La chiesa dei Battenti in Galatina

di Domenica Specchia  – foto di Oronzo Ferriero

Un recente restauro ha interessato la chiesetta dedicata alla Vergine della Misericordia di Galatina – comunemente nota come chiesa dei Battenti – poiché il tempo, gli agenti atmosferici e l’incuria dell’uomo l’avevano destinata, ingiustamente, all’oblio. Ubicata nella circoscrizione territoriale della Parrocchia di S. Caterina d’Alessandria dell’Archidiocesi di Otranto, tale struttura religiosa che, nei secoli, ha subito ampliamenti e rimaneggiamenti, fu sede del Pio Sodalizio dei Battenti come attestato nelle Visite Pastorali.

Tuttavia, risalire alla data precisa che vide operante questa confraternita sul feudo del casale di S. Pietro in Galatina risulta impervio poiché i primi documenti disponibili di questa “scuola” risalgono al Cinquecento e, peraltro, non consentono di definire l’anno della sua nascita. Di contro, possono essere di ausilio gli affreschi della monumentale chiesa di S. Caterina d’Alessandria.

Leggendo questo compendio da biblia pauperum si è catturati dalle diverse figure le quali, come acquisito da autorevoli studiosi, possono rappresentare, nello scenario, i possibili committenti dei cicli pittorici e gli autorevoli personaggi della vita sociale e religiosa galatinese del Quattrocento. Tra questi si osservano anche i seguaci dei Flagellanti, cioè coloro che tormentavano il proprio corpo, a sangue, con i battenti e che furono in loco i rappresentanti della relativa Confraternita.

Considerando ancora che gli affreschi della chiesa dedicata alla santa sinaitica furono eseguiti, come asserito dalla studiosa Matteucci, tra il 1419 ed il 1435, si presume che già a tale data la confraternita dei Battenti svolgesse, a livello locale, la sua missione, attestata poi dal 1567, nella chiesa dedicata alla Vergine della Misericordia.

Le due epigrafi:

Ianua constructa est christicolorum suffragiis prioratum gerente Francisco Imbino et Michino Papadia Pompeio Stasi oeconomi coeteris 9 Piis confratribus e Frater qui adiuvatur a fratre quasi civitas et uidicia quasi vectes confraternitatum 1579, incise sull’architrave dell’unico portale di accesso alla chiesa – acquisite ormai alla memoria storica della città – rivelano che questo tempietto della SS. Trinità o della Misericordia fu la sede del pio sodalizio laicale dei Battenti che, con le altre confraternite del tempo – Annunziata e S. Giovanni – arruolò la popolazione del Casale di S. Pietro in Galatina in spiritualibus.

Entrambe le epigrafi però tacciono il nome dell’artefice di questa piccola costruzione occupante il lato sinistro della viuzza Marcantonio Zimara che sbocca sull’attuale piazzetta Carlo Galluccio alla quale, la modesta struttura ecclesiale offre la glabra pagina muraria della fiancata destra, frammentata, nella monotona vista dell’intonaco, dall’unica sobria monofora.

L’asimmetrica architettura rimane caratterizzata, sul lato nord, da alcuni ambienti, a pian terreno, adibiti a sagrestia, voltati nella copertura, semplici e severi nell’essenzialità delle forme celate dallo stretto vicoletto, dove restano rinserrati ed occultati alla vista del comune passante. La facciata monofastigiata, prospiciente la strada, offre al visitatore, nella condizionata veduta laterale, membrature architettoniche sapientemente lavorate nella fulva e lionata pietra leccese. Sulla piatta e limpida cortina muraria risaltano le semplici e squadrate finestre gemelle dell’ordine superiore e le centinate nicchie di quello inferiore simmetriche, peraltro, nell’armoniosa epidermide compatta, rispetto al portale della chiesa sul cui asse, l’architrave della finestra centrale ostenta l’iscrizione: «Lodato sempre sia il nome di Gesu’ (sic) e di Maria (1601)» (?).

La concisa essenzialità ornamentale definisce lo pseudo protiro, qualificandolo, nei delfini – simbolo  di Terra d’Otranto – scolpiti sugli alti plinti. Su questi,  le due pseudocolonne corinzie si ergono con il fusto decorato, in basso, con motivi floreali al di là dei quali le scanalature confluiscono nelle foglie di acanto dei capitelli ornati da mascheroni antropomorfi, costituenti la base di dadi di tipologia brunelleschiana. Al centro dell’alta trabeazione, tra foglie intrecciate, Giona profeta, simbolo della morte e resurrezione di Cristo, domina lo spazio scultoreo che rimane chiuso, da una centina – ponderatamente ornata da teste di cherubini – entro la quale la figura centrale della Vergine della Misericordia accoglie benevolmente, nel suo manto aperto, dai lembi ricurvi  sostenuti da due putti, i confratelli sodali inginocchiati dinanzi a Lei.

Risalire al nome dell’artefice di questa apollinea pannellatura plastica è difficile; tuttavia, in difetto di documentazione probante e, confortati nell’analisi comparativa  dalla presenza di altra analoghe ornamentazioni come quelle del Duomo in Minervino (1573), del portale di S. Giovanni Elemosiniere a Morciano, di S. Domenico di Nardò, del chiostro del convento dei domenicani a Muro Leccese (1583), del portale di S. Chiara a Copertino (1585),  della Immacolata in Nardò (1580 o 1590), dell’Incoronata in Nardò (1599), del campanile di Copertino (1588-1603), della chiesa della Rosa in Nardò, della parrocchiale di Leverano (1603), di S. Angelo in Tricase, di S. Caterina Novella (oggi S. Biagio) in Galatina, possiamo avanzare l’ipotesi  di vedere riflesso, in questo artifizio plastico, la maniera neretina di Giovan Maria Tarantino, operoso tra il 1576 ed il 1624.

Galatina, chiesa dei Battenti, particolare (ph O. Ferriero)

Nella lunga elencazione delle opere da lui realizzate, probabilmente, può annoverarsi anche la facciata della chiesa galatinese che, a nostro avviso, potrebbe essere stata realizzata dopo la chiesa di S. Giovanni Elemosiniere a Morciano e prima delle chiese dell’Immacolata e di S. Domenico a Nardò.

La trentennale attività svolta dal Tarantino nel basso Salento per la committenza religiosa, pubblica e privata è fondamentale al fine di comprendere il suo modus operandi che, peraltro, risulterebbe vicino a quello dell’architetto leccese Gabriele Riccardi.

Il ritmo plastico-geometrico delle strutture progettate da questi protagonisti dell’arte salentina  locale costituisce il comune denominatore riscontrabile nelle absidi di alcuni edifici religiosi e rimane un gioco architettonico di superfici curve e rette qualificante le diverse soluzioni progettuali riscontrate in non poche chiese a firma dell’uno o dell’altro architetto in discorso.

La fierezza del prospetto prosegue, senza scarti, all’interno dove, la grande aula, consta di due spazi: uno, riservato ai fedeli e l’altro, destinato al clero. Una ringhiera in ghisa segna il limite tra le due zone, sottolineate, peraltro, dai differenti livelli del piano pavimentale. Lo spazio, dove i fedeli si raccolgono in preghiera, rimane caratterizzato, sulla parete sinistra, dall’ambone, in asse con una delle due finestre che illuminano il vano trapezoidale trasformato poi in rettangolare, per la costruzione della cantoria, in corrispondenza della controffacciata dove, peraltro, rimane allogato l’organo. Le nude pareti segnate, nella parte alta, a circa 240 cm dal pavimento, da una cornice di stucco, che corre  lungo tutto il perimetro della chiesa fino al presbiterio, risultano impreziosite da tele incorniciate entro modanature dalle sinuose forme protobarocche. La zona absidale, semi esagonale, rimaneggiata nel XVII secolo – come documentano le Sante Visite – rimane definita da un grandioso arco a tutto sesto decorato con motivi floreali, con angeli dorati, razionalmente disposti e qualificata dall’epigrafe: Pura pudica pia miseris miserere Maria.

Galatina, particolare della chiesa dei Battenti (ph O. Ferriero)

Anche in questa chiesa galatinese è evidente la lezione riccardesca che il Tarantino probabilmente ricevette dall’anziano architetto leccese durante la messa in opera del Duomo di Minervino, nel 1573. D’altronde, il repertorio dell’architetto neretino fu il risultato di una ricerca continua nell’humus della ricca e peculiare tradizione artistica salentina. Al centro della zona absidale, al di sopra dell’altare maggiore, un tempietto, in stile classico, destinato a contenere la statua lignea della Vergine in preghiera, rimane definito da più piani aggettanti e da due colonnine corinzie in asse con le quali, al secondo piano, due lesene lignee dorate, dello stesso ordine e con motivi floreali, inquadrano una tela, in asse con la sottostante statua della Vergine della Misericordia.

Altri due altari, antistanti la zona presbiteriale, completano questo piccolo spazio religioso: a sinistra, quello della SS. Trinità con la relativa tela, d’impostazione masaccesca, presenta in basso, ad ulteriore conferma del significato iconologico che nell’insieme comunica, un triangolo equilatero alludente a Dio, Uno e Trino, ed alla perfezione assoluta.

Questo altare, donato dai Confratres D. aem ae Miser. Un iubileum 1633, officiato dagli affiliati all’omonimo pio sodalizio laicale, fu restaurato sotto il priorato di Didaco Tanza. A destra la tela, che correda la mensa dedicata al SS. Crocifisso, rappresenta Maria e S. Giovanni, in piedi; ai  lati della croce, in basso, i simboli della passione di Gesù; in alto, angeli che completano la struttura compositiva dell’opera le cui linee – forza, verticali, accompagnano l’occhio del fruitore verso l’alto, inducendolo ad estraniarsi momentaneamente dalla realtà ed a proiettarsi lentamente in una dimensione soprannaturale. In questo sacro vano le quattro grandi tele della Natività, Adorazione dei Magi, Purificazione di Maria con la presentazione di Gesù al tempio, Disputa tra i dottori e quelle relative alla vita mariana Presentazione di Maria, Lo sposalizio della Vergine, Presentazione di Gesù, Assunzione in cielo, Annunciazione, Immacolata, che arricchiscono le pareti laterali, invitano il fedele al raccoglimento e alla preghiera.

La trascendenza dalla realtà si concretizza quando l’occhio del fruitore si ferma a contemplare il dipinto del contro soffitto che, in un grande ovale, presenta La Vergine in gloria e Santi, virtuosismo pittorico del famoso decoratore latianese, Agesilao Flora (1863-1952) realizzato nel 1897. Nello spazio aperto del cielo le numerose figure di serafini si muovono intorno alla Vergine seduta su un ammasso di nuvole mentre un angelo incensa il singolare evento. L’ardito scorcio prospettico della balaustra a giorno, dove Santi inneggiano lodi alla Vergine, contribuisce al prolungamento dello spazio fisico. Le architetture ed i corpi si rarefanno progressivamente assumendo via via una consistenza materica non dissimile da quella delle nuvole. La luce assoluta e radiante determina un effetto suggestivo che sollecita l’ammirazione del fedele  verso la volontà divina che compie il miracolo.

Nella trepida attesa della riapertura ufficiale alla collettività forsan et haec meminisse juvabit poiché la chiesa dei Battenti rimane, per la città di Galatina, una delle opere più interessanti tra quelle protobarocche presenti sul territorio salentino fondamentale per ricostruire la trama della sua storia nella quale i cittadini, a tutt’oggi, si riconoscono e si identificano.

 

pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°5.

Girolamo Comi: Ecco il mio tronco

di Maria Grazia Presicce

Immagine del poeta tratta da

http://www.comitricase.it/comi/images/foto%20comi/comi.gif

Nostalgia. Pirografia di Silvana Bissoli.

 

Interpretare, commentare i versi di un poeta non è semplice come di primo acchito si può pensare, anche perchè delle semplici parole possono racchiudere l’universo, un mondo, secondo il mio punto di vista, difficile da penetrare nei suoi anfratti più oscuri, nelle sue sfumature più ampie e aerografate che vanno oltre il pensiero e l’emozione di chi scrive. Chiosare una poesia? Sembra facile. Ma, come si può? Che cosa conosce dell’autore, chi si appresta a spiegare una sua poesia? Chi ha conosciuto o conosce il suo universo interiore, la profondità del suo pensiero e quello che il suo animo ha compreso se, tanto spesso, nemmeno da solo ognuno di noi riesce a chiarirsi e penetrare le sue sensazioni più recluse? E poi versi, rime, poesia che cosa sono per ognuno di noi, come vengono intesi da ognuno ?

In questo momento, pare che questa società sia stata colta da una sorta di frenesia del poetare, ma per il vate, il cantore che sa, magistralmente, verseggiare e giocare con frasi e parole, la poesia cos’è? Che sia solo un modo per rimanere sulla cresta dell’onda anche quando ormai non c’è più? UHHMM!! Troppo scontato!

Immagino che ad ispirare il poeta, siano le varie situazioni che possono a tratti attraversare e fondersi con la vita: momenti di gioia, dolore, momenti che il cuore non sa e non riesce a trattenere, quei momenti intimi che non sai a chi confidare, quegli attimi in cui senti il cuore scoppiare …ed allora?…allora ecco sovvenire un amico fidato, un confidente: il foglio bianco! Un semplice foglio candido e puro come il nostro cuore nel giorno della prima comunione.

E’ quel foglio bianco che improvvisamente attira come calamita ed è pronto a raccogliere emozioni e sensazioni che potrai decidere di conservare per rileggerle, potrai decidere di accartocciare e buttare nel cestino o in mezzo ad un campo cosicché la pioggia, il sole il vento la rugiada la luna le stelle lo possano leggere o giocarci fino a farlo dileguare e divenire parte della natura e tornare nel suo ciclo vitale. Foglio amico, servitore fidato, che piange ed esulta con noi, foglio confessore che assolve e dissolve le nostre ansie, le nostre paure, le nostre angosce… che addolcisce le nostre lagrime e come balsamo allevia.

Se poi, quel foglio, deciderai di tenerlo potrà divenire testimonianza e testimone e allora quanta importanza potrebbe assumere quel foglio bianco! Quei ghirigori che hanno impiastricciato il candido lenzuolo, d’un tratto possono assurgere ai più alti allori e divenire testimoni, spettatori e osservatori assoluti di sensazioni che a nessun amico sarebbero mai stati svelati.

E il poeta continua a poetare, arabesca ed inghirlanda il suo bianco foglio di frasi enigmatiche, sfuggenti; struggenti afflati che parlano a lui e solo a lui si rivelano, ma si celano agli altri e giocano a nascondino, si camuffano, indossano la maschera e a tratti non amano mostrarsi.

Sono, i versi, parole che esprimono il pensiero di chi le ha scritte, ma vogliono rimanere, comunque misteriose, e pur nella loro semplicità, si proteggono divenendo inaccessibili agli altri…ed allora?

Noi sopravissuti leggendo, proveremo ad interpretarle, ci sforzeremo di capirle, cercheremo di camminare sul sentiero del poeta e penetrare nell’intimo delle parole, per poter scrutare nel suo animo, compenetrandosi nel suo io per far nostra l’essenza dei suoi versi ma… mai potremo riuscirci del tutto perché, l’impenetrabile IO, resterà velato, protetto dai teoremi arabescati dell’autore e così sarà l’io del commentatore a venir fuori, la sua interpretazione, l’esegesi di chi, in quel momento legge. L’essenza del poeta resterà sul suo “sentiero”, la semantica di ogni sua parola rimarrà celata e sarà l’essenza del chiosatore, il senso che egli avrà voluto dare alle parole del poeta, ad uscire allo scoperto e questo perché chi legge o interpreta non potrà sapere a che ora, in quale circostanza, su quale prato, sotto quale cielo, vicino a quale mare, in quale camera, su quale talamo, in quale luminosità il poeta ha voluto imprimere quei segni, quelle rime sul foglio; rime che attirano ora l’attenzione di tanti e a cui tanti vorrebbero dare un significato, un senso.

Ma perché tutta quest’attenzione? A che pro? Solo per aver percepito un’emozione nella lettura di un verso del poeta, immaginiamo di averne captato la realtà, di averne carpito l’umore, l’afflato e l’amore delle sue parole scritte sul sentiero di quel foglio bianco.

Non vi sembra, cari chiosatori, di peccare di presunzione? Il poeta è stato, quel poeta non è più tra noi. Sono solo rimaste le sue parole sul foglio bianco a testimoniare il suo passaggio, a condurci sui sentieri del suo vivere. Ma, il foglio e le parole non sono il poeta, non sono Francesco, non sono Ludovico, non sono Ugo, non sono, nel nostro caso, Girolamo; sono, fanno parte di lui, ma non sono l’uomo poeta, sono solo arabeschi del suo pensiero, percezioni intime del suo essere, ma anche di più, tanto, molto di più.

Quel tanto o poco che va oltre il nostro intendere, però, non lo conosciamo e non possiamo più verificarlo, né potrà conoscerlo colui che s’immagina essere stato suo amico e confidente; i sentimenti, come i versi di un “qualunque” poeta, restano suoi anche se impressi sulla carta. Dobbiamo, però, ritenerci fortunati perché attraverso il suo poetare lo percepiamo, cogliamo la sua presenza, sappiamo che c’è stato, sappiamo delle sue sensazioni e di come le ha provate sulla pelle e riportate sulla pagina, mentre il cuore dettava e la mano scriveva ma, pur avendo tanti riferimenti di lui, quel foglio ha conservato solo le sue emozioni personali epidermiche, trepidazioni di cui nulla si sa, sicuramente diverse da chi, dopo, deciderà di interpretare il suo scritto.

Il poeta scriveva ed erano, quegli, attimi intimi inenarrabili, momenti sensazionali, magici…chissà forse era un’alba…forse un tramonto, durante un temporale …. una notte insonne davanti ad una tazza di caffé o ad un bicchiere di vino… Chissà!… forse, sarà uscito sul balcone o sceso in giardino col bicchiere in mano e, spiando tra le chiome degli alberi la luce della luna che si stemperava nel creato, avrà avvertito un palpito improvviso, un’emozione forte ed inattesa che non poteva trattenere, che lo spronava ad imprimere parole e tenerezze sul bianco foglio, affinché non sfuggissero e restassero lì, prigioniere nei righi, avviluppate nel suo intimo.

Era il poeta, in quel frangente, intriso di così prepotenti emozioni che sicuramente nemmeno la bianca pagina bastava a contenere, né poteva avvertirle e riportarle integre; le parole mancavano per esprimere l’intensità di quell’attimo, ed il bianco sentiero non riusciva nemmeno a trattenerle e una parte rimaneva indietro, nel profondo del cuore come annichilita e si nascondeva. Accadeva allora che quella seminata rappresentasse solo la millesima parte di quell’emozione che dentro il cuore esplodeva.

Il poeta lo sa, Girolamo sa che è vero, che a volte le parole non bastano per esprimere un’emozione e un foglio bianco, grande anche quanto un lenzuolo, non basta a racchiuderla. Ci vorrebbe un foglio grande quanto il cielo, quanto l’intero creato….ma non si può avere…il cielo resta cielo…il creato resta creato di fronte al quale siamo nullità assolute, così come l’emozione che dentro ti scuote, appartiene a te e solo a te e nessuno potrà mai portartele via, né alcuno mai potrà provare la “tua” emozione che resterà perciò unica e nessuna parola potrà mai includerla tutta, proprio come l’emozione del poeta.

L’emozione la puoi affidare al vento, alla pioggia, al sole, alla luna, al cielo e sono loro che potrebbero, forse, restituirtela un’altra volta integra, quando il poeta vorrà di nuovo cogliere e assaporare quel momento riscoprirlo, riappropriarsene e custodirlo. Anche allora, comunque, quell’emozione sarà differente anche per lui, non potrà mai ritrovare la stessa, Girolamo, n’è consapevole e sa anche che, pur imprimendola ancora una volta sul candito foglio, l’emozione avrà altre vibrazioni, sarà una sensazione diversa anche se sempre unica ed incomparabile.

E quindi, se anche il poeta è cosciente di questo, come può un “chicchessia” interpretare e commentare le sue emozioni? Illusioni…pura utopia…..ognuno leggerà la lirica del poeta e, verso dopo verso, immaginerà, s’illuderà di comprenderla fino in fondo e carpirne l’intimo umore, ognuno cercherà di imporre la propria definizione, il proprio senso, ma… e il senso del poeta? La percezione di Girolamo qual era?

Ecco, leggiamo alcuni versi di una sua poesia:

                           Ecco il mio Tronco: steli, frutti e carne

                           Ed echi sordi di succhi e di cieli

                           Antichità di giovani risvegli

                           Nel peso universale del mio sangue”

Scrive, il poeta Comi, Tronco con l’iniziale maiuscola; perché?

Si riferisce, forse, al suo “tronco” di nobile discendenza che egli, in qualche modo, ha dissacrato in gioventù col suo comportamento?

Potrebbe, anche, riferirsi al tronco maestoso di un albero di ulivo, di cui sono piene le nostre campagne salentine. E, perché no?…potrebbe anche, la parola, racchiudere entrambi i significati; infatti, l’immaginario tronco possiede  steli, frutti e carne.

L’accostamento dell’ulivo con rami (steli) e olive (frutti) potrebbe starci a meraviglia poi, però, aggiunge carne che pure con l’albero ci sta bene; potrebbe, infatti, fare riferimento agli uccelli che vi nidificano, anch’essi sono di carne come l’uomo, come Girolamo.

Il riferimento, però, può essere al suo corpo, con le braccia (steli)  e i pensieri racchiusi nella sua mente (frutti); riflessioni che come echi si perdono nell’infinità del cielo, così come il canto degli uccelli sugli alberi si spande nell’intero universo; e, come il vetusto albero dell’ulivo in primavera si risveglia e rinnova i suoi germogli, così il poeta avverte nel suo intimo il risveglio di nuove sensazioni gravate dal rimpianto  (giovani risvegli), rimpianto che si porta dentro e che giorno dopo giorno, forse, diviene sempre più ingombrante e pesante  (nel peso universale del mio sangue). O forse riferendosi ai frutti pensa ai suoi affetti e, in particolare al suo frutto, sua figlia?

Ma, era poi davvero questo che il poeta intendeva con le sue parole?

La certezza non l’avremo mai. Può darsi che in quel momento, Girolamo, fosse un po’ triste, forse pensava al suo passato, forse pensava ai suoi genitori, forse pensava a sua figlia, forse… forse… forse… forse immaginava che la sua vita avrebbe potuto avere un altro corso… chissà!

Dov’era egli quando scriveva questi versi? Davanti ad uno specchio? Steso sul letto a fare una pennichella e d’un tratto prendendo coscienza del suo corpo e del tempo che trascorreva aveva voluto fare questo paragone? Forse… era davvero un intimo momento di tristezza, ma sarà stato solo un istante se subito dopo si riscuote e continua:

                              Ecco il mio Tronco che grezzo detiene

                              Attributi d’essenze e di vigore

                              Sia che s’addorma o canti di fulgore

                              Per tutti i rami ed in tutte le vene.

Ritorna l’immagine del tronco, questa volta grezzo, e rimane sempre questa sorta di fratellanza con la ruvidità di quello dell’ulivo e, come l’ulivo con le sue chiome maestose si impone in tutto il suo vigore non solo nel periodo vegetativo, così egli ripensa al suo sacrificio nel formarsi e rimira l’opera che è riuscito a creare e prende coscienza di sé, del suo corpo e sente di possedere oltre a tanta vitalità anche un’integerrima morale che adorna e fortifica il suo io, irradiandosi per tutto il corpo, penetrando fin nelle vene, così come la linfa dell’albero benefica e vivificante, risalendo dalle radici, s’irradia e si sparge nei rami anche durante la stagione invernale, quando l’albero dorme.

E allora? Cos’è questa sua poesia? E’, forse, un inno alla vita, alla natura che tanto amava, un inno al suo io, un inno al suo corpo, un inno alla sua intelligenza? O, forse, è un inno all’ulivo simbolo del suo prediletto Salento?

Chi lo sa? Chi, mai, potrà scoprirlo veramente?

Occasione unica per il castello di Nardò!

di Marcello Gaballo

Nella giornata di ieri una notizia tra le migliaia di facebook richiamava subito l’attenzione dei neritini. L’amico Massimo Vaglio aveva colto un’occasione irripetibile per la città di Nardò e ne dava subito notizia in questi termini: “L’abitazione di via Roma adiacente al castello è stata posta in vendita, per il comune sarebbe un’ottima occasione per acquistarla e demolirla liberando così il torrione a mandorla, una pregevole rarità architettonica. Con una spesa modesta, certamente recuperabile con qualche economia, si potrebbe fare un piccolo passo verso la riqualificazione del nostro centro storico!!!” (https://www.facebook.com/home.php#!/permalink.php?story_fbid=2844981128233&id=1370527043).

l’abitazione postuma da acquisire e demolire

E non è passata inosservata la giusta osservazione, perché alcuni hanno subito sollecitato di far leva sugli amministratori ad intervenire su un’occasione così ghiotta, che finalmente potrà ridare al castello la facies originaria, come si conviene ad una importante opera difensiva della fine del XV secolo.

Il castello aragonese di Nardò, sul suo lato meridionale, fu deturpato dal bubbone rappresentato da quell’abitazione posticcia, malamente addossata alla cortina muraria, che sembra sia stata lì realizzata agli inizi del secolo scorso, dopo l’acquisto del castello da parte dei baroni Personè.

Qualcuno ritiene assai più recente l’orribile appendice, forse degli anni 50. Speriamo esca fuori qualche foto d’epoca per chiarire l’arcano.

Di fronte a questa possibilità, che ridarebbe lustro e decoro alla nobile costruzione, si è subito dichiarato prontamente disponibile l’Assessore del Comune Giuseppe Fracella, interessandosi a far leva sui colleghi ed amministratori perché il progetto si concretizzi.

Plaudo a questa disponibilità e mi auguro di cuore, con tutti i miei concittadini, che si raggiunga l’obiettivo di ammirare nella sua integrità l’importante ed emblematico monumento neritino.

Compare, mi vendi una scarpa?

Piroscafo Saturnia

di Rocco Boccadamo

Stamani, nell’ingranaggio di un moto misterioso e inconsapevole, fra le mani dello scrivente si è trovato a girare ripetutamente un documento antico e speciale, custodito con gelosa cura in mezzo alle “carte che contano”.

