Il coriglianese Giovanni De Salvatore (1906-1988) in mostra a Milano

LUCI E COLORI NELL’ ARTE

di Giovanni De Salvatore (1906-1988)


A cura di Milena e Gabriella De Salvatore
Biblioteca Dergano-Bovisa
Via Baldinucci 76 – 20158 Milano

Inaugurazione sabato 14 aprile 2012, ore 18.30
Presentazione di Camillo Russo del Liceo Artistico Brera.
La mostra prosegue fino a sabato 28 aprile 2012.

A proposito di uova pasquali… ecco la sorpresa!

di Armando Polito

* Sapeste quanto gli è costato quel riferimento al vino….

Può capitare a chiunque, sarà successo anche a me e sarei  grato se me lo si imputasse con riferimenti precisi, può capitare, dicevo, che per la fretta, per una fatale distrazione, per un abbaglio chi scrive possa incorrere negli errori più banali, non esclusi quelli ortografici (ne sa qualcosa il nostro buon Marcello che per molto tempo si è dovuto sorbire le numerosissime, sfiancanti rettifiche da me apportate nel corso di poche ore a qualche mio post…). Da quando, poi, il copia-incolla è diventato lo strumento preferito di chi scrive, al pericolo di replicare i propri errori si è aggiunto quello di mantenere in vita e di trasmettere in una spirale maledetta anche quelli altrui. Succede, così, di incontrare in rete le affermazioni più gratuite, per giunta il più delle volte espresse con le stesse, identiche parole; il che ci rende sicuri che la paternità è unica ma anche difficile, direi impossibile o, al più, aleatoria, la sua identificazione.

È quanto successo recentemente al collega autore Paolo Vincenti nel post Uova e colombe nella tradizione pasquale laddove leggo (la numerazione,  mia,  è per comodità di riferimento) :  1) I Romani erano soliti sotterrare un uovo dipinto di rosso nei campi come simbolo di fecondità e quindi propizio per il raccolto. 2) La tradizione di colorare le uova è tutta romana. 3) Da Plinio il Vecchio sappiamo che si prediligeva il rosso perché questo colore doveva distruggere ogni influsso malefico. 4) Da Elio Lampridio, la credenza che il giorno della nascita dell’Imperatore Alessandro Severo, una gallina di famiglia avesse deposto un uovo rosso, segno di buon auspicio. 

Basta digitare “uova pasquali” e il motore di ricerca darà una serie sterminata di indirizzi in cui si troveranno, con qualche irrilevante cambio formale, le stesse affermazioni.

Non prendo neppure in considerazione, come di regola faccio quando la citazione della fonte è latitante,  i punti 1 e 2. Il punto 3, però, mi ha procurato un leggero sobbalzo perché non ricordavo che Plinio avesse mai detto una cosa del genere; tuttavia, siccome la Naturalis historia è lunga e la mia memoria potrebbe da un momento all’altro incappare senza che io me ne accorga nelle spire dell’arteriosclerosi, mi sono sobbarcato ad una relativamente rapida (7’ 30’’, ma non è il mio record; forse, memoria a parte, qualche altra facoltà comincia a venir meno…) lettura dell’opera e ho avuto la conferma che il mio dubbio era fondato.

Mi sono a quel punto chiesto come sia potuta nascere quella notizia che ha poi avuto, anche grazie alla rete, così ampia diffusione.  La rete stessa mi è venuta in soccorso. Digitando in Google>Libri la stringa Plinio uova rosse mi è stato possibile scovare il presunto responsabile. Apro una parentesi per dire che, mentre altre istituzioni straniere, anche governative, hanno da tempo provveduto alla digitalizzazione di pubblicazioni per le quali i diritti d’autore sono scaduti e di documenti e libri antichi custoditi in biblioteche ed archivi, in Italia per poter accedere, per esempio, ad un atto notarile dei secoli scorsi custodito in un archivio dello stato bisogna sottoporsi ad un iter burocratico spossante. Se tutto il materiale venisse digitalizzato e immesso in rete per la pubblica fruizione, da un lato preserveremmo l’originale dai danni derivanti dall’uso (questo, però, non dev’essere l’alibi per non pensare a tamponare quelli causati dal tempo…), dall’altro impediremmo a pseudo ricercatori criminali di inventarsi riferimenti ad atti notarili inesistenti per corroborare una loro supposizione nella certezza che nessuno, neppure uno studioso vero, si prenderà la briga di controllare l’esistenza di quel documento.

Ritorniamo al presunto responsabile della sorpresa, anche se a scoppio ritardato, di oggi. Ho detto presunto perché è il più antico che abbia trovato, ma non è detto che sia stato il primo ad aver messo in giro questa balla.

In Nicolò Biscaccia, Prose, Merlo, Venezia, 1834, tomo I, pag. 228 si legge: Che se al tinger le ova a colori, e farne di esse giuochi noi moveremo parola, faremo coscienza esser questa costumanza figlia di un’antichità romana, dicendo Plinio (lib. 19, cap. 3), che i Romani tingevano le ova rosse e con esse facevano festa in onore dei due Dioscori che nacquero dall’uovo di Cigno.

I riferimenti bibliografici a Plinio addirittura si estendono in un intervento a firma di P.C.M.O. (l’abbreviazione tradisce una straripante dose di presunzione o, piuttosto, una non assunzione di responsabilità?) dal titolo Dell’uso di mangiar l’uova in tempo di Pasqua apparso  ne Il propugnatore religioso, anno I, v. I, Paravia, Torino, 1836, pag. 77: Scrive Plinio nel lib. 19, capo 3, e nel lib. 24, capo 11, che i giovani Romani tingevano rosse le uova , e con esse giuocavano, facendo festa in onore forse delli due Dioscuri, i quali nacquero di Giove dall’uovo del cigno.

A questo punto, forse per un patologico eccesso di scrupolo, sono andato a ricontrollare sul testo pliniano ed ho avuto conferma  che nei libri e capitoli indicati si parla di tutt’altro argomento.

Se Plinio come fonte, dunque, è una spudorata invenzione, non lo è, invece, Elio Lampridio, che nel capitolo XIII della  Vita di Alessandro Severo (cito da Historiae Augustae scriptores sex, Tipografia della società, Biponto, 1787, pagg. 265-266) così scrive: Omina imperii haec habuit: primum, quod ea die natus est , qua defunctus vita Magnus Alexander dicitur: deinde, quod in templo eius mater enixa est: tertio, quod ipsius nomen accepit: tum praeterea, quod ovum purpurei coloris, eadem die natum, qua ille natura est, palumbinum, anicula quaedam matri eius obtulit: ex quo quidem haruspices dixerunt, imperatorem quidem illum, sed non diu futurum, et cito ad imperium perventurum (Ebbe questi presagi del potere imperiale: in primo luogo perché nacque in quel giorno in cui si dice morì Alessandro Magno; in secondo perché sua madre lo partorì in un tempio; in terzo poichè prese il nome dello stesso Alessandro Magno; ancora perché una vecchietta aveva donato a sua madre un uovo di colomba di colore purpureo, nato nello stesso giorno in cui era nato lui, evento che secondo gli auruspici indicava che sarebbe stato imperatore ma non a lungo e che sarebbe giunto rapidamente al potere).

Oltre alla considerazione che l’uovo non era di gallina e che pure la colomba non era “di famiglia” non credo di dire qualcosa di assurdo se mi sento legittimato a credere che tutta la storiella sia frutto di colpevole contaminazione tra la presunta testimonianza di Plinio e quella reale di Lampridio e che tutto si riduca ad una sorta di perverso e pervertito  sillogismo all’inverso, per cui la sequenza  solo formalmente corretta sarebbe: 1) Da Plinio il Vecchio sappiamo che si prediligeva il rosso perché questo colore doveva distruggere ogni influsso malefico. 2) La tradizione di colorare le uova è tutta romana. 3) I Romani erano soliti sotterrare un uovo dipinto di rosso nei campi come simbolo di fecondità e quindi propizio per il raccolto1. Peccato che lo sviluppo del sotterramento presente nella terza proposizione venga vanificato dalla falsità della prima e dall’assenza di supporti documentari della seconda.

E devo chiedere scusa io, dopo le frittate fatte da altri fin da tempi antichi, per aver rotto le poche uova ormai rimaste nel paniere?

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1 In Giorgio Camporese, Lo specchio di Venere, Lulu.com, s. l. , 2008,  pag. 57 leggo, senza, ancora una volta,  straccio di riferimento ad alcuna fonte: Presso l’antica Roma era d’uso comune il detto Omne vivum ex ovo (ogni vita proviene dall’uovo) e i contadini avevano la consuetudine di seppellire un uovo dipinto di rosso nei campi per propiziarsi un buon raccolto.  Sarà il Camporese il padre del dettaglio del seppellimento, dopo che è stato capace di far risalire all’antica Roma un detto che in realtà è dovuto a E. Haeckel (XIX-XX secolo) e che è la rielaborazione del precedente ex ovo omnia di W. Harvey (XVII secolo)? Approfitto dell’occasione per far notare che l’opera in questione ha sfruttato uno dei numerosi servizi di autopubblicazione esistenti in rete grazie ai quali chiunque può rendere pubbliche, naturalmente pagando…, le sue genialità ma anche le sue scemenze, rispetto alle quali ultime l’editoria tradizionale aveva almeno il merito, fino a qualche anno fa,  di fungere da filtro e da barriera. In rapporto al testo qui citato il mio giudizio negativo, comunque, è limitato al brano estrapolato e non è detto che il resto non sia un capolavoro, ma, visto che in tre righe sono condensate due bestialità, è legittimo nutrire seri dubbi…

Leccesi, c’era una volta / Il gallo di don Silvano. 4a parte

di Alfredo Romano

PREMESSA

E adesso vi racconterò di un gallo vivo che mia madre mi fece portare in dono a don Silvano, allora parroco del Duomo. Ma don Silvano, credendo di farci cosa gradita, non accettò il gallo, disse che non ne aveva bisogno e che sarebbe stato di gran lunga più felice se fosse finito sulla tavola di casa mia. Certo, lui lo fece in buona fede, ma mia madre ci rimase molto male, si offese, era stato calpestato il suo orgoglio: perché anche un povero ha facoltà di dare e non solo di ricevere. Quel suo rammarico me lo sono portato dentro per trent’anni. Ma qualche estate fa, finalmente, vi ho messo riparo.

IL VIDEO. Clicca sul link:

Monologo di Alfredo, poi Mina e Alfredo cantano
Lu cuccurucù, canto popolare salentino
 


LU CADDHUZZU TE TON SILVANU

[in basso, il racconto tradotto in italiano]

 

Li primi tiempi fora tosti a Civita Castellana: ìame bisognu te tante cose e nnu’ ccanuscìame nisciùnu. Cu ddicimu lu giustu, li preti fora li primi ca ne tèsera ‘na manu. Lu prete nosciu era ton Silvanu, tandu pàrrucu te la Chiesa Matre, e a iddhu ne rivulgìame pe’ tante cose: cu ffaci tumande a lla Comune; cunsij pe’ ‘nna cosa e ppe’ ‘nn’addha; ton Silvanu viti ci cunti cu quistu e quiddhaddhu; ton Silvanu m’hanu fattu ‘na contramizione e nnu’ ttegnu sordi cu lla pacu, perciò viti ci poti fare quarche cosa; lu fiju miu… m’hanu tittu ca ne poti truàre fatìa, puru cu carica scarica mattuni intru ‘na fabbrica o a lli fabbricaturi.

Alfredo Romano

Certe fiate ton Silvanu lliticava puru cu llu patrunu te la terra pe’ lli tiritti nosci: ca li patruni, te cce mmundu e mmundu, lu compitu loru ete cu ffùttanu sempre li cristiani e cu ngràssanu susu le spaddhe te l’addhi.
′Nsomma comu foe comu nu’ ffoe, a llu casale tenìame ‘nu puddharu. E la mamma mia ‘nu beddhu giurnu me tisse:
“Affretu, mò a llu ton Silvanu, quiddhu cristianu, l’imu ringraziare pe’ tuttu lu bene ca ne face. Sai cce fanne? Trasi intra lu puddharu, cchiàppa lu caddhuzzu cchiù beddhu ca nc’ete e portanélu a llu ton Silvanu e dinne: Nah, quistu te lu manda la mamma mia, cu tte lu mangi, cu aggi sanitate e cu tte saccia bonu: ca addhu nu’ ttenìmu.”
E iu addhu nu’ ffici: pijai la bicicletta, ttaccai lu caddhuzzu capisotta a llu

La chiesetta della “Madonna del curato” ad Ugento

Ugento, La chiesa della Madonna del curato restaurata

di Luciano Antonazzo

Fra le più antiche chiese di Ugento é da annoverare quella denominata “Madonna del curato”.
Sorge su una roccia scoscesa sul ciglio della stradina omonima, all’incrocio fra via Barco e la vecchia strada per Gemini, e chi ha cercato finora di tracciarne un profilo storico ha dovuto arrendersi davanti alla mancanza assoluta di notizie; oggi però grazie al rinvenimento da parte nostra di una breve relazione redatta in seguito ad una visita pastorale effettuata nei primi decenni del 1600 siamo in grado di fare un po’ di luce sulla sua origine e sulla sua reale intitolazione.

La piccola chiesa ad aula rettangolare é suddivisa in tre sezioni con copertura a spigolo e sul lato sinistro le é addossato un piccolo locale con volta a botte che era adibito ad abitazione “del curato” ciò che sarebbe secondo l’opinione corrente all’origine della sua denominazione.

Sulle sue possibili origini e per cercare di spiegarne l’intitolazione scrisse Mons. Ruotolo: “Ad Ugento c’è un’antica chiesetta, chiamata la Madonna del «corato» o curato. Tale nome suggerisce l’ipotesi che un tempo fosse officiata da un parroco, distinto dal Capitolo. Dato che la chiesetta, pur essendo antica, non è anteriore al secolo XVI, si può pensare che quel titolo alluda al tempo immediatamente posteriore alla distruzione del 1537. Allora essendo rimasti pochi cittadini e pochissimi sacerdoti, si sarà costituito un curato per la vita religiosa del paese, che risorgeva dalle rovine” .

Francesco Corvaglia, oltre a convenire col vescovo sull’origine della denominazione della chiesa, ritenne anche che nella stessa fosse stato officiato “il rito greco fino ai primordi dell’Ottocento”, derivando questa sua convinzione dalla presenza di “pitture bizantine” .

Contrariamente a quest’ultima opinione, riteniamo che non c’entri nulla con la chiesa il rito ortodosso, mentre per quanto riguarda la figura del curato, é possibile che quella possa aver avuto un ruolo, ma é da escludersi che sia all’origine dell’attuale intitolazione della chiesa, poiché questa é invece da farsi risalire ad una “correzione”popolare della precedente specificazione “del corato”.
Ma chi credette, in buona fede, di aver semplicemente tradotto nel linguaggio corrente quel termine, non si avvide di aver invece occasionato lo stravolgimento definitivo della vera ed originaria intitolazione della chiesetta che non aveva nulla a che fare con “corato” o “curato”ma era denominata Ecclesia Santae Mariae dello Corallo.
Così infatti la troviamo denominata nell’intestazione del citato documento e nell’incipit, dove a confermare una già avvenuta confusione, é detta “S. Maria del corato, aliter corallo”.

Madonna del corallo ad Ugento

Di questa doppia denominazione non si trova però più traccia in seguito, a partire dallo stesso documento, nel resto del quale, come si trattasse di

Ieri e oggi; e domani?

di Maria Grazia Presicce e Armando Polito.

Certe volte gli storici sembrano arrabattarsi in sottili distinguo e in ragionamenti che rasentano la masturbazione mentale e ci viene la tentazione di affermare che la più grande fesseria detta da Cicerone fu l’historia magistra vitae.  Ci hanno fatto pensare l’una cosa e l’altra (in realtà si tratta, per quel che vale, della conferma di un convincimento maturato da tempo…) questa poesia, apparsa centotrentotto anni fa  sul giornale leccese Il Propugnatore, la cui attualità lasciamo giudicare al lettore.

