Il lamento del latinista e scrittore Luca Canali sulla rivista L’Immaginazione

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di Alfredo Romano

Lo scrittore e latinista Luca Canali.

Quando si dice che la vecchiaia è una carogna. E già, mi ha colpito lo sfogo di Luca Canali sull’ultimo numero della rivista L’Immaginazione (San Cesareo di Lecce: Piero Manni, n. 268, 2012, p. 30). Canali, scrittore di romanzi e racconti, saggista e traduttore dei classici latini, alla bella età di 87 anni si lamenta del fatto che note case editrici, che negli anni hanno guadagnato tanto con i suoi libri, adesso non sono più interessate e i direttori editoriali adducono le scuse più assurde. Addirittura il direttore di un noto quotidiano al quale Canali aveva chiesto di collaborare risponde: “Ci scusi, pubblichiamo solo articoli orientati verso le giovani generazioni”. 

Protesta allora Canali: “A questo punto mi si consenta una onesta difesa: mi deve essere concessa perché qualcuno può ipotizzare una qualità scadente dei miei libri della vecchiaia, come causa dei rifiuti.” E lancia una sfida: “Leggete questi due libri recenti: il primo è un romanzo storico intitolato Augusto, braccio violento della storia, il secondo è la traduzione, testo a fronte, di un classico del IV secolo d.C., Il poema dei Vangeli. Datene un giudizio: se sarà negativo, mi arrenderò ai direttori editoriali che mi hanno snobbato. Se sarà

Comu sente la ndora: a Lecce, un assaggino d’estate sulla spiaggia di S. Cataldo

di Rocco Boccadamo

Non è ancora partita la stagione “ufficiale” dei bagni, tuttavia in questa mattinata di maggio si respira un’aria particolarmente invitante, proprio da mare. Siffatta sensazione passa automaticamente a tradursi in stimolo irrefrenabile, sicché, senza pensarci su oltre, basta una corsa in auto di dieci minuti per guadagnare S. Cataldo, il lido tradizionale, maggiormente di casa, dei leccesi.

C’è gente, ma non folla, degli stabilimenti balneari, appena uno, piccolo e carino, inaugurato di recente, si presenta aperto e funzionante.

Una comoda sedia con tavolino d’appoggio per la consumazione del canonico “espressino”, occhieggiando, nel frattempo, verso la battigia adiacente, dove un catamarano dai bianchi e cospicui triangoli di velatura se ne sta adagiato, pronto a prendere a solcare, di lì a qualche istante, la calma distesa, tappezzata di fasce alterne color verde bottiglia e verde smeraldo.

All’orizzonte, non lontano, procede lentamente un’altra imbarcazione ad alberi, più grande, in assoluto relax ovvero con rinuncia alla naturale spinta del vento. Si tratta, ad ogni modo, di un ulteriore segno che il periodo delle vacanze è alle porte.

Stuoli di bimbi sono già intenti ai giochi sulla rena, pacifici, senza gli strilli che si abbinano alla confusione; non ci vuole molto perché si determini a raggiungerli anche la piccola Elena, con secchiello e paletta datile in prestito dal gestore del bagno.

Soprattutto, c’è la gente comune, i grandi, visitatori per stimolo alla stregua dello scrivente, occupanti i tavoli vicini, presi a parlare di cose varie, in verità non solamente di gossip.

Un omone intorno ai sessant’anni, torso nudo con prominente tamburo addominale, accento non di queste precise parti, tiene letteralmente banco, esperto su tutto.

A richiamare la mia attenzione, in particolar modo, un preambolo in dialetto pronunciato con enfasi dal personaggio, non comune e diffuso, che è tutto un programma: ” Comu sente la ndora” (in italiano, non appena sente l’odore).

Lungo il Canale d’Otranto, predica l’uomo, dominano esclusivamente due venti, tramontana e levante, i soffi dalle restanti direzioni sono un’inezia, qualche anno addietro, addirittura, fu tramontana fissa dal 1° al 23 d’agosto. I proprietari delle barche ormeggiate al circolo nautico si limitavano, perciò, ad avvicinarsi ai rispettivi natanti, li accarezzavano, toglievano qualche strato di polvere e salutavano, di salpare manco a pensarci.

Signori, aggiunge il nostro, se si vuole una situazione diversa bisogna portarsi dalla parte opposta del Tacco, a Gallipoli o a Porto Cesareo.

