LECCESI, C’ERA UNA VOLTA / Prima parte: NUI LECCESI SIMU!

Locandina in "Leccesi c'era una volta"

di Alfredo Romano

PREMESSA
Mi fa piacere far conoscere al pubblico degli Spigolatori i testi di un mio spettacolo in dialetto salentino dato alcuni anni fa a Civita Castellana dove vivono cinque mila salentini arrivati qui negli anni 50′ e ’60 del secolo scorso. Per chi non avesse dimestichezza con il dialetto salentino, ho provveduto, in basso, alla traduzione in lingua italiana. 

I due video di questa prima parte dello spettacolo teatro-musicale

1.  Alfredo in “NUI LECCESI SIMU!”

2. Alfredo interpreta “QUA SE CAMPA D’ARIA” di Otello Profazio

Il testo in dialetto
 Allora, simu tutti? Manca quarchedunu? Ci cu pputìti schiattunisciare… sciati e ffacìti cu bbegna! Cce, nu’ stae bonu? Stae ‘ccasa ‘nu pocu maru? L’hae

I Pappamusci di Francavilla Fontana e i riti della Settimana Santa

Si è inaugurata il 20 marzo a Roma, nella Sala S. Rita di Roma, una interessante mostra fotografica su “I Pappamusci”, uno dei più antichi e suggestivi riti legati alle celebrazioni della Settimana Santa, che si svolge a Francavilla Fontana, in Puglia. Alla cerimonia di inaugurazione sono intervenuti, tra gli altri, Vincenzo della Corte, Sindaco di Francavilla Fontana, Giordano Fantozzi, Presidente Nuova Coscienza, S.E. Marcello Semeraro, Vescovo di Albano, Ludovico Maria Todini in rappresentanza dell’Assemblea Capitolina.
A conclusione il baritono di Francavilla, Mario Micocci, ha cantato due  stazioni della Via Crucis.

La mostra resterà nella Capitale dal 21 al 24 marzo.

Attesissimo evento da parte dei Francavillesi e dei tanti turisti che giungono in città durante il periodo pasquale, il rito è poco noto ai pugliesi. Buona quindi l’occasione per richiamare l’attenzione sul pellegrinaggio dei “Pappamusci” e sulla Processione dei Misteri, tradizioni religiose che si

Canto all’Olivo

olivo monumentale loc. San Nicola Felline – Alliste (foto Roberto Gennaio) già censito nel volume Alberi Monumentali del Salento di Gennaio R., Medagli P., De Santis B.. Ed.Congedo, 2000

di Roberto Gennaio

Olivo

Muto testimone del tempo

Tu sei come il Cristo

Continuamente flagellato dall’uomo e dal vento.

 

Eredità dei miei avi

Tu sei madre a cui tutti hanno attinto al frutto del tuo grembo.

 

Valoroso guerriero dal corpo loricato

Hai saputo resistere all’oltraggio dei secoli e dell’ uomo.

 

Tu conservi nel tuo libro la storia dei messapi, dei saraceni, dei romani.

 

Tu che sei virile re dalla florida corona

Che affondi in questa terra pietrosa e riarsa

Le tue forti mani nodose

Sei il mio rifugio

E al tuo fresco abbraccio

Abbandono il mio spirito e il corpo stanco:

fammi assopire al racconto di elfi e di fate .

Salento di ieri e contrabbando

di Rocco Boccadamo

I fatti e i costumi delle varie epoche, la vita vissuta che si inanella lungo gli anni e i lustri o in spazi temporali di maggiore ampiezza, possono da soli costituire una fonte di apprendimento e di riflessione assai più efficace ed illuminante di quanto riesca a rivelarsi un pur dotto e ricco trattato: ovviamente, occorre passare in rassegna gli eventi e le abitudini con occhio obiettivo, scrutarne i motivi e gli spunti di fondo con serenità e tranquillamente, come nello scorrere le pagine e i capitoli di una raccolta di volumi.

Soffermiamoci, mediante qualche immagine concreta, sul cappello di queste note, che propone una sorta di raffronto definito e circoscritto.
E’ sufficiente rapportarsi alla metà, finanche agli anni sessanta/settanta, del secolo da poco trascorso, per cogliere, ancora vivi di suggestione, piccoli ma significativi esempi di fatti, azioni e comportamenti della gente che, a vederli collocati ai nostri giorni, verrebbe subito da definire preistorici.
Tutti ricordiamo che il sale (l’utile e diffuso elemento per la cucina e che riguarda il nostro stesso nutrimento) una volta rientrava fra i generi di monopolio, la cui vendita era cioè di competenza e controllo dello Stato, attraverso strumenti e canali dallo stesso appositamente autorizzati.
A quell’epoca, lungo le coste salentine, nei tratti caratterizzati da bellissime scogliere, si registrava un fatto singolare: tante e tante buche delle scogliere medesime che, in occasione delle mareggiate, venivano in parte allagate dall’acqua salata, finivano in un certo senso con l’essere tacitamente e abusivamente prese in consegna da uomini o donne, proprietari di minuscoli fondi agricoli (le marine) posti a ridosso, appunto, delle coste rocciose, che «curavano» (osservate l’estrema proprietà della voce verbale) dette «conche», implementandone il contenuto attraverso pazienti e cadenzati innaffiamenti di acqua dolce piovana, prelevata, non senza fatica, da piccole cisterne. Grazie a siffatto processo, la massa liquida delle «conche», evaporandosi sotto il sole, giungeva a trasformarsi in uno strato di bianco e luccicante sale.
Quei «badanti» non autorizzati riuscivano così ad ottenere il risultato di fare a

I Passiuna tu Cristu e altri canti popolari salentini religiosi a Cutrofiano

Rogier van Weyden, Deposizione (1435-1440)

L’associazione culturale musicale “CARDISANTI” in collaborazione con l’associazione “CARPE DIEM” propone Domenica 25 marzo a Cutrofiano nel santuario delle opere Antoniane (villa S.Barbara) alle ore 19:30 il concerto “QUANTU PATIU NOSTRU SIGNORE” 2° edizione.

Una serie di canti popolari salentini religiosi non liturgici sui temi della Passione di Cristo, una delle più alte espressioni della poesia popolare in musica.

Questo lavoro nasce dal bisogno di far conoscere il senso religioso e i contenuti narrativi di questo antico momento di vita religiosa e sociale della comunità salentina.

Nei tempi in cui la liturgia era in latino, i vecchi cantori partecipavano ai riti religiosi con dei canti, alcuni dei quali in dialetto.

Accanto ai brani tradizionali più noti del ciclo Pasquale salentino, “La Passione” e “Santu Lazzaru” sono riproposti dei motivi legati alla liturgia

Lecce. Il grembiule tra simbolismo e narrazione

Itinerario Rosa

XIV Edizione

Città di Lecce

Assessorato alla Cultura

presenta

 

dal 21 al 25 marzo 2012

94 gradini. Il grembiule tra simbolismo e narrazione

Complesso dei Teatini

C.so Vittorio Emanuele

Lecce

ingresso libero

17-21 h

artisti presenti:

Maria Grazia Anglano, Mauro Amato, Francesca Ascalone, Paola Bitelli, Floriana Brunetti, Luigi Cannone, Daniela Cecere, Enrica Cesano, Francesca Cucurachi, Eliabò, Mirko Gabellone, Rosanna Gesualdo, Lucy Ghionna, Monica Lisi, Patrizia Macchia, Alessandro Matteo, Massimiliano Manieri, Luca Nicolì, Romina Tafuro.

ore 18.30intervento-  “Vecchi e nuovi grembiuli” con  Tommaso Ariemma (filosofo)

ore 19.30- performance: “ Lei, con un grembiule, i suoi seni nel mezzo “di Massimiliano Manieri

23 marzoore 19.00- performance – “La Tetta” de  I parolai di via Adda

25 marzo ore 18.00– balletto- Un grembiule di parole- allievi del Corpo Parlante, Scuola di danza Alessandra Pallara

ore 19.00– incontro “Il grembiule tra simbolismo e narrazione”.    Intervengono Elisa Albano (psicologa) Valentina Vantaggiato (giornalista) e gli Artisti in mostra Coordina Ambra Biscuso

 

Uomini e donne: l’errore di Kant

James Jacques-Joseph Tissot (1836 – 1902), Il ventaglio (1875)

di Pier Paolo Tarsi

Kant non si è mai sposato. “E per niente era un genio?”- direbbe qualcuno, ma non è questo il punto che ci interessa discutere qui. Tale particolare biografico permette di comprendere, e in parte giustificare, l’errore fondamentale del suo grandioso sistema filosofico: la pretesa che le forme trascendentali della conoscenza fossero le medesime in tutti gli esseri umani, tanto di genere maschile quanto femminile.

Quello che tradì il filosofo fu proprio la mancanza di quanto egli sommamente aveva in conto, ossia l’esperienza stessa, non avendo avuto a che fare con una compagna da osservare per un tempo necessario ad uno studio rigoroso della questione, cosa che gli avrebbe certo permesso di comprendere facilmente quanto fosse ingenua e arbitraria l’estensione della sua visione epistemologica anche alle donne. Le forme a priori e le categorie che il filosofo individuò e descrisse meticolosamente nella Critica della ragion pura non valgono infatti, come mostreremo, se non esclusivamente per quegli esseri umani di cui egli poteva avere un’esperienza immediata per appartenenza personale al genere, ossia i maschi stessi.

Per cominciare non siamo certi che il filosofo avesse ragione in merito alle

Aprendo l’animo: due compleanni e una lettera senza tempo

di Rocco Boccadamo

Sedici marzo duemiladodici, sono settantuno, per l’autore di queste righe.

Venti marzo duemiladodici, sarebbero stati novantacinque, per una madre dolce e buona.

La quale, invece, se n’è andata nell’ormai lontano millenovecentosessantasei, contandone soltanto quarantanove.

A più riprese, anni ed età, del presente e di ieri, e, intanto, cade la ricorrenza di S. Benedetto, con i primi garriti, annuncianti l’arrivo della stagione dei fiori.

Secondo le scansioni naturali e astronomiche, i progressivi rosari di primavere conferiscono vie più massa all’accumulo del tempo. E, però, per chi scrive, dal momento del richiamato omega, è come se i relativi rintocchi e calendari si siano rarefatti, l’alba e la controra di una data d’inizio estate, in piena gioventù, sono state rivissute eguali lungo la sfilata del tempo, a ogni risveglio rinnovatosi, sino al lento dischiudersi delle palpebre, il mattino, oggi.

E, ancora, non hanno subito alcuna trasfigurazione, nella mente, il suo volto e l’espressione nel solco del calvario, rievocanti, in fondo, fattezze giovanili, nonostante il tormento del mostro.

Brevi decenni, fianco a fianco, voci e sguardi a incrociarsi e, soprattutto, un mare di semplici, buoni e positivi esempi, da madre a figlio (o meglio, da madre a sei figli).

C’è stato, invero, fonte di conforto, il margine affinché conoscesse, con gli occhi lucidi di gioia, il primo nipotino, lo tenesse con fatica in braccio nel ruolo di madrina, lo accarezzasse, seduta sul letto, nel Natale conclusivo.

Con la penna, il ragazzo di ieri potrebbe, di getto, tratteggiare a iosa altre parole e ricordi, tuttavia, a questo punto, gli sembra prevalente la scelta d’invertire i protagonisti della scena, lasciando parlare direttamente Lei, attraverso una sua lettera, semplici righe manoscritte in un linguaggio umile e approssimativo, fra italiano e dialetto, da quinta elementare e, nondimeno, dal contenuto così particolarmente intenso, emozionante e intriso di profondo valore didattico.

Ero già diciottenne, e, per frequentare l’ultimo anno delle superiori, a Maglie, avevo chiesto, e ottenuto, di non fare il pendolare con la corriera delle autolinee “Sud Est”, ma di fermarmi ”a pensione” presso una famiglia della cittadina.

Sennonché, nella nuova casa, agli inizi, incappai in una fase d’insofferenza e disagio per via di qualche difficoltà d’ambientamento e adattamento, avanzai addirittura l’idea di cambiare, scaricando tale proposito giusto su mia madre.

Di seguito, è riportata, tratta direttamente dall’originale, la sua risposta, al solito equilibrata, saggia, senza toni da cattedra, ma con capacità di convincimento, efficace.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    

 Marittima, 29 – 10 – 1959

Caro Rocco,

Mi hanno appena portato la tua lettera e subito ti scrivo.

Noi stiamo bene, lo stesso auguro sempre a te.

Circa la tua richiesta di mandarti qualcosa, che ti devo inviare, se non un po’ di pasta, la salsa, una scatoletta di carne, un po’ di zucchero?

Di patate, in casa non ne abbiamo. Una mattina, alzati presto e fai un salto al mercato, così te ne compri due – tre chili (hai voglia a mangiare!), insieme con qualche chilo di verdura, facilmente reperibile in questi tempi.

Qui, quest’anno la produzione è scarsa, cavoli non ce ne sono.

Se cambi casa, stai attento a non compiere leggerezze, col rischio, magari, a distanza di un mese, di dover cambiare nuovamente. Penso che in nessun posto ti troverai meglio di dove stai adesso, a me la Signora è sembrata buona.

Ad ogni modo, fai come credi, basta che tu sia in gamba e ti faccia sempre i fatti tuoi, senza interessarti degli altri.

Ti mando i soldi per la pensione e, in più, mille lire per il latte e le patate.

Il Battesimo, in cui dovrai fare da padrino, non si sa quando si terrà, perché il compare è ancora a lavorare in Francia. I tuoi zii, invece, sono ritornati, stanno bene; quando vieni, troverai, da parte loro, un pacchetto di sigarette per te.

Tanti saluti dagli zii e dai nonni e infine ti salutiamo noi.

Tua cara mamma. 

P.S.: circa i documenti che hai chiesto, te li farà tuo papà quando ha un po’ di tempo.

 

Nella stessa lettera, piccola nota della sorella Teresa, dodicenne.

 

Caro, Rocco. Pensa a camminare con il naso dritto.

Saluti. Teresa

 

Che aggiungere? Proprio niente, salvo il particolare che restai in pensione presso la Signora di Maglie sino alla fine dell’anno scolastico, facendo, invece, ritorno a Marittima, da mia madre, per prepararmi agli esami di diploma.

Ovviamente, è divenuta immensa la distanza curricolare da quella stagione e l’attuale quotidianità incorniciata dai capelli bianchi non prevede più sessioni di prove scolastiche, essendo, bensì, rivolta a traguardi e mete di tutt’altro genere, e però, sempre sotto lo sguardo della Signora autrice della lettera di cui anzi.

Unum tantum edo, uno e basta! Questo è il corbezzolo

 

Rusciuli del Salento leccese (Corbezzolo Arbutus unedo L.):

ne mangio uno! Uno e basta!


di Antonio Bruno

Il corbezzolo (rùsciulu per il Salento leccese) è un arbusto o alberello sempreverde che può, con una ruvida corteccia scura.
Le foglie sono di colore verde scuro, più chiare nella pagina inferiore, lunghe 4-5 cm., ellittiche, lucide, col margine seghettato. I fiori sono piccoli e a gruppetti, di un colore che va dal bianco al roseo. I frutti sono simili alle fragole, sferici, grandi fino a 2 cm., conuna superficie verrucosa e ruvida.
Di seguito utili notizie su questo frutto del Salento leccese.
 
 
“Rusciuli russi, ci òle rusciuli?”
 
Cantu nna beddha strìa ca’ passa e tice:
 
“Rusciuli russi, ci òle rusciuli?”
 
O Lecce t’amu tantu e su’ felice.
 
Traduzione
 
Corbezzoli rossi, chi vuole corbezzoli?
 
Canta una bella ragazza che passa e dice
 
Corbezzoli rossi, chi vuole corbezzoli?
 
O Lecce t’amo tanto e son felice
 
 
 
Sarà per il loro colore che mi fa pensare al bel rosso delle labbra di questa donna, sarà che questa bella donna li offre con spensieratezza, ma questi frutti mi mettono allegria e sono stati per tanto tempo mangiati da papà e mamme del Salento leccese. Adesso non li trovi mai!
Scrive Gianni Ferraris in Spigolature Salentine: “Terra di profumi, e di colori il Salento. Il cielo è azzurro intenso, il mare passa dal verde al bianco, al nero. E la campagna ha il rosso della terra e il verde intenso della vegetazione. In queste terre ho mangiato per la prima volta nelle mia lunga vita i corbezzoli raccolti dall’albero (rùsciuli in dialetto), ed ho raccolto rucola spontanea. Ne trovi ovunque qui. Ed ho visto ballare la pizzica. Pizzica e taranta, ritmi simili che hanno contaminazioni africane con l’ossessivo suono dei tamburelli.”
Il Corbezzolo Arbutus unedo L. è un arbusto sempre verde tipico del Salento leccese è una specie appartenente all’ordine delle Ericales, alla Famiglia delle Ericaceae e al genere Arbutus.
Gli antichi lo associavano alla dea Carna, protettrice del benessere fisico, rappresentata con un rametto di corbezzolo tra le mani con cui la dea scacciava gli spiriti maligni.
E’ stato descritto da Aristofane, Teofrasto, Virgilio, Plinio, Ovidio e Columella che hanno descritto l’uso dei frutti della pianta attribuendo il nome latino unum edo (Arbutus unedo).
Se Virgilio nelle Georgiche indica questa pianta semplicemente col nome “arbustus”: arbusto, Plinio il Vecchio era entusiasta di queste bacche rosse o di un bell’arancione solo che ne raccomandava un consumo limitato. Plinio diceva “unum tantum edo”, che tradotto significa “uno e basta”.