Tutte le strade conducono a Roma.

Proverbio

 

Amici miei, chiedete che in faceto

stile, raccozzi un qualche mio sciloma1?

Sia pur cosaccia, aborto, mostro o feto?

Asino stanco addosserò la soma

che m’imponete, e sarà cura mia

di farla entrare, o bene o male, in Roma.

Se entrarvi non potrò per piana via,

v’entrerò come esercito italiano,

rompendo o scavalcando Porta Pia.

Eccomi dunque con la penna in mano,

Pasquetta, immagini e pensieri

di Rocco Boccadamo

Ben poco si avverte del rito, ossia della ricorrenza attesa e vissuta con autentico coinvolgimento e trasporto interiore da grandi e piccini.

La piccola Pasqua si presenta oggi, più che altro, alla stregua di cornice per interminabili file d’auto, assalti a valanga agli snack e agli aperitivi imbanditi, ultimo bottone del vestito vacanziero per il trenta per cento degl’italiani spostatisi dai luoghi di abituale residenza.

Talora, succede, peraltro, che la natura si metta a giocare brutti scherzi, con condizioni climatiche e meteorologiche a modo di guastafeste.

Chi di Pasquette ne ha inanellate settanta, è ovviamente ancorato all’evento autentico, lontano, neppure s’avvede dei rosari di gusti e mode moderni.

Si pone, al contrario, sensibile, prova apprezzamento, verso gli sparuti gruppi di giovani, specie di adolescenti e ragazzi, che il lunedì dell’Angelo non subiscono la comoda tentazione e la dipendenza delle quattro ruote familiari e/o della motoretta e sciamano a piedi, compostamente, quasi assaporando i passi sciolti e leggeri, dai centri abitati in direzione delle campagne, delle scogliere marine, delle insenature poco affollate, per consumare un pasto, uno spuntino al di fuori degli schemi quotidiani, fra risate, scherzi e musiche che, certamente, non fanno male.

Si offre l’occasione, almeno ad alcuni di loro, per accendere lo zolfanello ideale, magari per la prima volta, che innesca freschi trasporti affettivi e amorosi, approcci in cui, per fortuna, poco c’è di cambiato.

I palpiti del cuore mantengono ritmi uguali, il sapore dei baci precoci non risente delle evoluzioni e involuzioni del tempo, profuma di novità e di miele.

Si presentano indubbiamente belle e confortanti queste ormai atipiche tracce di abitudini e sentimenti che sopravvivono, valgono a conferire garanzia di continuità in senso sano e positivo, nonostante tutto, alla tradizione.

Al punto che, pure i bianchi, lisi e induriti capelli, che sormontano le settanta primavere succedutesi, una volta tanto si rivelano e scorrono più morbidi sotto il palmo della mano, dando segno di un ideale ritorno di giovinezza.

Sant’Antonio ed il prigioniero

 

di Alessio Palumbo

Giorni fa rileggevo con grande interesse il libro Trincee di Carlo Salsa (C. Salsa, Trincee. Confidenze di un fante, Milano, Mursia, 1982). In un passo relativo alla sua prigionia, l’ex tenente milanese scriveva: “I reclusi rimangono tutto il giorno coricati sulle brande che ingombrano le camerate basse come corsie d’ospedale per economizzare le energie succhiate alla fame. Alcuni raggomitolati come serpi, in silenzio, per reprimere i morsi delle budella: altri distesi in contemplazione, con una fissità maniaca negli occhi” (pp. 226-227).

Questo brano mi ha fatto tornare alla mente la storia di un prigioniero aradeino, raccontatami più e più volte da mia nonna. Un suo cugino, Luigi Pedone, subì la stessa sorte di Carlo Salsa, ovvero fu fatto prigioniero nel corso del 1918 e deportato in Austria, in uno di quei campi divenuti poi tristemente celebri per le condizioni di estrema indigenza in cui erano costretti a vivere i  soldati internati.

Luigi Pedone, tuttavia, trovò nella baracca un oggetto che lo aiutò ad affrontare i sei lunghi mesi di prigionia che lo attendevano: un piccolo Sant’Antonio di ceramica. La statuetta divenne il suo più caro compagno di prigionia. Avvoltala in un fazzoletto, la mise nella tasca interna della divisa. Per sei mesi la tenne lì dentro senza toglierla mai.

Molti mesi dopo la fine della guerra, Luigi riuscì a tornare ad Aradeo. Arrivato a casa, chiamò in disparte la madre di mia nonna e le donò il Sant’Antonio oramai frantumato. Donandoglielo le disse: «Durante la prigionia te l’ho conservato con tanto amore. Ora è tuo». La mia bisnonna lo riparò e poi lo regalò a mia nonna, che ancora lo conserva.

Quello appena narrato è soltanto un piccolissimo episodio, in un contesto storico infinitamente più grande. Tuttavia, anche un racconto così breve può risultare significativo per comprendere come la spersonalizzazione causata dalla guerra e il dramma fisico e morale della prigionia, potessero essere affrontati dai soldati solo con il ricordo della famiglia o con l’attaccarsi alle piccole cose che esulavano dal contesto di terrore, devastazione e morte che li circondava.

Antonio Casetti e il Cittadino leccese (terza ed ultima parte)

di Maria Grazia Presicce e Armando Polito

A stretto giro di posta, anzi di giornale, Antonio Casetti conclude con un colpo di scena  il suo poetico scambio epistolare con la fantomatica Nina: Nina non esiste; o, meglio, la lettera precedente a firma di Nina K. è un falso confezionato da intellettuali a lui ostili, che pensano, addirittura, di far così colpo su questa portatrice di parrucca che è riuscita a scatenare una battaglia ideologica, una polemica filosofica e letteraria tra passato e presente;  e che a noi piace immaginare con un sorriso beffardo reso più intrigante da una ciocca, naturalmente posticcia, che le nasconde in parte il viso…

APPENDICE

AI CAPELLI POSTICCI

A NINA

A voi, Nina, mio indomito

desiderio e mio spasimo,

Spigolatura linguistica sul toponimo lu riu


 

di Emilio Panarese

Nei tre inventari tardomedievali  e nei catasti dell’Università di Maglie del 1578, del 1608, del 1674 e nell’Onciario del 1752: RIO / RIU / LORIA < [U]-RIA a Monterone  / Francavilla, suffeudo di Maglie: 1484, 29r.: heredes  Nicolai Ceza, pro clausorio uno nom.° Rio et pro terra factiza; e successivi 1578 e 1608 lo Rio, allo Rio, lo Ria, loria; 1674: Loria grande, allo Rio, lo Ria; 1752: la masseria Pezzate [tra Maglie e Scorrano] con la parte di levante montuosa ecc. e le vie vecchie Rio 1° e Rio 2°.

Il toponimo negli antichi inventari e catasti è stato deformato con l’agglutinazione dell’articolo o con la preposizione articolata (LO RIO, ALLO RIO). Fenomeni di aggglutinazione/deglutinazione sono frequenti anche in italiano: uno per tutti ho ricordato l’antico e letterario LUSIGNÒLO / LUSIGNUÒLO diventato poi L’USIGNÒLO.

RIO ha la stessa etimologia di ORIA e, come afferma Ciro Santoro (Toponomastica messapica, «Lingua e storia in Puglia»,1984, 83-84), “ha vari riscontri anche al di fuori del territorio propriamente messapico”.

Come la città brindisina di Oria, il toponimo magliese RIO, come attestato nei documenti antichi, è un oronimo,  in mezzo a tanti altri oronimi: Muntarrune crande e Muntarrune piccinnu, li Munti alle Pezzate, Lo Munte della Guardia (a  Petrore), Li Munti aperti, la Masseria Peschiulli, la masseria Muntagna, la Serrula a s. Isidoro, la Serrula alli Calamauri, lo Muntagna alli Scinei ecc.

Oria, notevole centro messapico, su una piccola altura del Tavoliere di Lecce (Strabone, Geographikà, VI, 282, Oùρíα, con la vocale molle iota accentata; Plinio e  Livio, Uria, senza l’ O iniziale) è ricordata dall’umanista di Galatone:è detta da molti Uria, da altri Orea, oggi si chiama Oria: tutti nomi che indicano città di montagna: montanam urbem sonat”.

Millefanti sul desco pasquale

Un piatto tipicamente pasquale che si consuma a Nardò (e probabilmente in altri comuni del Salento) è quello dei milaffanti, una pasta miniaturizzata, altamente calorica e ricca dal punto di vista nutrizionale.

sfregamento dell’impasto per ottenere i milaffanti

 

 

La si ottiene mescolando semola di grano duro con uova e formaggio pecorino stagionato, fino ad ottenere un impasto friabile, che verrà ridotto in piccoli frammenti ottenuti dallo sfregamento tra le dita delle mani. Aspersi con semola asciutta per tenerli separati, vengono lasciati per un paio d’ore su di un telo perché asciughino, vengono cotti per circa quindici minuti in brodo di carne (di gallina un tempo, di vitello oggi). Un mestolo per piatto, con abbondante brodo e ulteriore spolverata di formaggio grattugiato.

Questi gli ingredienti per sei persone: 1 Kg di semola, 6 uova fresche, 200 g. di formaggio pecorino, una manciata di prezzemolo tritato, sale q.b., brodo di carne.
Il tradizionale piatto, notoriamente rapido nella preparazione, è tramandato da generazioni, senza poter risalire a chi lo abbia introdotto tra la popolazione. Massimo Montanari su Repubblica del 10 gennaio 2010 (p. 37) scrive delle “minestre di pasta” elencate da Paolo Zacchia, l’archiatra di Papa Innocenzo X, inserendo tra i cibi per il “vitto quaresimale” (1636) le pastine “piccole e tonde, come quelle che chiamano millefanti”. Il sospetto che il nostro piatto sia il medesimo è troppo forte, magari importato da uno dei monaci dei tanti conventi cittadini o da qualche alto prelato che abbia condotto i suoi studi nell’Urbe. Volendo andare ancor più indietro è inevitabile il richiamo al più noto ed antichissimo cuscus.

Uova e colombe nella tradizione pasquale

di Paolo Vincenti

Strettamente collegate alla Pasqua sono le uova di cioccolato che nei bar ed in casa fanno bella mostra di se durante il periodo festivo. Fin dagli albori della storia umana, l’uovo è considerato la rappresentazione della vita e della rigenerazione.

I primi ad usare l’uovo come oggetto beneaugurante sono stati i Persiani che festeggiavano l’arrivo della primavera con lo scambio di uova di gallina. I Romani erano soliti sotterrare un uovo dipinto di rosso nei campi come simbolo di fecondità e quindi propizio per il raccolto.

La tradizione di colorare le uova è tutta romana. Da Plinio il Vecchio sappiamo che si prediligeva il rosso perché questo colore doveva distruggere ogni influsso malefico. Da Elio Lampridio, la credenza che il giorno della nascita dell’Imperatore Alessandro Severo, una gallina di famiglia avesse deposto un uovo rosso, segno di buon auspicio.

L’uso di regalare uova è collegato al fatto che la Pasqua è anch’essa la festa della fecondità e del rifiorire della natura, in primavera, dopo la morte invernale. L’uovo dunque è il simbolo della natura e della vita che si rinnova ed auspicio di fecondità. I primi cristiani, infatti, fecero propria questa simbologia del tutto pagana, con riferimento alla Resurrezione,  e nel giorno di Pasqua usavano sistemare sopra l’altare un cestino pieno di uova perché

Il destino del carrubo

di Antonio Bruno

Sono davvero tanti i proprietari di terra che vanno in giro alla ricerca della pianta dei loro sogni, la vogliono nuova, esotica, bella, una pianta che possa in alcuni casi rimboschire i terreni nudi.
Io consiglio il carrubo, pensate che ce ne sono addirittura nella piazza del mio paese avendo preso il posto delle precedenti, onnipresenti, Palme oggi bersagliate dalla causa della depressione cronica da insuccesso del Dottore Agronomo: un rosso insetto africano di nome punteruolo. Lo si utilizza per la sua resistenza elevata alla siccità, la resistenza all’inquinamento atmosferico dei centri urbani ed alla resistenza alle principali avversità patologiche.
La Ceratonia siliqua, ovvero il Carrubo, è un albero della famiglia delle Fabaceae, originario del bacino meridionale del Mediterraneo.
Naturalmente per coltivare una pianta ci sono da superare sempre delle difficoltà che nel caso del carrubo sono rappresentate dalla crisi di trapianto e dall’improduttività.
Nel carrubeto oltre alla pianta con fiori femminili ci devono esser anche un sufficiente numero di piante a fiori maschili per consentire la fecondazione.

Il Carrubo annovera diverse varietà di cui si è persa conoscenza e si è assistito al progressivo abbandono della coltura e di tutte le varietà un tempo diffuse. Il carrubo è presente nella saggezza, dalle favole della nonna con le misteriose regole della natura stigmatizzate attraverso arcani enigmi: quale il destino del carrubo «di avere il frutto successivo quando non sarà ancora maturo quello dell’anno precedente».
Giacinto Donno è uno degli ultimi autori ad aver censito e descritto la biodiversità delle specie frutticole tradizionali del Salento. I suoi principali lavori, sul carrubo sono relativi agli anni ’50-’70.
In un bel lavoro dei colleghi Dottori Agronomi della Sicilia per ogni varietà descritta sono stati valutati caratteri della pianta, delle foglie, dei fiori e dei frutti e in questi oltre alla determinazione di alcuni parametri morfologici del baccello è stata effettuata l’analisi qualitativa.

Tutto ritorna, anche i soprannomi. Quando mi dissero che un mio compagno di classe si chiamava “mangia cornule” non capivo cosa fossero queste benedette “cornule“. Fu durante un avventura che mi vide a cavallo della Bianchi di mio padre, io ai pedali e sul manubrio l’inseparabile compagno di giochi Sandro con il quale, senza avvisare, scorrazzavo per campagne alla ricerca della sorpresa, della meraviglia, che nei pressi del cimitero del mio paesello San Cesario di Lecce, subito dopo il passaggio a livello che in questi giorni fa discutere di se, vidi per la prima volta questo cibo di cui si nutriva il mio compagno di classe e che era appunto la carruba. Le carrube erano ben attaccate all’albero che le produce che come tutti sappiamo si chiama Carrubo.

Gli studiosi hanno accertato che l’ultimo periodo glaciale ha eliminato la maggior parte della flora originaria dell’Europa centro-settentrionale, mentre meno è stata avvertita l’influenza negativa nell’area mediterranea meno fredda lungo la fascia costiera, per cui sopravvivono indenni molte specie di antichissima origine, come per esempio il carrubo usato dall’uomo in tutti gli stadi della civiltà.
Sono davvero tanti i proprietari di terra che vanno in giro alla ricerca della pianta dei loro sogni, la vogliono nuova, esotica, bella, una pianta che possa in alcuni casi rimboschire i terreni nudi.

Ho sentito parlare di castagno, ma non è adatto alla nostra provincia sia perché, come sanno quelli che a ottobre vanno in gita per la castagnata, i boschi di castagno stanno nei climi montani, che sono più freddi del nostro Salento leccese e sia perché il castagno non cresce bene nei terreni calcarei che, invece, sono prevalenti nel nostro territorio. A proposito di castagnata, quest’anno la scuola di mia figlia ne ha organizzata una in località San Severino, eravamo tutti entusiasti ma all’arrivo di castagni e di castagneti nemmeno l’ombra. Poi ci hanno detto una mattina che ci avrebbero portato in un castagneto.
Io e la mia piccola Sara, ci siamo diretti verso il sentiero che si inerpicava verso quote più alte e abbiamo preso atto della presenza di una manto di ricci di castagne presenti sotto gli alberi, solo che mia figlia insieme a me e alle tante mamme, papà e cuccioli di uomo presenti, ha dovuto constatare che erano tutti vuoti. Indomiti abbiamo cercato anche tra i ricci vuoti e dopo due ore di ricerca abbiamo portato a casa un bottino di 5 castagne piccole e grinzose, immangiabili perché aggredite dalle muffe, ma abbiamo avuto la soddisfazione di aver fatto anche noi la castagnata.

