Il poeta con la chitarra

di Paolo Vincenti

Fresco di ristampa, Il sesto ed altri racconti. Psychotropic noir,  di Stefano Delacroix, edito da Lupo (2012), con Prefazione di Michelangelo Zizzi. Il libro, già pubblicato a fine 2008, esce oggi con l’aggiunta di un racconto e viene presentato con rinnovato entusiasmo dal suo autore.

Si tratta di una serie di racconti i cui due punti focali, elementi chiave, sono l’amore ed il tempo. Fil rouge della narrazione è la suspance che l’autore con abilità sa creare e mantenere dalla prima all’ultima pagina dei suoi testi, seguendo in questo senso i dettami di ogni buon giallo che si rispetti. Ma i testi di Delacroix  appartengono più propriamente al genere noir, che è una derivazione del giallo classico ottocentesco, ma che vi differisce perché, a differenza di quello, che ha quasi sempre un finale consolatorio con la soluzione del  mistero, questo può avere dei contorni molto più labili e sfumati ed un finale che non riscatta la trama svolta ma in cui anzi, a volte, non si dà nessuna soluzione. Ed inoltre, il protagonista di un noir è spesso, non l’eroe del giallo classico, ma un antieroe, come è certamente l’io narrante del

Paesaggio dell’anima

di Wilma Vedruccio

Mi piace pensare al paesaggio come a una mappa da percorrere a passo d’uomo, in bici, con una utilitaria al massimo, certo non con un suv.

Penso al paesaggio come al luogo dell’anima di ciascuno, dove ciascuno può ritrovare i segni, i punti di riferimento significativi della sua vita.

Un bosco ombroso, uno scoglio di mare da cui pescare o su cui pensare, un sentiero fra i campi, un albero solitario fra un campo e l’altro, un rudere scordato, possono scandire i giorni di una vita d’uomo, rappresentare lo scenario della sua esistenza, essere la landeschape di una generazione intera in un territorio circoscritto. Il paesaggio è scandito dalla toponomastica locale, Google è un’altra cosa, ma anche Google sa riconoscere e indicare questi luoghi, li sa rispettare nella loro unicità.

Un segmento di orizzonte fra le terrazze dei caseggiati, con la chioma di un albero, è il paesaggio a cui può accedere dalla sua finestra, un disabile, un anziano in difficoltà. Forse il solo possibile.

La piazza del quartiere, il mercato rionale, la villetta comunale sono il paesaggio di tante vecchine, la mappa per il loro passo incerto.

Anche il luogo dei morti, il cimitero, fa parte a pieno titolo della mappa.

Ne fanno parte gli spiazzi dove tengono le loro sfide i ragazzi del paese, un ponte, una scalinata, una fontana, una cappella solitaria con la sua campanella e la sua frescura che rigenera il passante, il turista o il contadino.

No, non nell’Ottocento, oggi, nell’Italia del centenario, nella bella Italia del secondo millennio, quella che ha saputo conservare i segni della civiltà.

Per questo il paesaggio non può essere sconvolto, violentemente e impunemente modificato con gli strumenti dell’oggi: pale, trivelle, escavatori… penetrano nell’animo oltre che nella roccia, creano fratture e instabilità più che nella roccia, cancellano per sempre più che la scordanza.

Modificare il paesaggio è azione impegnativa e accorta, comporta quella che il Papa che viene da oltralpe, qualche settimana fa ha definito una ragionevole mitezza, definizione semplice ed illuminante per guidare l’opera dell’uomo moderno che vuole agire o modificare il territorio facendo scelte non aggressive. Come un restauratore. La modernità dell’oggi assume altri ritmi, altre competenze, altri strumenti, altri sguardi, altre strade, altri orizzonti… Tutto ciò per salvare il paesaggio dell’anima di una popolazione.

 

Radio Voice: una voce etica, vegan e animalista

di Pier Paolo Tarsi

Tempo fa un amico mi raccontò che in questa vita frenetica e affollata è riuscito a trovare un solo luogo in cui poter meditare in tranquillità e silenzio, la sua auto, ragion per cui  mentre si sposta per il suo lavoro non accende mai la radio. Questa scoperta di un pensatoio ambulante, da utilizzare nei tempi morti degli spostamenti che siamo costretti a fare tutti, mi convinse della sua opportunità e mi suggestionò per molto tempo. Sempre in quei giorni, un amico pianista mi fece notare peraltro che è assai superficiale il nostro rapporto quotidiano con la musica: dal suo punto di vista trattiamo la musa come un riempitivo banale del vuoto (in auto, nei supermercati, nei luoghi pubblici..), una sorta di rimedio all’horror vacui in cui l’ascolto non è mai autentico e la musica si trasforma in un semplice contorno sonoro con cui non entriamo nemmeno in relazione.

Con tali presupposti (e con tali amici!) sono rimasto pertanto a lungo lontano dall’ascolto della radio in auto, finché non mi è tornata da poco la voglia di pigiare sul tasto on a lungo inutilizzato.

In queste settimane di ritorno all’ascolto ho scoperto una novità interessante nel panorama delle frequenze radio, una voce vegan e animalista, tale Radio Voice, un’emittente locale che, tra uno spazio musicale e l’altro, dedica un

Giuseppe Candido: a Lecce i primi orologi sincroni d’Europa

di Marco Piccinni

Il 4 Luglio del 1906 si spegneva sull’isola di Ischia dopo una lunga malattia, a 68 anni, il vescovo Giuseppe Candido. “Demenza” fu la diagnosi dell’epoca.  Secondo la sua volontà le sue spoglie mortali vennero collocate nel Duomo dell’isola del golfo Napoleano, dove ancora oggi riposano. Nonostante le insistenze della sua famiglia, Don Pippi decise di non far ritorno nella città che gli ha dato i natali il 28 Ottobre del 1837, e che a lui doveva tanto: la sua Lecce.

A questo punto in molti si chiederanno: “Ma chi era quest’uomo?” Primo di sette figli, nato in via Regina Isabella, a due passi dall’immenso cantiere dei Teatini, da Ferdinando e Stella De Pascalis, Giuseppe Maria Luigi Candido divenne ben presto l’uomo che il mondo intero ci avrebbe invidiato, il cosiddetto punto all’infinito in cui due rette parallele finalmente si incontrano. I due binari della scienza e della religione che seppe tenere insieme in un connubio quasi metafisico che lo accompagnò fino alla fine dei suoi giorni.

Studiò sotto la guida dei padri gesuiti presso il collegio Argento dove accrebbe il suo interesse per la fisica e l’elettricità, quel semplice “movimento di cariche elettriche” di cui ormai non possiamo più fare a meno. I suoi studi proseguirono poi a Napoli dove si laureò in Matematica e Fisica prima e in Teologia poi.

Ritorno quindi a Lecce, in qualità di sacerdote nonché insegnante di lettere presso il Liceo-Ginnasio Palmieri e nel Seminario Diocesano, e poi ancora a Napoli dove si recava costantemente per perfezionare i suoi studi e incontrare altri scienziati. Studi intensi e ricercati che lo portarono a ricevere una “menzione onorevole” all’Esposizione Universale  di Parigi nel 1867, la prima in Italia in materia di Elettricità, per il suo brevetto della pila a diaframma regolatore che consentiva di ottenere una corrente costante per lunghi periodi con un basso costo di esercizio e grande facilità di manutenzione.

E si, perché don Giuseppe non si limitava solo a studiare, la sua spiccata intelligenza e la sua insaziabile curiosità gli consentirono di portare una vera e propria rivoluzione nel mondo scientifico ideando quello che potremmo definire come precursori dei primi campanelli elettrici, sveglie, impianti di illuminazione nonché orologi elettrici sincroni di cui Lecce può vantare il primato in Italia e annoverarsi tra i primi posti in Europa e nel mondo Intero. Tra il 1868 e il 1874 don Candido installa una rete 4 orologi: sul sedile, sul palazzo delle prefettura, sul liceo-convitto palmieri e sull’ospedale dello Spirito Santo. Tutti alimentati grazie alla sua pila, comandati in sincronia elettricamente da un orologio motore a pendolo meccanico, che azionava, sempre elettricamente, anche le quattro suonerie. Rimasero in funzione fino al primo trentennio del XX secolo.

Uno degli orologi di Candido- Ospedale dello Spirito Santo

Ideò e realizzò inoltre un pendolo elettromagnetico che batteva il

Dall’antipasto al dolce, con un solo rosato. A Zollino

Pino De Luca – Mimmo Persano

Nel tempo dei Rosati proviamo, nel tempio, a servire un pasto completo, dall’antipasto al dolce, con un solo rosato. Rosato da tutto pasto come nelle origini. Venerdi sera, 11 di maggio, nel piccolo ristorante di Fabio Fanciullo a Zollino proveremo a narrare una storia a tavola, intrecciando gusti e parole, storie antiche e interpretazioni moderne facendo partecipare come protagonista l’Aruca rosato di Santi Dimitri. Accompagnerà tutti i piatti, ovviamente in abiti diversi. Freddo con una gioia di maggio in tempura. Leggerissima frittura di cozze, gamberetti e sgusciati, foglie di salvia e petali di rose giocati nel contrasto mare/giardino e dolce/salato. A tener bordone un

La Strina, suoni e canti di Corigliano d’Otranto

a cura di Stefano Donno e Luciano Pagano

Esce per Kurumuny Edizioni “Corimondo – La Strina, suoni e canti di Corigliano d’Otranto”. Con interventi di Luigi Chiriatti, Sergio Torsello, Michele Costa e Daniele Durante.

Riallacciare e ricostruire i fili di una memoria spezzata e umiliata anche solo limitatamente ai canti, racconti, biografie: un compito arduo e difficile da portare a termine. I protagonisti e i depositari di questa memoria erano restii al ricordo.
La sola idea del ricordare modalità di vita, usi, costumi richiedeva un notevole sforzo di pazienza sia da parte loro che dei ricercatori.
Andare in giro per i paesi a “ricercare e cercare” coloro che ricordavano, i grandi ‘alberi’ di cultura e di canto, richiedeva pazienza, calma e amore profondo per la conoscenza della memoria orale e delle storie delle nostre comunità.
In questo contesto Corigliano d’Otranto non costituiva sicuramente un’eccezione.

Questo contributo, che ci riporta al periodo aureo dell’indagine sul campo e della documentazione dei repertori tradizionali, è anche un lavoro che rende omaggio alle persone vive, agli ultimi epigoni di una civiltà linguistica, ai custodi delle modalità performative, delle tecniche strumentali e vocali, della memoria sonora (e non solo) della comunità di appartenenza.
Persone che normalmente non assurgono a protagonisti della ricerca etnomusicologica, relegati spesso nel ruolo di informatori o in quello ancora più angusto di depositari delle “sacre tavole” della tradizione.
Anche da questo punto di vista Corimondo suggerisce diverse chiavi di lettura: la tradizione non è un’entità immutabile nel tempo e nello spazio e le culture tradizionali sono sottoposte agli influssi più diversi con cui devono confrontarsi in un’incessante attività di mediazione, rielaborazione, patteggiamento. Protagonisti di questo lavoro di lunga durata della memoria sono i musicisti tradizionali, in questo caso i fratelli Serra, Luigi Costa, Giovanni Avantaggiato, per citarne solo alcuni.
In tale contesto, allora, lo studioso diventa un’insostituibile figura di mediazione culturale perché – lo ribadiva qualche tempo fa Antonello Ricci – «registrare le musiche orali non è un’operazione qualunque. Realizzare dischi a partire da queste fonti sonore è una importante forma di mediazione sociale e culturale che consente di mettere le musiche e i musicisti delle comunità locali in un circuito di ampia circolazione. Consente cioè la conoscenza, la fruizione, il riuso del patrimonio etnico musicale».

Ma c’è di più: un disco di musiche tradizionali rappresenta per le comunità locali «una forma di rafforzamento identitario, di ratificazione culturale, di autorappresentazione». Chiriatti, insomma, ha il merito di aver fissato, a suo tempo, su un supporto durevole queste memorie immateriali, volatili, intangibili che ora vengono restituite alla comunità di appartenenza. Come un “mucchietto di gemme” preziose. Che condensano in pochi tratti essenziali l’identità culturale di un territorio. Un patrimonio incommensurabile, da custodire e valorizzare.

Il CD contiene un’antologia di 19 canti di cui 10 descrittivi, 4 balli, 3 canti di questua, 1 narrativo e 6 recitati raccolti in un’unica traccia.

Il Cd “Corimondo – La Strina, suoni e canti di Corigliano d’Otranto” è promosso con il sostegno di PUGLIA SOUNDS – PO FESR PUGLIA 2007/2013 ASSE IV”.

Sal(ent)ino connubio dei sensi

di Sandro Montinaro

È un dato incontestabile che col passare del tempo i luoghi cambino, e cambi inoltre la stessa percezione dei luoghi; cambiano gli uomini e i paesaggi: in una parola cambia e si modifica la geografia di un determinato territorio.

Nel caso però del Salento il paesaggio fa eccezione, al punto da conquistarsi un posto di rilievo nel cuore degli abitanti e dei forestieri.

Qui, infatti, è proprio la centralità del paesaggio il dato più interessante. Quel paesaggio, che nel passato doveva apparire meraviglioso agli occhi forse inconsapevoli dei suoi stessi abitanti, oggi potrebbe sembrare, per la lontananza nel tempo, non meno affascinante ai contemporanei. Eppure quello stesso paesaggio esiste ancora e mantiene talvolta miracolosamente intatti molti di quegli elementi e di quelle caratteristiche che lo connotavano. Ma di questa felice e fortunata contingenza chissà quanto sono consapevoli gli attuali abitanti!

Il Salento ha da sempre un fascino ambiguo e misterioso, selvatico e solitario, un salino connubio di sensi. Fortunatamente quell’impronta meravigliosa è rimasta, proprio come le forti radici degli ulivi secolari che respirano ancora nella terra la stessa linfa di un tempo a testimonianza di una continuità con il passato tutt’altro che estinto.

La cosa più bella e che rende più caro e prezioso il paesaggio salentino ai suoi abitanti e ammirato dai forestieri è che esso, faticosamente costruito e addomesticato da dure fatiche, è il risultato del lavoro: muretti a secco, furni, pajari, aire, tratturi, oliveti, mandorleti, ficheti …

È quindi un paesaggio sociale, culturale non solo, ma umano nel senso più pieno del termine.

Serrano – ulivo secolare nei pressi di Santa Marina di Stigliano

 

Un paesaggio unico e particolare nei confronti del quale gli abitanti nutrivano un forte valore di sacralità, valore ancestrale, radicato sin dal tempo in cui, tra gli antichi culti portati in Italia dai Greci attraverso i lidi meridionali, vi giunse anche quello di Demetra, dea della terra, generatrice di frutti: la Cerere dei Latini.

Dal valore della sacralità della terra a quello della bellezza di un paesaggio magnifico, ricevuto in dono dalla stessa dea e madre Terra, il passo era breve. Tuttavia, uomini e donne, vecchi e bambini che, per volere del destino, abitavano la Terra d’Otranto, godevano ben poco di questa bellezza, poiché essi erano legati a un duro e faticoso lavoro che non concedeva spazio allo svago e al godimento. Di conseguenza, più che essere inteso nel senso della bellezza da contemplare, il valore della terra era percepito come bene concreto dal quale sarebbe scaturito, a prezzo di pesanti fatiche, il sostentamento e forse anche il benessere.

Dire terra era dire lavoro e dura fatica.

Carpignano Salentino – tratto della via Traiana-Costantiniana

 

Questo valore, come d’altronde tanti altri, si è nel tempo rafforzato ed è per certi aspetti mutato – per legge naturale della vita che scorrendo cambia uomini e cose – restando tuttavia vivo più che mai.

Oggi la sua importanza, riconosciuta anche da coloro che col lavoro agricolo non hanno dimestichezza o addirittura ne sono lontanissimi, è intesa secondo un’accezione più ampia e con sfumature di significato nuove rispetto al passato.

Mai la presenza umana si è fatta sentire come nella cura gelosa che ha portato alberi così lenti e duri a crescere a diventare i nodosi e forti secolari ulivi, destinati una volta piantati a gratificare le generazioni successive. Ed è proprio in questa dedizione degli uomini alla terra, ma anche ai figli e ai nipoti non ancora nati, che prende corpo e si comprende profondamente tutto il senso pregnante dell’identità salentina.

È vero che oggi – in una situazione e in un processo che si potrebbero definire inversamente proporzionali rispetto al passato della Terra d’Otranto – molta ‘natura’ è stata fagocitata dall’insediamento abitativo. Ma è altrettanto vero che resiste tuttora un paesaggio agrario assai vitale che conserva inalterate le stesse funzionalità che aveva in passato.

Per quanto tempo ancora?

Per quanto tempo la società locale manterrà fede a un lascito che è insieme un bene economico e un patrimonio naturalistico e culturale come pochi sul territorio nazionale?

Il poeta padano e il giornale terrone

di Maria Grazia Presicce e Armando Polito

 

Il morbo infuria…

il pan ci manca…

sul ponte sventola bandiera bianca!

Chi, con più di sei decenni sulle spalle, non ha ancora nelle orecchie l’eco di questi versi? Essi, com’è noto, fanno parte della poesia A Venezia ((questo è il titolo originale mutato poi in Le ultime ore di Venezia e, infine,  Bandiera bianca) scritta il 19 agosto 1849 da Arnaldo Fusinato (Schio, 1817-Roma, 1888), un poeta risorgimentale presente, soprattutto con questo componimento, in tutti i sussidiari della nostra verde età e pure sulla copertina dei quaderni.

