ex aqua tritum sedat. Pulmonibus et iocineribus laudatissimum. Ventrem sistit quum modice sumitur, urinam ciet et tormina mitigat decoctum lactisque defectu potum mammas replet. Radix cum ptisana sumpta renes purgat, sive decocto succo, sive semine sumpto. Prodest et hydropicis radix ex vino cocta. Item convulsis. Illinuntur folia tumoribus ardentibus ex aceto. Calculos vesicae pellunt. Geniturae abundantiam quoquo modo haustum facit. Verendis amicissimum, sive ad fovendumradice cim vino cocta, sive contrita in oleo illitum. Multi tumoribus et sugillatis cim cera illinunt. Et radice in succo vel cum melle contra canis morsum utuntur et contra multipedam ex vino. Hippomarathron ad omnia vehementius. Calculos praecipue pellit. Prodest vesicae cum vino levi et feminarum menstruis haerentibus. Efficacius in eo semen quam radix. Modus in utroque quod duobus digitis tritum additur in potionem. Petrichus, qui Ophiaca scripsit, et Micton, qui Rhizotomumena, adversus serpentes nihil hippomarathro efficacius putavere.Sane et Nicander non in novissimis posuit.

8 Analogo il destino di gay, dall’originario significato di allegro a quello di dissoluto, fino a quello di omosessuale.

9 Va detto che pure questa operazione è frutto di ignoranza, nel senso che i Romani interpretarono malamente l’originario osco Maloenton (in cui la radice mal– significherebbe pietra) diventato poi Maluentum o Maleventum considerandolo composto da male=malamente ed eventum=cosa accaduta.

L’anguilla nella cisterna

di Alfredo Romano

Il pezzo di Danilo Siciliano, La storia di una regina con un castello d’acqua, mi ha riportato a un breve racconto che avevo scritto nel 1987 e che avevo intitolato L’Anguilla nella cisterna. Così sono stato spronato a proporloin questo Archivio.  

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Arrivava da Gallipoli dopo aver pedalato per più di 20 km su una bella strada asfaltata che scorreva lungo due file ininterrotte di pini mediterranei. L’ultimo tratto, detto Tre Ponti, aveva provato l’ebbrezza di una ripida discesa. Era questa, in realtà, l’unico sensibile rilievo di una provinciale piana, la Lecce-Gallipoli, che univa il mare Ionio all’Adriatico. In quel tratto Collemeto appariva sulla destra d’improvviso come un’unica lunga via di case bianche che solcavano l’intenso verde dei bassi e cespugliosi vigneti e l’argentato bosco dei secolari ulivi. Lasciato l’asfalto per la strada bianca che segnava subito l’inizio del paese, l’uomo smontava dalla vecchia e logora bicicletta e, tenendone il manubrio con le due mani, la trainava dando inizio a uno stanco camminare, lanciandosi in un monotono grido sguaiato che pareva venisse da Napoli, come lo era per noi ragazzi allora ogni accento strano. Ma quel grido, pur se incomprensibile, ci era familiare ormai, sapevamo tutti a che genere di merce era legato: l’uomo di Gallipoli dalla pelle secca che pareva di sale vendeva anguille. Erano piccole per lo più, ma soprattutto vive. Se ne stavano sguscianti

I formaggi della pecora Moscia Leccese

 

gregge di Franco Cazzella (ph G. De Filippi)

 

di Franco Cazzella

Nel periodo dei Romani, a colazione si predilige la “melca”, cagliata leggera e fresca al palato, ricavata acidificando il latte con aceto e aromatizzata con salvia, cipolla e porro.
Diffusissimo il consumo di formaggi freschi crudi o impastati con erbe spontanee o con miele; quest’ultimo entra nella preparazione di crocchette dolci e torte rustiche diventando una sorta di lievito.
A chi accusa i primi sintomi di vecchiaia Plinio consiglia di cogliere fiori di pesco, malva, fragola, primula e vulneraria, di porli in una scodella e di condirli con due cucchiai di latte cagliato: un dessert che, mangiato tutti i giorni in primavera, rallenta l’invecchiamento del corpo e della mente.

Lo storico Girolamo Marciano (1571 – 1628) nel suo Descrizioni, origini e successi della Provincia d’Otranto, elenca già i formaggi che oggi sono prodotti come quei tempi: la marzotica, la ricotta forte  …detta volgarmente uschiante, per il sapore alquanto mordace che contrae nella confettura, che non si fa in altro luogo d’Italia...

Ne riporta con precisione il metodo di preparazione e gli utilizzi gastronomici e le riconosce persino proprietà terapeutiche: …giova molto allo stomaco, ed è gratissima al gusto, provoca l’appetito, reprime il vomito, e stringe il flusso del ventre, uccide grandemente i vermi, e posta sulle piaghe verminose, ne fa subito cadere i vermi, genera sangue e nutrisce molto.

La menzioneranno nei loro testi anche V. Corrado (1738 – 1836) e G.B. Gagliardo (1758 – 1826) che nel suo Catechismo Agrario (1793), dà anche alcune dritte sull’uso della ricotta fresca e sul modo di ricavarne da questa “la manteca”, ossia il burro di ricotta.
Per Carlo Salerni, fondatore insieme a G. Palmieri dell’Accademia degli Speculatori (Lecce, 1775 – 1783), fautore dello sviluppo economico e culturale di Terra d’Otranto:

…Ottimi sono i nostri latticini e quandocchè fussero ben apparecchiati, aver dovriano i formaggi al pari de’ più ricercati di Europa, eccellenti…

E’ assai pregiato il cacio del Capo detto di Maglie, e quello delle parti di Taranto chiamato cacio-ricotta è assai acconcio per condire i cibi. L’ottima qualità delle nostre ricotte salate, è soprattutto di quelle che, per essere fatte nel mese di marzo, diconsi marzotiche, son saporose e grasse a segno che non ci par di potersi desiderare cosa di meglio.
Nel dialetto salentino è proprio il verbo cuvernare, governare, avere cura, favorire la stagionatura, stropicciandolo col palmo della mano intrisa di aceto e sale e, di quando in quando, soffregandolo (friculare o stricare), con

Il grano del Salento che fine ha fatto?

di Antonio Bruno

La pasta del Salento leccese è ottenuta dal grano coltivato nelle nostre campagne?

La pasta del Salento leccese è ottenuta dal grano coltivato nelle nostre campagne?
Secondo l’ultimo censimento sull’agricoltura italiana fatto dall’ISTAT negli ultimi 10 anni in Italia hanno chiuso più di 770mila aziende agricole. Per capire quant’è grave la crisi dell’agricoltura pensate che solo nei primi mesi di quest’anno in Lombardia hanno lasciato il lavoro dei campi ben 10 aziende al giorno!L’agricoltura è il settore che ha una importanza strategica per la produzione del cibo perché nel Mondo ancora oggi si muore di fame!

Ma cosa facciamo in Puglia con la pasta?

Per capire come si fa il prodotto italiano più famoso nel mondo, la pasta, dobbiamo vederlo in un pastificio.

Insomma come si fanno gli spaghetti, i rigatoni, le conchiglie e così via?

Nell’impastatrice da una parte arriva la semola e dall’altra l’acqua. La macchina ottiene un impasto e quando quest’ultimo è della giusta consistenza passa attraverso la trafila che non è altro che lo stampo in cui passa l’impasto.

Vini/ Si brinda con un Rosso

 di Pino de Luca

Dallo Jonio all’Adriatico, dal desiderio di riappropriarsi della terra a quello di riprendersi l’umanità. Con il Patto dell’Arca, Noé si appropria della propria umanità ubriacandosi nella vigna, così Gesù, nella istituzione eucaristica prende il più sacro e lo rende il più terreno: pane e vino, il mezzo della trasformazione è la preghiera.

Ne son nate tante di preghiere, alcune codificate da Ministero, una moltitudine impressionante  private e privatissime.

Si prega in silenzio, sottovoce, in coro e cantando.

“Matonna te lu mare” è una preghiera. Nata dalla interazione ventennale di Mimino Gialluisi e Bozzi Mozzi (Sergio Mangia), colonne portanti di un gruppo musicale che ha fatto la storia della Canzone Popolare Salentina: “Santu Pietru cu tutte le chiai”.

Strana preghiera, profumata di mare e di sudore invece che d’incensi, comincia subito potente e potente prosegue, ma mai scomposta, mai adirata o ricattatoria. Una petizione onesta, con voce alta e distesa perché chi è in alto ricordi chi conduce una vita grama, chi si fa le mani a sangue remando nelle

Don Tonino Bello: Amo il presepe…

 
Firenze, Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe, Cornelis Cort, adorazione pastori (1565)

 

Amo il presepe,
questa gaudiosa rivincita del cuore
sulla specularità del pensiero.

Perché, se sui crinali scoscesi della rivelazione
la teologia si inerpica temerariamente,
il presepe, quello popolare dell’800,
non è da meno.

Anzi, la scavalca in arditezza:
col bilico dei Suoi ponti,
col paradosso delle Sue montagne,
con l’anacronismo delle Sue città,
con la trasognata semplicità dei Suoi personaggi.

Per questo amo il presepe.

Ma lo amo, soprattutto, perché mi suggerisce
un’arditezza ancora più grande:
che Lui, il Signore,
è disposto a ricollocare la Sua culla,
ancora oggi,
tra le pietraie della mia anima inquieta.

(don Tonino Bello)

L’abitudine

di Michele Stursi

 

Il giorno in cui finalmente riuscirò a capire la differenza che passa tra estremisti e moderati, forse sarò anche in grado di scriverci quattro righe. Per ora posso solo accontentarmi di parlarvi di un tale, piccolo e paffuto, tarchiato come una botte, dalla folta peluria nera e dalla carnagione scura che lo faceva somigliare a uno scimpanzé, e che in paese non godeva di un’ottima reputazione per via di quella sua predisposizione a riflettere su tutto quello che gli passava sotto il naso. Non era per niente un tipo asociale, sia ben chiaro, ma quel suo “difetto” di dire la sua su tutto, di non riuscire a trattenersi dall’esprimere sentenze e giudizi, dal dispensare consigli e raccomandazioni su qualsiasi argomento, diciamo che lo aveva reso alquanto inviso ai suoi compaesani.

Il tipo era pure alquanto ingenuo, poiché osava sputare sentenze anche dinanzi ai diretti interessati mettendoli in imbarazzo sulla pubblica piazza, ma senza cattive intenzioni. Sembrava invaso da un senso di responsabilità e di giustizia fuori dal comune, tanto che se ne andava tutto il giorno in giro per il paese a scribacchiare su dei fogli le sue impressioni sul mondo per poi riferirle al mondo. È un ragionamento che fila, d’altronde, quello del poveretto ingiuriato petrusinu: comportarsi da cittadini non significa semplicemente occupare la città, ma renderla viva plasmandola alle proprie esigenze.

Peccato che al mondo d’oggi non tutto quello che a prima vista potrebbe

Prelibatezze salentine / Li gnumarieddhi

di Alfredo Romano

Quando nel 1965 la mia famiglia emigrò a Civita Castellana per la coltivazione del tabacco, per 10 lunghi anni conducemmo una vita di fatica e di disagi in terra “straniera”. Eppure, malgrado tutto, ci fu una cosa che riuscì a mitigare il nostro esilio: la cucina di mia madre Lucia. Cucina salentina per intenderci, quando ancora non andava di moda. Mamma con niente ti approntava dei piatti il cui profumo faceva svenire chiunque si trovasse dalle parti del nostro casale di campagna. Tutto ciò che passava per le sue mani: carni, pesci, verdure, legumi, ecc., si trasformava in una leccornia da leccarsi le dita. Prendete la cosa apparentemente più semplice, il sugo di pomodoro. Bene, per quanti sughi in vita mia abbia assaggiato a destra e a manca, quello di mia madre “parlava alla storia”, tanto per usare un’espressione di mio padre Giovanni. Non per niente quando a Collemeto arrivava il vescovo in visita pastorale, don Salvatore a volte chiamava volentieri mia madre per un pranzo degno della circostanza.
C’era addirittura un cugino di Collemeto che ogni anno, quando alla fine d’agosto rientrava in Germania, dove gestiva un ristorante, si premurava di far incetta di pesce a Gallipoli, cautelandolo con del ghiaccio, e, anziché prendere la direzione dell’Adriatica per il Brennero, si dirigeva sulla Bari-Napoli per Civita Castellana. Il motivo?: farsi cucinare la zuppa di pesce da mia madre. Era un cuoco mio cugino, ma per la zuppa di mia madre sarebbe andato in capo al mondo.
Per non dire dei miei amici che, quando si trovavano a pranzo a casa mia, scoprivano sapori e piatti così particolari che speravano sempre di tornarci. Si può ben dire che la nostra cucina salentina sia stata motivo di scambio culturale con la gente del luogo.

Ecco, debbo dire che quando mamma era indaffarata in cucina, io ero lì curioso e osservavo, rubavo, per così dire, i “segreti” della sua arte. Intanto imparai a fare col ferro squadrato li maccarruni fatti ‘ccasa, li pizzarieddhi e le sagne nturcinate e quindi il sugo di pomodoro, i legumi alla pignata, le verdure che dovevano uscire dall’acqua tise tise (un po’ durette) e cotte a pentola scoperta (se mputtanìscianu senò, diceva mamma). E poi gli arrosti alla brace (specialista qui era papà Giovanni), li pampasciuni, le ulìe sotta sale, le lumache (marruchi e cozze pinte, giacché qui sono rarissime le municeddhe), le cicureddhe, le paparine, li zzanguni, le rape creste, li fungi, gli umidi di carne e di pesce, le cozze di mare ripiene, le fritture, lu stanatu te patate, l’ove e li pummitori schiattarisciati, li gnumarieddhi, detti anche mboijcàte o nturcinieddhi, li purceddhuzzi, le carteddhate, le pittule cu lu cottu, eccetera eccetera.