I commenti passano, quindi, sulle previsioni relative al turismo estivo 2012; al riguardo, nota il tuttologo, che a Torre dell’Orso e a S. Foca, dove da anni sono stati realizzati importanti insediamenti ricettivi, si incontrano turisti provenienti da Roma, Milano, Torino e il Nord Italia in generale e si crea movimento.

A S. Cataldo, invece, ci s’imbatte esclusivamente in persone di Lecce, Surbo e Trepuzzi, per il semplice motivo che non c’è nulla. Finanche la piccola darsena è lasciata traboccante di sabbia, al punto da impedire le entrate e le uscite dei pescatori. Da lontano, insomma, arrivano sparuti proprietari di caravan o roulotte o amanti del soggiorno in tenda.

Attenti a tali discorsi, un altro uomo, testa rasata, maglietta nera con scritta “cotton & silk”, occhiali griffati e due signore vistosamente imbellettate, quasi si trovassero in una strada o in un locale dello struscio del centro cittadino.

Intanto, sul risicato e scarsamente popolato tratto di spiaggia, sembrerà strano ma è così, non mancano di materializzarsi le ormai familiari figure di “vu’ cumprà”, in particolare arriva a sfilare una giovane donna morissima, alta, vera e propria statua con tanto di turbante e, soprattutto, in funzione di vera e propria vetrina espositiva di un negozio.

Reca con sé decine di generi di mercanzie, appese alle mani e alle braccia, ciondolanti dal collo e, infine, appoggiate e veicolate con perizia, anzi vera e propria capacità acrobatica, sul capo.

Un’immagine di ordinaria e palpitante umanità – che, grazie anche al coloratissimo abbigliamento, è venuto spontaneo catturare attraverso un’istantanea – invero più ricca e indicativa rispetto a mille discorsi e pensieri.

Fra queste sequenze di visioni, ascolti e osservazioni è scivolata la breve parentesi del primo approccio estivo con il mare.

Nature morte

di Vincenzo Ampolo

 

(a Dario V. Caggia)

L’ora dei nostri incontri è generalmente situata in quello spazio un po’ magico che va dal tramonto al crepuscolo.

Il periodo di transizione tra la luce e il buio favorisce il sonno, la trance, la sapienza del silenzio.

Il percorso per arrivare da lui è labirintico, con piccoli viali e gradini che si arrampicano su per la collina, come edera intorno ad un albero.

Ogni elemento del passaggio sembra ripetersi all’infinito, riproporsi in modo ossessivo imponendo il dubbio, la cautela dei passi, la ricerca delle tracce di precedenti ascese.

Il mio Maestro-analista mi aspetta su in alto nel suo santuario, per accogliere i miei sogni, l’angoscia delle immagini perverse e soprattutto la mia richiesta eterna di affetto che mi segue a distanza come un figlio ripudiato.

Dall’inizio della mia analisi, come ogni paziente, ho desiderato con tutto me stesso d’essere “ il caso”, il figlio prediletto, riconosciuto nei meriti e curato amorevolmente della sua ferita narcisistica.

La mia infanzia ha un padre assente, avaro di regali e di carezze. Un padre intento a rincorrere aquiloni, che portava a suo figlio il latte cattivo.

Tra il latte e la scuola, spesso mi appoggiavo ad un albero per vomitare.

Così negli anni ho appreso la tecnica del cacciar fuori il male, rivelarne la consistenza e l’entità, nel tentativo di dissociarmene, diventare altro, libero e purificato.

La depressione ha una storia antica che mi porto appresso in questo pellegrinaggio che sfida l’angoscia del vivere e del morire.

Man mano che si sale su per la collina il paesaggio si allarga.

Chiese alte, stradine con archi e balconi ma soprattutto cortili deserti, freschi di calce abbagliante, con pochi vasi di fiori e gatti sonnacchiosi che riposano immobili. Persino i panni stesi al sole oggi sembrano statici, come in una fotografia.

In quest’estate inoltrata, il vociare del mattino e i rumori festosi della sera fanno pausa per lo spettacolo del tramonto che riempie  il cielo di colori e il paese di ombre lunghe, che si ritrovano tra i sospiri di chi ama qualcosa, o qualcuno, che non ha o che ha già perduto.

Il paese dell’infanzia è la maglia dell’inconscio e lo sguardo che mira ridà colore ai ricordi.

Ma il paese è quello del Maestro e dietro questo paesaggio c’è la sua storia.

Mio padre in casa me lo ricordo poco.