L’esemplare in alto, riprodotto dal sito dell’Istituto Nazionale di Documentazione per l’Innovazione e la Ricerca Educativa (http://www.indire.it), fa parte della collana editoriale Poeti italiani dell’800 edita dall’Industria Cartaria Alta Italia di Milano, con illustrazioni di Italo Giovanni Mattoni, senza dubbio più conosciuto per due altre sue realizzazioni intorno agli anni ‘50: le figurine Liebig e Lavazza. Già allora, è evidente, la cultura (per quanto, direbbe qualcuno, legata, più o meno in buona fede, ad intenti propagandistici o ad una visione tutta rose e fiori del movimento risorgimentale) doveva cedere il passo ad altre esigenze più materiali…

Sorprendente è poi nel quaderno la totale differenza somatica rispetto ad un ritratto di fine Ottocento che, si presume, doveva essere più fedele.

E oggi? In mancanza di ideali, magari mitizzati o, peggio, mistificati,  sono subentrati altri modelli e dal 2008 nel cuore delle ragazze Marcelo Tinelli ha preso il posto occupato ai nostri tempi da Arnaldo Fusinato e Daniele Manin (l’eroe celebrato in A Venezia) è subentrata Patty col suo mondo1 (in basso alcuni diari ispirati dalla serie televisiva).

Ma quanti, già prima, avranno pensato a Daniele Manin ascoltando Bandiera bianca, una delle tracce dell’album La voce del padrone inciso da Franco Battiato nel 1981 per la Emi, in cui il ritornello è costituito dall’ultimo dei tre versi citati all’inizio?2

Abbiamo divagato troppo, perciò torniamo ad Arnaldo Fusinato ed a giustificare il titolo di questo post dovuto al fatto che una sua poesia, Le due gemelle,  trovò ospitalità nel n. 22,  anno I (13 agosto 1855) del settimanale (usciva il lunedì) leccese Il filosofo Barba-bianca3.

La stessa poesia, con altre, sarà pubblicata “ufficialmente” solo nel 1868 in Poesie, v. II, Carrara, Milano. Di seguito il frontespizio e la tavola che illustra la poesia.

Le due gemelle

I

O giovinette, se nel cuor vi suona

la santa voce del fraterno amor,

fatemi intorno una gentil corona,

e il verso udite dell’umìl cantor.

Ell’è un’istoria, che bambino appresi

sovra i ginocchi di mia madre un dì,

e come dalla sua bocca l’intesi,

fanciulle, a voi la narrerò così.

V’erano, non so dove, due sorelle

insiem cresciute dalla stessa età,

e siccome nascevano gemelle,

eran pari di grazia e di beltà;

e fra di lor s’assomigliavan tanto,

che non può mente umana imaginar;

la madre istessa che l’avea d’accanto,

l’una con l’altra le solea scambiar.

Allor che usciano dalla santa messa

avvolte entrambe nel lor bianco vel

parean due foglie d’una rosa stessa,

parean due stelle dello stesso ciel.

Tutto era egual:, il bruno delle chiome,

l’arco del ciglio, il vergine pallor;

Norina e Nella si dicean per nome,

e il nome sol le distinguea fra lor.

E queste care, che all’istessa cuna4

ebber comuni il latte e l’origlier5,

s’amavan tanto che il pensier dell’una

sempre sempre dell’altra era il pensier.

Quando il sembiante sorridea di Nella,

Norina anch’essa avea il sorriso in cor,

e se questa piangea, piangea pur quella,

indivise nel gaudio e nel dolor.

 

II

 

-Vieni, o sorella, vienmi vicina,-

un giorno a Nella dicea Norina

– un gran segreto tengo sepolto

nella più ascosa parte del cor,

e – proseguiva chinando il volto

– a te, mia Nella, nol dissi ancor.

È circa un mese, dal mio balcone

scontrai lo sguardo d’un bel garzone:

ha l’occhio azzurro, la taglia snella,

un portamento da cavalier;

e la sua imagine, mia dolce Nella,

l’ho sempre fisa nel mio pensier.

Ma donde venga, ma chi egli sia

io non so dirti, sorella mia;

so ben che un giorno con mesto accento

– Oh quanto io t’amo! – gl’intesi dir;

ed io gli offersi da quel momento

tutto il profumo de’ miei sospir-.

Così Norina diceva, e intanto

sul ciglio a Nella spuntava il pianto,

quell’occhio azzurro l’aveva anch’essa

dal suo balcone scontrato un dì,

e quella dolce parola stessa

nel giovin sangue fremer sentì.

L’estranio, illuso6 dal lor sembiante,

era d’entrambe rimaso amante;

e così all’una -T’amo!- dicea;

diceva all’altra -T’amerò ognor!-.

Una soltanto d’amar credea,

e due ne amava d’un solo amor.

Povera Nella! Ben essa in core

sentiva il fremito del primo amore;

ma da quel giorno che la sorella

l’ascoso affetto le confidò,

più il desioso sguardo di Nella

nel bell’estranio non s’incontrò.

Nella sua immensa pietà fraterna

l’amor combatte che la governa:

la cara imagine fugar s’ostina,

ma quell’imagine ritorna ognor!…

Felice intanto vivea Norina

fra i casti gaudi d’un santo amor.

 

III

 

Son promessi, il gran dì s’avvicina

che due cari sì a lungo sognar:

fra tre giorni la bella Norina

salirà col suo sposo all’altar.

Già trapunta è la serica vesta

che sul fianco ondeggiar le dovrà,

già la bianca ghirlanda s’appresta

che il lucente suo crin cingerà.

Il suo cuore sospira anelante

alla festa del prossimo dì;

ma di Nella sul fosco sembiante

improvvisa una fiamma salì.

Una fiamma che i sensi le invade

coll’ambascia di un nuovo dolor,

che per l’ossa trascorre e ricade

come un masso di piombo sul cor.

Poveretta! Una lotta sostenne

che niun labro saprebbe ridir;

poveretta! in quest’ora solenne

cede al peso di tanto soffrir.

Ma il respiro le balza nel petto,

ma più spesso le palpita il cor:

già s’affrettan sul vergine letto

le tremanti sue membra a compor.

E Norina con ansia pietosa

fra le angosce d’un dubbio fatal,

come un Angiol custode si posa

della suora7 all’insonne guancial.

Ma di sogni in un vortice ardente

la ragione dell’egra8 smarrì;

nel delirio travolta è la mente

e il suo labro favella così:

-Via da me quelle splendide faci9,

via quei sogni che mi ardono il cor;

se d’amor non mi parla quell’uno,

che nessuno mi parli d’amor.

Come l’ape all’olezzo del fiore

questo core si volge a lui sol;

nel profumo lo sento dei campi,

dentro i lampi lo veggo del sol.

Col suggello d’un ferro rovente

nella mente il suo nome mi sta,

ma quel nome, che tanto invocai,

nessun mai dal mio labro l’udrà.

A te sola mia dolce sorella,

la tua Nella quel nome può dir;

vienmi appresso, sul letto t’inchina

che Norina non l’abbia ad udir.

Oh! non sappia che m’arde nel petto

quell’affetto che anch’essa provò;

sul tuo serto di sposa, o Norina,

questa spina non io gitterò.

De’ tuoi gaudi non turbi la festa

questa mesta che muore d’amor;

sol nei dì che verranno, o sorella,

la tua Nella ricorda talor!-.

 

IV

 

Così parlava e tra le sparse chiome

convulsamente la sua man spingea,

quasi a strappar quel formidato10 nome

che per l’ardente suo pensier correa;

così parlava, e la sorella intanto

muta e pensosa le sedeva accanto.

E declinando la sua fronte mesta

sull’origlier della gentil giacente,

di novissimi affetti una tempesta

ferver sentia per l’agitata mente;

poi sorse, e bella d’un divin sorriso,

a lei si strinse, e la baciò nel viso,

– No, non morrai – dicea – povera Nella,

no, non morrai di quest’amor sì grande;

a te sola, a te sola, o mia sorella,

la mia veste, il mio vel, le mie ghirlande:

il don mi festi del tuo amore, ed io

il sacrifizio ti farò del mio-.

Al noto suon di que’ soavi accenti

schiuse gli occhi la bella dolorosa,

e in lei fissando le pupille ardenti:

– Sei tu, dunque- le disse -o mia pietosa,

che dentro all’alma travagliata e sola

mi piovi il gaudio della tua parola?

Quel che or dicesti io non saprei, ma tanto

è il conforto, che il tuo labro m’addita,

che in questo cor dai patimenti affranto

ancor mi sento rifluir la vita:

stammi, sorella mia, stammi qui presso,

e parla ognor come parlavi adesso-.

Così dicendo, sul fraterno seno

la bellissima testa abbandonava,

e in un cielo d’amor lieto e sereno

la sua redenta fantasia vagava,

mentre Norina santamente mesta

le carezzava la dormente testa.

 

V

 

L’anno appresso, alla cappella

del domestico tempietto

si stringea la man di Nella

alla man del suo diletto.

Era bella e parea lieta

quando all’ara s’accostò,

ma una lagrima segreta

dentro gli occhi le tremò:

che Norina all’ora stessa

chiusa anch’essa nel suo vel,

il gran voto profferia

che l’unia per sempre al ciel!

 

           ARNALDO FUSINATI11

 

Il componimento, a chi ha avuto la pazienza di leggerlo fin qui, può sembrare melodrammaticamente melenso; esso, però, va giudicato in rapporto alla temperie culturale degli anni in cui fu scritto, con riferimento, sul piano formale, ai frequenti latinismi e su quello concreto all’esaltazione dello spirito di sacrificio, oggi latitante anche tra fratelli, che trova la sua espressione nell’unica soluzione allora, nella fattispecie, attuabile per le ragazze, oggi (questo sì fortunatamente, almeno per chi scrive) neppure presa in considerazione.

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1 Per un approccio sia pure parziale, ma simpatico, al fenomeno: http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/12/23/le-ragazze-il-manuale-di-sopravvivenza-di-lara/

2 Il primo numero del settimanale fondato dal libraio Pietro Parodi (soppresso dal regime borbonico dopo circa due anni) uscì il 19 marzo 1855 (lo abbiamo ricostruito partendo dai tredici numeri superstiti, non consecutivi, conservati nella Biblioteca provinciale Nicola Bernardini di Lecce),  non 1854 come si legge proprio in Nicola Bernardini, Guida della stampa periodica italiana, R. tipografia editrice salentina dei fratelli Spacciante, Lecce, 1890, pag. 482: Dal 1849 alla prima domenica di marzo del 1854 non si ebbero giornali in Lecce. In quel giorno appunto nacque il Filosofo Barba-Bianca; abbiamo già detto che usciva il lunedì e, oltretutto, la prima domenica di marzo 1854 corrisponde al giorno 5.

3 In tempi più recenti si può cogliere un’eco formale, non sapremmo neppure dire quanto consapevole, in Sul ponte sventola bandiera gialla, titolo di un capitolo di Capitan Fox, messaggio in bottiglia, un libro per ragazzi di Marco Innocenti e Simone Frasca, Giunti, Firenze e Milano, 2010, pagg. 100-106. Il titolo del capitolo sembra l’incrocio fra Sul ponte sventola bandiera bianca del Fusinato e Bandiera gialla, trasmissione radiofonica di successo condotta negli anni ’60 da Renzo Arbore e Gianni Boncompagni e che ispirò pure nel 1966 l’omonima canzone lanciata da Gianni Pettenati, il cui ritornello recitava così: Finché vedrai/ sventolar bandiera gialla/tu saprai che qui si balla/ed il tempo volerà…; quanta acqua è passata sotto i ponti… non solo di di Venezia!

4 Voce letteraria, dal latino cuna(m)=culla.

5 Guanciale. Origliere è voce letteraria dal francese oreiller, da oreille=orecchia.

6 Ingannato.

7 Sorella; la voce ha quasi una valenza premonitrice, anche perchè metricamente nulla avrebbe impedito di usare sorella, che, fra l’altro, compare più avanti.

8 Sofferente; la voce, letteraria, è dal latino aegra(m).

9 Fiaccole, metaforicamente intese come fuoco d’amore. Face è voce letteraria dal latino face(m).

10 Temuto. Voce letteraria dal latino formidàtu(m), participio passato di formidàre=temere.

11 Sic.

Dal canto gregoriano agli echi ancestrali degli stornelli di lavoro e d’amore della campagna salentina

Alfredo canta all’Ergife a Roma per gli emigranti italiani

ALFREDO ROMANO CANTANTE

 Voce formata allo studio severo del canto gregoriano nei cinque anni di permanenza presso il Seminario diocesano di Nardò e contemporaneamente plagiata dagli echi ancestrali degli stornelli di lavoro e d’amore della struggente campagna salentina

 

di Nino Pensabene

     A primo acchito sembra si riagganci molto alla Scuola dei Cantautori Genovesi, il modo di cantare di Alfredo Romano, anche se la particolarità del timbro vocale – tanto poderoso da espandersi in echi cavernosi e sofferto da scivolare nel nenioso – riporta più specificamente a quello di Umberto Bindi e in qualche passaggio a quello di Marino Barreto jr.

Ad un’analisi più approfondita, però, ascoltandolo, cioè, e riascoltandolo nelle interpretazioni di più vasta tematica e pluralità di registri musicali, ci si accorge che si tratta di  una voce tanto particolare da risultare difficile una collocazione ben precisa. Sicuramente c’è l’appartenenza vocazionale ad una “scuola”, quella appunto dei “Cantanti genovesi” degli anni ’60, più che altro il voler caparbiamente seguire un indirizzo che affascina e che nel tempo ha conquistato parecchi interpreti, ma secondo me nella raggiunta autonomia (avvenuta, immagino, in modo inconscio nel cantante) ci sono due elementi

Aradeo. Una minuscola, buffa guerra di santi ed idee

di Alessio Palumbo

Aradeo, festa di San Nicola

Scriveva Verga nella novella Guerra di santi:

Tutt’a un tratto, mentre San Rocco se ne andava tranquillamente per la sua strada, sotto il baldacchino, coi cani al guinzaglio, un gran numero di ceri accesi tutt’intorno, e la banda, la processione, la calca dei devoti, accadde una parapiglia, un fuggi fuggi, un casa del diavolo: preti che scappavano colle sottane per aria, trombe e clarinetti sulla faccia, donne che strillavano, il sangue a rigagnoli, e le legnate che piovevano come pere fradice fin sotto il naso di San Rocco benedetto. Accorsero il pretore, il sindaco, i carabinieri; le ossa rotte furono portate all’ospedale, i più riottosi andarono a dormire in prigione, il santo tornò in chiesa di corsa più che a passo di processione, e la festa finì come le commedie di Pulcinella.

Tutto ciò per l’invidia di quei del quartiere di San Pasquale, perché quell’anno i devoti di San Rocco avevano speso gli occhi della testa per far le cose in grande; era venuta la banda dalla città, si erano sparati più di duemila mortaretti, e c’era persino uno stendardo nuovo, tutto ricamato d’oro, che pesava più d’un quintale, dicevano, e in mezzo alla folla sembrava una «spuma d’oro» addirittura. Tutto ciò urtava maledettamente i nervi ai devoti di San Pasquale, sicché uno di loro alla fine smarrì la pazienza, e si diede a urlare, pallido dalla bile: – Viva San Pasquale! – Allora s’erano messe le legnate.

Certo andare a dire «viva San Pasquale» sul mostaccio di San Rocco in persona è una provocazione bella e buona; è come venirvi a sputare in casa, o come uno che si diverta a dar dei pizzicotti alla donna che avete sotto il braccio. In tal caso non c’è più né cristi né diavoli, e si mette sotto i piedi quel

Incontro con un Pastore

Mons. Bettazzi e Giacomo Cazzato nell’incontro a Lecce

di Rocco Boccadamo

In occasione della sua venuta a Lecce, invitato dalla locale Facoltà di Filosofia a tenere una conferenza sul tema “In che cosa crede chi non crede”, nella particolare cornice della terra di due salentini, il pensatore Giulio Cesare Vanini da Taurisano e il venerato don Tonino Bello da Alessano, mi è stato dato di incontrare e conoscere personalmente S.E. Mons. Luigi Bettazzi, già Vescovo di Ivrea e Presidente del Movimento Pax Christi.

Una figura di spicco per bagaglio culturale e di pensiero e soprattutto per radicata vocazione all’indirizzo degli altri, di solidarietà; ma anche un personaggio, per lo meno in taluni momenti ed eventi, apparso e considerato contraddittorio e scomodo, sia nel contesto della comunità civile, della politica e dei partiti, sia all’interno  dello stesso mondo cattolico e delle gerarchie ecclesiastiche.

In ogni caso, una vera e propria pietra d’angolo nel panorama del pensiero sociale formatosi, alimentato e cresciuto nel corso dell’ultimo mezzo secolo, con battiti e impulsi, giustappunto, di opzione preferenziale per i deboli, i nascosti e i reietti.

Dalla sommità del faro dei suoi quasi novant’anni, vescovo da quando ne aveva appena trentanove, una lunga serie di esperienze e contributi sia in

Sud come Europa – Parte prima

Porto Cesareo (da porto cesareo.net)

di Pino de Luca

Si può fare. È vero, le forze in campo sono dispari, l’impresa sembra impossibile più che improbabile, le fragilità sono tante e anche la paura. Ogni volta si rischia tutto, ogni colpo è totale, tolleranza all’errore nulla. E ogni volta la stessa unica potente convinzione: ma se fosse facile lo avrebbero già fatto!!!

E ci si immerge di nuovo nelle mille e una difficoltà, nelle imprese disperate dove piccoli manipoli di piccole donne e piccoli uomini provenienti da sentieri diversissimi convergono a tentare imprese che non dovrebbero avere nemmeno il coraggio di pensare.

E accade quello che la razionalità rifiuta: il tutto si conclude nel migliore dei modi.

Sud come Europa è il titolo di un libro curato da Fabio Moliterno, carteggio fra Vittorio Bodini e Leonardo Sciascia. Straordinariamente interessante ma, di certo, non è esattamente ciò che, nel tempo del litigio tra Emma e Belen per accaparrarsi “er mejo fuco dell’alveare”, appassiona le umane genti.

Ma noi no, noi ci proviamo. Porto Cesareo, Isola Lo Scoglio, 30 di aprile, lunedi.