Questa cautela deriva dalla circostanza che vede alcuni individui che mangiano anche poche corbezzole soffrono di gravi disturbi gastrointestinali ed ebbrezza, quest’ultima determinata dal fatto che quando “i rusciuli”sono maturi contengono una discreta quantità d’alcol. Se vi avvicinate all’albero di Corbezzolo raccogliete i frutti. Si raccolgono quando sono belli rossi e morbidi al tatto.
Un frutto che ti ci possono mandare a raccoglierlo: “Ane! bba cuegghi rusciuli!! E poi dammeli tutti a mie!” che significa “E vai a raccogliere corbezzoli! E poi dalli tutti a me!”.

i fiori del corbezzolo (ph M. Gaballo)

E’ originario dell’Irlanda dove si trova ancora oggi. I Romani possono averlo introdotto nel Salento leccese. Lu rusciulu è quasi estinto eppure lo sapete che si racconta che il corbezzolo ha ispirato i colori della bandiera italiana?
Bianco, rosso e verde: il bianco dei suoi fiori, il rosso dei suoi frutti ed il verde intenso delle sue foglie, ed ecco che nel Risorgimento Italiano divenne un simbolo patriottico, perchè proponeva i tre colori della bandiera che guidava i nostri antenati desiderosi di unire l’Italia, fu per questo motivo che il corbezzolo divenne simbolo della lotta di indipendenza.
Il corbezzolo compare anche nello stemma della città di Madrid.
Oltre ai frutti che i nostri papà e mamme hanno abbondantemente mangiato la pianta sta riscuotendo un successo per la presenza contemporanea in inverno di fiori bianchi, frutti rossi e aranciati e foglie verdi.
La pianta di corbezzolo può raggiungere dimensioni ragguardevoli con un diametro di metri 2,5 e un’altezza di 5 – 8 metri.
Ha infiorescenze terminali che pendono con 15 – 30 fiori. La fioritura avviene a partire da questo mese di Settembre sino al Marzo successivo, il frutto è una bacca che pesa da 5 a 8 grammi, si può mangiare, ha una polpa ambrata piena di sclereidi (sono quelle parti che formano il guscio di molti semi) con un numero variabile di semi, ed è ricchissimo di zuccheri e vitamina C.
Gli uccelli sono ghiotti dei rusciuli, nutrendosene diventano i responsabili della diffusione di questa pianta, ma è anche riproducibile per parte di pianta visto che la pianta del corbezzolo dopo un incendio ricaccia abbondantemente, facendo questa pianta adatta per l’uso forestale nella nostra zona che è ambiente di macchia mediterranea soggetta agli incendi estivi.
 

 
Bibliografia
 
Pizzi – Gentile: Lecce Gentile
Gianni Ferraris: La torre del Serpe
Federico Valicenti: C’era una volta il Corbezzolo
Nieddu, G.; Chessa, I. : Il corbezzolo [Arbutus unedo L.]
Chessa, I.; Mulas, M: Le specie frutticole della macchia mediterranea: la valorizzazione di una risorsa
Morini, S.; Fiaschi, G.; D°Onofrio, C.: Indagini sulla propagazione per talea di alcune specie arbustive della macchia mediterranea
Chessa, I.; Mulas, M.: Le specie frutticole della macchia mediterranea: la valorizzazione di una risorsa

Clemente Antonaci e Il cittadino leccese (terza ed ultima parte)

di Maria Grazia Presicce e Armando Polito

Conclude il ciclo di puntate dedicate all’argomento un altro “stornello” pubblicato nel n. 5 (anno secondo) del 29 marzo 1862 del settimanale leccese. Rispetto al precedente la struttura metrica appare più “popolare” con i versi, sempre endecasillabi, a rima baciata.

Stornello

Era un mese d’autunno allor che il nido

Va la rondine a porre in altro lido

E mi disser venivi; intesi il core

Come quel tempo che fu primo amore.

E mi vestii color dell’amaranto1

Ed in famiglia ti si attese tanto:

Poi l’altro dì vestii color di neve

E ad incontrarti feci via non breve:

Poi l’altro dì vestii color del mare

San Giuseppe e la tradizione

di Emilio Panarese

 

La festa di S. Giuseppe, che a volte precede di poco la Pasqua, è la prima festa di primavera, legata a ricordi di vecchie tradizioni, in parte scomparse, come la taulàte de S. Giseppe* (le tavole col ricco pranzo per nove poveri servito da una padrona devota) e le pagnuttelle benedette con la rituale massaccìciri bbullente/ca fuma de li piatti sbitterrati, consumata la vigilia e chiamata a Lecce cìceri e ttria: taglierini fatti in casa mescolati con ceci e con qualche taglierino fritto spezzettato sopra.

cìciri e tria, tipico piatto salentino consumato nella festività di S. Giuseppe

 

La graffiante satira di Paolo Piccione va Oltralpe

Il 22 e 23 marzo 2012, il vignettista salentino Paolo Piccione sarà ospite dell’Università di Saint Etienne, dove prenderà parte al III SIMPOSIO E MOSTRA DI VIGNETTE DI SATIRA POLITICA DAL XIX SECOLO AD OGGI, presso le Grandes Ecoles – Lycée Claude Fauriel di St. Etienne, in qualità di illustratore e vignettista satirico italiano.

Il 22 e il 23 ci sarà la mostra di vignette satiriche.

Il 23 la Tavola Rotonda su “Le sfide e le limitazioni del fumetto politico in Francia e in Italia oggi”, dove, oltre all’autore italiano, ci saranno due grandi firme della satira francese: Bauer e Coco.

Programma ed info su: http://www.prepas42.org/web/actus/calendrier/2011_colloque_caricature.html

La marzotica della masseria Bellimento in agro di Nardò

ph Franco Cazzella

di Massimo Vaglio

Sulla litoranea che da Sant’Isidoro porta a Santa Caterina, nei pressi dell’ormai famosa Palude del Capitano ultima appendice, ma non per importanza, dello stupendo Parco Regionale Porto Selvaggio-Palude del Capitano, sorge la masseria Bellimento, una masseria edificata alla fine dell’800 su terreni macchiosi e paludosi che sino ad allora erano stati destinati ad usi civici, ovvero, erano terreni ove gli abitanti di Nardò meno abbienti potevano esercitare liberamente il prelievo di legna da ardere, di erbe e di qualunque altra risorsa vi nascesse.

Il bianco caseggiato, ora fiancheggiato da alberi, sino a qualche decennio addietro si ergeva con minimalista semplicità in una steppa a dir poco brulla, senza un albero che occultasse la sagoma vagamente arabeggiante, un gregge misto di pecore di razza Moscia e di rustiche capre autoctone, insieme a qualche bovino di “razza” Prete costituivano la dote di questa masseria condotta al tempo da patrunu Mario, padre degli attuali proprietari, indimenticabile figura di uomo saggio, di amico e di padrone di casa. Tutte le attività che vi si svolgevano erano condotte con estrema semplicità o come diremmo oggi a basso impatto ambientale, gli animali si alimentavano solo con quello che l’ambiente circostante offriva: frasche della macchia ed erbe sferzate dai salsi dai venti marini. Il caccamo della merce, ossia la caldaia del latte, era alimentato esclusivamente con sterpi di Cisto di Montpellier secchi e di altre essenze neglette, raccolti quotidianamente nella gariga circostante. I semplici, quanto buoni formaggi che venivano prodotti, stagionavano nello stesso ambiente su tavole imbiancate da decenni d’essudazioni saline, ove spesso acquisivano involontariamente pure una blanda affumicatura. Anche qui, l’attrezzatura era a dir poco primordiale, una caldaia di rame stagnato, un tavolo, un ruotolo d’alaterno, un po’ di fiscelle di giunco, una schiumarola e un telaietto con un paio di stamigne. Niente termometri o altre diavolerie tecnologiche, pochi semplici gesti e il coinvolgimento di tutti i cinque sensi nello svolgimento di routinarie quanto semplici operazioni. Il cambio del suono del càccamo, battuto con il ruotolo, avvisava che la ricotta stava per flocculare candida come fiocchi di neve, e che bisognava allontanava il

Supersano. La Vergine di Coelimanna tra principi, pastorelli e briganti

di Massimo Negro

Coelimanna mantiene fede al suo nome. Gli antichi latini direbbero “nomen omen”. In effetti questo sito è una vera e propria manna dal cielo per coloro a cui piace raccogliere e raccontare storie sul nostro passato e sulla nostra terra. E’ una mirabile sintesi di leggende, di religiosità, di arte e di storia.  Tutte concentrate in questo piccolo spazio del nostro Salento.

Da dove cominciare?

Partiamo dalle leggende, dalle storie più antiche, per poi avvicinarci ai nostri giorni e alla mia visita alla cripta.

La prima di questa storie racconta di una guarigione miracolosa, in un periodo della nostra storia imprecisato. Un principe romano era stato colpito da un morbo che lo avrebbe condotto alla morte se non fosse intervenuta la Vergine Maria, apparendo allo sfortunato con il titolo di Coelimanna, e guarendolo. La leggenda racconta che il principe, una volta guarito, volle recarsi sul luogo a cui rimandava l’apparizione, ma durante il tragitto qualcosa di strano accadde. Infatti il cavallo d’improvviso iniziò ad inginocchiarsi dapprima all’ingresso del paese, poi una seconda volta lungo la strada che conduceva verso il bosco. Infine si ebbe ad inginocchiare una terza ed ultima volta nel luogo in cui, per devozione e per ringraziamento per la guarigione ricevuta, il principe fece erigere un Santuario. Secondo la leggenda, i luoghi in cui il cavallo si inginocchiò improvvisamente sono dove oggi sono posti dei menhir, lungo la strada che dal paese conduce verso il Santuario.

Come tutte le leggende che si rispettino non vi è  nulla di documentato. Certo è che questa commistione tra religiosità cristiana, l’apparizione miracolosa della Vergine, e quella pagana, rappresentata dai menhir, lascia validamente supporre che il luogo fosse abitato sin dai tempi più antichi e poi successivamente “convertito” ad una differente destinazione religiosa.

La seconda storia che si racconta, e che ebbe più della prima a lasciare chiare evidenze nella religiosità popolare del luogo, narra di un’apparizione della Vergine di Coelimanna ad una pastorella.

Il P. Antonio da Stigliano, cappuccino, così riferisce la tradizione sul Santuario.

“Conduceva alla pastura, su quella verde collina, il suo gregge, una pastorella innocente, quando all’improvviso un giorno, proprio il Sabato precedente alla prima Domenica di Luglio, le si fece innanzi una maestosa Signora, la quale col suo celestiale sorriso le disse: Figliuola mia, va a chiamarmi il Curato di Supersano; la fanciulla modestamente osservava che il suo gregge senza di lei si sarebbe disperso, danneggiando nelle terre vicine e la sconosciuta ed affettuosa Signora le rispose che nella di lei assenza lo avrebbe Ella custodito.
Pronta allora al comando reca l’avviso al Parroco, il quale, animato da zelo, non mancò di condursi sul luogo al fianco della santa fanciulla. Costei giunta sulla collina gli additava quella gran Donna tenutasi nascosta dietro un cespuglio. Il fortunato sacerdote, nulla di straordinario avendo osservato, ritonò in Parrocchia, dove nella seguente Domenica, avendo narrato al popolo l’apparizione prodigiosa, predicò che ognuno si provvedesse di ferro per aprire quel folto cespuglio, ove si ascose la Donna apparsa il giorno innanzi alla pastorella innocente. Non mancò certo la preghiera, dopo che il popolo processionalmente raccolto ed avviatosi sul luogo aprì con sollecitudine il cespo additato. Fu scoperto un antro, ove si rinvenne una cappella (l’attuale Cripta) avente in mezzo un altare con nicchia, in cui un affresco è l’immagine bellissima della regina del Cielo, fregiata da un’iscrizione greco-latina che dice: Virgo Manna Coeli.”

L’apparizione della Vergine alla pastorella si narra che avvenne nel XV secolo. A ricordo dell’evento venne eretto l’attuale Santuario della Beata Vergine di Coelimanna (inizi del XVI secolo, rifatto e ultimato nel 1746). All’interno dell’edificio religioso, posta sull’altare, vi è una rappresentazione in cartapesta dell’apparizione miracolosa che in modo efficace racconta visivamente quell’evento.

La terza storia, a noi più recentemente e in questo caso anche documentata, è solitamente poco conosciuta e raramente accostandola alla storia del Santuario e all’adiacente e più antica cripta.
Siamo negli anni subito dopo l’unità d’Italia. Anni di speranze per molti infrante e di grandi difficoltà economiche, aggravate o causate da una legislazione neounitaria dai tratti ritenuti particolarmente vessatori verso la popolazione del meridione.
Siamo negli anni in cui frequentemente la contestazione e l’esasperazione sfociava in fenomeni di ribellione violenta. Siamo negli anni del banditismo, negli anni di Quintino Ippazio Venneri detto “Macchiorru” (1).

Quintino Ippazio Venneri nacque ad Alliste il 20 ottobre 1836. Nel 1859 si unì all’esercito Borbonico come soldato di leva. Tornato a casa nel 1860 dopo la disfatta e la resa del Regno, si unì nel 1861 alle forze reazionarie e per questo venne arrestato, rimanendo in carcere per circa un anno. Tornato al paese ci restò poco e nel mese di ottobre del 1862 si diede alla macchia.

I fatti compiuti dal Venneri e dalla sua banda furono numerosi. A lui e ai suoi venne anche attribuita la morte di un prete di Melissano, don Marino Manco ritenuto filo-sabaudo (2). La fine della storia del Venneri si intreccia con il sito di Coelimanna.

“La cattura di Quintino Venneri” di R. Rizzelli “Pagine di Storia Galatinese” 1912.

“La cattura, anzi, l’uccisione di Quintino Veneri, avvenne in modo tragico ed emozionante. La stazione dei carabinieri Ruffano, nel colmo della notte del 23 marzo 1863, fu avvertita che Quintino Venneri si era rifugiato entro la cappella di Cirimanna, un chiesetta sita alle falde della collina di Supersano. L’ora tarda non permise ai militi della benemerita arma di avvisare il comandante della Guardia Nazionale di stanza alla masseria Grande dei signori De Marco di Maglie, e postasi in armi in soli otto carabinieri, al comando di un brigadiere, corse a Cirimanna. Il drappello dei valorosi giunse sul posto in sul far del giorno e nell’accerchiare la chiesetta non potette fare a meno di non prevenire il capo banda Veneri il quale, non potendo evadere, si pose in sugli attenti per difendersi. La chiesetta aveva dietro un piccolo orto, cinto di alto muro, e il brigadiere, posti i suoi militi alla posta, si avventurò da solo per forzare la posizione. Poverino, si era appena appena affacciato all’orto, ed al momento di scavalcare il muro, una rombata di Venneri lo fredda. Alla caduta fulminea del superiore i militi si lanciano come leoni feriti nel covo di Quintino Venneri. I più risoluti si gettano nell’orto, gli altri, col calcio del fucile atterrano la porta della Cappella e, a due fuochi, impegnano il sanguinoso conflitto. Una palla del moschetto del carabiniere Anacleto Risis, di Alba Pompea, pose fine alla mischia spaccando in due il cuore del temuto bandito: l’Arma benemerita aveva liberato la contrada del capo banda ma aveva rimesso la pelle di un suo valoroso soldato.

La notizia, intanto, del conflitto che si era impegnato tra l’arma dei carabinieri e Quintino Venneri, sulla cappella Cirimanna, era giunta a Don Angelantonio Paladini, sopra la Masseria Grande, e quando il maggiore, comandante tutte le guardie nazionali dei nostri dintorni, impegnate nella repressione e cattura degli sbandati, giunse ai piedi della collina di Cirimanna, già la benemerita arma aveva pagato il suo tributo e riscosso il premio delle sue fatiche. Don Angelantonio divise in due drappelli le sue guardie – la compagnia delle guardie nazionali di Parabita l’adibì per accompagnare il corpo esamine del povero brigadiere, sino al vicino paese di Supersano, e la 3° compagnia delle guardie nazionali di Galatina accompagnò il cadavere di Quintino Venneri che per pubblico esempio e per appagare la curiosità di tutte le popolazioni del Capo lo si tenne esposto, per tre giorni, sulla piazza di Ruffano, guardato dalla nostra Guardia Nazionale.

La presa di Quintino Venneri fece epoca e in tutta la regione del Capo se ne formò una leggenda: bello, dai capelli ricci, forte, simpatico e, nella sua rudezza di uomo di macchia, generoso e galantuomo. Le mamme ancora lo ricordano ai loro bambini, intessendo mille aneddoti e mille avventure intorno alla vita di colui che, morto, si tenne esposto sulla piazza di Ruffano per pubblico esempio”.