La sua legge, la legge del più forte mi ha sradicato dall’isola di amici che popolavano la mia infanzia.

Mi ha defraudato dell’eredità di una città ormai perduta, imponendomi la sua storia, il suo recinto di terra da rivoltare giorno dopo giorno.

Il suo potere violento e arbitrario ha mostrificato la sua immagine.

Marinaio e libertino, negli accenni di mia madre, moralista come può essere una suora mancata, è diventato un demonio da esorcizzare.

Negli ultimi tempi il Maestro teneva i suoi incontri non più nel grande studio perennemente in penombra, ma in una piccola cella angusta, che un tempo fungeva da precaria sala d’aspetto. Mi parlava a volte di suo padre e del suo essere simile a lui e diverso al tempo stesso. Di come questo medico potente aveva tiranneggiato la sua infanzia e di come al tempo, egli stesso, medico dell’anima, lo rincorresse nei suoi ricordi per carpirne i segreti, svelare enigmi e trovare risposte esaurienti a dubbi angoscianti.

Da qualche anno il Maestro è tornato al suo paese natale e qui mi ha trascinato. Ora lui è la collina intera, gli alberi e quel silenzio di marmo soggetto e oggetto della narrazione.

Mio padre non mi insegna più lunghe poesie nel suo letto, prima che le ali di Morfeo mi trascinino nel regno dei sogni: “ Silenzio bambini, entriamo nel parco dei santi. Silenzio, le teste scopriamo, silenzio e avanti…”

E’ rimasto solo questo brandello, come se un forte vento avesse strappato le vesti dei ricordi.

Al posto di quelle poesie oggi è rimasto il nulla che è ombra e fobia.

Oggi, le mie sedute con il Maestro non costano denaro. Lui mi aspetta sempre ed è disposto come non mai ad ascoltarmi.

Non dice e non nasconde: rispecchia.

Come ieri ritorno a trovarlo, a trovarmi, in questo cimitero a picco sulla città.

Arrivo su in cima con il fiato corto, mi siedo accanto alla sua tomba e riposo.

Quel vagare, come un fantasma tra simulacri di morte, lascia il posto ad un paesaggio immenso ed ai suoi occhi che mi guardano e che oggi ho il coraggio di incontrare senza abbassare i miei.

A volte ho giurato di vedere in quella foto la mia faccia, quella di qualche mese fa con la barba lunga sul mento; una barba che ho tagliato dopo vent’anni per scrupoli di identità.

Oggi gli parlerò del mio dolore di sempre e di una donna che appartiene ad entrambi, alla storia di entrambi.

Scapperò via prima che la sera mi catturi al buio e alla paura. Porterò con me la pace ritrovata che avrà, lo so, il sapore della precarietà.

Presto dovrò ritornare da Lui. Lui mi conosce più di tutti al mondo e sa ascoltarmi senza parlare.

Lo troverò ad aspettarmi su in cima alla collina, in quella piccola cappella dove la sua foto guarda quella di suo padre, come a rappresentare un confronto che non avrà mai fine.

Strappate le catene agli schiavi: 22 arresti

di Veronica Valente

Arrivavano in Italia con la promessa di un lavoro regolare, con la speranza di un futuro migliore. Ma era una trappola. Centinaia di extracomunitari, una volta raggiunte le coste del Belpaese, sarebbero stati “catturati” da una spirale di soprusi, e spogliati di un bene che non ha prezzo: la dignità.

Qualche giorno fa è stato scritto un importante capitolo sui diritti dell’uomo. Le “catene” agli schiavi del nuovo millennio sono state tolte ed ora sono ai polsi dei loro aguzzini. Sono ventidue i destinatari dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Carlo Cazzella – su richiesta del pm della Dda Elsa Valeria Mignone – ed eseguita la scorsa notte dai carabinieri del Ros, coordinati dal comandante Paolo Vincenzoni, e del comando provinciale di Lecce, sotto la guida del colonnello Maurizio Ferla. All’operazione “Sabr”, dal nome di uno dei caporali arrestati, sono riusciti a sfuggire in sei.

Gravissimi i reati caduti sulle loro teste, oltre alla riduzione in schiavitù, la Procura ipotizza: associazione a delinquere, tratta di persone, intermediazione illecita,  sfruttamento del lavoro, estorsione, violenza privata, falsità materiale e ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici,  falsità materiale commessa dal privato, favoreggiamento dell’ingresso di stranieri in condizioni di clandestinità.