R. ESERCITO ITALIANO

Foglio matricolare e caratteristico

B. Silvio Celestino di Cosimo

e di B. Consiglia nato il 3 – 11 – 1909 a Diso

statura m. 1,58, torace m. 0,83, capelli castani, forma ondulata

colorito roseo, occhi cerulei, naso regolare

professione o mestiere contadino, grado d’istruzione 3^ elementare

chiamato alle armi il 1° ottobre 1930

richiamato il 10 giugno 1935 e arruolato nella M.V.S.N. Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale, 252° battaglione CC.NN., per esigenze Africa Orientale

imbarcatosi a Napoli per l’A.O. il 12 settembre 1935

sbarcato a Massaua il 28 settembre 1935

reimbarcato a Massaua per rimpatrio il 4 settembre 1936

tale, sbarcato a Napoli il 13 novembre 1936

ecc. ecc.          

ricollocato in congedo illimitato il 10/4/1944

collocato in congedo assoluto, legge 31.7.1954, il 2 gennaio 1970

Scorrendo gli eventi curriculari, l’attenzione si è appuntata sul passaggio “Imbarcatosi a Napoli per l’A.O. il 12 settembre 1935”, e ciò, per via di un piccolo, quanto incancellabile particolare di “cronaca” collegato a quella missione.

Il partente per aree di guerra lontane, fu accompagnato in treno, sino a Napoli, dal padre.

Completato il carico delle giovani leve con stellette, il piroscafo “Saturnia” alzò le ancore facendo rotta verso il Canale di Suez e il Mar Rosso, mentre, qualche ora dopo, il genitore del soldato ritornò in stazione, occupando posto sul treno per Lecce, carrozza di 3^ classe con sedili in legno, denominata “cento porte” in quanto, in mezzo a ciascuna coppia di panche, si apriva uno sportello per la salita e la discesa dei viaggiatori.

Il buon uomo, di mezza età e già stanco per la notte precedente passata in viaggio, in quattro e quattr’otto si distese alla men peggio, magari accovacciandosi, se non completamente sdraiandosi, sul sedile, soprattutto dopo essersi tolte le scarpe alte di cuoio dai lunghi lacci che gli tenevano asserragliati e compressi gli arti.

Ci volle poco e Cosimo prese sonno, così pesante e incontenibile, nonostante lo scomodo giaciglio, da protrarsi sino al mattino successivo, col convoglio già sferragliante in piena Puglia. Frattanto, durante le numerose fermate dell’accelerato nelle stazioni intermedie, c’era ovviamente stato un nutrito  via vai di utenti.

Sollevandosi e provando a ricomporsi, Cosimo, come prima azione, si mosse a rimettersi le scarpe, ma, con somma sorpresa, sotto il sedile, trovò una calzatura soltanto. Hai voglia a cercare di qua e di là, dell’altra scarpa

Le tradizioni paoline dal meridione al mondo: una recensione su un lavoro di Brizio Montinaro

Recensione su San Paolo dei serpenti (Sellerio, Palermo 1996) pubblicata su The Times del 30 luglio 1996

by Norbert Ellul Vincenti

Un serparo

This is not a book about St Paul as such about the traditions connected with him and Malta. And not about all the traditions, but around those having to do with serpents and folklore.
Who is Montinaro? No other than an actor who has worked with Lattuada, Comencini and Zeffirelli. Of no mean standing, you could say, as an actor.
He is a student of cultural anthropology and is interested in particular in the dialectics of religious phenomena.
This is a book that is respectful of the depositum and the texts and documents. The author has carefully read all that there is to be read and carefully noted it.
He acknowledges help from Can. John Azzopardi of the Cathedral Museum, the Collegiate Chapter, the Commission for the Museum of the Cathedral, Mdina, Mr Patrick Galea for some illustrations, and Alfonso M. Di Nola, “anthropologist and historian of religions”.
The same Alfonso M. Di Nola has a longish preface, in which he pays tribute to the work of his student.
The book not only makes claim to scientific procedure, but is actually so. This is a careful piece of work, well worth reading and studying. As Di Nola himself shows, the author is not given to interpretative games or wild exhibitionism one so often meets hiding under scientific names. He writes, of course, from a scientific and lay point of view.
The first chapter is dedicated to Saint Paul of the serpents and headed with the words of the Acts of the Apostles: Et cun evasissemus tunc cognovimus quia Melita insula vocabatur (and as we escaped we knew the island was called

E io ora sai che fo’?

di Raffaella Verdesca

Fernando Botero, Gente del circo, 2007, olio su tela, 167×182 cm

Mi guardo a lungo le scarpe e capisco che è tempo di muoversi.

Non ho bisogno di guardare la testa, invece, per sapere che non si può mai smettere di pensare, così esco in strada e mi mimetizzo tra la gente.

Visi dolenti fanno la fila all’ACI sperando di pagare il bollo della propria auto a rate, mentre facce soddisfatte escono dai supermercati, felici di non portare più buste pesanti.

“Cosa hai comprato di buono oggi, Tizia?”

“Bucce di patate e scatole vuote di biscotti, Caia! Umpf, scusami, ma che maleducata che sono: ne vuoi assaggiare un po’?”

“Mi vuoi morta, cara? Sono a dieta, la ‘Dieta Monti’! E poi chi lo sente mio marito se vede che a pranzo non assaggio neanche un mestolo di brodo d’aria!”

Le risate complici delle due amiche si perdono nel gelo, mentre le loro impronte sulla neve sembrano orme leggere di gatto.

Nel parcheggio, la chiave gira a vuoto e l’automobile, un po’ per l’atmosfera artica, un po’ per i postumi di una benzina tagliata con l’acqua, sbuffa: “Coff…, coff! Ohè, belle signore, non sono mica un cammello! Anzi, vi supplico, abbandonatemi nel deserto chè è più facile succhiare un po’ di petrolio lì piuttosto che queste cinque euro di miscela acquosa che mi avete messo!”

“Anche tu col pallino della protesta?” sbotta Caia esasperata “E poi, un po’ di buon cuore, suvvia! O paghiamo le tasse o riempiamo i serbatoi delle auto! In quanto alla qualità della benzina, lo sai che c’è stato lo sciopero dei camionisti, la benzina si è quindi esaurita e da un giorno all’altro tutte le stazioni di rifornimento hanno dovuto fronteggiare richieste folli di pieni di carburante. Come dovevano fare? E che diamine, almeno un po’ di comprensione!”

“Mi hanno ingozzata d’acqua, neanche fossi stata a Guantanamo!” borbotta l’autovettura ansimante.

“Mica erano Gesù Cristo a Canaan con la trasformazione dell’acqua in vino, no? Di benzina ce n’era poca, di acqua un po’ di più e allooora, per accontentare tutti…!”

Con un rutto assordante e rantoloso, la povera utilitaria decide di far partire il motore temendo un nuovo pieno d’acqua, oltre che la vendetta trasversale del fantasma della guerra di Etiopia.

“T’accise…t’accise,…t’accise!” strombetta l’auto scomparendo dietro la curva. E sembra tanto un’imprecazione educata.

Mi dileguo allora dietro le mura umide delle case e mi sfrego le mani pensando che tra qualche tempo, nel nostro Bel Paese, tutto si risolverà per il meglio, tanto l’inventiva e la sopportazione non mancano. Aggiungiamo, anzi, anche un bella dose di spirito di adattamento.

“Coooome?” schiamazza stridulo il vecchio Mimino De Iaco proprio al mio passaggio.

“Sì, sì, hanno dato il via libera alle trivellazioni dei fondali della Puglia, Mimino mio!” gli comunica l’amico Vituccio trionfante “Così ‘ssignuria avrai finalmente benzina agricola per il trattore e nafta a volontà per il camioncino. Tutto nel mare, a portata di mano. Sono finiti i tempi in cui eravamo costretti ad andare in centro per fare la fila alla Esso! Da oggi in poi ti svegli la mattina, vai su una spiaggia con un bidoncino, un imbuto ed è fatta!”

“E per i riscaldamenti di casa?” obietta saggiamente il vecchietto senza tralasciare nessun dettaglio, come la vita contadina insegna.

“La stessa cosa, amico mio! Però stavolta devi scendere davanti al mare con un aspirapolvere: premi il tasto di accensione, quello rosso a destra, e lo tieni in funzione per una mezz’oretta a pelo d’acqua, in modo da risucchiare i gas dispersi dopo le estrazioni nel fondale, tanto tu quattro stanze devi riscaldare! Dopo di che, svuoti la busta (usa quella grande, mi raccomando!) nel bombolone in giardino e vedi che i termosifoni ardono che è una bellezza!”

Mimino si fa il segno della croce e con un sorriso beato esclama: “Adesso sì che il governo ha pensato al popolo!” e il pover’uomo si sente così felice che potrebbe morire anche subito senza fregarsene se l’Inferno brucia, tanto farà le prove con il riscaldamento di casa!

Facendo attenzione a non farmi notare, mi allontano dalla scena decretando la fine, per questa giornata, del mio silenzioso sondaggio. Entro allora in un piccolo bar in piazza (niente in contrario se lo chiamiamo ‘Bar Centrale’?) e gongolante, pur stremata dalla stanchezza del mio girovagare, chiedo un’acqua tonica per rifocillarmi:

“Alla signora offro io!” si fa avanti un ometto panciuto e mette sul bancone due euro tintinnanti.

Il barista fa cenno di accettare l’offerta col capo e il simpatico sconosciuto mi si avvicina certo di aver comprato un po’ del mio tempo. Per carità! Tanto sembra che tutto sia gratis!

“Tornasse Stalin a fare un po’ d’ordine!” sospira fissando il suo bicchiere vuoto “Voi siete giovane e forse non vi ricordate degli ideali del comunismo! La terra al popolo!”

Gli sorrido per pura cortesia e per lo stesso motivo rispondo distratta dalle bollicine che friggono lo spicchio di limone galleggiante nella mia bevanda, un po’ chimica anche lei.

“Mi ricordo soprattutto dell’Armata Rossa che liberò le terre conquistate dalla Germania nazista, oltre che gli ebrei superstiti dei lager come Auswitz.” rispondo ben propensa a congelare per un po’ l’orgoglio patriottico dinanzi alla risposta del governo alla richiesta energetica del Paese. Una genialata, avrebbe detto un mio amico!

“Brava, signora, brava!” mi promuove l’uomo entusiasta e poi continua seguendo il corso dei suoi pensieri “E meno male che gli eserciti russi fecero un po’ d’ordine, un po’ di spazio! Come avrebbero fatto, se no, ad avere i treni piombati a disposizione per deportare gli italiani di Crimea nei campi di lavoro sovietici? Una mano lava l’altra, signò,” mi apostrofa severo “mica si possono mantenere tanti cristiani al mondo! E poi quegli italiani erano pure fascisti…!” e lo sconosciuto sputa a terra con disprezzo. Effetti indesiderati dell’indigestione da propaganda.

Conscia dell’atmosfera un po’ tesa, decido di battere le mani con allegria forzata: “Fantastico! Si devono essere stancati parecchio, però, i russi a interpretare i buoni e i cattivi quasi contemporaneamente! Prima liberano gli ebrei deportati nei lager e poi deportano a loro volta le minoranze etniche! A sentire la storia così come lei, esperto di comunismo, la racconta, questo fattaccio degli italiani sterminati in Russia (non dico Kazakistan per non mettere in imbarazzo il mio interlocutore) suona un po’ male, ma se in fondo un buon fine c’era, non riesco a non pensare che si trattasse di una prova per gli Stati di provenienza di quei poveracci!”

Il mio ospite cambia d’un tratto espressione, diventa ostile come se si trovasse di fronte un nemico, non afferra il senso del mio dire.

Pongo subito rimedio al fraintendimento usando tutta la mia benevolenza.

“Intendevo” sottolineo “che forse la Russia era solo curiosa di vedere cosa avrebbe fatto l’Italia per proteggere i suoi cittadini, tutto qui!”

Lo sconosciuto si concentra inebetito un paio di minuti e poi annuisce scoppiando in una fragorosa risata: “Proprio così! Brava la signora nostra! E cosa fece l’Italia, voi lo sapete?”

“Credo niente! Ma meglio così, aveva ben altro da fare allora l’Italia! Per non parlare di tutti i governi che si son susseguiti fino ad oggi per fare provare alla nazione il brivido dell’essere controcorrente: troppo benessere, giustizia e democrazia rammolliscono i popoli! Guardi noi che bei muscoli stiamo mettendo su grazie a questa crisi! Allora, se da qualche parte esistono campi di lavoro, lasciamo pure che la gente lavori!” e mi passa sul viso un’ombra strana, quasi d’invidia.

“Eh sì, ma poi in Crimea gli italiani deportati tornarono quando venne Kruscev!” m’informa l’ometto “Solo che i russi non gli restituirono né beni né terre!” ci tiene poi a spiegarmi con fare cattedratico.

“Ehi, ehi, andiamoci piano!” cerco d’ingraziarmi l’ospite “In fondo, se è come lei ha detto prima, la terra era del popolo, ma mica di quello italiano, no? Riflettiamoci un po’ su: perché l’Italia avrebbe dovuto battersi o dovrebbe farlo ora per far riconoscere a questi miseri lo status di deportati, i loro diritti e tutto il resto? E mica ci guadagnerebbe qualcosa! Forse l’Imu, l’Imposta Municipale Unica? No, quelli sono in Crimea e quindi, anche se riavessero indietro le loro prime case…! Le tasse sugli ordini professionali? Niente da fare neanche qui, stiamo parlando di gente ridotta in miseria! Uhmmm, ora che ci penso, il Fisco potrebbe beccarli in flagrante col redditometro: corsi di lingua(parlano il russo, no?), sport(si muoveranno per lo più a piedi, possiamo farlo passare sotto la voce ‘maratona’, giusto?), viaggi(come sono arrivati in Russia? E qua li voglio!)e non vorrei dirlo, ma vedrai che qualcuno cercherà di prendersi la pensione di un parente massacrato, tanto non ci sono né corpi, né loculi nei cimiteri, né certificati di morte!” mi sembra un bel resoconto, ma poi convengo che sia ben magra conquista per uno stato democratico come l’Italia.

Che farsene delle elemosine dei sopravvissuti di Crimea? E quale deputato italiano potrebbe pagarsi questo viaggio ora che si è tassato di 1.300 euro (tradotto:. ora che ha rimandato di questa cifra l’aumento futuro del proprio stipendio)? Ricordiamoci che i discreti tagli alla politica(così discreti da non farsi notare, come buona educazione impone) hanno farfugliato qualcosa che suggerisce che è meglio non farsi beccare a prendere aerei pagati dai cittadini, a meno che non si debba andare ai Caraibi a curarsi i reumatismi, e che prevede che le auto blu non si possano mantenere a vita e…il viaggio fino in Crimea è così lungo!

Valà, lasciamo perdere, tanto per qualche migliaio di euro in più e in meno non diventiamo né ricchi né poveri! Qui ce ne sono tanti italiani da controllare e iniziare alla nobile causa del ‘Sostieni il tuo Stato, adotta una tassa a distanza!’, figuriamoci se il governo va a perdersi in Crimea!

Fosse stata la Svizzera, però…!

Li dittèri ti l’acqua (I proverbi dell’acqua)

di Armando Polito

È l’elemento fondamentale della vita , perciò non fa meraviglia che acqua insieme con pane registri la più alta presenza nei nostri ditteri. L’ultimo corsivo non si riferisce, come si potrebbe credere, alla natura dialettale della voce ma piuttosto all’obsolescenza che ha colpito da tempo l’italianissimo ditterio, che vanta, fra l’altro, nobilissime origini. Esso fino al XIX secolo è stato usato come sinonimo di pulpito, cattedra (e per traslato insegnamento, sentenza, detto, modo di dire, proverbio), cosa comprensibilissima pensando che la voce è dal greco deiktèrion=luogo per mostrare o esporre, a sua volta da dèiknymi=mostrare; ma c’è esposizione ed esposizione, da quella astratta a quella concreta…, ragion per cui  la nostra voce quasi contemporaneamente assunse anche il significato traslato di bordello. Lo scivolone semantico, però, non coinvolse il nostro uso dialettale della voce, il cui significato restò legato esclusivamente a quello di partenza.

Per evitare ogni rischio mi accingo a gettare acqua sul fuoco precedente.

L’importanza che da sempre essa (l’acqua) ha avuto in agricoltura giustifica, il fatto che compaia nei suoi connotati metereologici in ben sette proverbi sul totale di undici che ho reperito:

Acqua ti sciùgnu pisciu ti tiàulu (Pioggia di giugno orina di diavolo).

Ale cchiù nn’acqua ti bbrile cca nnu carru cu ttotte li tire (Vale più una pioggia d’aprile che un carro con tutti i suoi animali da tiro).

Aria nnigghiàta, acqua priparàta (Aria annebbiata, pioggia imminente).

Cielu russu: o acqua, o ièntu o frùsciu (Cielo rosso: o pioggia, o vento, o scroscio improvviso).

Salve / La festa di San Biagio e “il pane dei Santi”

Come ogni anno, i festeggiamenti in onore di San Biagio promossi dal Comitato Feste della Parrocchia “San Nicola Magno” vengono celebrati a Salve il 3 febbraio nella cappella rurale e nella masseria di Santu Lasi. Dopo la Santa Messa nella cappella (ore 11.00), ci si potrà recare alla vicina masseria, che resterà aperta per l’intera giornata e sarà visitabile fino al tramonto.

In masseria, intorno alle ore 12.00, avrà luogo la consueta benedizione e distribuzione dei pani di San Biagio (quelli a base di anice prodotti a Salve, altri di forme varie – dal pastorale alle dita del santo in miniatura – provenienti da Ruvo, centro nel quale San Biagio è patrono) alla presenza del vescovo di Ugento.

Sarà anche possibile visitare una mostra dal titolo “Il pane dei Santi”,

Galatone. Il castello di Fulcignano e la triste leggenda del tesoro

di Massimo Negro

Bastano pochi passi lungo il sentiero sterrato, che il suono ritmato dai miei passi sul terriccio mi fa quasi subito dimenticare il rumore invadente dell’auto lasciata poco distante e l’anonimo asfalto. Un alto muro di recinzione con mattoni uniti da antica malta, muretti a secco dalle dimensioni e altezze ben oltre la mia, ripari abbandonati immersi in un verde della campagna che piacevolmente occupa sempre più la vista man mano che procedo lungo il sentiero che, in alcuni punti, pare intagliato nella roccia.

Le lievi sinuosità del sentiero e gli alti muretti a secco trattengono il mistero e solo nell’approssimarsi della meta iniziano ad apparire tra le fronde degli alberi le alte mura dell’antico Casale di Fulcignano. Si svelano lentamente, e chi ci arriva per la prima volta deve quasi attendere di essere dinanzi alla cancellata d’ingresso per capire appieno la maestosità dell’antico complesso fortificato.

Il tragitto lungo il sentiero è breve ma, se ben predisposti nell’animo e messa da parte la nostra ordinaria frenesia, è sufficiente per fungere quasi da macchina del tempo. Per iniziare lentamente a proiettarci in una dimensione temporale che non è la nostra, ma i cui echi agli orecchi attenti fa ancora sentire il suo richiamo.

Il Castello di Fulcignano, quello che rimane dell’antico Casale che occupava quella zona, non è la solita struttura fortificata a cui siamo abituati visitando i castelli di Otranto,  Copertino, Gallipoli, Acaya e Lecce. Non mi riferisco alle caratteristiche architetturali e strutturali di questi siti, comunque profondamente diverse, quanto al fatto che queste strutture, parte integrante del nucleo urbano storico di queste cittadine, sono ormai inglobate nel centro abitato. Circondati da strade, da case, spesso da esercizi commerciali. Non è così per Fulcignano che resta immerso, forse casualmente risparmiato dalla speculazione edilizia, nella campagna a ridosso della periferia di Galatone. Fortunatamente le case presenti nell’intorno non rompono questa atmosfera di magia che vi sto raccontando, grazie forse anche a questi sentieri sterrati e ai maestosi muretti a secco da ammirare, che stanno diventando sempre più una rarità nel nostro Salento.

Ed è la storia a rispondere alle nostre domande. Il sito dell’antico Casale di Fulcignano con il suo castello non è quello che poi sarebbe diventata l’attuale Galatone, con il suo centro storico e le bellissime chiese barocche erette a poca distanza.

Antonio De Ferrariis nel suo “Liber de Situ Japygiae” scritto nei primi del XVI secolo, riporta quanto segue:

“… Ricordo di aver sentito riferire da alcuni vecchi sacerdoti greci  … che i Galatonesi avessero avuto origine dai Tessali … Ora, per un gioco della fortuna, è tornata sotto il potere dei Tessali. Infatti Giovanni Castriota, duca di Ferrandina… è un macedone, originario di una località non distante da Calatana e Filace [Phylace], città della Tessaglia.

Galatone nei tempi antichi racchiudeva nel perimetro urbano sia l’altura che la vallata. L’acropoli era detta “sentinella”, e fu così chiamata dall’omonima città tessala, come ascoltai dire dagli anziani [il Galateo si riferisce al nome della località di Phylace]. I Latini, avendo cambiato come al solito  y in u, pronunziarono Fulaciano ossia Fulciliano. Questa era posta sul colle, nel piano invece Galatone. Da un’unica città sorsero due insediamenti distanti tra loro neppure cinquecento passi. Fulaciano conservò sempre la lingua greca, Galatone invece adottò la latina.

Sorti dei contrasti tra i due centri abitati dalla stessa gente, come frequentemente suole accadere tra vicini, si venne alle armi. Galatone sconfisse Fulaciano e la rase al suolo. Quasi tutti gli abitanti trasmigarono a Galatone; pochi, per l’oltraggio subito, trovarono rifugio nelle città vicine e smisero di servirsi delle consuetudini, delle fogge dei vestiti e della lingua greca, ma non dimenticarono la loro originaria etnia”.

Poco più avanti il Galateo torna a descrivere il sito:

“Galatone è ubicata alle pendici della collina, la sua acropoli, che abbiam detto chiamarsi Filace, è posta sul colle. Qui l’aria è salubre e tiepida, i venti giovevoli e dolci, i campi soleggiati: è un’eterna primavera con la terra coperta di fiori e profumata di erbe …”

Nella seconda metà dell’ottocento, Cosimo De Giorgi nel suo libro “La Provincia di Lecce. Bozzetti”, nel riprendere quanto scritto dal Galateo, fa un breve ma efficace descrizione del sito:

“Oggi non resta che il solo castello, e dista da Galatone circa ottocento metri in linea retta al S.E. dell’abitato. Nell’interno è di forma rettangolare; all’esterno gli spigoli volti al N.O. sono rinforzati da torrette quadre, mentre gli opposti che guardano la collina ne mancano affatto. Bella è la porta d’ingresso ed il vestibolo … L’arco è gotico, ed è decorato da un fregio delicato scolpito sulla pietra leccese e in parte cariato. Restano ancora poche stanze nell’interno e da una scala, che sembra quella descritta dall’Alighieri fra Lerici e Turbia, si monta sulle mura che hanno circa due metri di grossezza. Osservate che bel panorama!

… Il fossato che lo cingeva è stato colmato, e la carie, corrodendo le pareti esterne delle sue mura, lascia credere sia stato prodotto da proiettili nemici ciò che è lavoro di mamma natura.”

Riguardo le origini del castello, dell’antico casale e la loro storia, la documentazione a disposizione è molto scarna, né ad oggi sono mai state condotte ispezioni e ricerche archeologiche tali da avvalorare quanto ci racconta il Galateo nel suo libro. Ipotizzare un’origine greca del sito, ritengo che non ci porterebbe molto lontano dalla realtà, alla luce del fatto che molti casali sorsero intorno a preesistenti siti bizantini (nell’area è stata rinvenuta una moneta dell’imperatore Basilio I). Né d’altro canto, sono ad oggi note informazioni che possano connettere la storia di questo sito con la popolazione Messapica. Ma alle luce del precario quadro documentale e archeologico ad oggi disponibile, qualora dovessero essere avviate serie e strutturate indagini del sito, altre e importanti informazioni verrebbero sicuramente alla luce.

Le prime notizie documentate risalgono al XII secolo. Durante una visita pastorale tenutasi nel 1719, il  Vescovo di Nardò Antonio Sanfelice fece riportare l’esistenza di un’epigrafe scritta in greco e in latino che descrive Fulcignano come un centro di passaggio di carovane e pellegrini: “theodorus protopas famulus sanctae dei genitricis hospitium construxit anno 6657”, che corrispondente al 1149 del calendario cristiano.

Altre notizie, sempre dello stesso periodo, riportano i nomi di alcuni signori e possessori di Fulcignano. Nel 1192 un certo milite, Maurizio Falcone, e poi successivamente un Aymarus di Guarnierius Alemannus possessore di Zurfiniani.

E’ presumibile che il Casale di Fulcignano continuò la sua crescita dimensionale nei successivi due secoli, tra il XIII e il XIV secolo, sino a quella che il Galateo descrive come una sorta di guerra con la vicina Galatone, che portò alla distruzione del casale. Il Chronicon Neretinum fa riferimento a questa contesa, datandola nel 1335.

Nel 1412 gli abitanti del Casale non dovevano essere più di 170 e appena trent’anni dopo un focolario aragonese non ne conta più di una trentina.

Da quel nefasto evento, quel che rimaneva del Casale e il suo Castello, passarono di mano in mano a diverse nobili famiglie, tra i primi Giovanni Del Balzo Orsini che lo ricevette come donazione nel 1426 dalla Regina Giovanna II. La sconfitta di Fulcignano nel 1135 e alcune successive contese che interessarono alcune zone del Salento, tra cui presumibilmente anche questa, portarono al suo definitivo declino e al suo progressivo abbandono.

Avviciniamoci al castello percorrendo un breve sentiero che dall’attuale cancellata di ingresso del sito porta verso l’antico portale ‘ingresso. Dell’antico fossato rimane solo traccia in un lungo ed ampio avvallamento posto ad una decina di metri dal castello. Questo lascia supporre che l’eventuale ponte levatoio non fosse parte integrante del Castello, ma posto in una struttura prospiciente il prospetto d’ingresso.

Secondo Paul Arthur, professore di Archeologia Medievale presso l’Università del Salento, “la forma planimetrica, e i dettagli architettonici, suggeriscono che l’edificio non sia anteriore all’età sveva, quando una serie di fortificazioni in Italia, note specialmente attraverso i castelli in Sicilia, risentono di influssi architettonici orientali trasmessi dalle Crociate. La forma quasi quadrata, con quattro torri angolari (le due posteriori scomparse: una circolare, l’altra forse circolare in una prima fase e quadrata in una seconda), trova confronti nell’architettura castellare islamica, che sembra aver, a sua volta, mantenuto vivo le tradizioni tardo romane di architettura castrense.”

Per il professor Arthur, il Castello di Fulcignano rappresenta una delle testimonianze più singolari del Medioevo salentino, in particolare per la sua forma localmente inconsueta (da altri studiosi definita come “castello-recinto”), tanto da poterlo ritenere una delle fortificazioni medievali più antiche sopravvissute nella provincia.

Ponendosi immediatamente sotto le mura e guardando in alto, non si può non notare la maestosità del complesso. La forma della cinta muraria è quadrangolare con i lati che presentano una lunghezza variabile che va dai 75 metri (torri comprese) del lato d’ingresso, ai 49 metri del lato più corto. L’altezza delle mura è di circa 8 metri con uno spessore di circa 2,6 metri. Le due torri angolari rimaste ancora in piedi, hanno i lati che presentano misure variabili tra gli 8,40 e i7,55 metri.