Presentazione di un libro di lettere fini sulla storia del Sud e del Salento raccontato da due autori spesso misconosciuti e fuori dalle correnti che entrano nei salotti televisivi.

Ospiti eccezionali sono professori Universitari di gran nome per quelle poche dozzine di persone che frequentano musei e biblioteche, un consesso di simpaticissime e singolarissime persone che hanno costituito un Cenacolo dal nome roboante, campioni d’autoironia per l’ossimoro dichiarato, alcune istituzioni illuminate.

T’attendi quattro gatti spelacchiati, capelli grigi, volti severi e qualche elegante signora dall’animo gentile. E invece una sala si colma, persone d’ogni età e ceto sociale. Eleganti senza sfarzo e alcune ragazze e ragazzi dai sorrisi splendenti e dall’indiscutibile valore estetico, talvolta estatico …

Spero tanto che Carlo, altra grande scoperta, abbia usato la sua arte fotografica per catturare le espressioni di queste persone, attente e preparate che hanno seguito il convegno con acume e puntualità. Interventi brevi, precisi, puntuali, senza retorica e senza stucchevoli “slinguazzate” e un semplice mazzo di semplici e splendidi fiori a Valentina Bodini, figlia di Vittorio, che ha voluto esser presente.

E poi tutti in giardino a godere degli splendidi profumi e dello stupendo tramonto che ogni giorno regala uno straordinario spettacolo a questo angolo di paradiso.

Una pausa prima della cena che vi racconto dopo …

Il lupino in alcuni autori greci e latini

di Armando Polito

Le testimonianze greche e latine sul lupino (in dialetto locale la vera marina1, metafora presente anche, per esempio, in lu passatièmpu, nome dei semi di zucca un tempo corredo indispensabile insieme con la vera marina di ogni ingresso al cinema, con evidente disappunto degli addetti alle pulizie…) sono numerosissime, perciò mi limiterò a segnalare le più curiose ed interessanti, tutte non appartenenti, una volta tanto, all’ambito dei naturalisti (facendo, come si vedrà, una sola eccezione per Plinio), dei quali, magari, parlerò in altra occasione.

Preliminarmente, però, va detto che al latino lupìnus (di genere maschile) o lupìnum (di genere neutro) non corrisponde in greco voce foneticamente assimilabile. I Greci, infatti chiamavano la nostra leguminosa thermos. Sul piano etimologico lupìnus/lupìnum e thermos vivono una sorta di curioso (sarà solo casualità?) gemellaggio, nel senso che per la voce latina è stato ipotizzato un rapporto, che rimane indecifrato sul piano semantico, con l’aggettivo lupìnus/a/um=relativo al lupo;  la voce greca, invece, potrebbe avere un rapporto, al momento anch’esso oscuro, con l’aggettivo thermòs/è/òn=caldo.

Per il mondo greco citerò Ateneo di Naucrati, un autore vissuto probabilmente nell’ètà di Commodo (II-III secolo), autore de I deipnosofisti (I saggi a banchetto), opera preziosa perché vi sono citati molti brani di autori di cui nulla o poco ci è rimasto. L’intero capitolo 45 del II libro è dedicato ai lupini e mi è parso opportuno riportarlo integralmente.

Alessi2 : -Vada in malora chi qui ha mangiato lupini (thermoys, accusativo plurale di thermos) e ha lasciato le bucce nell’ingresso e non è rimasto soffocato nel mangiarli! So di certo una sola cosa, che non li ha mangiati Cleaineto: so che è un poeta tragico; infatti Cleaineto mai ha buttato via la buccia di qualche legume, così lui è un uomo che non crea difficoltà-.

Licofrone3 di Calcide in una rappresentazione satirica scritta per deridere il filosofo Menedemo, dal quale ebbe nome la setta degli Eretriaci, prendendo in giro i pranzi dei filosofi dice: -E plebeo saltò il lupino (thermos) abbondante e commensale dei poveri triclini-.

Difilo4: – Non c’è mestiere più pericoloso di quello del magnaccia. Girando per le vie preferirei vendere rose, ravanelli, lupini (thermokyàmous, parola composta da thermos=lupino+kýamos=fava), sansa, qualsiasi altra cosa che nutrire queste-.

– E fai attenzione- disse (Ateneo) – a thermokyàmus, poiché anche ora si usa questo nome. Polemone dice che gli Spartani chiamano i lupini (thermoys) lusilaidi (lysilàidas, accusativo plurale che suppone un nominativo singolare lysilàis). Teofrasto nell’opera Storia delle piante scrive che il lupino (thermos), la cicerchia e il cece sono i soli a non essere infestati da animali per il loro sapore aspro e amaro. Il cece, dice, diventa nero quando subisce un danno e nel quarto libro della stessa opera dice che nei ceci nascono i bruchi (kampas, accusativo plurale, di kampe, da cui il dialettale càmpia). Difilo di Sifne dice che i lupini (thermoys) sono purgativi e molto nutrienti soprattutto quelli addolciti a lungo. Per questo anche Zenone di Cizico, che era severo e molto irascibile con i suoi allievi, dopo aver sorbito a lungo il vino diventava dolce e affabile. A chi gli chiedeva il motivo di quel cambiamento rispondeva che gli capitava la stessa cosa dei lupini : infatti questi prima di essere bagnati sono amarissimi, dipo che sono stati a bagno dolci e gradevolissimi-.  

Maggiore spazio dedicherò agli autori latini. Da un passo di Plauto4 (III-II secolo a. C.) traiamo l’informazione che gli attori comici sulla scena utilizzavano come monete i lupini (forma e colore si prestavano perfettamente):

AGORASTOCLE  – Qui ha trecento nummi contati -.

TESTIMONI – Agorastocle, bisogna che noi controlliamo quest’oro per sapere cosa dire a testimonianza.

COLLIBISCO – Fate pure, controllate! -.

TESTIMONI – O spettatori, questo è veramente oro comico: con quest’oro messo a bagno in Italia s’ingrassano i buoi -.5  

 

La notizia plautina trova conferma più di un secolo dopo in Orazio6 (I secolo a. C.): L’uomo onesto e saggio si dice preparato a comportamenti dignitosi, ma non ignora quanto le monete siano lontane dai lupini.7 Sorprende che con lo stesso significato traslato nel dialetto corrente non sia usato lupini ma pisièddhi (piselli); è probabile, però, che i piselli all’inizio evocassero, più che le monete, le gemme e simili e che quindi il vocabolo abbia subito un doppio slittamento metaforico.

Un’altra testimonianza8 di Orazio fa persino tenerezza se si guarda alle spese pazze (mi limito a pensare solo a quelle che, per quanto pazze, hanno una qualche pezza giustificativa…) che oggi sostengono alcuni (?) candidati per dare l’avvio o per confermare il sogno o la ragione  di una vita: diventare consumatori abituali della droga peggiore, cioè del potere non inteso come servizio:

Inoltre, perché non vi solletichi l’ambizione, vi obbligo ambedue ad un giuramento: chi di voi due diventerà edile o pretore sia messo al bando. Tu consumaresti i tuoi beni in ceci, fave e lupini per la soddisfazione di avanzare tronfio nel circo e mostrarti impettito in un busto di bronzo, dopo esserti privato, pazzo che sei,  dei campi e del denaro di tuo padre?9

E che in passato la funzione delle attuali fiches fosse assolta proprio dai lupini lo dimostra un passo del Codex Iustinianeum10 (535 d. C.):  Se qualcuno al gioco dei dadi sia stato battuto utilizzando come denaro simbolico lupini o qualsiasi altro materiale, cesserà anche contro di lui ogni diritto di riscuotere la somma corrispondente.11

Dopo aver scomodato poeti e giuristi chiudo col naturalista Plinio (I secolo d. C.) che sul pittore Protogene ci ha lasciato, tra l’altro, quanto segue: La sua opera più famosa è il ritratto di Ialiso che si trova a Roma nel tempio della Pace. Si tramanda che mentre lo realizzava si nutrì di lupini umidi, perché nello stesso tempo soddisfacevano la fame e la sete, affinché la sensibilità non venisse offuscata troppo dalla dolcezza.12

______

1 Vedi il recente post Il lupino. La vera marinaaa…di Massimo Vaglio in questo sito-

2 Commediografo vissuto fra il IV e il III secolo a. C.

3 Poeta tragico del IV secolo a. C.

4 Poenulus, vv. 585-589.

5

AGORASTOCLES  – Hic trecentos nummos numeratos habet -.

ADVOCATI – Ergo nos inspicere oportet istuc aurum, Agarastocles -.

COLLIBISCUS – Agite, inspicite -.

ADVOCATI – Aurum est profecto hoc, spectatores, comicum: macerato hoc pingues fiunt auro in barbaria boves – .

6 Epistulae I, 7, 22-23.

7 Vir bonus et sapiens dignis ait esse paratus/nec tamen ignorat quid distent aera lupinis.

8 Satyrae, II, 3, 179-184.

9 Praeterea ne vos titillet gloria, iure/iurando obstringam ambo: uter aedilis fueritve/vestrum praetor, is intestabilis et sacer esto./In cicere atque faba bona tu perdasque lupinis,/latus ut in circo spatiere et aeneus ut stes,/nudus agris, nudus nummis, insane, paternis?.

10 III, 43.

11 Si quis sub specie alearum victus est lupinis vel alia quavis materia, cesset etiam adversus eum omnis exactio.

12 Palmam habet tabularum eius Ialysus, qui est Romae, dicatus in templo Pacis, quem quum pingeret, traditur madidis lupinis vixisse, quoniam simul famem sustinerent et sitim, ne sensus nimis dulcedine obstrueret.

Salva la terra che è tua, uomo del Sud

 

Promontorio Calino

 

 

“Salva la terra che è tua, uomo del Sud”

Quando le parole di un profeta di Dio scomunicarono in anticipo i potenti vampiri della S.S.275

 di Giacomo Cazzato

Quando al pomeriggio mi metto a guardare la costa dal cucuzzolo del Calino, lì su torre Nasparo , la più alta tra tutte quelle che guardano ad est, fino al bianco faro di Palascìa, non posso non dire che tocco quasi quasi il cielo. Credo, credo di provare le stesse sensazioni che Leopardi immortalò mirabilmente in quel “e mi sovvien l’eterno” in una delle sue più celebri espressioni d’animo. Sono spinte verticali quelle del verde chiaro delle vallonee in primavera; l’azzurro che sbrilluccica col sole sul fondo bianco e roccioso al largo di quel piccolo scalo scavato quel poco che basta per tirar su le barchette, usato da mio nonno o magari dal mio bisnonno Bartolomeo;  i grandi ulivi che come monoliti mi proteggono le spalle, lì nel fondo che pur stando appena in Tiggiano si chiama “Gallone”, nome che parla già lungamente di quelli che furono i tempi di un passato tanto, tanto lontano. 

Nel preparare alcune letture per un seminario in università mi sono imbattuto in un’ode di un uomo, un poeta di Dio, che pare proprio essere stata scritta oggi e che parla dello stesso luogo in cui ogni tanto mi perdo, anche se da diversa angolazione. Un’ode che Turoldo l’ha  indirizzata a noi, noi gente del Sud, noi del Capo di Leuca.

A coloro i quali, uomini del Sud, hanno permesso e permetteranno con

Dialoghi di primavera

di Stefano Manca

Il bel sole pugliese di oggi ha provocato la prima gitarella al mare della stagione. L’estate è iniziata ad aprile, alla faccia del calendario e delle rivoluzioni attorno al Sole. Tra i commensali di questo pranzo sulla scogliera molte facce nuove. Mentre aspettavamo che il forno svolgesse il suo dovere, cioè riscaldare lasagne, i nuovi si sono messi a parlare dell’inverno intensamente trascorso nello svolgimento di delicate attività. Infatti è partito un dettagliatissimo reportage su tutte le palestre della provincia. Tutti davano voti ai trainer, alle strutture, ai cessi, agli iscritti. Una preparazione da brivido. Io ovviamente tacevo poiché la mia palestra quotidiana è quella di rincorrere autobus. Non so se i miei addominali siano pronti per il mare ma vi assicuro che i pendolari meridionali, quanto a sport, non hanno rivali. Una delle presenti, probabilmente laureata in storia dell’aerobica, per dirla con Woody Allen, mi ha chiesto quale palestra frequentassi. Quindi, ho pensato, le ipotesi sono due. O possiedo un fisico talmente bestiale, come cantava quell’altro, che dà per scontato che io frequenti una palestra. Oppure,

Lecce, l’ultimo impagliatore di sedie

 

di Rocco Boccadamo

 

Nell’odierna mattinata, la bici di seconda mano, ma non per questo meno efficiente, dell’osservatore di strada, ha una meta precisa e immodificabile, ovvero il cuore storico maggiormente nascosto della capitale del barocco.

Né l’itinerario subisce deviazioni a seguito del fugace abbacinamento dei sensi del velocipedista per opera di un’ammiccante e inequivocabilmente indicante reclame di biancheria intima femminile “Let it flow”.

Perciò, una decina di minuti di corsa leggera e le due ruote giungono a guadagnare la destinazione.

Ad esser precisi, la lavagnetta del programma contemplava la ricerca di una figura avanti con gli anni, stanziale della zona, con cui provare a ripercorrere sequenze di fatti, vicende, sensazioni ed emozioni, dentro le mura ideali di un

Per la luna… Il connubio Pippi Cesari-Nicola Greco

di Paolo Vincenti

“Che fai tu Luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa Luna?”:  questi versi immortali di Giacomo Leopardi ci fanno entrare nella suggestione che da sempre “l’astro della sera”, la vagante Luna, suscita negli uomini al suo apparire. Dalla notte dei tempi, Selene, che nella mitologia greca era figlia di Iperione e Teia e sorella di Helios (il sole splendente) e Eos ( la delicata Aurora),  ispira i poeti e gli scrittori in un lungo canto d’amore.

Da Saffo (“Tramontata è la luna e le Pleiadi a mezzo della notte..”) a D’Annunzio (“O falce di luna calante che brilli su l’acque deserte, o falce d’argento, qual mèsse di sogni ondeggia a ‘l tuo mite chiarore qua giù!”), da Omero a Pablo Neruda (“Tra i pini scuri si srotola il vento. Brilla fosforescente la luna su acque erranti. Passano giorni uguali, inseguendosi l’un l’altro..”), da Pascoli (“Dov’era la luna? ché il cielo  notava in un’alba di perla,  ed ergersi il mandorlo e il melo  parevano a meglio vederla.”) a Tagore (“Calma, calma questo cuore agitato, tu, notte tranquilla di luna piena”), tanti hanno cantato questa divinità notturna, raffigurata nell’antica Grecia come una bella fanciulla (assimilata a volte ad Artemide o ad Ecate) dal pallido viso e dalle lunghe e morbide vesti bianche, recante sulla testa una falce di luna crescente ed in mano una torcia.

Da sempre, questa madre notturna, descritta e cantata da Esiodo e da Carducci, da Strabone e Pausania e da Nonno di Panopoli fino a Baudelaire,  è stata al centro delle nostre riflessioni ed ispirazioni, nei suoi tanti epiteti (sorella luna, vergine notturna, luce del bosco, guardiana della notte…). E la rotonda luna, la mutevole luna, è stata anche la protagonista di tanti incontri culturali a tema e performance poetiche in Italia e, per venire a noi, nel nostro Salento. Una di queste bellissime occasioni si realizzò nel marzo del 2004 a Maglie quando, presso la Libreria Einaudi diretta da Giuliana Coppola, si tenne una serata intitolata “ La luna nella poesia di Giuseppe Greco e nell’immagine pittorica di Nicola Cesari”. In quell’occasione, i versi di Pippi Greco, poeta parabitano molto conosciuto in Salento ed apprezzato, raccontavano le immagini di Nicola Cesari, pittore magliese e critico d’arte, “in un incontro di sillabe e colori”, come  recitava il comunicato stampa. E già il cartoncino di presentazione della serata era tutto un programma, e proprio in quell’occasione Giuseppe Greco inaugurò quella sua particolare forma artistica di promozione poetica che consiste nel distribuire a tutti piccoli quadretti delle sue poesie, a mo’ di santini, arricchiti dai suoi schizzi. Su quel cartoncino del lontano 2004, ormai  rarità per bibliofili, vi erano, insieme alle informazioni sulla serata, dei versi di Greco ed un dipinto di Cesari.

“L’immagine è sola” scriveva ancora Giuliana Coppola nel comunicato stampa, “la sostiene il sogno-metafora che nessuno può impedire di chiedere la luna, anche se la realtà è ben diversa”. Fu di sicuro successo quel connubio fra i versi di Greco e le immagini di Cesari, entrambi dedicati alla luna, come metafora dell’eterna ricerca, la ricerca che è  nella produzione dei due artisti salentini.  Giuseppe Greco, Pippi per gli amici, scrive da sempre poesie,  presenti su tante riviste e fogli sparsi ma è anche pittore,  ed ha pubblicato Traìni te maravije  misteri te culori te tanti jaggi  poisie, una “raccolta d’opere di segni-colori-parole, tecnica mista”, con Prefazione di Donato Valli e traduzione in lingua italiana di Giuliana Coppola (Tipolitografia Martignano, Parabita 2008).

Molti studiosi  hanno scritto di Greco, che ha partecipato a numerosissimi premi di poesia in tutta Italia, vincendone anche parecchi. Giuseppe Greco, che in un lontano passato, con gusto spagnoleggiante, come pittore si faceva chiamare Josè Amaz, ha insegnato  per 35 anni “Teoria e Applicazioni di Geometria Descrittiva e Rilievo Architettonico” presso l’Istituto Statale “Giannelli” di Parabita, quella Parabita alla devozione della cui protettrice, la Madonna della Coltura, Greco è da sempre fortemente attaccato, come confermano anche alcune sue opere pittoriche, per esempio una installazione artistica di grandissime dimensioni in cui è raffigurata la Madonna parabitana e che accompagna in maggio i festeggiamenti in onore della patrona degli agricoltori.