Stando alle indagini, iniziate dal Ros nel gennaio del 2009, e continuate  fino ad ottobre dello scorso anno, l’organizzazione avrebbe speculato sulle condizioni di disagio degli extracomunitari reclutati, in gran parte, dall’Africa

La mandria è sfiancata…

di Gianni Ferraris

Nella notte fra il 22  il 23 maggio i R.O.S. dei Carabinieri hanno tratto in arresto 16 persone in varie regioni d’Italia. In Salento hanno agito a Nardò e Carmiano con una possente operazione. Oltre gli arrestati rimangono 6 latitanti. Nella mattina del 23 il Procuratore della Repubblica Cataldo Motta e alti ufficiali dei Carabinieri hanno indetto una conferenza stampa.

da irislavoro.it

“La mandria è sfiancata, mandatene altri” così un’intercettazione fra un datore di lavoro e i reclutatori. Il viaggio dei ragazzi africani deportati iniziava così, la civile Italia aveva bisogno di mandrie fresche da sfruttare, a Pachino come a Nardò per raccogliere angurie o pomodori o agrumi. La mandria serviva a sfiancare anche i mercati, a battere la concorrenza in ogni modo, non solo illecito, ma ignobile.

Nella conferenza stampa il Procuratore Cataldo Motta delinea scenari inquietanti per l’Italia del 2012. “Quando mi laureai studiai sommariamente il reato di riduzione in schiavitù” dice “pensavo appartenesse al passato remoto”.  Ha però dovuto imparare anche, il Procuratore, che non sempre il vero è verosimile: “Tratta di Persone” “Riduzione e mantenimento in schiavitù e servitù” “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” “Favoreggiamento di cittadini stranieri in condizioni di clandestinità” sono fra i reati contestati. Se confermati, siamo di fronte a reati ignobili, incivili, mutuati dallo stile delle mafie e delle baronie più retrive.

La Puglia, Nardò in particolare, è capo zona con Pachino di questo infame

Quel che occorre conoscere sulle cipolle di Terra d’Otranto (seconda parte)

di Massimo Vaglio

La cipolla è originaria della parte centrale dell’Asia, infatti l’areale in cui la si ritrova allo stato selvatico va dall’Iran al Pakistan spingendosi a nord sino alla Russia meridionale. La sua coltivazione è antichissima. Le testimonianze rimandano alla notte dei tempi e tutti gli antichi popoli del bacino del Mediterraneo hanno utilizzato questo ortaggio: gli Egiziani la consideravano addirittura sacra e la paragonavano ad una deità. La si vede raffigurata in tante pitture murali ed è stata ritrovata in molte tombe, fra cui in quelle dei faraoni, inserite fra i cibi che dovevano accompagnarli nel viaggio ultraterreno. Sempre gli Egizi compivano i giuramenti solenni proprio sopra una  pianta di cipolla; in questo modo il giuramento veniva consacrato agli dei e la credenza voleva che in caso di inadempienza lo spergiuro fosse condannato a lacrimare in eterno. I Romani, non la divinizzavano, ma come documentato da diversi scrittori georgici, ne avevano già codificate diverse varietà e ne facevano larghissimo uso. Plinio, nella sua Naturalis Historia ne caldeggia vivamente l’uso esaltandone i principi salutari e indicandola come utile a tutti senza controindicazioni, segnalando come particolarmente pregiate quelle provenienti dalla Gallia, dall’Africa, dal Tuscolano, attuale ottavo quartiere di Roma, e da Ascalona antica città del Negev occidentale.

Artemidoro di Daldi, scrittore greco del II secolo d. C., autore dell’ “Onirocritica” interessante trattato sull’interpretazione dei sogni, narra che la cipolla e l’aglio erano ritenute piante profetiche. Si pensava infatti che se un malato avesse sognato di mangiare poche cipolle, il suo male sarebbe peggiorato in modo irreversibile; sarebbe invece accaduto il contrario se avesse sognato di mangiarne in abbondanza, insieme ad aglio.