Il portale d’ingresso è quello ottimamente descritto dal De Giorgi, anche se, rispetto alla struttura originaria,  sono evidenti dei successivi rimaneggiamenti come il camino ricavato nella muraglia all’esterno dell’entrata.

Il primo vano dopo l’ingresso è caratterizzato da una volta a crociera a sesto acuto con interessanti decorazioni, un sedile in muratura lungo il lato destro e un camino. L’accesso al giardino è stato modificato e, guardando dall’esterno è chiaramente visibile la forma originaria ad arco, poi successivamente tamponato in mattoni per ricavare l’attuale porta. Dal vano d’ingresso si accede, sulla destra a due vani con volta a botte, oggi abbondantemente deturpati da scritte in vernice o a penna.
Dal secondo vano, da una porticina sia accede ad un terzo locale privo di pavimentazione caratterizzato, da diversi elementi architettonici che meritano una breve descrizione.

Al centro del locale vi sono i resti di un antico ed ampio camino oggi ormai completamente distrutto. A sinistra del camino, da un’apertura con arco a sesto acuto, parte quel che resta di una scala circolare che conduceva su una delle torri di difesa. Oggi è solo percorribile in parte e bisogna stare attenti ai detriti e mattoni crollati. Mentre a destra parte una scala che conduce sul tetto dei locali in precedenza attraversati, da cui è possibile ammirare l’interno del complesso fortificato e il profilo della città di Galatone. La vista di oggi è indubbiamente ben diversa rispetto a quella che fece esclamare al De Giorgi: “Osservate che bel panorama!”.

Il panorama non  è lo stesso, ma in compenso ci si può arrischiare a compiere qualche passo sulla sommità delle mura.

Le caratteristiche del terzo vano visitato sono ben diverse rispetto ai primi due vani attraversati tanto da farmi sorgere qualche dubbio sui tempi di realizzazione di questi locali, che appaiono costruiti solo in tempi successivi.

Questo terzo vano ha un porticina che conduce all’esterno verso il giardino. Percorrendo un piccolo vialetto il cui piano di calpestio è di circa un metro più in basso rispetto al piano del giardino, si ritorna verso il corpo centrale del Castello. A sinistra si notano tracce di locali ormai crollati, con la sezione iniziale di un arco in pietra ancora ben visibile e altre decorazioni in pietra sulla facciata dell’unico locale non crollato presente su quel lato del complesso. Molto probabilmente, si tratta di locali già da tempo non più utilizzati, per lo meno a fini abitativi, perché non vi è un accesso diretto dal vano d’ingresso, né in quella sezione mi conduce il vialetto del giardino.

Continuando a seguire il perimetro interno delle mura, la torre posta a sinistra dell’ingresso nasconde al suo interno un incredibile sorpresa. Occorre fare un piccolo sforzo per arrampicarsi ed accedere dall’apertura ad arco a sesto acuto che conduce all’interno. Proseguendo mantenendosi sul lato sinistro, con molta attenzione, si può nuovamente arrivare, grazie ai resti di un antico passaggio in pietra arricchito con semplici decori, sulla sommità delle mura. A destra invece vi è un’ampia apertura che si affaccia all’interno della torre che si presenta cava all’interno.

Tornato nel giardino e proseguendo lungo il lato sinistro, è possibile notare una evidente particolarità nella struttura delle mura, non visibile dall’esterno. Sino all’altezza di circa cinque metri la muratura è a pietre informi ed opera incerta, salvo diventare ben rifinita nella restante parte superiore dove sono ben visibili numerose buche per quasi tutta la lunghezza della muratura. Non si tratta di ripari per piccioni, sono delle “buche pontaie”, ossia dei fori nella muratura usati solitamente per conficcare i pali delle impalcature necessarie per completare le costruzioni particolarmente alte, per poi essere successivamente sfilate a lavoro ultimato. Ma a volte venivano usate, in modo definitivo, come base per realizzare dei ballatoi esterni. Vi è anche l’ipotesi che potessero accogliere delle travi di copertura di alloggiamenti realizzati in legno. Solo studi approfonditi e verifiche anche alla base delle mura potranno svelare l’effettivo utilizzo che venne fatto di queste buche e cosa vi fosse intorno al perimetro interno delle mura. Vi è comunque da tener presente che lungo l’esterno delle mura vi sono lunghe file di buche pontaie, e queste sono sicuramente state utilizzate per elevare l’altezza delle mura.

Concludendo il cammino lungo il lato sinistro della cinta muraria, nella parte finale si aprono due ampie nicchie ad arco, sotto una delle quali passa un lungo canale di scolo che, partendo da una sorta di pozzo-cisterna porta verso il vicino tracciato ferroviario, e i resti della solita apertura che doveva condurre sulla torre ormai distrutta. L’utilizzo di queste nicchie è alquanto oscuro e potrebbero lasciar pensare ad un nucleo di strutture in muratura andato poi successivamente incluso nelle mura.

Il lato che corre parallelo al lato d’ingresso presenta indicativamente le stesse caratteristiche del tratto appena percorso. Nel giungere al luogo dove una volta doveva sorgere la quarta torre, si possono notare tra i rami dei melograni, i resti dell’antico ballatoio in muratura che doveva condurre sulle mura.

Ma prima di concludere, non si può non raccontare la leggenda del luogo. Come tradizione vuole, ogni castello che si rispetti ha il suo fantasma. E il nascere di queste credenze, di queste leggende, è molto spesso legato a storie, difficili da dimostrare nella loro veridicità, molto spesso drammatiche se non proprio cruente, come quella che vi andrò a raccontare. La leggenda racconta che durante un assedio che si stava protraendo da lungo tempo, senza che gli aggressori ne venissero a capo, costoro con un colpo di mano riuscirono a rapire il figlioletto del feudatario del tempo per fiaccarne le difese. Il fanciullo fece un orribile fine: venne ucciso e, una volta squartato, le sue membra vennero appese ad un carrubo affinché i poveri resti fossero visibili dall’interno del castello. Quando all’indomani la madre si trovò dinanzi allo scempio fatto al corpo del figlio, impazzi per il dolore e invocò il diavolo affinché custodisse il tesoro del castello. Chi voleva impadronirsi delle ricchezze avrebbe dovuto portare un bimbo in dono a Satana. Il tempo che il demonio avesse impiegato per divorare il bimbo, sarebbe stato il tempo concesso per trovare il tesoro.

Si racconta che un uomo tentò nell’impresa ma con l’inganno, camuffando da bambino un gatto. Purtroppo per lui il gatto si mise a miagolare e i suoi  versi mandarono a monte l’impresa. Il diavolo resosi conto del raggiro scatenò una tremenda tempesta facendo fuggire a gambe levate il malcapitato imprudente. Da allora nessuno provò più a cercare il tesoro del castello che rimase e rimane così protetto e guardato a vista dal diavolo. C’è poi chi racconta che in alcune notti è possibile udire ancora le grida e i lamenti della povera madre privata crudelmente della vita del suo figlioletto. Una storia molto triste, come lo  sono buona parte delle storie di fantasmi.

Lasciato l’interno del Castello, mi sono incamminato verso sinistra costeggiando i resti del fossato e poi le mura seguendole per l’intero perimetro, con lo sguardo costantemente rivolto verso l’alto per abbracciarle in tutta la loro altezza. Una meraviglia!

Il sito, che era già stato dichiarato monumento nazionale con D.M. 6/11/1967, è divenuto di proprietà comunale nel 2011 dopo una lunga e veemente protesta civile da parte di molti abitanti di Galatone e non solo. Ma molto resta ancora da fare.

Fulcignano è come un forziere di un tesoro ancora non aperto. Un tesoro vero, non come quello della leggenda, che appartiene non solo a Galatone ma a tutti quanti noi Salentini, e per questo è necessario uno sforzo collettivo, da parte degli Enti, Università, Associazioni e liberi cittadini, volto a tutelate non solo il Castello ma anche l’area circostante per consentire di mantenere questa sorta di unicità anche nel paesaggio che lo caratterizza.

Speriamo di non dover attendere a lungo!

di Massimo Negro

PS: vi segnalo questo video realizzato (il 31.12.2009) con foto del luogo durante il periodo in cui montava la protesta per chiedere al Comune di Galatone l’acquisto del luogo; video che venne segnalato anche in un articolo de “Il Quotidiano” dal corrispondente locale.

http://www.youtube.com/watch?v=HAlLrcnI5YY

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da: http://massimonegro.wordpress.com/2012/01/22/galatone-il-castello-di-fulcignano-e-la-triste-leggenda-del-tesoro/

Ricordi dall’Ariacorte: ‘a Valeria ‘e l’Ancilu

di Rocco Boccadamo

Si mantengono permanentemente verdi, taluni ricordi, anche lontani, succede anzi maggiormente proprio per i lontani, quelli relativi alla prima età, giacché, allora, la memoria recava molto spazio e, perciò, le vicende e i volti vi si sono allocati saldamente e permangono vivi e presenti anche a distanza.

In questi appunti, si rievoca un quartiere del paesello, il mio quartiere, l’Ariacorte, uno dei più antichi e caratteristici angoli del piccolo borgo.

Lì, sono nato e ho vissuto sino a 19 anni.

In fondo, l’Ariacorte, con le sue brevi stradine, i suoi incroci, i suoi angoli, è stata, per la mia persona, una seconda culla, una “naca” secondo il gergo paesano, che, prodigiosamente, abbassava le fiancate man mano che crescevo, aprendomi alla vista orizzonti viepiù ampi.

Mi era cara, l’Ariacorte, mi è stata cara dai primi passi, sino a quando non ho lasciato il paese. Ma, l’amo tuttora, rivedo le sue vestigia, anche se cambiate dal punto di vista degli abitanti, e rivedo me stesso, dei tempi sereni e leggeri che si vivevano con piacere, ancorché si disponesse di poco, un tutt’uno di comunità, di sparuto insieme, dai vecchi ai giovanissimi, ai neonati, ci si conosceva indistintamente, ognuno sapeva, degli altri, confidenze, piaceri e dispiaceri, notizie buone e meno buone.

A distanza di molti decenni dalle mie prime esperienze, dell’Ariacorte, mi sovvengono fra le altre, in maniera particolare, due figure, alle quali mi è venuto spontaneo, in quest’occasione, di dedicare il titolo delle note, una coppia di coniugi, Valeria e Angelo.

Mi ricordo dei suddetti, marito e moglie, che ancora versavano in età media, sui quaranta o cinquanta, mentre io sgambettavo con il mio brio, la mia intraprendenza, il non stare fermo un attimo, girare ovunque, infilarsi normalmente anche nelle case dei vicini, il che non era difficile, per il semplice motivo che le porte erano lasciate aperte, vigendo l’abitudine di considerarsi, nel gruppo di strade del rione, semplicemente una famiglia allargata.

Valeria e Angelo, figure unite e affiatate, non avevano avuto la gioia di vedere la loro casa allietata e confortata da prole, vivevano soli: però, penso di poter dire, pur con i limiti dei ricordi di bambino e di ragazzo, che, tutto sommato, si facevano buona compagnia, intensamente, a vicenda.

Marittima

Valeria aveva, specialmente, le mani fatate, sapeva fare  tante cose.

Grazie alla sua abilità, alla sua iniziativa e al suo impegno, era riuscita a emergere in seno alla comunità, arrivando, dopo aver fatto la normale trafila da operaia per lunghi anni, al ruolo di maestra, di “mescia”, del magazzino, ossia a dire di una delle quattro manifatture di tabacco che operavano nel paesello.

Un compito di responsabilità e, soprattutto, di capacità di coordinare, di ascoltare, le 60 o 70 operaie paesane, amiche e magari parenti, che lavoravano in quell’opificio: era lei a guidarle, ne controllava il lavoro, le seguiva, però senza supponenza, davvero una buona “mescia” di magazzino, Valeria.

Questo faceva a tempo pieno per 3 – 4 mesi all’anno, praticamente da novembre a marzo, nei restanti periodi, solitamente, accompagnava il marito Angelo in campagna, aiutandolo a coltivare le loro piccole proprietà o a raccogliere qualche frutto, ma soprattutto ella, grazie alle mani fatate, era bravissima nella tessitura a mano.

Sicché, nel locale a piano terra della sua abitazione, aveva sistemato un antico, semplice ma efficace telaio in legno, di legno duro, di quello buono che dura a lungo, “ strumento” che, talvolta, passava di generazione in generazione, magari a quello stesso telaio avevano lavorato la mamma e la nonna di Valeria.

A un certo punto era pervenuto a lei, ponendosi non come comune mezzo di lavoro, bensì a guisa d’attrezzatura prodigiosa, attraverso la quale ella tirava fuori la sua capacità di artigiana, o meglio, d’artista tessitrice.

Sì, anche su questo fronte, era una maestra, Valeria, non una semplice tessitrice.

Di comuni operatrici, n’esistevano in ogni famiglia, era abitudine che ciascun nucleo, appunto, avesse in casa un telaio, mediante il quale, con ore e ore di paziente lavoro, si predisponevano i tessuti da utilizzare per il confezionamento dei corredi delle figlie femmine.

Valeria aveva imparato e fatto esperienza già in casa dei suoi genitori prima di sposarsi, successivamente s’era messa a lavorare, a tessere, per conto delle altre famiglie, la sua attività non era un lavoro incentrato sui tessuti che poi sarebbero stati utilizzati per il grosso, l’ordinario del corredo, bensì un lavoro fine, si dedicava a realizzare eleganti coperte, o copriletti, o tovaglie di pregio, talora in materie prime particolarmente delicate, come  lino o seta,  articoli davvero di  altissima qualità che oggi, basta osservare in una vetrina dei negozi di lusso capi magari neppure  realizzati manualmente o artigianalmente, segnerebbero prezzi di vendita considerevoli.

Durante i pomeriggi e/o le giornate intere nel locale terraneo di fronte al telaio, Valeria vedeva passare innumerevoli famiglie, generazioni di ragazze e giovani che si rivolgevano a lei per l’approntamento di manufatti di particolare pregio, gli ultimi, i migliori, che avrebbero fatto fare bella figura ai fini del “giudizio” dei compaesani, parenti e familiari sulla qualità del corredo.

Già, corredo. Una parola che, al paese, era pronunciata quasi mai, allora si parlava di “dota”, con la a finale, a volersi riferire a tutti i capi di biancheria o di arredamento per la casa degli sposi, della camera da letto o dei tavoli da pranzo, che avrebbero composto il corredo che la donna portava, giustappunto, in dote.

L’arte della tessitura praticata da Valeria era ineguagliabile, ella era, forse, l’unica o la più brava del paese, per cui aveva sempre una clientela in coda e, talvolta, a chi si presentava, doveva dire “ guarda che avrai da aspettare un bel po’ di tempo”, ma non v’era chi non fosse paziente ad attendere il proprio turno, tanto era ambìto il poter dire “io ho quattro, cinque elementi del mio corredo realizzati da Valeria”.

Da parte sua, il marito Angelo passava prevalentemente il suo tempo in campagna, faceva il contadino in via permanente, da giovane s’era saltuariamente spostato fuori del paese, per attendere al lavoro nei frantoi oleari o della vendemmia e della vinificazione dei grappoli, soprattutto nel Brindisino.

Due persone fatte l’una per l’altra, sconosciuta una parola a tono elevato, o una discussione, vuoi fra loro e tanto meno nei rapporti con i compaesani.

Molto devote, non mancavano mai alle novene, alle funzioni dei periodi prossimi alle grandi festività, per l’appunto, religiose.

Sia Angelo, sia Valeria, erano benvoluti da chicchessia, anche da noi ragazzini, che, nonostante le nostre intemperanze, ci “sforzavamo”, in fondo, di sopperire, nei loro confronti, alla mancanza diretta di prole.

Sovente, abitando ad appena venti – trenta metri di distanza, mi recavo e trascorrevo ore nel locale di Valeria. In qualche occasione, l’aiutavo nei lavori preparatori a quella che sarebbe stata la sua opera di tessitura, piccole fasi, ognuna con la sua importanza nel processo d’insieme.

Dei filati, realizzati mediante la paziente filatura, in casa, con il fuso, della relativa materia prima di produzione familiare, o acquistati sottoforma di balle dal commerciante ambulante Pasqualino Distante, che girava fra i paesi con il suo calesse e la trombetta d’ottone per richiamare e attirare i clienti, una delle prime cose che si faceva era di trasformarli in matasse, in grandi matasse, attraverso un arnese o attrezzo chiamato “macinula”.

A seguire, da dette matasse, con una lunga asta metallica detta “cusifierru” – recante in alto una circonferenza e in basso una punta sottile – che si faceva ruotare su una base in legno massiccio d’ulivo, durissimo, con una o due piccole incavature, base detta misula, infilando, attraverso la punta sottile, coni di canna già appositamente predisposti, denominati canneddri e canneddre, con la rotazione a forza di mani e di braccia del cusifierru poggiato sulla misula e partendo dal capo della matassa, si realizzavano innumerevoli, centinaia o migliaia di cilindretti di filato avvolto.

A tale lavoro di incannulatura, s’aggiungeva quindi un altro stadio denominato di orditura, nel senso che si formavano lunghissimi segmenti di filato, successivamente raccolti a guisa di salsicce: dopo di che, partiva il lavoro al telaio di Valeria. La quale, attraverso determinate sezioni dell’attrezzatura chiamate” lizzi”, ordinava detti filati continui a seconda del tipo di tessuto e del capo da realizzare.

La tessitura vera e propria consisteva nell’intercalare, a questi segmenti tesi lungo le varie parti del telaio e assicurati, nella loro consistenza iniziale d’avvio processo, a una sorta d’asse cilindrico posto all’estremità posteriore del telaio stesso, altri filati. A tal fine, si faceva andare avanti e indietro, da destra a sinistra o viceversa, una piccola barchetta di legno detta spoletta, all’interno della quale si sistemavano i ricordati canneddri o canneddre, azionando contemporaneamente una pedaliera per ottenere i giusti movimenti per l’intreccio, ricavando così il panno di tessuto vero e proprio o finale.

Questo, il lavoro di massima di una tessitrice,

Nel caso di Valeria, merita di sottolinearlo, intervenivano, però, tecniche ben più fini, che presupponevano, ovviamente, tempi maggiori e mutevoli a seconda della complessità, delle dimensioni e del pregio del capo realizzando, con lavoro di forbicine, di piccole cuciture, di sistemazione di fili, di disegni di trame sul tessuto, un processo che, al termine, dava luogo a vere e proprie opere d’arte.

Valeria e Angelo, due personaggi dell’Ariacorte che, pur non essendo gli unici, rammento con maggior piacere e intensità di sentimento.

Non avendo figli, la loro casa, compreso il locale occupato dal telaio, è pervenuta a diversi eredi nipoti, i quali, come spesso accade in situazioni di beni indivisi, non l’hanno utilizzata direttamente, sicché, a distanza d’anni, l’immobile ha finito con l’essere venduto a terzi, è arrivata gente di fuori, turisti che ormai rappresentano una componente indicativa della popolazione del paesello.

E’ vero, i nuovi proprietari sono presenti solo nei tre mesi estivi, salvo qualche breve puntata nel resto dell’anno, nondimeno, quando capita di scoprire quell’uscio socchiuso o si nota qualcuno che entra o esce, anche se sono mutate le facce, le fogge e il modo di muoversi, sembra di vedere gli abitanti di un rosario di stagioni fa, ovvero Valeria e Angelo.

A proposito di pindìnguli, zarangùli e scisciarìculi…

di Armando Polito

Le riflessioni che seguono vogliono essere solo un’integrazione al post del 29 u. s.  a firma di Michele Stursi. Avrei potuto condensarle in un commento, ma la loro estensione avrebbe invaso troppo spazio, rischiando di superare quella dello stesso post originale, con la conseguenza di una minore visibilità che avrebbe forse leso, qualcuno direbbe maliziosamente, la mia reale o presunta voglia di essere il prezzemolo di ogni minestra, ma, ed è questa la cosa per me più importante (tanto a farmi male ci penso da solo…), non avrebbe certamente propiziato un contraddittorio ed ulteriori, voglio sperare, contributi.

Ce suntu ‘sti Pindinguli, Zaranguli e Scisciariculi?”: alla domanda, cui nel post (cor)rispondono riferimenti formali e contenutistici, tutto sommato, generici, tento di soddisfare in modo più articolato, partendo dalla recensione che del libro è stata fatta nel post a firma di Mauro Marino, leggibile all’indirizzo :

http://salentopoesia.blogspot.com/2011/12/la-poesia-del-meno-che-niente-di-uccio.html

Cito la parte che darà l’avvio al mio tentativo: 

“Pindingulu” vale per il Rohlfs (ad vocem) frangia, pendaglio, ossia ciò che è inutile, a cui non si assegna alcuna funzione essenziale, ornamento di cui si potrebbe fare a meno (…). Nell’accezione in cui viene comunemente usato il termine ha valore negativo, come accessorio di poco conto, orpello inutile, ecc. Giannini lo usa, oltre che nel titolo, una sola volta, in un testo del 1983 dal titolo «L’arvuru di Natale», dove i “pindinguli” stanno ad indicare degli addobbi che si appendono all’albero di Natale. Sul termine “zaranguli” il Rohlfs non mi è d’aiuto e neppure il Garrisi (Dizionario Leccese-Italiano): entrambi non riportano la voce; ma a Galatina è conosciuta la voce “zarangu”, usata nell’espressione “Nu n’aggiu ssaggiatu mancu zarangu”, che vale “Non ho mangiato neanche niente”. “Zarangu” è un “niente”, e “zaranguli”, il suo diminutivo, è un meno che niente (Piero Vinsper docet). Il titolo “Pindinguli” e “Zaranguli” nell’insieme varrebbe “pendagli e cose da nulla”, una sorta di dittologia con cui il poeta ha voluto designare la materia dei suoi versi.

Il secondo titolo, “Scisciariculi”, significa propriamente fiori di camomilla (si veda anche qui il Rohlfs, ad vocem), una pianta molto comune nelle nostre campagne, che vale poco a causa della sua facile reperibilità e abbondanza. In senso traslato, il termine è usato per indicare oggetti tanto comuni da non avere alcun valore (vedi la frase dialettale: “Ce bbindi, scisciariculi?”, “Cosa vendi, merce senza valore?”)Pure questo termine non compare nelle poesie, se non nel titolo di uno dei due fascicoli. Credo che dal significato dei titoli che Giannini volle dare alle sue poesie emerga chiaramente la volontà del poeta di presentare il suo lavoro in modo semplice e dimesso, come un “corpus” di composizioni di poco conto e senza valore”.

 

Su pindìnguli non ho nulla da aggiungere se non che esso è dal latino medioevale (Du Cange, Glossarium mediae et infimae Latinitatis, Niort, Favre, 1883,  tomo VI, pag. 256) pendìculum, dalla radice del classico pèndere (da cui il salentino pindìre) con tecnica di formazione ampiamente collaudata (come in artus>artìculus); da notare l’epentesi, immediatamente prima del suffisso, della –n– della radice, forse anche per incrocio con peduncolo.  Il lettore tenga presente il dato dell’unica ricorrenza.

Zarangùli: in Mariano Velázquez de la Cadena, A pronouncing dictionary of the Spanish and English languages, D. Appleton & Co., New York , 1853, pag. 667, consultabile all’indirizzo

http://books.google.it/books?id=KCsaAQAAMAAJ&pg=PA635&dq=zarangu&hl=it&sa=X&ei=gCMkT__IM4ehOtG9uMsI&ved=0CDcQ6AEwAQ#v=onepage&q=zarangu&f=false )

è riportato il lemma spagnolo zarangùllo=mistura di peperoni, pomodori, etc.; in Esteban de Terreros y Pando, Diccionario castellano, En la Imprenta de la viuda de Ibarra, Hijos y Compañia, 1788, t. III, pag. 848, consultabile all’indirizzo

http://books.google.it/books?id=d9PFH8lGGooC&pg=PA848&dq=zarangollo&hl=it&sa=X&ei=TygkT4_IEY6VOpf0ub8I&ved=0CE0Q6AEwBQ#v=onepage&q=zarangollo&f=false

è riportata la variante zarangollo. Credo che zarangùli sia una creazione dell’autore, con  scempiamento, rispetto alla voce spagnola, di –l– per far sì che il vocabolo sembri avere un suffisso diminutivo, come in pindìnguli. Faccio osservare come la definizione della voce spagnola ben si adatti  al verbo (assaggiare) della frase citata, in cui compare zaràngu, e come zarangùlli non ricorre in nessuna delle poesie.

Scisciarìculi: lo stesso Rohlfs poco prima di questa voce riporta il verbo scisciàre=stracciare (da un latino *scidiàre, dal greco schizo); credo che la nostra voce sia ancora una volta un diminutivo creato, questa volta di sana pianta, dalla radice di questo verbo (secondo me i fiori di camomilla sono da escludere). Nemmeno scisciarìculi compare nel testo delle poesie.

Tre termini, insomma, con lo stesso suffisso allusivamente diminutivo, disposti in un climax discendente legato al loro uso effettivo nella lingua (non a caso solo il primo, pindìnguli, compare una sola volta nelle poesie, gli altri nemmeno una). Così il titolo diventa emblematico di una poesia che vuole essere dichiaratamente “diminutiva” e in cui la stessa creatività linguistica manifestata nel titolo (zarangùli e a scisciarìculi) finisce per coincidere con l’inesistenza, ultimo sviluppo dell’effimero (pindìnguli), il tutto ben in linea con l’intento “di presentare il suo lavoro in modo semplice e dimesso, come un corpus di composizioni di poco conto e senza valore”; e a tal proposito mi vengono in mente le nugae1 di Catullo, i Rerum vulgaria fragmenta2 di Petrarca e, in tempi a noi più vicini,  le buone cose di pessimo gusto3 di Gozzano.

Chiudo con un rimpianto, quello di non potere avere conferma di quanto ho appena detto dalla viva voce dell’autore, e con una confessione ad effetto, apparentemente indegna: non ho letto neppure una delle poesie, peccato che resta veniale in attesa che lo faccia, anche perché qui la mia indagine era limitata solo all’aspetto filologico del titolo. E non è detto che il fortunato ritrovamento di qualche appunto dello stesso autore non getti nuova luce su quanto ancora, a tal proposito, continua a restare in ombra.

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1 Cose da nulla: così il poeta latino definì i suoi carmi.

2 Frammenti di cose scritte in volgare: così definì il suo Canzoniere il Petrarca, che considerava, invece, il poema in latino Africa come il suo capolavoro.