Ci sono tante piante che nel nostri Salento leccese sono rare, e questo fatto le rende preziose agli occhi di chi vorrebbe averle nel suo fondo o nella sua azienda, ma costoro dovrebbero riflettere che tale rarità è frutto della mancanza delle condizioni più propizie per il loro sviluppo. Sono rari gli eschimesi nel polo nord, sono rari gli igloo in quella terra piena di ghiaccio, perché le condizioni di vita per una persona umana al polo nord non sono molto propizie alla crescita demografica. Ecco risolto il problema di chi non vuole avere molti figli, basta trasferirsi al polo nord e tutto è risolto!

Il carrubo è a foglie sempre verdi, vegeta vigorosamente nei terreni rocciosi, è anche una ottima pianta da frutto il cui prodotto che aveva fatto soprannominare il mio compagno di classe è assolutamente non trascurabile. La Ceratonia siliqua, ovvero il Carrubo, è un albero della famiglia delle Fabaceae, originario del bacino meridionale del Mediterraneo. La pianta di Carrube è tipica della macchia mediterranea a clima temperato, la troviamo coltivata in Grecia, Spagna ed Italia. Ha una crescita piuttosto lenta e può arrivare fino a 500 anni di vita. Non ama l’acqua tanto che in Piccolo Mondo antico si può leggere “Uno di questi giorni mi udì sgridar la Veronica perché ha la cattiva abitudine di buttar dalla cucina l’acqua sporca sul carrubo che n’è intristito“.
Naturalmente per coltivare una pianta ci sono da superare sempre delle difficoltà che nel caso del carrubo sono rappresentate dalla crisi di trapianto e dall’improduttività.
Ma tutto è possibile superare! Infatti seminando il carrubo sul posto si evita di trapiantarlo. Il carrubo si riprende difficilmente dal trapianto perché è una pianta fittonante che predilige luoghi asciutti e quindi è necessario rispettare quanto più è possibile il fittone.
Il mezzo migliore per impiantare carrubeti è la semina in piccoli vasi nei quali si allevano le piantine per due anni e poi si trapiantano con il pane di terra intero.
Nell’ambito di un progetto per la valorizzazione di specie mediterranee sono state selezionate delle piante con portamento particolarmente adatto alla collocazione urbana ed è stato studiato un sistema per la loro moltiplicazione in vitro. Recentemente da D’Adamio et al. (2007) è stato definito un protocollo per la germinazione in vitro ad alta efficienza.
Nel carrubeto oltre alla pianta con fiori femminili ci devono esser anche un sufficiente numero di piante a fiori maschili per consentire la fecondazione.

I semi di carrubo sono di grandezza e peso costanti e uniforme per cui nell’ antico passato essi venivano usati come unità di misura di peso per le pietre preziose: il termine “carato”, usato in gioielleria, deriva dalla parola greca keràtion che appunto significa baccello di carrubo.
Il Carrubo annovera diverse varietà di cui si è persa conoscenza e si è assistito al progressivo abbandono della coltura e di tutte le varietà un tempo diffuse. Le carrube sono specialità coltivate soprattutto in Sicilia, sono una valida risorsa per i celiaci, poiché prive di glutine. Possono essere utilizzate in cucina in sostituzione della cioccolata.
Il carrubo è presente nella saggezza, dalle favole della nonna con le misteriose regole della natura stigmatizzate attraverso arcani enigmi: quale il destino del carrubo «di avere il frutto successivo quando non sarà ancora maturo quello dell’anno precedente».
Giacinto Dorino è uno degli ultimi autori ad aver censito e descritto la biodiversità delle specie frutticole tradizionali del Salento. I suoi principali lavori, sul carrubo sono relativi agli anni ’50-’70.
In Sicilia si è svolta un indagine al fine di conoscere e valutare la piattaforma varietale del Carrubo. Si sono descritte trentacinque varietà: trentatré a fiore femminile e due a fiore ermafrodita. In questo bel lavoro per ogni varietà descritta sono stati valutati caratteri della pianta, delle foglie, dei fiori e dei frutti e in questi oltre alla determinazione di alcuni parametri morfologici del baccello è stata effettuata l’analisi qualitativa. Io ho avuto come presidente della Commissione del mio esame di Stato il Prof. Giacinto Donno, adesso che ci penso devo ammettere che da allora è passato davvero tanto tempo, e va bene!
Andiamo avanti, scrivevo del Prof. Donno che ha lavorato nel Salento leccese e per esso pur essendo professore di Coltivazioni Arboree alla Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Bari. Il nostro bel Salento leccese ha tanti suoi figli e colleghi Dottori Agronomi che che oggi fanno parte dei Saperi della Facoltà di Agraria di Bari e che sono nati e cresciuti nel Salento leccese li invito a imitare il Prof. Donno che mai sospese di scrivere e studiare la nostra terra, perché è qui che sono le nostre radici, è qui che si è formata la nostra passione per l’ambiente che è territorio rurale, ed è qui che, con ogni probabilità, quando la nostra vita avrà svolto tutto il suo cammino, giaceranno i nostri resti.
Ecco perché tutti noi Medici della terra, in qualunque attività siamo impegnati e in qualunque posto siamo stati chiamati a dare il nostro contributo non dobbiamo mai smettere di valorizzare, conservare e difendere il nostro territorio rurale: l’ambiente del Salento leccese.

Bibliografia
Agricoltura salentina del 1904.
Francesco Minonne: I nomi e le piante: per una storia delle varietà agrarie del Salento.
Marzi V. – Tedone L.: Fattori climatici e socio-economici nell’evoluzione del paesaggio agrario e forestale in ambiente mediterraneo.

Piero Manni: Il Carrubo.
Antonio Fogazzaro: Piccolo mondo antico.
D’Adamio E., Cassetti A.,Mascarello C.,Zizzo GV e Buffoni B.: Propagazione in vitro del carrubo per la produzione di genotipi selezionali per l’arredo urbano.
Maria De Felice Mastelloni: Andamento Dell’Accrescimento Del Legno in Ceratonia Siliqua L.
Crescimanno F.G., De Michele A. , Di Lorenzo R., Occorso G. , Raimondo A.: Aspetti morfologici e carpologici di cultivar di Carrubo (Ceratonia Siliqua L.).
Francesco Minonne: Il Carrubo Dalla bilancia dei diamanti alla morsa dell’abbandono.
G. Russo, P. Uggenti, G.B. Polignano: Osmotic priming in ecotypes of Ceratonia Siliqua L. Seeds to increase germination rate and seedling uniformity.
Mario Baraldi: NUTRACEUTICI. LA PREVENZIONE E LA TERAPIA. Prodotti naturali per la nutrizione
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Pietro Giannone personaggio di rilievo nel nostro Settecento

di Lucio Causo

    Pietro Giannone nacque ad Ischitella, un piccolo paese del Gargano, nel 1676. Sostenuto da uno zio sacerdote, si laureò in giurisprudenza nel 1698 ed esercitò la professione di avvocato, interessandosi particolarmente dei rapporti fra lo Stato ela Chiesa.

Nel 1723 pubblicò la Istoria Civile del Regno di Napoli che venne subito tradotta in tedesco, inglese e francese. In essa espresse il suo pensiero illuminato denunciando su base giuridica le ingerenze e gli abusi della chiesa nei riguardi del potere civile dello Stato. Non mancò la solidarietà di illustri personaggi del suo tempo, considerato che il potere ecclesiastico possedeva due terzi del reame ed esercitava irragionevoli diritti nei confronti dei cittadini.

Per le sue asserzioni contro la chiesa, Pietro Giannone fu scomunicato e dovette rifugiarsi in Austria presso la Corte dell’imperatore Carlo VI. Nel 1735, durante la sua permanenza a Vienna, scrisse la sua seconda opera importante: Triregno.

Per questa pubblicazione, il pontefice Clemente XII interessò i Nunzi Apostolici di Vienna e di Napoli perché lo punissero in quanto non credeva

Lecce e gli strumenti della Passione di Cristo: araldica religiosa e reliquie

Chiesa del Gesù, impresa dell'Ordine dei Gesuiti

testi e foto di Giovanna Falco

Osservando la facciata della chiesa del Gesù, nota anche come del Buon Consiglio in via Francesco Rubichi a Lecce[1], si può notare come i dodici bassorilievi che decorano il fregio di coronamento dell’ordine superiore rappresentano i simboli della Passione di Cristo. Il fregio, ispirato all’ordine dorico, è costituito da tredici triglifi solcati non da tre, ma da cinque scanalature (probabile riferimento alle Cinque Piaghe di Cristo: le ferite al costato, nelle mani e nei piedi) e da dodici metope dove sono simbolicamente ritratte le scene salienti della Passione di Cristo, riprese dal Vangelo di Marco.

Con il prezioso contributo di Giovanni Lacorte sono riuscita a individuare i dodici simboli: Due palme (entrata in Gerusalemme); vessillo con la scritta SPQR e fusti d’albero sullo sfondo (arresto di Gesù); braccio con un sacchetto e una campana sullo sfondo (i trenta denari di Giuda); due profili di uomo (il bacio di Giuda); il gallo (Pietro rinnega Gesù); corona e canne incrociate (scherno dei soldati); colonna e flagelli; veste con i dadi sullo sfondo

La febbre di Pasqua (Il Venerdì della Madonna)

di Salvatore Magno

Nella piccola cittadina, arroccata su un’isola e cinta dalle antiche mura medievali, la Settimana Santa, con tutti i suoi riti religiosi e le tradizioni popolari rappresenta il principale avvenimento dell’anno.

Tutto inizia sette venerdì prima e, di settimana in settimana, un’agitazione sottile, quasi impalpabile come una febbre, si impadronisce di tutti, senza distinzione di sesso, età o ceto sociale per esplodere il venerdì che precede la Domenica delle Palme lasciando che i suoi sintomi facciano effetto per tutta la Settimana Santa fino a spegnersi silenziosamente nel Lunedì dell’Angelo, affogata nell’unico rito pagano legato alla Pasqua: la gita fuori porta.

Una tradizione affondata nella notte dei tempi, vuole che in quel venerdì, la settecentesca statua raffigurante la Madonna Addolorata, che per tutto l’anno è conservata nell’oratorio dedicato alla Vergine del Carmelo, venga portata nella casa di una delle famiglie patrizie fondatrici della confraternita, lì viene vestita con preziosi abiti, addobbata di con ex-voto e, infine, adornata con capelli donati dalle devote, per poi tornare nella Sua chiesa. Alle dodici in punto in solenne processione la statua viene portata in cattedrale, dove alla presenza della cittadinanza, del vescovo e di tutte le più alte autorità si svolge lo storico concerto in Suo onore.

Far parte dell’orchestra o del coro è motivo di vanto ed orgoglio per tutti, dall’ultimo dei coristi al tenore solista, dal più umile musicista su su fino al

La “gran Settimana” a Maglie

di Emilio Panarese

Nei primi tre giorni della Settimana santa, giorni di preparazione, s’apparecchia la tavola della Cena e si costruisce il Sepolcro.

Presso il pulpito della chiesa di S. Nicola, una volta, in questi giorni si allestiva il palco per la rappresentazione della Passione del giovedì.

L’usanza di questa forma drammatica, assai modesta, con apparati scenici del tutto ingenui, pantomimata o a volte dialogata, degli episodi della passione era già scomparso a Maglie alla fine del secolo scorso, mentre rimase vivo sino a circa trent’anni fa nella vicina Muro.

Quest’usanza altro non era che una sopravvivenza della sacra rappresentazione, assai diffusa in molte regioni italiane nel XV secolo e nel Salento: Li giorni santi de la quarantana / cose de santi se representava / molti martíri in rima se dispiana, / in publico per l’ordinarii se cantava [ … ] (Balzino, IV, c. 54 v.).

Giovedì santo

Si entra in lutto stretto: sin dal mezzogiorno si chiude l’organo e si legano (se ttàccane) le campane, che non vengono più sonate sino al resurrexit. Per annunziare le funzioni in qualche chiesa si usa ancora la trènula, come si diceva una volta, o la tròzzula, come si dice adesso, e, invece di usare il campanello, si batte con un bastone di legno sulle panche o sui confessionali.

Anni fa in questo giorno anche i carrettieri legavano i sonagli ai cavalli, i caprai alle capre e finanche il vecchio portiere del Collegio Capece – come ricorda A. De Fabrizio – invece di dare il segnale con la campanella, picchiava forte sul portone, all’ingresso di qualcuno con un grosso martello.

Nelle chiese parrocchiali si svolge la cena: una volta nella chiesa madre i dodici apostoli, vecchi poverelli infagottati in lunghi camici azzurri con la papalina in testa e seduti su dodici scanni,

Il culto dell’uovo nei giorni di Pasqua nel Salento

di Pino de Luca

È giovane l’Italia, appena 150 anni di unità e appena 65 di Repubblica. Italia perennemente divisa nella quale l’abulìa dei suoi abitanti, la sostanziale abdicazione all’esercizio della cittadinanza, lascia pascere gruppuscoli di sguaiati urlanti e li fa credere davvero “rappresentanti dl popolo” in nome del quale litigano e bisticciano per spartirsi privilegi e prebende.

Una fisarmonica stonata di sentimenti da grande paese e di piccoli egoismi per piccole patrie. Ci fu anche un tempo nel quale si dibatteva sulla lingua da parlare. La caduta dell’impero romano e del suo latino apriva la stura ad altri modi di comunicare, quelli del volgo. Il volgare stava per affermarsi. Si scontrarono in molti, fra i più fieri la scuola siciliana e la scuola toscana. S’affermò quest’ultima anche grazie al genio del sommo poeta. Tra l’altro, fu proprio un Venerdi santo che Dante si ritrovò nella selva oscura. E si decise la lingua. Fino a Bembo e Castiglione. Ma le le lingue son sempre pronte a risorgere, incrociarsi e contaminarsi, e il volgare d’allora impallidirebbe senza alcun dubbio al cospetto dell’odierna volgarità, imperante in ogni girone…

Le parole sono pensieri resi fruibili agli altri e cose che, prima o poi, si materializzano.

Il culto dell’uovo nei giorni di Pasqua ha radici remote, legate alla fecondità e alla ripresa della vita. La storia d’Europa e del Mediterraneo ne è pregna. La parola si è poi materializzata nelle endemiche “uova di cioccolata”, a volte ottima e spesso pessima.

Anche nei dolci simbolici e ancestrali c’è stato il culto dell’uovo.

La tradizione scandita dai nomi sopravvive in Sicilia: campanaru o cannatuni a Trapani, pupu ccù l’ovu a Palermo, cannileri nel nisseno, panaredda ad Agrigento e a Siracusa, cuddura ccù l’ovu a Catania, palummedda nella parte sud occidentale dell’isola. Qualunque sia la forma e il nome si tratta di pasta di dolci impreziositi da uova intere cotte nel forno.

Ne abbiamo pure nel Salento, con nomi simili in qualche caso e completamente diversi in altri. I più interessanti sono la “Panareddhra” (dolce) e il “Puddhricasciu” (salato).

Quasi sperduti nella notte dei tempi, ancora qualche forno di paese continua a

La vita fa davvero dei giri misteriosi

Thomas Eakins (1844-1916), Ritratto di Maude Cooks 1895

di Francesca Caminoli

Quando, mi pare verso novembre, Virginia Campanile, presidentessa dell’Associazione “Figli in Paradiso-Ali tra cielo e terra”, mi chiamò per invitarmi a Otranto al XII Convegno nazionale dei gruppi di auto-mutuo-aiuto sul lutto, che si è poi tenuto dal 23 al 25 marzo passati, pensai immediatamente una cosa: che la vita fa davvero dei giri misteriosi e che quei giri devono essere seguiti. Mio figlio Guido si è suicidato il 12 settembre del 2004 a Otranto, buttandosi dai bastioni del castello. Un anno dopo su quei bastioni ero tornata. Sul lento viaggio da sola, in macchina, che da Lucca, dove vivo, mi aveva portata lì in dodici giorni, avevo pubblicato un libro “Viaggio in requiem”, edito da Jaca Book, che Virginia aveva letto. Per questo mi aveva invitata.