Nella sua poesia, a volte partendo da una “poetica degli oggetti”, di matrice quasi realistica, rafforzata anche dall’uso della “lingua de lu tata”, Greco passa ad inserire oggetti e situazioni comuni in una atmosfera rarefatta, quasi onirica, attraverso delle immagini evocative che ci fanno viaggiare, come sui suoi “carretti di meraviglie”, nel tempo e nello spazio . E  questo, conservando sempre una naturalezza del parlato e una estrema  semplicità delle situazioni descritte, che prendono a pretesto contesti antropologici minimi, e che suscitano nel lettore quasi un senso di nostalgia nei confronti di quell’ambiente umile e spartano e di quel tempo passato certamente meno avaro di valori e di solidarietà fra consimili.

Alcune sue  liriche creano una sincera commozione all’ascolto, a conferma del suo successo. Nicola Cesari, nato a Maglie nel 1940, ricordato anche sul penultimo numero di “Meridiano 18” (settembre 2011) da un bellissimo servizio a cura del figlio Massimiliano, era un pittore ma anche un critico d’arte. Diplomato all’Istituto d’Arte “G. Pellegrino” di Lecce, dal 1960 al 1998 aveva insegnato discipline artistiche e storia dell’arte negli istituti di istruzione superiore, in particolare, per oltre venticinque anni presso il Liceo Sperimentale “F. Capece” di Maglie.

Come pittore era un infaticabile sperimentatore; una ricerca continua, la sua, che non si è mai interrotta fino alla sua morte, avvenuta nel 2010. Numerosi i riconoscimenti ottenuti e le mostre realizzate in Italia e all’estero, come, ad esempio, Astratto Cosmico, Segni e Colori, il Segno dell’eros, All’amico Egon Schiele, I luoghi e la memoria, Aquilonia, Onirica, E’ una povera storia, Se riesci a volare vedrai tutto azzurro. Sue opere si trovano in numerose collezioni pubbliche e private e significative le testimonianze critiche riguardanti la sua produzione artistica.  “Informale” è la definizione più usata dalla critica specializzata per la sua pittura, che comunque coniugava perfettamente l’astrattismo con il legame forte, tenace, ancestrale, della memoria. Come non riconoscere, infatti, nei colori forti e brillanti delle sue tele, alcuni scorci dei nostri paesaggi salentini, i muri, le pietre, le case, un menhir svettante al cielo, il rosso del nostro sole, che solo un sole del sud può avere, il blu e l’azzurro del nostro cielo salentino, così fortemente nostro, così fortemente salentino. A conferma di questo attaccamento viscerale alla nostra terra, l’allestimento del Museo della Tradizioni Popolari di Giuggianello, a  sua cura, nel 2010, che è poi l’ultima sua realizzazione prima della dipartita, come ci ricorda il figlio Massimiliano, nell’articolo prima ricordato. Ha collaborato a giornali e riviste quali: Realtà Salentina, Tempo d”Oggi, Nuovo Spazio, Pensionante de’ Saraceni, Titivillus. La pittura di Nicola Cesari si sposava felicemente con la poesia di Pippi Greco.  Chi c’era quella sera a Maglie la ricorda come una bellissima serata in cui l’incontro dei colori di Cesari e dei versi di Greco creò  un’alchimia difficilmente ricreabile. Non sappiamo se la luna, a cui la serata era dedicata, sorridesse sorniona dall’alto del cielo sulla libreria Einaudi. E’ sicuro,ce lo testimoniano alcuni presenti a quella serata, che fu per la città di Maglie un piccolo evento “memorabile” che a noi, in questa occasione, è piaciuto “rimemorare”.

Coltivare lenticchia nel Salento? si può. Ecco perchè

di Antonio Bruno

Ma se io volessi coltivare la lenticchia in modo tradizionale, così come la coltivavano i miei nonni cosa dovrei fare? Me l’ha chiesto il mio amico Fernando Gabellone, altre braccia conquistate dall’agricoltura. Fernando fa tutt’altro si interessa di sicurezza, ma non sa resistere al richiamo della sua terra, del pezzetto di paesaggio rurale che ha acquistato e che cura amorevolmente ogni volta che può.

La coltivazione in Europa e in Italia

La lenticchia potrebbe essere coltivata in tutta Europa, ma siccome il reddito è più basso di altre colture e anche per la suscettività agli attacchi fungini non è molto diffusa. Ecco che allo stato attuale l’Europa importa una grande quantità di lenticchie da Canada e USA, che è di 150mila tonnellate l’anno, mentre l’Italia ne importa circa 19mila tonnellate. Per rendere conveniente la coltivazione della lenticchia in Italia sono state istituite delle Lenticchie a Denominazioni di Origine Protetta DOP per specifiche varietà caratterizzate da particolari sistemi colturali in aree geografiche definite. Tale circostanza potrebbe essere la coltivazione della DOP Lenticchia verde di Altamura nel territorio della Puglia e quindi anche nel Salento leccese.

Il ciclo di vegetazione

La prima cosa che si deve tener presente è che la lenticchia non tollera la siccità e quindi va seminata nel periodo delle piogge se si desidera che cresca rigogliosa e in tal caso il ciclo di vegetazione è di 5 – 6 mesi; se invece si semina in primavera ecco che il ciclo si accorcia a 3 -4 mesi.

Preparazione del terreno

Due arature di cui la prima possibilmente alla profondità di 25 centimetri. La concimazione si fa utilizzando il perfosfato e la letteratura scientifica nonché le riveniente dalla pratica del Salento leccese sconsiglia l’utilizzo del letame.

Il perfosfato

Il perfosfato contiene anche dello zolfo, come ad esempio il perfosfato Yara che, nonostante sia classificato come concime CE minerale semplice, contiene il 19 per cento di fosforo e ben il 29 di zolfo. Mentre quello della Panfertil contiene anche solfato di calcio. Un medio perfosfato semplice, a differenza del perfosfato triplo, che è privo di zolfo, contiene il 34 % di anidride solforica, oltre al 31 % di gesso e vari ossidi di ferro, magnesio, sodio, potassio, ecc. Lo zolfo è richiesto dalla lavorazione, perché il fosforo delle rocce fosforiche non è assimilato dalle piante se non contiene, appunto, lo zolfo.

Il perfosfato ha un effetto acidificante per via del gesso, e in terreni molto calcarei questo è un beneficio anche perché il gesso è molto usato nei terreni sodici (che hanno pH alcalino) per migliorarli e allontanare il sodio.

La semina della lenticchia

Nel Salento leccese la semina della lenticchia si fa in dicembre. Per il nostro amico Fernando che ha un piccolo appezzamento è consigliabile una semina a mano in solco mentre se tu hai da investire qualche ettaro di terreno a lenticchia è consigliabile l’utilizzo di una macchina seminatrice regolata per una semina a file distanti 35 centimetri. Occorrono 40 chili di seme per ettaro.

Sarchiatura

Successivamente è bene effettuare una sarchiatura che con zappa o mezzi meccanici rompe lo strato superficiale del terreno ed estirpa le erbe infestanti ottenendo il risultato di areare il terreno e di diminuire l’evaporazione dell’acqua ivi contenuta, oltre a facilitare la penetrazione nello stesso dell’acqua piovana. Nel Salento leccese la sarchiatura è utilissima poiché, come tutti sappiamo, c’è la probabilità di una siccità in periodo primaverile estivo. Il nostro amico Fernando potrà senz’altro procedere alla sarchiatura sia utilizzando la zappa oppure le sarchiatrici meccaniche. Queste ultime effettuano la sarchiatura in modo molto più veloce ma in maniera meno precisa rispetto alla zappa. In genere la prima sarchiatura viene praticata un mese dopo la semina quando le piantine hanno già 3 o 4 foglie.

La raccolta della lenticchia

Si effettua a maggio quando la pianta in parte è ancora verde. Infatti la maturazione della lenticchia è graduale, dai baccelli più bassi a quelli più alti, mentre il baccello appena maturo deisce e quindi rilascia il seme che se non fosse in un ambiente protetto andrebbe disperso nell’ambiente. Il termine deiscenza indica, in ambito botanico, il fenomeno che riguarda quegli organi (come frutti o antere) che una volta giunti a maturità si aprono spontaneamente per lasciare uscire il proprio contenuto.

Inoltre tale raccolta anticipata della lenticchia previene anche l’infezione del Tonchio.

Produzione

La produzione oscilla fra i 6 e i 12 quintali di seme per ettaro e di 5 – 8 quintali di paglia. Tenendo conto che una confezione di 500 grammi di lenticchia si vende on line a circa 6 euro si avrebbe una produzione lorda vendibile di circa 14mila euro per ettaro.

Noncapiscol’artecontemporanea

umberto Boccioni, Dinamismo di un corpo umano (1913)

 

di Pier Paolo Tarsi

Il titolo dell’iniziativa prende spunto dalla dichiarazione del 2008 dell’ex Ministro della Cultura Sandro Bondi sull’arte contemporanea: “se visito una mostra faccio come molti, cioè fingo di capire. Ma sinceramente non capisco”.
Tale dichiarazione rivela quanto, soprattutto in Italia – paese dell’arte per eccellenza-, sia urgente una cultura dell’arte contemporanea.
“noncapiscol’artecontemporanea” si propone di avvicinare gli studenti liceali, e tutte le persone interessate, a questa specifica dimensione dell’arte.
Per avvicinarli in modo efficace, il progetto si propone di toccare temi sensibili e noti ai ragazzi: il social network Facebook, il design degli oggetti di consumo, le nuove tecnologie, la storia dell’arte.
L’arte contemporanea verrà presentata, pertanto, mettendola in relazione con questi temi, evitando così di trattarla come un’entità autoreferenziale (è così, del resto, interpretata dai suoi detrattori), per ottenere un risultato ancora più importante. Mettendo in relazione Facebook con l’arte contemporanea, ad esempio, gli studenti prenderanno maggiore consapevolezza non solo del’arte più recente, ma del social network che sta trasformando le loro vite.

Gli incontri:

– 3 maggio (14,30 — 17,30) sala conferenze ex Convitto Palmieri: MARCO PETRONI, teorico e critico del design. Direttore culturale Fondazione Plart, Napoli: “Design, merci o opere d’arte?”

– 9 maggio (14,30 — 17,30) sala conferenze ex Convitto Palmieri: TOMMASO ARIEMMA, docente di Estetica presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce; “Il mondo dopo la fine del mondo. Facebook e l’arte contemporanea”.

– 18 maggio (14,30 — 17,30) sala conferenze ex Convitto Palmieri: LUIGI RATCLIF segretario Associazione per il Circuito dei Giovani Artisti Italiani, Torino “L’Italia delle città creative: investire sull’innovazione artistica, investire sui giovani”.

– 24 maggio (14,30 — 17,30) sala conferenze ex Convitto Palmieri: ANNA PIRONTI, responsabile Dipartimento Educazione Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli; “Arte come esperienza”.

– 30 maggio (14,30 — 17,30) Liceo Scientifico “Banzi Bazoli”: ANNA MARIA LIFONSO, docente di Pedagogia e didattica dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce.: “Potevo farlo anch’io? Incontro-workshop sull’arte contemporanea”.

– 18 — 31 maggio: A.R.T.E. Critica della ragione artistica – Mostra di artisti emergenti in dialogo con l’arte contemporanea. Galleria Ex Convitto Palmieri.

L’ùngulu, ovvero il baccello della fava verde

di Armando Polito

Già altre volte ho avuto occasione di sottolineare che il dialetto non ha nulla da invidiare alla lingua comune nemmeno in termini di economicità e il titolo di questo post ne è un’ulteriore prova tant’è che per tradurlo in italiano sono stato costretto a ricorrere ad una circollocuzione.

L’ungulu è sinonimo di primavera avanzata e ai miei tempi le scampagnate tipiche di quel periodo trovavano la loro tappa obbligata nella sosta in qualche campo (generalmente altrui…, lo ammetto) coltivato a fave. Lì si compiva una sorta di rito magico in cui trovava soddisfazione l’antichissimo difetto della trasgressione (vuoi mettere il piacere del rischio dell’arrivo improvviso del proprietario e quello della successiva precipitosa fuga? Altro che il turismo di oggi che ha come meta una zona teoricamente pericolosa e che prevede il programmato ed incruento assalto dei predoni, per giunta a pagamento!) e la soddisfazione della fame che allora di per sé non mancava… Se poi si aveva la lungimiranza (in quel caso l’obiettivo era già stato da tempo individuato e l’invasione programmata) di portarsi appresso nna pezza ti casu, nnu piezzu ti pane e nnu fiascu ti mieru (una forma di formaggio, meglio se piccante, ma il massimo era e rimane la marsòtica, un pezzo di pane, quello fatto in casa e un fiasco di vino, quello fatto di uva…) la goduria era assicurata.

In quei momenti sarebbe stato assurdo pretendere che qualcuno di noi si chiedesse o chiedesse perché ciò che stava gustando avesse  quel nome, anche perché nessuno a quell’età, tanto meno oggi, si pone in situazioni del genere domande di quel tipo.

Sono passati tanti anni ma, se è cambiato tanto nella vita mia e dei miei coetanei, è cambiato poco, in concreto, nella soddisfazione, che allora nemmeno si immaginava, di certe curiosità etimologiche; nel senso che l’origine di ùngulu ancora oggi rimane incerta.

Il Rohlfs1 in forma dubitativa (sarà per via dell’accento?) propone il greco goggýlos=rotondo, riprendendo una precedente ipotesi del Ribezzo2. Irene Maria Malecore3 propone, sempre in forma dubitativa, il latino novùnculus=novellino.

Se sul piano fonetico le tre ipotesi mi appaiono plausibili,  è su quello semantico che manifestano qualche debolezza perché l’idea della rotondità è ben più spinta in altri frutti e ho altrettanta difficoltà a capire come mai proprio il nostro baccello sia diventato il simbolo del prodotto novello, anche se la specificazione nell’espressione fae ti ùnguli potrebbe far pensare proprio alla contrapposizione alle fave secche.

Comunque, siccome i miei illustri predecessori non sono giunti a conclusioni certe, anche un fesso come me si sente autorizzato a dire, sempre dubitativamente (per cui ci sarà tra poco il festival del condizionale…), la sua.

Parto dalla banale osservazione che il baccello della fava ricorda un artiglio o, pensando ad alcune eccentricità del nostro tempo, l’unghia esibita da alcune donne che evidentemente si sarebbero sentite naturalmente realizzate se fossero nate tigri. Unghia in latino è ùngula, di genere femminile, ma in Plauto (III-II secolo a. C.) è attestato anche un maschile ùngulus (in altri codici unguìculus) col significato di unghia del piede.4 Pure in Plinio (i secolo d. C.) compare un ùngulus col significato di anello ma con agganci etimologici, anche se piuttosto confusi,  al dito: “…risulta che primo fra tutti Tarquinio Prisco donò al figlio, che quand’era ancora fanciullo aveva ucciso il nemico, un globetto di oro; da qui continuò l’usanza che i figli di coloro che avevano prestato servizio militare a cavallo avessero questo riconoscimento, gli altri una collana di cuoio. E perciò mi meraviglio che che la statua di quel Tarquinio sia senza anello, sebbene vedo che ci sono dubbi sul nome: i Greci lo chiamarono dalle dita5, presso di noi gli antichi lo chiamarono ùngulo; poi e i Greci e i nostri lo chiamarono simbolo67. In Isidoro di Siviglia si legge: “Tra i tipi di anello ci sono l’ungulo, il samotracio , il Tinio. L’ungulo è fornito di gemma ed è chiamato con questo nome perché, come l’unghia aderisce alla carne così la gemma dell’anello all’oro”8.

Quest’ultimo autore, dunque, rappresenta col suo anello l’anello di congiunzione (potevo rinunciare a questo gioco di parole?…)   tra ùngula e ùngulum; ma basta questo per convalidare la mia ipotesi nata dalla semplice osservazione?

Non credo, anche perché, sempre riferendomi all’aspetto e restando, grosso modo, nell’ambito della stessa immagine, mi viene in mente che ùngulu potrebbe essere da un latino *ùnculus, diminutivo del classico uncus=uncino (ritorna puntuale, come si vede, l’immagine dell’unghia, dell’artiglio). Questa proposta bypasserebbe le imprecisioni del Ribezzo, il dubbio del Rohlfs e le perplessità nascenti dall’ipotesi della Malecore.

Conclusa, comunque, ingloriosamente la disamina etimologica, dopo aver ricordato il verbo derivato scungulàre=sbucciare i legumi (usato anche in senso metaforico per il cibo stracotto e per l’effetto di una prolungata esposizione al sole), passerò in rassegna ora alcuni elementi della cultura popolare in cui il nostro ùngulu da solo o insieme con la fava secca) è protagonista.

Siccome sono stanco (figurati!) lascerò parlare il gallipolino Emanuele Barba 9:

Lu tiempu passa e la fava se coce.

(toscano) Il tempo passa e porta via ogni cosa.

(latino) Fugit irreparabile tempus. (Virgilio)

 Fugit retro juventus et decor. (Orazio)

 

Fava, favazza te binchia e te sazzia.

 (trad.) La fava ti sazia e ti nutrisce.

(toscano) Viver parca,emte arricchisce la gente.

Son meglio le fave che durano, che i capponi che vengon meno.

È meglio il pan nero che dura, che il bianco che si finisce.

(latino) Potus cibique parcitas.

Bonae valetudinis quasi quaedam mater est frugalitas.                                                

 

Do’ facetole a nna botta (ovvero)

Do’ picciuni a nna fava.

 

O palora o scorza d’ungulu.

Dicesi per dinotare che una cosa promessa o parola data dev’essere ferma. Ed usasi per richiamare allo impegno preso chi minaccia di venir meno.

(latino) Promissio boni viri est observatio.

 

Vidire l’unguli fare fave.

Vedere i baccelli divenir fave.