3 L’amica di nonna Speranza, I, 2.

Un grande salentino orgoglioso delle sue radici: Francesco Giacomo Pignatelli

Un grande salentino orgoglioso delle sue radici:

Francesco Giacomo Pignatelli
canonista – teologo – erudito del secolo XVII

 

di Rosario Quaranta

L’insigne canonista Francesco Giacomo Pignatelli nacque a Grottaglie il 2 aprile 1625 da Vincenzo e da Donata D’Alessandro e fu battezzato 1’8 seguente da D. Orazio Greco essendo padrino il marchese di Monteiasi Carlo Ungaro. Appresi i primi rudimenti letterari nel paese e nel seminario di Taranto, venne aggregato al Capitolo della Collegiata grottagliese l’11 giugno 1639. Si portò poi a Roma per seguire gli studi filosofici e teologici, rivelando particolare inclinazione per la poesia e per il diritto. Fu ascritto all’Accademia dei Fanta­stici dando anche saggi di attività poetica e si addottorò in utroque jure meravigliando fortemente i professori della Minerva per la sua dottrina.
Creato parroco per le specchiate virtù e per le sterminate cognizioni, fu onorato in seguito con la dignità di camerlengo del clero romano. Per ben otto volte gli fu proposto il vescovado che rifiutò per modestia e per dedicarsi agli studi giuridici. La nona volta accettò il vescovado di Gravina (1685), ma, accusato ingiustamente, non poté essere consacrato, né prendere possesso della diocesi. Venne poi nominato parroco della chiesa romana di S. Maria in

I murales ebrei di Santa Maria al Bagno. Per non dimenticare!

di Gianni Ferraris

Prendendo la litoranea da Gallipoli verso nord si passa per alcune frazioni sulla marina. Sono paesini prevalentemente di seconde case. In estate è un pullulare di turisti, di lingue, di culture diverse. Negli altri mesi invece la calma è immensa. Poche persone, il mare che accompagna con il suo sottofondo di rumori più o meno cupi, pescatori in lontananza. Sono luoghi in cui è bello sedersi e guardare il tempo scorrere con i pensieri che lo accompagnano. Posti battuti dal maestrale che porta freddo, a tratti la roccia è stata tagliata per far passare la strada. Si transita fra due muri nella “montagna spaccata” come la chiamano qui.

Ebrei a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

E subito dopo il mare riappare. E la storia è passata da qui come da ogni luogo e sono racconti ora, quasi fiabe. Gli abitanti locali li danno per scontati, ma per me che ascolto per la prima volta sono evocativi di come la solidarietà sia ovvia, non derogabile, in queste terre. Lo straniero, il diverso, è accolto e spesso protetto, soprattutto se ha gli occhi colmi di terrore. Non importa da dove venga, né importa il colore della pelle o politico, prima si accoglie, poi magari si discute. Santa Maria al Bagno ti viene incontro con le sue Quattro Colonne. Sono i resti di una grande torre di avvistamento, come le altre voluta da Carlo V, danneggiata forse da un sisma che ne ha demolito il centro, lasciando in piedi solo i quattro angoli. È una frazione di Nardò, in questo piccolo luogo sostò a lungo un pezzo di storia.  

Era da poco passato il Natale del 1943 quando il piccolo sobborgo fu scelto dalle autorità inglesi come campo profughi. Arrivarono i primi camion carichi di persone, erano slavi. Furono requisite le case, furono alloggiati gli sfollati. Ma la diffidenza fra i profughi e quelli che solo pochi mesi prima erano considerati nemici era forte. La difficile convivenza durò pochi mesi. Gli slavi lasciarono il luogo. E spesso lasciarono un ricordo non buono. Non sempre trattarono con cura le cose e le abitazioni che vennero loro affidate. Andarono in altri luoghi i profughi, ma rimasero i soldati inglesi. E poco tempo dopo altri camion  arrivarono. Molto più numerosi e con molte più persone.
 
Quando scesero a terra i loro sguardi erano diversi. Timorosi e spesso rivolti in basso. C’era un po’ di diffidenza e paura nei salentini. Ancora le eco dei massacri di ebrei, dei campi di sterminio, non erano arrivate in queste terre, tutto sommato solo sfiorate dalla guerra. Furono sufficienti pochi mesi per sapere, capire, ascoltare storie che si credevano impossibili. E presto nacque quella solidarietà che è spontanea in chi ha conosciuto la fame verso chi ha vissuto gli orrori della storia. Così il cibo dato dall’amministrazione delle Nazioni Unite veniva scambiato dagli ebrei con il pesce dei pescatori locali. Spesso veniva donato in cambio di nulla. 

E i rapporti divennero solidi e solidali. Gli ebrei fecero nascere alcuni negozi, e la vita ricominciò. I bambini andavano a scuola tutti assieme, forse non avevano il grembiulino, però nessuno avanzò mai la pretesa di far frequentare classi diverse a nessun altro. Nonostante si sentisse parlare italiano, salentino, spagnolo, yddish. In quegli anni nel campo passarono circa 100.000 ebrei e furono celebrati circa 400 matrimoni regolarmente registrati allo stato civile di Nardò. In uno di questi la teste fu Golda Meyer. Da qui passarono Moshe Dayan e Ben Gurion. Stavano andando verso quella che sarebbe diventata Israele, ma questa è altra storia.

Nel Salento le esigenze religiose dei nuovi arrivati vennero agevolate. Nacque una sinagoga in alcuni locali sulla piazza, ed un kibbuz poco distante. E ancora sono presenti, fortunosamente salvati dalla distruzione, alcuni murales fatti da Zivi Miller, ebreo polacco che a Santa Maria trovò la compagna della sua vita. Un comitato ne ha preso a cuore la vicenda perché quelle opere erano in una casa abbandonata e fatiscente e si stavano irrimediabilmente danneggiando.

L’amministrazione comunale ha provveduto a staccarli e a dar loro una sede più idonea. Ed è opera meritoria in giorni in cui una destra estrema e quasi eversiva sta rialzando la testa. E lo fa nei modi più criminali. A pochi metri da quella casa e da quella testimonianza è comparsa, a inizio anno, una scritta che dice: 10 100 1000 Anna Frank. L’humanitas trovata nel Salento venne riconosciuta e viene ricordata in Israele. E un riconoscimento è giunto alla città di Nardò dal capo dello stato.

Il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, in occasione del 27 gennaio 2005, ha conferito motu proprio la Medaglia d’Oro al Merito Civile alla città di Nardò
con la seguente motivazione:

«Negli anni tra il 1943 ed il 1947, il Comune di Nardò, al fine di fornire la necessaria assistenza in favore degli ebrei liberati dai campi di sterminio, in viaggio verso il nascente Stato di Israele, dava vita, nel proprio territorio, ad un centro di esemplare efficienza. La popolazione tutta, nel solco della tolleranza religiosa e culturale, collaborava a questa generosa azione posta in essere per alleviare le sofferenze degli esuli, e, nell’offrire strutture per consentire loro di professare liberamente la propria religione, dava prova dei più elevati sentimenti di solidarietà umana e di elette virtù civiche».

murales ebreo a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

 

È il più grande dei due murales realizzati da Zivi. Rappresenta il grande sogno degli ebrei di raggiungere la Terra Santa. Sulla sinistra le vittime scampate all’olocausto si lasciano alle spalle un’Europa disseminata di filo spinato. Attraversano l’Italia e raggiungono il campo di accoglienza di Santa Maria al Bagno. Da qui il viaggio di una moltitudine allegra e festosa che raggiunge finalmente la Palestina, passando simbolicamente sotto un arco a forma di stella di David.

 

murales ebreo a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

 

Questo è il secondo murales di Zivi. È evidentemente meno gioioso dell’altro. In questo caso la Terra Promessa è un fortino, un castello inaccessibile. La porta e le finestra sono chiuse dalle grate: da lì sventolano i simboli dell’ebraismo. Una mamma e i suoi due bambini giungono da lontano, ma la loro espressione è corrucciata, come se per la difficile strada percorsa per arrivare fin lì avessero perso qualcuno di importante. Ad accoglierli non c’è un arco, né le palme del deserto ma un soldato inglese col fucile in mano.

murales ebreo a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

Questo è l’unico murales non realizzato da Zivi. È opera di una ragazza ebrea, anch’essa ospite del campo di Santa Maria. In questo caso, l’accezione dei soldati inglese sembra essere diversa da quella datagli dall’artista rumeno. I militari non bloccano gli ebrei in arrivo, ma custodiscono i simboli della loro religione, rimanendo un gradino più in basso, quasi fossero degli umili e discreti servitori della causa ebraica.

 

Quando l’artista (o quasi…) ce l’hai in casa e non te ne accorgi…

di Armando Polito

Nemo propheta acceptus est in patria sua (Nessun profeta è accettato nella sua patria1) è la frase, divenuta poi proverbiale nella forma ridotta Nemo propheta in patria, attribuita da Luca (IV, 24) a Cristo risentito per la fredda accoglienza da parte dei suoi conterranei a Nazareth e citata poi abitualmente per stigmatizzare il fatto che difficilmente il merito ha il giusto riconoscimento nella propria terra. Di solito, per giustificare questo atteggiamento, si mette in campo una sorta di compensazione dovuta al fatto che solo chi ci ha visti nascere e crescere conosce anche le nostre debolezze ed i nostri limiti. Demolire questa opinione è facilissimo perché, se fosse fondata, dovremmo, per esempio,  considerare idioti, incompetenti e miopi, se non ciechi,  quegli stati e quelle istituzioni che hanno propiziato, e continuano a farlo oggi più che mai, la fuga dei nostri cervelli. È pur vero, però, che, senza scomodare grandi doti come il talento e la genialità, l’uomo ha in sé il vizio innato di non apprezzare, forse per abitudine, quello che ha. Così, anch’io, in un improvviso sussulto di ravvedimento, potrei adattare la frase evangelica e dire Nulla fatidica in domo sua (Nessuna è profetessa in casa sua) permettendomi, non sembri blasfemo, di riconoscere esplicitamente anche a tutte le donne quel valore che motivi storici e culturali hanno obnubilato, pure all’ombra di religioni diverse da quella prima cristiana e poi cattolica. E il lettore mi perdonerà se in un ulteriore sussulto di egoistico compiacimento darò un connotato privato alla mia riflessione, riferendo quel detto a mia moglie. Le cose nella vita nascono per caso, come questo post che sicuramente non avrei scritto se non avessi letto su questo sito (e su quale altro sennò?)  il recente, bellissimo Fische, fiscareddhe, sporte e spurteddhe di Tommaso Coletta, in cui il ricordo della madre Chicchina e della sua bravura nell’arte del giunco è pudicamente dissimulato in una narrazione di vita paesana di altri tempi. Io non sono altrettanto bravo nel farlo con Annarita, se non riesco a rinunziare, addirittura alla famigerata premessa, dicendo che mia moglie non conosce il greco, il latino forse nemmeno l’italiano (ma io, li conosco veramente?), è ragioniera ma non ostenta sicurezza nemmeno nel calcolare il 10% di 100 (eppure è lei che da sempre ha portato avanti, con esiti brillanti, il bilancio familiare…), non ha la battuta fulminante che anche i miei detrattori mi riconoscono (eppure, ad un comune vecchio amico che non aveva da tempo mie notizie disse che mi trovavo agli arresti domiciliari, riferendosi al fatto che io non mi muovo da casa se non per necessità, mentre lei, se potesse, intraprenderebbe un nuovo viaggio prima ancora di aver concluso il precedente…), lei è in grado di improvvisare un pranzo o una cena più che dignitosi per venti persone in meno di un’ora (io so solo “preparare” in due minuti, anche perché altrimenti diventa sodo, un uovo alla coque, sicché se fossi stato costretto dalla vita a cucinarmi da solo a quest’ora molto probabilmente sarei morto da un bel pezzo di colesterolemia…), lei, etc. etc. (io, etc. etc.)…

Fra i tanti suoi etc. etc., per tornare in argomento, va annoverata una eccezionale abilità manuale grazie alla quale è in grado di dar vita a straordinari ricami non solo col filo (però, io nel mio piccolo so fare il punto erba…) ma anche, e ci siamo, con la rafia. Lascio parlare le foto che ritraggono solo parte della sua “produzione”,  permettendomi di mettere in risalto, toccare per credere,  la straordinaria rigidità dei suoi lavori per i quali utilizza, ripeto, solo la paglia, senza altra anima che non sia la sua…

È per me motivo di orgoglio (ormai ho perso ogni pudore…) che sia sta lei a confezionare recentemente le bomboniere, una diversa dall’altra… (nella foto solo due esemplari), per le nozze di nostra figlia Elisabetta.

Voglio sperare che chi l’ha ricevuta abbia compreso il suo valore immenso rispetto ad un anonimo, freddo, per me ridicolo, per quanto trendy (come dicono quelli che sanno parlare…), thun ; lo scrivo volutamente con l’iniziale minuscola perché, per antonomasia, è diventato ormai un nome comune; come, per intenderci, mutatis mutandis (che, per chi non conosce il latino, non significa cambiate le mutande ma fatto il dovuto confronto), è successo tanti secoli fa, per esempio, a Cicerone e a Mecenate.

I complimenti mi fanno piacere ma mi procurano disagio perché li interpreto come uno stimolo a fare di più e meglio e sono pure poco avvezzo a farli, soprattutto con i miei familiari, sicché non deve suscitare meraviglia il fatto che, pur avendo avuto, credo, con i miei allievi una pazienza enorme e di fronte ai loro errori, perché imparassi io stesso, mi sono costantemente chiesto da dove quegli errori potevano essere nati, le rare volte (e ti credo…) in cui le mie figlie mi chiedevano il parere sulla loro traduzione, per altri forse perfetta, per me passabile, di un brano di latino o di greco, l’espressione più gentile e confortante era: “Neppure un deficiente avrebbe tradotto come hai fatto tu”.

Una volta tanto, nella vita, forse ho fatto violenza a me stesso, ma, per terminare, così come avevo iniziato, con una citazione evangelica, chi è senza peccato scagli la prima pietra

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1 È questa la traduzione corrente, che considera nemo come attributo di propheta; ma nemo in latino può essere, oltre che aggettivo, anche pronome e potrebbe, secondo me,  fungere qui da soggetto, questa volta isolato, mentre propheta potrebbe assumere un valore di suo complemento predicativo  e la frase, nella nuova traduzione nessuno è accettato come profeta nella sua patria, avrebbe addirittura, a mio avviso,  una maggiore pregnanza di significato. Non guasterebbe, poi, pensare pure al valore etimologico, per così dire laico, della parola. Se, infatti profeta è colui che parla per ispirazione di una divinità preannunziando spesso in suo nome il futuro, la voce è dal latino tardo prophèta, a sua volta dal greco profètes=indovino, interprete, annunciatore, composto da pro=avanti e femì=dire; perciò è legittimo vedere proprio in quel pro la funzione di battistrada e precursore che il talento, nell’arte come in ogni altra umana espressione, ha da sempre avuto con la sua dote primaria: l’originalità.

Una cena piuttosto movimentata, ovvero lu springitùru e la urràscina

di Armando Polito

Molti dei miei incontri con le parole e il conseguente desiderio, in parte frutto di interesse più o meno professionale,  di approfondire la loro pregnanza semantica e non solo sono dovuti al caso, e gli esiti più o meno soddisfacenti hanno la stessa valenza del segno, positivo o negativo, che certe persone ti lasciano: un arricchimento, comunque sia, della conoscenza e della coscienza.

L’altra sera, nel corso di una cena tra amici in casa mia, il mio sguardo si è posato casualmente su un vassoio di verdure crude assortite (crudités, per chi sa parlare…), nello specifico, cicorie, finocchi e gambi di sedano che mia moglie aveva disposto con una semplicità e naturale armonia compositiva da far invidia al più sofisticato chef (non è quanto si vede nella foto di testa che rappresenta la mia faticosa composizione di qualche ora fa). È stato per me impossibile non ricordare a quel punto a mio cognato, che era seduto di fianco a me, un incidente professionale occorsogli  qualche settimana prima.

Dovete sapere che Giuseppe, così si chiama, è col fratello titolare e gestore di un ristorante e che, appunto qualche settimana prima, era stato benevolmente rimproverato da un cliente neretino perché, a suo dire, sul tavolo mancava lu springitùru.  A quel punto Giuseppe, che, da sempre neretino, non aveva mai sentito quella parola, ha chiesto al cliente delucidazioni sul suo significato beccandosi un secondo, sempre benevolo, rimprovero, questa volta non per la presunta dimenticanza ma per l’emergente presunta ignoranza. Riporto le battute così come,  più o meno fedelmente, si sono susseguite, peraltro in dialetto:

-Comu, no ssai cce ggh’è lu springituru?– (Come, non sai cos’è lo springituru?)

È lla prima fiata ca lu sentu; allora cce gghè?– (È la prima volta che lo sento. Allora, che è?)

Lu springituru ggh’è la verdura ca ti mangi cruta– (Lo springituru è la verdura da mangiare cruda)

Va bbene, mo ti la portu (Va bene, ora te la porto)

È vero che il cliente ha sempre ragione (anche se il piatto da lui richiesto non compare nel menù fisso che di colpo diventa, sempre per il cliente, fesso, ma quel menu, essendo diventato fesso, finisce, in omaggio al noto proverbio, per avere ragione…), ma è vero pure che bisogna fare i conti con (il cognato del) l’oste; e il sottoscritto è piuttosto curioso e tenace nel chiarire le cose.

Da un’indagine sul campo subito seguita al racconto di quanto gli era accaduto fattomi dall’interessato ho potuto appurare che la voce in questione a Nardò non esiste1 e, dopo aver esteso l’indagine al di fuori del nostro territorio fino a Bari, sono giunto alla conclusione che si tratta di un’importazione con adattamento del significato (vedi nota 1) che non è certamente da buttar via (la derivazione da springìre=spingere con aggiunta di un suffisso indicante strumento è pertinente e congrua, dal momento che il piatto in questione ha proprio il compito di fungere da intermezzo tra una portata e l’altra).

La conclusione è stata confermata dalla successiva ricerca in rete, che mi ha segnalato una sola occorrenza presente, guarda caso,  proprio nella pagina di presentazione di un ristorante di Nardò di cui non faccio ovviamente il nome, anche perché sarebbe pubblicità a danno di mio cognato, del quale, nessuno può negarlo, ho fornito solo il nome di battesimo. D’altra parte, neppure Giuseppe in tal senso è innocente, col suo trombino, nome, sulla cui valenza allusiva non  mi soffermo…, adattato e adottato su suggerimento estemporaneo di un mio cugino, Ignazio, per un formaggio, da Giuseppe prodotto,  protagonista qualche anno fa di una trasmissione televisiva locale. Più di un vecchietto, tra gli altri insospettabili,  si presentò nei giorni successivi da Giuseppe per comprarlo; uno, addirittura,  con l’espressione che nell’apparente ipercorrettismo2 forse tradiva la doppia speranza di poter sostituire il Viagra con qualcosa di naturale che avesse anche una funzione preventiva: –Sta bbegnu cu mmi tai nnu picchi ti trombòsi– (Sto venendo perché tu mi dia un po’ di trombosi). Aggiungo e finisco: ho ancora il dubbio che il verbo iniziale della frase, nonostante la successiva proposizione finale, non si riferisse alla strada fatta ma ad un effetto anticipato dovuto alla sola vista di quel formaggio…

Siamo in presenza, insomma, di un uso personale perfettamente decodificabile, forse, solo dal fruitore e, al massimo, dai suoi familiari o conoscenti più stretti. Insomma, springitùru, secondo me e ancor più secondo mio cognato…, non è destinato ad avere successo (trombino sì?…)

Tornando alla cena: il riferimento sintetico all’episodio e il relativo vocabolo hanno fulmineamente propiziato l’intervento di un altro amico commensale, Mimino, il quale, ribadendo di ignorare l’esistenza di springitùru, ricordava però di aver sentito sua madre, originaria di Galatina, usare con lo stesso significato urràscina.

A quel punto mio cognato che, oltre che ristoratore e casaro è anche allevatore, si è sentito in dovere di correggere l’amico con decisione: -Ma cce sta ddici! L’urrascina ggh’è l’uèrgiu erde ca si tae alli animali– (Ma che stai dicendo! L’urrascina è l’orzo verde che si dà agli animali).

Per cercare di riportare un po’ di calma, ma anche per non fare la figura del fesso della compagnia, a quel punto sono intervenuto dicendo (probabilmente il vino ancora ritardava a far sentire i suoi effetti…) che poi le due posizioni non erano inconciliabili e che legata alla civiltà contadina era la interscambiabilità terminologica (ricordo di aver detto proprio così…il vino cominciava a farsi sentire) tra il mondo animale e quello umano, per cui l’orzo verde dell’animale era diventata la verdura dell’uomo; qualche decina di secondi dopo poi il vino cominciò a manifestare i suoi devastanti effetti quando, con quell’aria sofferente, quasi da artista, che uno assume al culmine dell’espressione delle sue poco potenti potenzialità professionali, dissi che tutto era confermato anche sul piano etimologico, essendo chiaro e trasparente come l’acqua cristallina della nostra Palude del Capitano che urràscina era dal latino hòrde(um)=orzo+il suffisso –àscina corrispondente all’italiano –àggine [con idea di negatività, come in somaro>somaraggine/purpu (polpo)>purpàscina (polpo molto grosso e, perciò, meno tenero)].

Il tapino, però, non si era accorto che se nella Palude reale si era paparisciàtu (=aveva sguazzato come un papero) quand’era verde tante e tante volte senza inconvenienti, ora stava annegando in quella metaforica della sua similitudine perché, se il suffisso era ineccepibile, nella prima parte bisognava spiegarsi il passaggio –ea->-a-. Ma, come s’è detto, il vino era buono, dell’attività  di mio cognato, con tutto il rispetto, ho già parlato, l’amico che aveva messo in campo la voce è, con tutto il rispetto, un ex insegnante di educazione fisica; insomma solo io, con scarso rispetto ex insegnante di lettere, ero l’unico attrezzato, almeno in teoria, a chiarire qualcosa. Intanto era passato un po’ di tempo e alla mia presunta illuminazione e ad una tiepida ammirazione da parte dei commensali nei miei confronti subentrarono, era ormai passata mezzanotte, le tenebre reali.

La notte porta consiglio e ciò che non avevo fatto la sera precedente lo feci la mattina successiva, che si aprì con l’ingloriosa (per me) consultazione del vocabolario del Rohlfs, da cui emerse quanto riporto:

urràscina (Aradeo e Galatone), farragine, ferrana, pastura mista di biade diverse [cfr. il calabrese vurràina, furràina e ferràina, dal latino farragine o ferragine, sotto l’influsso dello spagnolo forraje=foraggio]; v. vurràscina”.

vurràscina (Presicce), verràscene (Ceglie Messapico, Ostuni, Massafra e Martina Franca), ferrana (orzo, avena) per foraggio [cfr. il calabrese vurràina e furràina, dal latino farragine o ferragine, con influsso dello spagnolo forraje=foraggio] v. urràscina”.

Esemplare trattamento dei lemmi, se non ci fosse, ripetuta, l’inspiegabile svista dal latino farragine per dal latino farragine(m), che significa miscuglio di biade per il bestiame e, in senso estensivo, mistura e dispregiativo bagattella; esso, poi, è da far=grano, farro + un suffisso da cui l’-àggine/-àscina di cui si è detto sopra. Trascurabile il fatto che la variante ferràina3 compare solo nella prima parte, mentre faccio notare come l’influsso dello spagnolo forraje abbia determinato il passaggio –a– (farragine)>-u– (urràscina).

Ho messo al corrente di tutto i commensali di quella fatidica cena, senza uscirmene con la ridicola osservazione che, o orzo o farro, in fondo sempre di un vegetale si tratta, ma mi sono ripromesso, dalla prossima, di bere di meno (per la serie quando si attribuisce troppo comodamente all’alcol una sbandata che molto probabilmente si sarebbe verificata pure in sua assenza…).

Basterà a non rimediare altre brutte figure?

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1 Uno spingitùru (da spingìri=spingere) è registrato dal vocabolario del Rohlfs a Taranto, a Grottaglie e a Mesagne, col significato di companatico. Nelle intenzioni del cliente, però, le verdure non dovevano accompagnare il pane ma farne le veci perché dovevano agevolare, col classico gesto della zuppetta, la degustazione dello squacquerone. Proprio la presenza di una –r– in più in springitùru è la spia che esso è il personale adattamento neretino di un termine importato.

2 Erronea correzione nella grafia o nella pronuncia di una forma linguistica, che consiste nel sostituire volutamente, o anche inconsapevolmente, a una forma esatta (nel nostro caso trombino) una scorretta (o di diverso significato: nel nostro caso trombosi) con la convinzione che la prima sia errata. L’equivoco è propiziato, oltre che dall’ignoranza, da una  somiglianza fonetica, anche parziale,  tra la parola sostituente e quella sostituita.

3 Il Rohlfs la dice voce calabrese, ma essa compare addirittura in testi scientifici, e non come nome locale; per esempio, più volte in Francesco Liberati Romano, La perfettione del cavallo, Michele Hercole, Roma, 1669 e in Gioanni Batista Trutta (napolitano, com’è specificato nel frontespizio), Novello giardino della prattica, ed esperienza, Paolo Severino Boezio, Napoli, 1785.