Ho detto sì a Virginia, vengo. Sì per tornare a Otranto, sì perché, confesso, di questi gruppi non sapevo niente, sì anche per conoscere Stefania Casavecchia, una madre ciociara che mi aveva scritto dopo aver letto il mio libro. Anche suo figlio si era suicidato. Anche Stefania aveva scritto un libro, “Il coraggio del dolore” (Armando editore), un carteggio con lo psicologo-suicidologo (professione che non sapevo nemmeno esistesse) Antonio Loperfido, pugliese che lavora al dipartimento di salute mentale di Pordenone (come è lunga l’Italia). La lettura di “Viaggio in requiem” l’aveva aiutata, mi aveva detto. Ed io ero contenta, perché quello era uno degli scopi che speravo di poter raggiungere con la pubblicazione: che altre madri, padri, sorelle, fratelli, amici potessero trovare nella condivisione di una perdita così tremenda un po’ di conforto. Con Stefania eravamo diventate amiche in facebook  e ogni tanto ci scambiavamo messaggi. Sapevo che lei sarebbe andata a Otranto. Avremmo potuto guardarci in faccia, abbracciarci e diventare amiche più che virtuali.

Così sono partita. Non in macchina e non in dodici giorni. Comunque adagio, in treno, dieci ore. Di dormite e di buone letture. A Lecce ad accogliermi gli amici Gianni e Fernanda. E subito un piatto di frittini e una parmigiana così buona e così abbondante da non riuscire a finirla ma che mi ha aperto, anzi riaperto il cuore verso questa terra che mi è stata matrigna e che invece sento madre.

Il giorno dopo Otranto. Vado al moderno resort che ospita il convegno. Incontro Virginia, indaffaratissima negli ultimi preparativi. E un giovane uomo in jeans e camicia che scopro essere un frate, frate Angelo. Dopo la morte del fratello in un incidente stradale e dopo essere stato cappellano all’ospedale di Galatina, dove incontrava la morte ogni giorno, frate Angelo ha dato vita all’Associazione Figli in Paradiso (www.figlinparadiso.it), che è presente in tutto il Salento, ma anche in Calabria e Sicilia.

Gli ospiti sono pochi, il convegno inizia solo il pomeriggio. Lascio Virginia e frate Angelo alla loro organizzazione, che sarà perfetta, e vado in città, vado ai bastioni, a parlare con Guido. Seduta sul muretto da cui ha preso il volo gli racconto un po’ di cose. Credo che mi abbia sentito. Io non sentivo lui, poi però, mentre stavo lì aspettando un segno, un improvviso vento mi ha scompigliato i capelli. In quel vento ho sentito il suo abbraccio.

Giro per le stradine delle bellissima città, ancora vuota di turisti, torno ai bastioni, a salutare Guido. Andando via, a un angolo vedo una bella donna bionda che parla al cellulare. Chissà perché, penso sia Stefania. Più tardi, mi dirà che era proprio lei. Aveva notato la mia sgargiante gonna guatemalteca. Gli strani giri della vita.

Torno alla sede del convegno. Stefania adesso c’è, ci abbracciamo, ci riconosciamo, nel nostro dolore e nel nostro amore per la vita.

Il convegno inizia. C’è gente da tutta Italia, non so i numeri precisi ma sicuramente più di duecento persone. Gruppi di auto-mutuo-aiuto che arrivano da Trento e da Treviso, da Milano e da Parma, da Roma e da Siracusa, da tutto il Salento, ci sono laici e cattolici, frati e psicologi, preti e medici di hospice, psicoterapeuti e insegnanti. Ma soprattutto ci sono le persone che hanno avuto una perdita, vicine nel dolore e nel desiderio di rinascita. Che è diverso quanto sono diverse le persone. Ma tutte unite dall’aver trovato nei gruppi di auto-mutuo-aiuto la forza per affrontare una perdita che sembrava insostenibile. La maggior parte sono donne, anche se qualche uomo non manca. I più con la moglie. Soli, pochi. Ho la conferma che davanti alle cose della vita gli uomini hanno meno strumenti. E quindi, forse, più difficoltà.

Il sabato pomeriggio ci sono i gruppi di lavoro. Partecipo a quello sul suicidio, condotto da Antonio Loperfido, un uomo pacato che, con la sua sola presenza, trasmette serenità. Ognuno racconta e già il semplice raccontare, il dare parole al dolore, porta sollievo.

Ma voglio concludere con una confessione. Da laica e da persona che ha compiuto un percorso individuale per cercare di convivere con una ferita così lacerante. Ho visto molte persone arrivare con volti devastati e ripartire con un sorriso. Ho visto persone, la sera di venerdì, prima accennare timidamente qualche passo e poi, spinte dalle parole di frate Angelo “i vostri figli, i vostri cari, vogliono vedervi felici”, lanciarsi a ballare scatenate sulle note della taranta suonata dai bravissimi Tamburellisti di Torrepaduli, ho visto solidarietà, condivisione, riapertura nei confronti della vita. Forse, come ha detto qualcuno al convegno, questi gruppi sono un valido sostituto di tutti quei riti funebri che la nostra società contemporanea, che vuole quasi nascondere il lutto e la morte, ha cancellato, rendendo più aspra e più solitaria la strada “dall’isolamento alla rinascita”, che era poi il titolo del convegno. E non mi sembra certo cosa da poco.

Leccesi, c’era una volta / Quando diventammo tutti muratori e ceramisti a Civita Castellana. 3a parte

di Alfredo Romano

 PREMESSA

 Una cosa che ci fece meraviglia a Civita Castellana fu la vista delle case del centro storico. Quel tufo nero senza intonaco, che poi è caratteristico nel Viterbese, ci fece una certa impressione. Abituati alle nostre case dai mille colori del sole, del mare e dell’aria… Ma com’è, ci siamo detti, questi civitonici devono stare peggio di noi se non hanno  neppure i soldi per intonacarsi le case. Stai a vedere che ci hanno chiamati apposta per farsele intonacare da noi? E infatti, passata la buriana del tabacco, i leccesi diventarono tutti muratori e ceramisti. Se andate in Piazza Duomo potete ammirare un palazzo di colore celeste. Certamente vi si è sbizzarrito un mio paesano che forse sognava uno spicchio di mare o un remoto angolo di cielo come si vedono nel Salento!

VIDEOMonologo di Alfredo. Segue l’ascolto della canzone popolare “Lu trainieri” del salentino Luigi Paoli.

  Testo in dialetto salentino.
Quandu rriàmme a Civita Castellana, ‘na cosa ca ne fice meravija foe la vista te tutte ddhe case nìure te lu centru storicu, nìure comu lu carbone e mmenze scazzafittate. L’ùrtime cazza fitte, ci sape… forsi ne l’ìane tate a lli tiempi te Ponziu Pilatu?

   Nui ca simu bituàti ca le case noscie su’ ppitturate cu ttutti li culuri te l’arcubalenu, imu tittu: Nnah, simu venuti cquai cu stamu meju… ma quisti te Civita hanu stare pesciu te nui se nu’ ttènanu sordi mancu cu sse ncazzafìttanu le case. Sangu te ddhu porcu! vo’ tte fazzu biti ca n’hanu chiamati amposta cquai cu nne le ncazzafittàmu nui le case loru?

   E ggh’era veru, ca nu’ ppassau mancu ‘n annu ca tutti li giovani leccesi lassàra te fare tabaccu e sse menàranu ffàzzanu li ceramisti, li mesci conza e sconza, li cazzafittari, ‘nsomma tutti cu ffannu e ccu giùstanu case.

  Iu te fatti su’ bituatu, quandu passu nnanzi a ‘nnu cantieri, cu ccuntu an dialettu: me vene nnaturale, ca sia ca stau a llu paese miu. Certe fiate àzzu lu razzu e nne fazzu: “Italiani![1] (ca nui cquai ete comu sia ca stamu all’esteru, no?) nnah fatìa nah!” E quiddhi me crìtanu: “Ma cce ssi’ de Foggia[2]”?

   Ma have ‘nu pocu te tiempu a quista parte ca, quandu passu te li cantieri e ba’

I riti della settimana santa a Salve

di Giuseppe Candido

La Pasqua è un momento molto importante, carico di alti significati e configurato da celebrazioni solenni, ma anche ricco di piccoli riti che ogni singolo effettua nell’intimità della propria casa e che rientrano nei costumi di questa festa. Nelle 5 settimane di Quaresima che precedono la celebrazione pasquale, in alcune famiglie, si usa seminare, in piattini di creta o in coppette  di plastica, diversi tipi di semi: ceci, orzo, lenticchie, grano e lupini.

Chiamati “Sabburchi”, si depongono negli angoli più bui e asciutti della casa, e, dopo poco tempo, producono germogli di forme diverse.  Decorati con fiori,  e nastri colorati, vengono portati in chiesa e completano l’addobbo dell’ altare della reposizione , che i fedeli cominciano a visitare dopo la celebrazione dell’Ultima Cena.
La sera del Giovedì Santo in chiesa inizia la celebrazione dell’Ultima Cena del Signore, in questo giorno le campane smettono di suonare. Riprenderanno a

L’asina sulla cui groppa Gesù aveva fatto il suo trionfale ingresso in Gerusalemme

CIVILTA’ CONTADINA DI FINE OTTOCENTO

 

LA CIUCCIA TI LI PARME

 

Per proteggere gli oliveti dalle gelate primaverili,

i contadini si affidavano all’asina

sulla cui groppa

 Gesù aveva fatto il suo ingresso in Gerusalemme.

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Pedro Orrente, Ingresso a Gerusalemme (1620 ca)

(…) Se le sorgenti d’acqua [1] erano ricchezza da acquisire, i frutti della terra erano beni da tutelare, ovverosia da contendere all’insidia del diavolo, perennemente intenzionato a distruggerli attraverso lo scatenarsi delle intemperie. Di questa difesa, sia pure esclusivamente orientata a preservare gli oliveti dalle gelate primaverili, se ne occupava la ciùccia ti li parme, ovverosia l’asina sulla cui groppa Gesù aveva fatto il suo trionfale ingresso in Gerusalemme, caratterizzato appunto da un festoso agitare di rami d’ulivo da parte della folla.

In memoria di tanto avvenimento, valido a stabilire nnu cumparàtu t’arma (un comparatico spirituale [arma=anima]) fra alberi d’ulivo e asina, quest’ultima, nella notte precedente la domenica delle palme, scendeva a

Lecce. Il sabato delle Palme e la chiesa di San Lazzaro

Domenico Fiasella (1589-1669), San Lazzaro implora la Vergine per la città di Sarzana; 1616, Sarzana – Chiesa di San Lazzaro (da http://www.comune.sarzana.sp.it/citta/Cultura/)

 

di Giovanna Falco

Nell’arco ionico del Salento[1] nei venerdì di Quaresima è ancora in uso un’antica tradizione: squadre di cantori e musicisti, si aggirano di notte per le strade dei paesi fermandosi davanti alle case e intonando U Santu Lazzaru in cambio di doni, poi devoluti in beneficenza[2].

Le strofe del testo, una sorta di cantilena, cambiano nei vari paesi e s’ispirano alla Passione di Cristo, narrandone gli episodi salienti. Il corrispondente nella Grecìa Salentina era I Passiuna tu Christù (o A’ Lazzaro): la cantica della Passione in griko (un canto di questua), messa in scena i giorni a ridosso della Settimana Santa. Tramandata oralmente, era eseguita dai cantori del posto, accompagnati da un portatore di palma. I cantori si fermavano agli angoli delle strade dei paesi, intonando dalle tre alle cinque strofe, per poi proseguire della lunga cantilena, che terminava con il verso ca tue ine mère ma t’à Lazàru (questi sono giorni di San Lazzaro), festeggiato nel calendario bizantino la vigilia della Domenica delle Palme.

Il Sabato di San Lazzaro è la festività che celebra la fine della Grande Quaresima bizantina e l’inizio del periodo della Passione. Secondo il Sinassario «in questo giorno, il sabato prima delle Palme, festeggiamo la resurrezione del santo e giusto amico di Cristo, Lazzaro morto da quattro giorni»[3].

A Lecce le celebrazioni hanno luogo presso la chiesa di rito ortodosso di San Nicola di Myra, in piazzetta Chiesa Greca.

Anche i cattolici leccesi commemorano il Santo: per antica consuetudine, la vigilia della Domenica delle Palme numerosi fedeli concorrono presso la chiesa di San Lazzaro. Questa tradizione ha indotto papa Leone XIII, con bolla del 10 marzo 1897, a concedere a questa chiesa la celebrazione del Santo in questo giorno.

A tale rito è legata la fiera mercato che si svolge nei pressi della chiesa, intorno alla colonna del Santo[4]: è tradizione leccese acquistare alla Fiera di San Lazzaro le croci di palma intrecciata e i rametti di ulivo, benedetti durante la funzione religiosa della Domenica delle Palme.

Si perpetua, dunque, un’antichissima consuetudine, mutuata da quella orientale.

Le origini della chiesa leccese sono legate all’Ordine di San Lazzaro di Gerusalemme (attuale Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro): una delle quattro Compagnie gerosolimitane, al contempo religiose e militari, fondate ai tempi delle Crociate per assistere gli infermi e proteggere i luoghi santi della Palestina[5].

I Lazzariti hanno avuto molte commende, chiese e ospedali sparsi in Europa, molti in Italia meridionale. Una chiesa nelle pertinenze di Lecce, dedicata a San Lazzaro, è annoverata in un documento del 1308 riguardante l’inventario dei beni dei Cavalieri Templari[6]; non si sa, però, se ricadeva nello stesso sito dell’attuale chiesa.

Al tempo dell’Infantino, là dove sorge la chiesa di San Lazzaro, sita al di fuori delle mura cittadine, vi era «un gran cortile con stanze à torno, giardini, & altre comodità per servigio de’ Leprosi, che vi dimoravano, eretto dalla Città di Lecce in beneficio de’ suoi Cittadini, e non altri forastieri; onde havendo permesso una volta Giacomo d’Azia Co(n)sigliere Regio, e precettore dell’ordine di S. Lazzaro, che alcuni forastieri vi dimorassero, ad istanza della medesima Città fù scritto al detto d’Azia dal Re Ferdinando da Foggia sotto il dì 8 di Dicembre 1468. che in niun conto ciò permettesse, che altri che Cittadini Leccesi vi dimorassero; sì perche questi possano più commodamente vivere, sì anche perche la Cittànon portasse pericolo d’infettatione per la moltitudine de’ forastieri infetti»[7].

Il “Giacomo d’Azia” citato, non è altri che il «Generale Mastro e Precettore della Milizia dello Spedale di San Lazzaro Gerosolimitano in tutto il Regno di Sicilia ed oltre il Faro»[8] che ricoprì questa carica dal 1440 al 1498.

Infantino cita anche una fede di beneficio del 1550, in cui si dichiara: «la cura di questo luogo appartenere alla medesima Città, e tutti gli atti fatti di possessione esser stati nulli»[9].

Nicola Vacca, nelle Postille al libro del De Simone, cita un documento da cui si apprende che la gestione era amministrata dal sindaco e da un procuratore eletto nei parlamenti generali, mentre la tutela morale era gestita dall’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro[10].