Ma arrivò il momento in cui i miei genitori decisero di tornare a Collemeto (ormai noi figli eravamo economicamente indipendenti) e, con mamma, se ne partirono anche i suoi bei manicaretti. Ma, fortunatamente, avevo fatto in tempo a ereditare qualcosa che per me è valso più di mille palazzi: il “mestiere” di cucinare. Sicché la mia tavola è sempre stata circondata da amici, e, se c’è una cosa che più di tutti manda in solluchero i commensali che cos’è?: li gnumarieddhi! Forse è il piatto più caratteristico del Salento da offrire a un ospite. Per prepararlo, però, ci vuole tempo e… fortuna.

La fortuna è quella di abitare da 30 anni e più in una vecchia casa di

22 dicembre. La festa delle panare a Spongano

Oggi le tradizionali “Panare” a Spongano

di Raimondo Rodia

dal sito del comune di Spongano

Il 22 dicembre, come ogni anno, si tiene a Spongano un’antica tradizione legata al culto del fuoco e a quello di Santa Vittoria: la Festa delle Panare.  Un rito tradizionale antico e sentito da parte della popolazione del piccolo paese salentino.

Si rinnova così a Spongano la tradizionale festa delle “Panare”.

Le panare sono cesti di vimini intrecciati con listelli di canne e riempite di sansa, residuo della molitura delle olive e adornate di festoni, fili dorati, bandiere di carta colorata, mandarini, palme da dattero ed altro ancora.

La festa inizia nel pomeriggio quando la Banda che apre il corteo invita a mettere fuori le “Panare” preparate un tempo solo dai frantoi. Oggi partecipano singoli cittadini, associazioni, l’Amministrazione Comunale ed il Comitato Festa. Le Panare così addobbate vengono raccolte in corteo nei vari punti del paese per essere portate tutte insieme in un posto prestabilito, dove vengono fatte bruciare in onore di Santa Vittoria, protettrice di Spongano.

La serata continua con momenti di sano spirito paesano allietato dalla musica popolare, avendo a disposizione taralli e vino per tutti, fino a notte tarda.

Quest’anno il programma prevede: alle 15.30 l’inizio del corteo con la partenza tradizionale da Palazzo Bacile. Poi intorno alle 20.00 l’arrivo di tutte le Panare nei pressi del Municipio, in piazza Vittoria. Subito dopo partono i festeggiamenti. Quest’anno concerto di musica popolare con il gruppo Menamenamò. In mattinata, dalle 10, la sfilata delle “panare” confezionate dai ragazzi delle scuole e dell’asilo, accompagnate dalla banda musicale formata sempre dagli alunni.

Venerdì 23, alle 7,30, sarà celebrata la prima Messa, mentre alle 15,30 si snoderà la processione accompagnata dalle note del Piccolo Concerto Città di Conversano (Ba). Al rientro, lo spettacolo dei colorati fuochi pirotecnici.

Un tempo le panare erano realizzate da artigiani o semplici contadini per poter comodamente raccogliere i frutti dagli alberi e avere un solido recipiente con il quale trasportarli a casa, dato che di solito si andava in giro in bicicletta o a piedi. Oggi è uno dei prodotti più venduti nelle fiere artigianali che si tengono nei vari comuni del Salento.

Furono i baroni Bacile di Castiglione a portare nel Medioevo il culto della santa romana Vittoria a Spongano, eletta poi a Patrona del paese in seguito ad una serie di miracoli che salvarono i raccolti da funesti eventi meteorologici. Gli stessi Bacile chiesero poi all’arcivescovo di Otranto di poter festeggiare la santa in due occasioni, una a Dicembre e l’altra ad Agosto.

Spongano. Il busto di Santa Vittoria portato in processione (dal sito del comune)

Con il culto alla Santa è nata anche la festa delle panare, una delle più antiche del Salento, anche se sono in molti a ritenere che una forma ancora più antica di questa tradizione fosse già presente.

Le panare per l’occasione vengono riempite di sansa, una sostanza di scarto ottenuta dalla lavorazione delle olive, nella fase di spremitura da cui si ottiene poi l’olio. Il materiale è composto dunque da pezzi di noccioli, bucce e altri residui che rimangono dopo l’estrazione dell’acqua vegetale dall’oliva. Questa sostanza emana un odore molto forte e pungente ed è usata anche come combustibile. La sansa usualmente viene sottoposta a 2 o 3 procedimenti a ripetizione, detti ripassamenti, al fine di ricavare la massima quantità possibile di estratto liquefatto.

Le panare sponganesi vengono decorate con grandi fiori e foglie, le si dà fuoco in modo che ardano lentamente e poi vengono trasportate su carri accuratamente decorati condotti in processione per le vie del paese. Alla fine della processione le panare vengono riposte tutte insieme nello stesso luogo per attendere che prendano fuoco del tutto.

A conclusione della serata vengono distribuiti ai presenti lupini, tarallini e vino, consumati durante l’ascolto della musica.

Con questa festa si celebra il fuoco in una terra dalla lunga e profonda tradizione olearia. Ed attraverso il fuoco la cultura contadina del Salento ha trovato il modo di manifestare la sua riconoscenza per la produzione agricola nell’anno appena trascorso, auspicando un proficuo raccolto per quello successivo.

Santa Vittoria, la santa cattolica a cui è stata associata questa tradizione, fu una donna che si oppose alla nozze con un patrizio di nome Eugenio, rinunciando inoltre ai suoi oggetti e ai suoi gioielli che donò ai poveri. Ad Eugenio, che voleva principalmente impossessarsi del patrimonio della santa, questa cosa non piacque e per punizione rapì Vittoria, la esiliò nella sua tenuta e la uccise. La morte di Vittoria non avvenne direttamente per mano del suo sposo rifiutato ma per quella di un commissario imperiale. Questo fu inviato su richiesta di Egidio dopo che Vittoria, accogliendo una supplica di aiuto della popolazione locale, scacciò un drago che terrorizzava gli abitanti della stessa terra in cui venne esiliata. Questo drago era una bestia molto feroce e incendiava tutto, case e raccolto, con il solo respiro. Nel luogo che il drago scelse come sua dimora la santa chiese che le fosse costruito un oratorio e che delle vergini si fossero unite alla causa cristiana come sue discepole. Dopo questi eventi Vittoria fu richiamata all’ordine dal commissario che le ordinò di prestare fedeltà e di venerare un’effige della dea Diana. Il suo rifiuto le costò la vita, che perdette perendo di spada.

Il fuoco delle panare di Spongano è stato associato agli incendi che il drago provocava ai raccolti della popolazione salvata da Vittoria.

La tradizione vuole che si festeggi anche il 7 e 8 agosto, data in cui la santa salvò Spongano da una  grandinata.

La combustione lenta delle Panare dura a lungo a volte fino a Natale, e passata la mezzanotte, inizia la caccia al fuoco, perchè ognuno vuol portare nella propria casa un po’ della brace, oltre che per scaldarsi, quale benevolo segno di un lieto futuro.

Minuzzoli natalizi

La Cattedrale di Castro (Lecce)

di Rocco Boccadamo

 

Il 25 è ormai vicino, nella liturgia cattolica ha già avuto inizio la novena di preparazione, la Nascita si compirà puntualmente anche quest’anno, nonostante la crisi.

In giro, ma anche in seno alle singole sfere dello spirito, si avverte e si respira la particolare aria che, da sempre, contraddistingue la ricorrenza. Non è solamente questione di vetrine addobbate e illuminate, delle montagne di acquisti e di regali, degli interminabili rosari di auguri e d’altri riti del genere, sono coinvolti i ricordi, i tempi andati, le età e le abitudini trascorse.

Una volta, il presepe domestico consisteva in un minuscolo allestimento alla buona, di solito opera della manualità delle mamme e, per limitati particolari, della collaborazione dei figli scolari.

Il ragazzo di ieri che scrive rammenta le missioni, insieme con i compagni, attraverso campi e marine, alla ricerca di qualche frammento di muschio, che era collocato accanto alla rudimentale grotta o fra le casupole e capanne dei pastori, dando luogo a un bell’effetto. In dialetto, a tale prodotto o raccolto si attribuiva l’appellativo di “velluto”, il suo verde, in un habitat dove prevalevano, e ancora oggi prevalgono, le sfumature dell’aridità e del secco, secondo la suggestione infantile, conteneva una sorta di alto e raro pregio.

Con l’anzidetta lontana esperienza nella mente, tempo ingrigito ma aria tersa e visibilità a tutto spiano sino ai rilievi dell’Albania e all’isoletta di Fano verso l’altra sponda del Canale d’Otranto, ieri pomeriggio mi sono recato in un fondicello a gradoni, dove ho messo a dimora e stanno crescendo una serie di filari d’alberi d’ulivo. Orbene, grazie alle piogge dei giorni precedenti, le ancora tenere piante mi si sono parate di fronte e in rassegna tutte splendide, dando quasi l’impressione di sorridere, una vera e propria sequenza di meraviglie.

Invece, sulla strada del ritorno verso casa, uno spettacolo di carattere del tutto diverso, ma non meno emozionante. All’altezza di un campo, dove, da tempo sono lasciati a pascolare allo stato brado alcuni esemplari di cavalli e asini, un automobilista di passaggio, sceso dall’autovettura, se ne stava lì, a contatto del basso muro di recinzione, intento a regalare prolungate carezze a un giovane asinello.

E, così, via all’immancabile suggestione, stavolta da adulto, che, con moto di naturalezza, ha accostato la sequenza al prossimo arrivo del Natale: del resto, nella grotta, accanto a Lui, non v’è giusto un asinello?

Nella mattinata della domenica, ho assistito alla Messa nella ex cattedrale di Castro, un autentico gioiello, rimanendo testimone di due momenti particolari: la cerimonia dell’ammissione di trentaquattro nuovi ragazzi e ragazze alla locale Confraternita del SS. Sacramento e la visione in anteprima di un bellissimo, pregevole presepio in polistirolo, ricalcante fedelmente la struttura della medesima ex cattedrale, sottoposta di recente a importanti lavori di restauro.

La festa delle panàre a Spongano, ovvero quando il contenitore prende il sopravvento sul contenuto.

di Armando Polito

La panàra è una specie di cesta alta e rotonda e la voce è da pane con aggiunta di suffisso aggettivale indicante pertinenza con effetto finale sostantivato di natura strumentale (contenitore per il pane), come per farnàru (setaccio) da farina, per puddharu (pollaio) da un inusitato puddhu (pollo), per cranàru (granaio) da cranu (grano), etc. etc.

Se il contenuto originario e per eccellenza era il pane, così com’è successo con tanti altri contenitori, la panàra ha finito per accogliere fin da tempi antichi  anche altri ospiti, soprattutto i frutti e a Spongano, addirittura, la sansa. In occasione delle festa di S. Vittoria, il 22 dicembre, le panàre vengono riempite di sansa, decorate con fiori e foglie, poi si dà loro fuoco perché brucino lentamente trasportate in processione su carri per le vie del paese. La tradizione ha origini medioevali ma sicuramente ha ereditato l’antica vocazione per il culto del fuoco, elemento nello stesso tempo di purificazione e di propiziazione, che trae alimento dal residuo della lavorazione del frutto che ci connota in Italia e nel mondo: l’oliva. E gli aspetti devozionali e, in un certo senso, utilitaristici s’intrecciano con leggende cristiane popolate anche da draghi, il cui significato allegorico non sempre è facile cogliere. In questo la leggenda di S. Vittoria che scaccia dalla regione in cui era stata esiliata un drago che imperversava bruciando col suo fiato cose e persone sembra essere la versione riassuntiva  di quella di San Giorgio e della principessa col drago al guinzaglio.

E come nel mondo antico sull’altare venivano bruciate per essere offerte alla divinità le parti più scadenti (quelle migliori, a cottura avvenuta e prima che bruciassero completamente, approdavano in bocche tutt’altro che divine) degli animali sacrificali per convincere la divinità a favorire la crescita di esemplari ancora migliori, così viene bruciata la sansa  e pure il suo contenitore perché il raccolto di olive dell’anno successivo sia felice e il pane non manchi…tanto per realizzare una nuova panara basta qualche canna e qualche inchiùlu.

La mia ironia non vuole essere blasfema ma è solo tesa a far recuperare alle coscienze, alla mia prima di tutto, il valore profondamente sentito che queste feste avevano soprattutto presso i più umili (quelli, per intenderci, ai quali, nel mondo pagano,  immagino fosse precluso dare un piccolo morso alla parte nobile dell’animale sacrificato). Nell’era del consumo abnorme ed egoistico e, comunque, dello spreco delle risorse, la crisi può rappresentare paradossalmente (come in passato lo era la guerra; lungi, comunque, da me l’idea che essa possa mai costituire la pulizia del mondo…), se gestita correttamente, la nostra fortuna, il trampolino per il riscatto di una umanità più degna di questo nome. E se alla fine della festa a Spongano (il discorso vale, naturalmente, per tutte le feste in ogni angolo della Terra) verranno distribuiti solo lupini, tarallucci e vino, S. Vittoria sarà senz’altro più contenta e i partecipanti ne avranno senza dubbio guadagnato in salute…, mentre una volta tanto il contenuto (devozione religiosa) avrà prevalso sul contenitore (la festa nei suoi connotati esteriori, compresi anche quelli goderecci e culinari…).