Ora non ci resta che raccontare della cripta e degli affreschi al suo interno.  Dire che il luogo ispira al silenzio e alla contemplazione può sembrare quasi ironico, visto che il sito è ora inglobato nell’attuale cimitero di Supersano. Ma in effetti così è, come in tutte le cripte di origine basiliana, dove quei santi visi e mani benedicenti fungono quasi da macchina del tempo nel  riportarti indietro in un’epoca in cui il sentimento religioso riusciva ad esprimere vette artistiche di incommensurabile valore. La bellezza paesaggistica del sito resta tutt’ora, ancorché inglobata nel cimitero, in quanto la cripta e il Santuario si trovano adagiati sul fianco delle Serre, lungo una collina dalla vegetazione fitta e lussureggiante in cui ci si può inoltrare grazie a dei sentieri che portano ad immergersi nel verde del bosco.

La cripta ha un ingresso alquanto anonimo. Uno scavo in piano nel costoso roccioso  con una piccola porticina d’ingresso. Riguardo lo stato dei luoghi è difficile ipotizzare come dovessero essere originariamente, anche a motivo della successiva costruzione del Santuario che venne adagiato nel costone accanto alla grotta. Inoltre, accanto alla cripta vi è un secondo ingresso che conduce in un diverso antro messo in comunicazione con il primo da un cunicolo evidentemente scavato anch’esso. E’ probabile che se la cripta costituisse il luogo di preghiera, la seconda grotta potrebbe essere stata adibita a ricovero dei monaci.

In questo secondo antro non si notano tracce di affreschi.  Riguardo il cunicolo si racconta che dovesse portare addirittura sino a Leuca; ma nella realtà non va più lontano di qualche metro.

 

La cripta dalla forma quadrangolare appare divisa in due parti, quasi fossero due navate, per quanto dalle dimensioni irregolari, separate quasi nel mezzo da un pilastro e da archi. E’ probabile che la prima parte della cripta, quella in cui si accede dall’ingresso, sia quella più antica e che la seconda venne scavata ed aggiunta in un’epoca più tarda. Ad avvalorare questa ipotesi, sia la differente altezza della volta, più alta ed ampia nella seconda sezione, sia la decorazione paretale ben diversa dalla prima. Infatti se nella prima sezione sono visibili affreschi riconducibili quasi per intero alle mani e all’ingegno dei monaci basiliani, nella seconda vi sono in particolare motivi floreali e visi di angeli di fattura diversa e più grossolana rispetto a quella di ispirazione bizantina. Ciascuna sezione ha un suo altare, ma su questi vi ritornerò a breve nella descrizione del ciclo pittorico.

Iniziamo a raccontare le sacre immagini presenti all’interno riprendendo quanto ebbe a scrivere nell’800 il De Giorgi nei suoi Bozzetti di viaggio per i luoghi del Salento.

“… volti affusolati, grandi occhi ovali, lineamenti un po’ grossolani ed abbigliamenti ricchi di pieghe in parte cancellate dall’umidità … Quanta espressione in quelle poche linee che rappresentano la Vergine col Bambino … Che atteggiamento ispirato e terribile in quel San Giovanni Battista dagli occhi pieni di vita e dai capelli scarmigliati! … Quei vecchi dipinti parlano al cuore, e questi nostri [dei moderni realisti] si direbbe che son destinati più ad accarezzare la retina, che ad invitare alla preghiera …”

La prima figura che si incontra, a sinistra dell’ingresso, è seriamente danneggiata e regge un Evangelio su cui si possono leggere, anche se con una certa difficoltà, sulla prima pagina “EGO SUM LUX MUNDI”, mentre sulla  seconda “QUI SEQUI TUR MEN ABUL ATI IN”, cioè “ Io sono la luce del mondo chi segue me non camminerà nelle tenebre”. Tale figura dovrebbe rappresentare un Cristo in trono con la mano benedicente alla greca.

La seconda figura è stata attribuita a San Giovanni Evangelista, anche se le iscrizioni sul libro aperto sono quasi illeggibili, così come l’iscrizione esegetica. Di questa il Fonseca, nel 1979, riesce a leggere poche lettere – “EVAN…”.
La terza figura è la classica rappresentazione di San Nicola a mezzo busto. L’affresco ha una particolarità; reca il nome del santo scritto sia in greco che in latino. Questo particolare testimonia la progressiva latinizzazione che ebbero a subire queste comunità inizialmente di rito greco.

L’ultima figura di santo presente sul lato sinistro dell’ingresso è quella di San Giovanni Battista, vestito con una tunica, benedicente alla greca e con un cartiglio in mano da cui poco o nulla si può leggere. Questo è il Battista che tanto ebbe ad impressionare il De Giorgi durante la sua visita. Anche su questo affresco il Fonseca rintracciò la doppia iscrizione in latino e greco.

Sulla parete a destra dell’ingresso vi è un bellissimo dittico con Sant’Andrea prima e San Michele a seguire. Sant’Andrea indossa tunica e mantello, e regge un cartiglio arrotolato in mano.
Il San Michele non è l’arcangelo ma si ritiene possa essere San Michele Maleinos, rappresentato con un bastone e croce astile, attributi con cui si raffigurano i santi eremiti.

A seguire una bellissima Vergine in trono con bambino benedicente alla greca.

 Sul pilastro a destra vi sono rappresentati due santi. Un santo diacono attribuito a Santo Stefano, dal nimbo perlinato che regge con una mano un incensiere e con l’altra probabilmente l’epigonation per l’elemosine. Secondo Medea potrebbe essere San Lorenzo.
Un santo Vescovo che regge un Evangelio e benedice alla greca. La fattura di quest’ultima figura appare di un periodo diverso (forse XV – XVI secolo) rispetto alle altre figure presenti in questa sezione della cripta (XIII – XIV secolo).

Sullo stesso pilastro una suggestiva Vergine della Misericordia con il tipico mantello aperto in cui sono raffigurati dei flagellanti incappucciati.

L’ultimo affresco presente nella prima sezione della cripta è posto sopra l’altare e rappresenta una Vergine con Bambino. La Vergine con la mano sinistra regge un frutto.

Oltrepassato l’arco, la seconda sezione della cripta è caratterizzata dalla presenza di un bell’altare barocco con incastonata l’icona di una Vergine con Bambino. Molto probabilmente la costruzione di questo altare è riconducibile allo stesso periodo in cui all’esterno venne elevato il Santuario.

Il resto di questa sezione appare molto particolare in quanto le decorazioni sono caratterizzate da numerosi ed estesi motivi floreali e da un bellissimo cielo stellato.  Lungo la parete in cui è presente un sedile in pietra per l’officiante, sono rappresentati un San Rocco e una Crocifissione.

Prima di uscire dalla cripta, vi vorrei far notare alcune strane figure dipinte presenti nei pressi dell’ingresso. Difficile dire cosa siano e a cosa siano servite.

Prima di lasciarci vorrei brevemente tornare sul nome del sito, Coelimanna, manna dal cielo. Perché questo nome? Una delle possibili risposte può essere data dalla presenza in quei luoghi dell’albero della manna. Ad avvalorare questa tesi, sono stati individuati di recente alcuni esemplari di questi alberi nella zona compresa tra il Santuario e la Chiesa della Madonna della Serra (3).

Il sito è stato interessato da un restauro nel corso del 2001. Purtroppo l’umidità presente all’interno è abbondante e rischia con il tempo di compromettere ulteriormente lo stato degli affreschi. Addirittura su una parete erano cresciuti dei funghi.

 

Ringraziamenti. Sezione inusuale ma con piacere dovuta. Intanto un grazie al mio amico “Pasquino Galatino” che mi ha introdotto alla figura di Quintino Venneri. Un grazie anche a Michela Ippolito e all’amico Marco Cavalera che hanno reso possibile la mia prima visita al sito in occasione di una due giorni dedicata alla cripta e ad altri bei luoghi della  zona di cui scriverò in seguito. Ringraziamento doppio, visto che grazie a quella visita ho avuto il piacere di conoscere Marco di Salogentis.it, Franco e Bea di Japigia.com e Lupo Fiore un altro instancabile camminatore del Salento.

Fonti e riferimenti utili:

– (1) Sulla vita di Quintino Venneri rimando alla lettura dei numerosi articoli e note presenti in questo sito:  http://www.pinodenuzzo.com/controstoria/macchiorru.htm

– (2) Sul racconto dell’uccisione di Don Marino Manco, rimando allo scritto dell’amico Stefano Cortese anch’esso raccolto nel sito su indicato.

– (3) Articolo di Francesco Tarantino
https://spigolaturesalentine.wordpress.com/2011/02/03/l%E2%80%99albero-della-manna-nelle-campagne-di-supersano-le/

– Sempre su questo luogo potete leggere su: http://www.japigia.com/le/supersano/index.shtml?A=coelimanna
http://www.salogentis.it/2011/12/11/la-cripta-di-santa-maria-coelimanna-a-supersano/

– Gli insediamenti rupestri medioevali nel Basso Salento – Fonseca, Bruno, Ingrosso, Marotta – Congedo Editore, Galatina 1979.

pubblicato su

http://massimonegro.wordpress.com/2012/03/07/supersano-la-vergine-di-coelimanna-tra-principi-pastorelli-e-briganti/

Dal primitivo di Torchiarolo a quello della Terra di Manduria

di Pino de Luca

Sette vini di primitivo con questo. Da solo o in compagnia canta dalle colonne di questa rubrica. Dal primitivo di Torchiarolo torniamo a quello della Terra di Manduria.

Dicite vos, colles, vos, ebria rura Phalanti,/ Munera quae Bacchus praestet: nam Caecuba, fama est,/ Lesbia, et ambrosei spumantia prela Falerni/ Vincere, saxosamque Chion, rubeumque Calenum.

(Dite voi, o colli, voi o campi ubertosi di Falanto, di quali doni Bacco non sia prodigo; poiché è fama che sia meglio (il vino) di quello di Cecuba e di Lesbo, e dello spumante Falerno, e il rosso Caleno e quello della sassosa Chio.) Così racconta Tommaso Niccolò d’Aquino nelle sue Deliciae Tarentinae. Latore di grande amore verso la sua terra ma anche storico testimone che la vigna nel tarantino ha radici

Clemente Antonaci e Il Cittadino Leccese (seconda parte)

Albert Anker – La lettura del giornale

di Maria Grazia Presicce e Armando Polito

Dopo l’encomio funebre della puntata precedente presentiamo oggi un’altra poesia di Clemente Antonaci  pubblicata nel n. 13 (anno primo) del 12 ottobre 1861 de Il cittadino leccese.

Questa volta il tema è indubbiamente più allegro e anche la forma si adegua utilizzando, come nella poesia precedente, l’endecasillabo, non sciolto ma organizzato come si dirà più avanti. Non ci sembra questo il caso di teorizzare sulla funzione della rima a seconda dei vari generi letterari, anche perché, per quanto essa riemerga periodicamente magari solo come fantasma nell’assonanza, siamo convinti che il vero artista può fare tutto, anche scrivere qualcosa di tragico in rima baciata senza far ridere e qualcosa di comico in endecasillabi sciolti senza far piangere. Né questa consapevolezza poteva mancare al suo autore  col titolo Stornello (lo vedremo anche nel terzo componimento che esamineremo nell’ultima puntata), anche se poi la struttura metrica, di cui parleremo più avanti, ne è distante anni luce. Anche questa volta proponiamo la testata e il testo di quel giorno, testo che, come la

Gardner (come deve andare)

Claude Joseph Vernet, Naufragio nella tempesta (1754)

di Paolo Vincenti

“La Tempesta”, un dipinto di Joseph Vernet del 1777, rappresentava molto bene il clima di paura e di smarrimento che aveva respirato di fronte all’orrore del mare.

William James Gardner: ecco un uomo che conosceva il mare e soprattutto gli infiniti pericoli ed insidie che la grande distesa azzurra reca in sé. Aveva viaggiato a lungo per mare, ne aveva scrutato gli abissi di nostalgia e gli infiniti orizzonti che l’avventura marina regala a chi decide di sfidare se stesso e la propria paura, le proprie angosce di uomo, salendo su un’imbarcazione e partendo alla volta del proprio destino. Aveva viaggiato a lungo per sapere che al mare si va ma dal mare, spesso, non c’è ritorno. Aveva persino imparato che si parte alla volta del proprio destino spesso soltanto nelle intenzioni,  ma quella che si incontra è poi una parvenza di destino, almeno del proprio, e invece ci si scontra con quello degli altri, scritto male da altre vite, da altri sogni, e si ritorna stanchi e delusi a casa, più sconfitti che mai.

E se stare in mare è dura, tornare a terra è ancora più faticoso, perché si vive come divisi in due, dilaniati fra la nostalgia di casa e quella del mare, senza poter scegliere mai, senza saper scegliere mai.

Aveva assaporato l’aria acre della salsedine marina e ascoltato, nelle lunghe mattine di sole e d’azzurro, lo stridio dei gabbiani che volano bassi,  tracciando quelle spirali che nessuna geometria può spiegare ma solo il cuore vecchio di lupo di mare può capire. Aveva viaggiato tanto da sapere che sulle navi il trattamento è cattivo, come poi scrisse nei suoi reportages, il cibo è cattivo, la paga cattiva e le prospettive ancora peggiori.

Sapeva che la vita sulle navi è scomoda, che la vita sulle navi è ingrata e stancante ed è squallida a volte anche la compagnia. Gardner: un uomo che aveva conosciuto isole e popolazioni, aveva fatto esperienza e masticato

Tolosa. Parte di Place du Salin sarà intitolata a Giulio Cesare Vanini

Toulouse, palazzo di Giustizia su Place du Salin
di Giacomo Grippa
Dopo aver intestato  a Giulio Cesare Vanini  un  circolo laico a  Lecce, ho ripetutamente interessato la  Provincia di Lecce, il Ministero dei Beni Culturali, l’Assessorato Regionale alla Cultura e il  Comune di Taurisano,  paese natio di Vanini, proponendo  la posa di un cippo a Tolosa, nella piazza dove il carmelitano filosofo fu giustiziato, a 34 anni, reo d’ “ateismo”, con una pena atroce: gli strapparono la lingua con una tenaglia, lo impiccarono e poi bruciarono.
Le indicate autorità sono rimaste silenti, anche se da ultimo la Provincia leccese ha patrocinato la ristampa delle opere di Vanini, a cura degli studiosi Raimondi e Carparelli, edite da Bompiani.

Resta intanto meritoria la quasi ventennale attenzione rivolta a Vanini dal Dipartimento di Filosofia dell’Università del Salento di cui ha

Galatina e i suoi fanciulli di un tempo

di Rino Duma

Spesso m’accade, soprattutto durante le lunghe notti insonni, di riandare con la mente ai tempi della mia fanciullezza, quando la vita m’appariva come un meraviglioso sogno avviluppato in strani ed arcani misteri.

Il mio è un ritorno piacevole e, al tempo stesso, nostalgico; mi sforzo di ricordare immagini, volti, circostanze e, nel mentre, mi volto e mi rivolto tra le lenzuola. Mi assale una smania indescrivibile ed ho voglia di fugare dai pensieri i numerosi affanni quotidiani, i tormenti e i pesi notevoli di questa parte della vita.

Sono, perciò, portato a scavare nel mio lontano passato, a rovistare freneticamente, a mettere a soqquadro la memoria, sperando di tirar fuori episodi particolari della mia dolce infanzia, mai rievocati.

L’infanzia, già!… Era l’età piu bella, un’eta che sembrava non dovesse finire mai. Erano i tempi delle gioie piene e dei lunghi sorrisi… dei sorrisi che via via si smorzavano sul viso al comparire delle prime amare certezze della vita; erano i tempi delle tante paure, delle lacrime facili, dei numerosi ma necessari rimproveri, sia paterni che scolastici, fatti di dure parole ma anche di schiaffoni e di colpi di riga.

Erano i tempi dei giochi semplici e spensierati, ma soprattutto di studio, di tanto studio che si protraeva sino a tarda sera sotto la luce di una lampada da venticinque watt.

Lo studio di allora era martellante, insopportabile e, almeno per noi, inspiegabile ed inutile.

Per le vacanze di Natale, i professori, sempre severi ed inflessibili, ci assegnavano una caterva di compiti: dovevamo trangugiare pagine e pagine di storia e geografia, imparare a memoria una cinquantina di versi dell’Iliade o dell’Odissea oppure un’interminabile poesia, tradurre alcune versioni di francese e di latino, queste ultime da riportare sull’odiato “analizzatore”, risolvere diversi problemi di geometria ed esercizi di aritmetica, fare il riassunto scritto di alcuni brani antologici, eseguire quattro- cinque lavori di disegno ornato e/o geometrico e, come se non bastasse, svolgere almeno tre temi d’italiano su argomenti diversi.

Che bei Natali!

Darei, comunque, un anno del mio futuro, che di certo sarà ricco di pesi e di inquietudini, pur di ritornare indietro e ritrovare, almeno per un giorno o soltanto per poche ore, i miei genitori, gli odiati ed amati professori, i compagni d’allora, i trastulli, i progetti di fanciullo, le mie prime emozioni d’amore, quello strano e inconfondibile sapore che la vita d’allora mi offriva a piene mani.

Poi ripenso a quei tanti “ragazzi di strada” – buona gente, intendiamoci, o meglio “bravi monelli” – che pativano le pene dell’inferno.

Erano ricoperti piu che altro da stracci, indossati negli anni precedenti da una carovana di fratelli maggiori ed altri piu piccoli attendevano il loro turno. Erano perennemente affamati e denutriti, con le gambe sbucciate ai ginocchi e segnate dai rigori invernali, con i capelli sporchi e pieni di pidocchi, con il muco che pendeva dal naso, con le cispe arroccate alle estremità degli occhi.