Ricostruita agli inizi del XVIII secolo, «l’anno 1763 si era accresciuta ed ampliata la chiesa in bella forma»[11], ingrandita ulteriormente nel 1788[12]. La situazione economica dell’ospedale mutò dopo pochi anni. Diminuite, infatti, le carestie e le conseguenti epidemie che per secoli avevano infestato la città, l’istituzione si mantenne di sole elemosine, e con diploma regio del 1793 di Ferdinando IV di Borbone fu permesso, in suo favore, di fare la questua in tutta la provincia e nei due giorni del mercato settimanale di Lecce[13]. Decaduto l’ospedale, nel 1906 la chiesa è stata eretta a parrocchia, inaugurata nel 1907, nel 1916 è stata sottoposta a un ulteriore ampliamento.

Tra i vari arredi sacri della chiesa di San Lazzaro[14], in questo momento, merita particolare attenzione il crocefisso ligneo del presbiterio proveniente dalla chiesa del convento di Santa Maria del Tempio, la grande struttura dei frati Riformati soppressa nel 1864, adibita a caserma e demolita nel 1971.

Nell’area dove sorgeva il complesso conventuale, a breve sarà realizzato un complesso commerciale munito di parcheggi sotterranei: in questi giorni sono in opera scavi archeologici atti a rilevare le fondamenta della chiesa e del convento distrutto.

la colonna, probabilmente sostituita ad un’altra più antica, innalzata nel 1682, opera del maestro muratore Giuseppe Bruno

Il Crocefisso, annoverato tra gli arredi sacri della chiesa di Santa Maria del Tempio in un verbale di consegna datato 1864, fu realizzato intorno al 1693 ed è attribuito al calabrese Angelo da Pietrafitta[15].

Il frate Minore Riformato apprese l’arte della scultura lignea dal Beato Umile da Petralia Soprana, caposcuola degli artisti francescani meridionali e fu maestro, a sua volta, di frate Pasquale da San Cesario di Lecce. Suoi Crocefissi e Calvari sono attestati in Puglia e in particolar modo nella penisola salentina (Ostuni, Presicce, Nardò, ecc.), dove nel 1693 fu chiamato da padre Gregorio Cascione da Lequile, Provinciale di S. Niccolò delle Puglie, per realizzare il Crocefisso ligneo per il convento del suo paese[16].


[1] Il territorio che comprende Aradeo, San Nicola, Alezio, Cutrofiano, Neviano, Galatone, ecc.

[2]In origine i cantori andavano in giro per masserie e borgate con lo scopo di avere in cambio alimenti.

[3] Cfr. http://www.cattoliciromani.com/forum/showthread.php/le_feste_bizantine_sabato_lazzaro-24858.html?p=598866. Il Sinassario del cristianesimo orientale, trova corrispondenza nel Martirologio Romano: raccoglie il profilo biografico e agiografico di tutti i santi del calendario bizantino.

[4] «rimpetto la chiesa si eleva una colonna, probabilmente sostituita ad un’altra più antica, la quale fu innalzata nel 1682 ai 30 di aprile: opera del maestro muratore Giuseppe Bruno e poco dopo la Canonica sorge l’altra colonna che forma il Sannà o Osanna» (. A. FOSCARINI, Guida storico-artistica di Lecce, Lecce 1929, p. 180). L’Osanna, che in passato dava nome a tutta la zona, è stato abbattuto.

[5] Le altre erano: gli Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme (poi di Rodi e ora Sovrano Militare Ordine gerosolimitano di Malta), i Cavalieri del Tempio (Templari), i Cavalieri Teutonici (detti anche di Santa Maria di Gerusalemme). L’Ordine di San Lazzaro fu istituito per curare i lebbrosi, fondato tra XI e XII secolo, fu protetto dai pontefici dal 1227 (Cfr. E. ROTUNNO, Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Dalle origini all’inizio del XX secolo: http://www.amicibbaamauriziano.it/public/ordine%20dei%20ss%20maurizio%20e%20lazzaro.pdf).

[6] Cfr. E. FILOMENA, Le ricchezze, il prestigio, lo splendore e la decadenza delle “domus” temmplari nel triste epilogo del processo di Brindisi. Il passaggio dei beni ai Cavalieri di Malta, in Lu Lampiune, a. V, n. II, agosto 2009, pp. 7-40.

[7] G. C. INFANTINO, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), pp. 212-213. Il proclama di Ferdinando I è trascritto nel Libro Rosso di Lecce (Cfr. M. PASTORE, Fonti per la storia di Puglia: i regesti dei Libri Rossi e delle pergamene di Gallipoli, Taranto, Lecce, Castellaneta e Laterza, in Studi di Storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli, Galatina 1973, pp. 153-295: p. 253).

[8] E. ROTUNNO, op. cit., p. 11.

[9] G. C. INFANTINO, Lecce sacra cit., p. 213. Infantino ha letto questo documento nel libro 2 dei privilegi di Lecce.

[10] Le poche notizie sulla gestione dell’Ospedale di San Lazzaro sono state apprese da A. MARTI, Gli istituti di assistenza e beneficenza a Lecce nel sec. XVII, in L. COSI – M. SPEDICATO (a cura di), Vescovi e città nell’Epoca Barocca, Galatina 1995, voll. 2: vol. II, pp. 425-439. Nicola Vacca ha citato, invece, un atto notarile datato 1663 (Cfr. N. VACCA, Postille a L. G. DE SIMONE, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964, pp. 574-575).

[11] M. PAONE (a cura di), Lecce città chiesa, Galatina 1974, pag. 117.

[13] Cfr. M. PAONE (a cura di), Lecce città chiesa cit., p. 284; A. MARTI, op. cit., p. 430.

[14] Nella chiesa sono presenti opere in cartapesta di Giuseppe Manzo, un Cristo morto ligneo (per tradizione orale attribuito anch’esso a fra Angelo da Pietrafitta), due tele attribuite ad Oronzo Tiso.

[15] Cfr. B. F. PERRONE, I conventi della Serafica Riforma di S. Nicolò in Puglia (1590-1835), Galatina 1981, voll. 2: vol. I, pp. 113-144.

[16] Le opere di frate Angelo da Pietrafitta sono state oggetto di una ricerca di Pamela Tartarelli edita nel 2004 con introduzione di Paolo Maci e foto di Pierluigi Bolognini (Cfr. P. TARTARELLI, I Crocefissi di Frate Angelo da Pietrafitta nella Puglia, Il Parametro Editore, Novoli 2004).

Pasqua a tavola

di Paolo Vincenti

E dopo Carnevale, venne Quaresima. Iniziano, con il Mercoledì delle Ceneri, i lunghi quaranta giorni di penitenza e di preparazione alla Pasqua,  l’evento religioso più sentito dalla comunità dei fedeli e uno degli appuntamenti  più importanti del calendario cristiano.

E’ curioso come, in questo lungo periodo, che dovrebbe essere di purificazione e di “austerity”,  facciano invece la loro comparsa, nei bar e sulle tavole di casa, le più gustose leccornie, come gli agnelli di pasta di mandorla, le colombe e soprattutto le uova di cioccolato. Ma, a dire il vero, la presenza di queste specialità, che deliziano il palato di grandi e piccini, non è poi tanto strana, se si va a fondo per comprenderne le matrice simbolica e religiosa.

Gli agnelli di pasta di mandorla, infatti, richiamano proprio l’Agnus Dei,  l’Agnello di Dio della religione cristiana. Le colombe sono  un chiaro rimando allo Spirito Santo, rappresentato da sempre sotto forma del bianco uccello, simbolo di pace e di purezza.

All’inizio, le colombe erano solo di pasta di mandorla, ma poi è stata prodotta anche la colomba di cioccolato e farcita delle creme più varie.

Il nostro dolce pasquale più conosciuto, fino a qualche tempo fa, era in assoluto la “scarcella”, un pane fatto con zucchero, farina, uova e vaniglia, che assumeva le forme più disparate. Queste forme avevano tutte dei significati particolari, come un cesto, un animale, o come una bambola o un pupazzo per i bambini. A completare questo dolce, un uovo crudo, nel centro, fissato con una croce di pasta.

Un po’ più ampio il discorso che riguarda le uova pasquali.  L’uovo è un simbolo di fecondità; dall’uovo inizia la vita ed è chiaro il riferimento alla

Osanna e menhir

di Emilio Panarese

Verso l’anno mille circa dell’era cristiana, invalse l’uso di graffire delle croci con pietre o metalli appuntiti sulle facce di un menhir o di piantarvi in alto delle croci di pietra.

Per questo processo di cristianizzazione i menhir erano chiamati impropriamente culonne o croci o in griko sannà, da osanna (che in ebr. significa “salvaci!”) col significato metonimico altomedievale di “Domenica delle palme”.

menhir “Crocemuzza” o delle Franite (Maglie)

Non bisogna però confondere i menhir, benedetti dai papâs bizantini e adattati a sannà, coi sannà veri e propri o culonne cu ccroci commemorative della Passione di Cristo, innalzati, secondo l’usanza medievale di alcuni paesi della Grecìa salentina, alla periferia del paese e, più tardi, nel ‘600/’700, anche nel centro storico.

È molto probabile che pure il sannà sopra ricordato, nei pressi della chiesa greca magliese di S.Maria della Scala, sia stato un menhir.

croci graffite sul menhir (ph R. Panarese)

Di questo menhir o Crocemuzza, allo Scamata, alla periferia occidentale del paese, non è rimasto che il ricordo nelle antiche carte, com’è avvenuto per l’altro esistente presso la masseria di Maglie o del castello, tra l’ingresso del cimitero e il Palombaro, e quello nei pressi dell’Àviso, a sud della campagna di S. Sidero. E’ andato pure distrutto il menhir detto S. Biagio o Crocemuzza o Croce, al confine tra il feudo di Maglie e quello di Melpignano. Del menhir S. Rocco, poco distante da quest’ultimo, dà notizia solo il De Giorgi. Così di tutti i menhir, esistenti in tempi passati alla periferia più o meno vicina al casale magliese, oggi ne sono rimasti solo tre: quello a S. E., detto menhir Crocemuzza o delle Franite, ad est della strata vecchia di Scorrano, un altro detto Spruno tra la strada ferrata Maglie-Bagnolo,  e quello a N.E. detto menhir Calamàuri (Cfr. gli Inventari di Maglie del 1483/84, A.S.N., “fovea sita et posita in Sannà […] in loco de Scala”, e la cerimonia del 1° gennaio 1585, nella quale i francescani compaiono per la prima volta in Maglie, “piantando la croce appresso il sannà”.

 

(Emilio Panarese, La vicenda storica dei francescani di Maglie, 1585-1982, estr. da “Contributi”, 1982,I,4).

 

Come cucinare il lampascione, il re dei bulbi

di Massimo Vaglio

L’estrema versatilità gastronomica, del lampascione, ma soprattutto la straordinaria combinazione fra le sue singolari peculiarità olfattive e le complesse ben dosate caratteristiche organolettiche, lo rendono, a dispetto della sua larga diffusione nei ceti più popolari e nei menù delle bettole paesane, un prodotto molto elegante.

Il loro gusto, che possiamo descrivere: dolceamaro con retrogusto erbaceo e dall’aroma vagamente muscarino, li rende dei bulbi ripetiamo organoletticamente eleganti ed estremamente interessanti e se, com’è auspicabile, incontreranno l’estro dei grandi cuochi, non potranno che assurgere a nuovi fasti divenendo dei protagonisti d’eccellenza della nostra gastronomia.

Nella quasi totalità dei casi i lampascioni, prima di essere sottoposti a cottura, devono essere nettati, privando i bulbi dell’apparato radicale, della parte aerea, se ancora presente, e delle tuniche più esterne. Devono essere quindi lavati diligentemente sotto l’acqua corrente e, per divenire commestibili, devono essere obbligatoriamente cotti.

Quasi tutte le ricette che li interessano prevedono una loro preventiva lessatura; questo fra i vari metodi di cottura, resta quello più consigliabile in quanto li rende più digeribili. Anche questa semplice operazione richiede però degli accorgimenti, anche se minimi.

I lampascioni, a seconda del terreno dal quale provengono, possono essere più o meno amari come pure più o meno teneri. Nel primo caso si potrà ovviare all’inconveniente ponendoli a bagno in acqua fredda dopo averli nettati e provvedendo a cambiare l’acqua almeno due volte al giorno per un periodo massimo di due giorni; di norma è sufficiente tenerli a bagno la nottata antecedente al giorno di cottura.

Nel caso invece ci si trovi davanti a lampascioni molto restii alla cottura, cosa che generalmente si verifica in lampascioni provenienti da terreni molto calcarei, un rimedio può essere quello di lessarli in acqua piovana, cosa che un tempo era facilissimo procurarsi, in quanto quasi tutte le abitazioni erano munite di una cisterna che la raccoglieva affidandone la potabilità ad una vorace e vigile anguilla cui era affidato il compito di divorare insetti, limacce e larve che fossero accidentalmente caduti dentro. Oggi, l’oggettiva difficoltà a procurarsi l’acqua piovana, impone, alla bisogna, il ricorso ad una punta di bicarbonato di sodio aggiunta all’acqua di cottura e il risultato è assicurato lo stesso, anche se potrebbe annullare alcuni principi vitaminici.

Comunque regola fissa rimane quella di sottoporre i lampascioni ad una lessatura non tumultuosa, ma regolando la fiamma al minimo appena l’acqua comincia a bollire, in questo modo i lampascioni cuoceranno prima, in modo completo e soprattutto rimarranno integri.

(continua)

 

 

Lecce/ Incontro con un verduraio “storico”

di Rocco Boccadamo

Martedì 27 marzo, bel mattino di sole, rallegrato dallo zefiro, il mite vento primaverile che soffia da ponente, temperatura gradevole: l’ideale, per una passeggiata in bici.

Nessuna meta prestabilita, tuttavia, dopo i primi movimenti dei pedali, s’affaccia netta la decisione di raggiungere una ben determinata zona del centro storico di Lecce, anzi un preciso obiettivo e traguardo di contatto.

Nelle immediate vicinanze del monastero delle Benedettine e a qualche centinaio di metri dalla chiesetta Greca – due perle dell’architettura religiosa cittadina – il cartello segnaletico indica “Corte Conte Accardo”, breve e stretto rettilineo fiancheggiato da casette o palazzetti d’epoca, con l’unica eccezione, in fondo a sinistra, dell’edificio delle scuole elementari “De Amicis”.

Al civico 18, si apre ed affaccia un piccolo esercizio per la vendita al dettaglio di frutta e verdura, che da sempre, invero, va catturando l’attenzione dell’osservatore di strada scrivente. Notazione architettonica: il primo piano soprastante, abitazione privata, offre una balconata in pietra leccese, un semi arco e una terrazza, che formano un insieme d’autentico amore.

Nessuna insegna, un semplice accesso con “limitare” o gradino, assenza di luci sgargianti, bensì penombra naturale al punto giusto, integrata da una

Antonio Casetti e il Cittadino leccese (seconda parte)

di Maria Grazia Presicce e Armando Polito

Nella poesia che abbiamo presentato nella prima parte Antonio Casetti ci ha fatto conoscere Nina, la quale non attende certo troppo tempo per rispondergli…per le rime. E lo fa con questa poesia in forma di lettera con tanto di firma (Nina K.) e di data (Napoli, 30 settembre 1868). Se non si trattasse di un’invenzione del letterato che con sottile ironia prende in giro se stesso, se, cioé tutto non fosse fittizio (compresa la firma, per cui non sapremo mai a cosa corrisponda per esteso quel K., ammesso che si tratti di un personaggio realmente esistito), diremmo che il servizio postale allora funzionava molto meglio di oggi se una missiva scritta il 30 settembre risulta pubblicata il 5 ottobre…

Anche questa volta Antonio Casetti non manca di lanciare le sue frecciate contro gli eccessi del secolo passato e del suo, sicché Nina finisce per diventare l’alter ego del letterato che recupera la sua identità grazie al buonsenso di una persona comune che sa guardare in modo disincantato alla vita, consapevole delle sue inevitabili contraddizioni , ricchezze e miserie, senza il cipiglio serioso di certi intellettuali che vorrebbero far credere di essere indenni da certi condizionamenti.