Fotografia/ Le puteche di Angelo Mangione

‘U barbieri (ph Angelo Mangione)(riproduzione vietata)

ANGELO MANGIONE

“PUTECHE”

di Valentina Morello

Angelo Mangione nasce a Galatina il 14-04-1975 e a due anni si trasferisce con la famiglia a San Cassiano,  piccolo centro del leccese.Da sempre appassionato di fotografia, già a sei anni effettua il suo primo “servizio matrimoniale” con una Kodak  Istamatic, mentre a undici frequenta un corso gratuito che gli farà conoscere la magia dello sviluppo e della stampa in bianconero  che consoliderà definitivamente la sua passione. Continua ininterrottamente a fotografare avvicinandosi a tutte le diverse tecniche e alle nuove tecnologie che col passare degli anni rivoluzioneranno la fotografia.
E proprio grazie a internet, in particolare a  Flickr.com (il portale  mondiale di Yahoo dedicato alla  fotografia) conoscerà un gruppo di amici con i quali fonda nel 2008 l’Associazione fotografica “OBIETTIVI”  intraprendendo così una nuova avventura fatta di passione, ricerca e voglia d’imparare e migliorarsi sempre di più, come singolo ed in gruppo.

Ama soprattutto i ritratti e la fotografia di strada. Attento osservatore del mondo che lo circonda cerca di rubare attimi di vita quotidiana, semplici momenti che raccontano una storia, che sappiano suscitare emozione ed

La storia di Aurora

di Elio Ria

Aurora

Soffoco!

Quest’aria d’acciaio, intrisa di umidità mi uccide.

Sulle pagine di un libro perdo la ragione, e le parole irridono la nevrosi di questo mio andare per lettura nei giorni di domenica.

La messa del parroco non mi distrae e alle omelie stantie e ammuffite preferisco il silenzio stupefacente di un albero di pino, malandato e artitrico che alla finestra del mio studio s’appresta per rimediare confidenza.

Comprendo che vorrebbe rivelarsi e narrarmi di sé, della sua vita immobile. È  tanto che vive in paese e ha imparato a sopportare il rumore maldestro e l’indifferenza degli uomini. Non ha la chioma superba di una volta, ora è scheletrico, non sorride e del lungo vivere è stanco e vorrebbe congedarsi.

Gli confermo simpatia, ammirazione e riconoscenza per l’ombra che mi ha dato e che continua a darmi. Ogni mattina durante il rito del caffè e della sigaretta non ha mai fatto caso all’inquietudine dei miei giorni sospesi a mezz’aria. Ha sopportato l’insolenza del sole e mai ho udito il suo pianto sommesso. Lasciami ancora ombra forte e rassicurante.  Concedimi immaginazioni di parole affinché del mio vivere possa lasciare traccia nei campi incolti  delle pagine di un diario. Non morire, resisti. Dimmi cosa posso fare per te. Non lasciare che i tuoi aghi inizino il viaggio sui treni dell’abbandono. Fa’ che i passeri costruiscano ancora i loro nidi su i tuoi rami. Dammi bellezza di natura e io continuerò a respirare vita e non ti curare della gazza ingorda che spavalda osa far casa da te.

Parlami, albero. Recuperiamo il tempo sperperato nei giorni di giovinezza. Non lasciare che la luna preferisca un’altra chioma alla tua per poggiare le sue luci di tenerezza durante le notti di marzo a rassicurare passerotti. Sopporta lo strisciare della serpe per grattarsi di sole sul tuo corpo di gigante. Albero, non iniziare il movimento lento e piacevole dell’andare per morte.

La tua mania giovanile  di vivere in paese ha destato in te il fuoco del rimorso, hai fatto quello che hai potuto per dare splendore di albero e molti hanno taciuto la propria meraviglia per te, per l’albero grande, forte e bello che eri.

Mi dolgo e della tua sofferenza mi approprio non per confortarti ma per eterna riconoscenza. Sei saggio e sai che sfuggire non puoi al tuo decadimento. Ogni giorno avverto il tuo mesto inchinarti verso la terra che ti diede vita e che ora chiede morte.

********

Albero, tu che conosci il momento propizio per lasciare cadere i tuoi aghi, raccontami della giovane Aurora che all’ombra dei tuoi rami conobbe anticipazione della fine di giovinezza. Ne ho sentito parlare qualcosa da bambino.

–           Aurora era una giovane bellissima, alta, magra con i capelli splendenti. Non ho mai dimenticato i suoi occhi di azzurro che nel lasciare lacrime mattutine durante le preghiere per sconfiggere il male di respiro, diventavano gravi e melanconici. Ed io forte, il migliore fra tutti gli altri alberi mi adoperavo a stipare aria pura per lei. A nulla valsero le cure dei medici venuti da Bari. Il padre di lei  costruì questa villa, nei pressi della collina a Tuglie, nell’estremo tentativo di consentirle di respirare aria buona per i suoi polmoni.

–            E dimmi, albero, com’era la giovane Aurora? –

–          Era dolce come la luna da spalmare di notte sulle nuvole di aprile. Bella come la Primavera che al mattino s’adorna di fiori. –

–             Il destino era contro di lei. –

–          Sì, il giorno stava per congedarsi e le ombre della notte si stabilirono nella pineta per smorzare i nostri respiri. Tutto doveva compiersi. L’ora del distacco sopraggiungeva e  Aurora, sul letto con le lenzuola di lino,  cadde come foglia,  sfuggita all’attenzione di un dio. –

–            Albero, tu piangesti? –

–       Piangemmo tutti, tanto da spogliare le nostre chiome. Invitammo gli usignoli a cantare una nenia d’amore per lei, la nostra dolce Aurora. –

–            Poi cosa successe? –

–          La villa fu abbandonata. Il padre non volle più rimettere piedi. Lasciò ogni cosa al suo posto. –

–            Che triste storia mi hai raccontato. –

–          Mio caro amico, io non conosco altre storie, soltanto questa, che è la più bella fra tutte, perché Aurora è nel giardino dei fiori e degli alberi della luna e attende il mio arrivo. Ecco perché io non ho paura di morire, anzi chiedo che la mia morte subisca un’accelerazione per godere dell’innocenza della natura quanto prima. –

–            Albero, ma non pensi a me? –

–            Ti penso e continuerò a pensarti. Ti chiedo soltanto un favore! –

–            Sì, dimmi quale. –

–          Ti prego di non ricordare nulla di quanto abbiamo parlato. –

–           Perché? –

–          Non ricordare, fa’ che la storia di Aurora nasca al mattino e muoia al tramonto come la ninfea che lei volle nella sua villa. –

–             Ma perché vuoi questo? –

–            Non sono io a volerlo, ma lei. –

–            Ti prego, aiutami a capire! –

–            Perché questa storia appartiene a noi. Non vogliamo che la gente se ne appropri e come spesso succede aggiunga dell’altro. Vogliamo che rimanga così com’è, semplice, ma bella nella sua tragicità. –

********

Questa terra del Sud che hai amato e fatto tua, ti ricorderà e continuerà a sperare che ci siano sempre alberi come te, che nei giorni di fuoco siano sempre buoni per dare refrigerio al respiro affannoso dell’uomo del Sud che fatica ancora a rendere magia alle notti e ai giorni del sole. E semmai un giorno un poeta dovesse accorgersi di te canterà l’incerto profilo del paesaggio che rendesti romantico senza mai interrompere giorni felici. Di Aurora e la sua triste storia non proferirà parole mai con nessuno, ma lascerà intendere con gli artifizi della poesia la storia, non svelerà nessun dettaglio e canterà dai muri altissimi del cielo la bontà degli alberi di pino.

E io, caro albero, non dimenticherò le tue parole che hanno impressionato il mio cuore a tal punto che ora vorrei porre fino all’amarezza delle ore che accompagnano il dubbio e dell’opprimente melanconia che mi circondano. Dovrò attendere altri alberi. Dovrò fare a meno del tuo respiro, dei tuoi silenzi di resina, della tua dolce compagnia che ha saputo raccontarmi la storia di una giovane che negli alberi ha cercato la vita e li ha amati sino alla fine. Ora sei vecchio, malandato, gli uccelli ti scansano, calvo, bruciato dal sole, eppure non dai segno di viltà, sei fiero, il sole ti ha forgiato acciaio. Ecco vorrei essere come te. Io che ho sempre paura, e la notte non dormo, e mi spaventa il buio, e tu mi dai coraggio.

Chiunque da questa storia vorrà trarne bellezza interiore legga queste pagine con pazienza e bontà, e non si ponga la domanda se la storia qui narrata allude a qualcosa di realmente accaduto in un piccolo paese del Sud. E voglia perdonare l’autore per eventuali omissioni e inesattezze.

Ammortizzazione sociale e lavoro nero nel Salento. Alcune osservazioni

di Gigi Apollonio

L’argomento è uno di quelli considerati un tabù al pari dell’educazione sessuale e della riduzione degli stipendi parlamentari. Stiamo parlando degli ammortizzatori sociali, tema affrontato qualche settimana fa dalla Cgil di Lecce insieme all’economista e docente universitario Gugliemo Forges Davanzati.
Durante l’incontro Forges ha proposto la sua teoria che tende a mettere in relazione la lotta al lavoro nero con l’utilizzo degli strumenti di sussidio per i disoccupati. In sostanza l’idea di fondo è che per combattere la piaga del sommerso bisogna garantire un reddito a chi ha perso il lavoro in modo da aumentare il suo potere contrattuale ed avere la possibilità di rifiutare lavori irregolari.
Senza alcuna intenzione di contraddire l’esperto Forges, se la sua idea è sacrosanta in generale, volgendo lo sguardo su un territorio economicamente periferico come il Salento un approfondimento è necessario.

Il dubbio che ci si pone riguarda la reale efficacia degli ammortizzatori nei confronti non tanto dei beneficiari, ma nei confronti del tessuto produttivo e dei giovani in cerca di prima occupazione. Rifiutare offerte di lavoro irregolare non equivale obbligatoriamente a far emergere dal sommerso le aziende coinvolte, anzi il rischio è che queste stesse chiudano definitivamente. Questo è già avvenuto alla fine degli anni ’90 quando si stipularono contratti di riallineamento per permettere alle aziende “irregolari” di mettersi a norma in cambio di una specie di condono. A distanza di qualche anno il territorio sprofondò in una crisi economica provocata principalmente proprio dalla difficoltà delle imprese emerse a confrontarsi realmente sul mercato. In seconda istanza, assegnare dei sussidi ai lavoratori disoccupati non risolve il problema della disoccupazione giovanile, in particolare quella che coinvolge i soggetti in cerca di prima occupazione. In questo caso infatti si innescano due meccanismi complementari: come sostiene il sociolavorista Emilio Reyneri, i datori di lavoro sono portati ad assumere più facilmente lavoratori adulti ed in particolare padri di famiglia. Così facendo per i giovani in cerca di prima occupazione sarà più difficile inserirsi nel mercato del lavoro e non potendo usufruire dei sussidi saranno costretti o a lavorare in nero o a rimanere senza un reddito con drammatiche conseguenze economiche e sociali in entrambi i casi.

In sostanza la formula (sacrosanta ed irrinunciabile) degli ammortizzatori sociali per funzionare ha bisogno di un tessuto produttivo solido, che sappia affrontare i momenti di crisi economica, ma che sia però capace di uscire efficientemente dal guado e garantire lavoro e sostegno a tutti nei periodi di produttività. Il rischio da non sottovalutare in un territorio come quello salentino è che in queste condizioni l’ammortizzazione assuma la forma del mero assistenzialismo in un contesto economico incapace di creare occupazione e produttività.

 

http://articoloquattro.wordpress.com/

Ed oggi conosciamo le verdure di campagna, tanto care ai salentini

Li fògghie mbiscàte in concerto

di Armando Polito

 

Come in un complesso musicale il risultato dipende dall’abilità del singolo musicista e dall’affiatamento con gli altri, così per preparare una minestra di fògghiembiscàte1 (verdure miste) la scelta dei componenti è fondamentale, perché la dolcezza dell’uno deve mitigare l’asprezza dell’altro e il sapore particolare di ciascuno deve essere in grado di armonizzarsi con l’insieme senza rinunciare alla sua individualità. Le combinazioni possibili sarebbero teoricamente infinite, ma la formazione più collaudata che conosco è il quintetto che presento: lo zangòne, lo sprùscinu, la cicora cresta (alias cicora ti campàgna o cicurèddha), la nghièta e la carruzzìtula.

ZANGÒNE

nome italiano: sonco, cicerbita

nome scientifico: Sonchus oleraceus L.

famiglia: Compositae o Asteraceae

Etimologia dei nomi italiani:

sonco: dal latino sonchu(m), a sua volta dal greco soncos o sonchos.

cicerbita: secondo alcuni dal latino cicer=cece, con riferimento alla forma dei suoi piccoli semi; secondo altri dal latino Cicharba, nome di una pianta, ricorrente isolato nel capitolo IV° del De medicamentis di Marcello Empirico (IV°-V° secolo d. C.), senza altra indicazione che consenta l’identificazione certa con la nostra.

Etimologia del nome scientifico: Sonchus dal latino sonchu(m), a sua volta dal greco soncos o sonchos; oleràceus significa erboso.

Etimologia del nome della famiglia: Compositae è il participio passato femminile plurale di compònere=comporre, formato da cum=insieme e pònere=porre; Asteraceae è forma aggettivale modellata sul classico aster=stella, con riferimento ai fiori a capolino.

Etimologia del nome dialettale: la stessa dell’italiano sonco, con aggiunta di un suffisso accrescitivo.