La felicità del testimone di Elisabetta Liguori.

di Livio Romano

Seguo con grandissima attenzione il lavoro narrativo di Elisabetta Liguori da più di dieci anni. Il fatto che siamo amici non mi esime dall’irrefrenabile impulso di scrivere qualcosa tutte le volte che finisco di leggere un suo nuovo romanzo. Ché poi, si sa, l’amicizia è come un filo. A volte tesissimo, ad annodare, tenere insieme le anime rispettive. Altre volte molle, se non sfilacciato dalle inevitabili delusioni che da che mondo è mondo caratterizzano i rapporti umani –eppure sai che, nonostante quei buchi neri, il tuo amico è là, pronto tu a recuperarlo, pronto lui ad accoglierti di nuovo. Mi dilungo su queste annotazioni poiché i romanzi di Elisabetta Liguori di questo precipuamente parlano: del complicatissimo viluppo dei flussi emotivi che scorre fra gli uomini. È un’assoluta maestra, Elisabetta, per dire, nel mettere in scena le dinamiche della coppia, in particolare di quella coppia la quale vive “sotto lo stesso giogo” (etimologia del “coniugio”). E trovo tutt’oggi insuperato un suo romanzo inedito il quale, son sicuro, prima o poi vedrà la luce e avrà la fortuna che merita. Questo La felicità del testimone, ed. Manni 2012 rappresenta un punto di arrivo sfavillante nel percorso di scrittura dell’autrice. Tutta la narrativa che mi arriva in manoscritto, nonché pressoché tutti i libri degli autori salentini i quali non siano arrivati a pubblicazioni di respiro nazionale (e se vi sono arrivati è attraverso minuscoli editori senza forza industriale, senza capacità di promozione): è sovente materiale dilettantesco, o di un pretenzioso da sfiorare la comicità involontaria, oppure contraddistinto da questo fastidiosissimo lirismo da quattro soldi che fa dire a Rossano Astremo, a ragione: “Il Salento, più che di narrativa, è un luogo di poesia”. Voglio dire che Elisabetta Liguori è una scrittrice vera. Una scrittrice nata. Un’abilissima narratrice. Dotata di consapevolezza letteraria e linguistica altrove introvabili. La sua prosa è controllata, mai debordante, esatta come un laser, curata, raffinatissima. Soprattutto: risente di solide e ingenti letture che contribuiscono negli anni ad affinare la sua già personalissima e potente voce narrativa (lo scrivo anche per contrasto a certi libretti dentro i quali il prosare è faticoso, volendo sembrare artefatto e ricercato finisce per diventare artificioso e, soprattutto, gira e gira su se stesso senza mostrare un bel nulla lì dove è notorio che narrare è solo una questione di show, don’t tell, come disse Mark Twain). Non voglio entrare nella trama di questo nuovo noir (che, a me che nulla so del genere, sembra un altro dei deliziosi non-noir, o noir inutili della Liguori), né voglio parlare dei personaggi. Concetta e Angelo meriterebbero ben altro spazio, tanto son dipinti con maestria superba, e servendosi di pochi essenziali tratti: rare istantanee della loro esistenza che dicono tutto del loro modo di essere e agitarsi nel mondo. Non voglio tirar fuori neppure la testimone-bambina intorno alla quale ruota l’intera vicenda. Ho fatto lo sbaglio di leggere qualche recensione. Gli interpreti son d’accordo nel mettere al centro del romanzo il tema dell’infanzia e della sua fragilità. A me no. A me della Felicità del testimone ha colpito soprattutto la leggerezza, il tocco lievissimo, composto, sorvegliatissimo che l’autrice imprime alla penna quando batte il ritmo, quando uno ad uno fa entrare in scena i protagonisti della storia e li presenta al pubblico con le loro goffaggini, le loro grandezze, i loro tic. Il ritmo. Scheletro portante di una narrazione. In questo romanzo il passo è pressoché perfetto. Neppure un colpo di grancassa è suonato un secondo prima o dopo. E, attenzione, questa lievità espressiva non è mai funzionale alla creazione della suspense, come ci si aspetterebbe da un vero noir. Tutto al contrario, la Liguori tiene il ritmo, briga con personaggi ed eventi, ambienti e sentimenti esclusivamente per far musica, sublime musica narrativa. In parte rinunciando al gusto barocco per la profusione di similitudini e a uno stile a spirale che ha sempre caratterizzato la sua scrittura, questa volta l’autrice ha davanti a sé una grande torta da guarnire. Le spirali di panna che abbozza sul pan di spagna son roselline garbate. Spiraliche, sì. Ma poi la Liguori con la siringa da pasticcera tira su le colonnine di spuma fino a sistemare sopra al suo dolce una circonferenza di meringhe a spire. Ma non solo. Guarnisce pure, le sue torrette. Con spruzzi di humour e prese di distanza dalla materia altrimenti incandescente e, a dirla tutta, insostenibile. Non voglio dire che questo non sia un romanzo di sentimenti, di rappresentazione delle emozioni, a volte anche estreme, che passano da un essere umano a un altro (“Quando ci si ama, ci si parla e basta”, annota l’io narrante, per esempio, a proposito di Concetta e la bambina). E però questo viluppo di emotive apprensioni è abbozzato ma subito dopo immerso dentro a una azione (il correre, il bere un bicchiere con l’amica del cuore Agnese) oppure trascolorato in una sineddoche argutissima che confonde le acque, sposta il fuoco dell’attenzione su qualcosa di sensibilmente avvertibile (“il camoscio”, per esempio, diventa a un certo punto il misterioso picchiatore, e già chiamarlo così vuol dire levargli aura tragica, smettere di prendere sul serio sia lui che l’intera vicenda). Insomma dissento dall’altro mio amico caro Antonio Errico, nonché da Enzo Mansueto. Nessuna pietas. Solo la straordinaria prosa di una scrittrice nata che utilizza gli avvenimenti della realtà per fare monumentali vezzose torte di panna e meringhe, a loro volta parodia dei mausolei di marzapane che si trovano nelle vetrine dei pasticceri di paese.

La spicanarda: erba scamosa? (La lavanda: erba sporcacciona?)

di Armando Polito

immagine tratta da http://www.leserre.it/enciclopedia 467/Lamiaceae/lavanda/Lavandula%20angustifolia.html

nomi scientifici: Lavandula angustifolia Mill.; Lavandula officinalis Chaix; Lavandula spica L. var. angustifolia Auct.

famiglia: Lamiaceae

nomi italiani: lavanda, spigonardo, spiganardospicanardospicanardi; spiga di San Giovanni

nome dialettale salentino: spicanarda

 

Etimologie:

Lavandula è diminutivo di lavanda, di cui si parlerà dopo; Angustifolia significa dalle foglie strette; officinalis significa medicinale; spica significa spiga.

Lamiaceae è forma aggettivale da lamium=lamio.

Lavanda è dal latino lavanda, gerundivo femminile singolare di lavare e alla lettera, come avviene per tutti i gerundivi che hanno in sé l’idea del dover essere fatto, significa che dev’essere lavata. Analoghi relitti di gerundivi sono in italiano agenda, da àgere; alla lettera: cose che devono essere fatte; legenda o leggenda (iscrizione in filatelia, in numismatica, didascalia in genere; la seconda anche nel senso di racconto fantastico), da lègere: alla lettera: cose che devono essere lette; merenda, da merèri, alla lettera: cosa che deve essere meritata), etc….

Dopo questa premessa riesce difficile immaginare perché quest’erba ebbe quel nome, a meno che non si fosse  trattato di una specie che per il suo utilizzo richiedeva, essendo sporca di terra o di altro, un accurato lavaggio. Così non è, perciò la risposta alla domanda contenuta nel titolo è no e già vedo la delusione di chi nello sporcacciona, traduzione di scamòsa,  aveva colto un significato morale ben più pesante di quello fisico…

Per motivarlo debbo fare presente che col passare del tempo l’originario gerundivo latino vide scemare l’idea del dovere ed addirittura ribaltarsi la sua

La pianta che divenne bicchiere della Madonna

NOMI DI ESSENZE VEGETALI TRA SACRO E PROFANO (4)

Lu bicchièri ti la Matònna

  

di Armando Polito

Nomi italiani: bicchiere della Madonna, convolvolo, vilucchio

nome scientifico: Convolvulus althaeoides L.1

nome della famiglia: Convolvulaceae

Il nome dialettale e il primo di quelli italiani sono, cosa inconsueta soprattutto per il primo, di formazione relativamente recente, dovendo la loro nascita anagraficamente documentata alla creatività poetica (o rielaborativa?) dei fratelli Grimm (XIX° secolo). Nella fiaba 207, infatti, la Madonna, stanca ed assetata promette ad un carrettiere, il cui carro che trasporta vino si è impantanato, di trarlo fuori dalla spiacevole situazione a patto che le offra un bicchiere di vino. Il carrettiere le fa notare che manca un bicchiere, ma la Madonna coglie un fiore del convolvolo, che somiglia ad un calice, e lo porge all’uomo perché glielo riempia. Così la Vergine si

Tuglie, i luoghi

di Elio Ria

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Luoghi cari, vissuti, ricordati…

La stazione,  luogo di partenze e arrivi, con il sole a stendersi sui binari e fra le case cubiche bianche. Locomotive lente, littorine verdi per un rumore di modernità.

La biblioteca, minuta, silenziosa.

Furneddhu, il passato che resiste alla stravaganza e imperiosità del presente.

Palazzo Venturi, memoria della nobiltà.

La Chiesa matrice: c’è sempre una chiesa che identifica un paese.

Alberi di Pino, l’iimobilità del ricordo di una collina.

Piazza Garibaldi, centralità di un’appartenenza.

Montegrappa, la collina verde e rocciosa dove i massi e i pini concludono sogni.

Tuglie, un paese, un luogo umile, senza superbia,  espressione di un sud sincero e amaro e dolce.

Nardò. Nello scrigno di Sant’Antonio Abate

di Massimo Negro

Era da tempo che meditavo di andarci, ma non c’era mai stata occasione e non ne conoscevo l’ubicazione. Mi era capitato di leggere qualcosa a riguardo, gironzolando tra i miei libri di storia ed arte sulla nostra terra, ma soprattutto ero rimasto affascinato dalla foto di un affresco di un maestoso santo-cavaliere.

Devo dire grazie all’amico Nestore, che informandomi che da li a pochi giorni in quel luogo si sarebbe tenuta la tradizionale focara di S. Antonio Abate, se alla fine mi sono messo in macchina, ci sono arrivato e ho avuto modo di visitare uno dei più bei patrimoni storico-artistici purtroppo non valorizzati del nostro Salento.

La chiesa-cripta di S. Antonio Abate nelle campagne di Nardò, detta anche S. Antonio “di fuori”, per distinguerla dal convento di S. Antonio presente all’interno della città.

Ci si arriva agevolmente se si conosce l’ubicazione visto che, come nelle nostre “migliori” tradizioni, non vi sono indicazioni. Dopo aver lasciato la strada che da Nardò conduce verso la zona industriale e la statale per Lecce si percorre un breve tratto di strada campestre, sino ad incrociare sulla sinistra l’antica masseria Castelli-Arene con la sua bella e turrita torre colombaia.

Dopo qualche decina di metri, accanto ad una casa di campagna si intravede su un pianoro una croce ben piantata in terra.

Nessun altro segno della presenza della cripta. Solo avvicinandosi al luogo, ad un certo punto compare un ampio scavo. E’ l’ingresso della cripta, nelle antiche fonti denominata ‘Santus Antonius de la Gructa’.

La chiesa è scavata nel blocco tufaceo e si accede senza alcun impedimento. Gli antichi monaci hanno infatti scavato dei gradoni che portano verso l’ingresso della cripta, quasi a formare una sorta di vestibolo a cielo aperto che scende per oltre due metri al di sotto del piano della campagna.

Entrare nella cripta è come entrare in grande scrigno che nasconde un tesoro di cui si ignora l’esistenza. Si rimane estasiati dalla bellezza del ciclo pittorico presente su tutte le pareti della cripta. Il tempo e l’incuria hanno posato la loro pesante mano ma la sensazione di incredulità dinanzi a quello che è possibile ammirare, anche ai nostri giorni, è reale e intensa.
Soprattutto è forte il contrasto tra la bellezza della cripta e la brulla campagna che la circonda.
Nei pressi sorge ora una casa, ma immaginiamo come potesse essere lo stato dei luoghi secoli addietro. Silenzio e solo silenzio attorno. E la mano di un monaco che creava il capolavoro.

Il pavimento è regolare ed è in terra battuta. La cripta ha un impianto rettangolare senza alcuna significativa irregolarità nello scavo. Anche il soffitto è tendenzialmente piano, anche se basso.

L’asse liturgico del sito è orientato in direzione Est-Ovest, con altare addossato alla parete orientale. Un gradino-sedile, in parte interrato, corre ai lati dell’altare, lungo la parete a sud e parte di quella opposta. L’ingresso è invece orientato a Nord.

All’interno, muovendosi da sinistra è possibile ammirare l’Annunciazione e ai suoi lati due Santi. Il primo, si ritiene San Francesco, il secondo Sant’Antonio Abate.

La parete successiva è suddivisa in tre riquadri, due laterali e uno centrale posto sopra l’altare. Nel primo riquadro, la Vergine in trono con Bambino. L’affresco centrale è la Crocifissione, anche se ormai poco visibile. Il terzo riquadro è occupato dalla figura di un Cristo benedicente alla greca. Soffermatevi sulla bellezza del viso e dei lineamenti che l’autore ha dato alla figura.

La parete successiva, quella più lunga che si para dinanzi entrando nella cripta, è suddivisa in cinque riquadri. San Pietro, un trittico di Santi anonimi, un Arcangelo e, nuovamente un Santo anonimo. Purtroppo lo stato degli affreschi non consente di risalire all’identità dei Santi a cui gli affreschi sono dedicati. Nell’ultimo riquadro della parete è presente l’affresco di San Nicola.

Nella parete successiva il bellissimo affresco dedicato a due figure di santi a cavallo, San Giorgio e San Demetrio.

Nell’ultima parete, a ridosso dell’ingresso, si trova la figura di San Giovanni Battista.

Il ciclo pittorico si può far risalire tra il XIII inizio e il XIV secolo. Alcuni elementi degli affreschi si ritiene siano stati aggiunti successivamente, quali ad esempio i motivi floreali. Considerando che le iscrizioni visibili sugli affreschi sono in latino, è lecito pensare che tale luogo fosse legata alla liturgia di rito latina e non greco.

E’ molto probabilmente l’unica cripta del medio-basso Salento in cui sono completamente assenti iscrizioni in lingua greca. Ai benedettini, a cui fu donato nel 1080 l’antico monastero greco di santa Maria di Neretum, si deve molto probabilmente la costruzione della cripta come segno, ancora ai tempi embrionale, di questo progressivo passaggio dalla liturgia greca alla liturgia latina. Infatti, nella zona sono diversi i siti che si possono far risalire alla tradizione greco–basiliana. Tra questi San Giovanni di Collemeto, S. Elia e la stessa prima citata Santa Maria de Neretum e diversi altri siti di preghiera.

L’abbandono, l’incuria e il vandalismo hanno già causato nel corso dei secoli molti danni. Il rischio di perdere questo splendido gioiello artistico, testimonianza del nostro passato e della nostra storia, rappresenta purtroppo una concreta realtà e un futuro, ahimè, imminente se le amministrazioni competenti e la proprietà del sito non provvederanno in tempi  brevi alla sua salvaguardia e valorizzazione.
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Per una visita virtuale al sito e ai suoi affreschi, nel video sono state montate le foto effettuate durante le mie visite alla cripta.

http://www.youtube.com/watch?v=DqJq5MDd1KY

http://massimonegro.wordpress.com/2011/12/05/nardo-nello-scrigno-di-santantonio-abate/

L’antichissimo rito del falò a Novoli, il più alto del Mediterraneo

Il rogo dei tralci di vite (sarmente) per la Fòcara di Novoli del Salento leccese

di Antonio Bruno

da http://www.industriadelturismo.com/falo-novoli-lecce/

 

«La Fòcara di Sant’Antonio», che si svolge ogni anno a Novoli del Salento leccese  dal 16 al 18 gennaio, registra dalle 80 alle 100mila presenze. In particolare nella tre giorni novolese del 2008 il flusso stimato delle presenze è stato di 80mila, nel 2009 di 100mila e nel 2010 di 95mila.  Il Sindaco di Novoli Vetrugno ha dichiarato: «Il gran falò che illumina la notte novolese è il segno d’identità di un popolo e di un territorio. Il percorso religioso da cui siamo partiti si è trasformato in un percorso turistico d’eccellenza particolarmente pregiato perché destagionalizzato e legato alla qualità del territorio e dei suoi prodotti. Il pellegrino, devoto al Santo, diventa il turista dell’enogastronomia e della cultura popolare». Ma è così che stanno davvero le cose?

gli ultimi ritocchi per la focara di Novoli del 2012 (ph Mino Presicce)

 

Le origini della Focara di Novoli

A Novoli nessuno sa quando si sia iniziato a riunirsi intorno al fuoco. In una nota della pro loco di Novoli si legge:
“la prima fonte scritta risale al 1893 in quell’anno “La Gazzetta delle Puglie” ricorda che il falò, a causa della pioggia non si accese. Secondo alcune fonti, nel 1905 una nevicata abbondante imbiancò il falò alla vigilia della festa.

Lo studioso di tradizioni popolari F.D’Elia, in un saggio del 1912, parla della sua costruzione come “di un rito antichissimo”. Comunque lo stesso D’Elia non scrive quanto sia antico e neppure a quanto tempo indietro c’è necessità di spingersi.

la focara di Novoli del 2012 (ph Mino Presicce)

 

La focara del Sud Est istituita da un Veneziano?

Sempre la Pro Loco di Novoli in una nota scrive: “L’origine della fòcara è materia controversa tra gli studiosi. Pare si faccia risalire intorno al secolo XV, quando ci fu una presenza veneziana a Novoli che esercitava il commercio sulla produzione locale di vino, olio e bambagia, e gestiva di un centro di allevamento di cavalli (La Cavallerizza).”
La presenza di commercianti veneziani a Lecce è ancora verificabile poichè costruirono nel Salento leccese anche i loro palazzi signorili; tra tutti, ricordo Il Sedile realizzato a Lecce in Piazza Sant’Oronzo nel 1592.
Di certo sappiamo che dal 1546 il feudo di Novoli conobbe un periodo di splendore sotto la casata dei Mattei, i quali fecero edificare il palazzo baronale e numerose chiese, fra le quali la chiesa di Sant’Antonio abate.

la focara di Novoli del 2012, La “catena umana” per passarsi le fascine e collocarle nella parte più in alto (ph Mino Presicce)

 

La foghera del Nord Est di Fulco Pratesi

Con grande interesse e meraviglia ho poi letto queste parole di Fulco Pratesi che ricordo a me stesso è il giornalista, ambientalista, illustratore  e politico italiano, fondatore del WWF Italia, di cui è ora presidente onorario:
“Di certo sappiamo che  nel Meridione i falò si incendiano sulle spiagge nella notte che precede il Ferragosto (15 agosto) e sono occasione per danze, cene all’aperto, tuffi collettivi notturni.
Nell’ Italia del Nord Est, soprattutto nel Veneto e nel Friuli Venezia Giulia, i falò si accendono invece nella notte dell’Epifania, tra il 5 e il 6 gennaio. Si tratta di una tradizione molto antica: prima ancora dei Romani, i popoli pagani festeggiavano in questo modo, dopo il solstizio d’inverno (21 dicembre) quando le giornate riprendono ad allungarsi, per invocare la benevolenza di Belenos (dio celtico del fuoco e del sole) e per allontanare gli influssi malefici. La tradizione di questi grandi falò non fu abolita dal Cristianesimo ed è giunta fino ai giorni nostri……
In tutti i casi i falò (in dialetto «foghera», «pignarul», «fugarisse», «focaraccio») servono soprattutto per far festa, per cercare di indovinare,  dall’andamento del fumo e delle faville,  come sarà l’anno da poco iniziato e banchettare con vin brulé (vino caldo aromatizzato con cannella e chiodi di garofano) e la tipica «pinza» (focaccia di farina di granoturco, pinoli, fichi secchi e uvetta).”
L’articolo di Fulvio Pratesi avvalora l’ipotesi che la focara di Novoli arrivi da Venezia! Non vi sembra?

tanti volontari per la focara di Novoli del 2012 (ph Mino Presicce)

 

La focara che facevo io alle case popolari di San Cesario di Lecce

“Signora nni tai ddo asche pe lla Fòcara??” (traduzione Signora ci regali un po’ di legna per fare un bel Falò?). Ero un ragazzino con i calzoni corti e con i miei compagni di giochi, tutti regolarmente “di strada”, bussavamo alle porte delle case. Altro che “scherzetto o dolcetto” di memoria anglosassone con al loro Halloween, noi lo scherzetto lo facevamo al freddo organizzando la sua fine attraverso una bella Fòcara (Falò).
Tutti quanti impegnati con le gambe livide di freddo a “carisciare asche” (traduzione: trasportare la legna) che accumulavamo nel campo non coltivato che era di fronte al rione delle “Case Ina” (oggi la chiamano 167 come fosse una macchina dell’Alfa Romeo). A seconda della generosità delle signore “la fòcara” diveniva più o meno alta. L’opera di noi bambini era allietata da teorie costruttive per rendere più alta e stabile la Pira e dall’ ansia per l’attesa dell’accensione.
Tutte le persone delle “CASE INA”, che avevano contribuito con la loro legna a quella splendida manifestazione di energia e luce, si avvicinavano al fuoco, si scaldavano e si raccontano cose che non avevano avuto modo di raccontarsi sino ad allora.
Persone che non si frequentavano abitualmente, avevano l’opportunità di parlarsi, di scambiarsi carezze che comunicavano, che provocavano meraviglia e curiosità.
Uno scialle sulle spalle delle donne e il braciere in mano,…quello di rame dura poco, quello di bronzo dura di più… La paletta e…”attento a non scottarti” che la brace brucia, per metterne dentro al braciere e aggiungere in un secondo tempo la “carbonella” ricavata dal guscio delle mandorle, o il carbone fossile.
Tutte le “CASE INA” intorno al fuoco, senza distinzione di età, sesso, ceto sociale e religione. Tutti sono ammessi vicino al fuoco, tutti sono attratti da quel rimbalzante falò che accende l’emozione e scalda i cuori.

la focara di Novoli del 2011 (ph Mino Presicce)

 

Una fòcara per avvicinarsi a casa

E se oggi fossi da qualche parte del mondo e volessi assaporare un po’ di odore di Salento leccese? Magari in preda alla nostalgia, sarei tentato di convincere gli indigeni a costruire un grande falò, per sentire il calore di casa mia, lontano come sono, da qualche parte del globo.
Quel veneziano che commercia i vini di Novoli, io me lo immagino così. Fa buoni affari, acquista il vino del Salento leccese e lo imbarca a Brindisi o a San Cataldo, e lui 500 anni fa è sempre li, per non perdere gli affari, mentre Venezia e la sua umida laguna sono terribilmente lontane.
Il ricco nord est di 500 anni fa che, per fare affari, staziona nel Salento leccese e i veneziani ci costruiscono i loro “Sedile” e le loro residenze e lo fanno rispettando lo stile che hanno a casa loro, lo stesso identico stile della Repubblica di Venezia!

la focara di Novoli del 2011 (ph Mino Presicce)

 

Una proposta al Sindaco di Novoli

Peccato che nessuno sappia come si chiami questo commerciante di Venezia, peccato che nessuno abbia raccolto le sue confidenze e ce le abbia tramandate, per sapere se era innamorato di una bella donna di  Venezia e soffriva per la sua lontananza, oppure se si era dato al commercio lontano da casa per dimenticare un amore che l’aveva fatto soffrire.
I cittadini di Novoli del Salento leccese non ricordano più il nome del commerciate veneziano che amava il fuoco e i cavalli. Dimenticato per sempre.
Strano destino per quelli che scoprono il fuoco o che ne propagandano l’uso. Nessuno ricorda chi è riuscito ad accendere il primo fuoco e nessuno ricorda chi sia l’uomo di Venezia che ha propagandato il fuoco “la focara” di Novoli che porta tanta ricchezza a questa cittadina.
Caro Sindaco Vetrugno visto quello che la città ricava dalla Fòcara,  perché non finanzia una ricerca finalizzata a fare chiarezza e, se emergessero delle novità che comportino la scoperta del nome del misterioso commerciante veneziano, magari proporre alla cittadinanza, visti i grossi affari per tutti,  di fargli un bel monumento? Non le sembra sia il caso?

ph Mino Presicce

 

Bibliografia
La focara di Novoli http://www.cisonostato.it/italia/puglia/3,26,13/viaggi/la-focara-di-novoli/2369/1.html
Fulco Pratesi, Il falò dell’Epifania: lo sapete perché si brucia la Befana?
Antonio Bruno, Un fuoco per illuminare la curiosità accendere le emozioni e scaldare i cuori. http://www.freeonline.org/articoli/com/cs-48645/Un_fuoco_per_illuminare_la_curiosit_accendere_le_emozioni_e_scaldare_i_cuori
http://www.iltaccoditalia.info/public/files/focara2011_scheda%20artisti_16%20gennaio.doc

Oscar Kokoschka a Gallipoli

di Lucio Causo

Oscar Kokoschka nasce a Pochlarn, sul Danubio, il 1° marzo 1886. Dal grande musicista Mahler, con la di cui moglie Alma aveva avuto una relazione,  prenderà l’espressionismo dei suoi eccellenti spartiti che si staccano decisamente dalle vecchie relazioni tonali per divenire, più tardi, il motivo  innovatore della dodecafonia.

Nei primi anni del ‘900 Adolf Loos procura dei lavori a Kokoschka, che disegna e dipinge ritratti a Berlino facendosi notare dai collaboratori della rivista Der Sturm che lo accolgono nel gruppo redazionale.

   Nel 1910 espone alcuni quadri nella capitale tedesca insieme al gruppo di Blaue Reiter (Cavaliere Azzurro). Le sue immagini sono diafane e nascondono tormenti misteriosi che dissolvono il barocco viennese per inserirsi nelle nuove formule dell’espressionismo.

Nel 1919 viene chiamato ad insegnare nell’Accademia di Dresda, ove rimane fino al 1924. Nel periodo fra le due guerre ha già cominciato i suoi viaggi durante i quali dipinge soprattutto paesaggi. Dedica buona parte della sua attività anche alle incisioni.

Nel 1934, dopo la condanna della sua opera, come arte degenerata, dal regime nazista, Kokoschka si trasferisce a Praga e vi rimane fino al 1938, anno in cui è costretto a rifugiarsi a Londra, città che diviene la sua dimora fino al 1953. Successivamente si trasferisce in Svizzera, ed è qui che si spegne nel 1980 all’età di 94 anni.

G. Carlo Argan sostiene che il problema di Kokoschka è quello del segno, inteso come trascrizione immediata di uno stato sensorio, affettivo, istintivo.

Nel 1984 alla Mostra Permanente di Milano sono stati esposti i fogli da lui disegnati ed acquerellati nel periodo dal 1906 al 1924, insieme ai cento fogli, provenienti dai musei italiani ed americani, di Gustav Klimt che ritrae le donne della nuova epoca e gli uomini con barba ad appena 16 anni.

La nuova oggettività tedesca, la moda-arte, l’erotismo grafico e il verismo decorativo di scuola viennese compaiono come cronaca del tempo e del costume in una stimolante, eccezionale esposizione, della quale Giorgio Mascherpa su Avvenire di gennaio del 1994 dà ampia notizia.

Kokoschka intervistato da Piero Girace per il Roma, nel gennaio del 1959, afferma che “l’arte moderna potrà essere superata dalla civiltà meccanica, mentre l’arte accademica ritarderà la sua distruzione poiché l’accademia è costituita da elementi disciplinari difficilmente costretti alla demolizione. L’arte non può staccarsi dalla tradizione, essa è come un essere vivente che ha i suoi genitori, i quali devono essere rispettati nella loro continuità di idee e di pensieri rinnovati”.

Kokoschka visita il Salento negli anni successivi al secondo dopo guerra e, da Gallipoli, riporta la visione fantastica del tramonto sulla perla dello Ionio, filtrata dall’istintismo di un grande drammaturgo.