Riti e tradizioni pasquali. La fiera magliese dell’Addolorata

di Emilio Panarese

Tradizioni e riti della settimana santa magliese non sono molto dissimili oggi da quelli ancora vivi in tutta la subregione salentina, in quanto in questi ultimi decenni, così com’è avvenuto per i dialetti e la lingua ufficiale, la nostra società consumistica ha assai livellato e uniformato quelle che una volta erano manifestazioni inconfondibili e peculiari di un agglomerato urbano, nel passato, tranne qualche eccezione, assai chiuso, per le rare comunicazioni e gli scarsi scambi culturali, e quindi poco sensibile alle influenze di costume di altri centri urbani della provincia. Le tradizioni pasquali, come le natalizie, con il fluire del tempo, hanno perduto a poco a poco l’antico connotato, il significato originario, non per un involutivo processo di deculturizzazione o di perdita di identità, ma per una normale dinamica di svolgimento, di ammodernamento, di adattamento della tradizione a nuove esigenze, a nuove concezioni di vita e di fede.

Ne parliamo, perciò, non certo per riviverle o, peggio, per recuperarle, in quanto tale pretesa contrasterebbe con la legge stessa della storia, che è incessante svolgimento, e nella vita e nella storia nulla si ripete, né tanto meno ad esse guardiamo, con sentimento nostalgico ed elegiaco, come ad un bene perduto per sempre, ma senza rimpianto le esamineremo, perché rituali storicamente validi della nostra cultura passata, delle consuetudini degli avi, perché espressione autentica della religiosità aggregativa della comunità magliese, vista nella sua unità, al di fuori della distinzione classista ed angusta di due culture contrapposte: l’egemone e la subalterna (oggi complementari e similari), religiosità aggregativa che tuttavia continua, sia pure di parecchio trasformata, e nello spirito e nelle forme spettacolari esteriori.

Non molte le fonti alle quali abbiamo attinto: la tradizione orale, la letteratura vernacolare magliese in versi (canti popolari, poesie di N.G. De Donno, N. Bandello, O. Piccinno), giornali magliesi (Lo studente magliese, Il sabato, Tempo d’oggi), ma, soprattutto, alcune carte d’archivio dell’arciconfraternita di Maria SS.ma delle Grazie e, per quanto attiene al rituale in uso agli inizi del ‘900 o a quello poco prima estinto, al saggio La gran settimana, che ci ha lasciato il dotto e valente professore magliese, poi preside, Angelo De Fabrizio, cultore appassionato, preparato ed attento di studi folclorici salentini. A loro tutti il mio ringraziamento per i contributi e le testimonianze che ci hanno donato.

La fiera magliese dell’Addolorata

Precede di due giorni la Domenica delle Palme e si svolge nel viale che porta alla settecentesca graziosa omonima chiesa, una volta distante dall’abitato, in mezzo ad orti e giardini bene irrigati, oggi in una zona urbana assai frequentata soprattutto il sabato.

Tre ggiurni nnante la simana santa,

ossia lu venerdìa, ven ricurdata cu nna fiera:

Matonna Ndolurata a mmenzu lli rusci!

E diuzzione quanta?

Nnu tiempu la fiera era ‘mpurtante:

vinìne dai paesi a cquai Maje

cu ccàttane campaneddi e minuzzaje

e tante mercanzie, nu’ ddicu quante!

(Orlando Piccinno)

L’antica fiera del bestiame[1] si è trasformata via via in un chiassoso, vivace mercato con banche e bancarelle di dolciumi, di noccioline, di terraglie, di stoviglie e utensili domestici vari, di cesti di vimini, di vasi di argilla per fiori e, soprattutto, di campane e campanelle, di trombe e trombettine, di pupi e di pupe, di lucerne, di animali domestici vari, tutti di terracotta, verniciati o no, di ogni forma e tipo, ed ancora di palloncini, di giocattoli di plastica, di carrettini, di variopinte ruote con l’asta, di rustici mobili in miniatura (giuochi assai ricercati dai bambini una volta), di fischiettid’argilla e di gracidanti raganelle[2] di legno.

Durante tutta la giornata della fiera, soprattutto la sera, la chiesa dell’Addolorata è meta di devoto antico pellegrinaggio e di raccolta preghiera davanti alla statua di cartapesta di Maria SS.ma che ha la faccia chiusa nella veletta nera e sette spade a raggiera sul cuore.

Lacrime a ggoccia de lucida cira,

la facce chiusa a lla veletta nera

e sette spade a llu core raggera,

vave chiangennu morte e mmorte tira

-stu venerdìa de vana primavera

ca pulanedda d’àrguli rispìra-

cacciata de lu nicchiu a pprima sira

Ndolurata Maria, la messaggera

de l’agnellu Ggesù. Li Grammisteri

de cartapista cu lla purgissione

èssene osciottu tra ale de pinzieri

e Mmaria a rretu, muta a lla passione.

Osci, fischetti an culu carbinieri,

tròzzule e campaneddi ogne vvagnone.

(Nicola G. De Donno)

note al testo:

[1]La fiera dell’Addolorata e quella di S. Nicola vennero istituite nel 1860 con lo stesso decreto borbonico.

[2]Arnese rudimentale di legno a forma di bandiera, costituito da un manico cilindrico rastremato verso l’alto, in cui viene inserita una ruota dentata contro la quale, a contrasto, si fa girare, in senso rotatorio, una sottile lamina (linguetta) che produce un fragoroso gracidìo. Da qui il nome raganella di Pasqua e gli onomatopeici salentini trènula o tròzzula. Allo stesso campo semantico di tròzzula appartengono tròccola, tròttola, trozzella. La troccola “bàttola”, “raganella” o, meglio alla lettera, “ruota dentata che fa rumore” (incrocio del gr. chrótalon “nacchera” con trochilía “carrucola del pozzo”) era anticamente una ruota di ferro a cui erano appesi parecchi anelli, che nel muoversi crepitavano (garruli anuli). Cfr. il caI. tròccula e il nap. tròcula. La tròttola è il giocattolo di legno, simile a un cono rovesciato, con punta di ferro, che si getta a terra, tirando a sé di colpo la cordicella ad esso avvolta. Noi magliesi, con voce aferetica derivata da curru, la chiamiamo urru, bifonema speculare, che imita il suono caratteristico di un oggetto che gira velocemente, producendo lieve rumore. Trozzella “rotella” è voce regionale pugliese, che indica una tipica anfora messapica “di forma ovoidale rastremata al piede, con alte anse nastriformi, verticali, che terminano in alto e all’attacco col ventre con quattro rotelline (da lat. trochlea con suff. dim.). I manici ad ansa con nodi a rotella imitano la carrucola del pozzo (trozza). Ma con tròzzula noi salentini indichiamo pure la ruota del telaio, che fa girare il subbio, cioè il cilindro di legno su cui sono avvolti i fili dell’ordito, ed anche, in senso figur. e dispr. la donna di malaffare, la meretrice, la sgualdrina, che va in giro qua e là, destando mormorìo di disapprovazione tra la gente onesta (“giro”+”rumore”).

[estr. da “Riti e tradizioni pasquali in un paese del Salento (Maglie)”, Erreci edizioni, Maglie, 1989, 3° vol. della “Collana di saggi e documenti magliesi/salentini” fondata e diretta da Emilio Panarese]

Adriano Radeglia e le creature che bussano alle porte di chi dorme

Adriano Radeglia, artista pugliese, Mesagne classe 1974.

Diplomato al Liceo artistico della città di Brindisi con indirizzo architettura, ha seguito corsi tesi alla valorizzazione di attività artigianali della propria terra. Dopo un lungo periodo dedicato intensamente alla pittura, che ancora oggi è parte della sua espressione, si avvicina alla materia, l’argilla.

Inizia a creare e rivisitare oggetti tradizionali di uso domestico giocando su una nuova chiave decorativa, attraverso la quale l’evoluzione lo ha portato ad un interesse per il design d’arredo: forme inedite che non di rado si ritrovano a coprire una veste di “utilitá” quotidiana, come lampade o contenitori.

È cosí giunto all’attuale produzione artistica, in una sincronia istintiva tra cuore, mente e mani: le CREATURE, sculture in terracotta policroma che raccontano del mare e della terra.

Intrecci di spine e petali sinuosi, ventose o morbidi uncini danno vita a corpi che appartengono alla terra come all’acqua, non esiste specie nè sesso.

Sono esseri contrastati di colore che assumono anima con lo spiegarsi della propria luce e dello scuro. Tutto diviene movimento al tempo stesso fermo.

Queste le Creature “rubate” alla natura, sembianze naturali oppure aliene?

 

C R E A T U R E

a cura di Antonio Esperti

 

Come nasce una forma vivente? Come si rigenera? Di cosa ha bisogno? Cosa leva e cosa offre il suo corpo? Quali relazioni disegna e a quale scopo? Qual è il suo respiro? E i suoi sogni? Come si muove? Quali sono i suoi appetiti, le paure? Ama?

Mi è difficile raccogliere tutte le dimensioni, le vite, gli sguardi, le domande che bruciano dentro il sangue e le opere, la ricerca di Adriano Radeglia.

Sono le sue “Creature” a narrarsi da sè: lapilli commossi, entità volitive che cantano pre-visioni remote; unità prime socialmente autonome che

Leccesi, c’era una volta / 2a parte: Quando arrivammo a Civita Castellana

di Alfredo Romano 

PREMESSA
Voglio raccontarvi adesso di come venne accolto mio padre quando mise piede per la prima volta a Civita Castellana, in località Terrano. Correva l’anno 1965. Fu scaricato alle quattro del mattino da un furgone Wolkswagen stracarico di salentini, stipati come sardine, nei pressi della casa colonica. Era buio e fu scambiato per un ladro e, come in guerra, mio padre si gettò a terra per scansare due colpi di fucile sparati al suo indirizzo. Pregò Vittorio, l’autista del furgone, di riportarlo al suo paese. Ma, chiarito l’equivoco, si convinse a restare ed ebbe inizio la sua avventura a Civita Castellana. I civitonici a quel tempo ignoravano le piante di tabacco e facilmente le scambiavano per insalata.

 Il video: monologo di Alfredo, poi Mina e Alfredo
cantano “Fìmmene fìmmene

Testo in dialetto salentino (scrittura fonetica).
Quandu iu tenìa sìtici anni, tantu tiempu rretu, paru cu mmàma e ccu lli frati mii, sìrama ne purtau a Civita Castellana, nnanzi Roma, cu cchiantamu tabaccu. Tandu tante famije te tutte le parti te lu Salentu scìanu a Civita Castellana cu cchiàntanu tabaccu.
Partìmme cu llu Vittoriu: era unu te Specchia ca facìa jàggi nnanzi rretu cu ‘nnu furgone. Nci vulìa ‘na sciurnata sana tandu cu rrìi a Civita Castellana, ca percé nun c’era autostrada (sulamente la Napoli-Roma) e sse passava te paese ppaese. Quandu te scia bona, ca certe fiate lu furgone furava puru dô fiate, e se succetìa te notte, tuccàa cu spetti sse fazza mmatìna cu ppozza rriare ‘nu meccanicu. E ‘ntantu, ncarrati comu fiche intru lla capasa, stìame tutti mpassulati e stritti susu cquiddhe muntagne mare te l’Appenninu.
Sìrama partìu pe’ pprimu a Civita Castellana, ca ia ppreparare li chiantinari, e

A Calimera la festa delle essenze

Non è nostra abitudine – come ben sanno i lettori – dare spazio alla pubblicità e quanto segue non fa eccezione a questo fermo costume. Ci pare semmai importante dare visibilità, per logiche che nulla hanno a che fare con il mondo delle sponsorizzazioni, ad iniziative anche di natura imprenditoriale ed economica se queste, come è nel caso in questione, hanno anche ulteriori valenze e possono rappresentare, come prodotti dell’ingegno creativo e dalla spiccata sensibilità etica, modelli esemplari nel coniugare amore per la nostra terra e il rispetto per la sua rigogliosa natura con l’intraprendenza giovanile e la voglia di fare impresa. Ben vengano allora iniziative ispirate da una simile concezione e animate dai modelli di uno sviluppo sostenibile, credibile e auspicabile, come è appunto nel caso dell’idea qui proposta: a chi l’ha concepita rivolgiamo i nostri migliori auguri!

Fiera Mirodìa, la festa delle essenze

Sabato 31 marzo 2012 – dalle 21.00 alle 23.00

Calimera, via Europa (nei pressi della Chiesa dell’Immacolata)

Mirodìa trova casa a Calimera. Il laboratorio artigianale per la produzione di saponi naturali, pensato e realizzato da Simone Dimitri, è un progetto che abbraccia territorio, cultura, sostenibilità ambientale, forme e visioni.

 

L’inaugurazione di questa nuova fucina profumata è prevista per sabato 31 marzo dalle ore 21.00 alle 23.00 con Fiera Mirodìa, una vera e propria festa delle essenze dove sarà presentata la nuova ‘collezione’ di saponi.

Una grande tavola imbandita con gli ingredienti, i profumi, le forme e le storie che hanno ispirato la produzione, accoglierà amici, partner e altre realtà di Calimera che condividono insieme a Mirodìa un legame intimo con il territorio e una visione di sviluppo sostenibile. 

A colorare la ‘tavola dei saponi’ saranno le incursioni di artigiani,

Gli oltre quattrocento anni dell’Osanna di Nardò

di Marcello Gaballo

Furono certamente intraprendenti e di buon gusto i sindaci neritini che nei primissimi anni del XVII secolo vollero realizzare una espressione artistica ed architettonicamente originale come l’Osanna. Ancora oggi il monumento emerge nella sua bellezza stilistica all’inizio della “villa”, nell’ omonima piazza, un tempo subito fuori dalla cinta muraria.

 

Sia stata essa un capriccio umano, un elemento di arredo urbano oppure una eclettica testimonianza storica o ancora solamente un simbolo della fede del popolo neritino, certo è che  essa rimane un’opera davvero singolare, aldilà  delle intenzioni dei costruttori o dei committenti.

Ultimata nel 1603, l’ Osanna fu edificata su aere publico, ad Dei cultura, per interessamento dei sindaci di allora, Ottavio Teotino e Lupantonio Dimitri, rispettivamente sindaco dei nobili e del popolo, come ci è dato di leggere attorno al cornicione della cupola: HOC HOSANNA AD DEI CULTURA À FUNDAMENTIS AERE PUBLICO ERIGENDUM CURARUNT OCTAVIUS THEOTINUS ET LUPUS ANTONIUS DIMITRI SINDICI, 1603.

Il luogo dove sorge doveva già allora essere rinomato, trovandosi di fronte alla porta San Paolo o Lupiensis, che il neritino Angelo Spalletta aveva ricostruito circa quindici anni prima. Era il biglietto da visita della città per quanti giungevano da Lecce e la sua piazzetta doveva essere piuttosto animata per quanti vi si recavano ad attingere l’acqua o per gli acquisti: lì, come risulta dai documenti, vi erano perlomeno “la fontana” e la “beccaria di fore” (la macelleria fuori dalle mura).

Un altro edificio  dominava la piazzetta, l’antichissima chiesetta di S. Maria della Carità, oggi in deplorevole abbandono, che nel 1310 già versava i dovuti tributi ecclesiastici. Fungevano da sfondo le mura aragonesi della città con i suoi coevi torrioni circolari.

È possibile che il nostro monumento dovesse semplicemente riempire un vuoto e quindi essere stato inventato di sana pianta. Piuttosto credibile appare invece un’altra ipotesi, che  dovesse racchiudere al suo interno una preesistente colonna commemorativa, come tante altre possono osservarsi in varie cittadine del Salento ed anche lì poste all’ ingresso del paese.