Testimonianze di due autori classici, il primo latino, il secondo greco2:

Plinio (I° secolo d. C.):  “Viene mangiato anche il sonco – sicché presso Callimaco Ecale3 lo mette sulla mensa per Teseo – , l’uno e l’altro, il bianco e

Simboli e credenze sulla madia (mattra), indispensabile attrezzo per le famiglie salentine di un tempo

LA CIVILTA’ CONTADINA NEL SALENTO DI FINE OTTOCENTO

QUELLA BENEDETTA MATTHRA
– simboli e credenze sulla madia –

Il rapporto pane-matthra non era soltanto di ordine allocativo (matthra-dispensa), ma si concretizzava in termini che oseremmo definire fecondativi, tenendo presente come in campo semantico ogni madre di famiglia tendesse a creare una continua simbiosi fra matthra e grembo

“Salento ottocentesco”, archivio di Nino Pensabene (Riproduzione vietata)

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

  

     (…) Nominare la matthra* equivaleva a rifarsi all’archetipo dell’economia popolare, imprigionata nei termini del necessario alimentare e quindi calcolabile – per realtà materiale e per immedesimazione psicologica – in base alla disponibilità del pane, conservato appunto nella matthra. Il rapporto pane-matthra, però, non erasoltanto di ordine allocativo (matthra-dispensa), ma si concretizzava in termini che oseremmo definire fecondativi, tenendo presente come in campo semantico ogni madre di famiglia tendesse a creare una continua simbiosi fra matthra e grembo.

Un’espressione tipica di tale rapporto la ritroviamo in occasione della panificazione casalinga, quando le donne, recandosi la sera presso un forno pubblico a prenotare àsciu ti ‘nfurnàta pi’ llu crài (spazio nel forno per l’indomani), dicevano al fornaio: “Cu lla ràzzia ti Ddiu àggiu ‘mprinàta la matthra” (“Con la grazia di Dio ho ingravidato la madia”), il che stava a significare che avevano crisciùtu lu lliàtu, cioè amalgamato la pallottola di pasta inacidita, conservata dalla precedente panificazione, ad un mucchietto di farina affinché questa, nel prolungato contatto con gli enzimi (una notte intera), si tramutasse in altrettanto lievito. Propagazione del processo fermentativo che, vista come atto d’avvio della panificazione, nel ribaltamento simbolico le portava a connaturarla con l’azione dello spermatozoo, meglio ancora con l’incontro dei due gameti (maschile + femminile = pasta inacidita + farina), motivo appunto primario nella fase generativa. Concetto di fecondità ribadito durante l’impasto, anche questo eseguito nel cavo della matthra – soprattutto se si trattava di pane d’orzo (il loro pane abituale), per la cui buona riuscita si doveva usare molta acqua e quindi impastare su un piano protetto da sponde.

Essendo tale impasto – e per l’apporto dell’acqua e per composizione peculiare della farina d’orzo – tanto vischioso da impiastricciare al massimo le mani della lavorante, questa aveva bisogno di un’aiutante che le versasse gradatamente l’acqua occorrente e, al termine della lavorazione, spargesse nella matthra la farina necessaria per avvoltolare le pagnotte, altrimenti

Pier Paolo Pasolini e il Salento

a cura di Daniela Bacca

Estate 1959. Per la rivista Successo, Pier Paolo Pisolini percorre la costa italiana al volante di un Fiat Millecento per realizzare La lunga strada di sabbia un ampio reportage sull’Italia tra cambiamento e tradizione, vacanza borghese e residui di un dopoguerra difficile. 

“ Volo per la costa meno nota d’Italia: mi trascina una gioia tale di vedere che quasi son cieco. Qui infatti tutto minaccia di non essere: la costa piatta, i paesi arabo-normanni (arabi nella parte umile, normanni nella parte eletta, chiese e muraglie), il mare. Tutto è come bevuto, frastornato dalla luce. Riafferro la vita a Gallipoli. Misterioso centro, esistente, di una regione che non esiste. È del resto una città a sé, uno stato, un po’ come Cutro. Perfetta anch’essa come Taranto, protesa, biancheggiante, in un mare squisito, puro selvaggio. In quello slanciato ammasso di case bianche, inalennato da lungomari e da moli, la gente vive una vita autonoma, quasi ricca, si direbbe, quasi non ci fosse soluzione di continuità con qualche periodo della storia antica, che io non so, né faccio in tempo a capir:il demone del viaggio mi sospinge giù, verso la punta estrema.

Ci si arriva lentamente, mentre intorno la regione si trasforma, si muove in piccole ondulazione, si ricopre d’ulivi. Santa Maria di Leuca si stende lungo il mare con una fila di villini liberty, lussuosi, rosei e bianchi, incrostati

Lu spilu e la sciàna

di Armando Polito

* Accidenti, neppure qui sto trovando qualcosa che mi consenta di capire da dove deriva spilu!

* Traduzione dal miciese nel dialetto neretino: Tegnu nnu spilu ti scatuletta ti tonnu, ma tocca mmi rassegnu piccé Armandu pi llu spilu sua osce no stae ti sciàna; traduzione dal dialetto neretino in italiano: Ho un desiderio acuto di una scatoletta di tonno, ma mi debbo rassegnare perché Armando a causa del suo desiderio acuto non sta di buon umore.

Aderendo volentieri ad una gentile recente richiesta dell’amico Marcello (si accettano, comunque, le “ordinazioni” di altri amici…), esaminerò oggi i due sostantivi del titolo, il primo dei quali ho più volte “aggredito” senza risultati apprezzabili (meno male che gli articoli e la congiunzione restanti non pongono problemi!), i quali, lo anticipo, neppure questa volta son venuti fuori.

Dopo aver detto che si definisce spilu un desiderio intenso e per lo più improvviso,  è doveroso, per tentare di comprenderne l’origine e il suo eventuale rapporto con qualche voce italiana, partire dal maestro riconosciuto e, spero, ormai a tutti noto.

Al lemma corrispondente il Rohlfs si limita a rinviare a sfilu, spiùlu. A sfilu

Carosino/ La Madonna “Ti lu ‘racanu” (dell’uragano)

edicola votiva mariana (ph Marcello Gaballo)

di Floriano Cartanì

Non c’è nel mondo cristiano un paese, una città, un villaggio, che non abbia un tempio o una cappella dedicata a Maria, nelle sue innumerevoli denominazioni. E Carosino non è da meno, forte della memoria e della fede dei carosinesi per la Madonna, a cui è intitolata persino la Chiesa Madre.  Ma la stessa fede si intride di forte religiosità quando il sentire del popolo oltrepassa la stessa devozione per farsi testimonianza dell’accaduto. Ed è così che la vox populi ci ha tramandato a modo suo certo, ma in maniere molto forte ed assai intellegibile, una sorta di vicinanza miracolosa di Maria al suo popolo ed a quello carosinese in particolare.

Correva l’anno 1864 esattamente il 26 novembre quando l’allora piccolo centro di Carosino, composto per lo più da contadini, fu attraversato da una terribile tempesta di vento e pioggia che distrusse gran parte dell’abitato. Il credo popolare aveva pensato ad una vera e propria ecatombe di morti, quando si riebbe dalla furia della natura. Ma, come si legge nel libro del compianto Tonino Cinque “Carosino – Sopravvivenze storiche di una comunità“, Mandese editore, l’uragano benché molto violento, provocò solamente un paio di vittime, risparmiando gli altri abitanti dopo aver distrutto i due terzi del centro abitato, lasciato gran parte della popolazione senza tetto ed in uno stato di comprensibile sconforto (deliberazione del Consiglio Comunale del 27 novembre 1864, urgentemente convocato per l’occasione).

Il “miracolo” di così tante vite risparmiate alla furia della tempesta, fu subito attribuito all’intervento taumaturgico della Madonna che da allora, in questa ricorrenza, prese anche il nome di “Matonna ti lu ‘Racano” (Madonna dell’Uragano). Il prodigio fu ricordato persino con un particolare testo tramandato prima oralmente e poi trascritto, forse anche per comodità di chi doveva recitarlo nel corso dell’apposita funzione religiosa. A questo proposito appare veramente stupenda ed intrisa di fede l’immagine della pietà popolare ricordata in un testo nel quale la figura della Madonna appare stendente il suo mantello sulla cittadina (“Spanni lu mantu sobbra alla genti”), per salvaguardarla dalla forza irruente della natura. Una sottigliezza testuale dalla quale tuttavia si intravede tutto l’attaccamento dei carosinesi per la Madonna, e che porta dritti dritti alla prima cosa che gli abitanti di Carosino fanno nelle occasioni di passato pericolo: vanno in Chiesa per ringraziare la Madonna a cui sono particolarmente devoti.

Ora, quanto possa esserci di veramente “miracoloso” in una avvenimento del genere, non spetta a noi dirlo. Certo è che ancora oggi Carosino ricorda  quei momenti sicuramente terribili e disastrosi in maniera assai devota e recitando, alla fine della S. Messa vespertina di ogni 26 di novembre, parte del testo de  “L’urracanu a Carusino”.

Galatone. Tabelle. Genesi, morte e rinascita di un casale: la chiesa di Santa Lucia

ingresso attuale della chiesetta, ph Viganò R

 

di Riccardo Viganò

La chiesetta di santa Lucia, attualmente sconsacrata, è l’unica sopravissuta, in alzato,delle numerose chiese del casale medievale di Tabelle a Galatone (Lecce). Sicuramente di culto greco- bizantino, confermata dai nomi dei santi legati alla liturgia bizantina cui erano dedicati la maggior parte dei nove luoghi di culto presenti in questo feudo:  in particolare S. Nicola di Myra , S. Eleuterio, S. Costantino, S. Onofrio, S. Demetrio, oltre alle chiesette di Santa Maria e di S. Pietro. Di queste  rimangono solo poche evidenze archeologiche e poche notizie da fonti orali.

ingresso originario, ph Viganò R.

Risultato  di modifiche e ristrutturazioni operate tra i secoli XVI e XVIII, la chiesetta di Santa Lucia si presenta attualmente come un edificio di piccole

Le tradizioni gastronomiche del Natale in Capitanata: la pizza a sette panni

di Lucia Lopriore

La Capitanata è una terra ricca di antiche tradizioni. Il Natale, in particolare, è una delle festività maggiormente sentite, se pure il consumismo degli ultimi cinquant’anni ha modificato, sotto certi aspetti, tante cose.

Anticamente, quando la fame e la miseria dilagavano nella maggior parte delle case, con le poche provviste derivanti dai frutti che la terra offriva, le massaie, in occasione delle imminenti festività natalizie, preparavano i tradizionali dolci. Nei giorni immediatamente precedenti a questa ricorrenza, l’aria era inebriata dal profumo zuccherino dei dolciumi che fuoriusciva dalle finestre delle abitazioni, perché solo in questa occasione ci si dedicava alla preparazione delle specialità dolciarie tradizionali, per la gioia di grandi e piccini. Tra queste, ancora oggi, ad Ortanova, un paese in provincia di Foggia, sulle tavole natalizie non può mancare un gustosissimo dolce natalizio: la pizza a sette panni.

Si tratta di un dolce formato da sette sfoglie inframmezzate, tra una sfoglia

Spigolature neritine. Vittorio Emanuele III e i basoli

Nardò, Corso Vittorio Emanuele. Basoli donati dal re e riposizionati di recente

di Salvatore Calabrese

Qualche settimana fa ero presente alla presentazione di un libro sui
restauri che nel corso dei secoli sono stati eseguiti nella nostra
Cattedrale. In quella circostanza il Prof. Vetere, durante la sua
presentazione, ha accennato brevemente ai basolati che di recente
sono stati rifatti nel centro storico di Nardò e giustamente si lamentava
che nel ripristino non sono più comparsi i basolati lavici che erano di
grande pregio e molto rari.

Da fonte molto attendibile mi è stato raccontato che agli inizi del
secolo scorso le vie del centro storico neritino erano malmesse e al
Comune mancavano i mezzi economici per poter porre rimedio
(come si può notare cambiano i tempi ma le cose non cambiano, le
strade, rotte erano cento anni fa e rotte sono ora; il Comune, senza
soldi era cento anni fa e senza un centesimo si trova ora).

Il Sindaco dell’epoca si rivolse alla prefettura e al ministero competente per
poter ricevere contributi e finanziamenti necessari per affrontare le
spese per gli appalti stradali, ma non ebbe risposte confortevoli. Tramite conoscenze con la Casa Reale riuscì ad avere dal nuovo Re Vittorio Emanuele 3°, che da poco si era insediato, un grande omaggio specifico per Nardò.

Il Re decise di far appaltare a proprie spede il basolato di una intera via,

Il cocomero asinino. La pianta che “sputa” per perpetuarsi

La cucùzza pàccia: una pianta spara solo per seminare la vita; pazzi siamo solo noi umani.

di Armando Polito

nomi dialettali neretini: cucùzza paccia, sputa ilenu

nomi italiani: cocomero asinino, elaterio, schizzetti

nome scientifico: Ecballium elaterium A. Rich

Cosa direbbero le piante di noi e quali aggettivi userebbero per definire certi nostri atteggiamenti e comportamenti? Anche il termine più negativo sarebbe sempre e comunque appropriato alla situazione, perché loro giudicherebbero in base alle leggi più alte e più giuste, quelle della Natura, mentre il nostro giudizio è sempre e comunque condizionato in modo pesante e determinante  da ciò di cui andiamo fieri nel ritenerci superiori ai vegetali e alle bestie: la ragione e la sua applicazione pratica, la cultura. Ne consegue che, credendo di formulare un giudizio che è solo frutto di pregiudizio, spesso appiccichiamo etichette a destra e a manca non risparmiando nemmeno quelle forme di vita che, sempre noi, riteniamo diverse dalla nostra e, naturalmente, inferiori.

Successe tanto tempo fa in una campagna di Nardò: un essere umano incontrò per la prima volta una strana pianta che recava in cima agli steli, appena spuntanti dalle larghe foglie, dei frutti ovoidali molto simili ad una minuscola miluncèddha. Si accostò e, per osservarla meglio, le si inginocchiò accanto. Aveva appena iniziato il suo esame quando fu investito da un’emissione plurima di liquido appiccicoso misto a corpuscoli scuri, parte del quale gli imbrattò i pantaloni e la faccia, facendogli fare un sobbalzo. Superato il primo attimo di autentico terrore, si accorse che la pianta non aveva più tutti i suoi cocomerini, anzi non gliene erano rimasti più di tre. Le si avvicinò di nuovo e non appena toccò uno dei frutti residui fu investito di nuovo da uno schizzo. La reazione violenta e incomprensibile (sempre secondo la logica umana…) della pianta segnò anche il suo destino onomastico (non solo quello dialettale); e l’uomo decise di chiamarla cucùzza paccia (zucca pazza)1 o (meno usato) sputa ilènu (sputa veleno).