Percorrere gli antichi passi pizzicati salentini…

La Via del Ragno

 
Itinerario tematico e culturale con visite guidate nel Salento

 

di Daniela Bacca

Immagine di una tarantata

Il Salento è tarantola che morde l’anima e il calcagno, pizzica il cuore e il tamburello, balla le danze dell’amore e del dolore. “Terra del Rimorso“, dove i riti del sacro e del profano avvolgono o rompono la rete del veleno iniettato da ragni, scorpioni e serpenti, inganni, delusioni e tradimenti. Voci, suoni, balli e culti richiamano miti arcaici, storie di ex voto e di guarigioni, divinità taumaturgiche e santi con serpenti in mano, racconti di duro lavoro agreste e di tormentati amori impossibili, pietre tarantolate ed affrescate, luoghi alchemici umani e religiosi, canti disperati, ritmi ed orchestrine popolari.

Luigi Stifani

Nasce il desiderio di percorrere gli antichi passi pizzicati salentini e di tessere un itinerario tematico, inedito e culturale, che cuce e segue il filo lungo e intorno le vie e i siti primitivi e autentici legati alla tradizione del tarantismo e delle tarantate, della pizzica e della musica locale, di San Paolo e delle Entità guaritrici. Protagoniste delle visite, in compagnia di una guida turistica, erede e custode del viaggio magico e del pellegrinaggio religioso, sono le testimonianze identitarie del patrimonio

salentino: borghi antichi, cappelle e chiese votive, cripte ipogee, dipinti e sculture, feste religiose, processioni e riti propiziatori, documentari audiovisivi, mostre e musei, concerti e manifestazioni artistiche e musicali, antichi diari di viaggio.

Particolare della tela settecentesca raffigurante San Paolo e il tarantolato dell’artista Saverio Lillo

Galatina custodisce nel suo prezioso ed aulico centro storico l’antica cappella di San Paolo, il Santo protettore di coloro che sono stati pizzicati da animali velenosi, dipinto in una straordinaria tela settecentesca con gli attributi del serpente, del ragno e dello scorpione. Qui, il 29 giugno, i malati di tarantismo giungevano, nel luogo sacro denominato anche “cappella delle tarantate” per implorare la grazia della guarigione, danzare sfrenatamente seguendo il ritmo dei suonatori di tamburello e bere l’acqua miracolosa del pozzo adiacente, oggi ubicato all’interno del Palazzo Tondi-Vignola. L’iconografia di San Paolo, ripresa dal suo episodio prodigioso a Malta, ma anche dalla simbologia di divinità pagane, è diffusa in altri centri urbani e rurali di Terra d’Otranto, che richiamano alla memoria storie antropologiche e mitologiche di grande fascino, come nella nota cittadella rinascimentale di Acaya. Nel villaggio di Soleto si trovano tantissime immagini scolpite e dipinti del Santo, come una statua in cartapesta collocata nella cappella a lui intitolata, affreschi votivi, ed una tela all’interno della chiesa matrice, ed il piccolo Comune di Seclì, nel cui stemma compare il serpente, celebra come Santo patrono proprio San Paolo, la cui effige è presente nella chiesa di Santa Maria delle Grazie. Nel basso Salento, ancora, si trovano due antichissimi siti di notevole importanza, legati al culto del tarantismo e del Santo dei serpenti: a Giurdignano sorge su uno sperone roccioso il menhir di San Paolo, sotto il quale vi è una grotta bizantina in cui è presente l’affresco raffigurante il Santo, la rete e la taranta, ed a Patù, nella chiesa di S. Maria di Vereto, è affrescato insieme al serpente, uno scorpione, e due serpenti a caduceo.

affresco raffigurante San Paolo, la rete e la taranta, all’interno della piccola cappella rurale ubicata sotto il menhir, dedicato al Santo, a Giurdignano

La Provincia di Lecce venera, tra l’altro, altri Santi con capacità taumaturgiche e guaritrici legati alla tradizione del tarantismo, come San Rocco e San Donato. Il primo viene festeggiato solennemente il 15 e 16 agosto, nella località di Torrepaduli; i fedeli si recano nella sua piccola Cappella Santuario per baciare il simulacro ligneo e nel piazzale, al ritmo dei tamburelli, si svolge la pizzica della “danza dei coltelli”. Il comune di Montesano Salentino venera San Donato, protettore e guaritore del “morbo sacro” caratterizzato, similmente al tarantismo, tra i diversi sintomi, dall’offuscamento della ragione ed attacchi di isteria. In questo piccolo centro del Sud Salento vi è la cappella intitolata al Santo, edificata alla fine del 1700 su una precedente costruzione religiosa sempre a lui dedicata, dove i fedeli si recavano per chiedere la grazia. Nei giorni della festa del 6 e 7 agosto, gli infermi di San Donato partecipavano alle processioni seguendo la statua in giro per il paese, inginocchiati o sdraiati per terra.

Testo, progettazione e realizzazione dell’itinerario e della visita guidata a cura di: Daniela Bacca (Guida turistica regionale di Puglia, esperta dell’identità salentina, progettista di percorsi ed eventi culturali)

Info e prenotazione per circuiti tematici e servizi guida: e-mail daniela.bacca@libero.it – tel. 340/4054179

Guardare tutto a filo di zolla

RIFLESSIONE DEL PROTAGONISTA DI UN ROMANZO-SAGGIO

GUARDARE TUTTO A FILO DI ZOLLA

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain e Nino Pensabene

(…) Ma a proposito di politica, di leggi e di poltrone, qual è la realtà agricola del Salento? Me lo chiedo con lo struggimento di un innamorato che sa la sua amata maritata male, e mi torna alla mente l’immagine di don Filippo mentre batte col dito sul tacco della scarpa e mi dice: “Il Salento è questo: la parte più bassa dello stivale, il tallone, costretto a un impatto perenne con la zolla. Per conoscerlo non basta guardarlo dall’alto: occorre posare la guancia fra l’erba e guardarlo a filo terra… solo così ne scopri la profondità delle rughe…”.
Questa considerazione l’ho sempre ritenuta il mezzo migliore e forse insostituibile per accedere a una ragionata valutazione del problema, ma ogniqualvolta la rivango mi dico ch’è un consiglio che meriterebbe una più ampia collocazione. Esulando dalle problematiche agricole e dai suggerimenti geografici di una regione, dovrebbe essere scelto a metro e rimedio universale di un male che tutto e tutti sta minando nella dissociazione di ogni valore, nello spacco profondo delle incomprensioni e delle solitudini.

Incomprensioni e solitudini che nascono appunto dalla non conoscenza che l’uomo ha dell’uomo, dal rifiuto a curvarsi sul cammino degli altri e viverne in fraternità le serpentine.
Guardare il tutto a filo di zolla può essere il mezzo più sicuro per non scoprirsi estranei al mondo, e anch’io, più volte, fiaccato da un rimorso di incomunicabilità, ho desiderato di ritrovarmi steso fra l’erba e trasformarmi in un granello di terra per meglio penetrare nei talloni di chi passa e testimonia la vita attraverso le orme.
Per un gioco di rimbalzo, ogni volta mi attardo a immaginare di quanta pienezza deve essere stata la sorpresa di Robinson Crusoe quando, sulla spiaggia della sua isola deserta, scoprì la presenza dell’uomo attraverso le impronte lasciate da piedi sconosciuti. Mi spingo a ricercare una concorrenza di significazioni fra i solchi delle mani e quelle dei piedi e mi dico che se, nei secoli, ci si è ostinati a ricercare rivelazioni nell’apertura del palmo, uguale indagine poteva benissimo essere incentrata sulla pianta del piede. Forse non una divinazione su ciò che ancora è da bruciare, ma una conferma su ciò che si è stati, forse anche sui fluidi carpiti alla terra nella pressione dell’impatto.
“Mostrami il piede che hai e ti dirò come hai camminato”. Una frase da battage che potrebbe lanciare l’idea di un nuovo studio sulle tendenze e le rispondenze dell’uomo, sulle sue possibilità e i suoi condizionamenti. Ma c’è da prevedere che in pochi se ne occuperebbero e la stessa frase finirebbe con l’essere assunta da qualche lavoratore di pelli, a sostegno consumistico di una scarpa più o meno comoda.
Il ricordo della scarpa mi annulla l’idea di un’analisi umana attraverso il piede e mi riempie lo sguardo di piante e dita deformate, costrette dalle mode che alle zeppe fanno succedere i tacchi a spillo, ai tagli quadrati le punte a triangolo.
Mi accorgo sempre più che lo studio dell’uomo porta inevitabilmente alla condanna della società, e la stessa realtà della vita s’imbastardisce, si adatta alle forme coatte dei modelli voluti o, a volte, semplicemente immaginati.
L’uomo spesso guarda alla realtà come a una dimensione sbagliata, poiché nella sua presunzione si convince che la verità sia nelle sue ipotesi e non tiene conto che, la stessa, non può nascere da una o da cento ipotesi, ma da migliaia e migliaia di vedute diverse, e tutte le distanzia e tutte le annulla. Ma nessuno rinuncia a dirsene possessore e, appena acquisisce una delle sue tante parvenze, s’illude di una conquista totale e si ostina a vedere l’esile filo che marginalmente lo tocca come un solido ponte, viadotto personale che gli consenta l’accesso alla città dei suoi desideri.
Tutto un mondo di cercate suggestioni, come quelle di Santuzzu, un ragazzino sbrindellato che passava il suo tempo a raccattare fogli di carta straccia con la quale, pazientemente, si costruiva dei cannocchiali. A lavoro compiuto, vi inseriva dei ritagli di stagnola, e impiegava ore a guardare con un occhio solo e a lanciare grida di meraviglia per ciò che riusciva a vedere.
“Guarda”, mi supplicava eccitato, “c’è un mare e un bastimento meraviglioso!”
Per farlo contento, accostavo l’occhio al foro della carta, ma altro non riuscivo a vedere che un mucchio di stagnola ritagliata.
“E’ stupendo!”, affermavo restituendo il cannocchiale, e sorridevo della sua illusione bambina.
Ora mi accorgo che non dissimile è l’illusione che governa gli adulti e li gioca sul filo delle emozioni.
Se una differenza c’è, sta nel vizio acquisito dell’ipocrisia che inevitabilmente s’innesta nelle parole, deteriorando la stessa semplicità delle reazioni, suscitando in chi ascolta, non il sorriso indulgente, ma la risata ironica che, pur se comprende, non perdona.
Quella risata che si beccò un certo sottosegretario, sceso nel Salento a inaugurare la sede rimodernata di un istituto di suore.
Al termine della cerimonia, lo accompagnarono in corteo nella piazza grande del paese, dove, coincidendo l’annuale ricorrenza dei festeggiamenti a S. Antonio Abate, era già pronto il tradizionale falò.
Fin dal primo mattino, le donne erano affluite in processione, ognuna recando la sua fascina di sarmenti, raccolti nel proprio vigneto o chiesti in elemosina: una massa enorme di legna che gli uomini avevano sistemato in forma cilindrica, ponendovi in cima un fantoccio da bruciare a simbolo della rinnegazione del male.
Mentre sette ragazzi spingevano nella catasta di legna carte incendiate, le donne facevano cerchio, invocando a gran voce un marito sano e forte per le loro figlie; un cerchio che si slargò al primo divampare alto delle fiamme, cedendo il posto a un gruppo di vecchie, ieratiche nei loro scialli neri. Quest’ultime si diedero a lanciare nelle fiamme grani di vecchi rosari e manciate di sale, quasi evocassero, in un rito magico, delle forze
sconosciute, delle potenze misteriose rimaste sino a quel momento in esilio, oltre il muro delle superficialità quotidiane.
Quando il falò, sfavillando, si accasciò su sé stesso, ci fu una corsa sfrenata all’accaparramento delle braci che, trasportate nelle case con antichi catini di rame, dovevano servire a cuocere sottili fette di maiale, l’animale immondo che, a simboleggiare le tentazioni, viene raffigurato ai piedi del Santo.
Questa coreografia, un po’ paganeggiante, quasi legata a perpetuazioni ancestrali, piacque al signor sottosegretario. E poiché in ognuno di noi, almeno in certi momenti, riaffiora un desiderio di costruzioni poetiche, come regressione verso uno stadio d’infanzia, come rifiuto di quel cinismo innestato dalle forme sibilline della vita, o come disperazione del già perduto, si arrese alle seduzioni ambigue dell’illusione, proiettandosi al di fuori del razionale. Tanto che, al ritorno, transitando sulla camionabile per Taranto, che si snoda attraverso i poderi della vecchia riforma di Arneo, si trovò ancora intriso di umori vergini, ancora disposto a parcheggiare in sentimenti idilliaci. Ciò lo portò a ritenere falò di devozione anche i fuochi che le prostitute, rifugiatesi nelle case abbandonate della riforma, accendevano ai margini della strada per segnalare la loro presenza.
Il suo discorso, che nell’indice di quelle fiamme celebrava un popolo progredito ma saldo nei sentimenti di fede, mise a disagio la professionale stratificazione intuitiva del vescovo che gli sedeva accanto – e al quale era bastato un solo sguardo per un quadro sinceratore -, ma arricchì gli altri accompagnatori di uno spunto inatteso per brillanti conversazioni.
Tramutato in barzelletta, l’episodio rimbalzò di bocca in bocca, suscitando la risata grassa anche di chi, sulle illusioni di una certa politica, non è più disposto a ridere.
Io, più che ridere, sorrido sempre delle illusioni, anche quando, pungendomi il sospetto di una origine ipocrita, vorrei gridarne il pericolo o la vergogna. Forse perché considero l’illusione un’ombra dalla quale l’uomo non può disgiungersi, una incapacità congenita a essere sempre presenti e reali fra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere.
Questa mia disponibilità a sorridere di tutte le illusioni, potrebbe essere, dopo il doloroso sfaldamento della mia vita, l’unico punto fermo rimastomi; ma forse è un’illusione essa stessa, e se l’accetto e in qualche modo me ne compiaccio, è perché, se non un senso di superiorità mi dona, almeno mi costringe a un pareggio.
Riconosco ch’è sempre così difficile scoprirsi uomo pareggiato agli altri uomini, accettarsi unificato, se non nei pregi, nei difetti che ognuno di noi si porta in giro con naturalezza, come il neo che si può coprire ma non cancellare, come il pelo che si può radere ma non eliminare.
Ognuno di noi è portato a sentirsi diverso, ma c’è sempre un’inconfessata superbia nell’amarezza di dichiararsi isole, poiché in ciò s’innesta un inconscio desiderio di superiorità, anche se la stessa, una volta inventata, ci disarma, ci umilia nella confusione di un’ellittica fatta di bene e di male.
Mi accorgo che la forgiatura di queste presunzioni porta, per contrasto, all’emersione delle proprie miserie; mi ripeto che, nell’essenza dell’uomo, vittoria e sconfitta s’incidono l’una nell’altra e che è un lavoro ingrato andare alla ricerca di un basamento di granito sul quale appollaiarsi e dal quale decidere una collocazione.
Il gioco delle autovalutazioni è pericoloso, ti porta a tuffi improvvisi in un tempo avulso dalle cronologie del reale, un tempo da fondale marino: tutto appare sospeso, ingigantito, e anche il guizzare dei pesci può essere ingannevole, convulso, come una danza disperata fra il nulla e l’infinito.
E’ proprio nella convergenza battagliera di questi due termini estremi che cerco di innestare il mio equilibrio, ma non per tentare la radiografia di una mia dimensione, ma per scavare la ragione delle cose, riuscire a penetrare nei perché delle reazioni, nel come
delle conclusioni.
Un discorso complicato che sgomitolo nelle notti di veglia quando, accovacciato di fronte a una tela ancora bianca, vago nella ricerca di una sintesi che mi aiuti ad accenderla di colori. Un discorso che non potrei convertire in parole, poiché quest’ultime le ritengo, oltre che mezzo povero, elemento imbastarditore del pensiero. Con quella loro compattezza infeltrita, mi riportano alla mente i pezzi di muschio che, per ordine del parroco, nell’approssimarsi del Natale, andavo a staccare dai tronchi degli ulivi e che, spruzzandoli d’acqua, disponevo a più strati in un cesto. Servivano a creare, nel presepe, l’illusione di un prato, sul quale sospendere l’illusione della scena.
Sì, le parole sono una pianta parassita sul tronco del pensiero, né le assolve il fatto che, a volte, lo vellutano, poiché appunto vellutandolo, lo camuffano, ne vietano la genuina trasmissione.
Forse per questo il silenzio risulta più pieno, più libero, più significante; e inclino a credere che, più che un lungo discorso, può essere più valido un breve sguardo. Me ne sono accorto tutte le volte che ho cercato di sintonizzarmi con il prossimo attraverso il dialogo e ne sono uscito deluso, forse per quella mia cronica incapacità a manovrare i selettori, a fermarli sulla frequenza giusta e nel momento opportuno. Colpa di un’inquietudine che mi blocca nel terrore di assistere alla pietrificazione dei verbi, alla loro trasformazione in roccia, quella roccia…

Stralcio del romanzo “I SASSI DEVIATORI”, 1978

Sulle tracce della marìula

di Armando Polito

Rispondo alla gentile richiesta avanzata da Antonietta Cesari il 10 u. s. in margine ai commenti relativi a Curarsi con la cicoria selvatica di Antonio Brun, e lo faccio con un post dedicato, perché l’argomento, anche per i dubbi residui, merita un approfondimento che richiede molto di più dello spazio di norma concesso alla semplice risposta ad un commento.

Dal vocabolario del Rohlfs: marìula (Casarano, Novoli, Parabita, Specchia, Uggiano La Chiesa), marìvala (Alessano, Corsano), mariòla (Lizzano, Manduria, Maruggio; maròjele (Ceglie Messapico). Specie di cicoria selvatica, Hedypnois tubaeformis. [greco tà amaròulia=lattughe]. Vedi marògghie.

Marògghie (Mottola), maròjele (Ceglie Messapico), marùgghiele (citato per Martina Franca da una tesi di laurea manoscritta del 1940, con l’avvertimento che contiene parecchi errori), specie di cicoria selvatica, radicchio; [greco amaròulion=lattuga]; vedi marìula.

Io non so da dove il Rohlfs abbia tratto la voce greca (nel primo caso al plurale, nel secondo al singolare). So solo che in greco esiste maròulion=lattuga1 , voce che al maestro sicuramente non poteva sfuggire. È, perciò, con grande umiltà che per la voce in questione ipotizzo da parte sua  un tutt’altro che incomprensibile, ma non necessario, incrocio tra maròulion e amàru=amaro [nel Leccese a Salve, nel Tarantino ad Avetrana e nel Brindisino a Carovigno e a Mesagne; a Nardò è maru, ma la voce di cui mi occupo oggi (marìula) a quanto ne so non esiste, anche se il Rohlfs registra un suo quasi omofono mariùla=coccinella, che, però, non ho mai sentito].

Per quanto riguarda l’identificazione, stranamente, almeno per me, succede quanto già verificatosi per l’etimologia. Non esiste in botanica, per quante ricerche abbia potuto fare nel poco tempo a disposizione, una Hedypnois tubaeformis; però, proprio la seconda parte del nome scientifico (che alla lettera significa a forma di trombetta) mi ha consentito di ipotizzare che probabilmente la nostra pianta è la Hedypnois rhagadioloides (L.) F.W. Schmidt, in italiano radicchio tubuloso, radicchio pallottolino (nella foto2).

Ulteriori ricerche mi hanno fatto conoscere l’esistenza di una sua subspecie, la

Quella sigaretta a zio D.

Grotta Verde di Andrano

Quella sigaretta a zio D., involontario testimone di un’assenza scolastica ingiustificata

di Rocco Boccadamo

Zio D., oltre ad aver sposato una sorella di mia madre, era anche mio padrino di battesimo, per tale ragione gli ero affezionato, diciamo così, in modo particolare e pure lui aveva un occhio di riguardo per me.

Contadino dalle fasce, sin da piccolo si era speso totalmente nel lavoro, sia al paesello, sia e specialmente in prolungate campagne d’attività a Brindisi, presso una famiglia di proprietari  terrieri, in seno alla quale, man mano, era divenuto collaboratore di fiducia per svariate funzioni: assistenza ai vigneti, raccolta e trasformazione dell’uva, conservazione del vino, cura degli uliveti e molitura dei frutti.

Insomma, zio D., pur essendosi formata una famiglia e arrivato ad avere un discreto numero di figli, passava la maggior  parte dell’anno a Brindisi.

A prescindere dalla sede del suo lavoro di contadino, agricoltore, frantoiano, va sottolineata la grandissima mole di operosità a cui egli si sottoponeva, senza orari, oltre ogni logica misura, d’altro canto, in quei tempi, non esistevano i mezzi moderni che alleviano notevolmente le fatiche nei campi: in sintesi, si “ammazzava” di lavoro.

E non è che, in caso di qualche acciacco, da cui, purtroppo, iniziò a essere toccato già da giovane, si recasse dal medico o in farmacia, i malanni, così come venivano, dovevano passare, da soli, ma, conseguentemente, a lungo andare, il suo fisico finì col risentirne.

E, saltuariamente, incappava anche in pesanti debilitazioni, che lo costringevano a sottoporsi a serie terapie e cure.

Sotto questo regime di vita e di attività lavorativa, praticamente già prima dei 50 anni, le sue forze finirono con essere ridotte e, in un certo senso, zio D. arrivò a scontare l’eccessiva operosità tenuta da ragazzo e da giovane con il riposo impostogli.

Cessarono anche le trasferte a Brindisi, calarono le entrate per il bilancio famigliare, sebbene, nel frattempo, i figli fossero un po’ cresciuti e la moglie, quando c’era da svolgere qualche lavoro, non si tirasse indietro: per fortuna, forse, a zio D. fu riconosciuta una modesta pensione d’invalidità.

°   °   °

A poco più di 15 anni, presi a fare il filarino a una ragazza quasi mia coetanea, bella figliola di buona famiglia abitante in un paese vicino, R., e, pur d’incontrarmi con lei, nel pomeriggio, finiti i miei compiti scolastici, non esitavo a inforcare la bicicletta e mi recavo a casa sua, col pretesto di aiutarla nello studio.

Diventò una sorta di soccorso alla famiglia, il mio, giacché la madre di R., avendo capito che l’aspirante alla figlia era svelto e bravo, non esitava a chiedermi di dare una mano, per far capire le declinazioni del latino e le espressioni aritmetiche, anche alla sua secondogenita, frequentante le prime classi della media.

Ricordo, fra l’altro, che, in un’occasione, la premurosa genitrice giunse a dirmi: “Guarda, se fai entrare nella testa di M.R. il meccanismo di queste robe, io ti regalerò una penna stilografica, vedi è un’Aurora 88, non nuovissima, tuttavia perfettamente funzionante”.

Fu la prima volta, per me, di essere protagonista di una sorta di baratto, uno scambio in natura didattico culturale, ad ogni modo quell’aurora 88, che mai e poi mai avrei potuto procurarmi diversamente, divenne mia.

Ma io pensavo a R., ben più che di insegnare matematica e latino alla sorellina e, man mano che passava il tempo, crescevano pure le idee e l’iniziativa.

Nel 1958, proposi a R. di trascorrere mezza giornata insieme, da soli, clandestinamente, a Lecce, località dove lei si recava quotidianamente per frequentare la scuola superiore, mentre io studiavo a Maglie; di ritagliarci una mattinata lì, ovviamente marinando le lezioni, da parte mia, anziché scendere a Maglie dalla solita corriera che prendevamo entrambi, avrei proseguito sino a Lecce, oltretutto il controllore delle Sud Est, con gli anni divenuto amico, non mi avrebbe fatto pagare neppure la differenza di biglietto e poi, all’orario di sempre, ce ne saremmo ritornati alle rispettive case.

Concordammo, come giorno per l’avventura, il 2 di maggio, che, oltre ad essere successivo alla festa nazionale del lavoro, era l’indomani della festa del santo patrono nel paese di R., festa che, secondo copione, presupponeva di andare a letto tardissimo, dopo aver per di più dedicato poco tempo allo studio.

Così avvenne.

Arrivati nel capoluogo salentino verso le 7,45, c’era il problema di trascorrere l’intervallo sino all’orario d’ingresso a scuola, in un posto nascosto, riservato, in modo da non essere visti, da compagni o professori di R., sicché pensammo di infilarci per qualche tempo nel cortile di un vicino palazzo.

Quindi, via verso un cinematografo, il “Santalucia”, non molto distante, in cui si effettuavano programmazioni anche di mattino, giustappunto le matinée, è ancora vivo il ricordo, quel giorno si dava un film di grido americano del 1956 “L’uomo che sapeva troppo” con due famosi attori, James Stewart e Doris Day, la pellicola conteneva una pregevole colonna sonora, nel cui ambito era dato di ascoltare una stupenda canzone “Whatever will be, will be”, in italiano, “Che serà, serà” eseguita dalla personale voce dell’affascinante Doris Day.

Senza essere un appassionato di musica e di canzoni, quelle antichissime strofe, per giunta nel lessico anglosassone semisconosciuto e la musica della canzone mai mi sono uscite di mente.

A dir tutta la verità, R. e io, guardavamo sì le sequenze del film e ci gustavamo la canzone di Doris Day, però, nel buio o quasi della sala cinematografica, attendevamo anche a qualcosa d’altro, secondo le abitudini e nei limiti propri di quei tempi e in linea con il genere delle spinte affettive correnti fra ragazzi e giovani d’allora.

Recava il calendario, come anzi ricordato, l’anno 1958 e in estate, filarino con R. a parte e un po’ posto in ferie, avvenne un evento eccezionale, giusto in concomitanza con i campionati mondiali di calcio che segnarono l’esplosione della fama del grande e mitico Pelé.

Un altro mio zio, A., il quale prestava servizio in Polizia nel Friuli, reduce da un incidente di lavoro con la moto e posto in convalescenza, pensò di trascorrere il periodo di riposo e di riabilitazione al paesello; nell’occasione, volle portare con sé la fidanzata che, i genitori, non fecero però scendere al sud da sola, bensì in compagnia di una giovane cugina e di uno zio di quest’ultima.

Da parte mia, non persi tempo, trascurando completamente i mondiali di calcio, m’intruppai subito nella comitiva dei friulani, lo zio A. era il fratello piccolo di mia madre, si passava con me appena otto anni, gli ero legato, in un certo senso presi a fare tutto quello che facevano gli arrivati, fra cui trascorrere parte delle giornate in riva al mare, tenendo compagnia, per non farla “annoiare”, alla biondissima cugina, T., alla Marina di Andrano, nei pressi della caratteristica Grotta Verde, dove lo zio D. menzionato all’inizio aveva una casetta di villeggiatura e dove, in quel periodo, in assenza della moglie e dei figli trasferitisi temporaneamente in Basilicata per coltivarvi il tabacco, s’era spostato con i suoi acciacchi.

Ebbe a rivelarsi indubbiamente bella, quella vacanza, in tutto diversa dalle precedenti, io non lasciai un istante la giovane cugina, anche se la medesima mi aveva confidato di avere un ragazzo, dalle sue parti. Con zio D., nel ruolo di spettatore silenzioso di parole, contatti e diatribe fra il nipote e la giovane del nord est.