Le scarpe, poi, risuolate piu volte con cartone pressato o con copertoni di bicicletta, erano tenute ben salde dalle famose “tacce”, che limitavano al massimo il logorio delle suole.

Il maglioncino unto, bisunto, smagliato e consumato all’altezza dei gomiti, i pantaloncini corti, rattoppati in piu parti con stoffa di diverso colore e disegno, mantenuti da un’unica bretellina, davano l’idea di trovarsi di fronte a veri e propri scugnizzi napoletani.

Con gli occhi vispi, scaltri come furetti e con l’intuito sempre pronto, non perdevano mai l’occasione di accaparrarsi in ogni modo, lecito o illecito, i mezzi di sostentamento necessari a migliorare, seppure di poco, la loro miserevole esistenza.

Somigliavano ai “Piccoli Apostoli” di don Zeno Saltini a Nomadelfia.

Quante volte ho svuotato nelle loro insaziabili mani le mie tasche ricolme di fichi secchi!

Quante volte mi sono privato della merendina, pur di veder brillare un timido raggio di gioia sul loro viso!

Tutti insieme si giocava, si correva, ci si picchiava, per poi riconquistare, tempo qualche giorno, le antiche amicizie e la vita di sempre.

I gruppi erano saldamente uniti da un fermo vincolo di solidarietà e da un eccezionale spirito di aggregazione, che difficilmente si riscontrano nei ragazzi di oggi, nonostante abbiano dalla loro parte innumerevoli vantaggi.

Non c’erano ostacoli che potessero intaccare o dividere i gruppi di fanciulli dei vari rioni, tra i quali era sempre vivo uno spirito campanilistico da… guerra mondiale.

Nell’interno di ogni gruppo vigeva una ferrea legge di gerarchie. Il capo, riconosciuto tale a seguito di aspre contese e dure lotte, era “circondato e servito” come un vero monarca da alcuni amici fidati, ai quali erano aggregati altri elementi di minore spicco, sino a comprendere i ragazzi poco abili al gioco, di scarsa iniziativa e poco coraggiosi.

Per essere riconosciuto capo si dovevano superare diverse prove di forza e di coraggio. Ricordo di essermi arrampicato sul cipresso più alto del cimitero (vi assicuro che si tratta d’impresa ardua) e, peggio ancora, di aver attraversato con Tommaso, un altro compagno di ventura, gli interminabili sessanta metri dello stretto cunicolo della fognatura di Piazzale Stazione.

Oggi, guardando quella stretta imboccatura, mi viene da rabbrividire.

La vita associativa era per lo più svolta in strada, che per noi fungeva da palestra, da grande madre, lontano dai pericoli rappresentati dalle autovetture, dalla droga e dall’aids.

Il primo pomeriggio, subito dopo pranzo, era vissuto intensamente e trascorreva in fretta, senza che ce ne accorgessimo.

Poi, nel bel mezzo della spensieratezza, si udiva una voce acuta e stentorea, un perentorio richiamo: erano i nostri genitori che ci ricordavano di riprendere la dura e ossessionante fatica quotidiana, qual era lo studio.

Ed allora nel nostro cuore scendeva un velo d’amarezza e di sconforto; ma intanto ci si dava appuntamento a sera, compiti permettendo.

Il gioco maggiormente preferito era il calcio (calcio alla carlona, tanto per intenderci). Infatti, tutti i giocatori rincorrevano la palla di gomma (quando si era fortunati ad averne una) o la palla di pezza o di carta pressata: tutti attaccanti e tutti difensori dietro a quella magica sfera.

Il “terreno di gioco” (si fa per dire) era generalmente il Piazzale “Stanzione” (lo chiamavamo cosi), quando si era fortunati a trovarlo libero, oppure ci si spostava ai “Banchini” (attuale Largo San Biagio) o anche dietro alla “Vecchia distilleria” o, quand’altro non ci fosse, su un campetto di fortuna ricavato tra alcuni binari morti della Ferrovia Sud-Est.

Durante il torneo annuale di calcio si giocava in trasferta sui campetti dei vari rioni, i piu importanti dei quali erano la “Stanzione”, la “Porta Luce”, la “Porta Nova”, la “Chiesa Madre”, “Santa Caterina”, “Santu Sebastianu” e “l’Anime”.

Il calcio non era tutto; infatti, c’impegnavamo in tanti altri giochi, per alcuni dei quali era richiesta molta concentrazione ed una bravura innata. Su tutti, ricordo il gioco “Uno monta la luna”, che raramente si portava a termine, poiche vi era sempre qualcuno dei partecipanti che, per imperizia o per carenza atletica, non riusciva a superare le quindici dure prove di abilita. Non meno impegnativi erano i giochi de “Li tuddhri” e de “Mazza e mazzarieddhru”.

Il primo consisteva nel superare, utilizzando cinque piccole pietre ben modellate, alcune difficili prove manuali; il secondo, invece, assomigliava al baseball americano. Dal campo base un giocatore, servendosi di una “mazza”, lanciava quanto più lontano possibile “lu mazzarieddhru” (un pezzetto di legno lungo 10-12 cm, ricavato da un manico di scopa appuntito alle estremità). Vinceva chi totalizzava un certo numero di “balle” (una balla corrispondeva, non certamente ad una frottola, bensi alla misura corrispondente alla lunghezza di cento “mazze”).

Eravamo anche molto industriosi nel realizzare magnifici aquiloni, sfruttando la carta dura dei sacchetti di cemento, oppure nel costruire pattini di legno, fionde di ulivo, perfetti archi per frecce, ricavati dai ramoscelli di eucalipto o di felce, ma anche strani ed efficienti apparecchi, che rappresentavano un lontano prototipo del telefono. Per questi ultimi, bastava avere due barattolini di rame (ad es. di crema da scarpe), uno spago lungo una trentina di metri e un po’ d’ingegno. Grazie ad un chiodo, si praticava un foro centrale nei due coperchi, i quali, in seguito, erano collegati a distanza dallo spago ben teso. Era sufficiente parlare, anche a bassa voce, perche la “telefonata” si trasmettesse da un capo all’altro. Erano i cellulari di quei tempi… ma a tariffa zero.

La domenica pomeriggio, poi, dopo aver assistito in Piazza Fortunato Cesari alla partita di calcio della Pro Italia Galatina, si andava al cinema per godersi il film. I più gettonati erano quelli a sfondo storico, western, di guerra e, un po’ meno, quelli comici. Ricordo che per acquistare i biglietti d’ingresso del film “Ulisse” (interpretato dal famoso attore Kirk Douglas), dovetti sudare le proverbiali “sette camicie”, tanta e tale era la ressa all’ingresso del cinema.

Dopo oltre un’ora di spintoni e pedate, riuscii finalmente ad “approdare” al botteghino. Per la cronaca, vidi il film per ben tre volte.

I cinematografi di Galatina che andavano per la maggiore erano il Cinema Teatro Tartaro ed il Cavallino Bianco; meno frequentati erano la Sala Lillo,la Sala parrocchiale Santa Caterina e l’Arena Italia.

Da grandicelli, verso i 13-14 anni, fummo attratti da un movimento giovanile che a quei tempi impazzava in tutt’Italia: ”I Boys Scout”. Lo scoutismo rappresentò per noi un’ottima occasione per affinare l’incerto carattere ed educarci alla vita di gruppo.

Fu per noi una sana regola di vita (ancor oggi si fa sentire) che ci induceva a coltivare le più importanti qualità dell’individuo, come il compiere il proprio dovere, l’essere leali e coraggiosi, l’amare il prossimo, il sacrificarsi per l’intento comune, il disprezzare la vita comoda, il coltivare la purezza del pensiero, delle parole e delle azioni, l’avere rispetto di tutti gli uomini, senza distinzione di classe, di razza e di religione.

Ora, ritornando mestamente ai nostri duri e difficili giorni, mi sembra come se quelle virtù siano state bandite dal mondo attuale, sempre più rivolto verso ben altre finalità e dimentico ormai di quei semplici, sani e virtuosi valori d’un tempo, di quando cioè tutto appariva un meraviglioso e ineguagliabile sogno.

Ma questa di oggi, purtroppo, è tutta un’altra storia… è una storia brutta e inquietante, dalla quale l’uomo difficilmente saprà tirarsi fuori.

Pubblicato su “il filo di Aracne” n. 3 anno 2008.

Racconti/ Il castello di sabbia

 

disegno di Raffaella Verdesca

di Raffaella Verdesca

 

Solitamente l’ora di cena spopola le strade di mezzo mondo, ma l’ora di cena in piazza Castello a Crotone le annulla del tutto.

Sera fuligginosa e pigra.

Malkon guardava il cielo, prima che accadesse il fatto.

“Aprite! Aprite! Aiuto!” si alzarono le sue urla disperate ad accompagnare il suono sordo dei pugni contro il portone.

Nelle sue invocazioni, il ragazzo non aggiunse di essere rimasto chiuso dentro la fortezza di Carlo V, ma anche se fosse stato lucido e calmo, lì fuori non avrebbe trovato nessuno ad ascoltarlo: tutti a tavola.

Dopo un paio di tentativi di fuga, Malkon si rassegnò a prendere fiato.

Ricordava di essere entrato nel castello per vedere il panorama del porto e del mare. Ci veniva spesso da quando viveva a Crotone, e ora era diventato il suo posto preferito.

Nei momenti di libertà andava fin lassù a visitare le mostre o a guardare le stelle, tanto in casa sua non si poteva proprio stare. Non era distante da lì, gliel’aveva trovata il ‘Caporale’ poco dopo il suo arrivo. Quel giorno aveva scoperto le stradine irte e contorte del centro storico della città, la sua casa era lì. Gli era stata assegnata pezzo dopo pezzo, quasi a rate. Infatti, i primi tempi aveva dovuto sistemarsi nello sgabuzzino perché la famiglia di marocchini che ci viveva non era stata ancora trasferita in un nuovo alloggio. In quel periodo aveva camminato solo lungo il corridoio e nel bagno: interdetta tutta l’altra area calpestabile. Questo l’aveva indotto a immaginare quel posto grande e spazioso, perciò quando la famiglia Sharif finalmente se n’era andata, gli era stata riservata un’immensa delusione. Oltre al bagno, al suo sgabuzzino e al corridoio, infatti, esisteva solo un’altra stanza che fungeva da camera da letto, da dispensa e da cucina. E pensare che lui quegli Sharif li aveva detestati e perfino invidiati! Ecco dunque che per Natale Malkon aveva avuto la sua bella casa delle bambole! Si sarebbe adattato a viverci e anche bene, se al piano di sopra non ci fosse stata Ivanka, un’ucraina col vizio delle canzoni popolari sparate al massimo volume, e a fianco Rajid, un cittadino iraniano con la fissazione del mondo del cinema. Per questo motivo, Malkon lo sentiva ogni sera recitare, ripetere, urlare e sussurrare le preghiere del Corano! Diceva che gli

Clemente Antonaci e Il cittadino leccese (prima parte)

di Maria Grazia Presicce e Armando Polito

Le emeroteche rappresentano, com’è noto, una delle principali fonti per la ricostruzione di un periodo storico; il giornale costituisce, pur nei condizionamenti interpretativi  che ogni legame più o meno ideologico comporta, una fotografia quasi immediata dell’evento, senza gli inevitabili ulteriori filtri che, ad esempio, un saggio, pur coevo, ha potuto, nel limitato tempo che lo separa dall’evento, introdurre.

Capita, perciò, che anche la produzione non strettamente giornalistica, nel caso di oggi quella poetica, trovi spesso (e ciò è capitato anche ai grandi autori) ospitalità su un giornale, nel nostro caso un periodico, un’ospitalità tanto più fortunata  quanto meno probabili sono le possibilità che quel prodotto  possa restare inserito in una raccolta di più ampio respiro pubblicata secondo i consueti canoni. E quei frammenti sparsi, anche se in sé conclusi, costituiscono preziosi tasselli per meglio comprendere e definire la personalità di artisti che pure hanno visto pubblicate le loro opere principali.

Di Clemente Antonaci, personaggio di spicco della cultura risorgimentale salentina1, comparvero su Il cittadino leccese2 tre poesie: la prima, quella che esamineremo oggi, nel n. 11 (anno secondo) del 10 maggio 1862, le altre, alle quali dedicheremo la nostra attenzione nella prossima puntata, rispettivamente nel n. 13 (anno primo) del 12 ottobre 1861 e nel n. 5 (anno secondo) del 29 marzo 1862.

Ecco la testata del numero in cui uscì la poesia di oggi e, di seguito, il testo originale, che poi trascriveremo per poter inserire le note di commento.

Il componimento, in endecasillabi sciolti, è in onore della fine prematura di Vilma Kossuth (13 maggio 1843-22 aprile 1862), figlia del leggendario Lajos, l’eroe dell’indipendenza ungherese, morta in Italia (a Nervi), dove si trovava in esilio con l’intera famiglia, di tisi. Il motivo funebre, però, s’intreccia con quello patriottico non solo in una specie di osmosi padre-figlia ma pure in una sorta di gemellaggio fra due paesi (l’Ungheria e l’Italia) che hanno lottato, anche se con esiti diversi, per un ideale di libertà. Sul piano formale c’è fedele aderenza ai canoni ottocenteschi in generale e risorgimentali in particolare, con l’adozione di molti termini di diretta origine latina, con finalità di enfasi e solennizzazione amplificate talora dall’enjambement (porporini/crepuscoli; mille/adorator; avrete/compagna; strette/le destre; scenderanno/ innumere); non manca neppure un’eco leopardiana  [A riguardar verrai sul tuo verone./ Né più del caro vecchio genitore…sentiraiD’in su i veroni del paterno ostello porgea gli orecchi (Canti, A Silvia, 19-20)] e l’uso di nessi stereotipi (la fredda spoglia; laceri avanzi).

Nonostante ciò, anche al lettore di oggi la lettura risulta agevole e gradevole.

A Vilma Kossuth (a)

Una vergine passa: a quel sorriso

Che le labra3 le sfiora, ai rosei veli

D’oro trapunti, a le sue vesti orlate

Di lucente ermisino4, a la ghirlanda

Che il crin le cinge, sospettar potevi

Che a una festa s’avvii. Povera Vilma!

Oggi una zolla di straniera terra

Ma diletta al cor tuo, la fredda spoglia

Ti coprirà. Né più la lieta pompa

Delle ausoni5 campagne, e il blando sole

Del maggio e del ciel nostro i porporini

Crepuscoli dell’alba, e de la sera

A riguardar verrai sul tuo verone.

Né più del caro vecchio genitore

Che pargolett’ancor per dubbia6 fuga

Seco ti addusse, su le molli treccie

Sentirai la carezza; e de’ tuoi lari7

Sì lungamente sospirati e pianti

Non rivedrai la soglia, esule figlia.

Pur di beltà di gioventù raggiante

Come d’un Cherubino era il tuo volto

Ch’una gentil malinconia velava,

Ch’avria8 beato d’un soguardo9 i mille

Adorator che ti venian sui passi,

Tanta lo rivestia grazia di cielo!

Ma in la tua salma10 tenerella ardea

La favilla vital pallida, fioca,

Da lento morbo11 esinanita12, come

Il baglior d’un13lampana14 notturna

Che or langue or riscintilla e vien morendo.

Itale belle ed Itali guerrieri

Si cosperga15 d’anemoni e narcisi

Come a compianto di perdut’amica

Il feretro di Vilma. E voi dispersi

Laceri avanzi delle forti pugne

Combattute alla Vistula e al Tibisco16

Prodi  Poloni e Magiari, che Vilma

Compagna aveste all’esular né avrete

Compagna alla reddita17, oh le donate

Come a sorella i pianti. E non fian lunghi

di Vilma i sonni…Che quel dì che strette

Le destre a un giuro18 di trionfo o morte

Coll’ira dei lioni scenderanno

Innumere dall’Alpi e da’ Carpati

Le armate di due popoli a battaglia

Contro il Teutòno19, romperà la pietra20

Vilma che la rinserra e redimita21

De l’aureola de’ Santi uscirà incontro

Al primo eroe che pianterà il vessillo

Sopra le torri di Venezia e Buda22,

A baciarne la fronte e incoronarlo.

Però sin ch’ella poserà23 sin quando

Non  si ridesti, della sua canzone

L’alpiggiano24 pastor, de’ suoi susurri25

La spumeggiante Dora26; e la romita27

Aura28 del Moncenisio a lei più leni29

Renda, e beati del sepolcro i sonni.

 

(a) Vilma Kossuth figlia dell’illustre Magiaro che da morbo triennale consunta moriva a Torino nel passato aprile di anni 17. Molti signori e signore italiane, il corteo dell’emigrazione ungherese e polacca, ed il suo vecchio padre piangendo ne accompagnarono il feretro.

________

1 Avvocato,  titolare di letteratura latina e greca al liceo Palmieri di Lecce. Dall’ Annuario della istruzione pubblica del Regno d’Italia del 1868-69, Tipografia del giornale Il conte Cavour, Torino, 1869, pag. 231: “Originario di Martano, collaborò con Giuseppe Morosi alla raccolta di canti popolari in griko, materiale che servì al Morosi per elaborare la sua teoria dell’origine bizantina e non magno-greca delle popolazioni grecofone della Grecìa salentina. Secondo quanto riportato da C. De Giorgi, Bozzetti di viaggio, Lecce, 1888 dettò il testo della lapide marmorea che il comune di San Cesario di Lecce pose il 1 marzo 1885 sulla facciata della casa natale di Vincenzo Cepolla (oggi corrisponde al n. 50 della via a lui intitolata), giurista e deputato al parlamento napoletano”.