Qualche Autore infatti ha felicemente ipotizzato che la colonna centrale del nostro monumento sia costituita da un’antica pietrafitta, cioè una delle antichissime stele votive erette dagli avi per le loro credenze votive, successivamente cristianizzata apponendo in cima il simbolo della Croce.
Di fatto le pietrefitte venivano issate su una piattaforma a gradinata, erano di un solo blocco di pietra leccese ed erano alte circa 3-4 metri.

Al di là delle ipotesi, la nostra costruzione  per la sua posizione strategica e struttura architettonica inusuale resta unica, risultando una delle più belle espressioni  del  “rinascimento” neritino, che in quel ventennio si manifesta con incredibile ripresa delle arti, delle lettere, dell’ architettura. Il benessere dei suoi baroni, la pinguedine dei suoi terreni, l’accresciuto numero di residenti e forestieri, la stanno rendendo infatti una tra le più interessanti città del Salento: ovunque vi sono cantieri e ogni convento, chiesa e palazzo viene ampliato ed abbellito.

La rinascita culturale e sociale fa nascere anche ottime maestranze, che da Nardò si attivano in ogni luogo di Terra d’Otranto. Sono gli anni di Giovan Maria Tarantino, degli Spalletta, dei Dello Verde, dei Bruno e di tanti altri abili mastri, tra i quali va senz’ altro ricercato l’artefice del nostro monumento.

Al suo valore storico si associa infine l’affetto dei neritini, che da sempre vi si attorniano la domenica delle Palme, per celebrare il rito della benedizione dei ramoscelli da parte delle autorità ecclesiastiche, in memoria dell’ ingresso trionfale di Cristo in Gerusalemme.

Riguardo l’ ingegnosa struttura ricordiamo solo che la sua cupola poggia su otto colonne, di cui le esterne congiunte tra loro mediante archetti plurilobati di epoca successiva. La base ottagonale fa pendant con l’omonima pianta della vicina chiesetta della Carità ed il binomio, non casuale, richiama ad usi e tradizioni assai importanti per la vita cittadina, tra i quali certamente  i festeggiamenti della prima settimana di agosto in occasione dell’ antichissima fiera dell’ Incoronata.

L’ ultimo restauro dell’Osanna risale al 1996, mentre l’ area antistante è stata completata nel 2001, riportando all’ integrità numerica i gradini su cui si erge il monumento, dei quali cinque erano rimasti coperti dagli innalzamenti del manto stradale. Con i lavori è stata rimossa la ringhiera di ferro degli anni ’40 che la circondava per proteggerla da danneggiamenti.

A distanza di  400 anni il monumento resta un gioiello, unico ed irripetibile, e come tale da conservare e da esibire con orgoglio, ma sarebbe stato opportuno commemorarlo e propagandarlo in maniera appropriata… perché lo merita!

Castro, bellezze naturali e tradizioni

 di Rocco Boccadamo

Un puntino quasi invisibile sulle carte geografiche, una sorta di ombelico segnante il connubio fra gli ultimi strati del verde Adriatico e le vivaci distese, dalle sfumature color blu intenso, del mare Ionio.

Tuttavia, Castro, autentica perla del Salento, è da tempo conosciuta ed amata: sia per le vestigia storiche (antiche mura, castello, torrioni, ex cattedrale), sia per le grotte marine (in primo luogo, Zinzulusa e Romanelli), sia per le incomparabili attrattive turistico – balneari (mare e fondali da incanto). Ormai, si colloca a pieno titolo come méta apprezzata e frequentata non solamente dai salentini e dai pugliesi, ma anche da parte di numerosi turisti e visitatori provenienti dal centro-nord Italia e dall’estero.

Nel Borgo, la torre medioevale più grande vanta, soprattutto, un panorama a dir poco mozzafiato: vi si spazia verso nord, quasi a voler rivolgere un rispettoso saluto ideale alla Serenissima, regina di sempre dell’Adriatico, verso est, dove a portata di mano si trovano, e sovente si scorgono, le coste e i rilievi dell’Albania e della Grecia, verso sud, nella quale direzione lo sguardo, doppiato il capo di Santa Maria di Leuca, sembra invece indirizzarsi all’universo delle civiltà musulmane, importanti e contrapposte. Sostandole accanto, si ha veramente la sensazione di “sollevarsi” dall’esistenza quotidiana

DEFINIZIONI (IN)CALZANTI

di Armando Polito

Sabato, 24 marzo 2012, telegiornale delle 13 su Rai 2. Pierferdinando Casini, intervistato sulla scelta del governo di ricorrere al disegno di legge anziché al decreto per la riforma del lavoro (quella, per intenderci, dell’articolo 18 la cui abolizione, dicono loro, favorirà l’occupazione mentre io dico che servirà solo a fare un 16 così ai lavoratori…), ha dichiarato testualmente: “Il governo ha fatto bene a scegliere la via mediatica”.

Ispirato da tanta proprietà linguistica (e che, so’ fesso?) propongo le definizioni che seguono per alcune locuzioni entrate da tempo nell’uso comune. Avverto il lettore che è libero di interpretare l’in in parentesi  della seconda parola del titolo con valore privativo o con valore preposizionale o con l’uno e l’altro insieme (che è, poi, il valore con cui l’ho usato io).

VOCE NEL DESERTO Espressione: “Mamma, che caldo!”.

ESSERE IN VOGA Far parte dell’equipaggio di un’imbarcazione impegnata in una regata.

OCA CON ZAMPE DI GALLINA Donna stupida e con rughe attorno agli occhi.

VILLANO RIFATTO Bifolco che si è sottoposto ad un’operazione di chirurgia estetica.

TANGENZIALE Strada nella cui costruzione sono intervenuti fenomeni di corruzione prima nell’acquisizione dei terreni, poi nell’assegnazione dell’appalto.

MAFIOSO  Cliente che mette a dura prova la pazienza del suo dentista; infatti non apre bocca nemmeno sotto tortura.

TERRA BRUCIATA È quella che lascia dietro di sé un pompiere incompetente.

ESPRIMERSI SENZA MEZZI TERMINI Parlare stando attento a non mangiarsi le sillabe.

SOLUZIONE ALCOLICA Superamento della depressione con una bottiglia di

La donna che sussurra agli Ulivi

di Silvana Bissoli

Da giorni penso a come presentarmi, a come raccontare un sogno che prende forma, perché, al di là di una semplice autobiografia, c’è molto di più: due vite agli antipodi e un destino comune.

Pensate ad una ragazzina come tante, adolescente, molto amata e piena di sogni, ma con le ali legate, strette dentro una splendida gabbia, condivisa con 3.500 anime.

Pensate a come, riuscita a liberarsi con il coraggio e l’audacia propri di ogni giovane vita che corre incontro al mondo spalancando le braccia, si spaventi della sua vastità e ne resti disorientata.

Pensate a quale emozione quando, determinata a trovare la propria strada, superando mille dubbi e paure, divenuta maggiormente consapevole del proprio cammino, si trovi immersa a vivere l’avventura più intima e personale della sua vita. Un’avventura talmente grande che neppure nei suoi sogni più arditi e fantastici avrebbe potuto concepire. A ogni volo, a ogni caduta, a ogni ferita rimarginata, l’adolescente cresce e si forma, prendendo sempre più coscienza di come tutto fosse stato già scritto nel meraviglioso libro della vita, che racconta la sua storia e si rende conto così che volti, paesi e figure, tutto doveva ricondurla verso quell’approdo, dove il fato l’aveva portata molti anni prima e lì, finalmente, ricongiungersi ai suoi sogni.

Ed ecco che ora tutto ha un senso: quell’incontro magico dei suoi vent’anni, quel richiamo forte e insistente, quegli eventi, solo apparentemente casuali, tutto la riconduceva in quel lembo di terra, tanto distante dalle sue radici, eppure così intimamente radicato.  Un percorso lungo e tortuoso, come difficili sono state le risposte da trovare in quel turbinio interiore che si agitava. E l’elemento in grado di eliminare le distanze e dare tutte le risposte, in una comunione di sentimenti e di azioni, che accompagnano i suoi giorni è lui: l’Ulivo.

Silvana Bissoli con i bambini di una scuola materna di Martano

E così, da dieci anni, le pagine della sua vita si riempiono di storie narrate con e attraverso le forme dell’albero che più di ogni altro rappresenta tutto: dal sentimento alla sostanza, dalla forza alla fragilità, dalla pace alla lotta, dalla gioia al dolore, dalla vita alla morte, tutto è contenuto nella sua simbologia e nella sua materiale essenza…

Una giornalista un giorno la definì “la donna che sussurra agli Ulivi”: è difficile spiegare le pulsioni che creano un legame tanto profondo. Gli Ulivi si donano generosamente e si lasciano docilmente trasformare e interpretare, incisi a fuoco con un segno indelebile che penetra la tavola di legno, un segno che sarà tradotto in sentimenti ed emozioni, quando, chi sensibile e attento con l’occhio del cuore, sentirà il suo respiro, perché è in quel l’istante che “l’Ulivo sussurra agli uomini” e, nella condivisione, consegna la propria testimonianza.

… e la storia continua…

Silvana Bissoli nel primo giorno di laboratorio in una scuola di Otranto

SILVANA BISSOLI PIROGRAFISTA

Nata a Sanguinetto (VR), vivo a Imola (BO), dove lavoro nel mio laboratorio d’arte “L’Ulivo ela Luna” sito in via Carradori,11.

Laureata in Scienze Politiche, giungo all’arte in maniera assolutamente autodidatta, per rispondere ad una spinta interiore, per assecondare un bisogno di esternare ciò che sento, lasciando che i miei lavori parlino per me.

L’incontro con l’artista pugliese Giorgio Fersini, mio maestro di pirografia, è stato determinante per la mia crescita artistica personale, incoraggiandomi ad esporre in pubblico.

La mia espressione artistica ha eletto l’albero dell’ulivo unico soggetto dei miei lavori, trattando questo autentico monumento della natura con la tecnica particolarissima della pirografia, svelandone lo spirito che si contorce ed aggroviglia in un movimento plastico che tende al cielo. All’Ulivo, quasi sempre reale, do voce e così esso diventa per me simbolo, parola, strumento di pensiero. Imparare a leggere tra le pieghe dei tronchi secolari un vissuto, un ammonimento, un incoraggiamento e soprattutto il coraggio di vivere che il tempo non ha mai scalfito: questa la mia ambizione, perché èla Natura, la vera maestra di vita.

Espongo in permanenza presso il mio studio “L’Ulivo ela Luna” e dal2003 inmostre personali e collettive.

Partecipo a concorsi, manifestazioni pubbliche e organizzo laboratori presso scuole e ovunque io sia invitata, perché ritengo indispensabile comunicare in modo personale e diretto, incominciando proprio dai bambini, attenti e curiosi, attratti dal mio lavoro, sia perché la tecnica è sconosciuta, sia per comprendere la ragione della mia ripetitiva rappresentazione.

Infine sono socia dell’Associazione “Musica in Musica” e più specificatamente del progetto “La Placedes Artistes”, che oltre a fare spettacolo, ha come obiettivo proprio quello di portare “l’arte in piazza” e, con una formula gioiosa, sensibilizzare ad ogni forma artistica.

 

 

 

 

 

Per informazioni

L’Ulivo ela Luna

di  Silvana Bissoli

Via Carradori, 11

40026 IMOLA (BOLOGNA) ITALY

Cell. 3397612304

Website: www.lulivoelaluna.com

e-mail: bissosil1@virgilio.it

Per ulteriori informazioni

www.lulivoelaluna.com

http://facebook.com/silvana.bissoli

Tuglie. La festa in onore di Maria SS. Annunziata

di Massimo Negro

La festa patronale è la Festa Patronale. Può accadere di essere lontani, fuori regione o lontani dall’Italia. Oppure a pochi chilometri, avendo per vicessitudini della vita, cambiato residenza. Ma la festa è la Festa.

E il suo richiamo festoso è il richiamo delle proprie origini, del proprio paese, della comunità in cui si è cresciuti, della propria terra. E’ come il suono di una banda, una sinfonia di ricordi che si fanno sempre più armonici e squillanti con il passare del tempo.

E’ l’appuntamento per rivedere solitamente persone, vecchi amici che si incontrano raramente durante l’anno. Perchè per la Festa tutti, o quasi, ritornano e la piazza del paese diventa il luogo degli incontri, del “te quantu tiempu ‘nnu te vidi!”, del “a casa comu vane le cose?”, del “ma t’ha spusatu? figghi?”.

E per chi non ci può essere perchè lontano per motivi familiari, di lavoro o di studio, resta comunque ovunque si trovi un giorno di festa. Un giorno in cui non può mancare la telefonata ai genitori, ai parenti ed amici per sapere “comu ete st’annu la festa”.

E così sarà anche quest’anno nei giorni 24, 25 e 26 marzo.

Altri tempi, quando adolescente, iscritto all’Azione Cattolica, con i compagni dell’Oratorio portavo a spalla  in processione una delle statue dei santi. A me solitamente toccava portare quella di S. Antonio, copatrono del paese.
Guai a sbagliare passo, come puntualmente accadeva, o a fare coppia con un compagno di altezza sensibilmente diversa, come spesso succedeva.

Il risultato era che l’asta su cui poggiava la base della statua ti “volava” via e dovevi fare forza per mantenerla poggiata sulla spalla, altrimenti il peso gravava sul compagno di turno o, viceversa, te ne uscivi al termine della processione con la spalla bella segnata dal peso e per un paio di giorni ti rimaneva qualche doloretto. Ma erano altri tempi.

Ma sempre “meglio” Sant’Antonio che la statua della Madonna, ben più pesante anche per via dell’angelo. La terza statua ad uscire per le strade del paese è San Giuseppe, anch’egli copatrono di Tuglie.

La processione principale, quella solenne, nel passato si svolgeva la mattina del giorno di festa.
Partiva al termine della messa delle 10, alla ” ‘ssuta te la messa”, e terminava a ridosso del pranzo. Si camminava per le strade dove, man mano che passava il tempo e ci si approssimava a mezzogiorno, il profumo delle polpette o della carne al sugo cucinata a fuoco lento invadeva le strade e ti accompagnava lungo tutto il tragitto.
Il profumo della cucina delle nostre mamme e delle nostre nonne che preparavano per il grande pranzo.
E il profumo delle polpette, della sagna al forno diventava tentatore come il canto delle sirene per Ulisse. Si partiva in tanti dietro le statue dei Santi e della Madonna e si arrivava solitamente in pochi. Molti si arrendevano strada facendo al richiamo della tavola.

Prima della processione, se non ci svegliamo tardi, era d’obbligo fare un giro alla grande fiera. La meta preferita era andare a vedere gli animali.

La sera tutti alle giostre, con le orecchie piene della musica da discoteca sparata ad alto volume, sentendosi da adolescenti come tanti piccoli Tony Manero (ai miei tempi Travolta andava di moda). Il tagadà, su le mani e senza mani, la barca, su cui immancabilmente mi sentivo male, e tante altre giostre da girare.

Era l’occasione per il primo gelato della stagione. E a Tuglie, per l’occasione, il gelato prendeva, come ancora oggi accade, la forma dalla “banana”. Cioccolato e vaniglia, ricoperti di meringa e noccioline. Fantastica!

La sera tutti ad attendere che la banda di turno suonasse il Bolero di Ravel a chiusura della serata. Poi ai margini della piazza, su una panchina a mangiarci, rigorosamente con le mani, la scapece che poco prima avevamo comprato dalla solita bancarella dei gallipolini.
Altri tempi.

Il giorno dopo la festa, detto della “Annunziateddha”, era il giorno del mercato in piazza. Una distesa incredibile di piatti, pentole e scarpe sparsi ovunque. Con la banda che dalla cassarmonica faceva da colonna sonora a quell’inusuale mercato.

Con passare degli anni la festa è cambiata. Ora la solenne processione si svolge la sera della vigilia, mentre per il giorno di festa la statua della Madonna viene nuovamente portata per le strade del paese per la benedizione dei campi.

I tempi cambiano, ma la festa è sempre la Festa. Anche quest’anno, a Tuglie il 24, 25 e 26 marzo.