Finito il periodo, la comitiva, ovviamente, se ne partì dal paesello e io ripresi i contatti e i rapporti con R.

Iniziò il nuovo anno scolastico, s’avvicinò velocemente la primavera; bastò appena uno sguardo d’intesa affinché R. e io ci determinassimo a ripetere la giornata, la mattinata d’evasione in quel di Lecce.

Nella seconda edizione, però, niente cinematografo, bensì semplicemente una passeggiata verso le campagne che, all’epoca, erano a portata di mano rispetto all’abitato, alle scuole e al centro cittadino.

Così, trascorremmo una gradevole parentesi di due – tre ore di tranquillità fra prati fioriti, scogli e fazzoletti di terra verdeggianti, dopo di che ci dirigemmo verso la stazione delle autocorriere per il ritorno a casa.

R. salì per prima sul mezzo e mentre, a mia volta, mettevo piede sull’autobus, bastò un attimo perché scorgessi, in prima fila seduto immediatamente dietro il conducente, un volto familiare, notissimo, si trattava di zio D., il quale, pensai subito, verosimilmente si era recato a Lecce per una visita medica o un controllo specialistico.

Non impiegò un istante, neppure zio D., a notarmi e gli venne del tutto naturale dire: ” Nipote, e tu che fai qui, hai cambiato scuola, non dovevi essere a Maglie?”.

Da parte mia, ovviamente non gli diedi alcuna risposta, rimasi con il volto impietrito, perplesso e preoccupato di eventuali scoperte dell’altarino della “vacanza” dalle lezioni con R.

Anche il buon uomo capì subito di essere stato, diciamo così, indiscreto, tant’è che, in un baleno, venne ad aggiungere: ”Oh, nipote, guarda che io non ho visto nulla, naturalmente non ho visto nulla”. I tratti del mio viso si schiarirono e anche la mia mente ritornò leggera.

Lo zio, convintosi d’aver rimediato all’iniziale domanda inquisitoria e che, dentro di me, era superata ogni remora di pericolo, girandosi spontaneamente ancora una volta, ebbe a chiedermi: “Nipote, dammi una sigaretta adesso!”. Fu automatico che io sfilassi dal mezzo pacchetto di nazionali senza filtro un cilindretto bianco riempito di tabacco e glielo porgessi.

Forse, quello descritto, il dono inconsueto di una sigaretta, fra nipote e zio, da figlioccio a padrino, ha rappresentato l’ultimo gesto concreto, l’atto conclusivo della coesistenza fra due generazioni, un binomio d’intensi affetti familiari, due vite assolutamente diverse, basate su percorsi, interessi e itinerari dissimili, e tuttavia sempre complementari e vicendevolmente integrate.

Sono, questi, minuscoli particolari che mi fanno serbare dentro, vivi, ricordi lontani nel tempo, tracce che hanno segnato stagioni spensierate e parallelamente di crescita, fonti e presupposti per la maturazione verso l’età adulta, con le correlate peculiari esperienze, novità e voci.

Il sapore del tempo e un tempo senza sapore…..

Il Tg1 di ieri, 13 gennaio 2012, ha dichiarato:

Sicurezza alimentare. A Perugia sequestrate 120 tonnellate di legumi

I Carabinieri dei Nas del capoluogo umbro hanno sequestrato enormi quantità di legumi tra ceci lenticchie e fagioli con false denominazionmi di origine e potenzialmente pericolosi per la salute (http://www.tg1.rai.it/dl/tg1/2010/articoli/ContentItem-b52708b2-e4ea-499b-a20f-32752d4e7603.html?refresh_ce)

 Inevitabile il richiamo a quanto abbiamo già pubblicato l’estate scorsa su queste pagine e che volentieri ci piace rieditare:

 

 

di Marcello Gaballo e Armando Polito

 

I nessi tracciabilità dei flussi finanziari e filiera agroalimentare sono entrati nel vocabolario corrente a garantire rispettivamente l’equità fiscale e la qualità alimentare. Evitiamo di esprimere i nostri commenti sull’efficacia delle relative disposizioni e ci limitiamo a documentare, solo relativamente al secondo, un fenomeno ormai dilagante, grazie anche alla globalizzazione dai più intesa come un fenomeno contro cui nulla possono le specificità territoriali, come se i prodotti che ci invadono venissero da Marte… Che tutto questo, poi, sia figlio del profitto ad ogni costo (con pesanti tributi anche di carattere sanitario) tutti lo sanno ma nessuno muove un dito per invertire, finché si è in tempo, la rotta.

Quanta nostalgia e, soprattutto, inquietudine suscitano le immagini a corredo (riprese tutte in un unico punto vendita salentino) in chi, come noi, ha fatto in tempo a vedere la putichèddha (botteguccia) dove, fra l’altro, venivano venduti  sfusi i prodotti alimentari qui contemplati, allora di produzione locale e collocati nei loro bravi cassetti mentre nell’ultimo visitato, in attesa di servire il prossimo cliente, occhieggiava la sèssula, lo strumento simile a una ciabatta dai bordi rialzati e  con la punta aperta, con la quale si travasava parte del contenuto del cassetto nel sacchetto destinato al cliente! Sèssula ha la stessa etimologia dell’italiano secchia, è, cioè, dall’arabo satl=secchio per attingere, a sua volta dal latino sìtula(m)=secchio, brocca.

E oggi? Per quanto riguarda le località di produzione,  a Nardò, Galatone, Galatina (in passato i centri di eccellenza della produzione agroalimentare) sono subentrate generiche diciture come “MESSICO”, “CANADA”, “USA”, “LIBANO”, “EGITTO”, “MAROCCO”, “CILE”, “IRAN”, “CALIFORNIA”, “UCRAINA” e l’immancabile “CINA”.

È questa la tracciabilità o essa è un obbligo solo per i nostri prodotti?. C’è da riconoscere, però, che l’igiene, a differenza della vendita sfusa di un tempo, è garantita dalla confezione a prova di esplosione nucleare per le cui specifiche (nonché per quelle relative alla pezzatura del contenuto…) fior di burocrati hanno passato per il nostro bene notti insonni validamente coadiuvati da consulenti ed esperti vari, tutti profumatamente remunerati per la loro geniale attività. Se poi uno non si ammala di tifo come un tempo ma di cancro a causa delle radiazioni cui gli alimenti potrebbero essere stati sottoposti, cosa volete che sia?

Due improbabili, anzi impossibili coniugi: la fiàta e lu fiàtu (la fiata e il fiato)

di Armando Polito

*Traduzione dal miciese in neretino: Fiatu mia! Sta fiata Armandu s’è ‘mmurtalatu: sta scatuletta sta mmi lassa senza fiatu.

Traduzione dal neretino in italiano: Che bello! Questa volta Armando si è immortalato: questa scatoletta mi sta lasciando senza fiato.

 

 

Nc’era nna fiàta era in dialetto salentino il corrispondente italiano di c’era una volta, che probabilmente ha la sua brava traduzione letterale anche negli altri dialetti. Fiàta, però, è voce, per dir così, nobile, cioè letteraria e basti un solo esempio: Pria nel petto tre fiate mi diedi (Dante, Purgatorio, IX, 111). Essa deriva dal francese fiée che è da un latino *vicàta1, a sua volta dal classico vicis=vece, cambiamento, vicenda (non a caso vece, vice, vicenda e vicario sono tutti da vicis).

Che strana vicenda, è il caso di dire, quella di fiàta figlia di *vicàta (chi l’avrebbe detto!) e moglie mancata, come vedremo, di fiato/fiatu! Qualche sospetto iniziale, però doveva suscitarlo il fatto che, mentre lei (la fiàta) è voce astratta, il fiato/lu fiàtu è concreta, nonostante le parole siano capaci (come gli uomini che le hanno create…) dei più audaci ed inaspettati trasformismi. Qui, a dirimere ogni dubbio, parla chiaro il fatto che fiato è dal latino flatu(m), da flare=soffiare, da cui derivano pure da un lato afflato

Lu pane e ccitu (l’acetosella gialla)

di Armando Polito

 

nome scientifico: Oxalis pes-caprae L.

famiglia: Oxalidaceae

nome italiano: acetosella gialla

nome dialettale neretino: pane e ccitu

Etimologie:

Òxalis è voce, come vedremo fra poco,  presente in Plinio (I secolo d. C.), ma ricalco del greco oxalìs attestato in Nicandro di Colofone (II secolo a. C.): Ora io dirò quali sono i rimedi contro la sua (della pastinaca marina) puntura: prendi una foglia di ancusa che è simile a quella di lattuga o la cinquefoglie o i grigi fiori del rovo o l’erba ursina o le acetoselle (oxalìdas nell’originale) o l’erba viperina dal lungo stelo…1. Oxalìs è a sua volta da oxos=aceto, connesso con l’aggettivo oxýs=acuto, aspro, pungente2.

Se l’oxalìs di Nicandro usato nel testo al plurale fa pensare ad una denominazione generica di più varietà, quello di Plinio per le caratteristiche fisiche indicate  sembra riferirsi più alla Rumex acetosella L. e all’erba di cui alla nota 1 che alla nostra, la quale è simile al trifoglio: E il lapato ha effetti simili (a quelli della malva). C’è anche il selvatico che alcuni chiamano ossalide, vicino a quello per sapore, con foglie acute, col colore di bietola bianca e con piccolissima radice: i nostri lo chiamano romice, altri lapato canterino, efficacissimo con la sugna contro la scrofolosi3. C’è pure un’altra specie chiamata ossilapato, più simile al coltivato, con foglie più acute e più rosse, nascente solo in luoghi paludosi. C’è chi parla pure dell’idrolapato nato nell’acqua. C’è anche l’Ippolapato, più grande del coltivato e più bianco e più folto. Il selvatico cura il morso dello scorpione e chi lo porta addosso non ne è punto. Il decotto in aceto della radice giova ai denti se usata come collutorio, se è bevuto è efficace contro l’itterizia. Il seme sana le malattie dello stomco che non trovano altro rimedio. Le radici dell’Ippolapato da sole curano le unghie ruvide. Il seme lavato con acqua piovana e bevuto nel vino nella dose di due dramme blocca la diarrea e con l’aggiunta di acacia nella misura di una lenticchia giova in caso di emottisi. Si ricavano efficacissime pastiglie dalle foglie e dalla radice con l’aggiunta di nitro e un po’ d’incenso, da sciogliere nell’aceto al momento dell’uso. Ma quello coltivato si applica ad empiastro sulla fronte contro la lacrimazione eccessiva. Con la radice curano l’impetigine e la lebbra; con quella cotta nel vino la scrofolosi, la parotite e i calcoli; con quella bevuta nel vino o applicata ad empiastro sulla milza, i celiaci, i sofferenti di diarrea e di tenesmo. Il brodo del lapato è alquanto efficace contro simili disturbi e favorisce il rutto, l’orinazione  e risolve gli offuscamenti della vista; allo stesso modo elimina il prurito applicato sui sedili dei bagni o prima spalmato senza olio. La radice anche masticata rafforza i denti. La stessa cotta col vino blocca la diarrea, le foglie invece sono efficaci contro la stitichezza. Per non tralasciare nulla va detto che Solone vi aggiunse il bulapalato differente solo per l’altezza della radice e per l’effetto che essa bevuta col vino fa in caso di dissenteria4.

Pes-caprae significa piede di capra, con riferimento alla forma delle foglie che ricordano lo zoccolo di una capra5.

Acetosella è diminutivo di acetosa, a sua volta da acetum=aceto, con riferimento al suo sapore; gialla è per il colore del fiore.

Oxalidaceae è forma aggettivale del precedente Òxalis.

Pane e ccitu6 (pane e aceto): mentre il secondo componente è in linea col significato di oxalis e di acetosella, pane probabilmente è sinonimo metonimico di cibo, con allusione al fatto che i ragazzi di un tempo non disdegnavano di masticarne le foglie, il che, grazie al loro gusto acidulo,  aveva7 anche un notevole effetto dissetante. Ma quel gesto potrebbe avere anche inconsapevoli connotati religiosi e altrettanto inconsapevoli legami con la cultura contadina. Nell’Antico Testamento, nel capitolo 2 del Libro di Rut, Booz invita la bella spigolatrice Rut con queste parole: “Vieni, mangia il pane e intingi il boccone nell’aceto”. Alla lettera un invito a rifocillarsi e a dissetarsi, ma nello stesso tempo una metafora per cui Booz è Dio,  Rut l’anima sofferente, il pane Cristo e l’aceto la sua Passione, secondo l’interpretazione teologica corrente. Solo una coincidenza? E a proposito di civiltà contadina, la nostra erba fungeva da igrometro per la sua caratteristica di ripiegare le foglie poco prima dell’arrivo della pioggia.

Un’ultima nota: l’erba tende ad essere infestante, ma l’effetto estetico non è da buttar via, come dimostra la foto con cui mi piace chiudere, scattata, insieme con quella di testa,  nel mio giardino pochi giorni fa.


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1 Theriakà, vv. 837-840

2 In Dioscoride (I secolo d. C.), De materia medica, II, 140, è attestato un oxylàpathon, composto da oxýs e làpathon=romice, ma il tutto designa, come nel brano successivo del contemporaneo Plinio, una varietà di lapazio.

3 S‘identifichi o no l’erba pliniana con la nostra, va ricordato che con le foglie di quest’ultima mescolate, dopo la cottura, con sugna si preparavano ancora,  nella medicina popolare della prima metà del secolo scorso, cataplasmi contro la scrofolosi.

4 Naturalis historia, XX, 85-86: Nec lapathum dissimiles effectus habet. Est autem et silvestre, quod alii oxalidem appellant, sapore proximum, foliis acutis, colore betae candidae, radice minima: nostri rumicem, alii lapathum cantherinum, ad strumas cum axungia efficacissimum. Est et alterum genus fere, oxylapathon vocant, sativo idem similius, et acutiora habet folia ac rubriora, non nisi in palustribus nascens. Sunt qui hydrolapathon tradunt in aqua natum. Est et aliud hippolapathon, maius sativo, candidiusque, ac spissius. Silvestris scorpionum ictibus medentur, et ferire prohibent habentes. Radix aceto decocta, si colluatur succus, dentibus auxiliatur: si vero bibatur, morbo regio. Semen stomachi inextricabilia vitia sanat. Hippolapathi radices privatim ungues scabros detrahunt. Dysentericos semen duabus drachmis in vino potum liberat. Oxylapathi semen lotum in aqua coelesti, sanguinem reicientibus adiecta acacia lentis magnitudine prodest. Praestantissimos pastillos faciunt ex foliis et radice, addito nitro et thure exiguo. In usu aceto diluunt. Sed sativum in epiphoris oculorum illinunt frontibus. Radice lichenas et lepras curant. In vino vero decocta strumas, et parotidas, et calculos: pota vino et lienes illita, coeliacos aeque, et dysentericos, et tenesmos. Ad eademque omnia efficacius ius lapathi: et ructus facit, et urinam ciet, et caliginem oculorum discutit: item pruritum corporis, in solia balinearum additum, aut prius ipsum illitum sine oleo. Firmat et commanducata radix dentes. Eadem decocta cum vino, sistit alvum: folia solvunt. Adiecit Solon (ne quid omittamus) bulapathon, radicis tantum altitudine differens, et erga dysentericos effectu, potae ex vino.

5 Lo zoccolo della capra ha ispirato il nome scientifico di una specie assente dalle nostre parti: l’Aegopodium podagraria L. (della famiglia delle Apiaceae, in italiano Girardina silvestre); Aegopodium, infatti, è dal greco aix/aigòs=capra+poýs/podòs=piede).  

6 Al problema interpretativo della locuzione si aggiunge anche quello della grafia del terzo componente. Aceto in dialetto neretino è citu che, essendo per aferesi da aceto (non presenta, invece, aferesi la variante brindisina e tarantina acìtu) dovrebbe essere scritto ‘citu; l’aceto, perciò, dovrebbe essere, correttamente, lu ‘citu, ma, siccome in italiano è invalso un uso diverso (per esempio, da aguglia: guglia e non ‘guglia; da olezzo: lezzo e non ‘lezzo) va bene lu citu. Il problema è che quando citu è preceduto, come nella nostra locuzione, dalla congiunzione,  la c iniziale nella pronunzia subisce un raddoppiamento che credo di natura espressiva, indotto da un motivo di natura  psicologica o. se si vuole,  dall’evocazione inconscia dell’abbondanza connessa proprio con l’idea dell’aggiunta (mancante quando la voce è preceduta dall’articolo); se, infatti, il raddoppiamento di c fosse per compensazione dell’aferesi, esso si sarebbe dovuto verificare pure nel caso di lu citu che sarebbe stato lu ccitu e non lu ‘ccitu; a maggior ragione, perciò, pane e ccitu e non pane e ‘ccitu.

7 Ho usato l’imperfetto nonostante la pianta conservi a tutt’oggi (per domani non posso garantire…) questa sua caratteristica perché nessun ragazzo dei nostri tempi si adatterebbe, nemmeno se stesse morendo di sete,  a sottoporre le sue papille, nobilitate, e forse anche geneticamente modificate…, da Coca cola e simili, al gusto plebeo dell’acetosella.

Gli ulivi di Silvana Bissoli

 

di Paolo Vincenti

 

Non è certo la prima né sarà l’ultima, in questa terra di confine, ad essere catturata dalla bellezza del paesaggio del  nostro Salento e volerne fare poesia. Silvana Bissoli ha vissuto sulla propria pelle, al pari di tanti forestieri incantati da questa nostra terra iapigia – magna mater– messapica , greca,  salentina, quel dolce incantesimo simile a richiamo di sirena che esercitano i nostri millenari ulivi, il mare e il cielo,  e che si traduce in una specie di mal d’africa che in altre occasioni abbiamo definito “salentitudine”.

Non è la prima artista, Silvana Bissoli, ad essersi innamorata delle nostre strette carrarecce, dei muretti a secco e dell’architettura mediterranea della nostra terra di mezzo, delle torri colombaie e dei campanili svettanti , dei menhir, dei dolmen e  dei mascheroni apotropaici che occhieggiano da portali bugnati o da archi e mensole dei nostri palazzi nobiliari, fino ad esserne affatturata e, proprio come sortilegio di strega, a non volere più ritornare indietro. E quando proprio sia costretta a ritornare a casa, dove famiglia e lavoro la richiamano, a non vedere l’ora di potere tornare, qui al sud del sud,  poiché troppo forte, nelle brume emiliane, lo struggimento del nòstos, il “mal di Salento” che affascina e avvince e inchioda.

Ha preso ad oggetto delle proprie realizzazioni gli ulivi, le antiche sentinelle del nostro paesaggio, quegli alberi che più di tutti gli altri connotano le nostre campagne fino a diventare emblema, simbolo della nostra millenaria cultura. Quell’ulivo che la mitologia vuole sia stato inventato dalla Dea Athena come dono per il suo popolo, in una contesa con il Dio Nettuno, il quale invece donò il cavallo. Leggenda dice che l’ulivo venne ritenuto dono più utile dalla città di

Il Decalogo del Sacro Risparmio Casalingo

di Paperoga

Utile memento a me e a chi so io che, se seguito alla lettera, potrà apportare significativi risparmi alle casse familiari, ed evitare furibonde litigate con lancio di piatti, coltelli, mobili e fioriere.

1) Ogni volta che si esce da una stanza lasciando la luce accesa, muore un panda in Cina.
2) La lavatrice si mette in funzione dopo le 19. Piscerò personalmente su ogni capo lavato sfruttando la sanguinosissima tariffa mattutina, e la mia rugiada color paglierino laverà l’onta del sovrapprezzo pagato.
3) La prima cosa da fare appena svegliati è tirar su la serranda e ringraziare chi di dovere per la luce gratis che ci è concessa. Ripetere l’azione in tutte le altre stanze. Ogni volta che si vaga di giorno per una casa a serrande abbassate e luce accesa, un iceberg  si distacca dalla banchisa polare e finisce addosso ad una ventina di pinguini inermi provocando una strage.
4) L’acqua è eterna? NO. Perchè la doccia dovrebbe esserlo? Allo scadere del 9° minuto consecutivo di acqua a palla, un coccodrillo è autorizzato ad uscire dall’attiguo gabinetto.
5) Lavarsi i denti con l’acqua che scorre a garganella, in un mondo perfetto, dovrebbe essere punito con la catapulta. Ma mi accontenterei dell’estrazione forzata di un dente ogni volta che capita. Alla 32° estrazione, in regalo una più

Braci meravigliose

di Pino de Luca

Sboccia il 2012, un altro anno da fine del mondo. Lo dicono i Maya. Antico popolo delle Americhe che ha previsto il redde rationem ma non l’arrivo dei conquistadores che li hanno sterminati. Mah.
Certo il 2012 nasce sotto il segno della “crisi”, della difficoltà di un modello economico di sostenersi. Ma si tratta di un modello umano e, come tutte le cose umane, se ha avuto un principio avrà anche una fine.
Stormiscono fronde e s’addensano nubi, anche nel collettivo senso di impotenza noi continuiamo imperterriti il nostro viaggio tra vini che cantano e fanno cantare, in territori che sono esistiti prima della crisi e dopo la crisi continueranno ad esistere. Non per disinteresse ma solo per maturata capacità di dare giusto peso alle vicende di umane genti dalle capacità inversamente proporzionali alla superbia.
Da Brindisi a Copertino, di nuovo. Ricorre questa città come altre nel mondo enologico, vere e proprie enclavi di sapienza agricola e di trasformazione.
Andiamo a casa del n. 1 indiscusso nella tecnica della produzione del vino, il Severino Garofano di origini campane che, innamoratosi del negroamaro, ha promosso una rivoluzione della quale godiamo, e speriamo di godere a lungo, i riverberi.
Severino ha prodotto, insieme alla sua signora, anche Stefano e Renata che hanno ereditato l’amore per la terra e per il vino, affinato conoscenze e capacità. Dal Negroamaro delle terre di Copertino, dalla sapienza di Severino e la pazienza della sua famiglia nasce Le Braci. Ottenuto da vendemmie tardive e bacche quasi vizze, con rimontaggi frequenti durante la lunga macerazione. Fermentazione a temperatura controllata e invecchiamento in carati piccoli contribuiscono a riempire una bottiglia che oso definire straordinaria, anzi: meravigliosa. Stappata dopo qualche anno, diciamo che cinque anni è l’età giusta, si gode di un colore rosso granato dai mille riflessi, e le stesse sensazioni le percepisce il naso, una complessità di profumi difficilissima da leggere ma di una eleganza e armonia che lascia stupefatti. Al palato si conferma ampio e pervasivo e di una freschezza insospettabile. Che dire dal punto di vista uditivo? Avete mai ascoltato gli stilemi sonori della voce di Giuliano Sangiorgi, la sua capacità di “suonare” tutte le note con le corde vocali? Eccolo allora il Negroamaro racchiuso ne Le Braci con i Negramaro spalancati da Giuliano. Ascoltate la sua versione di quella stupenda ode alla vita che si chiama Meraviglioso, scritta dall’ineguagliabile Mimmo Modugno.
C’è la crisi, ci sono i dolori e le difficoltà, il futuro sembra oscuro e il cenone più magro. Ma davvero non abbiamo nulla?
Ti sembra niente il sole!
La vita
l’amore
A San Silvestro portate a tavola Le Braci, stappato un’ora prima di consumarlo, abbinato con uno dei piatti della tradizione salentina più pura e versato in calici ampi.
Guardatevi intorno mentre ne aspirate il profumo e ne gustate il sapore e ascoltate la voce di Giuliano che arpeggia:
Meraviglioso
ma come non ti accorgi
di quanto il mondo sia/ meraviglioso
a questo punto è facile dire: Buon 2012 a tutti.

Ai primi albori del 2012, una miscellanea di sensazioni, immagini, sentimenti, eventi e riflessioni

di Rocco Boccadamo

 

 

Introdotto da una piacevole sveglia, grazie anche al bellissimo sole che accarezza la temperatura frizzante, l’esordio del nuovo anno fa fortuitamente segnare l’incontro con una compaesana, figura assai familiare e presente nelle antiche stagioni comuni, la quale, ormai da lungo tempo, vive nel capoluogo e, beata lei, ha superato i 90.

Due figli grandi, sistemati con propri nuclei familiari e, a quanto da lei confidato, una nipote già laureata e che s’accinge a convolare a nozze.

Discendente da un casato abbiente del natio paesello, il suo nome di battesimo, Virginia, sin dai primi vagiti, si è trasformato nel vezzeggiativo Lavinia, donna Vinia per tutti i concittadini, almeno per quelli  di una volta.

Da quando ci siamo ritrovati a Lecce, detta donna, ad ogni incontro, dimostra ed elargisce un tratto di spiccata cordialità e un notevole senso di affabilità, comportamento, forse, ispirato dalle identiche radici di territorio e dai non pochi, reciproci ricordi.

Nell’occasione, la predetta amica, immediatamente dopo lo scambio degli auguri, mi chiede se sono a conoscenza di un episodio non buono avvenuto qualche giorno prima nei pressi di Marittima, per la precisione ad Andrano, ossia a dire del tragico incidente stradale occorso ad un pescatore del posto, appena andato in pensione.

Si chiamava Rocco, il povero malcapitato, proveniente con la sua motoretta da una strada di campagna, rimasto a terra esanime; a lungo, aveva atteso al lavoro in mare, insieme a un fratello e allo stesso padre, Mesciu Carmine, con

Che fare per raccogliere 90 chili l’ora di olive ogliarole leccesi e celline di Nardò?

di Antonio Bruno

Il Dipartimento di Scienze agrarie e ambientali dell’Università degli studi di Perugia guidato dal prof. Franco Famiani ha condotto numerose prove per valutare gli effetti della cultivar, epoca di raccolta, intensità di potatura e carico produttivo sull’efficienza delle diverse macchine agevolatrici della raccolta delle olive disponibili sul mercato.

Cosa sono le macchine agevolatrici della raccolta delle olive?

Le agevolatrici sono macchine raccoglitrici dotate di semplici dispositivi, quali pettini vibranti o ganci oscillanti, azionati da compressori o direttamente da piccoli motori a scoppio, che vengono posizionati all’interno della chioma e provocano il distacco delle olive per bacchiatura o per le oscillazioni indotte nei rametti. Queste attrezzature sono diffuse in zone dove non è economicamente conveniente investire nell’acquisto di grosse macchine o dove le condizioni colturali non sono adatte all’impiego di macchine complesse (Famiani et al., 1998).

Il tempo necessario per ottenere il distacco delle olive

Tutte le prove danno come risultato la quantità di olive raccolte in un ora da un operatore e è necessario precisare che questo conteggio ha preso in considerazione soltanto la fase di distacco delle olive dall’albero.