Non ha bisogno di chiarimenti etimologici il primo e l’ultimo dei nomi italiani (cocomero asinino e schizzetti, a parte quell’asinino che tradisce, pure lui!, il nostro antico vizietto…2), mentre elaterio è chiaramente la trascrizione del secondo componente del nome scientifico, su cui mi soffermerò.

Ecbàllium è modellato sulla radice del verbo greco ekbàllein=lanciare fuori, mentre (come se il riferimento non fosse stato chiaro…); elatèrium è la trascrizione del neutro (elatèrion) dell’aggettivo, sempre  greco, elatèrios/elatèrion  che  significa “che respinge o allontana” e, come termine medico, “purgativo”; proprio il neutro elatèrion, con valore sostantivato, è pure il nome della nostra pianta (citato, fra gli altri, da Ippocrate3 (V°-IV° secolo a. C.), e da Teofrasto4 (IV°-III° secolo a. C.).

Ampio spazio gli dedica pure Plinio (I° secolo d. C.)5: “Abbiamo detto che c’è il cocomero selvatico, molto più minuscolo di quello coltivato. Da esso si ricava un medicamento che si chiama elaterio col succo spremuto dal seme e se non viene colto per tempo il seme schizza con pericolo pure per gli occhi. Colto poi viene messo da parte per una notte, il giorno successivo viene inciso con una canna e il seme viene cosparso di cenere per assorbire l’abbondanza di succo; una volta spremuto viene trattato con acqua piovana e si fa depositare, poi viene essiccato al sole per preparare pastiglie molto usate dagli uomini contro i difetti e le malattie degli occhi, le ulcere delle guance. Dicono che una volta toccate le radici delle viti da questo succo gli uccelli non beccano l’uva. La radice poi cotta in aceto viene applicata sulle manifestazioni gottose e col succo si cura il mal di denti, secca mista a gomma sana l’impetigine e la scabbia e quelle malattie che chiamano rogna e eczemi, la parotite, gli ascessi e restituisce alle cicatrici il colore naturale della pelle e il succo delle foglie con aceto viene instillato negli orecchi sordi. La stagione dell’elaterio è l’autunno e nessum medicamento dura più a lungo. Si comincia ad usare dopo che è invecchiato tre anni. Se uno vuole usarlo più fresco tratti prima le pastiglie con l’aceto a fuoco lento in un vaso di creta nuovo. Tanto è migliore quanto più è vecchio ed è stato già conservato per duecento anni, come scrive Teofrasto e fino a cinquanta spegne la luce delle lucerne. Ne è prova il fatto che se è accostato al lume lo fa sfavillare sopra e sotto prima che lo spenga. Quello pallido e leggero è migliore dell’erbaceo e grossolano e lievemente amaro. Ritengono che il seme legato alla donna aiuti il concepimento a patto che non tocchi terra e che legato in lana di montone alle reni della donna, senza che lei lo sappia, facilita il parto; ma subito dopo il parto dev’essere portato fuori di casa. Coloro che esaltano il cocomero dicono che il migliore nasce in Arabia, poi in Arcadia; altri dicono che a Cirene il cocomero simile all’elitropio cresce tra rami e foglie fino alla grandezza di una noce e che il seme poi è ricurvo come la coda di uno scorpione, ma bianco. Alcuni infatti chiamano il cocomero scorpione essendo efficacissimi il seme e l’elaterio contro il loro morso e per purificare  la matrice l’intestino. La dose in rapporto alle forze vada mezzo obolo ad uno intero; una dose più elevata è letale. Così si beve contro la ftiriasi [infestazione da piattole] e l’idropisia. Applicato con miele o olio vecchio sana le angine e le arterie”.

Altro che pazza la nostra zucca (altra voce che nel mondo degli umani ha assunto un significato negativo e suscitato meraviglia quando qualche anno fa il suo prezzo sul mercato era diventato, addirittura, il simbolo dell’aumento dei prezzi)! Il suo comportamento obbedisce solo all’istinto più profondo che è quello della perpetuazione della specie (mentre noi da tempo abbiamo privilegiato la sua forma più egoistica, quello di conservazione) e ciò che consideramo normale in noi (l’eiaculazione) diventa strano (sempre ai nostri occhi) in un vegetale. E abbiamo pure la spudoratezza, nella nostra profonda ignoranza di ciò che ci circonda, di ritenerci intelligenti…6

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1 Chi avrebbe immaginato che dopo secoli lo stesso sarebbe successo, sia pure in condizioni diverse e contrarie alla natura, sempre per colpa dell’uomo, ad una povera mucca?

2 Analogamente è successo per la pertosse, il cui stadio parossistico ha suggerito altri nomi con cui è designata la malattia (tosse canina, tosse cavallina, tosse asinina).

3 Epidemiae, VI, 5, 15.

4 De historia plantarum, IV, 5, 1. In un altro passo (IX, 9, 4) della stessa opera Teofrasto chiama elatèrion il farmaco estratto dalla pianta.

5 Naturalis historia, XX. 3-10: “Cucumin silvestrem esse diximus, multo infra magnitudinem sativi. Ex eo fit medicamentum, quod vocatur elaterium, suco expresso semi, cuius causa nisi maturius incidatur, semen exilit oculorum etiam periculo. Servatur autem decerptus una nocte, postero die inciditur harundine, semenque cinere conditur ad coercendam suci abundantiam, qui expressus suscipitur aqua caelesti atque subsidit, deinde sole cogitur in pastillos ad magnos mortalium usus, obscuritates et vitia oculorum, genarum ulcera. Tradunt hoc suco tactis radicibus vitium non attingi uvas ab avibus. Radix autem ex aceto cocta podagris inlinitur sucoque dentium dolori medetur, arida cum resina inpetiginem et scabiem quaeque psoram et lichenas vocant, parotidas, panos sanat et cicatricibus colorem reddit, et foliorum sucus auribus surdis cum aceto instillatur. Elaterio tempestivus est autumno, nec ullum ex medicamentis longiore aevo durat. Incipit a trimatu. Si quis recentiore uti velit, pastillos in novo fictili igni lento in aceto domet. Melius quo vetustius, fuitque iam CC annis servatum, ut auctor est Theophrastus, et usque ad quinquagesimum lucernarum lumina extinguit. Hoc enim veri experimentum est, si admotum, priusquam extinguat, scintillare sursum ac deorsum cogat. Pallidum ac leve herbaceo ac scabro melius ac leniter amarum. Putant conceptus adiuvari adalligato semine, si terram non adtigerit, partus vero, si in arietis lana alligatum inscientis lumbis fuerit, ita ut protinus ab enixu rapiatur extra domum. Ipsum cucumin qui magnificant, nasci praecipuum in Arabia, mox in Arcadia; Cyrenis alii tradunt similem heliotropio cucumin inter folia et ramos provenire magnitudine nucis iuglandis, semen autem esse ad speciem scorpionum caudae reflexum, sed candidum. Aliqui etiam ab scorpione cucumim vocant, efficacissimo contra scorpionum ictus et semine et elaterio et ad purgandam uterum alvosque. Modus pro portione virIum ab dimidio obolo ad solidum; copiosius necat. Sic et contra phthiriasim bibitur et hydropises. Inlitum anginas et arterias cum melle aut oleo vetere sanat”.

6 Questa autocritica, tuttavia, non mi impedisce di spendere una voce a favore del mondo contadino che, nonostante tutto, ha umanizzato con cucùzza pàccia e sputa ilènu la stessa caratteristica espressa così asetticamente in parte dai nomi italiani, in toto da quelli scientifici.

A Lecce, un presepio d’alta scuola di semplicità

 

di Rocco Boccadamo

Nell’incantevole cornice della Basilica di S. Croce, fiore all’occhiello dell’arte barocca che contraddistingue e impreziosisce il capoluogo salentino, in corrispondenza dell’altare a destra rispetto a quello centrale, trova posto, durante tutto il periodo natalizio, un piccolo ma speciale presepio.
Difatti, nel monumento sacro in questione, per precisa scelta del Parroco e del Rettore della confraternita che vi ha sede, la tradizionale rappresentazione della nascita di Gesù deve rispettare, con assoluta fedeltà, il semplice e naturale contesto ambientale in cui, due millenni addietro, si materializzò l’evento cardine della storia cristiana.

Agli anzidetti dettami, impronta rigorosamente le proprie ideazioni e la sua stessa manualità l’artista che, da cinque anni, si occupa, giustappunto, dell’allestimento del presepio in S. Croce, il professore Giuseppe Arseni, di Marittima, docente di discipline plastiche presso il Liceo artistico statale “V.Ciardo” di Lecce, il quale ha il pregio non comune di saper coinvolgere nel lavoro preparatorio anche gli allievi, raccogliendone qualche suggerimento.
In concreto, la realizzazione di Giuseppe Arseni è basata, pressoché esclusivamente, sul riutilizzo di materiali.

Così, cartoni/contenitori di elettrodomestici, rivoltati e verniciati con sabbione, tufo e calce, si trasformano in case e palazzotti. Involucri di sacchetti di cemento, opportunamente sagomati sopra un’anima di cassette di frutta, altri pezzi di cartone e rami d’albero, danno vita al paesaggio agreste. L’ambiente più importante, ossia la grotta della Natività, ha per colonne portanti frontali due cortecce di sughero, per intelaiatura e pareti strisce di legno di pallet e spessi cartoni, per copertura canne di mare stagionate, teli di juta ricavati da vecchi sacchi e frasche.

Tutto al naturale, niente colori o additivi chimici.

Il terreno è tappezzato, a tratti, con tufo bianco, sabbione e arbusti o cespugli; inoltre, di tanto in tanto, con macchie di muschio color verde scuro (in gergo dialettale, velluto), ricercato e colto pazientemente in angoli della campagna salentina non contaminati da diserbanti, defoglianti e robe del genere.
Sullo sfondo del cielo, infine, una miriade di piccole stelle realizzate con minuscoli batuffoli di cotone, e anche ciò non è a caso, intendendo bensì ricordare che, sino a tempi non molto lontani, nel Salento si coltivavano anche piante di cotone.

Completano, popolano e vivificano l’ambiente, stupende e pregevoli statue in cartapesta leccese, raffiguranti l’Angelo, la Sacra Famiglia, il bue e l’asinello, i pastori e i loro armenti, i Re Magi.

Due brevi sottolineature.

La prima è che Giuseppe Arseni, a parte il livello di bravura maturato con lo studio, l’impegno, la passione e attraverso l’esperienza di docente, è, come dire, un figlio d’arte proprio genuino: il papà faceva l’imbianchino (lattature, il termine dialettale), di fatto era un artigiano decoratore e pittore, e la nonna lavorava da fornaia, nei tempi in cui ogni famiglia si faceva preparare e cuocere il proprio pane, nel forno pubblico esistente in tutti i paesi.
La seconda, è che di presepi se ne costruiscono tanti, e però quello della Basilica di S. Croce è davvero un bell’insieme, rievocante, con sicura impronta artistica, certe buone immagini del passato, insomma da visitare e ammirare, anzi da gustare.

Dal gomitolo alla poesia passando per la cucina, senza trascurare il parrucchiere; in una parola: lu gnummarièddhu, ovvero il Salento chiama, Napoli risponde

di Armando Polito

immagine tratta da http://www.flickr.com/photos/50356683@N07/5239692866/

Chiedo preliminarmente scusa per il titolo kilometrico che fa il verso a quelli in voga nei secoli scorsi, ma non avevo altro strumento per sottolineare una sorta di gemellaggio tra due culture dal comune denominatore storico e tra il primo sito (http://www.vesuvioweb.com/new) che mi ha ospitato  (il primo amore non si scorda mai…) e quello che attualmente è la mia seconda casa e famiglia (secondo mia moglie, casa-famiglia…); è questo il motivo per cui queste poche righe, grazie alla benevolenza dei loro rispettivi creatori, compaiono in contemporanea sull’uno e sull’altro.

Lascio come al solito ad altri più attrezzati di me ogni altro pensiero sulla prelibatezza di oggi e mi soffermo solo sulla parola cercando di delinearne l’albero genealogico.

Tutto ebbe origine da una voce latina, glomus/glòmeris=gomitolo, voce di genere neutro che, dopo un cambiamento in maschile (metaplasmo), dall’accusativo glòmerem diede vita all’italiano glòmere, voce tecnica che indica l’ aggruppamento formato durante i mesi invernali dalle api operaie di uno stesso sciame che si riuniscono insieme allo scopo di mantenere all’interno dell’ammassamento stesso un’elevata temperatura. L’originario nominativo glomus (peraltro affine a globus=globo) ha dato vita all’obsoleto ghiomo, sempre con il significato di gomitolo.

E lo stesso gomitolo è forma diminutiva di ghiomo con probabile incrocio con gomito.