Aggiungiamo che Giuseppe Morosi nella sua opera (Studio sui dialetti greci della Terra d’Otranto, Tipografia editrice salentina, Lecce, pag. VI così ne ricorda, nell’iniziale messaggio ai lettori, il prezioso contributo: “Alcuni saggi poi di canzoni popolari nel dialetto medesimo procuratimi da persone amiche e sopratutto la piccola, ma preziosa raccolta, per anco inedita, che ne avea già fatto il mio egregio collega Avv. Antonaci, martanese, e che gentilmente mi fu da lui comunicata mi convinsero che un tale studio non solo per la filologia, ma poteva essere di qualche momento eziandio per la letteratura e la storia”.

A Clemente Antonaci sono intitolati a Martano l’Istituto Comprensivo di via Nizza 51 e una via; quest’ultima pure a Nardò e a Lecce. Dell’illustre salentino comparvero sul settimanale leccese, oltre alle tre poesie di cui si è detto e ad altre molto probabilmente contenute in numeri perduti,  articoli letterari. Uno, con indicazione della sola testata e senza data, fu riprodotto nell’appendice di La Giapigia e varii opuscoli di Antonio De Ferrariis detto il Galateo, v. II, pagg. 23-27,  facente parte del terzo volume della Collana di opere scelte edite e inedite di scrittori di Terra d’Otranto, a cura di Salvatore Grande,  Tipografia Garibaldi di Flascassovitti e Simone, Lecce,  1868. Proprio Salvatore Grande nel 1875 subentrerà ad Enrico Lupinacci (vedi nota successiva) alla direzione de Il cittadino leccese.

Clemente Antonaci fu autore di La donna è un libro: monologo, s. l., s. n. , 1894; Epigrafi e motti: Lecce, 22 agosto 1889, Lazzaretti e figli, Lecce, 1889.

2 Il primo numero di questo settimanale storico-letterario, che era pubblicato il sabato per i tipi della Tipografia dell’Ospizio Garibaldi ed era diretto dal prete liberal moderato Enrico Lupinacci (dal 1862 titolare di Italiano, anche lui al liceo Palmieri), uscì il 6 aprile del 1861. La raccolta (della quale, probabilmente, come si dirà nella terza parte, sono andati perduti parecchi numeri), custodita nella Biblioteca provinciale Nicola Bernardini, è stata restaurata in occasione del 150° anniversario dell’Unità.

3 Variante letteraria di labbra.

4 O ermesìno (anticamente ormesino o ormisino): tessuto pregiato di seta leggera; la voce è da Ormuz, antica città persiana.

5 Gli Ausoni erano una popolazione campana dell’età del ferro. Ausonia venne poi usato estensivamente dai poeti romani per indicare l’intera penisola.

6 Pericolosa, secondo uno dei significati che la voce assume in latino.

7 I Lari presso i Romani erano, insieme con i Penati e con Vesta, i protettori della casa. Qui la voce sta nel senso estensivo di patria.

8 Avrebbe.

9 Per sogguardo (sguardo).

10 Nel significato letterario di corpo; nostre misere menti e nostre salme sono disgiunte in eterno (Leopardi).

11 La tisi.

12 Voce letteraria che significa spossata; dal latino exaninanìre=vuotare, da inanis=vuoto, vano, inutile.

13 Errore di stampa per una (tutti i versi, oltretutto, sono endecasillabi).

14 Voce letteraria, variante toscana di lampada.

15 Variante letteraria di cosparga.

16 Due fiumi; il primo scorre in Polonia, il secondo in Ungheria.

17 Variante di redìta, voce letteraria che significa ritorno.

18 Voce letteraria per giuramento.

19 I Tèutoni erano una popolazione tedesca; da notare la diastole (teutòno) per esigenze metriche.

20 Quella che copre la sepoltura.

21 Voce letteraria che significa incoronata.

22 Budapest nasce dall’unione delle tre città di Buda, Óbuda e Pest.

23 Riposerà.

24 Per alpigiano (geminazione di g-, all’opposto di quanto avviene più avanti con susurri).

25 Per sussurri (scempiamento di r, all’opposto di quanto succede nel precedente alpiggiano).

26 È il fiume Dora Riparia.

27 Voce letteraria che significa solitaria, isolata.

28 Voce letteraria che significa aria.

29 Voce letteraria che significa leggeri.

Remedia Amoris, dalle vigne d’Aleatico a nord di Latiano

di Pino de Luca

Lasciato il Manduriano, limite messapico occidentale, scendendo verso Est s’incontra dapprima Francavilla Fontana e, subito dopo, Latiano.

Siamo nel cuore della Piana Brindisina, terra piatta, rossa, abilissima a rubare l’acqua e a nasconderla rapidamente assorbendola o convogliandola in fiumi carsici alimentati dai capoventi. Il cuore della terra calda e dura ma anche fertile e generosa.

Qui allignano grandi coltivazioni in dimensione e qualità, e le viti sono forti e prodighe. L’abbondanza aiuta il pensiero lieve, il silente ed imperscrutabile sorgere di sentimenti e di passioni che, in secchezza e carestia, sono un po’ più difficili a maturare.

In terre fertili anche le piante meno rudi allignano e la loro dolcezza riescono ad offrire a chi ne sa coglier la sensibilità. Così, appena tre miglia romane a nord di Latiano c’è una Masseria, si chiama Partemio dove ci si può fermare per molte cose ma, in particolare, per le vigne d’Aleatico che vi son poste. Non m’avventuro sull’origine dell’aleatico come molti usano fare citando, a sproposito, Pier de Crescenzi e associando “moscadelle e lugliatiche” con quest’uvaggio così diffuso e così prezioso in Puglia. Preferisco ricordare l’aleatico come unico vitigno che è IGT per tutta la Puglia e che contribuisce, in blending, all’aroma e al gusto di tanti nostri grandi vini.

Qui, alla Tenuta Partemio, si produce anche in purezza ottenendo un elisir dal colore rosso cupo, un naso fitto e intenso anche se non invasivo e un gusto pieno e dolce senza essere stucchevole. Un aleatico dolce come si comanda ad un aleatico dolce, compagno di passioni e di sentimenti.

So bene che di questo nettare ormai tutti tessono lodi e che le mie parole son

Il Capo di Leuca, una bagarre di culture, un melting-pot di nazionalità, usi e costumi

Leuca, Grotta del Diavolo

Minerva, Lugh, Batis…il capo di Leuca, una bagarre di divinità

di Marco Piccinni

Il Capo di Leuca, una bagarre di culture, un melting-pot di nazionalità, usi e costumi, crocevia di diverse popolazioni. Un lembo di terra che è stato per secoli una spugna di tradizioni e credi differenti. Designato dalla leggenda o dalla storia come focolaio primordiale di quello che sarebbe ben presto diventato un vero e proprio incendio che,  divampato in gran parte dell’Occidente, portò ad una traslitterazione di divinità e creature mistiche, di vario genere, in una schiera di santi e beati guidati da un nuovo e unico Dio, quello Cristiano.

La presenza di molteplici culture nel Capo ha intriso ogni angolo di questa magnifica terra con un’essenza pagana, un profumo persistente difficile da dissipare. Il nascente credo, proclamato religione di Stato con gli editti di Teodosio, nel 380, vedrebbe quindi nel tacco d’Italia la costruzione delle prime chiese a seguito della conversioni di numerose masse di “gentili” ad opera dai Santi Pietro e Paolo: il pescatore di uomini e l’apostolo delle genti. Questi giunsero separatamente nel Salento ma animati da un target comune: evangelizzare. I frutti di questo sacrificio, che costerà loro il martirio a Roma, non tardarono ad arrivare. Su punta Meliso venne eretto un santuario dedicato alla Madonna Annunziata, distrutto e riedificato molteplici volte nel corso dei secoli e designato come meta di pellegrinaggio sin dal 342 da  Papa Giulio I. Il pellegrinaggio venne poi ribadito da diversi pontefici, come Innocenzo XI e Benedetto XIII, conducendo ogni anno nel Salento migliaia di fedeli.  Un pellegrinaggio che per i salentini continua anche da morti, ritornando nella loro terra con il cappello in testa, come recitano i versi finali di Finibusterrae di Vittorio Bodini.

Vorrei essere fieno sul finire del giorno
portato alla deriva
fra campi di tabacco e ulivi, su un carro
che arriva in un paese dopo il tramonto
in un’aria di gomma scura.
Angeli pterodattili sorvolano
quello stretto cunicolo in cui il giorno
vacilla: è un’ora
che è peggio solo morire, e sola luce

L’anima in fondo del pop

di Stefano Manca

Per Zucchero l’anima è “nel fondo del Po”. Io all’inizio capivo “l’anima nel fondo del pop”. Capivo forse quello che volevo capire. Appiccicavo miei pensieri ad un testo che diceva altro. È un passaggio assai delicato, nell’arte, l’elemento dell’immedesimazione. Anche quella fuorviante, come in questo caso. Ci sono giornate in cui vuoi rimanere lontano chilometri da snob che non sanno di essere morti, personaggi che non vedono l’ora di ascoltare la “massa” (essendo morti, non si accorgono che anche il termine “massa” è vecchio e desueto) per poi affermare il contrario. Questa è la prassi che utilizzano per autocertificarsi “colti” o “ribelli”. Il sospetto di rivelarsi idioti non li sfiora nemmeno. Io sono solitario che più solitario non si può, ma ogni tanto in questa cosiddetta massa mi piace stare. Ci sguazzo. Faccio la fila. Ironizzo. E quando mi rompo me ne vado. Nei salotti invece mi rompo da subito. La prima volta che feci salotto c’erano le olive. Il proprietario del salotto medesimo, troppo intento a parlare di Hugo, si era scordato dell’esistenza dei noccioli e non sapevo quindi dove sputarli. Non era bello, pensai, interrompere la chiacchierata su “Notre Dame de Paris” per chiedere conto del nocciolo. Così decisi di ingoiarli.

Il dramma di crescersi la barba è che finisci in queste trappole. S’avvicinano certe tipe che pensano di colpirti citando gli autori sovietici e dicendo, en passant, che odiano Mc Donald’s. Il sottoscritto invece è tipo da fast-food. Io non lo so come mai per aver pubblicato a proprie spese un libretto rimasto invenduto vi sentiate così orgogliosi da poter avere un’opinione chiara sull’Iran, sulle banche italiane e sulla prostata. Beati voi. Io non sopporto né voi né i vostri fottuti salotti, per non parlare della vostra prosa che sembrala Smemorandadi un dodicenne. Io, sappiatelo, faccio salti di gioia quando il mio caporedattore mi dice che ci sono da intervistare i pescatori gallipolini. Molto meglio loro di quei consigli comunali noiosissimi dove tutti dicono a tutti “ciao carissimo” e rilasciano dichiarazioni retoriche e banali. E allora eccole lì le vostre facce allibite, e io mi diverto da matti, più assumete espressioni pseudointellettuali e più parlo di Fantacalcio e sogno una poltrona e un telecomando (oggetti che il Manuale del Perfetto Intellettuale, a pagina uno, invita rigorosamente a non menzionare mai).

Io pertanto ritengo che tuffarsi nel pop sia il miglior vaccino contro questi soggetti. Ai quali, tuttavia, per non turbarli con discorsi terreni non chiesi mai come avessero smaltito i noccioli di quella noiosa serata.

Monete, redditi, consumi e costumi

di Rocco Boccadamo

Non è che, in questo primo scorcio di millennio, da altri «lidi» vicini o distanti – tranne, beninteso, isolate oasi differenziate, come Germania, Scandinavia e pochi altri casi – si vadano proiettando immagini da Premi Oscar, però una cosa è sicuramente certa: l’attuale «produzione» nostrana lascia assai a desiderare o, quantomeno, suscita perplessità e interrogativi.

I principali titoli in locandina parlano di scandali gestionali/finanziari o vere e proprie ruberie di raccapriccianti dimensioni, di scioperi, agitazioni e proteste, con disagi per tutti, di diatribe fra le varie anime dei raggruppamenti politici nonostante la provvidenziale e “miracolistica” presenza, per adesso, del governo tecnico guidato dal professor Monti.

Sullo sfondo di siffatta sceneggiatura, i pareri, le voci e le opinioni di personaggi e di figure in vista si succedono e si accavallano a guisa di oracoli rovesciati o stonati.

Qualche spigolatura in proposito.

L’Italia è l’unico paese, almeno fra quelli occidentali, dove tocca convivere con un fenomeno del tutto particolare: l’inflazione ufficiale (determinata dall’ISTAT), su un certo livello e l’inflazione reale (o come dicono gli esperti, avvertita), di grado ben più elevato, se non multiplo.

Al riguardo, non si tratta purtroppo di ripulire o aggiornare, ogni tanto, il «paniere», di dotarsi di strumenti di rilevazione più sofisticati ed efficaci; si ha invece l’impressione che tale anomala situazione sia, se non proprio voluta,

Benvenuti nel Salento, con le sue bellezze irraggiungibili

di Gianni Seviroli

I turisti sono benvenuti, tanto benvenuti che, magari per magia si potesse tornare indietro e sempre per magia ai politici di turno venisse un’illuminazione, nell’articolo dell’altrieri ho parlato dell’opportunità di spendere i 55 milioni di euro per infrastrutture legate, per l’appunto,  al turismo.

Creare infrastrutture per il turismo non significa necessariamente saturare il Salento di autostrade, da Lecce a Leuca e da Otranto a Gallipoli, ma potenziare per esempio, i servizi primari, quali  la rete dei trasporti extraurbani – e anche urbani, per i centri più grandi – , potenziare le ferrovie del Sud Est, creare percorsi (magari anche comodi) per raggiungere le meraviglie del Salento tuttora quasi irraggiungibili, costruire – non sul mare – degli alberghi e degli ostelli per la gioventù, che pur non essendo infrastrutture del servizio pubblico in senso stretto, potrebbero essere considerate tali se realizzate con partecipazione statale o, perché no? fossero interamente finanziate e gestite dallo Stato stesso.

Qualche esempio di bellezze irraggiungibili? Solo per restare in zona, i vari dolmen sparsi nelle campagne intorno a Giurdignano, il “furticiddhu d’a vecchia”, noto anche come “massu d’a vecchia” vicino a Minervino, la suggestiva ex cava di bauxite a Otranto, decine di vore e di siti archeologici sconosciuti anche ai Salentini, e poi centinaia di bellezze e di rarità che, insieme agli stereotipati mare-sule-jentu-oiu-mieru-pizzica, contribuiscono ad aumentare il nostro orgoglio di residenti. Ogni paesino della provincia di Lecce, d’altra parte, oltre alle bellissime chiese – principalmente – barocche  ed ai palazzi baronali o ai castelli, ha anche delle bellezze nascoste, fra le vie del centro abitato o nelle campagne del suo feudo.

Ma la scelta di non fare una strada a quattro corsie fra Maglie e Otranto,

La gigantesca piovra della Marina dell’Aia

di Rocco Boccadamo

In un caldo pomeriggio d’agosto, dopo l’immancabile riposino, mio padre, sulla scia di un’antica consuetudine paesana e sapendo di renderci contenti, prese me e altri tre dei miei fratelli e sorelle – i più grandi –  e ci condusse, mediante una passeggiata a piedi, sulla litoranea, esattamente nel tratto di costa denominato Marina dell’Aia, per farci fare, anzi “prendere”, un rinfrescante bagno nelle terse acque del nostro mare.

Attraversammo velocemente, con l’agilità tipica dei ragazzini, gli scoscesi viottoli della scogliera, approdando quindi sul bagnasciuga – in gergo dialettale “lapitu” – ricoperto sotto il pelo dell’acqua da uno strato erboso reso luccicante dalle carezze dei raggi del sole e caratterizzato, qua e là, da numerose buchette, non eccessivamente profonde, dette conche oppure “otuli”.

Ancora inesperti di nuoto, noi quattro giovanissimi incominciammo a stenderci sulle basse acque del bagnasciuga e ad entrare e uscire, appunto, dagli “otuli”, nel mentre mio padre faceva invece il bagno muovendosi e immergendosi nell’attigua distesa di mare più profondo, o “spunnato”, non senza badare, contemporaneamente, a tenerci d’occhio.

Trascorse così un simpatico e divertente intervallo, dopodiché – intanto che il sole si avviava al tramonto – ci preparammo ad asciugarci e a rivestirci.

Fu proprio in quella fase che accadde l’evento eccezionale: sulla superficie d’acqua all’altezza di una conca del bagnasciuga, io notai una sorta di gran macchia a raggiera, che, alla luce di lenti e ritmati movimenti, percepii essere non qualcosa d’inanimato, bensì una realtà viva, un grosso polpo, quasi una piovra.

Immediatamente, senza troppo strepitare, diedi voce dell’avvistamento a mio padre, il quale si trovava a pochi metri di distanza, dicendogli con l’espressione del volto “ora vedi tu il da farsi”.

Mi sembrò per la verità esitare un attimo, ma poi, mentre io e i miei fratelli ce ne stavamo in assoluto mutismo e respirando appena, notai che si accostò quattamente a quella conca, si piegò, abbrancò con ambedue le mani l’enorme massa e la tirò su. I tentacoli del polpo si avvinghiarono automaticamente alle sue braccia, ciononostante egli portò la testa del mollusco verso la bocca e la morse ripetutamente; subito dopo, iniziò a sbattere l’animale sugli scogli appuntiti, riuscendo in pochi minuti a stordirlo e a renderlo definitivamente immobile.