Avere agio di vederne delle belle; ed anche può significare avere la opportunità di vedere il principio, lo sviluppo e la fine di una cosa o fatto.

 

Avendo ripreso fiato mi permetto di integrare con:

Ci chianta fae mangia unguli

Chi pianta fave mangia fave verdi. È l’integrazione del precedente; entrambi costituiscono quasi un inno alla moderazione e alla lungimiranza: bisognerà pur lasciare qualche baccello a seccare in modo da avere l’anno successivo fave da seminare, dalle quali avere, in una sorta di metafora della vita, unguli ma anche altre fave da seminare.

No vvae mai alla spizzaria ci mangia fae ti sera e dia.

Non va mai in spezieria (farmacia) chi mangia fame di sera e di giorno.

Ti santu Lionardu chianta la faa ca è ttardu.

Di san Leonardo (6 novembre) pianta la fava perché è tardi.

Mangia fae ca ti ntòstanu l’osse.

Mangia fave perché ti si rinforzano le ossa.

e di chiudere con un guizzo finale:

Puttana pi nna faa, puttana pi nn’ùngulu.

Il significato metaforico è chiaro: quando la situazione è compromessa, inutile fare sottili distinzioni. Il detto si adatta perfettamente alla morale attualmente dominante in politica: una volta che ci si è ritrovato a propria insaputa intestato un appartamento, perché non accettare il dono disinteressato di una crociera, di un viaggio in aereo, di un piatto di cozze…? Per farla completa: nel detto popolare non mi sentirei di escludere un doppio senso per fava (già ampiamente collaudato nella lingua nazionale) e per ùngulu che a buon diritto può essere considerato un simbolo fallico. Lo stesso si può fare, credo, per il primo proverbio citato dal Barba.

A conforto dell’incertezza etimologica che ancora mi brucia rimane il fatto che l’ùngulu è una gioia per le papillle gustative dei più, soprattutto se consumato, è sempre così, in allegra compagnia, accompagnato, per tornare da dove ero partito, dagli altri gioielli della dieta mediterranea: pane casereccio e vino. Buon appetito!

_____

1 Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo editore, Galatina, 1976, v. II, pag. 787.

2 Rivista indo-greco-italica di filologia, lingua, antichità, Napoli, v. 14, 1930, pag. 108: il salentino ùngulu=baccello di fava accenna per lo meno a un in conchula…si tratterà dunque, tutt’al più, di greco kogchyle, influenzato per il k in g velare dopo n da greco gòggylos. 

Non c’era bisogno di mettere in campo un in conchula=nella conchiglia; sarebbe bastato il solo conchula tenendo presente che vongola è dal latino cònchula e che, quindi, il passaggio c->v– non è un’anomalia inspiegabile e che a conchula si sarebbero potuto collegare direttamente le varianti vùngulu e vùgnulu di ùngulu. Infine, per la precisione, in greco non è gòggylos ma goggýlos.

3  Proverbi francavillesi, Olschki, 1974, pag. 87. Novùnculus in latino non è attestato, per cui sarebbe stato opportuno far precedere tale voce ricostruita da un asterisco. Oltretutto il passaggio ad ùngulu avrebbe comportato una prima aferesi (vùnculu) e poi la lenizione di v- (che, tuttavia, rimane in alcune varianti: vùngulu, vùgnulu).

4 Epidichus, 623: usque ab ungulo ad capillum (dall’unghia del piede fino ai capelli).

5 Daktýlios o daktýliov, diminutivo di dàktylos=dito. Dattilo è il nome di un piede della metrica classica, formato da una sillaba lunga e da due brevi, proprio come, nel dito,  la sequenza di falange, falangina e falangetta.

6 Sýmbolon, da sumbàllo=mettere insieme.

7 Naturalis historia, XXXIII, 4: …a Prisco Tarquinio omnium primo filium, quum in praetextae annis occidisset hostem, bulla aurea donatum constat: unde mos bullae duravit ut eorum qui equo meruissent filii, insigne id haberent, ceteri lorum. Et ideo miror Tarquinii eius statuam sine anulo esse. Quamquam et de nomine ipso ambigi video: Graeci a digitis appellavere, apud nos prisci ungulum vocabant; postea et Graeci et nostri symbolum.

8 Etymologiae, XIX, 32, 5: Inter genera anulorum sunt ungulus, Samothracius, Thynius. Ungulus est gemmatus, vocatusque hoc nomine quia, sicut ungula carni, ita gemma anuli auro adcingitur.

9 Proverbi e motti del dialetto gallipolino raccolti ed illustrati, G. Stefanelli, Gallipoli, 1902, passim.

Retrospettiva di Enzo Sozzo (L’amore per la mia terra)

di Paolo Vincenti

Molti leccesi posseggono, nella propria casa, un quadro di  Enzo Sozzo, il formidabile “pittore delle carrozzelle” come era generalmente conosciuto, il quale ha saputo dare alla Lecce di un tempo che fu un eterno vivere,  grazie ai variegati colori trasfusi sulle sue tele, che ci rendono, con tocco di lieve poesia, tutta intera, la pervasa malinconia che doveva stendersi sui balconi e sui palazzi, sulle vie e viuzze del centro storico, sulle facciate delle chiese e sui giardini, sulle volute barocche, su grondaie, cornicioni, fregi e merletti della Lecce perduta.

Si è aperta da qualche giorno, presso la Galleria“Eugenio Maccagnani”  di Lecce, la Retrospettiva di Enzo Sozzo (L’amore per la mia terra), voluta e curata dal figlio Carlo Sozzo, pittore anch’egli e principale collaboratore del padre fino all’ultimo.

Con i suoi scintillii di luce, la mano ferma e le vibrazioni dei suoi colori, Sozzo rappresenta, nelle sue tele, la propria visione elegiaca di una Lecce, metafora del Sud, con l’immobilità dei suoi palazzi e delle sue piazze, nel  tramonto infuocato dell’estate come nei freddi meriggi invernali, e ancora ci presenta, nella policromia delle sue creazioni, gli ulivi e le casette della campagna salentina, la terra rossa battuta dai contadini, e l’azzurro e il blu delle nostre marine, con il loro sale e il loro sole.

E ancora, le rocce aspre e dure della costa salentina, accanto ai muretti e alle lamie di un  paesaggio ancora incontaminato, pressoché  incorrotto,  quasi

Note sulla chiesa e sul tesoro di S. Caterina d’Alessandria in Galatina

di Domenica Specchia

Galatina custodisce uno degli edifici storico – monumentali più importanti di Puglia: la Pontificia Basilica Minore di S. Caterina d’Alessandria.

La storia di questa chiesa è legata alla famiglia dei del Balzo Orsini e, precisamente, ad Ugo del Balzo d’Orange che, arrivato nel Salento, al seguito del re Carlo I d’Angiò, per i servigi resi alla corona angioina, ricevette da questi, in dono, la contea di Soleto con l’annesso casalis Sancti Petri in Galatina. Alla sua morte tale contea, con il feudo galatinese, fu ereditata dal figlio Raimondo del Balzo che si prodigò di cingere delle prime mura (1350 ca) il territorio galatinese. Nel 1375, alla morte di Raimondo, la contea di Soleto ed il casalis Sancti Petri in Galatina, furono ereditati per volontà testamentaria, dal nipote Raimondello, si presume secondogenito della sorella, moglie di Nicolò Orsini, conte di Nola. Ma, questi non rispettando le ultime disposizioni del de cuis assegnò l’amministrazione del territorio al primogenito Roberto. Raimondello, non condividendo la decisione paterna, decise di allontanarsi dalla sua terra per andare in Oriente a combattere in difesa del Santo Sepolcro. Durante il periodo di permanenza nella Terra Santa, tra l’altro, Raimondello visitò il monastero del monte Sinai che custodiva il corpo di S. Caterina d’Alessandria.

A tal proposito la leggenda narra che Raimondello, prima di tornare nella sua terra, rimase per tre giorni e per tre notti – in veste di penitente – dinanzi al corpo della Santa e, poi, l’ultimo giorno, prima di ripartire, le strappò con i denti il dito con l’anello – simbolo dello sposalizio di S.Caterina con Gesù Cristo – lo nascose sull’orecchio, tra i capelli, e lo portò con sé, facendolo, in seguito, custodire in prezioso reliquiario d’argento. Tornato nel Salento  ed in possesso delle proprie terre, Raimondello, ormai conte di Soleto e signore di Galatina, decise di costruire in terra galatinese questa chiesa, con l’annesso convento.

I lavori iniziati tra il 1383 ed il 1385 furono ultimati nel 1391, periodo durante il quale, peraltro, Raimondello convolando a nozze, nel 1385, con Maria d’Enghien, divenne anche conte di Lecce.

Ben poco sappiamo dell’originario impianto della struttura religiosa; infatti, l’iscrizione greca sull’architrave del portale minore destro e la presenza dell’abside semicircolare nella navatella destra hanno suscitato non poche perplessità in alcuni studiosi che hanno ipotizzato, più che la costruzione ab imis ed ex novo del tempio, la riorganizzazione di uno spazio preesistente condizionante l’asimmetria della pianta e l’icnografia dei due ambulacri.

Non confutando alcuna tesi ma, mutuando  le opinioni espresse da non pochi studiosi riteniamo che, fin dalla prima redazione, l’edificio doveva avere una pianta a sistema centrale (croce greca) che, nel tempo, fu trasformata in sistema longitudinale (croce latina commissa) . In seguito, l’ampliamento della struttura sacra fu caratterizzato dalle tre navate e dai due ambulacri e, in epoca rinascimentale, dalla costruzione del coro ottagonale, poiché Giovanni Antonio, figlio di Raimondello e Maria d’Enghien,

la navata maggiore di S. Cataerina in Galatina, disegno colorato di Cavoti

 

Questo tempio, in stile romanico – gotico, è uno degli edifici che esprime la versatilità con cui l’arte è riuscita a conciliare esperienze artistiche diverse. Il carattere composito dell’architettura in cui si associano, con felice ibridismo, motivi orientali ed occidentali, si sintetizza sulle pagine murarie esterne ed interne, sui nodi strutturali, sulle pareti che, come schermi, rendono immagini coinvolgenti il fruitore nella dimensione spazio – temporale della visione storico – biblico – teologica rappresentata. Per la religiosità dell’impianto, movente principale del ritmo delle membrature architettoniche, dei significativi complementi plastico – figurativi e della palpitante decorazione interna, la sacra costruzione è una forma di verità che arricchisce lo spirito della collettività galatinese identificantesi in essa.

Il conte Raimondello non si contentò di costruire la chiesa dedicandola alla Vergine sinaitica perché “all’incontro vi erano non pochi altri latini, che la greca lingua ignoravano” ma, la dotò, si presume, anche di parte dell’odierno arredo sacro e di reliquie di martiri e santi.  Dei sacri resti che Raimondello portò dall’Oriente parlano ripetutamente i documenti e la letteratura locale ma, è indiscutibile, che le testimonianze soccorrono relativamente in tal senso mentre, gli scritti degli studiosi risultano più incentrati sulla descrizione delle vicende storiche, politiche, sociali ed estetiche della basilica cateriniana che sulla valenza storico – religiosa ed artistica del suo tesoro.

Da quanto è dato intendere la testimonianza più completa rimane la  Nota delle Reliquie che, nel 1536, p. Pasquale da Presicce compilò; inventario che, dopo il 1597, fu ricopiato ed aggiornato dai Padri Riformati. La testimonianza di p. Pasquale da Presicce è fondamentale per comprendere che il tesoro della chiesa di S. Caterina era cospicuo; oggi, invece, è il ricordo del tesoro, più che il tesoro stesso, a sopravvivere. Infatti, perdite, ruberie, trafugamenti, manomissioni sembrano aver ridotto il tesoro basilicale ad un numero esiguo di manufatti. Il Superiore parroco p. Berardo Antico, dell’Ordine dei Frati Minori Francescani, compilò, nel 1982, l’inventario del tesoro cateriniano, descrivendo la consistenza anche relativamente ai sacri resti dei quali, a tutt’oggi, ventidue presentano il sigillo in ceralacca e sono corredati da lettera di autentica degli Arcivescovi di Otranto, Mons. Carmelo Patanè e Mons. Cornelio Sebastiano Cuccarollo, attestanti il tipo di reliquia e il materiale della teca che li custodisce; mentre, gli altri sono conservati in semplici teche, in due reliquiari d’argento ed in una croce reliquiario.

Nonostante la frammentarietà delle notizie e l’obiettiva difficoltà di cogliere un continum tra memorie passate ed annotazioni recenti, si vuole ribadire che, tutti i fatti occorsi nel Casalis sancti Petri in Galatina, tra Medioevo e Rinascimento, risalgono all’iniziativa della famiglia dei del Balzo Orsini, il cui programma foriero di interessi ed emulato dai successori, si completò anche con la donazione di argenti preziosi, di tavole finemente mosaicate e dipinte, di opere pregevoli[1].

Numerose reliquie, alcune icone e diversi oggetti d’arte, custoditi ancora oggi nel museo della basilica cateriniana costituiscono sicuramente “il nucleo, forse più antico” del tesoro della chiesa galatinese.

Prima di Raimondello del Balzo Orsini, non si hanno notizie del tesoro cateriniano; presumibilmente, quindi, chi provvide a dotare la chiesa di manufatti con i quali si magnificava il culto eucaristico rispecchiando lo sfarzo della corte regnante, fu l’Orsini, uomo di grande valore e mecenate di singolare intuito. Ai suoi talenti giovarono i legami con i papi Urbano VI Prignano e Bonifacio IX Tomacelli; con i re Luigi I e Luigi II d’Angiò e Ladislao di Durazzo, con il despota di Morea e con l’imperatore Paleologo. Da questi ultimi, Raimondello ricevette in dono numerose reliquie che si preoccupò di custodire  in preziosi reliquiari per donarli, come donò, al votivo monumento da lui edificato.

tesoro della chiesa di S. Caterina in Galatina (ph O. Ferriero)

 

La relatio tra donazione delle  reliquie e committenza dei reliquiari induce ad ulteriori precisazioni: diversi reliquiari furono portati direttamente dall’Oriente, poichè l’asporto di reliquie dai Luoghi Santi, complete di custodie, fu carattere distintivo del Medioevo. Si annoverano tra queste ultime la Croce reliquiario, non tanto per la valenza artistica, quanto per quella religiosa e sociale perché, come riportato dal compilatore della Nota delle Reliquie essa era “piena di reliquie di tutti i luoghi di Gerusalemme” ed il Cofanetto, che custodiva, in origine, diversi sacri resti di martiri e santi, simile per sagoma a quello, in avorio e bronzo, del tesoro della cattedrale di Troia ed a quello della chiesa conventuale di S. Maria di Zara, in Dalmazia.

E’ da aggiungere che risulta estremamente difficile, se non impossibile, per mancanza di documentazione storica probante, individuare, in maniera semiologica, tutte le peculiarità del tesoro cateriniano; tuttavia, connotazioni specifiche presenti su alcuni manufatti inducono ad ipotizzare che i magistri operarono in stretto rapporto con i committenti anche perché l’attività orafa della cerchia del principe, in genere, è da inquadrarsi nel vasto repertorio della committenza cortese.

Il tesoro, un tempo custodito nella lipsanoteca della basilica, allogata in sagrestia, dal 22 dicembre 2003,  è stato esposto nell’ex – refettorio del convento trecentesco, l’unico ambiente preservato dalla distruzione dai frati Riformati (1597) quando, nel 1657, questi decisero di abbattere la deteriorata casa religiosa propter sui vetustatem, proximamque ruinam minantem, per costruire una dimora più grande.

In questa grande aula rettangolare, caratterizzata dall’affresco dell’Ultima Cena, dipinto sulla porta d’ingresso al salone e da quello delle Nozze di Cana che lo fronteggia, dalla volta decorata con motivi geometrici, in nero su bianco, e dal fregio pittorico con motivi antropomorfi, zoomorfi e fitomorfi, sono stati esposti i numerosi manufatti, in appositi contenitori.

Realizzati in materiali preziosi oro, argento, argento dorato, pietre preziose, oppure semplicemente ricavati da materiali poveri come il legno, questi prodotti sapientemente sbalzati, cesellati, incisi, rappresentano la fede di coloro che, operando in tal senso, contribuirono alla formazione delle coscienze religiose.

pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°3.

[13] Nel tesoro di S. Caterina in Galatina si annoverano i seguenti reliquiari: del dito di S. Caterina, della mammella di S. Agata, del braccio di S. Petronilla, della costola di S. Biagio, delle dita di San Giovanni Crisostomo, del dito di San Pantaleone, della pelle di San Bartolomeo, di un osso di San Bonaventura, di un osso di San Cristoforo, del dente di Sant’Apollonia, dei denti di San Donato e S. Lucia e dei resti di San Lorenzo, S. Stefano, San Lino, S. Onorato, S. Cecilia, S. Onorato, di S. Anfrea e  di un frammento della colonna della flagellazione di Gesù Cristo, di una spina della corona di Gesù Cristo e di altri martiri. Inoltre sono custoditi: il micromosaico del Cristo Pantocratore, il rilievo della Vergine col Bambino, l’icona della Vergine Gljkophilousa, il calice e la pace donati anche da Raimondello e l’ostensorio del XV secolo donato da Giovanni Antonio del Balzo Orsini, la croce reliquiario ed il cofanetto. Per una descrizione dei reliquiari e delle opere si veda: D. Specchia, Il tesoro. Problematiche storiche religiose artistiche, Galatina 2001.

Pezza Petrosa e il fascino di una vexata quaestio: “Della patria di Quinto Ennio"

Quinto Ennio

 Si è tenuta il 20 aprile scorso a Villa Castelli, in una sala consiliare affollata e particolarmente interessata, la presentazione del volume di Pietro Scialpi: “Il Parco Archeologico di Pezza Petrosa a Villa Castelli” (Edizioni Pugliesi, Martina Franca 2011).