Molti secoli prima dell’italiano glòmere (che risale a quello appena trascorso) si sviluppò, sempre dal latino glòmerem (probabilmente per ulteriore metaplasmo da un *glomeru(m) più che per regolarizzazione della desinenza) il gliòmmero o gliuòmmero, genere poetico di origine popolare diffusosi negli ambienti letterari napoletani verso la metà del XV secolo (ma la parola era già in uso nel nel suo significato di base nel secolo precedente) e continuato nel successivo. Il significato metaforico di gomitolo è legato alle caratteristiche di queste composizioni che in endecasillabi con rimalmezzo trattano in modo affastellato di argomenti del giorno, ricordi di storie datate, allusioni, proverbi e simili. Altri slittamenti metaforici, e la voce indica “Dieci carlini della vecchia moneta, ducato; quantità di monete avvolte in una striscia di carta, rotolo; intrigo, raggiro” (Raffaele Andreoli, Vocabolario napoletano-italiano, Paravia, Torino, 1887, pag. 310);  poi nel 1955 eccola con un ulteriore significato metaforico nel testo della canzone ‘O nfìnfero il cui autore è Luigi Cioffi (la musica è del padre Giuseppe, così tutto rimane in famiglia):  Venitelo a vedé,/mo passa ‘o nfinfero/cu ‘o cuollo ‘mpusumato1/e ‘a capa a gliommero (Venitelo a vedere, sta passando il fanfarone2/col colletto inamidato e la pettinatura a gomitolo).

Diminutivo del napoletano gliòmmero (per me un indizio è proprio la geminazione di –m3) è il nostro4 gnummarièddhu in cui il gruppo gn– è figlio dello stesso processo che ha portato a gnuttìre (inghiottire) partendo dal latino tardo ingluttìre.

E ora, ricordando tutt’al più, accanto al gomitolo della nonna, la poesia ma non il raggiro e tantomeno  i capelli…, buon appetito!

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1 Quasi tal quale il neretino ‘mpusimàtu, da pòsima=amido, come l’italiano bozzima (con errata discrezione dell’articolo) dal latino tardo apòzema(m)=decotto, a sua volta dal greco apòzema (da apozèo=far bollire, da apò=di nuovo e zeo=bollire).

2 La mia traduzione tradisce il rapporto tra ‘nfìnfero e fanfara, cosa di cui sono tutt’altro che sicuro e per la quale chiedo aiuto, ed eventualmente scusa, agli amici napoletani.

3 Anche se è attestata la forma senza geminazione, solo nel significato originario di gomitolo,  gnuòmere (nel Tarantino a Palagiano), mentre le forme gnèmburu (a Brindisi) e gnòmburu (ad Otranto) sono chiaramente frutto di dissimilazione di un originario –mm-.

4 Le varianti attestate dal Rohlfs oltre a gnummarièddhu (a Maglie nel Leccese, e a Brindisi) sono: gnemmarièddhu (a Lecce e a Squinzano), gnemmarièddhe (a Ostuni, nel Brindisino), gnimmarièddhu (ad Oria nel Brinsidino), gnumarìdde (a Taranto), gnemarèdde (ancora a Brindisi). Va ricordato che a Nardò questa squisitezza (lo ammetto, sarà tale, ma debbo gettare la maschera: non la mangerei neppure sotto tortura…) è chiamata ‘mbotu, che ha la stessa etimologia dell’italiano involto: dal latino involùtu(m) con semplice sincope di –u– nella voce italiana, aferesi di i-, normalissimo passaggio –v->-b– e altrettanto normale scomparsa di –l– come in ccotu=colto, motu=molto, etc. etc.; se nel primo gruppo di voci esaminate si partiva dall’idea del gomitolo che sempre avvolgimento è, quest’ultima idea continua nella voce neretina appena ricordata, mentre le voci nel Leccese dI Merine  (turcinièddi) e nel Tarantino di Massafra (turcenìdde) introducono l’idea del torcere, che, ancora una volta, avvolgimento è.

1598. Atto di convenzione per il completamento della chiesa dei frati Conventuali di Nardò

 

Atto di convenzione per il completamento della chiesa dei frati Conventuali da parte di Angelo e Vincenzo Spalletta, Sansone ed Ercole Pugliese[1]

 

di Marcello Gaballo

Die undecimo mensis februarii XI Indictionis 1598. In civitate Neritoni.

Su invito rivolto dalle parti sottoscritte ci si ritrova nel venerabile convento di S. Francesco dicte civitatis Neritoni, ubi resident fratres Minores Conventuales dicti Ordinis Sancti Francisci, situm et positum intus dictam Civitate Neritoni iuxta suos notorios confines, e sono congregati et coadunati in unum in dicto refectorio ad sonum campanelle, loco et more solitis, il reverendo frate Todesco de’ Todeschini, guardiano in quest’ anno, ed i frati Pietro Romano, Donato Tabba, Persio Muci, Francesco de Raho, Donato Massafra, Angelo Catalano di Nardò e Francesco Greco di Taranto. I predetti Persio Muci e Donato Tabba sono stati eletti procuratori deputati

Nardò. La chiesa dell’Immacolata e la dimora dei francescani conventuali

 

 

di Marcello Gaballo

Nel 1271 i francescani di Nardò avevano avuto in dono dal re Carlo I d’ Angiò, tramite il suo parente Filippo de Toucy, reggente della città, l’ antico e rovinato castello (castrum temporum & bellorum iniuria destructum), ubicato nel punto più alto della città, per farne un loro convento[1].

Il complesso è nelle vicinanze della cattedrale neritina, identificabile con l’attuale palazzo Castaldo, già Del Prete-Giannelli, a ridosso della chiesa dell’ Immacolata e dell’ Ufficio Postale.

Da quell’anno e per i tre secoli successivi le notizie sull’ordine minoritico in città e sulla loro chiesa sono assai frammentarie. Recenti rinvenimenti di rogiti notarili cinquecenteschi hanno chiarito aspetti sino a qualche decennio fa del tutto oscuri.

La nostra chiesa da svariati Autori è stata sempre attribuita al celebre Giovanni Maria Tarantino, lo stesso delle chiese neritine dell’ Incoronata, S. Domenico e S. Maria della Rosa.

Poco noti sono invece gli interventi di altri fabricatores experti neritini, altrettanto abili, che sul finire del 500 dettero a Nardò l’impronta che in parte ancora possiamo vedere e che ci sembrano meritevoli di accurato studio, in ciò confortati dalla scoperta dei documenti nell’ Archivio di Stato di Lecce, che ci consentono di collocarli, al pari del più noto Tarantino, fra i grandi della storia dell’architettura salentina del XVI-XVII secolo.

Angelo e suo figlio Vincenzo Spalletta, Tommaso Riccio, Donato, Marco Antonio ed Allegranzio Bruno, Francesco delle Verde, sono tra quelli che prestarono la loro opera per realizzare il complesso di cui scriviamo, oltre al menzionato Tarantino, che però in questo caso si limitò a ricostruire il solo chiostro (ancora esistente e adiacente la chiesa, non visitabile).

particolare dell’ingresso con la statua dell’Immacolata

È doveroso riconoscere al prof. Giovanni Cosi il merito di aver dato per primo alla luce alcuni dei capitolati di appalto per la costruzione del nostro complesso, realizzato in più riprese in circa 20 anni, a partire dal 1577.

Altri contributi sono stati pubblicati negli scorsi anni dagli architetti Mario Cazzato, Laura Floro, Giancarlo De Pascalis,  contribuendo così a delineare, con gli ultimi miei rinvenimenti, una microstoria che oggi possiamo ritenere pressocchè definita.

Occorreranno certamente altri studi ed approfondimenti, che si auspicano numerosi, per riscrivere pagine di storia della nostra città, fra le più operose di Terra d’ Otranto, almeno nei tempi passati e, lo speriamo, nel futuro.

Il primo atto notarile sul convento è del 1577, quando i frati danno incarico ai mastri Donato e Allegranzio Bruno, Tommaso Riccio e Angelo Spalletta, affinché realizzino parte della chiesa di S. Francesco (che fu dedicata all’ Immacolata solo nel XIX secolo!).

L’ anno successivo, 1578, dei predetti si ritrovano esecutori dei lavori soltanto Angelo Spalletta e Tommaso Riccio, i quali tutta predetta frabica fino al presente giorno l’ hanno fatta tutti dui essi mastro Jo. Thomasi et mastro Angelo. Ma, per motivi non dichiarati, dopo qualche mese, viene sciolta la società e si conviene con concordia et transazione, che esso m.tro Jo. Thomasi cede et renuntia come già hoggi avanti di noi cede et renuntia a detto m.tro Angelo presente la p.tta frabica di detta ecclesia di S. Francesco.

particolare della facciata

Probabilmente c’è un fermo dei lavori a causa della mancanza di fondi e solo il 15 giugno 1587, con atto del notaio Tollemeto, viene stipulata una convenzione tra i frati, rappresentati dal guardiano Donato Tabba e dal vicario Angelo Assanti, ed Angelo Spalletta. Quest’ultimo, con i mastri Allegranzio Bruno, Giovanni Maria Tarantino, Giovanni Tommaso Riccio e Giovan Francesco delle Verde, realizzerà quattro claustri (super fabrica facienda quator claustrorum). Più in dettaglio il rogito riporta:

I detti mastri siano obligati scarrare à loro dispese lo claustro fatto vecchio, cortina de la cisterna et quanto sarà di bisogno, per la quale scarratura, succedendo rovina al convento, sia à danno et interesse di detti mastri, et la terra de la scarratura et cavatuira di pedamenta detti mastri siano anche obligati portarla fora al giardino di detto convento a loro spese;

item detti mastri saranno anche obligati fare detti claustri con cinque arcate per claustro à colonne con vintiquattro lamie di spicolo;

item saranno anche obligati detti mastri fare di novo la porta di battere di detto convento di carparo bastonata, con una loggia à lamia di palmi sidici di larghezza e vinti longa.

Mentre i frati provvederanno alla calce – continua l’atto – ai mastri spetterà fornire le pietre, che nel caso delle terrazze, capitelli e cornici delle colonne saranno della tagliata di Santo Georgio. Le pietre della facciata  della chiesa del convento et li pezzi delle colonne siano di la tagliata di Pergolati (Pergoleto, Galatone), de la petra forte et negra.

La somma pattuita è di 400 ducati, di cui 20 dati come acconto[2].

Ma anche questa volta il contratto fu sciolto, per cause imprecisate, perchè l’anno dopo, a proseguire e completare i lavori si ritrova ancora Angelo Spalletta, consociato però con il congiunto Vincenzo, oltre a Sansone ed Ercole Pugliese, magistri fabricatores dicte civitatis Neritoni.

Nella convenzione si stabilisce che essi realizzeranno per la fabricam faciendam in aedificandis et construendis: crocera, cubula (cupola), sacrario (sacrestia) et campanile in ecclesia conventus[i][3]. Il capitolato, alquanto articolato e assai interessante, lo riporto in successivo contributo.

Due cartigli sulla facciata riportano a sinistra le cifre “S.T.” e a destra “S.B.”; si potrebbe ipotizzare che queste siano le firme dei mastri realizzatori (Spalletta-Tarantino; Spalletta Bruno?). Al centro ancora un cartiglio sembra riporti 1580 o forse 1589, più consono con le vicende della fabbrica, come è riportato nei documenti che si allegano.

particolare del coronamento superiore. A destra il cartiglio con le cifre “S B”

Nel 1598 ancora un contratto (che si allega nell’altro post) documenta lavori da ultimarsi: il campanile, la sacrestia, parte delle volte. Sulla conduzione del convento e sulle vicende architettoniche successive si conosce ben poco. Nel 1783 comunque dimoravano in esso undici Minori Conventuali: sei sacerdoti e cinque conversi.

Nel primo decennio del XIX secolo, a causa della soppressione di molti ordini, il nostro fu requisito dal governo e venduto a Marcello Giannelli, che ne fece la propria abitazione.

La chiesa rimase chiusa ed abbandonata, riducendosi in pessime condizioni statiche. A causa del crollo della tettoia, il vescovo Luigi Vetta, verso il 1850, fece realizzare la volta in muratura e la risistemò dedicandola alla Vergine Immacolata, gestita dalla confraternita omonima.

L’attuale chiesa, pesantemente riammodernata sotto il rettorato di Aldo Garzia, poi vescovo, risulta alta ed ampia, di forma rettangolare, con sette altari, il maggiore, tre a destra e tre a sinistra, collocati sotto arcate o cappellette.

Del primitivo altare maggiore, maestoso e in marmi policromi, poi barbaramente scomposto in più parti negli anni 70 del secolo scorso, sopravvivono due colonne con capitelli. Su una di esse, che sostiene il Vangelo, è scolpito lo stemma della famiglia Personè, probabile finanziatrice dell’opera. La balaustra, anch’essa rimossa e scomposta, è conservata nella sacrestia; niente sopravvive del pergamo e del coro ligneo dei frati, collocato un tempo dietro l’altare maggiore.

Entrati nel sacro edificio il primo altare di destra (della metà del Settecento)è dedicato a S. Giuseppe da Copertino, con una tela del titolare. Nella chiesa il santo ebbe un’estasi durante le Quarantore del SS.mo Sacramento, elevandosi sino all’altezza dell’ostensorio contenente l’Eucaristia e, nonostante le numerose candele accese, sostò tra le stesse in adorazione per qualche tempo[4]. L’ovale in alto riproduce la Visita della Madonna a S. Elisabetta.

Il secondo altare in origine era dedicato alla Presentazione di Maria al Tempio,  la cui tela fu sostituita da un quadro in cartapesta a rilievo, coperto da vetro, raffigurante Santa Rita da Cascia[5].

Era privilegiato e in alto ospitava il dipinto di San Giovanni da Capestrano.

secondo altare del lato destro

Il terzo altare era dedicato all’Assunzione di Maria, raffigurata nella tela; l’altro dipinto raffigura S. Biagio, commissionato dai baroni Sambiasi, che qui avevano diritto di sepoltura, come confermano l’epigrafe e lo stemma posti ai lati dell’altare.