La scena fu osservata con attenzione da un giovanotto del paese che aveva la casetta di villeggiatura proprio in corrispondenza di quel punto della scogliera e che, con evidente rammarico, esclamò: “Giusto stamattina ho scorto anche io quel grosso polpo, però non sono riuscito ad acchiapparlo”.

Riposta l’eccezionale preda in un sacchetto di stoffa, e caricatasela sulle spalle, mio padre ci riportò a casa, dove fu ovviamente fiore di mostrare il pescato a mia madre.

Rammento benissimo, come se fosse stato ieri, che il giorno successivo, al “Serrito” del nonno Giacomo, si svolse l’annuale rito della vendemmia, con la partecipazione di oltre venti persone, tra familiari, parenti ed amici: orbene, il grosso polpo catturato alla Marina dell’Aia, cucinato con pomodori e patate in due pignatte di terracotta, fece ottima figura arrivando a costituire l’appetitosa e gustosa pietanza per l’intera comitiva.

Il Bianco d’Alessano, da viti che sanno arrampicarsi e accontentarsi di poco

di Pino de Luca

I più assidui avranno capito la successione delle terre che esploriamo alla ricerca di vini che sappiano accompagnarsi alla musica. A volte odo velate accuse di preferir Polinnia ad Euterpe e financo di riservar troppo spazio a Clio. Con umiltà prendo atto ma continuerò per il tracciato. Si torna quindi in terre tarantine come accade sempre dopo Lecce e prima di Brindisi.

La seconda notizia è che questa volta non vi è lo “studio certosino del secchione” ad ispirare questa splendida fusione, ma una sorpresa, straordinaria e sorprendente come sanno essere solo le sorprese. Non sono andato io in cantina è lui che è venuto a trovarmi, una sera d’autunno inoltrato, sul mare di Porto Cesareo, vini bianchi pugliesi, da li dove le province di Brindisi e Taranto si incrociano con quella di Bari, a Nord di Martina Franca verso Locorotondo.

Terre interne, sotto la Murgia barese, Valle d’Itria. Terra di uve a bacca bianca da sempre, alla faccia di chi pensa che i vini bianchi siano un bestemmia e quelli del sud una bestemmia e mezza.

In questa zona giungono tenui i venti marini, terreni calcarei e poveri, per viti che sanno arrampicarsi e accontentarsi di poco. Sui meno ricchi di questi terreni, anche in pendio, s’aggrappano le vigne di Bianco d’Alessano. Tipico vitigno da terra sitibonda, rustico, poco esigente, che ama il sole e non ha bisogno di grandi quantità di acqua. Terre difficili da lavorare, terre da curare molto spesso con la zappa, strumento di grande civiltà contadina e, a mio modestissimo parere, di sottovalutato valore didattico ed educativo.

Da li viene Cupa, nome che evoca pesanti cappe oscure, ma solo a chi non sa che

Alcuni aspetti del presente, del passato e del futuro nel dialetto neretino

Jean François Millet, pausa di mezzogiorno

di Armando Polito

Se il presente e il passato propriamente detti hanno forme in tutto parallele a quelle italiane, il presente e il passato continuato se ne differenziano totalmente.

Diciamo, intanto, che in italiano il presente ed il passato continuato sono forme perifrastiche costituite dal presente o imperfetto del verbo stare+il gerundio del verbo principale, sicché per il verbo fare la prima persona singolare del presente indicativo continuato è sto facendo e del passato continuato stavo facendo.

In italiano, dunque, il secondo componente è il verbo principale coniugato al gerundio.

Le forme corrispondenti in neretino sono sta ffazzu per il presente continuato e sta ffacìa per il passato, sempre continuato.

Nel neretino, dunque, il primo componente (sta) è fisso nell’uno e nell’altro nesso, il secondo è il verbo principale al presente (ffazzu) o all’imperfetto (ffacìa). Che sta sia invariabile lo dimostrano, per esempio, tutte le altre persone (sta ffaci/sta ffacìì; sta fface/sta ffacìa; sta ffacìmu/sta facìamu; sta facìti/sta facìi; sta fannu/sta ffacìanu). Insomma, una situazione inversa rispetto all’italiano, in cui fisso rimane il secondo componente, cioè il gerundio.

Come spiegare lo sta neretino?

Una prima ipotesi mi porterebbe a supporre che nel nesso sia sottinteso un che; e qui le cose si complicano perché questo che potrebbe avere un valore dichiarativo e conferire a sta un valore impersonale (lo stesso che il verbo avere assume nel francese il y a tradotto con c’è): come se in italiano dicessi: (la situazione) sta (in modo che) faccio.

Una seconda ipotesi mi spingerebbe ad attribuire al che (sempre sottinteso) un valore dichiarativo soggettivo, come se in italiano dicessi: (il fatto che) faccio sta.

Mi si potrebbe obiettare: nell’uso normale la terza persona singolare del presente indicativo di stare a Nardo è stàe. Ma sta si usa nel Leccese ad Aradeo, Galatina, Taviano e nel Brindisino a Brindisi e Mesagne; la forma, perciò, potrebbe essere stata importata o adattata al costrutto particolare.

Quanto alle due ipotesi:  sarà che ne sono il padre, ma non ho una particolare preferenza né per l’una né per l’altra.

È tempo, dopo il passato e il presente, di pensare al futuro. Questo non esiste, almeno nella forma  organica dell’italiano. Il neretino, invece, si serve del presente propriamente detto o di quello progressivo, di cui si è appena parlato, con l’aggiunta di un avverbio (questo sì semanticamente proiettato nel futuro): crai fazzu lu pane (alla lettera: domani faccio il pane) oppure  crai sta ffazzu lu pane (domani farò il pane: alla lettera: domani sto facendo il pane); un’altra tecnica di formazione prevede l’uso del verbo abbìre (=avere) con connessa idea del dovere: àggiu ffare=ho (da) fare.

Nei fenomeni oggi passati in rassegna è il presente, comunque a farla da padrona, comparendo come verbo della proposizione principale in tutti gli esempi riportati. È da vedere in questo una nota psicologica di esorcizzazione di un triste, come il nostro lo è per certi aspetti, passato (e in questo un fenomeno parallelo, sia pure con trasposizione temporale opposta,  al passato continuato sarebbe l’uso, per la verità non molto frequente a Nardò, del passato remoto invece del passato prossimo) e come anticipazione scaramantica di un futuro che, per defizione, è incerto? La risposta la lascio all’esperto di psicolinguistica.

L’altare di S. Antonio in Alessano

La prima opera datata del copertinese Ambrogio Martinelli.

L’altare di S. Antonio in Alessano

di Antonella Chiarello

Lo scultore copertinese Ambrogio Martinelli si presume sia nato nel 1616 e deceduto nel 1684. Chierico, ha lasciato nel Salento numerose testimonianze della sua capacità artistica, forgiata sulla scia dello Zimbalo e delle numerose maestranze leccesi coeve, compreso il suo concittadino Giovan Donato Chiarello, le cui opere precedono, nella maggior parte dei casi, quelle del nostro artista.

Da qualche decennio ci si sofferma sulla sua figura, trascurata invece dai noti scrittori salentini: Cosimo De Giorgi lo menziona incidentalmente, solo «pei raccoglitori di patrie notizie»; il Foscarini lo considera dotato di «genialità e inventiva», un «ottimo scultore in legno e in pietra, sebbene, per l’epoca in cui visse, seguisse lo stile barocco».

Con certezza gli sono attribuiti il portale della Collegiata di Campi Salentina (1658), i due altari  della Parrocchiale di Monteroni (1658-59), l’altare di S. Giuseppe per l’omonima chiesa di Surbo (1661), dove realizzò anche l’altare di S. Oronzo nella Matrice. La fiorente produzione annovera inoltre i quattro altari per i conventuali di Otranto (1666), quasi coevi con l’altare maggiore in S. Maria la Greca a Leverano e i due S. Maria della Scala a Maglie. Altrettanto certi sono l’altare di S. Girolamo nella navata destra della Cattedrale neritina e il maestoso di S. Giuseppe nel transetto della chiesa dei domenicani nella sua città natale.

Possibili interventi in numerosi altri centri, ma senz’altro importante fu l’altare dedicato a S. Antonio da Padova nell’ex chiesa dei conventuali di Alessano, voluto e finanziato dalla pia Laura Guarini, duchessa di Alessano, e dal coniuge Filiberto Ayerbo d’Aragona, che campeggiano, a mezzo busto e di profilo, agli estremi lati dell’altare, in composto atteggiamento di devozione e contemplazione.

L’iscrizione apposta sull’altare, «A.D. 1652», e la firma «MAG: ▼AMBR: MARTINELLV SCVLPEBAT CVPERTINENSIS», la attestano come opera prima e certa.

Oltre al santo titolare sono facilmente riconoscibili sui lati il serafico padre

Marittima: la fiera della Madonna di Costantinopoli

MARITTIMA: LA  FIERA  DELLA  MADONNA  DI  COSTANTINOPOLI   NEI   RICORDI  DI  UN  RAGAZZO DI  IERI

 

di Rocco Boccadamo

 

Sulla scia di una tradizione ormai secolare, nella prima domenica di marzo si svolge a Marittima una manifestazione ancora molto sentita, la fiera della Madonna di Costantinopoli, la Vergine compatrona del paesello, venerata sotto forma di un’artistica statua in cartapesta e attraverso un’antica icona bizantina nel piccolo e grazioso Santuario a Lei espressamente dedicato.

ph Marzoide88

Si diceva manifestazione molto sentita, non a caso, bensì per due ordini di motivi da sempre radicati nella mente e nella sensibilità dei marittimesi. Una volta, praticamente sino a pochi decenni addietro, trattatasi  dell’unica occasione di mercato a domicilio, tant’è che, in seno alle famiglie, molti acquisti erano programmati e scadenzati giustappunto in concomitanza della fiera; inoltre, l’arrivo della prima domenica di marzo inculcava nella suggestione popolare una specie di simbolo, se non proprio di definitivo distacco dal periodo freddo, perlomeno di inizio del passaggio dall’ inverno alla stagione  primaverile.

Certo, nei tempi recenti, sono man mano intervenuti innumerevoli stravolgimenti ed evoluzioni, vuoi attraverso l’apertura un po’ ovunque di mercatini, supermercati, ipermercati e megastore, vuoi per la diffusione dei mezzi di trasporto che consentono di muoversi quando si vuole e di raggiungere per gli acquisti le più  disparate località, sia, infine, in virtù del fenomeno della pubblicità, soprattutto radio-televisiva, e grazie alle schiere di venditori porta a porta che, come dire, non ti fanno mancare quasi nulla.

Così, invece, non accadeva prima. La fiera era attesa, con autentica ansia, da tutti, a partire dai piccoli e sino alle persone anziane.

I ragazzini, solo in quella particolare domenica, a differenza delle altre festività, erano eccezionalmente mattinieri, non vedevano l’ora di uscire, sfoggiando per la prima volta dopo l’inverno i pantaloncini corti, preceduti, nel compimento di tale atto, soltanto da qualche visita di nonni o zii, i quali come sempre si erano alzati presto, recanti in dono, come primo segno della manifestazione, un fascio di fresche carote, le mitiche pistinache secondo il gergo dialettale.

Su e lungo una serie di strade e piazzette del paese, la fiera si snodava sistematicamente in sequenze  scandite e organizzate a seconda della natura merceologica dei prodotti in esposizione: in piazza Umberto, di fronte alla Chiesa matrice, prendevano posto le baracche di generi alimentari, casalinghi, piccoli e artigianali giocattoli, dolciumi; il largo cosiddetto della “Campurra”,  dominato dalla Cappella di S. Giuseppe, era invece deputato alle baracche di tessuti, arredamenti per la casa, confezioni e calzature. In via Convento, nella direttrice conducente al Camposanto e al già citato Santuario della Madonna di Costantinopoli, si situavano i venditori di articoli per l’agricoltura, cereali e granaglie in genere, ortaggi e verdure, scale, corde e quindi, dulcis in fundo, i venditori di animali vivi e bestiame (dai piccoli volatili – pulcini, galletti e puddrasce – ai conigli, agnelli, pecore, capre, suini, cavalli, asini e muli, nonché qualche capo bovino).

Consisteva essenzialmente in questo la gamma di mercanzie che la fiera offriva alle del resto povere possibilità di acquisto dei marittimesi  e degli abitanti dei paesi vicini, i quali vi convenivano anch’essi in numero ragguardevole. Le contrattazioni iniziavano verso le sei/sette del mattino, protraendosi sino alle 14/15 dopo pranzo: piccoli e onesti e dignitosi affari per entrambe le parti che li animavano e generavano.

Talvolta, poteva capitare che in occasione della ricorrenza, all’ultimo minuto della vigilia  o addirittura nel corso della manifestazione, si registrassero gravi perturbazioni meteorologiche, con  acquazzoni e  temporali: in casi del genere, per fortuna  non frequenti, il cattivo tempo stravolgeva e metteva a soqquadro tutto, sicché la fiera veniva spostata alla domenica successiva.

A comprova di siffatta sfaccettatura, a chi scrive è direttamente accaduto, in un paio di occasioni, dopo essere uscito di buon’ora da casa, di imbattersi improvvisamente nel maltempo, di trovarsi costretto a rifugiarsi per ore, si pensi un po’, all’ interno della chiesa e, da lì, assistere allibito allo smantellamento di baracche e merci, per poi, una volta passata la tempesta, fare mesto e inglorioso ritorno fra le mura domestiche.

D’altronde, non si deve dimenticare che, allora, l’ombrello rappresentava un optional non propriamente comunissimo, di macchine, praticamente, non ne esistevano, contandosene, nel paese, appena due (una “topolino” e una “Fiat giardinetta”): e i torrenti d’acqua generati dal temporale non potevano certamente affrontarsi e guadarsi a cuor leggero, neppure dai più temerari.

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Nell’ ambito della mia famiglia, l’occasione della fiera significava anche rivedere uno zio che viveva nel brindisino e lavorava presso un magazzino di tessuti. Egli, difatti, insieme con i suoi titolari, così come faceva sovente “mercato” qua e  là mediante una grande baracca espositiva auto trasportata, era solito partecipare alla fiera di Marittima, arrivando la sera del sabato e recandosi per la cena e per dormire dai miei nonni.

Ricordo, relativamente alla baracca dello zio V., sempre lo stesso “posteggio” al largo “Campurra”, a ridosso del muro sud della navata della cappella di S.Giuseppe.

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Ma, un episodio rimastomi straordinariamente impresso risale a cinquantacinque, forse sessanta anni addietro, nell’approssimarsi, appunto, della fiera.

Mi trovavo di sera, insieme con i miei fratelli, in casa dei nonni paterni, accomodato su una panchetta all’interno del rustico e caldo “focalire”, di fronte al nonno C. impegnato a fumare il suo toscano, con la brace puntualmente in bocca perché tirasse meglio, dopo una giornata di lavoro; la nonna C. seduta vicino al medesimo angolo di calore e intenta a sferruzzare qualche piccolo capo di lana, la zia L. seduta, a sua volta, accanto  al tavolo, con fidanzato nelle adiacenze, nell’ atto di ricamare gli ultimi capi per il suo corredo.

Ad un certo punto, la nonna passò a commentare, con  voce chiara e distinta, che quell’anno la fiera avrebbe comportato una lunga serie di acquisti in vista del matrimonio del figlio V. e del conseguente arredo, sia pure sommario, della di lui nuova abitazione: zappa, vanga, calderina, falce, limmo, limmune, limmiteddro, pignate, pentole, bisaccia, treppiedi, quadare e quadarotto, scala, lavaturo…. e, così via dicendo, la lista seguitava con tanti poveri altri aggeggi, quasi non finiva mai.

Il nonno C. andava ascoltando e, evidentemente, cercava dentro di sé di metabolizzare il lungo elenco, facendo contemporaneamente il conto, soprattutto, di quale sarebbe stato il relativo esborso, paventando che lo stesso potesse finire col prosciugare fino all’ultima lira i magri risparmi familiari  e, addirittura, costringere a  contrarre qualche debito (all’ epoca, di certo, non era di moda il ricorso al credito al consumo). Sta di fatto che, come fulmine a ciel sereno e in barba al suo temperamento di solito mite e calmo, egli sbottò in un improperio, alla buona ma sonoro, all’ indirizzo della malcapitata consorte, intimando, praticamente, di farla finita.

La violenta reazione del buon uomo generò grande sconforto, non solo nella nonna, ma anche nella  zia L.: difatti, di fronte alla reprimenda del padrone di casa,  proruppero entrambe, per diversi minuti, in un pianto sconsolato. E  noi, piccoli ma attenti spettatori, lì  bloccati , zitti e muti, durante tutta la scena.

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Al giorno d’oggi, ogni cosa è inevitabilmente mutata: i venditori presenti alla fiera sono costituiti in prevalenza da immigrati extra comunitari, i quali, poveracci, espongono, più che altro, cianfrusaglie e paccottiglie di scarso e dubbio valore qualitativo. D’altronde, per la platea degli acquirenti, le fiere e i mercati sono a portata di mano tutti i  giorni del calendario.