La manifestazione, organizzata dall’Assessorato  alle Politiche Culturali – Ufficio Cultura e Turismo, in collaborazione con la Pro Loco di Villa Castelli, con l’Archeoclub di Bari e il Touring Club Italiano – Corpo Consolare della Puglia,  è stata preceduta  da una visita guidata a Visita al Parco Archeologico di Pezza Petrosa e al locale Museo Civico che accoglie numerosissimi reperti del sito archeologico.

Dopo i saluti del sindaco Francesco Nigro e dell’assessore Rocco Alò e alla presenza dell’Autore, il prof.  Rosario Quaranta, della Sezione tarantina  della Società di Storia Patria, ha tenuto una relazione che qui, in parte, si riporta.

  

“PEZZA PETROSA”: L’ANTICA CITTÀ SENZA NOME TRA GROTTAGLIE E VILLA CASTELLI

 

di Rosario Quaranta

 

La Rudia Tarentina, segnata nei pressi di Grottaglie, in una carta dell’Ortelio del 1601

“Lungo la strada che da Villa Castelli porta a Grottaglie in contrada “Pezza Petrosa” riposa, ancora chiusa nel mistero archeologico, una vasta e ricca zona di ruderi che, per alcuni studiosi sarebbero i resti di RUDIA TARANTINA, patria del poeta latino Quinto Ennio. La zona, disseminata di ruderi, tombe e di frammenti ceramici, con resti di mura ciclopiche e di una

25 Aprile. Il contributo dei Salentini alla liberazione dell’Italia dal Nazifascismo

 

di Maurizio Nocera*

Ricorre quest’anno il 64° anniversario della promulgazione della Carta Costituzionale, entrata in vigore l’1 gennaio 1948. Si tratta di una data storica per il popolo italiano, che ancora una volta si vede costretto a dover lottare per difenderla da chi la vorrebbe stravolger  e deturpare. Per avere un’idea del periodo incredibile che stiamo vivendo, si pensi, ad esempio, all’ultima assurda proposta di un disegno di legge da parte di cinque dissennati parlamentari del partito di Berlusconi, che avrebbero voluto depennare la XII norma finale della Costituzione, che vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista.

C’è chi crede che basti rivedere e cambiare qualche titolo ad un libro di storia oppure raccontare una favola in più nel tanto chiassoso, fastidioso, retorico e continuo apparire in pubblico, per stravolgere il significato di eventi storici così grandi e così alti nella coscienza civile degli italiani. Coloro che intendono stravolgere i significati profondi della nostra storia e i principi sacrosanti della Carta fondamentale dello Stato si sbagliano, perché la lotta di Liberazione e la Resistenza partigiana, condotte  con spirito di abnegazione da centinaia di migliaia di uomini e donne in ogni parte d’Italia, a volte fino all’olocausto della propria vita, sono tuttora valide,

Quell’antico elisir di malvarosa

LETTERATURA GASTRONOMICA

LIQUORE DI MALVAROSA

 

Un elisir dal gusto favoloso che inebriandoti la mente ricorda i misteriosi sapori orientali dei filtri magici

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Dall’alto delle scale esplode la voce di “Zia Assuntina” e, prima ancora di vederne la delicata figura, ne avvertiamo il profumo: un aroma sottile di erbe e di fiori che si porta dietro e che la fascia, come un mistero di altri tempi e di altri luoghi. Poi ne scopriamo il volto, chino sul nostro salire, e, insieme al suo, s’illumina quello di “zia Maria”, che sgrana sorrisi e ammicca divertita, come se tra noi e lei corresse il filo di una cospirazione.

L’invito scocca sempre ai primi freddi, quando gli ultimi venti autunnali hanno già denudato gli alberi e la poesia dei camini accesi è ancora tutta da scoprire. Nell’ampio salotto ci troviamo fra due fuochi: quello del camino che borbotta nel cavo del primo ceppo e quello di Anna, la nipote numero uno delle padrone di casa, che fa scoppiettare la sua giovinezza e semina parole come manciate di coriandoli.

Siamo tutti un gruppo di amici e quando scatta  la fatidica frase “Prendiamo qualcosa?”, tutti in coro affermiamo: Sì, un po’ di “zia Assuntina”. Ovviamente tutti sappiamo che si tratta del liquore di malvarosa che la signorina Assuntina, maestra nell’elaborazione di antiche e complicate ricette, prepara da anni con impeccabile bravura. E’ un liquore dal gusto favoloso che inebriandoti la mente ricorda i misteriosi sapori orientali dei filtri magici. Un elisir che ha creato intorno a “zia Assuntina” un alone di leggenda, tanto che gli amici più che chiamarlo “Liquore di malvarosa” amano identificarlo con il nome della sua fautrice.

ph Nino Pensabene

Non è stato facile conoscerne la ricetta, e se ora la passiamo ai lettori dell’Apollo buongustaio, lo dobbiamo alla nipote Anna che, alternativamente angelo e demone, ha ben saputo usare le sue armi per ottenerla.

Si mettono in fusione, in mezzo litro di alcool, sei foglie di malvarosa, le pagliuzze di tre steli di menta e la buccia sottile di un limone, lasciando a macero per ventiquattro ore. A parte si prepara uno sciroppo, facendo bollire in mezzo litro d’acqua mezzo chilo di zucchero e, quando è freddato, si unisce all’infuso già filtrato. Dopo due, tre giorni si torna a filtrare e si aspetta che invecchi maturando l’aroma.

 

ph Nino Pensabene
ph Nino Pensabene

Da “L’APOLLO BONGUSTAIO”, ALMANACCO GASTRONOMICO PER L’ANNO 1973, a cura di Mario Dell’Arco (Dell’Arco Editore in Roma), pag. 69

Leccesi, c’era una volta / Pasqualino torna dalla Svizzera. 7a ed ultima parte.

 

di Alfredo Romano

PREMESSA

   Dalla stazione di Lecce partivano a frotte gli emigranti negli anni ‘50 e ‘60, tutte le sere: Francia, Germania, Svizzera, Belgio. Il mio paese si spopolava, di giovani soprattutto. Le ragazze da marito restavano ad aspettare. A volte invano. Ne ho viste di donne bionde portate al paese.
   Taluni si facevano valere all’estero. Tal’altri erano meno fortunati. Ma guai a tornare senza i segni di una raggiunta fortuna. Nessuno ti avrebbe perdonato quell’essere andato via per niente.
   C’è un certo Pasqualino che torna al paese con una stangona di donna svizzera e una macchina da fare invidia. Lui fa l’americano. Offre da bere a tutti, ostenta mazzi di banconote, dice che in Svizzera se la spassa, parla perfino in italiano (almeno lui crede). Ma poi alla fine basta un po’ di vino e Pasqualino tira fuori la sua verità.


IL VIDEO:
Premessa di Mina Fabiani al monologo di Alfredo sull’emigrazione italiana all’estero. Segue ballo di pizzica tarantata; Alfredo canta “La ballata dell’emigrazione” di Alberto D’Amico e le strofe di Carnevale del cantastorie Peppinu Camisa di Galatone. Con la partecipazione di Giuseppe Maniglio alla chitarra
.


LU PASCALINU TORNA TE LA SVIZZERA
[trascrizione fonetica]

    “′Mmaculata, ′Mmaculata! fuci, fuci ca è rriatu tela Svizzera lu Pascalinu te le Petruse. È benutu cu ‘Nna machina crossa crossa! Cce stae beddhu benetica?! Tene ‘na facce janca e rrussa, s’have crisciutu puru la barba, tene certi capiddhi

Taranto, Il Miracolo e i lodevoli meriti di Edoardo Winspeare

di Rocco Boccadamo

C’era, un tempo, Taranto:  dei vigneti a tendone, dell’Arsenale, dei marinai e
dei mitili.

A distanza di diversi anni dall’uscita, ho recentemente avuto modo di rivedere il film  “Il miracolo”del regista salentino Edoardo Winspeare, opera a suo
tempo presentata anche alla Mostra di Venezia: è stato un piacere, ancora più
intenso della prima volta, tanto che, quasi, ora mi viene idealmente di
suggerire a tutti i pugliesi e agli italiani in genere di visionare la
pellicola.

Analogamente a quanto si verifica in altri contesti geografici, anche da
queste parti  si svolgono da tempo campagne promozionali volte a sollecitare e orientare i consumi di ogni giorno preferibilmente verso prodotti locali: ciò,
si sottolinea, per favorire lo sviluppo delle aziende della zona e per
assecondare, di conseguenza, la creazione di nuovi posti di lavoro.
Personalmente, condivido la giustezza dell’obiettivo di fondo cui tali
iniziative sono ispirate.

Ebbene, col suo lavoro citato all’inizio, Winspeare – pur non essendo nato e
non vivendo a Taranto – ha svolto, a titolo meramente gratuito, un ruolo di
grande ed efficace testimonial, sia della Puglia, sia, in particolare, del
capoluogo ionico in cui, appunto, è ambientato “Il Miracolo”.

Taranto, fra i grandi centri, costituisce forse, dal punto di vista socio-
ambientale, la più controversa realtà – pressappoco alla pari con Brindisi –
della Regione. Il suo tessuto industriale, incentrato soprattutto su grandi
insediamenti, è andato via via trasformandosi, da autentico Eldorado quale lo
si configurava al momento della ideazione e della realizzazione, in una
gravissima spina nel fianco della città e dell’area circostante, un handicap
preoccupante e pesante; tra i fattori di rischio attribuitile, l’altissimo
indice di inquinamento chiaramente nocivo alla salute, elevati livelli di
talune patologie, specie di natura oncologica.

le Colonne Doriche di Taranto

Ne “Il Miracolo”, nonostante queste deleterie presenze che, del resto, trovano più volte spazio visivo nella sequenza delle scene, Winspeare riesce a
presentare la città in una luce, tanto bella quanto innocente, che le spetta a
buon diritto, in virtù delle sue remote origini e della sua storia: mare, anzi
– nella fattispecie – mari, dai colori intensi, tramonti mirabili e fantastici,
il vecchio borgo che pare infondere una spontanea naturale confidenza e,
insieme, riproporre vecchie e sane abitudini. Alla fine, si ha l’impressione
che le piacevoli inquadrature riescano a prevalere sulle pur diffuse situazioni
di degrado e di saccheggio urbanistico del territorio. Il porto turistico,
finanche le gru dei vecchi e ormai «in pensione» cantieri navali, l’isola di S.
Pietro sullo sfondo in Mar Grande, formano anch’essi immagini che contengono qualcosa di poetico.

Insomma, un ventaglio di bellezze riscoperte, un po’ quasi a volerle far
rivivere.

L’opera di E. Winspeare si può in sostanza configurare come un’autentica
attrazione e un piccolo gesto d’amore verso il capoluogo ionico e dunque, al di là del successo di botteghino e dei responsi della critica piovuti sul film, a
mio avviso gli amministratori della città dovrebbero essere molto grati al
giovane regista, non escludendo, ad esempio, di valutare l’opportunità di
conferirgli la cittadinanza onoraria.

Si pensi alla notevole eco ed agli spunti che le immagini di Taranto, a tutto
campo e a tutta durata nel corso della pellicola, hanno suscitato, suscitano e
susciteranno ai fini del turismo: d’altronde, qui non mancano le belle spiagge
e il mare pulito, soprattutto lungo la falce del litorale ionico che si
protende verso Porto Cesareo e gli altri lidi della penisola salentina.

Nello snodarsi della trama della pellicola, a parte le bellissime immagini
anzi ricordate, è anche dato di riscontrare una serie di semplici ma importanti
modelli e valori. Intanto, piace l’impianto del nucleo familiare, dal cognome
molto tarantino di “Solito”, intorno al quale ruota la vicenda: il padre, che –
sebbene combattuto da contraddizioni e difficoltà – non cessa di darsi da fare,
arrivando, addirittura, a volare alto e a riscattarsi attraverso un
comportamento positivo come si può definire – specie di questi tempi – la
rinuncia a grossi facili guadagni (intervista televisiva al figlio); la madre,
sempre equilibrata e paziente, ma non rinunciataria, come è di solito la gente
del meridione. Assai gradevole il fiorire, sulle loro labbra, di una bella
inflessione e di accenni dialettali: un modo di esprimersi apparentemente ormai desueto, ma, invece, tuttora così pregno di significato.

La figura del giovanissimo figlio, il vero protagonista del film, costituisce,
da sola, tutto un programma e non abbisogna di ulteriori commenti.  Accanto a questo ragazzino dalle incerte doti miracolose, risalta il ruolo del compagno
di classe, paffutello estroverso e simpatico: tale ultimo interprete offre,
anzi, un’immagine di alto rilievo morale, che si estrinseca materialmente con
la continua vicinanza e l’assistenza al nonno ammalato.

L’anziano personaggio versa, purtroppo, in seri problemi di salute, è
costretto ad affrontare un male che lo ha preso dentro e che probabilmente
risale agli anni di lavoro in ambienti non salutari. Egli non ritrae – e come
potrebbe – vantaggi concreti dalla vicinanza del nipote e dell’amico, ma, ad
ogni modo, ne ricava grande giovamento sul piano dello spirito, come dimostra il fatto che riprende ad uscire fra la sua gente della città vecchia, a
passeggiare per le sue strade. Alla fine, chiuderà gli occhi per sempre con
serenità, in un ambiente familiare e accanto a persone care.

Risulta molto indicativa la stessa dedica finale del regista: a mio padre e a
S. Cataldo (protettore di Taranto).

Se è permesso, un sincero “bravo” a  E. Winspeare e complimenti per quello
che, mediante il suo talento e la sua originalità artistica, si sforza di fare
a beneficio dell’immagine di questa terra.

L’acqua di cottura, sciòtta per i salentini

di Armando Polito

* Ázzaminde la sciòtta…ti lu post tua, no tti Spigolature salentine! (Conservamene il brodo…del tuo post, non di Spigolature salentine!)

L’acqua in cui si è cotta la pasta, la verdura, i legumi ma anche quella dell’antica acqua e ssale 1 e estensivamente il brodo poco concentrato è la salentina sciòtta e sciuttulòsa è qualsiasi pietanza in cui la parte liquida è presente più del solito. La voce è dal latino tardo jutta e, piccola rettifica,  non (com’è scritto nel vocabolario  del Rohlfs) da jotta.

Ecco come il lemma relativo è trattato nel Glossarium mediae et infimae

“Il principio dei lavori virtuali” e altre tecniche di innamoramento scientifico

Johann Heinrich Füssli (1741 – 1825) “Eufrosine con la Fantasia e la Temperanza” 1799-1800 (Kurpfälzisches Museum di Heidelberg).

di Raffaella Verdesca

Una buona parte degli studenti italiani, sia moderni che di generazioni passate, sembra non nutrire particolare simpatia per le materie scientifiche. Di questa irriducibile schiera ho fatto parte anch’io fino a qualche giorno fa, momento in cui ho dovuto ufficialmente rettificare la mia posizione dichiarandomi riappacificata, se pur non intima, col mondo dei calcoli.

Sbagliata la dissacrazione dei numeri, fuor di luogo questo continuo sbadigliare davanti a capitoli di Fisica in fondo avventurosi, movimentati da personaggi intriganti come la massa, lo spazio e il tempo, la forza e il campo, i liquidi e i solidi.

La dannosità di questa svogliatezza nazionale è confermata da studi statistici e dimostrata dall’avanzamento di popoli fino a pochi anni fa considerati poveri e fuori lizza dalla competizione delle potenze economiche mondiali, esempio fra tutti l’India, nazione il cui aumento demografico è stato ultimamente supportato dall’inquadramento scientifico dei piani di studio e delle scelte tecnologiche attuate dal governo.

Come un ultrà del calcio che con ogni probabilità non sa neanche cosa sia un pallone, anch’io tifo per il progresso scientifico dei Paesi e volendo mantenere un minimo di coerenza, ho cercato più volte di capire o, nella peggiore delle ipotesi, di rivestire i numeri d’un pizzico di umanesimo.

In realtà le leggi della Fisica, all’apparenza fredde e circostanziate, ben si accostano a certe nostre realtà interiori, quelle cullate da secoli di narrativa e poesia, musica e pittura, in poche parole dalla massima espressione del sentimento artistico.

Senza andare troppo lontano, ho aperto d’istinto alcune pagine di Spigolature Salentine per averne conferma: ho ritrovato Silvana Bissoli, pittrice, che ha trasformato gli ulivi di Puglia in materia viva palpitante sentimento, ho riletto le belle poesie di Elio Ria, mi sono persa nelle delicate e intense storie di fidanzamenti scritte da Giorgio Cretì e ho battuto il ritmo delle canzoni di pizzica salentina intonate da Alfredo Romano e Mina: amori focosi, primitivi, lirici.

Chi può negare di aver affidato ricordi d’amore alle note di una canzone

Cozze de terra

ph Giorgio Cretì

di Giorgio Cretì

Nel tempo di Zeus – in età per così dire moderna – ad un certo punto della storia umana, fu scoperta l’alimentazione sofisticata e chi poteva si nutriva con cibi rari che venivano anche da molto lontano. Da quello che sappiamo, però, da ciò che ci hanno lasciato scritto, gli antichi – non tutti naturalmente, solo poeti e scrittori – quando erano stanchi della vita lussuosa che conducevano tutti i giorni, sentivano nostalgia della vita primitiva, quella dei campi, della platonica “cittα del bisogno”, ed invidiavano i contadini che potevano condurla: “Beati voi, guardiani e contadini! Tutte queste fortune, preparate per i padroni, sono a vostra disposizione”, dice Marziale in una delle sue Satire (X, XXX).

In un certo senso, e solo in questo però, Marziale ha ragione quando afferma che certe fortune non le godono i padroni che le hanno accumulate, ma i servi che le sorvegliano. Pensiamo per esempio allo zappatore: d’estate sotto la canicola con la sua zappa da due chili e mezzo puntava nelle fessure del terreno e rivoltava enormi zolle che lasciava esposte al solleone in attesa delle piogge autunnali che le sciogliessero.