Sul lato sinistro il primo altare, anche questo settecentesco, era dedicato alla Purificazione di Maria, come conferma la tela in alto. Un secondo dipinto si ritiene raffiguri il protettore cittadino, S. Gregorio Armeno; in verità sarei più del parere che si tratti di Simeone. Lo stemma del Vescovo Carafa conferma la datazione più tarda rispetto agli altri altari.

Il secondo era dedicato all’Annunciazione, con la relativa tela e l’altra sulla cimasa raffigurante la Maddalena.

secondo altare del lato sinistro

L’ultimo ospita una tela con la Natività di Maria Vergine e in alto una mediocre, più piccola, raffigurante S. Giovanni Battista, forse in sostituzione di una precedente.

Rilevanti nella chiesa la grande tela con l’immagine dell’Immacolata posta frontalmente, sul presbiterio: l’artistico organo seicentesco, collocato su apposito palchetto a ridosso della controfacciata; l’interessante e molto bella statua lignea della Vergine, precariamente collocata a destra del presbiterio.

 
 
 
cantoria con organo

Per approfondire:

Coco Primaldo, I Francescani nel Salento, Lecce 1916.

Perrone Fr. Benigno, I conventi della Serafica Riforma di S.Nicolò in Puglia (1590-1835), voll.3, Galatina 1981.

Perrone Fr. Benigno, Neofeudalesimo e civiche Università in Terra d’Otranto, voll. 2, Galatina 1980.

Tafuri Giovanbernardino, Dell’ origine, sito e antichità della città di Nardò, in “Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Gio.Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò”, in A. Calogerà, Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, t. XI, Venezia 1735.

Vetere Benedetto (a cura di), Città e monastero – i segni urbani di Nardò (secc. XI-XV), Galatina 1986.

particolare dell’altare privilegiato

[1] Wadding Luca, Annales Minorum in quibus res omnes Trium Ordinum a S. Francisco iustitutorum ex fide ponderosius…, II e VIII, 1647: nel 1271 …Neritoni in regno Neapolitano Carolus Andegauensis huius nominis primum utriusque Siciliae Rex concessit in habitaculum Fratibus extruendum regium castrum temporum & bellorum iniuria destructum. Donationis instrumentum ipso rege praesente factum, apparet in vetusta membrana. Recensetur hic conventus sub Provincia S. Nicolai, & custodia Brundisina Patrum Conventualium.

[2] Per questo ed altri lavori del convento v. pure G. COSI, Il notaio e la pandetta, Microstoria salentina attraverso gli atti notarili (secc. XVI-XVII), a c. di M. Cazzato, Galatina 1992, pp. 72,75.

[3] Rimando al mio articolo La chiesa dell’Immacolata e il convento dei Francescani, identificati gli autori del complesso cinquecentesco, in “Portadimare”, dic. 1998, p. 3; L. Floro, La cinquecentesca chiesa di S.M. Immacolata, in “La Voce del Sud”, 22/11/1997; G. COSI, Spigolature su Nardò. Come venne su la chiesa di S. Francesco, in “Voce del Sud”, Lecce 14/11/1981; G. COSI, Spigolature su Nardò. Giovanni Maria Tarantino e il convento di S. Francesco, in “Voce del Sud”, Lecce 6/3/1982.

[4] E. Mazzarella, Nardò Sacra.

[5] Nel 1952 nella chiesa è stata istituita la Pia Unione di S. Rita da Cascia, che ancora attende alla cura ed al decoro del sacro luogo, alle funzioni liturgiche ed alla  diffusione del culto e delle virtù della Santa.


Carosino. Ricorrenza dell’Immacolata: tra fede, storia e tradizione

La statua dell’Immacolata dell’antica cappella di Carosino

di Floriano Cartanì

Da sempre l’inizio dell’Avvento viene vissuto a Carosino, in provincia di Taranto, come un preciso segnale che annunzia l’imminente nascita del Signore e, nel contempo, dà il via ai preparativi  per i festeggiamenti natalizi.

La festa dell’Immacolata Concezione per esempio, che rappresenta appunto una sorta di giornata d’apertura delle memorie di questo periodo, qui a Carosino vanta una consuetudine addirittura secolare, come ricorda l’ultra centenario monumento eretto in suo onore in Piazza Dante, nei pressi della Chiesa Madre.

Una devozione mariana che ha precisi riscontri storici, se è vero com’è vero che mons. Capecelatro già nella sua relazione del 1790, evidenziava la presenza di una cappella dedicata alla Vergine nel borgo carosinese.

Questa venerazione religiosa di tutto rispetto appare legata  agli antichi nobili locali del tempo, i cui discendenti provvidero ad ufficializzarla attraverso un vero e proprio atto formale datato 8 ottobre 1829. In quel documento, l’allora Principessa di Sant’Angelo e Faggiano, nonché Duchessa di Carosino, proprietaria della suddetta cappella, cedette il manufatto alla Municipalità di Carosino, proprio per il culto della Vergine Immacolata.

In segno di gratitudine per questo gesto, la cittadinanza decise allora di istituire un’apposita festa in ricordo di quella ricorrenza, da solennizzarsi al pari dei festeggiamenti più importanti, come quelli dei Santi protettori per intenderci.

Che i Carosinesi fossero molto attaccati a questo ricordo, lo si può facilmente intuire allorquando nel giugno del 1856 si decise di aggiungere altri tre incaricati alla deputazione già esistente, in modo che la festa fosse celebrata nel migliore dei modi possibile.

Fino a tutta la seconda metà dell’800 i festeggiamenti furono eseguiti nell’ultima domenica di luglio. Solo verso la fine del secolo scorso si decise di spostare la solennità al 7 e 8 dicembre, mantenendo tuttavia una peculiarità nello svolgimento della processione.

Tutto aveva inizio il pomeriggio del 7 dicembre quando la maggior parte della popolazione carosinese,  col parroco  in testa, si recava in processione alle porte del cimitero, a prelevare il simulacro della Madonna Immacolata dall’antica cappella. Dopo alcune preghiere di rito, la statua era trasferita nella  Chiesa Madre, ove rimaneva esposta alla venerazione dei fedeli  fino al pomeriggio dell’8 dicembre. Da qui, dopo una breve sosta presso la chiesa di San Francesco, veniva riportata nell’antica cappella, il luogo dove aveva avuto origine la tradizione.

Dell’antica usanza processionale, gloriosamente trascinatasi fino all’inizio del secolo scorso, oggigiorno esiste purtroppo solamente la fiaccolata cerimoniale che si tiene la sera dell’8 dicembre dopo la messa vespertina. A questa pratica, tuttavia, viene tutt’ora affiancata l’antica consuetudine, conservatasi grazie ad un gruppo di volenterosi, che vede nella notte fra il 7 e 8 dicembre una banda musicale percorre le vie del paese suonando classici motivi natalizi.

Erano ed in alcuni casi sono ancora oggi questi, i segni che ci ripropongono, anno dopo anno, la caratteristica atmosfera di questa festa e l’immutata devozione mariana dei Carosinesi. Ci piace immaginare che ancora oggi, come allora, si dormiveglia un pò tutti in questa fatidica notte dell’Immacolata, nel tentativo di percepire dapprima in lontananza e poi sempre più vicini qui magici suoni musicali i quali, come nel più classico dei copioni di questo periodo, riscaldano oltremodo il cuore di ognuno di noi.

Raccontare storie

Emigranti di Collemeto a lavoro all’estero negli anni ’50 del secolo scorso. Da sinistra: Uccio Congedo, Misciali, De Matteis e De Riccardis.

di Alfredo Romano

Raccontare storie. Anche “Piccoli seminaristi crescono”, il mio ultimo libro, racconta una storia, la storia di un ragazzo e di altri suoi coetanei che si chiudono, per così dire, per cinque anni in un seminario al sol fine di formarsi per diventare un giorno dei sacerdoti votati alla salvezza del mondo.

Ma perché c’è questo bisogno di raccontare storie? Tutti raccontano storie, le storie finiscono nei discorsi, finiscono nei libri. Fin da piccoli tutti abbiamo avuto bisogno di storie parlate, di storie scritte. Come si può spiegare questo bisogno di raccontare e ascoltare storie? Le leggi fisiche non lo possono spiegare, perché le leggi fisiche spiegano il mondo per quello che è, ma non possono spiegare le esperienze o gli eventi che avvengono nelle vite individuali di ognuno di noi. Solo la letteratura e le arti in realtà lo possono spiegare.

Ma raccontare storie fa parte di un istinto primordiale, giacché l’uomo, a differenza degli altri animali, vede la propria vita in termini narrativi: c’è un passato, c’è un presente e c’è un futuro da raccontare. Grazie a ciò noi siamo in grado di immaginare scenari e situazioni della nostra vita che ci aiutano poi a prendere delle decisioni, a scegliere quale strada intraprendere al sol fine di garantire la nostra vita. L’immaginazione, in certo qual modo, ce la può salvare. Prendiamo l’uomo primitivo, per esempio, che riusciva a immaginarsi i pensieri che frullavano nella testa del suo nemico, di sicuro ciò costituiva per lui uno strumento di sopravvivenza perché in tal modo poteva  elaborare un piano di difesa. Immaginare storie perciò, raccontarle, sì, può salvare la vita anche nel senso che le storie nobilitano il nostro vivere quotidiano a volte così banale.

Quando Marcello Gaballo, direttore del blog Spigolature Salentine, mi propose qualche anno fa di scrivere sulla vita e sulla formazione dei seminaristi di Nardò nei primi anni ’60 del secolo scorso, immaginai che Marcello volesse propormi di scrivere un saggio. Ma io non so scrivere saggi, o almeno non ci ho mai provato: io so raccontare solo storie. Sono cresciuto in un mondo in cui la vita era fatta di storie. E già, perché solo le storie potevano riscattare la precarietà della vita di quei tempi, i tempi in cui, recandomi a scuola ogni mattina, mia madre provvedeva a sistemarmi nella cartella di cartone una fetta di pane condito con vino e zucchero o con olio e pomodoro. Ed era un lusso, giacché alcuni compagni arrivavano a scuola anche digiuni. E quanti bambini ho visto morire d’inedia, di tifo, di meningite, di tisi e febbri varie.

Raccontare storie era come riscattare, dare un senso, farsi la ragione di una vita che doveva misurarsi ogni giorno con la fatica, con gli stenti, con la fame. E noi bambini assistevamo alla morte con quella normalità con cui si assisteva alle azioni quotidiane. E dovevamo essere presenti all’agonia dei nonni, presenti alle veglie, presenti alle grida e allo strazio dei familiari, perfino i morti dovevamo baciare. Non eravamo risparmiati per nulla dalle piccole e grandi tragedie che accadevano in paese, anche noi dovevamo farci carico del dolore collettivo, farci carico di quel mistero che si chiama morte, che ci attraeva per certi versi perché portava scompiglio nel paese e ci faceva restare a bocca aperta.

Eppure, accanto a tutto ciò, c’era un contraltare, giacché, come spesso avviene, non tutti i mali vengono per nuocere. Nel contesto di cui parlo, un contesto non privo di fatti e di episodi a volte tragici, a volte curiosi, ecco che nascevano gli affabulatori, coloro che con gesti e parole riuscivano a rappresentare la vita e i personaggi del paese e tramandare anche le storie popolari che si raccontavano da secoli: storie tragiche e storie per ridere. Accadeva di sera, riuniti d’inverno intorno a un braciere o a un caminetto; d’estate, fuori casa, in un crocicchio al fresco della sera. E si raccontava anche nelle fasi della lavorazione del tabacco, all’alba, col volto sonnacchioso mentre si raccoglieva e quando si stava seduti per ore a infilzare il tabacco con quel lungo ago, detto cuceddha, sempre pronto a pungerti i polpastrelli.

I libri che ci leggeva in classe la maestra Ada nell’ultima ora di lezione.

Quand’ero ragazzino, non c’erano libri né in casa, né in paese. Ma le persone che raccontavano ogni giorno, a cominciare dai genitori e dai nonni, non ci facevano rimpiangere la mancanza di libri. Il primo libro è stato quello di lettura in prima elementare. e qui scoprii che anche un libro poteva raccontare storie. La nostra maestra, Ada Distante, ogni giorno, nell’ultima ora, ci leggeva un brano di Cuore, Pinocchio, Le mie prigioni (per dirne alcuni), anche alcune pagine di quella fantastica enciclopedia per ragazzi, così ricca di immagini a colori, che era Conoscere. La maestra, alla bisogna, si portava da casa un volume per trattare l’argomento del giorno. Per noi scolari L’Enciclopedia Conoscere rappresentava il nostro immaginario, il sogno proibito. Questo s’accresceva perché ci era vietato toccare quell’enciclopedia, la maestra non voleva che la sciupassimo. Io avrei voluto assaporarla nel tatto, nell’odore, entrare nelle immagini colorate, esplorarla, come mettermi in viaggio per mondi sconosciuti. Anni dopo, un giorno che andai a Lecce a trovare la mia maestra, la prima cosa che le chiesi fu quella di farmi “toccare” l’Enciclopedia Conoscere. Mi guardò con aria interrogativa: “Sono anni che sogno di sfogliare la tua enciclopedia” ammisi. Rimase spiazzata, la sfiorava come un senso di colpa. Si avvicinò all’anta di uno scaffale vetrato, l’aprì: l’enciclopedia era lì, intatta, come nuova, e vi affondai il naso, la bocca, gli occhi, la testa, il cuore, la mente.

Ecco, ho finito per raccontarvi una storia nelle storie e così… allungo la vita anche a tutti voi, perché è proprio bello svegliarsi alla vita di ogni giorno aprendo la finestra per assaporare la ventata d’aria fresca dell’alba dalle dita di rose, come la chiama Omero. Gli uccelli lo sanno da un pezzo, ché, con i loro cinguettii, saltando di ramo in ramo, concertano i suoni e i colori dell’alba prima che un raggio di sole “spazzi via le tante ombre della nostra vita”, ci ricorda frate Francesco d’Assisi.