In siffatta radicale metamorfosi, a Marittima è, però, dato di riscontrare un tratto positivo che vale la pena di mettere in evidenza, una buona novità e un’ utile iniziativa nella discontinuità dell’ antica, e a questo punto introvabile, tradizione.

Su idea di una famiglia di costruttori di imbarcazioni per la pesca e da diporto in legno, artigiani veramente bravi ed apprezzati diffusamente in tutto il Salento, nell’ ambito della fiera della Madonna di Costantinopoli è stata inserita una nuova sezione sotto forma di salone nautico e di attrezzature per la marineria. Per quanto mi riguarda, trattasi dell’ unico modulo della fiera  rimasto ad attirarmi ed a cui mi accosto.

Dunque, complimenti e un plauso amici e compaesani barcaioli di Marittima! Al troncone della classica fiera intrisa di ricordi e nostalgie lontani, avete saputo innestare un virgulto vitale  ed interessante per l’ attenzione dell’ utenza del terzo millennio.

Pomeridiana

ph Redazione

di Paolo Vincenti

Attraversano queste  strade, /  nell’afoso silenzio pomeridiano, / neri morti di ritorno dalle urne incenerite del tempo /  Attraversano queste strade, / nella luce abbacinante di agosto, /  nudi morti  in lenta processione, / fra i filari di tabacco /  e le vigne, pregne di quel rosso umore, / che allieterà, fra non molto, cantine e palmenti, / nell’aria appena rinfrescata di settembre / Attraversano queste  strade, / fra  cave di tufo / e fichi stesi ad essiccare, / desolati morti, non visti, inascoltati, / nel paese bruciato dal solleone… / e la controra, quando volano streghe / sulle loro scope leggere, / e monacelli saltano fuori dalle calcare, / è solo dei bambini che, sottratti ai loro manga / da grosse madri dialettali, sono costretti a quel sonno, / che non vorrebbero dormire…

L’antica viabilità nel territorio neretino

di Maria Vittoria Mastrangelo

L’antico Salento presentava un aspetto assai diverso da quello odierno. Sicuramente gli antichi centri abitati, e soprattutto quelli di epoca medioevale, erano collegati tra loro da carrarecce o mulattiere. In questa terra si viveva di commercio oltre che di agricoltura. E dobbiamo anche immaginare la maggior parte del territorio salentino coperta da querceti e macchia mediterranea: un territorio boscoso, molto diverso dall’aspetto ordinato dei moderni oliveti che si estendono oggi a perdita d’occhio tra un abitato e l’altro; le antiche strade dovevano di fatto attraversare zone ombrose, e talvolta malsane; ovvio quindi che si mantenessero distanti dagli acquitrini e dalle zone malariche immediatamente sulla costa.

Di certo, restano tracce ancora alquanto evidenti di una situazione oggi difficile anche da immaginare: pesanti carri che a difficoltà procedevano tra i boschi di lecci o in mezzo a paludi malariche; rischi di assalti dei predoni saraceni che, sbarcando improvvisamente lungo le coste, saccheggiavano, distruggevano e sparivano con la stessa velocità con cui erano comparsi all’orizzonte; eppure qualche traccia di quest’antico vissuto resiste tuttora, celata nei muretti a secco o nella toponomastica, pronta a raccontare una storia romanzesca a chi sappia leggere le testimonianze dei luoghi e le tracce lasciate dallo scorrere delle ruote dei carri nel tufo salentino.

Prima che i  commerci mondiali si estendessero al di là degli oceani con la scoperta dell’America e delle rotte per l’Africa e l’Estremo Oriente, il Salento, penisola che si immerge nel centro del Mediterraneo tra il mar Ionio ed il mar Adriatico, era una terra ambita, fulcro del commercio di epoca antica e medioevale: la sua posizione naturale ed il suo aspetto morfologico, sostanzialmente pianeggiante, ne facevano una delle principali porte d’Europa, luogo di partenza e di arrivo di merci pregiate; da qui partivano anche spedizioni militari o pellegrini verso la Terrasanta, e qui più volte sbarcarono i musulmani, nell’intento di insinuarsi in Europa.

Ed ancora una storia molto più recente, fatta di sbarchi clandestini, sottolinea la funzione di ponte che la penisola naturalmente presenta tra l’Europa occidentale, i Balcani e l’Africa.

Nei tempi antichi, quando il Mediterraneo era solcato dalle navi delle colonie greche e fenicie, la penisola salentina era abitata dai messapi, un popolo fiero che difendeva la propria indipendenza anche dagli assalti della ricca e potente Taras greca (l’odierna Taranto). Le città messapiche – Manduria a parte che si trova poco più all’interno – erano situate tutte a circa cinque chilometri dalla costa ionica, tra Taranto e l’attuale Santa Maria di Leuca: Nardò, Alezio, Ugento e Vereto. Tra l’una e l’altra una distanza media di 11 miglia.

Le città messapiche erano collegate tra loro da una strada che correva lungo la costa ionica mantenendosi a circa 5 chilometri di distanza dal mare; Ognuna di esse era poi collegata ad un proprio porto-emporio sulla costa. Questo sistema di viabilità, creato in epoca messapica e poi ricalcato ed ampliato dai romani, ci è stato in parte riportato dalla famosa tavola peutingeriana, redatta in epoca imperiale. Sicuramente è stato poi utilizzato in epoca medievale e nella prima età moderna, non essendosi di fatto la viabilità interna modificatasi fino a tutto il sec. XVIII.

Nel Salento, dell’antica viabilità terrestre ci resta oggi ben poca traccia: il territorio è solcato da strade moderne che hanno quasi ovunque cancellato le tracce di quelle arcaiche; le antiche mappe per lo più riportano con accuratezza la morfologia della costa coste, essendo all’epoca preponderante l’utilizzo delle rotte marine, sicuramente più veloci rispetto alla percorrenza di carrarecce e mulattiere per via di terra.

D’altra parte, l’analisi del territorio e la ricerca sia storica che archeologica hanno dato discreti risultati ed è in parte possibile ricostruire gli antiche tracciati viari. Esiste in merito una buona bibliografia tra cui emergono gli studi di Giovanni Uggeri che – sebbene datati, essendo stati redatti venticinque anni fa – restano ad oggi l’analisi più dettagliata, almeno per quanto concerne l’area ionica a sud di Taranto.

La via Sallentina, riportata anche dalla tavola peutingeriana, era la strada che, correndo parallelamente alla costa ionica, collegava il porto di Leuca all’Appia all’altezza di Taranto; proveniendo dal Vicino Oriente, si poteva attraccare a Leuca, piuttosto che a Brindisi, e raggiungere l’Appia percorrendo la via Sallentina: la strada doveva pertanto essere assai frequentata e ben conservata se  talvolta veniva preferita alla rotta marina fino a Brindisi – da cui poi, in ogni caso, bisognava raggiungere Taranto percorrendo l’ultimo tratto della via Appia.

Uggeri ha rintracciato quasi completamente l’antico percorso che da Manduris (Mandria) arrivava fino a Veretum (Leuca), passando per Neretum (Nardò), Baletum (Alezio) ed Uzintum (Ugento). Relitti di questa viabilità sono spesso rintracciabili nella campagna ed Uggeri li ha dettagliatamente indicati sulle mappe topografiche da lui pubblicate dove il percorso della via Sallentina da Manduria a Nardò è molto ben individuato. Soprattutto la zona a  nord di Porto Cesareo è ricca di testimonianze del passaggio di un’antica ed importante strada: in particolare vale la pena ricordare il villaggio medioevale di Lucugnano – di cui oggi restano tracce di un’antica necropoli e resti di antichissime carrarecce, forse in parte coincidenti con un tratto della Sallentina stessa – e più a sud il relitto del paretone greco (antica fortificazione della guerra greco-gotica) che corre immediatamente a sud della masseria Console e prosegue nel territorio della masseria Giudice Giorgio – con i resti di un antico e larghissimo tratturo perfettamente individuato dalle mappe dell’Uggeri. Prima di arrivare a Nardò, si trova ancora il casale di Agnano, abitato fino al tardo medioevo.

Colpisce, invece, che la zona immediatamente a sud di Nardò – il tratto verso Alezio – risulti poco indagato e soltanto accennato. Qui sono state fatte solo delle ipotesi, non potendosi ad oggi, riscontrare alcun tratto di strada antica ascrivibile con sicurezza al percorso della Sallentina.

Mentre già in epoca romana, le città messapiche di Manduris, Baletum e Veretum venivano progressivamente abbandonate, Neretum ed Uzintum conservavano una certa importanza, divenendo in epoca cristiana anche sedi vescovili.

La presenza di una notevole densità demografica potrebbe quindi essere tra le cause di una costante ed incisiva modificazione del territorio circostante la città, che ha cancellato le tracce della sua storia più remota: e così il percorso della viabilità antica risulterebbe oggi molto poco leggibile, rispetto ad altre zone in cui lo stato dei luoghi si è conservato più simile a quello originario.

Nardò era collegata al suo porto – Naunia, probabilmente l’odierna Santa Maria al Bagno – da una strada diretta che incrociava, all’altezza dell’odierna località delle Cenate la strada che da Gallipoli intersecava la Sallentina – collegando così Gallipoli a Taranto – e proseguiva per Copertino, Novoli e Squinzano, congiungendosi qui con l’Augusta Traianea.

Tracce di questa strada, di importanza secondaria rispetto alla Sallentina stessa, sono rintracciabili nelle vicinanze della villa Taverna – il cui nucleo originario quattrocentesco era probabilmente un punto di ristoro della lungo la strada: si tratta di relitti stradali e di qualche pietra miliare.

Immediatamente a nord di Nardò, laddove la moderna strada per Avetrana ricalca abbastanza fedelmente l’antica Salentina, il tracciato antico è in alcuni punti ben evidente; mentre a sud dell’abitato, essendo la situazione dei luoghi molto più modificata, non si è potuto ben individuare l’antico percorso: la moderna statale 101 (Lecce-Gallipoli) che incrocia la strada antica poco a nord di Sannicola, ha in quel punto ulteriormente cancellato le tracce dell’antica viabilità, rendendo ancor più complessa l’individuazione del probabile percorso.

Uggeri sostiene che uscendo da porta Viridiana (all’altezza dell’attuale Castello di Nardò) la strada attraversasse la località Castellino, dov’è oggi la discarica, e toccando villa Frezza, l’abbazia medioevale di San Nicola in Pergoleto e contrada Coppola fino alla masseria Portolano (quest’ultima immediatamente a nord di Alezio, al di là dell’attuale statale 101).

In alternativa a questa, un’altra ipotesi sarebbe quella di far passare la strada leggermente più ad ovest, facendola coincidere con la strada che dal castello neretino conduce verso la  masseria Pantalei e da qui, rasentando la masseria Corillo e la chiesetta di santa Maria delle Tagliate – venendo ad attraversarne l’omonimo villaggio rupestre – prosegue verso sud, fino alla masseria Morige Grande. Questa strada, in parte ancora esistente, è sicuramente molto antica: la zona è però oramai densamente coltivata e costellata di moderne villette; lo stato dei luoghi appare completamente alterato, né sono rinvenibili resti di un eventuale  antico lastricato,  neanche nei muretti a secco che, spesso costruiti re-impiegando i massi del lastricato stradale, sono fonti preziose per documentare l’antico stato dei luoghi.

Questa area a sud di Nardò è peraltro ricca di rinvenimenti: nei pressi della località Torre Mozza (di poco più ad ovest rispetto alla strada Pantalei-Tagliate-Morige) furono rinvenuti negli anni ‘70  del secolo scorso, resti tombali di epoca bizantina, oggi conservati al museo di Gallipoli; ancora più a sud, nei pressi della masseria Mosca e a poca distanza dalla chiesa di San Mauro, si trova la chiesetta bizantina di San Salvatore, costruita in un punto pianeggiante, probabilmente al crocevia con un’altra strada che collegava i due i porti di Gallipoli ed Otranto, passando per Muro Leccese – dove si trova l’altra importantissima chiesa bizantina di Santa Marina.

I percorsi istmici tra lo Ionio e l’Adriatico avevano nell’antico Salento l’essenziale funzione di collegare i principali insediamenti portuali tra loro con strade carraie, evitando di dover doppiare via mare il capo di Leuca: di quello più a sud, tra Otranto e Gallipoli si è appena accennato; ve ne erano altri due: uno collegava il porto di Nardò, Naunia (Santa Maria al Bagno), a Roca Vecchia, passando da Galatina, Soleto e Calimera; un altro ancora più a nord collegava Senum (Porto Cesareo) a San Cataldo, passando da Leverano, Copertino e Lecce (Lupiae e Rudiae). Ancora più a nord c’era ovviamente la parte terminale della via Appia, il collegamento tra i porti di Taranto e Brindisi.

Le notizie riportate sono tratte per lo più da mappe e documenti antichi, ma il territorio merita di essere studiato più dettagliatamente, alla ricerca delle tangibili testimonianze del passato. Il Salento non è solo la terra de lu sule, lu mare e lu ientu: è una terra che conserva le labili tracce della sua storia plurimillenaria, del suo passato messapico, ma anche bizantino, dei suoi villaggi rupestri scavati nel tufo e mascherati tra gli olivi; aspetti meno noti, cui però la civiltà e la tradizione locale devono tanto della loro unicità.

pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°5.

Ninna Nanna delle mamme salentine…

Cottagers at Scheveningen, di Albert Neuhuys (1844-1914)

Un canto antico

LA NINNA NANNA

Una melodia “povera” per cullare e far dormire i piccoli

di Piero Vinsper

Con il termine di ninna nanna si indica quel genere di poesiole o di cantilene, che servono a far addormentare i bambini. Di queste si hanno esempi presso tutti i popoli della terra; si tratta per lo più di un componimento breve, concettualmente assai povero e privo di nessi logici. Il ritmo è monotono e cadenzato, quasi ad accompagnare il moto della culla.

In età molto remota la ninna nanna era una preghiera rivolta ad antichi dèi babilonesi e sumeri. Era una tradizione orale che si trasmetteva di generazione in generazione, nel cuore della famiglia, dai genitori ai bambini, dalla mamma ai suoi figli.

Bisogna aspettare il terzo secolo a. Ch. perché si abbia la prima ninna nanna scritta, per opera del poeta Teocrito di Siracusa in un dei suoi idilli.

Ebbene, essendo la ninna nanna di origine popolare, troveremo spesso concetti legati alla civiltà contadina e ci imbatteremo in termini dialettali non più d’uso comune. Però l’elemento che balza vivo in ogni ninna nanna è lo sviscerato amore materno: amore materno che si manifesta nella esaltazione della bellezza del proprio piccolo, nell’augurargli ogni sorta di felicità, di prosperità e, di conseguenza, un avvenire radioso.

Nanu nanu nanu

cce ccappau lu sacristanu:

sciu cu ssona le campane

e rrumase cu llu nsartu mmanu.

Lu nsartu (gr. ἐξάρτιον, grossa fune; lt. insertum (?), cosa intrecciata) è una grossa fune alla quale erano legate le campane. Caso volle che, quando il sagrestano andò a suonarle, la fune si spezzò e rimase con la corda in mano, cioè restò di stucco.

Nini nini nini

quant’è bbeddhru cu crisci fili

Se vai alla cista mòzzachi

se vai alla votte vivi

Crescere ed allevare figli è la cosa più bella di questo mondo. Però, per tirare a campare, è meglio che si stia vicino ad una cista (gr. κίστη, lt. cista, cesta) colma di pani o ad una botte piena di vino. Nel primo caso si ha la possibilità di mozzacare, cioè di mordere e di mettere qualcosa sotto i denti, nel secondo di bere un buon bicchiere di vino.

Ninu ninu ninu

menta, sànzicu e pethrusinu

La mamma sente la ndore

de luntanu e de vicinu

Sànzicu (gr. σάμψουκον, σάμψικον) è la maggiorana; pethrusinu (πετροσέλινον, πετροσέλινο; lt. petroselinum) è il prezzemolo. Come la madre riesce a distinguere il profumo di queste erbe aromatiche stando vicino o lontano, nella stessa maniera riesce a riconoscere il proprio figlio.

Ninìa ninìa ninìa

quant’è bbeddhra la fija mia

la dau a nnu signuru

cu ppalazzu e mmassaria

Mia figlia è molto bella, dice la mamma; perciò, quando sarà grande, la darò in sposa ad un ricco signore, che possiede palazzi e masserie.

Nanu nanu nanu

ci lu sèmana lu cranu?

Lu sèmana lu miu bbeddhru

cu lla chianta de la manu

Qui si augura al bambino che diventi un ottimo contadino, abile nel seminare il grano cu lla chianta (lt. planta), cioè con la pianta, della mano.

Ninu ninu ninu

ncannulamu e poi tessimu

Facimu nu toccu longu

sciamu a Napuli e llu vindimu

Mentre il figlio dorme al canto della ninna nanna, la madre si prodiga a ncannulare (riempire di cotone i cannelli per il telaio) il cotone e a tessere. Farà nu toccu (rotolo di tela tessuta, in casa, al telaio, della lunghezza che oscilla dai venti-trenta metri sino a sessanta circa) lungo e andrà a venderlo a Napoli. Con il ricavato, poi, potrà comprargli chissà quante cose.