Aveva ragione Marziale, perché il contadino – che tempo l’arrivo della sera, avrebbe cambiato colore perché coperto dalla polvere rossa trattenuta dal sudore –, durante la giornata qualche volta rompeva il ritmo del suo lavoro per raddrizzare la schiena dolorante, ma anche per raccogliere qualche frutto nascosto che la terra gli rendeva dal suo profondo. Raccoglieva le monacelle, le lumache marroni in letargo, con il guscio del colore della terra, che apparivano improvvisamente, visibili per il loro bianchissimo opercolo protettivo; le raccoglieva e se le buttava man mano davanti. Allo stesso modo raccoglieva i lampascioni, i grossi bulbi violacei, che a sera metteva nella bisaccia. Erano frutti che il padrone non poteva apprezzare appieno, specialmente le monacelle. Quando il villano interrompeva il lavoro e, al riparo dalla brezza, con la giubba sulle spalle perché il sudore non gli si aciugasse addosso, faceva una fumata con la sua pipa di creta, bruciava una manciata di stoppie e buttava nel fuoco le chiocciole che arrostivano in pochissimi minuti, oppure le mangiava crude prima che iniziassero ad emettere la loro ripugnante bava. Era un privilegio di cui solo lui poteva godere.

Ma il villano, il nostro villano, non raccoglieva quelle chiocciole dal guscio marrone solo quando la terra le rendeva dal loro letargo; con le prime piogge d’agosto, quando uscivano dal letargo estivo in cerca di cibo ne portava a casa panieri colmi e le consegnava alla famiglia per farle spurgare. Erano una leccornia collettiva ed erano dette monacelle per via del colore marrone del guscio e della lamina membranosa bianca con cui il mollusco si chiude all’interno per proteggere il suo sonno. Era la miglior carne del villano, quasi l’unica disponibile, quando c’era. Come gli altri molluschi, di terra e di mare, si chiamava cozza. Tutte le cozze si distinguevano l’una dall’altra per l’aggettivo che le seguiva: le terrestri in tutto erano  sei, anche se una, la cozza palummeddha (Helicella hydruntina), non veniva mai raccolta perché troppo magra ed era facilmente  riconoscibile dall’incavo largo e profondo al centro della sua spirale.

Helicella pisana (ph Giorgio Cretì)

Nel Salento si chiamano cozze tutte le chiocciole. Le limacce si chiamano cozze nude e non c’entrano. Le varietà oggetto di raccolta a scopo alimentare, tolta la palommella, sono, quindi, cinque; le più grosse sono chiamate cirumani, ciammarruchi o anche cuzzuni e sono le famose escargot (Helix aspersa), oggetto di grande commercio e consumo, specialmente in Francia: in molte zone della Terra d’Otranto, però, non sono prese nemmeno in considerazione.

Le cozze più importanti, in ordine di preferenza, sono quindi le cozze moniceddhe o ntuppatieddhi ed anche uddatieddhi e chiuddhi (Helix aperta). La cozza moniceddha è solita rifugiarsi sottoterra con la conchiglia appena affiorante. Se la si tocca emette rapidamente una grande quantità di schiuma creando intorno a sé una barriera dello spessore di qualche centimetro e facendo al tempo stesso un gorgoglìo intermittente abbastanza rumoroso. Se questo suo schiumare e brontolare può essere una tattica di difesa efficace contro alcuni suoi predatori, sortisce però anche l’effetto contrario di svelare la sua presenza al “raccoglitore” umano che, frugando con le mani sul terreno o tra l’erba alta, riesce ad individuarle molto facilmente.

La cozza moniceddha  è molto sensibile alla temperatura ed all’umidità e non appena le condizioni ambientali non sono più ottimali essa entra in ibernazione (se è troppo freddo) o in estivazione (se è troppo caldo o troppo secco) rifugiandosi in una buca scavata nel terreno e sigillando l’apertura della conchiglia con il suo opercolo calcareo. Come tutti gli Helicidae, è una specie ermafrodita insufficiente, cioè ogni individuo possiede sia organi riproduttivi maschili che femminili ma non è tuttavia in grado di autofecondarsi. Ecco perché, molto spesso, in autunno, le cozze moniceddhe si raccolgo a due per volta, i cosiddetti paricchi.

COME MANGIARE LE COZZE DI TERRA

Cozze moniceddhe in soffritto

Kg. 1,5 di monacelle in letargo (con l’opercolo bianco), ml. 50 di olio extravergine d’oliva, 1 bicchierino di vino rosso, sale q.b.

Mettere a bagno in acqua fredda le lumache e poi lavarle, strofinandole, per togliere la terra dal guscio.

Una per una, togliere loro l’opercolo ed eliminarne qualcuna eventualmente morta; passarle man mano in un colapasta, e alla fine sciacquarle bene ancora sotto l’acqua corrente.

Scaldare l’olio in una padella di ferro e versarvele tutte assieme.

Farle saltare per qualche minuto a fuoco vivace, quindi aggiungere il vino.

Far evaporare e poi abbassare il fuoco.

Soffriggerle per un’oretta a padella coperta e servirle calde.

Essendo di dimensioni più piccole rispetto ad altre verietà di lumache, si estraggono dal guscio con l’uso di uno stecchino.

Cozze piccinne ndilissate

Kg. 1,5 di cozze piccinne, ml. 50 di olio extravergine d’oliva, 1 pizzico di origano, sale q.b.,  peperoncino verde fresco a.p.

Lavare bene le cozze, porle in una pentola coperte d’acqua fredda e lasciarle allungare col corpo fuori dal guscio mentre tentano di andarsene. Quando tutte saranno in movimento incoperchiare, accendere il fuoco e tenerlo basso fino a quando i molluschi non si muoveranno più; a quel punto alzare la fiamma e cuocere per un quarto d’ora circa.

Toglierle dall’acqua di cottura, lavarle nuovamente con acqua fresca e scolarle. Salarle, spolverarle di origano, aggiungere il peperoncino fresco tagliato ad anellini ed irrorarle con l’olio d’oliva.

Mescolarle ben bene perché il sale si sciolga e son pronte da mangiare in compagnia come fossero bruscolini.

ph Tommaso Coletta

Cozze piccinne tutte pare

Kg. 1,5 di cozze piccinne, gr. 300 di pomodori a pezzi, 1 spunzale (o un cipollotto verde), 1 ciuffo di basilico, 1 ciuffo di prezzemolo, ml. 50 di olio extravergine d’oliva, sale q.b.,  peperoncino fresco o secco a.p.

Lavarle per bene e mettere le cozze in casseruola assieme ai pomodori tagliati a pezzi, allo spunzale pure spezzettato, al basilico, e al peperoncino spezzato in due; aggiungere ½ bicchiere d’acqua, salare e irrorare con l’olio d’oliva. Farle andare a fuoco moderato per una ventina di minuti, poi son pronte.

Per estrarre la chiocciola dal guscio ci si può servire di uno stecchino, ma esiste un sistema che ad apprenderlo bene è molto più efficace: si prende la chiocciolina tra pollice e indice e con un canino si fora il guscio a metà della prima spira, poi si dà una bella succhiata e l’animaletto resta in bocca; si pone il guscio vuoto in un recipiente messo lì apposta e si continua così finché ci sono chioccioline da mangiare. Ogni tanto si mangerà anche un pezzo di pane dopo averlo intinto nel brodo e si berrà un mezzo bicchiere di vino rosso di media gradazione alcolica, se si vorrà.

Alla fine le labbra saranno infuocate, ma la soddisfazione dello stomaco sarà molto grande.

Sull’argomento si rimanda ad altri articoli pubblicati nei mesi scorsi su Spigolature Salentine:

http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/06/30/gastronomia-salentina-lumache-chiocciole-co/

http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/07/01/gastronomia-salentina-ricette-con-le-lumache-e-chiocciole-prima-parte/

http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2012/01/26/voglia-di-cozze-piccinne/

Anton Dohrn e la stazione zoologica di Napoli

acquario e stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli

di Lucio Causo

Allorché, nel 1874, il professore Anton Dohrn, libero docente dell’Università di Jena, portò a compimento, in gran parte con mezzi propri, la stazione zoologica di Napoli, la scienza europea era sotto l’influsso del darvinismo. E Dohrn apparteneva a quella piccola schiera di studiosi che voleva suffragare con nuovo materiale, ricavato dalle indagini sugli organismi marini, la teoria dell’evoluzionismo. Egli fu il primo a costruire un acquario convenientemente attrezzato e dotato dei necessari laboratori. La grandissima varietà di organismi inferiori della fauna marina del golfo di Napoli offriva un materiale di osservazione incomparabile. I pescatori portavano giornalmente alla stazione quanto pescavano ed innumerevoli esemplari dello stesso organismo passavano dal microtomo al microscopio.  Quando tale stazione cominciò a funzionare, si ebbero gravissime difficoltà finanziarie ed organizzative. In un momento particolarmente critico Dohrn ebbe la felice idea di istituire, accanto ai laboratori, anche un acquario, la cui magnificenza doveva essere tale da attrarre in gran massa i visitatori, permettendo così di sopperire con il ricavato della vendita dei biglietti alle spese d’esercizio di tutta la stazione.

Dopo aver preventivato le spese e gli introiti, il giovane studioso ritenne di poter superare la crisi. Ogni visitatore doveva divenire, senza accorgersene, un mecenate della scienza; vi erano inoltre anche altre fonti di proventi: le

36 imprese ultra-centenarie della provincia di Lecce

Sviluppo del Mezzogiorno: 36 stimoli dal Salento

 

di Francesco Lenoci*

 

 

150 anni di Storia delle Camere di Commercio d’Italia, tra cui la Camera di Commercio di Lecce, a sostegno delle imprese . . .

36 Imprese ultra-centenarie della provincia di Lecce, tra cui una Banca, iscritte nel Registro  Nazionale delle Imprese Storiche di Unioncamere . . .

Cosa posso, preliminarmente, aggiungere io a quanto già detto dal Presidente della Camera di Commercio di Lecce Alfredo Prete e dal Presidente di Unioncamere Ferruccio Dardanello, che  mi hanno preceduto sul palcoscenico dello stupendo Teatro Paisiello, che illumina l’incantevole via Giuseppe Palmieri di Lecce?

Posso citare una meravigliosa frase di un grande musicista e compositore d’orchestra, Gustav Mahler: “Tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco”.

Fuoco . . .  L’Italia per ripartire non ha tanto bisogno di un decreto “Salva Italia”, di un decreto “Cresci Italia”. Il nostro Paese ha, soprattutto, bisogno di ravvivare quel fuoco. Ha, soprattutto, bisogno di riprendere a sognare e di realizzare quei sogni.

L’ho scritto tante volte nei giorni scorsi sulle bacheche di Facebook con riguardo a questo Evento, lo ribadisco oggi 18 aprile 2012 da Lecce:

“Se non si sogna. . . . non si progetta.

E se non si progetta. . . .non si realizza”.

Sognare, progettare, realizzare . . .  è la conditio sine qua non per uscire dalla crisi. La crisi. . .  La crisi che stiamo vivendo (rectius: subendo):

  • è una crisi  che, anche se ha preso le mosse dal sistema finanziario, non

Leccesi, c’era una volta / Quando esce la taranta. 6a parte.

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 di Alfredo Romano

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IL VIDEO: Alfredo parla del tarantismo. Segue monologo e l’esecuzione di 2 pizziche con la partecipazione di Mina Fabiani e di Giuseppe Maniglio alla chitarra.

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PREMESSA AL TARANTISMO CON QUALCHE DIVAGAZIONE

C’è stato nel Salento, fino a qualche anno fa, un fenomeno detto del tarantolismo, fenomeno che è sopravvissuto finché è resistita la civiltà contadina e che ora è del tutto scomparso. Nella mia terra succedeva che le donne specialmente, alcune donne, ciclicamente all’inizio della stagione calda entravano in una crisi che si potrebbe definire depressiva.

Alfredo Romano

Era credenza che la donna fosse stata morsa da un ragno, la tarantola, un morso magico, dal momento che la donna, al semplice suono di un tamburello o di una fisarmonica, danzava e si dimenava al ritmo del suono e questo le portava giovamento nel fisico e nell’umore.

I familiari, la collettività, consci di questo effetto terapeutico della musica, organizzavano dei veri e propri concerti in casa ad opera di musicisti di tamburello, di violino, di fisarmonica e di chitarra: in genere erano persone del paese. Io ho avuto due zii paterni che suonavano il violino e il tamburello, quello che suonava il violino era il nonno di mio cugino Mariano Romeo, un mastro muratore che qui tutti chiamano Lupo.

I concerti duravano giorni a volte, la donna danzava e mimava con i gesti le movenze del ragno, entrava in trance, percorreva nella sua mente mondi sconosciuti, finché, ad un certo punto, rientrava docilmente nella ragione, tornava in sé, nella sua normalità, dopo aver smarrito il suo orizzonte.

A questo punto ringraziava i musicisti, ringraziava i vicini di casa che avevano assistito alla sua terapia musicale, e ringraziava pure San Paolo, creduto il protettore delle tarantole e dei serpenti. In conclusione, la stessa collettività allora si incaricava di curare chi era entrato nel tunnel della crisi.

Che la musica, il canto, abbiano una funzione terapeutica, è ormai riconosciuto da tutti. La vibrazione sonora infatti non viene percepita solo dal nostro udito, ma viene sentita anche dall’intero corpo e dal nostro mondo inconscio. Il suono armonico viene quindi ad armonizzare, ad alleviare cioè il nostro dolore fisico e mentale.

Tornando alla terapia musicale del tarantolismo, è chiaro che aveva la sua ragion d’essere in un determinato contesto culturale. Ma le crisi, gli smarrimenti della ragione non sono affatto finiti. Solo che oggi la cura si risolve in farmacia o all’ospedale (detto tra noi era molto meglio ballare al suono di un tamburello) dimenticando che certe malattie dell’anima non possono essere curate esclusivamente con la chimica.

Mina Fabiani

Perché le donne erano più soggette a essere «morse dalla tarantola?» Beh sappiamo che allora le donne subivano leggi e costumi repressivi e la crisi era sempre in agguato. Ma io aggiungo un altro motivo: non è che anche l’uomo fosse immune dalle crisi, è che la donna, più dell’uomo, ad un certo punto decideva di entrare in crisi, si abbandonava, tirava fuori la parte di sé più irrazionale e costringeva la collettività a occuparsi di lei (finalmente di lei), si metteva al centro dell’attenzione, lei ballava e aveva un pubblico tutto suo, era protagonista di un evento. Così facendo la donna si riconquistava le sue sfere di libertà.

Al contrario, gli uomini in crisi, in generale non sono capaci di questi abbandoni, non decidono di smarrirsi, di uscire da sé (e farebbe loro tanto bene), perché gli uomini si controllano di più, stanno più attenti, si vergognano, ne andrebbe del loro status di maschi, perfino il pianto è visto come segno di debolezza, quasi che il pianto debba essere un’esclusività delle donne. Non so perché mi viene in mente il pianto di Priamo, re di Troia, di fronte all’eroe greco Achille per ottenere la restituzione del corpo di Ettore, il figlio ucciso dallo stesso Achille. Era il pianto di un re. E piangeva anche Odisseo nell’isola di Ogigia al ricordo della sua donna lontana, della sua patria lontana. E allora… questi uomini, insomma, che piangano pure, visto che piangevano anche gli eroi.

Adesso passo a raccontarvi del fenomeno del tarantolismo nel dialetto del mio paese di origine, Collemeto di Galatina, in provincia di Lecce. Questo perché, prima della pìzzica tarantata, voglio farvi entrare in un mondo magico, un mondo di suoni e ritmi che solo il dialetto può rievocare.

Mina Fabiani, Alfredo Romano e Giuseppe Maniglio in scena.

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 QUANDU ESSE LA TARANTA

Mo’ fazzu cu ssentiti la pìzzica tarantata. Cce gh’ete la pìzzica tarantata? Ete ‘na tarantella. Ndae tante tarantelle a llu Sud: have la tarantella te Napuli, quiddha calabrese, quiddha siciliana… e nnui tenimu puru la tarantella noscia: la pìzzica-pìzzica.

La tarantella vene te taranta. La taranta è ‘nn’animale ca se troa a ttiempu t’estate a lle campagne, a lli tiempi de la metitùra te lu cranu… Se scunde a mmienzu ‘llu cranu la taranta, quandu face quiddhu sole ertu ertu, a quiddhi merisci caddi ca se vite l’aria brillare, ca pare ca sta arde quasi. Le furmìcule stanu scuse sotta terra, se sente lu sonu te le cicale… ca face mutu caddu! Se sente cicì-cicì-ciciiì. Sempre quiste cicale. E allora tìcianu ca la taranta esse te fore e pìzzica le mane e lli pieti te li cristiani.

Giuseppe Maniglio

   E quandu pìzzica la taranta, li cristiani se sèntanu tutti scazzicàti. E basta cu nne rria quarche ssonu te tamburieddhu o te fisarmonica ca vene te luntanu, ca se mìntanu ‘ballare. E ballanu tuttu lu giurnu, a ffiate puru dô giurni, tre giurni, quattru giurni… puru ‘na settimana!

   La taranta, la pìzzica. Nui ‘stu fattu te li cristiani ca su’ ppizzicàti te la taranta e cca se mìntanu ballare, ‘sta cosa la tenìmu scusa intru te nui, comu ‘na sorta te mascìa ca nu’ mbulìmu cu sse saccia.

   E ssentendu vui quistu sonu te pìzzica-pìzzica, vui be putiti ccurgìre te cce ssangu ca tenìmu nui intra lle vene, te cce ffocu ca ne arde intra llu core: ‘stu focu ca vulìmu cu spetterra, cu esse te fore e ccu llu tamu a tutti li cristiani.