No ttegnu nna màgghia… ma nc’è màgghia e màgghia (Non ho una maglia…ma c’è maglia e maglia)

di Armando Polito

La parte della locuzione dialettale prima dei puntini di sospensione era usata in passato per sottolineare uno stato se non di indigenza almeno di provvisoria mancanza di denaro nelle proprie tasche, corrispondente più o meno all’italiana non ho una lira. Ne parlo perché, aggiornamento in quest’ultima di lira con euro a parte, la attuale situazione economica ne ha acuito l’attualità estendendone la validità anche a ceti prima non toccati da questa situazione e, se continua così, finirà per coinvolgere tutte le persone, quelle oneste…; e ne parlo pure perché rappresenta un esempio, credo chiaro e convincente, di come la ricerca etimologica possa facilmente prendere degli abbagli.

Viene in mente subito, anche per la traduzione che del titolo ho fornito, l’italiano maglia nel suo primo significato (in realtà vedremo subito che è il secondo) riferito all’indumento. Non c’è nulla da eccepire sul piano semantico (basta pensare al senso traslato dell’italiano rimanere in mutande) né su quello fonetico, per il quale vale la pena spendere qualche parola in più. Maglia deriva dal provenzale malha (cfr. francese maille), a sua volta dal

Un vino del Salento lento, lento, lento ma che sa far ballare chiunque

di Pino de Luca

È tempo di lasciare le coste e scendere, scendere fin nella Decatrìa Chorìa, allontanarsi dalle onde e fermarsi al centro della Mediterrònia, equidistanti dal mare circonda il Salento.

A quattro leghe dallo Jonio e quattro dall’Adriatico, terra soleggiata e argillosa, spazzata dai venti che dei due mari portano i profumi, in mezzo proprio il paese della “Crita”: Cutrofiano.

Alla via Di Vittorio, al n. 1 c’è una pineta e una masseria intitolata all’Accipiter Gentilis, rapace matriarcale capace di un volo rapido e acrobatico per districarsi tra le zone della macchia e della boscaglia. L’Astore è il marchio della famiglia Benegiamo che produce vini coniugando l’antica tradizione e la nuova tecnologia finché questa si mantiene rispettosa e costruttiva per l’ambiente. Un appezzamento di terra più a nord di Cutrofiano, in agro di San Pietro in Lama, è ancora popolato da Alberelli di negroamaro che furon messi a dimora nel 1947. Nodosi e contorti dall’età e dalle mani dell’uomo, danno pochi grappoli ormai ma composti da acini sani, forti e dolci come il più dolce dei nettari divini. Provenienti da tempo lungo per lungo tempo (almeno 30 mesi) si lascia maturare il meraviglioso succo di queste bacche rosse. Ne vien fuori un prodotto scuro, rosso profondo, dagli inconfondibili aromi di mora matura, prugna e spezie, uno dei pochi vini al quale il legno fa benissimo. Possente di spalla e persistente nel gusto, racconta nel bicchiere la terra, la fatica, il sole e il vento di un Salento lento, lento, lento ma che sa far ballare chiunque quando lancia la sua “aria stisa”. E qui dove l’Astore vola e gli Alberelli ritrovano senso e onore nelle 3500 bottiglie che Alberelli si chiamano (www.lastoremasseria.it) , qui “aria stisa” è la voce di un monumento della canzone salentina, Uccio Aloisi che ci manca da un anno e che fin da ragazzo ha cominciato a far di tutto cantando, fino alla fine. Con i suoi straordinari stornelli che pennellavano situazioni, caratteri e paesaggi in piccole strofe. Quadri che la sua voce magica rendeva comprensibili anche a chi non conosceva né l’italiano né tanto meno il salentino e che ritmava al suono di tamburelli e organetti capaci di far muovere i piedi anche agli ammalati di gotta.

Me lo ricordo ancora in una sua rivisitazione di stornelli che riguardano il vino, ad una “Sagra te lu Purpu” (sagra del polipo) alle marine di Melendugno del 2009 (http://youtu.be/c8cBoKJM69E): “ci quandu mueru vau a ‘mparaisu, ci nun ‘nc’è mieru buenu nun ci trasu” diceva la versione originale e Uccio, dal palco, alla giovane età di 80 anni, irriverente come solo i grandi artisti sanno essere, la trasformò in “ci quandu mueru vau a ‘mparaisu, ci nun ‘nc’è mieru buenu nà ce trasu” e accompagnò quel nà con il gesto dell’ombrello …

E me lo immagino Uccio, il 21 di ottobre del 2010 che, chiusi gli occhi su questa terra, si presenta a San Pietro. Il simpatico signore lo invita ad entrare offrendogli un caffè di nota marca. Uccio che lo guarda, fermo sulla soglia, e gli dice: “Caffè? Ce mieru teniti?”, pronto a tornarsene da dove stava venendo.

San Pietro rimane sbigottito, non sapendo che fare chiama la direzione. E arrivano Uccio Bandello e Uccio Melissano con una di quelle 3500 bottiglie di Alberelli di casa L’Astore. Uccio li guarda con i suoi occhi pieni di mare, e intona “fior di zagàre/n’auru picca se putìa campare/ma puru a quai ‘nc’ete nu cumpare/l’amici, lu mieru e se po’ cantare”. Il Paradiso ora è un’altra cosa.

pino_de_luca@alice.it

L’attualissima eredità del dimenticato Giuseppe De Dominicis (alias Capitan Black): la forza di un modello glocal ante-litteram per salentini e non dei nostri giorni*

“Il parlare quotidiano è una poesia

dimenticata e come logorata”

M. Heidegger

di Pier Paolo Tarsi

Lecce nu bera nienti a nfacce Utrantu:
fegùrate ca tutte ste sciardine
utandu de cqua nturnu, fencattantu
nu ggìri allu castiedhu peccussine;

tutta quanta sta parte a ddunca moi
l’acqua se stagna e llu ranecchiu rita,
cinquecento anni a rretu quandu foi
era paise a ddu fervìa la vita.

E lla vita fervìa mmienzu stu mare,
a ddu moi nu trabbàculu nu rrìa,
nc’eranu bastimenti a ccentenare
de Francia, de Venezia e de Arbania.

Era de centu turri ncurunatu
Utrantu, figghiu miu, quista è lla storia,
E moi de tanta pompa n’ha restatu
Lu nume sulamente e lla memoria
[1]
Con una scena quasi intima che rievoca la funzione più originaria e arcaica del canto poetico, quella della trasmissione orale del proprio passato dal vecchio al giovane, si apre la più bella narrazione storica in versi che si conosca della presa turca di Otranto, il meraviglioso poema Li Martiri d’Otrantu di Giuseppe de Dominicis. Nato nel 1869 a Cavallino, nella provincia leccese, questi era conosciuto soprattutto come Capitan Black, pseudonimo curioso attinto da un romanzo inglese che ricorda immediatamente quanto vasta, nel suo essere proiettata alla più ampia produzione letteraria di tutta (ma proprio tutta!) Europa fosse la cultura di questo poeta, nato nella periferia più estrema del continente e morto a soli 36 anni. Verseggiava per lo più in vernacolo (benché non manchino sue opere in lingua) e nel suo dialetto, nelle immagini e nei modi di dire della propria gente, attingendo simbolicamente dal vivere contadino del Salento

Tra fili, pili e fiche siccate…(Tra fili, peli e fichi secchi)

di Armando Polito

Oggi per esprimere una valutazione negativa si ricorre a ben altre metafore, tra le quali spicca quella che si riferisce all’organo genitale maschile. Al di là di ogni riflessione sul maschilismo linguistico (nonostante le conquiste del femminismo, continua, se è vero come è vero, direbbe Antonio Di Pietro,  che da tempo pure le donne scocciate dicono che palle!) e sul sesso considerato (non dico per colpa di chi o di quale istituzione…) a lungo come peccato (anche se praticato all’interno del matrimonio ma senza finalità procreative), resta per me il paradosso (frutto della colpa appena accennata) dell’assurgere a simbolo di nullità,  o quasi, dell’organo maschile che, in collaborazione con l’altro femminile, ha consentito a me di scrivere queste scemenze (appunto…mi sembra di sentire) e al lettore (e qui l’appunto precedente si riferisce solo a chi non si è limitato ad una rapida scorsa al titolo ma ha continuato imperterrito) di prenderne atto.

In passato i termini di confronto erano ben altri. Per esempio, nel mondo romano (come tutti sanno, ma nessuno come Cetto Laqualunque…) era il pelo1 a dettar legge, non solo in riferimento alle persone comuni, ma anche nei confronti del mondo militare e della stessa divinità2.

Gaio Valerio Catullo (I secolo a. C.), Carmina, XVII, v. 17 : Ludere hanc sinit ut lubet, nec pili facit2uni (Permette a costei di spassarsela a piacimento e non la stima un solo pelo); X, vv. 9-13: Respondi, id quod erat, nihil neque ipsis/nunc praetoribus esse nec cohorti,/ cur quisquam caput unctius referret,/praesertim quibus esset irrumator/praetor, nec faceret pili3 cohortem (Risposi, era la verità,  che ciò che era vero, che non c’era nessun guadagno per gli stessi pretori, nè per la coorte, non c’era motivo perché qualcuno riportasse la testa più leccata,
specialmente quelli che avessero un pretore sporcaccione e non stimasse un pelo la coorte).

Petronio Arbitro (I secolo d. C.), Satyricon, 44:  Nemo caelum putat, nemo Iovem pili facit3 sed omnes, opertis oculis, bona sua computant (Nessuno prende in considerazione il cielo, neppure uno stima un pelo Giove,  ma tutti, ad occhi chiusi, contano le proprie ricchezze).

Prima che la metafora anatomica di cui ho detto all’inizio s’imponesse, la valutazione negativa era compendiata in frasi come non valere un fico secco4, non valere una cicca e pelo aveva, oltre all’uso in senso letterale, quelli ricordati nella nota 1; analogo il destino di filo, metaforicamente usato in un filo di speranza, vita attaccata a un filo, un filo d’olio, un filo di bontà, un filo di bene, etc. etc.

Sotto questo punto di vista il dialetto si mostra più creativo, conferendo oltre al valore di nome comune [filu ti lana, filu ti cuttòne (filo di lana, filo di cotone)] anche quello a prima vista avverbiale di no ll’àggiu istu filu (non l’ho visto per niente).

Ho detto a prima vista avverbiale perché sarebbe strano se un sostantivo fosse contemporaneamente avverbio (è normale, invece, per un aggettivo: per esempio lontano); infatti, come successo per il genitivo di stima, anche qui ci sono elementi sottintesi che hanno dato vita ad una struttura ancora più sintetica, in cui l’elemento temporale si confonde con quello della quantità: no ll’àggiu istu (mancu pi nnu tièmpu cusì piccìccu quantu è nnu) filu [non l’ho visto (neppure per un tempo così esiguo quanto è) un filo)]; in altri contesti è l’idea della quantità quella dominante: no lli ole filu bbene (non gli vuole per niente bene), da no lli ole (mancu pi qquantu ete nnù filu) bene [non gli vuole, (neppure per quanto è) un filo, bene].

E ora siete liberi di dire ‘stu post no nd’è piaciùtu filu…   

___

1 Sopravvive metaforicamente come sinonimo di quasi niente nelle espressioni: per un pelo (o, non a caso, per un capello) non c’è stato l’impatto e cercare il pelo nell’uovo; registra quasi un ritorno al significato di base in non avere peli sulla lingua. Nel dialetto il significato metaforico è in lu pilu intr’a llu ‘nsartu (il pelo nella sartia) riferito all’acutezza visiva se il verbo reggente è itire (vedere), corrispondente all’italiano il pelo nell’uovo se è circàre (cercare).

2 Oltre al pelo erano abbastanza quotati il fiocco (flocci fàcere=stimare un fiocco), il guscio di noce (nauci fàcere=stimare un guscio di noce), l’asse [(una moneta) assis fàcere=stimare un asse].

3 Pili è definito dalle grammatiche genitivo di stima, ma nessuna di esse cerca di spiegarne l’origine. Consideriamo l’intera espressione pili fàcere (o fàcere pili): se dovessimo tradurla alla lettera sarebbe fare di un pelo, che non ha senso. Anzitutto va detto che il verbo fàcere oltre che fare significa pure stimare, valutare, significato che è rimasto in espressioni del tipo ti facevo più sincero, in cui dall’idea iniziale di fare si è passati a quella di immaginare e, alla fine, valutare. Sostituendo nella traduzione letterale (fare di un pelo) fare con valutare avremo valutare di un pelo, che continua a non aver senso. Tenendo presente che fàcere è un verbo transitivo e che nel caso del complemento oggetto (l’accusativo) va la cosa o la persona valutata (nel primo esempio un eam sottinteso, nel secondo cohortem, nel terzo Iovem), nelle nostre frasi (e in tutte quelle in cui ricorre il cosiddetto genitivo di stima) quel genitivo in realtà dipende da un ablativo strumentale sottinteso (existimatione). Integrando così una qualsiasi delle nostre frasi, per esempio l’ultima, si ha nemo Iovem pili existimatione facit che, tradotto alla lettera, suona: nessuno valuta Giove con la stima di un pelo; e il senso, questa volta, c’è tutto. Un originario, semplice genitivo oggettivo, per quella che io chiamo una comoda menzogna grammaticale, è diventato alla fine un genitivo di stima.

4 No bbalìre mancu nna fica siccàta (non valere neppure quanto un fico secco) probabilmente è di origine relativamente recente, poiché i fichi secchi fino a sessanta anni fa nell’economia contadina avevano un grande valore. Il termine di paragone, comunque, è già obsoleto col costo che i fichi secchi hanno raggiunto. Corsi e ricorsi storici, direbbe Giambattista Vico…     

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