Questo significa che siccome per qualsiasi macchina è necessario un cantiere per la stesura e spostamento dei teli e poi per il recupero delle olive dai teli stessi e che tali tempi sono identici per tutte le macchine agevolatrici l’unico

Un cavallo bianco, una giumenta rossa e un mulo nero le reali cavalcature dei re Magi

CIVILTA’ CONTADINA DI FINE OTTOCENTO

 

LA BENEFICA PRESENZA TI LU TIERNU TI LI SANTI RIGNANTI

ovvero

LE CAVALCATURE DEI RE MAGI

 

di  Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Nell’impaginato della campagna, aperto a un intricato linguaggio fatto di segni pronti a convertirsi in circostanza leggendaria e farsi nodo radicale di strane credenze, a volte capitava di scorgere sulla superficie rugosa della terra un chiaro tracciato di impronte animali che senza accusare progressiva dissolvenza o inversione di marcia si interrompevano di colpo, come se la bestia autrice delle orme si fosse improvvisamente volatizzata.

In una ponderata analisi si poteva congetturare l’occasionale proporsi di una diversa solidità del terreno, capace di non accusare impressione, o ripiegare sull’abitudine che le bestie – soprattutto gli equini – avevano di lasciarsi improvvisamente cadere a terra per poi rotolare felici fino alla più vicina delle macchie erbose; ma i contadini, forse per un istintivo gusto al mistero, ne traevano ipotesi assurde, basate sul positivo o negativo a seconda se le orme risultavano di cane o di bove, di capra o di cavallo, avendo ogni bestia – sempre nel concetto del popolo – ben distinte compromissioni col paranormale.

Le impronte a tutti più gradite erano quelle equine, soprattutto se, dalle dimensioni e intersecazioni del tracciato, si arrivava a stabilire che a lasciarvele era stata una triade di bestie, rilievo che portava difilato ad affermare la benefica presenza ti lu tièrnu ti li santi rignànti (del terno dei santi reali), intendendo con tale definizione alludere alle cavalcature dei re magi che la tradizione orale identificava non negli esotici cammelli ma in un cavallo bianco, una giumenta rossa e un mulo nero.

Il meraviglioso di tanta insolita visita stava nella credenza che le tre bestie, per avere avuto la fortuna di trovare la grotta di Betlemme, erano diventate

Quando la befana smise di portarmi le sue calze

di Alfredo Romano

Negli anni Cinquanta del secolo scorso bastava poco per far contento un bambino. Una caramella era già un dono prezioso e, se la ricevevi da un estraneo, dovevi prima cercare l’assenso del genitore che ti faceva cenno col capo. A Collemeto, paese prossimo in linea d’aria al campo d’aviazione militare di Galatina, era facile incontrare degli avieri che frequentavano l’osteria dei Petrelli (la più vecchia che ricordi) che stava a pochi metri da casa mia in Via Padova n. 31. Noi bambini li aspettavamo gli avieri perché si divertivano a lanciarci le caramelle e noi a rotolare per terra per raccattarle con tutto il cuore fino a escoriarci le mani e le braccia.

 

La stessa cosa capitava quando una coppia se spusava te carbu (si sposava in bianco) in chiesa con tanto di cerimonia, codazzo, confetti e cannellini lanciati in aria. Anche qui a rotolarci sulla terra battuta (non c’era l’asfalto allora) per riempirci le tasche e tornare a casa vantandoci del bottino. Accadeva raramente, però, perché, ahimé, la maggior parte delle coppie se nde fucìanu (fuga d’amore) non solo per contrasti familiari, ma soprattutto per non affrontare le spese delle nozze in pompa magna.

Nel giorno di Natale allora non c‘erano regali per i bambini, ma, a cominciare dalla prima elementare, era d’uso porre una letterina sotto il piatto di papà, letterina che era stata preparata a scuola con l’aiuto della maestra. Papà sapeva della letterina, ma faceva finta di niente e aspettava la fine del pranzo per scoprirla. Quindi l’apriva e me la porgeva per leggerla. In poche righe dichiaravo i miei buoni propositi di diventare più buono e ubbidiente e di voler sempre più bene ai miei cari genitori. Finita la lettura, papà si metteva le mani in tasca e ti porgeva 10 lire: ci potevi comprare 2 caramelle con 10 lire, oppure 10 monachelle di liquirizia dalla putea te lu nunnu Vitu Sparpaja. Eppure per noi bambini bastavano a farci provare la gioia del Natale.

Ma l’attesa più grande per noi era quella della Befana, quando arrivavano dei regali veri. Eravamo quattro fratellini e la sera della vigilia c’era un certo trambusto alquanto inspiegabile dentro casa: si trattava dei miei genitori che si davano da fare per cercare i posti più assurdi per nascondere i doni da mettere nelle calze. Noi sapevamo che la vecchia Befana sarebbe scesa dal

Per una storia del teatro a Lecce (quarta e ultima parte). I teatri Paisiello e Politeama

di Alfredo Sanasi

 

Il teatro Paisiello fu considerato uno dei più eleganti dell’Italia Meridionale, ma il suo difetto più grave era il non avere uscite di sicurezza. Nel peristilio di ordine ionico furono posti i busti di Leonardo Leo e Giovanni Paisiello dello scultore Antonio Bortone e sul soffitto del teatro il pittore napoletano Vincenzo Paliotti raffigurò a tempera l’Armonia tra le nuvole e più in basso la Tragedia col tripode fumante ed il pugnale e la Commedia col tirso circondata dalle Grazie: nell’arco sopra la scena eseguì le figure allegoriche del Giorno e della Notte ai lati di un grande orologio.

L’edificio, dall’elegante struttura architettonica di gusto neoclassico, ben presto risultò insufficiente, per giunta il limitato palcoscenico condizionava la scelta del repertorio artistico, il minuscolo golfo mistico non poteva contenere un’orchestra di tutto rispetto. Perciò appena dieci anni dopo l’apertura del rinnovato teatro Paisiello, Lecce, in crescita, sia demografica che culturale, vide sorgere un Politeama, capace di accogliere un più ampio numero di spettatori e di ospitare scenografie ampie ed elaborate, secondo una tendenza già affermatasi nel Nord Italia e in Europa. Quando l’Amministrazione Comunale decise nel 1883 di costruire il Politeama sul suolo adiacente la Caserma del Castello, Donato Greco, imprenditore edile, nato a Galatone, accettò tutte le condizioni; il teatro doveva contenere non meno di millecinquecento spettatori, doveva essere costruito in muratura e in parte in legno e ferro, essere dotato di sistema antincendio, ultimato entro cinque mesi e destinato a rappresentazioni drammatiche e opere musicali.

Col nome di “Politeama principe di Napoli” fu inaugurato il 15 novembre del 1884 con l’Aida di G.Verdi e per la Puglia fu il primo esempio di struttura teatrale paragonabile a quelle costruite nelle grandi città del centro-nord.

Capace di accogliere circa 2000 spettatori era dotato di moderni macchinari per il cambio delle scene e illuminazione a gas trasformata in illuminazione elettrica nel 1909; la sua direzione artistica negli anni venti fu affidata al grande tenore leccese Tito Schipa.

In effetti la costruzione del Politeama avvenne in due tempi. All’inizio comprendeva la sola parte corrispondente alla platea di oggi, mentre la parte anteriore, l’odierno grande foyer, era scoperta e sistemata a giardinetto pubblico con al centro una fontana zampillante.

Solo nel 1913 fu ricostruito tutto in pietra, in luogo del giardinetto fu creato il grande vestibolo con lo scalone d’ingresso ai palchi, dal suo costruttore prese il nome di “Politeama Greco”.

Tutte le opere rappresentate al S.Carlo di Napoli furono allestite in identica edizione al Politeama, sicchè Lecce meritò la qualifica di secondo teatro del Meridione.

Nel 1893 fu data al teatro Regio di Torino la prima di “Manon Lescaut” di Puccini; l’anno successivo 1894 il grande musicista volle modificare il finale del primo atto e presentare l’opera così cambiata al Politeama di Lecce per il  debutto. Ma non solo tutte le grandi opere liriche passarono in quegli anni dal nostro Politeama, vi si rappresentarono numerose opere di prosa, le più in voga in quel periodo storico; val la pena per tutte di ricordare “La Nave” di G. D’Annunzio, che, presentata nel 1908 al Teatro Argentina di Roma, già l’anno dopo passò al nostro Politeama.

Oggi il Politeama è un teatro di prestigio, come può esserlo nelle debite proporzioni la Scala di Milano, il S.Carlo di Napoli, Il Teatro dell’Opera di Roma: è la storia stessa della nostra città e si identifica con tutti gli avvenimenti culturali, artistici, sociali e politici della gente che vi abita.

Nel corso di circa cento anni il Politeama è stato ristrutturato internamente. In considerazione che parte del teatro poggia sull’ex-fossato del cinquecentesco Castello di Carlo V sono state ricostruite in cemento armato le basi di sostegno, è stata sostituita la fatiscente pavimentazione lignea con del materiale ininfiammabile ed acustico, sono state demolite le ormai superate barbacce ottocentesche, sono state arretrate le colonne sotto i palchi, i posti in platea da 530 sono passati a 900.

Merita d’essere ricordato a questo punto un teatro oggi  scomparso che agli inizi del secolo scorso fu per vari decenni il ritrovo preferito dei Leccesi amanti del Teatro di Varietà. Era il Teatro S. Carlino, un baraccone ligneo, che soltanto all’esterno aveva la muratura in pietra.

il teatro San Carlino, non più esistente

Entrò in funzione nel 1908 e venne appoggiato alle possenti mura del Castello di Carlo V tra il Politeama e l’ingresso del Castello. Veniva tenuto con cura ed eleganza e poteva contenere poche centinaia di spettatori leccesi d’ogni ceto, sempre grandi “consumatori” di ballerine del varietà.

Inaugurato dunque nel 1908 ebbe vita breve per un curioso incidente occorso agli inizi degli anni 40. Allora il S. Carlino non era provvisto di lucine elettriche alle uscite di sicurezza, davanti alle quali venivano, durante gli spettacoli, collocati dei lumini schermati con della carta oleata rossa. Una sera particolarmente ventosa un lumino si spense più volte ed il vigile-pompiere importunò ripetutamente uno dei proprietari, Rocco Buda, perché gli fornisse varie volte dei fiammiferi per poter riaccendere il lumino. Il Signor Buda scocciato alla fine mollò un ceffone all’incauto pompiere che dovette ricorrere alle cure d’un infermiere per tamponare una abbondante emorragia. Fu la fine ingloriosa del S.Carlino.

Il giorno dopo agenti di Polizia e Guardia di Finanza appurarono numerose irregolarità e la multa si aggirò intorno alle quarantamila lire, pari ad almeno cinquantamila euro d’oggi; non potendosi pagare una tale somma il locale fu chiuso e poi demolito.

Mario Marti già circa venti anni fa osservava che potrebbe sembrare strano che solo dopo quattro anni dall’inaugurazione del San Carlino (1908), sorgesse nelle vicinanze del Politeama un terzo teatro, l’Apollo, capiente di ben 1600 posti.

Destinato anche a spettacoli di cinema e varieà, fu inaugurato nel maggio del 1912: evidentemente il teatro di prosa, l’opera lirica, il varietà ed il cinema interessavano fortemente l’intera popolazione leccese, compresi i meno abbienti e perfino gli analfabeti. All’origine era una sala, l’attuale ridotto, a cui venne aggiunta l’arena Apollo, ove ora è la platea e solo nel 1926 fu completata l’attuale struttura architettonica con cupola apribile.

prospetto del teatro Apollo col colonnato composito (1911)

Il Teatro Apollo divenne il terzo teatro costruito a Lecce, ma il secondo per importanza poiché vi si rappresentarono opere liriche ed opere drammatiche di vivo successo. La Sala Apollo, poi divenuto Teatro, costituiva, per quei tempi, quanto di più bello e civettuolo si potesse immaginare. Oggi è in completo abbandono, crollata la sontuosa e imponente facciata classicheggiante, si spera che entro tempi non troppo lunghi possa essere salvato, ben restaurato e riportato agli antichi splendori.

Nell’immediato secondo dopoguerra Lecce si è arricchita di nuovi teatri e nuove sale: sul viale Lo Re è sorto il cinema-teatro Massimo (in verità più cinema che teatro, soprattutto perché non mostra una buona acustica). In via Salvatore Trichese, a pochi passi da Piazza Mazzini, sono sorti, in costruzione elegante e moderna, il cinema-teatro Ariston, dove si sono svolti spettacoli musicali, varietà, operette e concerti di notevole livello artistico, ma oggi trasformato purtroppo in sala giochi, e l’accogliente Sala Fiamma, che ha ospitato conferenze, concerti e spettacoli di prosa e d’arte varia di tono raffinato e prestigioso.

Ultimamente, purtroppo, solo il Paisiello e il Politeama continuano a vivere con manifestazioni teatrali attive e culturalmente significative: in un’epoca come la nostra poco incline a coltivare serie attività artistiche, valori spirituali, morali ed educativi, il teatro ha perso molto del suo ruolo formativo, umano e sociale in una città che ha smarrito gran parte del suo empito e delle sue caratteristiche culturali, che l’hanno sempre distinta sino ad epoca recentissima.

 

BIBLIOGRAFIA

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Per una storia del teatro a Lecce (terza parte). Quando fu costruito il Teatro Romano di Lecce?

di Alfredo Sanasi

Quando fu costruito il Teatro Romano di Lecce?

Certo non è facile proporre un’età indiscutibile, per la mancanza di elementi sicuri: ci dobbiamo infatti basare sullo studio di reperti archeologici per averne un’idea approssimativa. Non ci sembra molto convincente l’attribuzione del Teatro al periodo augusteo sostenuta di recente con molto calore e varie argomentazioni dagli studiosi che vedono il teatro come luogo d’incontro tra il princeps ed il popolo: senza teatri, si dice, l’aspirazione di Roma, già dal tempo di Augusto a diventare il centro culturale dell’impero, sarebbe rimasta  poco credibile (P.Zanker)(11).

In effetti tale datazione era stata già sostenuta dalla prof.ssa Delli Ponti circa mezzo secolo fa, ma già allora non ci sembrò molto credibile perché basata esclusivamente su alcuni frammenti di decorazioni fittili, di tipo augusteo, rinvenuti dal Bernardini nella zona del teatro ed ornati con serti disposti a festone e bende frangiate, anzi uno di essi è decorato con una testina muliebre. Se invece esaminiamo la statua virile di stile policleteo, ci si accorge subito, come abbiamo già detto, trattarsi di una replica d’un prototipo greco usato nell’arte iconica imperiale. La statua inoltre è simile per struttura a quella rinvenuta negli scavi intorno all’arco di M. Aurelio a Tripoli, attribuita a Lucio Vero.

Anche la nostra potrebbe essere attribuita allo stesso periodo e gli stessi elementi si riscontrano nel frammento di statua femminile, forse figurazione di Roma, presentata come una vergine amazzonica: buone ragioni che spingono il Bartoccini ad attribuire il monumento ad Adriano o a qualche suo immediato successore. Per giunta noi sappiamo da Pausania che allo stesso periodo adrianeo bisogna far risalire anche l’Anfiteatro e il Portus Adrianus nei pressi dell’odierna spiaggia di San Cataldo: tutti dati ed elementi che ci dicono che Lupiae assunse il suo massimo sviluppo durante l’età imperiale e non solo perché questa città era stata la fedele ospitatrice di Augusto nel suo viaggio segreto da Apollonia a Roma dopo l’uccisione dello zio Giulio Cesare, ma soprattutto per il favore che godette sotto gli imperatori della casa Flavia.

Certo bisogna fare qualche riserva su questa datazione (II sec. d.C.) perché si potrebbe pure pensare che le statue esaminate possano essere state aggiunte in un periodo successivo alla costruzione, ma allo stato attuale non si possono trarre conclusioni più certe circa la sua datazione. Ora se noi ci chiediamo quali tipi di spettacoli dovevano essere dati nel Teatro Romano di Lecce, si dovrà sicuramente pensare alla più ampia gamma di rappresentazioni.

Bisogna anzitutto ricordare che Salentini erano i primi scrittori che tradussero nella lingua di Roma un pò tutte le forme dell’arte teatrale del mondo greco ( L. Andronico era di Taranto, Ennio di Rudiae, come dire di Lecce, Pacuvio era di Brindisi) e quindi è ovvio pensare che i Leccesi amarono rappresentare nel loro teatro le opere di L. Andronico, Ennio e Pacuvio ispirate o tratte a volte quasi di peso dalle tragedie e i drammi satireschi di Eschilo, Sofocle ed Euripide, oltre alle commedie latine di Plauto, Terenzio e Cecilio e le altre forme teatrali minori, quali i mimi, le atellane, le pantomime. Proprio durante l’età imperiale si diffuse la mania delle recitationes, divenute un bene di consumo per i teatri e le sale di

Per una storia del teatro a Lecce (seconda parte)

di Alfredo Sanasi

Le prime tracce dell’esistenza di un  teatro antico a Lecce si scoprirono nel 1929, allorché, durante lo scavo delle fondamenta di una casa tra i giardini dei palazzi Romano e D’Arpe, nel vico dei Marescalchi, oggi via della Carta Pesta, si rinvennero tre gradoni a semicerchio, nonché due frammenti di statue di marmo, un altro di colonna di marmo brecciato e numerose lastrine di marmo colorato.

Lo scavo, ripreso circa dieci anni dopo, nel 1938, mise in luce che i tre gradoni a semicerchio delimitavano un’ area del raggio di mt.5,60, pavimentata con grandi lastre di marmo.

La cavea, ricavata in un banco di roccia, interamente rivestita di opus quadratum,  che un tempo dal Bernardini fu ritenuta di un diametro di soli 40 metri, oggi si ritiene che misuri un diametro di oltre 75 metri, ed è scavata ad un livello di circa tre metri al di sotto del piano della città antica. La parte superiore della cavea, sino alla summa cavea, doveva essere cinta da costruzioni a volte ed archi, simili a quelli dell’Anfiteatro.

la musa del teatro Melpomene (da httpwww.corfu9muses.com)

La gradinata è divisa in sei cunei da cinque scalette radiali. Ciascun cuneo è costituito da dodici scalini alti in media 35 cm. e larghi circa 75, ma questi costituiscono certamente solo l’ima cavea, mancano i sedili della media e summa cavea.

Sul pavimento dell’orchestra si notano numerosi fori, ove forse sorgevano piccole are in onore di Dioniso. Due scalette, situate ai punti estremi dell’orchestra , permettevano l’accesso al palcoscenico (pulpitum), lungo circa 32 metri e alto cm.70 dal piano di terra.

Un lungo canale davanti alla scena, profondo cm.50, era evidentemente destinato a raccogliere il sipario arrotolato. Sul piano della scaena si notano vari piccoli pozzi scavati forse in età medioevale e moderna, ma la grande buca che si vede al centro potrebbe essere, oltre che una cisterna posteriore, il luogo ove era posto l’impianto del deus ex machina. I vari canali che vi si notano e che proseguono anche oltre la grande buca, raccoglievano l’acqua che scendeva dai tetti a spioventi. Certo la frontescena doveva essere complessa e notevolmente ricca, visti i numerosi ed eccellenti ritrovamenti statuari.

Un pò tutti gli studiosi che si sono interessati alle sculture rinvenute nel Teatro Romano si sono meravigliati della ricchezza di tali ritrovamenti, ma molto probabilmente tali statue di marmo erano disposte in nicchie marmoree in una struttura a tre ordini:  oggi la maggior parte di esse si trova nel Museo Castromediano di Lecce. In situ rimane solo una statua loricata molto frammentaria e soltanto da pochi anni è stata rimossa una grande figura femminile acefala, coperta da un lungo chitone a fitte pieghe con un imation (mantello) sovrapposto. Di non molto fine fattura potrebbe raffigurare o un personaggio altolocato in ambito lupiense o meglio ancora un’ imperatrice impostata secondo l’Hera Borghese di scuola policletea o fidiaca.

Gia durante gli scavi del 1929 fu rinvenuta una statua virile acefala che reca sulla spalla sinistra una lunga clamide e sul torace è visibile il balteus che reggeva la spada (3). Agli stessi scavi del 1929 risale un frammento di statua muliebre, appartenente ad una riproduzione dell’Artemide di Gabi: raffigura una fanciulla vestita di corto chitone in atto di affibbiarsi la veste sulla spalla destra. Probabilmente era una riproduzione dell’originale di Prassitele (sec.IV a.C.)(4). Del gruppo di sculture rinvenute durante gli scavi del 1938 ricordiamo anzitutto un grande medaglione di marmo con al centro il busto idealizzato della dea Roma, tratto dallo schema della cosiddetta Athena Hope-Farnese (5).

Raffigura Athena un’altra statua acefala, vestita di peplo e himation ricadente sulla spalla sinistra, sul petto mostra l’egida: è copia di una statua similare esistente nella raccolta vaticana, la cosiddetta Athena Giustiniani.

Mal conservato si presenta un busto loricato, la cui corazza appare decorata con la quadriga del sole che sorge dalle onde e sotto due Nereidi sedute su ippocampi con le armi di Achille(6). L’amazzone ferita, riproducente il noto tipo di Berlino, acefala, è vestita d’un corto chitone che, caduto dalla spalla sinistra, lascia nudo tutto il seno da questa parte. L’originale, probabilmente di Policleto, fu eseguito nel 435 a.C. per il santuario di Artemide ad Efeso (7).Al Doriforo di Policleto rimanda una statua virile acefala raffigurante un atleta in riposo (8). Sempre nel 1938 fu rinvenuta una testa incorniciata da folti capelli e folti baffi che si congiungono ad una barba ondulata ben curata a ciocche (9). Ad Eracle rimanda probabilmente un torso rovinato, che presenta una forte tensione muscolare e tracce delle dita sul fianco destro. Si è fatta l’ipotesi che provenga dal Teatro Romano anche una testa di efebo dalle sembianze idealizzate, dai capelli ricciuti e disordinati (10).

Da questa rassegna di sculture si può arguire che il Teatro Romano di Lecce presentava, soprattutto sulla “frons scaenae” numerose opere scultoree risalenti ad archetipi greci. E se noi ricordiamo che fu atteggiamento spiccato dei Romani volersi circondare di sculture greche o comunque di belle copie di capolavori greci, siamo indotti a pensare che i Messapi leccesi, allorché in età imperiale furono fortemente plasmati dal gusto dei Romani, da questi trassero il desiderio di abbellire i loro monumenti con sculture greche o anche con copie di esse.

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1)       Della Seta, Italia antica, Bergamo 1928, p.133. Da tale interpretazione non si discostano successivamente neppure Aldo Neppi Modona, Gli edifici teatrali greci e romani, Firenze 1961, p.104 e B.Pace, Appunti sui teatri della Magna Grecia, in Djoniso X, 1947, p.272-273.

2)       A.Sanasi, Lecce Romana, in “La Zagaglia”, nn.30 e 34.

3)       La gamba destra è ritta e su di essa poggia il corpo, mentre la sinistra è portata lievemente in dietro e flessa. Sin dal suo ritrovamento fu ritenuta una riproduzione dell’Ares Borghese (S.Reinach, Repertoire de la statuaire grecque e romaine, t.II v.I Paris 1930, p.179).

4)       Secondo il Bartoccini le statue dovevano essere collocate in due nicchie sulla “frons scenae” e rappresenterebbero Augusto e Roma, ideata quest’ultima come un bellicosa vergine amazzonica, secondo un concetto che ebbe molta fortuna durante l’impero (Bartoccini, Il Teatro romano di Lecce, in “Dyoniso” 1936, n.3, p.107).

5)       Ha folti capelli divisi in due masse lungo i bordi dell’elmo, che ricadono sul petto con ciocche ondulate. La veste, scollata a punta, è decorata con la testa di Medusa, al di sotto della quale due serpenti con le code attorcigliate sugli omeri. Il Bernardini ritiene che questo medaglione, per lo stile piuttosto vigoroso, specialmente nel trattamento del collo, appare molto vicino a quelli dell’arco augusteo di Rimini (M.Bernardini, Lupiae, Lecce 1959, p.72).

6)       Ultimamente si è posto questo busto in rapporto ad Augusto da Prima Porta, però le Nereidi su mostri marini e la forma delle placche metalliche nella parte posteriore della statua fanno pensare piuttosto all’eta dei Flavi ( C.C. Vermeule, Hellenistic and Roman Cuirassed Statues, in Berytus XIII, 1959, p.46, n.98; Katia Mannino, in Lecce Romana e il suo teatro, a cura di F. D’Andria, Congedo editore 1999, pp. 46-48).

7)       Certo questa Amazzone di Lecce, pur ferita, non sembra esprimere vero dolore: è evidente lo sforzo del copista romano nel riprodurre i caratteri dell’archetipo in tutti i particolari: qui il problema formale va a scapito di quello emotivo e il foro che si scorge sul fianco sinistro sta ad indicare il punto d’appoggio a qualche sostegno.

8)       Il torso proveniente dal Teatro di Lecce poggia sulla gamba destra, mentre la sinistra appare leggermente spostata in avanti come nel famoso capolavoro policleteo.

9)       In essa M. Bernardini vide Zeus nello schema del dio di Otricoli, di recente invece è stata interpretata come la testa di Asclepio, soprattutto per la “corona tortilis” che compare intorno al capo (Bernardini, op. cit. p. 74; Katia Mannino, in Lecce Romana e il suo teatro, a cura di F.D’Andria, pp.38-40).

10)       Essa fu trovata nel 1869 nell’ex convento di Santa Chiara, situato proprio dinanzi al Teatro. Viene ritenuta una buona copia romana d’un originale greco forse collocabile nella cerchia dell’arte scopadea. Di recente si è pensato al volto idealizzato di Alessandro Magno e ricalcherebbe lo schema dell’Alessandro appoggiato ad una lancia di  Lisippo, perché questo tipo di statua riscuoteva un notevole successo in età romana (I.I. Pollit, Art in the Hellenistic Age, Cambridge 1986, pp. 26-31; K.Mannino, op. cit., pp. 45-46).

11)   Zancher, in D’Andria, Lecce Romana e il suo teatro, pp.35-37.

 

Olii di oliva difettati venduti come extravergini. La mafia dell’olio

Devono pagare i danni ai 220mila proprietari di oliveti del Salento leccese

di Antonio Bruno

Il giornale sudafricano Times.online del Sunday Times ha pubblicato ieri una notizia dal titolo “Italian olive oil mostly non Italian”, che fa riferimento a un’inchiesta del quotidiano italiano Repubblica sul mercato dell’olio d’oliva e sugli inganni che si celano dietro etichette di difficile lettura.

L’ha scritto a chiare lettere Paolo Berizzi su “La Repubblica” del 23 dicembre 2011 che c’è una frode commerciale in atto che danneggia i proprietari degli 85mila ettari con 9 milioni di giganti del mediterraneo del Salento leccese che piangono da anni lacrime amare lasciando le olive sull’albero.

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