Ninizzi ninizzi ninizzi

centu tùmani de bbeddhrizzi

La mamma l’have mmesurati

cento e ddoi have thruvati

Lu tùmanu, il tomolo, è una misura di superficie di ottantatre are circa. Se una madre calcola cento tomoli di bellezza, per suo figlio ne troverà centodue in virtù del suo grandissimo amore.

Ninìa ninìa ninìa

la mamma fèmmana vulìa

lu tata masculieddhru

cu llu juta a lla fatìa

Anticamente non esisteva l’ecografia per conoscere anticipatamente il sesso del nascituro: si andava a schiòvere, cioè ci si affidava al caso, alla sorte. Ecco perché la mamma desiderava una femmina, il padre un maschietto, affinché lo aiutasse nel suo lavoro.

Ninana ninana ninana

ci la tèmpara e ci la schiana

ci face mmaccarruni

ci ppende la caddara

E’ un richiamo alla vita quotidiana: c’è chi tempera la farina intridendola con acqua e sale, chi la scannella, chi fa i maccheroni e chi mette sul fuoco la caldaia.

Nia nia nia

quant’è bbeddhra la fija mia

a cci bbeddhra nu lli pare

santa Lucia llu pozza cecare

Lo sviscerato amore materno, a volte, fa perdere il ben dell’intelletto. Ed ecco che una madre prega santa Lucia che faccia perdere la vista a quella persona alla quale non sembra bella sua figlia.

Nanna nanna nanna

s’have persu la menzacanna

oramai nu sse mmesura

la villana cu lla signura

E’ un anelito all’uguaglianza delle persone, al livellamento delle classi sociali. La canna è un’antica misura lineare di tre metri; la menzacanna equivale ad un metro e mezzo. Si è persa l’unità di misura, si dice; perciò non si possono mettere a confronto una figlia di contadini ed una figlia di signori: son tutte e due uguali e non vale la pena misurarle.

Ninni ninni ninni

quantu s’àmanu li piccinni!

E percè s’àmanu tantu?

Ca ti cùstanu fatica e chiantu

Quanto bene si vuole ai neonati! Perché si amano tanto? Perché costano fatica e pianto.

Leopardi diceva: è  rischio di morte il nascimento; infatti durante il parto la madre rischia la vita, sopporta dolore, fatica e pianto; fatica e pianto sopporterà nell’allevarlo; fatica e pianto avrà come bagaglio durante la sua adolescenza, durante la sua età adulta, perché è radicato in lei, come nel padre, quel senso innato dell’amore, retaggio dell’antica civiltà greco-latina.

(in “Il filo di Aracne”, n° 5 – 2007)

 

 

Otranto e la chiesa bizantina di S. Pietro

di Rocco Boccadamo

Prima domenica di marzo 2012, nel dopo pranzo compio una puntatina ad Otranto, “perla” del Salento, impareggiabile per bellezza e storia, ormai diffusamente conosciuta, senza tema d’esagerare, in tutto il mondo.

Passo accanto al Castello, sosto brevemente in Cattedrale e, subito dopo, mi dirigo verso il gioiello artistico e architettonico rappresentato dalla Chiesa bizantina di S. Pietro, uno dei simboli della cittadina.

Purtroppo, con amarezza in bocca e profonda delusione nella mente e nel cuore, trovo la porta del Tempio sbarrata.

Al che, non resisto ad interrogarmi d’istinto e ad alta voce, dentro, senza che alcuno possa udire: “Ma come, anche se è domenica pomeriggio, si lascia chiuso un monumento del genere?”

Non so con certezza a quale autorità faccia capo l’amministrazione del sito (Archidiocesi, Comune, Provincia, Regione, Ministero dei Beni Culturali), tuttavia, al di là del nome dell’Ente o Istituzione di riferimento, a mio avviso si tratta di una situazione ingiustificata, paradossale, assurda: pur tenendo conto, che rendere e mantenere costantemente fruibile un bene artistico comporta un lavoro organizzativo e anche costi di natura economica (questi ultimi, peraltro, penso, recuperabili, se non in tutto almeno in parte, mediante simbolici ticket, dai visitatori).

interno della chiesa di San Pietro ad Otranto

Chiaramente, il presente, è il mio punto di vista personale, una voce isolata che, in quanto tale, non può approdare ad alcunché.

Per ciò, in esclusivo spirito d’amore di affetto, rispetto e ammirazione nei confronti di Otranto e di un suo eccezionale Tesoro, ardisco darne diffusione sulla stampa e nel web, con l’auspicio e la sincera speranza che tantissimi amici vorranno condividere e affiancare il mio pensiero e così ottenere, attraverso un grande mare di sensibilizzazione, che la Chiesa bizantina di S. Pietro in Otranto sia tenuta continuativamente aperta e visitabile, beninteso nell’ambito di ragionevoli fasce orarie.

Fiche pacce o fiche jette

 

di Giuletta Livraghi Verdesca Zain

…prudenza voleva che i frutti anomali non venissero spiccati con le mani ma staccati a colpi di ruéccu (bastone a uncino usato per abbassare i rami più alti in sede di raccolta) e, per sani e succosi che fossero, buttati nella concimaia o più scrupolosamente interrati in uno dei punti marginali del campo. Se poi l’anomalia non era limitata al singolo frutto ma – caso rarissimo e perciò più inquietante – la si riscontrava nell’intera produzione dell’albero, paura e relativo comportamento venivano a sistemarsi su un ben diverso registro.

L’esempio più emblematico lo si aveva quando un fulmine, colpendo un ciliegio, un susino o un giuggiolo, ne incideva verticalmente un tronco, intaccandolo nel midollo pur senza provocarne il completo disseccamento: sorretto dalle linfe periferiche, l’albero continuava a vegetare e a fruttificare, ma a causa del depauperamento midollare non era in grado di illegnire l’endocarpo, per cui le ciliegie, le susine o le giuggiole, al posto del regolamentare nocciolo, presentavano solo un nucleo mucillaginoso.

Ora, per i contadini, psicologicamente calati nel grande meccanismo delle riproduzioni e perciò particolarmente sensibili alla pienezza delle semenze, constatare che la caduta di un fulmine – già di per sé archetipico simbolo di punizione divina  – aveva provocato una così drastica manifestazione di sterilità era come ritrovarsi a mmienzu a nnu zzunfiòne  (in un turbine) che, stando alla simbolica del seme, li avrebbe di certo mminisciati o an siccu ti terra o a mmuzzàta ti razza (sbattuti nella disgrazia o di una carestia o dell’estinzione della loro discendenza).

A loro criterio, infatti, la minaccia espressa dall’inconcepibile assenza del nocciolo veniva a colpire quelle che erano le ragioni fondamentali della presenza contadina nel mondo – procreazione e fertilizzazione della terra -, funzioni l’una di supporto all’altra e ambedue vincolate alla dominante del seme, visto quale privilegiato mezzo di partecipazione creaturale ai superiori disegni di Dio.

Il biblico “Crescete e moltiplicatevi” trovava pertanto traduzione in un “Siate molti per accudire alla terra”, quasi che al concetto della natura posta al servizio dell’uomo corrispondesse, per logica, quello dell’uomo posto al servizio della natura.

Una convinzione che, affiorando nei gesti e nelle parole in genuinità di proposizione, sembrava allargare un orizzonte di segni e avventi sacrali, nella cui orbita nascite e germinazioni venivano a trovarsi sullo stesso piano, preziosi tasselli di un unico mosaico di fronte al quale i contadini erano sempre pronti a scoprirsi la testa.

Per comprendere quanto profondamente vivessero il connubio uomo-natura, bastava osservarli mentre con enfasi soppesavano la spigatura delle erbe marzaiole per trarre, dalla minore o maggiore pienezza, i pronostici dell’annata; sorprenderli mentre in auspicio di crescita posavano sul sesso del loro primo nato maschio un germoglio di grano fogliato; oppure ascoltarli quando, vestendo i panni di padri-patriarchi interessati alla perpetuazione della razza, raccomandavano a figli e nipoti di prediligere, fra le tante varietà di fichi, li fiche pacce o li fiche jétte, che per essere a riddhru chinu (quelli con i semi più grossi) si riteneva fossero di benefico apporto alla virilità. “Ricurdatibbe ca la purpa ete femmina e llu riddhru ete màsculu!…”  (“Ricordatevi che la polpa è femmina e il seme è maschio!…”), ripetevano con didattica premura, e se figli o nipoti erano  in età di prendere moglie, non mancavano mai di concludere in tono ambiguo: “Màsculu ete lu riddhru… e cchiù cchinu ete, cchiù mmàsculi bbi face!”  (“Maschio è il seme… e più grosso è, più maschi vi fa!..”), sottintendendo in quel “più maschi vi fa” e il dono di una maggiorata  potenza virile e la caratteristica di far generare figli maschi.

Nel suo insistere sulla mascolinità del seme, chiaramente decantandone la potenzialità riproduttiva, la frase viene a elucidare quelli che, di contrasto, erano i termini di valutazione della sterilità, cioè come questa, odiata e disprezzata nella sua manifestazione femminile, diventasse addirittura inaccettabile se rapportata all’uomo, elargitore di seme – emblematico principio di vita – e perciò da ritenersi infallibile nella sua capacità riproduttiva. Una conclusione assolutistica che in un certo qual modo veniva riaffermata anche in sede di coltivazione, dove il mancato germoglio raramente si addebitava a un difetto congenito del seme, preferendo puntare su un negativo di concorrenze esterne: erano state di certo le formiche a portarsi via i grani seminati e non germogliati; lu mandràle (grosso bruco) aveva nottetempo rusicàtu lu cìgghiu  (rosicchiato il germoglio ); ladre com’erano, li mite (le gazze) avevano approfittato ti la terra pésule (della terra da poco sarchiata, leggera) per fare buco col becco e riempirsi lu quazzu ti simiénti (lo stomaco di semi); o, a seconda dell’andamento stagionale, la colpa era da addebitare a lla gnofa ntustàta (all’indurimento della zolla) o a un’improvvida nfucata t’acqua (marcitura del seme per la troppa pioggia).

Detto questo, si può ben comprendere quale fosse lo stato d’animo dei contadini di fronte a un’abnorme fruttificazione: il nucleo mucillaginoso riscontrato al posto dei semi altro non era che l’impronta inequivocabile di una maledizione divina, stando alla quale – in trasparente suggestione biblica – c’era da aspettarsi un severo castigo, quello appunto di una carestia o di una estinzione della razza. E poiché il grado di punizione implicitamente  stabiliva l’entità della colpa, per cui una sventura a largo raggio – quale poteva essere una carestia – denunciava una pluralità di peccatori, a mettersi in  allarme non era soltanto il diretto interessato, ossia il coltivatore del campo dov’era piantato l’albero, ma tutti quelli che venivano a conoscenza dell’accadimento, in ognuno dei quali sorgeva il sospetto di aver concorso all’aggravio con le proprie trasgressioni e quindi di trovarsi annoverato fra i punibili. Né diversamente si poneva il discorso circa la paventata estinzione della discendenza, il cui mezzo di attuazione poteva essere quello di un’epidemia, di un terremoto o di chissà quale altra calamità o coinvolgimento collettivo.

Partecipare all’estirpazione e alla bruciatura del famigerato albero era pertanto, più che atto di solidarietà, preciso interesse a misura individuale e comunitaria, intendendo compiere, attraverso i due tempi dell’azione, e il riconoscimento-pentimento (estirpazione dell’albero come estirpazione del peccato-causa) e il respingimento dell’annunciato castigo (bruciatura come annullamento degli effetti,  ovverosia depurazione dal male)…

 

Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994 (pagg. 245-248).

Questo brano, corredato da immagini, è stato successivamente pubblicato – su una pagina intera – da “LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO”, martedì 28 ottobre 1997.

La raccolta del letame

di Giorgio Cretì

Sì, un tempo si raccoglieva il letame che le bestie abbandonavano lungo le strade e anche nelle vie dei centri abitati. Come altre poche cose, allora, il letame era considerato res nullius e quindi disponibile per chiunque lo trovasse per primo, nonché, qualche volta, fonte di lite tra poveraccci. Chi non ricorda la zuffa del racconto “Questione d’interessi” di Renato Fucini nella campagna toscana. Qui da noi non mi risulta che qualcuno si sia azzuffato per lo sterco di un cavallo o di una mucca trovato sulla pubblica via. Sappiamo, però, che il letame, tutto, era ritenuto bene di grande valore nelle pratiche agricole sin dai tempi antichi e il grande Columella nel libro primo della monumentale opera De re rustica dedica un capitolo intero all’agomento.

Emblematica, e direi di ispirazione georgica, a Ortelle è ancora ogggi la figura di Ntoni Tappu che torna a casa dalla non tanto vicina contrada Chianu con sulla zappa una cacata di vacca e in collo una fascina di rovi. Lo sterco gli serviva per concimare il piccolo giardino domestico ed i rovi servivano alla moglie per far cuocere le foje(1)  giornaliere.

Cynara Scolymus (ph Giorgio Cretì)

Per lo più la raccolta del letame era affidata ai bambini, se non altro per tenerli occupati e per abituarli a dare il giusto valore anche alle cose più infime.

Quello che segue è il racconto di una giornata  in cui un bambino di  sette anni, di nome Ciccio, che è il diminutivo di Francesco, riceve l’incarico di andare a raccogliere il letame e si distrae a tal punto che torna a casa con il paniere vuoto ch’è già notte ed il genitore è preoccupato e furioso.

Facciamo parlare il protagonista e rccontare la storia proprio come l’aveva

Antonio Pignatelli, da vescovo di Lecce a pontefice

ANTONIO PIGNATELLI

VESCOVO DI LECCE NEL 1671

DIVENNE PAPA INNOCENZO XII NEL 1691

di Lucio Causo

Antonio Pignatelli nacque a Spinazzola il 13 marzo 1615 da famiglia di principi napoletani. Prima di entrare nella carriera ecclesiastica fu al servizio dei Cavalieri di Malta. Poi divenne Nunzio Apostolico in Toscana nel 1652, in Polonia nel 1660, a Vienna nel 1668, per risolvere alcune controversie sorte con il pontefice Clemente X; nel 1671 fu inviato a Lecce, dove agì come vescovo amministratore, lontano dagli affari di Stato della Curia Vaticana, e solo nel 1673 riuscì a tornare a Roma.

Papa Innocenzo XI, nel 1681 lo elevò alla porpora cardinalizia; fu anche vescovo di Faenza e Legato alla diocesi di Bologna.

Nominato Arcivescovo di Napoli nel 1687, dopo la morte di Alessandro VIII, fu eletto papa il 12 luglio 1691, dopo un lungo conclave che durò cinque mesi, e prese il nome di Innocenzo XII. Nella villa romana appartenente alla nobile famiglia dei Pignatelli si può ammirare la bella statua del papa, opera dello scultore Tavolini.

Innocenzo XII fu un pontefice pio e caritatevole, sommo servitore della Chiesa verso la quale cercò di ricondurre il clero con i suoi esempi di umiltà e di singolare

Quella sera di quattordici anni fa

Albert Anker, Scolaro

di Armando Polito

Approfitto dell’ospitalità del sito per proporre il testo che scrissi per la V ginnasiale dell’anno scolastico 1997/98 in occasione della tradizionale cena di fine anno, anzi, nella fattispecie, ciclo; lo faccio per abbandonarmi alla nostalgia del ricordo di una professione che ho avuto la fortuna di esercitare con piacere, nella speranza che qualcuno di quegli allievi, rileggendolo, non rinnovi un periodo da incubo della sua vita ma un momento, comunque, da non rimuovere. Può sembrare, per chi mi conosce, superfluo ma mi saranno particolarmente graditi i commenti negativi, anche dei colleghi qui nominati, che, insieme con i ragazzi, saluto affettuosamente.

 

Quella sera che andammo in pizzeria,

all’improvviso un senso di tristezza

il cuore ci inondò di nostalgia,

e tutti facevamo tenerezza.

Sicuri e disinvolti certamente

curavam di parere con fermezza,

ma un unico pensiero nella mente

in ogni allievo e in ogni professore,

sicchè ognuno sembrava un deficiente

ai tuoi occhi, profano spettatore.

Scemo e fesso proprio un sacco

sei se pensi che il languore

già dall’idea nasceva del distacco

in quella dolceamara serata

e non piuttosto dal cocente smacco

di una gran pizza che, ordinata,

dopo un’ora o presso a poco,

Un ventenne di settant’anni

“Un ventenne di settant’anni” di Dino Salati

di Paolo Rausa

“Cambiare si può e si deve… per avere consapevolezza di se stessi, per determinare gli eventi e non per subirli”. Sta in questo sottotitolo del libro di Dino Salati il senso di un’opera compilata da un “giovane” scrittore, nato nel 1940 a Gioi (Sa) nel Cilento. Il luogo è meraviglioso dal punto di vista ambientale e paesaggistico, il “mitico” Cilento, dove trovò l’estremo riposo Palinuro il nocchiero di Enea, ora protetto dall’istituzione del Parco nazionale, e importante dal punto di vista culturale, perché qui nei pressi a Elea (Velia), colonia dei Focesi sul golfo di Posidonia, si sviluppò nel V secolo a.C. la scuola filosofica di Parmenide, indagatore dell’essere, inteso come fondamento del vero e unico oggetto della conoscenza, ingenerato, e immutabile ed eterno. La vita di Dino Salati ha conosciuto poi varie esperienze nel nord Italia, a contatto quindi con un’altra realtà, un’altra filosofia di vita, meno contemplativa e più legata all’idea del “fare”, del

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