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TRADUZIONE IN ITALIANO

QUANDO ESCE LA TARANTA

   Mo’ vi faccio ascoltare la pìzzica tarantata. Che cos’è la pìzzica tarantata? È una tarantella. Ci sono tante tarantelle al Sud: c’è la tarantella di Napoli, quella calabrese, quella siciliana… e noi teniamo pure la tarantella nostra: la pìzzica-pìzzica.

  La tarantella viene da taranta. La taranta è un animale che si trova al tempo d’estate nelle campagne, al tempo della mietitura del grano… Si nasconde in mezzo al grano la taranta, quando fa quel sole alto alto, in quei meriggi caldi quando si vede l’aria brillare, che pare che arda quasi. Le formiche se ne stanno nascoste sotto terra, si sente il suono delle cicale… ché fa molto caldo! Si sente cicì-cicì-ciciiì. Sempre queste cicale. E allora dicono che la taranta esce fuori e pìzzica le mani e i piedi dei cristiani.

Alfredo Romano

   E quando pìzzica la taranta, i cristiani si sentono tutti smossi dentro. E basta che arrivi loro quarlche suono di tamburello o di fisarmonica che viene da lontano, che si mettono a ballare. E ballano tutto il giorno, a volte anche due giorni, tre giorni, quattro giorni… anche una settimana!

   La taranta, la pìzzica. Noi questo fatto dei cristiani che sono pizzicati dalla taranta e che si mettono a ballare, questa cosa la teniamo nascosta dentro di noi, come una sorta di magia che non vogliamo che si sappia.

   E ascoltando voi questo suono di pìzzica-pìzzica, voi potete scorgere che razza di sangue teniamo noi nelle vene, che fuoco ci arde dentro il cuore: questo fuoco che vogliamo che trabocchi, uscir fuori e donarlo a tutti i cristiani.

SACRUCORI – opere di Adriano Radeglia

SACRUCORI

opere di Adriano Radeglia

dal 20 al 24 aprile 2011

PALAZZO TAMBORINO Corte dell’Idume 1 – angolo via Guglielmo Paladini – LECCE 

In occasione della settimana santa le stanze inferiori dello storico Palazzo Tamborino ospitano la personale di Adriano Radeglia, SACRUCORI.
L’artista in questa sua produzione fonde le principali espressioni della sua arte, opere in terracotta policroma e olio su tela che parlano di sacro

Uno sguardo al costato trafitto dalla lancia che è l’ultima ferita al corpo di

Lecce e la nostalgia dei giardini

di Vincenzo Ampolo

“ Sto aspettando perpetuamente

una rinascita della meraviglia”

L. Ferlinghetti

Da pochi giorni ho spostato sulla mia pagina di facebook il filmato, a disegni animati, del testo di Jean Giono “ L’uomo che piantava gli alberi”.

La narrazione, parla di un’impresa compiuta da un solo uomo, capace di trasformare un territorio brullo e inospitale in un paradiso pieno d’alberi, corsi d’acqua e animali dalle mille varietà.

Per una serie di circostanze fortuite o d’occasioni non ricercate ho in questi giorni ricevuto diversi stimoli relativi al tema dei giardini ed alla loro magia.

Girovagare per le strade di una Lecce ancora addormentata, in un mattino d’estate, pieno di luce e di ricordi, mi ha ulteriormente suggerito alcune considerazioni che voglio condividere con chi avrà voglia di una sosta rilassante all’ombra delle mie parole.

Già mi ritrovo bambino, nei pomeriggi di primavera a camminare incantato dai colori e dai silenzi odorosi, per i viali alberati che, dal rione San Lazzaro, portavano fuori dal centro abitato, oggi sempre più dilatato, costeggiando ville antiche a cui si aggiungevano, alla fine degli anni sessanta, nuove villette più bizzarre ed estrose.

In realtà le ville più antiche circondavano, e in parte circondano ancora, i viali che segnano i confini dell’antica città, le sue famose Porte.

Su una stradina che, costeggiando l’Ateneo, va da Porta Napoli a Porta Rudiae,

Vincenzo Ampolo. Nella vacanza della coscienza

di Paolo Vincenti

“Sono figlio della Terra e del Cielo stellato; datemi presto da bere la fredda acqua del lago di Mnemosyne”: così recita il testo di una laminetta orfica appartenente all’antica civiltà magno- greca e Vincenzo Ampolo, che si abbevera da sempre alla fonte di Mnemosyne, sa che “l’anima riarsa di sete è la più sapiente e la più nobile”, come diceva Eraclito. E Ampolo ha sete, tanta, di conoscenza.

Vincenzo Ampolo è un uomo delle continue rinascite, che sa inventare sempre nuovi progetti culturali e reinventarsi continuamente come artista, nella sua ricerca assidua e partecipativa di arte totale. In effetti, l’immaginario è il luogo del transdisciplinare, e lui conosce bene e frequenta da sempre l’immaginario,con le sue numerose articolazioni simboliche. Vincenzo Ampolo è  psicoterapeuta, scrittore, poeta, pittore e operatore culturale. Attraverso i moderni strumenti di comunicazione di massa, è molto facile conoscerlo ed egli certo non lesina informazioni su di sé e sulla propria

La donna e la penna

di Maria Grazia Presicce

Gerard ter Borch, Donna che scrive (1655), Maurithsuis, L’Aia

E’ risaputo che fin dai tempi antichi la scrittura è stata prerogativa essenzialmente maschile. A ben pensarci, a qualsiasi  donna dovrebbe provocare uno strano effetto leggere testi scritti da uomini che interpretano ed esprimono sulla carta sentimenti e sensazioni essenzialmente femminili  che non   gli appartengono minimamente anche se magistralmente esposti. Si ha  l’impressione che la donna sia stata  defraudata, spiata negli anfratti più remoti dell’anima senza saperlo, senza darne il permesso.

Infondono, comunque, profonda tristezza tanti silenzi e angosce represse che avrebbero potuto trovare sfogo e conforto su un pezzo di carta e che non l’hanno fatto perché impotenti e, mentre per loro sarebbe stata una consolazione, noi ora avremmo avuto una testimonianza sentita e vissuta e non testimonianza testimone e al maschile    testimoniata.

Non sono adirata con l’uomo che si è assunto la responsabilità di colmare con la penna questi silenzi al femminile.

Possibile, mi ero chiesta, che mai a nessuna donna, nei tempi antichi, sia venuta voglia di prendere in mano una penna al posto dell’ago e dell’uncinetto e anche di nascosto provare a riempire un foglio bianco di emozioni e sensazioni?

Solitudine, noia, rinunzia,sospiri, silenzi e doveri raccontati al cuscino e mai riportati su un foglio. Dovere di figlia di moglie di madre e silenzi.

Silente l’ago che ricamava, nemmeno la stoffa che bucava si lamentava e sul lenzuolo silente, in silenzio ricamava il silenzio della solitudine muta della donna di allora.

Nemmeno le suore nella silenziosità del chiostro osavano usare la penna e l’inchiostro.

I monaci si, loro potevano e dovevano, le monache no.

Oggetto, la penna, carico di significati; simbolo fallico per eccellenza, eccellente simbolo per una società maschilista.

Come poteva la misera donna osare prendere tra le mani un simile oggetto?

Spudorata la penna, spudorata la donna che l’avesse malauguratamente usata! Eh sì, altri tempi, colmi  sicuramente di tante storie non scritte, ma vissute e sofferte!

Queste riflessioni mi hanno indotta a cercare scritti di donne anonime del sud e a soffermarmi su alcune di loro più intraprendenti, che si sono spinte a spedire le loro poesie al redattore di un periodico per vederle poi pubblicate. Chissà l’emozione di quelle donne! Mi piace immaginare che anche se non sono più fra noi, riescano a percepire il nostro mondo e vedendo ancora una volta pubblicate le loro poesie possano ancora gioirne!

La due poesie che seguono apparvero entrambe sul periodico leccese La democrazia, la prima nel n. 4, anno VI del 20 gennaio 1905.

L’autrice è Enrica Capozzi, così presentata in testa al trafiletto che contiene il suo componimento: un’artista  vera nell’anima, che oltre ad essere un’eccellente musicista è anche una vaga poetessa. Queste strofe racchiudono una dolcezza ed un affetto ineffabili, specialmente le due ultime che sono d’un impeto lirico stupendo.

Quando mesto volge a me,

Il  suo sguardo tutto amor,

Nova speme, nova fe’

Sento scendermi nel cor.

 

Sento l’anima sua bella

Aleggiar su l’alma mia…,

E una musica novella

Una vaga poesia

 

Si diffonde nel mio seno…

Guardo lui, poi guardo il sole,

i bei campi, il bel sereno,

Oh, quai sogni, quante fole

 

Van danzando ne la mente!

Qua’ desiri sovrumani

Quando in l’aere vagamente

Scorron dolci sensi arcani

 

In soavissimi ruscelli

In melliflui eterei mari…

E non so quai strani augelli

Quai vetusti e pii giullari

 

Van cantando inni d’amore,

che trasognan l’alma mia,

che sublimano il mio core

in angelica poesia…!

 

Oh, che provo! Oh, qual dolcezza!

Che ineffabili desiri…

Quai susurri, quale ebrezza

Di dolcissimi sospiri!

 

Tale io provo immenso affetto,

Tal soave commozione,

Quai sentia – io credo – in petto

la Fanciulla di Faone.

 

O, che val ch’in altro regno

Io men vivo di Colei?

Che non ho suo alto ingegno,

Che son parvi i spirti miei?

 

Quando splende Diana pallida

E i bei campi e i cori molce,

volo, volo ne la squallida

aria argentea tutta dolce;

 

come un’aquila furiosa

volo, volo in su commossa

ride l’anima desiosa,

freme l’aria fremon le ossa…!

L’altra poesia, pubblicata nel n. 20 del 20 aprile 1904, anno V, è di Emma Bersocchi-Borghi.

Emma Bersocchi-Borghi è una gentile anima d’artista, che il vento della fortuna ha trascinato e confuso nell’anonima collettività di un coro da operette.

Dall’ingegno facile e pronto, dalla sensibilità squisita e quasi morbosa, ella trova il modo di esplicare nelle più varie forme dell’arte tutta la piena del suo sentimento. Forse manca di una coltura adeguata alle naturali disposizioni, ma ella di ciò non ne ha colpa, perché troppo rapide e violente sono state le vicende della giovanissima esistenza. E scrive anche dei libri. Io ho qui sul tavolo un romanzo ed un volume di versi, che conservano tutto il triste profumo dello sconforto. Ne dò un piccolo saggio in questa ballata d’Autunno.

Su pei clivi

Fra gli ulivi

Passa torbido il grecale,

Ed in tetro

Fosco metro

Un lamento all’aria sale.

 

Un lamento

Va col vento

Per i rami disseccati,

Sono i fiori

Son gli amori

Intristiti e sparpagliati.

 

Son le storie

Le memorie

De la morta primavera,

Le speranze

Le esultanze,

che travolge la bufera.

 

Ella in cielo

Guarda il volo

Delle nubi burrascose,

Emigrare verso il mare

Rondinelle frettolose.

 

E sfuggire

Disvanire

Vede il sogno della vita

Nella brezza

Che carezza

La sua fronte impallidita.

Leccesi, c’era una volta / Mio padre Giovannino. 5a parte.

di Alfredo Romano

PREMESSA

D’estate ci si levava presto per la raccolta del tabacco. Si andava sul campo che era ancora buio. Mio padre Giovannino si alzava per primo e, mentre mia madre Lucia preparava il caffè, lui, sigaretta già in bocca, cominciava la perlustrazione del campo che stava nei pressi della casa colonica: andava a fare una verifica della parte di campo con le foglie più mature da raccogliere. La mamma intanto con le tazzine di caffè fumanti apriva la camera che io dividevo con tre fratelli più piccoli e, pur a malincuore, cominciava il rito della sveglia:
“Su, il caffè, alzatevi figli miei, fatelo per amore della mamma vostra!” ‘Na parola, e chi si alzava!
“Va bene, state un altro minuto, ma solo un altro minuto, ché vostro padre mo’ che torna, se non vi trova in piedi, quello si mette a bestemmiare tutti i santi del paradiso e se la prende pure con me.”
E papà tornava, ma io e i miei fratelli eravamo inseguiti ancora dai sogni della notte profonda, non ultimo quello di un mondo senza tabacco.


Il video della 5a parte dello spettacolo di Alfredo con la partecipazione di Mina Fabiani. Dopo il monologo, Alfredo e Mina in “Lu furese ‘nnamuratu”, strofe di tradizione del cantastorie salentino Luigi Paoli.

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SÌRAMA LU GIUVANNINU

Ciaaa!, l’hai chiamati li fiji toi, l’hai chiamati? Sangu te la matòmbula bbuttana! Sta bene lu sole e quiddhi me stanu ‘ncora curcati… Azzàtive! ca li cristiani hanu fattu ‘na sciurnata!
Fràtuma lu Pippi hae dô ore ca stae ddha mmienzu: è sciùtu cu lle citilene…

La còppula ti lu cattìu (la coppola del vedovo)

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

 

 (…) Per quella caratteristica mentalità popolare totalmente refrattaria alla concezione di un aiuto a fonte univoca, all’interno della coppola – tra fodera e tetto – spesso veniva a crearsi un habitat di presenze oggettuali i cui campi di riferimento potevano dirsi in netta opposizione. Accanto alla medaglietta sacra (la spiràgghia), riconosciuta tramite di celesti protezioni, o nascostavi da una moglie desiderosa di convertire il marito bestemmiatore, trovava bellamente posto lu pasùlu spiùru (il fagiolo bianco ibrido) le cui anomale macchie scure, ritenute spruzzi escrementizi del diavolo, assicuravano a chi lo portava addosso la benevolenza degli spiriti maligni, dicat il loro aiuto nel realizzo delle covate aspirazioni di ordine materiale. Il tralcetto di gramigna annodato tre volte, al quale ricorrevano le madri per proteggere i figli da infidi trameggi femminili, si trovava a tu per tu col più classico dei pegni d’amore, cioè la furmeddhra (il bottone) che la ragazza appositamente staccava dal più intimo dei suoi indumenti, raccomandando all’amato: “Intra’a lla còppula ti ll’à ttinìre, intr’a lla còppula” (“Nella coppola la devi tenere, nella coppola”). Di contrasto alla ciocca dei capelli della moglie defunta, che già in sede di veglia funebre il vedovo pubblicamente infilava nella coppola, altrettanto pubblicamente protestando “Intr’a llu cirieddhru mi li mentu cu nno mmi nni pozzu mai scirràre” (“Nel cervello me li metto affinché non abbia mai a dimenticarti”) c’era sempre un pezzetto d’unghia che lo stesso vedovo segretamente rifilava al proprio alluce destro, questa volta mentalmente ripetendo: “Cu nno mm’aggia a cchiamàre prima ti lu tiémpu” (“Ché non abbia a chiamarmi prima del tempo”). La ciocca di capelli infatti poteva generare un’affatturazione con la morta, la quale – facendo di quella presenza memoriale una forma di richiamo – avrebbe potuto provocare nna sicutàta a ppassu spiértu (un seguito a passo svelto = morte del marito in breve tempo). L’unghia invece, incarnando il simbolo della continuità, anzi della crescita, valeva a ristabilire il diritto alla vita del superstite, un proseguimento nel cammino terreno – come la crescita dell’unghia appunto – reso più esplicito dalla chiamata in campo del piede destro, antonomastica immagine di consapevole inizio, in questo caso di coraggiosa svolta.

La più importante svolta per un vedovo era quella di passare in seconde nozze, decisione spesso inevitabile, pur se sempre difficile: la donna ca si itìa mannare ti nnu cattìu (che si vedeva chiesta in moglie da un vedovo), pur se ormai zzita fatta ca àuru no spittà (zitella matura che aspettava proprio quell’occasione), si facìa cara a bbinnìre (si faceva cara a vendere), accampando mille scuse – troppo vecchio, troppo povero, incomoda presenza di figli – e più che altro facendo valere il timore di non essere tinùta bbona  (tenuta bene), in quanto – diceva – “A lli spaddhre ti nnu cattìu pirdùra sempre sursu ti màsciu” (“Alle spalle di un vedovo perdura sempre il sorso di maggio”, ossia l’affetto per la prima moglie), il che avrebbe reso il suo matrimonio no llicrézza t’àjara ma muérsu ccuétu an terra pi bbisuégnu (non allegrezza di aia ma tozzo raccolto a terra per fame). Tutta una furba tessitura per costringere l’uomo a pronunciare esplicite promesse, a suggello delle quali – si sapeva – le avrebbe consegnato la coppola (in questa occasione soprannominata menza capu ), autorizzandola a bruciarla quale segno di annullamento del passato, più esattamente di scardinamento del legame affettivo con la prima moglie. (…)

Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, 1994 (pagg. 182-183)

Grottaglie/ Santi in terracotta tra Ottocento e Novecento

In margine a una mostra

“SACRALITÀ DOMESTICA. SANTI IN TERRACOTTA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO”

Una piccola corte celeste a Casa Vestita nel Quartiere delle Ceramiche a Grottaglie in uno scenario da favola dove si incrociano storia arte e religiosità

 

di Rosario Quaranta

“Sacralità domestica. Santi in terracotta tra Ottocento e Novecento”: questo il titolo di una mostra  inaugurata il 29 marzo scorso a “Casa Vestita” nel quartiere delle ceramiche a Grottaglie e che sta suscitando interesse e successo straordinari.  Un vero e proprio evento che, oltre a richiamare un buon numero di visitatori, ha solleticato l’attenzione massiccia dei “media” e in particolare del Web veicolando così questa intelligente operazione culturale ben oltre gli stretti confini provinciali e regionali.  Perché tutto questo non sembri inutile esagerazione, suggerisco al cortese Lettore di digitare, magari sul più classico canale di ricerca telematico, le parole  “sacralità domestica a Grottaglie” per verificare on line (è il caso di dirlo) l’impressionante numero di links e di servizi correlati.

C’è da chiedersi come mai una mostra di carattere religioso e popolaresco possa suscitare tanto interesse in un mondo così complesso e sempre meno

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