 

Nel video che accompagna questa breve nota potrete vedere le foto, scattate negli anni scorsi, della processione solenne che si svolge la sera della vigilia e della seconda, il giorno della festa, per la  benedizione dei campi.

http://www.youtube.com/watch?v=RJZkXPOOqCI

pubblicato su:

http://massimonegro.wordpress.com/2012/03/22/tuglie-festa-di-maria-ss-annunziata/

“Cridi de chiazza”: un quadretto di vita gallipolina degli inizi del secolo scorso dipinto da “Pipinu”

di Maria Grazia Presicce e Armando Polito

Mercato pubblico. Questa foto e quelle che seguono, di Stefanelli, sono tratte da Giuseppe Gigli, Il tallone d’Italia, II, Gallipoli, Otranto e dintorni, Istituto italiano d’arti grafiche editore, Bergamo, 1912

Il ponte a dodici arcate che unisce il borgo alla città

La parrucca: forse fummo proprio noi salentini ad introdurla nel mondo occidentale

di Armando Polito

* Perché oggi si è (ac)conciato in quel modo?

**Dice che così gli riesce più facile scrivere quel post per Spigolature salentine…

Probabilmente è la protesi più antica nella storia dell’umanità e il suo successo continua da millenni. Resti di parrucche sono stati rinvenuti in tombe egizie ed i Persiani ne facevano ampiamente uso già ai tempi di Ciro il Grande (VI secolo a. C.) secondo la testimonianza dello storico greco Senofonte (V-IV secolo a. C.): Mandane si reca dal padre portando con sé il figlio Ciro. Appena giunsero e Ciro seppe che Astiage era il padre di sua madre, subito, come fa per natura un fanciullo affezionato, lo abbracciò calorosamente come si fa con qualcuno che si conosce da lunga data e vedendolo truccato con gli occhi dipinti, col viso impiastricciato di colore e la parrucca (komais prosthètois=chiome posticce) secondo il costume dei Medi (tipicamente loro infatti sono queste abitudini, nonché la veste di porpora, la sopravveste, le collane al collo e i braccialetti ai polsi; tra i Persiani, però, quelli che stanno in casa vestono meno pomposamente e vivono più frugalmente), vedendo il trucco del nonno, guardandolo intensamente disse: -Madre, come mi sembra bello il nonno!-1.

schiave dell’antica Grecia alla fontana

Nel mondo greco la parrucca ebbe come nomi più frequenti trìchoma (da thrix=capello) oppure prokòmion (alla lettera ciuffo che sta davanti) accompagnato o no da perìtheton (posto attorno) oppure da prosthetòn (=applicato) ed altri che leggeremo nelle citazioni che seguono; nel mondo romano essa era chiamata capillamèntum (da capìllus=capello) o caliàndrum o calièndrum (dal greco kàllyntron=spazzola, a sua volta da kallýno=abbellire, che è da kalòs=bello), oppure galèrus o galèrum.

Cominciamo dai Greci con una curiosa testimonianza riguardante Mausolo, re di Caria dal 377 al 353 a. C. Diamo qualche notizia preliminare: sposò la sorella Artemisia, che portò a termine il suo monumento funebre da lui stesso iniziato (una delle sette meraviglie del mondo). Fu la sua fortuna, perché da lui ebbe origine il termine mausoleo e ciò lo rese più famoso che famigerato, quale sarebbe stato se fosse prevalso quest’altro ricordo, riguardante il suo dipendente (nuova storia, anzi vecchia…ma veramente lui non ne sapeva niente e i cittadini erano così idioti?) Condalo,  tramandatoci dallo Pseudo Aristotele (contemporaneo del vero, IV secolo a. C.) in Oikonomikà, XV: Condalo, subalterno di Mausolo…vedendo che i Lici amavano portare i capelli lunghi (trìchoma) disse che erano giunti ordini dal re di bandire i capelli a vantaggio delle parrucche (prokòmia) e che dovevano rasarsi. Aggiunse che se volevano versargli una tassa fissata avrebbe fatto mandare dalla Grecia i capelli con cui avrebbe fatto confezionare le parrucche; quelli volentieri versarono ciò che chiedeva e da tanta gente furono raccolte notevoli somme.

E, con finalità non estetiche ma di travestimento, ne Lo scudo (vv. 374-378) del commediografo Menandro (IV-III secolo a. C.):

DAVO Ora però è tempio di agire. Tu, Cherea, conosci un medico straniero, uno sveglio è un po’ sbruffone?

CHEREA Temo proprio di non conoscerlo.

DAVO Bisogna trovarlo.

CHEREA Perché? Posso trovare un mio amico, affittare una parrucca, un mantello e un bastone. Lui poi tenterà di parlare con accento straniero.

Con le stesse finalità, riferite al campo militare, la parrucca è usata da Annibale secondo la testimonianza di  Polibio (III-II secolo a. C.) nel capitolo 78 del III libro della sua opera storica: Mentre l’esercito era in attesa usò pure uno statagemma singolare, certamente cartaginese. Temendo l’incostanza dei Galli e le insidie per la propria vita, in quanto recente era la loro alleanza, fece realizzare delle parrucche (perithetàs trichas, alla lettera capelli messi attorno, posticci) adattate alle forme che si addicono alle più svariate età e le usava cambiandole continuamente, per cui risultava irriconoscibile non solo a quelli che lo vedevano per la prima volta ma anche a chi lo conosceva.

Quasi un piccolo saggio sulle acconciature in genere e sulle parrucche in particolare è quanto ci ha lasciato nell’Onomastikòn (II, 29-30) il grammatico Polluce (II secolo d. C.): Tipi di acconciatura: giardino (kepos), tonsura circolare2 (skàfìon), ciuffo (prokòtta, poco più avanti lo stesso autore ne spiegherà l’etimologia), altra tonsura circolare3 (peritrochalàte). Si parla di prokòtta quando uno ha una lunga chioma solo davanti, cioè nella parte anteriore della testa (kottìs). I Dori così chiamano la testa. Quelli poi credono che la prokòtta non sia nemmeno un’acconciatura ma gli stessi capelli che si trovano sulla fronte. Chiamavano  anche triste acconciatura (pèntimos kurà)  la caduta o la rasatura in caso di ftiriasi, come dice il comico Eubulo. Era chiamata in qualche modo acconciatura (in greco kurà) pure la chioma di Ettore. Anassilao dice: la chioma di Ettore che dura un giorno. Timeo dice che questa acconciatura deve essere più corta intorno al viso e più lunga attorno al collo. Alcuni facevano crescere la chioma lateralmente o dietro, o sul viso in onore dei fiumi o degli dei. E veniva chiamata ricciolo  (in greco plochmòs) o frangia (in greco skollys) o ciocca di capelli. Non considererei la crocchia (in greco kosýmbe). Non è infatti cosa attica la kosýmbe, ma piuttosto il kròbylos, altrimenti detto penèke (forse da pene=tessuto) e prokòmion prosthetòn, non solo per le donne ma pure per gli uomini: quando hanno pochi capelli ne fanno uso.Qualcuno chiama questa protesi pure bella capigliatura (èutrichon).  

Passiamo ora agli autori latini.

Tito Livio (I secolo a. C.-I secolo d. C.) nel capitolo I del libro XXII della sua opera storica, a proposito di Annibale: Aveva risotto al minimo i rischi cambiando ora veste ora i coprimenti del capo (tegumenta capitis). La circollocuzione sarebbe stata  troppo generica perché con sicurezza si potesse cogliere l’allusione all’uso di parrucca se essa non fosse ricalcata sulla già vista testimonianza di Polibio.

Orazio (I secolo a. C.-I secolo d. C.) nella satira 8 del I libro, ai vv. 48-49: Avresti dovuto vedere cadere i denti a Canidia e l’alta parrucca (calièndrum) a Sagana.

Svetonio (I-II secolo d. C.) nel De vita Caesarum, IV, 11, a proposito di Caligola: Neppure allora poteva tuttavia soffocare l’indole crudele e depravata sì da non partecipare con grandissimo piacere alle pene e alle esecuzioni inflitte e frequentava di notte bettole e bordelli celato da una parrucca (capillamèntum) e da una lunga veste.

Giovenale (I-II secolo d. C.) nella satira VI, vv. 115-121 così ci informa sul conto di Messalina: La moglie, non appena aveva sentito che il marito (Claudio) dormiva, osando da augusta puttana indossare una cuffia da notte e preferire una stuoia al talamo palatino, lo lasciava accompagnata da non più di un’ancella ma entrava nel caldo lupanare con una parrucca (galèrus) bionda che nascondeva la capigliatura nera…

Per onorare il titolo sono ora costretto pure io a fare il famoso passo indietro e tornare ad un autore greco che ha lasciato del nostro passato un ricordo che, se corrispondesse alla realtà, farebbe felice Bossi (ammesso che, sia pure con la collaborazione del figlio, fosse in grado di sfruttarlo…).

Ateneo di Naucrati (II-III secolo d. C.) nel libro XII de I deipnosofisti introduce una citazione roportando le parole di Clearco di Soli (IV-III secolo a. C.): E (si abbandonò alla mollezza) pure la stirpe degli Iapigi che erano originari di Creta, venuti (in Puglia) per cercare Glauco ed ivi stabilitisi. I loro discendenti, dimentichi del senso della misura che improntava la vita dei Cretesi, giunsero a tal punto prima di mollezza, poi di tracotanza che per primi truccandosi il viso e portando parrucche (prokòmia perìtheta) indossarono vestiti sgargianti e considerarono cosa vergognosa lavorare e darsi da fare.

Se dobbiamo dar credito a Clearco gli introduttori dell’uso della parrucca nel mondo occidentale saremmo stati, dunque, proprio noi salentini. E ci è poco di conforto, gli amici di Taranto non ce ne vogliano, quanto scrive Pompeo Sarnelli, che nel tomo III di Lettere ecclesiastiche, Bortoli, Venezia, 1716 dedicò al tema un intero capitolo4 dal titolo Discorso historico, e morale contra l’abuso delle perucche negli Ecclesiastici, dal quale riportiamo quanto segue: Clearco ha parlato della Japigia propriamente detta. E son di parere, che intendesse de’  Tarentini, che in quei tempi fiorivano nella Japigia, e che si abbandonarono in ogni sorte di lusso, e di morbidezza5. Nella stessa pagina per corroborare la sua tesi cita una sfilza di autori6: e se Orazio7 (I secolo a. C.) per motivi cronologici può essere preso in considerazione, per gli altri8 , compreso Giovenale?, gli amici tarantini avranno buon gioco a dire che si tratta di un vecchio luogo comune…

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1 Ciropedia, I, 3

2 Taglio che lascia i capelli solo alla sommità della testa.

3 Meno spinta della precedente.

4 Pagg. 151-163.

5 Pag. 153.

6 A dire il vero il Sarnelli ricalca tale e quale (con l’omissione di Giovenale, per cui vedi alla fine di nota 8, e di altri minori e più recenti) l’elenco presente in Girolamo Morciano (XV secolo) che dedica al lusso di Taranto il capitolo XX del suo lavoro postumo Descrizione, origini e successi della provincia d’Otranto (nell’edizione rivista da Domenico Tommaso Albanese e pubblicata a Napoli dalla Stamperia dell’Iride nel 1855 alle pagg. 260-265).

7 Sermones, II, 4, 34: Pectinibus patulis iactat molle Tarentum (La corrottaTaranto si vanta per i suoi grossi pesci pettine) ; Epistulae, I, 7, 44-45: Parvum parva decent; mihi iam non regia Roma  sed vacuum Tibur placet, aut imbelle Tarentum (A chi è modesto si adattano le cose modeste; a me non piace la Roma dei re, ma la serena Tivoli e l’imbelle Taranto).

8 Gallio Sollio Sidonio Apollinare (V secolo d. C.), Carmina, 5, 435: Ipsaque, quae petiit, trepidaverat uncta Tarentum (E per quelle stesse cose la profumata Taranto aveva trepidato); Giovanni Pontano (XV secolo) I, XVII, 19: …madens Tarentum (…la rammollita Taranto);  Macrino Salmonio (pseudonimo di Giovanni Salmon, letterato del XVIII secolo): Et Sybaris sequitur luxus, madidique Tarenti (E poi viene il lusso di Sibari e della rammollita Taranto). Ecco la testimonianza di Giovenale (I-II secolo d. C.), Satira VI, Atque coronatum et petulans madidumque Tarentum (E l’inghirlandata e la sfacciata e la rammollita Taranto).

La Festa di Primavera e la fucarazza a Carosino

di Floriano  Cartanì

Carosino torna a festeggiare nella serata del prossimo 24 marzo la Festa di Primavera, una manifestazione che vedrà riunirsi attorno all’antico rito del falò, canti, musica, danze, e l’immancabile sorso di vino simbolo di convivialità. L’iniziativa sarà curata da un apposito comitato che vede in questa antica usanza pagana, un vero e proprio rito di socialità, il quale non consiste solamente nell’accensione del falò, ma considera lo stesso come atto finale di un lungo percorso, che si fa tradizione radicata nel territorio.

La costruzione della maestosa pila per il falò, composta di legnami vari, ha  contagiato la comunità richiamando ragazzi e ragazze attorno ai riti della preparazione e della raccolta collettiva di materiali. Il progetto ha contribuito anche a recuperare il rapporto con i luoghi campestri ed i suoi tempi lenti, fatti di suoni e di racconti orali, che hanno ancora la fragranza della bellezza della semplicità. Tutto è avvenuto con massima naturalezza ed è stato possibile reperire il materiale nei diversi agri (resti di potature di viti, ulivi, ecc.) grazie alla collaborazione di alcuni contadini.

Sono state confezionate diverse fascine utili per la fucarazza e lo stesso  “saramiento” è diventato praticamente il simbolo della Festa di Primavera 2012. Il rito collettivo, cominciato mesi orsono, si concluderà appunto la sera del 24 marzo  in fondo a via De Gasperi a Carosino, dove sarà dato fuoco alla fucarazza. Nell’occasione gli appartenenti al comitato, riconoscibili dalle apposite magliette, distribuiranno ai presenti alcune t-shirt che richiamano la manifestazione, per condividere con la comunità l’evento e ricordarlo nel tempo.

Usanze e cultura dell’antica civiltà rurale, si mescolano mirabilmente ancora oggi a Carosino grazie alla Festa di Primavera. Un magico rito agreste, sospeso  tra passato e futuro, tradizione e modernità, che si consuma tra la notte e il giorno, come il fuoco in cenere. Al limitar della campagna col centro urbano.

La parrocchiale di Melissano a 110 anni dalla dedicazione

F. Campasena, 1885. Disegno della chiesa di Melissano

di Fernando Scozzi

Una chiesa, una comunità: la parrocchiale di Melissano a 110 anni dalla dedicazione

D.O.M.

Precum effusio

Datori bonorum omnium

et indefessa populi

largitio

ad exitum opus duxerunt

die 8 februarii 1902

In questa scritta, che leggiamo all’ingresso della chiesa parrocchiale di Melissano, è riassunta la storia del sacro edificio, di cui, alcuni giorni fa, abbiamo ricordato il 110° anniversario della dedicazione. La Fede, le preghiere e l’instancabile generosità dei nostri Padri edificarono questa chiesa i cui lavori iniziarono nel 1885, quando Melissano contava appena 1500 abitanti: un agglomerato di casupole affacciate sulla campagna, pochi vicoli ricalcanti gli antichi sentieri campestri e due chiese, fra le quali l’antica parrocchiale, dedicata al Protettore S. Antonio e non più adeguata al culto.

Fin dal 1877, infatti,  il parroco, don Vito Corvaglia, scriveva al Papa Pio IX facendosi ardito a presentare a Sua Beatissima la preghiera come appresso: lo stesso trovasi parroco di una meschinissima chiesa, indegna al culto di Dio e neppure idonea a contenere una popolazione crescente di giorno in giorno:

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IBAN: IT30G0760116000001003008339

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