Nel Medio Evo sulle qualità salutistiche e nutrizionali prevalsero quelle afrodisiache. Pare che i giovani in vena di

Rudiae: le nuove scoperte archeologiche

scavi dell’anfiteatro di Rudiae

RUDIAE

LE NUOVE SCOPERTE ARCHEOLOGICHE DELL’UNIVERSITÀ DEL SALENTO

 

OGGI LA PRESENTAZIONE

 

 

scavo delle mura di Rudiae

Le nuove, straordinarie scoperte che l’Università del Salento, in collaborazione con la Soprintendenza ai Beni Archeologici, ha effettuato nel corso dei recenti scavi nel sito della città messapica e romana di Rudiae (a ridosso della periferia di Lecce, ai lati della “via vecchia Copertino”): per parlarne, una presentazione ufficiale è in programma domani, 24 maggio 2012, alle ore 18 nella sala “Open space” di Palazzo Carafa (piazza Sant’Oronzo, Lecce).

Le relazioni:

  • Marcello Guaitoli, docente di Topografia dell’Italia antica, che illustrerà le monumentali strutture delle fortificazioni messapiche databili tra IV e III secolo avanti Cristo;
  • Francesco D’Andria, docente di Archeologia e storia dell’arte greca e Direttore della Scuola di Specializzazione in Archeologia, che parlerà della scoperta dell’anfiteatro, uno dei più antichi del mondo romano, databile tra II e I secolo avanti Cristo;
  • Pasquale Rosafio, epigrafista e docente di Storia romana, che illustrerà il significato di un’iscrizione, quasi dimenticata, murata nel Palazzo baronale di Monteroni in cui si cita il Municipio di Rudiae.

Sarà inoltre presentato il Progetto, in corso avanzato di realizzazione a Rudiae, del Polo Didattico dell’Archeologia per gli studenti delle scuole medie.

Teresina di Tiggiano

Teresina di Tiggiano

quando il Magnificat si fa carne

in terra di Leuca

di Giacomo Cazzato

Ohiiii! Era il saluto urlato di quella signora dai capelli candidi che arrivava con grandi pedalate sulla sua bicicletta old style, incurante di qualsivoglia segnaletica stradale. Del resto, nata nel 1916, munita solo di biciclo, era più che legittimata a riconoscere come autostrada spaziosa e trafficata quella via che collegava la sua casa, collocata nelle ultime propaggini del centro storico, alla chiesa confraternale dell’Assunta, quella ad un tiro di schioppo dalla matrice di Sant’Ippazio.

A conoscerla erano tutti, celebre tra i bambini poiché quella sua chioma bianca raccolta da un cerchietto, spuntava su per le campane dell’Assunta durante le processioni e a fare impressione, erano le braccia,  che si dimenavano con forza lanciando il battacchio sulla campana a intervalli precisi: il tempo di una decina di rosario e si ricominciava.  L’ultima volta che Teresina ci salì fui io il collega campanaro, decisamente inesperto, confratello

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,/e questa siepe…

di Armando Polito

Ho avuto occasione qualche giorno fa di leggere un questionario delle prove INVALSI somministrato (mai minestra, neppure gli alimenti scaduti e rimessi in commercio che ogni tanto i NAS scoprono, fu più sofisticata…) quest’anno e sono giunto alla conclusione che, se ancora avessi insegnato, avrei da tempo (dal tempo, appunto, della prima somministrazione INVALSI) perso il posto, dopo aver trascorso con i miei ragazzi una giornata indimenticabile per me e per loro, anche se per motivi diametralmente opposti…

Alla lettura dei quesiti proposti si è puntualmente rinnovato il dilemma che mi assale quando mi trovo davanti ai test in genere (li odio, è vero, ma non so resistere alla curiosità di vedere fino a che punto si può arrivare): sono io l’imbecille o è pazzo chi ha preparato le domande e, cosa ancor più rilevante, le fatidiche risposte tra le quali bisogna scegliere l’unica esatta (o presunta tale)?.

Sui test, che con le loro croci ho già avuto occasione di definire come il cimitero della cultura e che pretendono di valutare, con l’alibi dell’oggettività, scientificamente, dunque razionalmente, un fenomeno in cui la componente razionale, forse, è quella non preponderante, altro non dico se non che l’estensore (ma dietro ci sono gli esperti e i consulenti…) di quelle prove magari sarà tra coloro che più rabbiosamente si scagliano contro quei medici rei, secondo loro, di considerare il malato solo un caso clinico o, peggio, un numero di cartella.

Non vorrei, però, che l’accusa di pazzia si ritorcesse contro di me, dal momento che l’aggancio con l’aulico titolo non sembra ancora arrivare. Eccolo: che esito darebbe oggi una domanda che chiedesse solo la paternità di quelle parole con possibilità di scelta tra: a) un campione ciclista scalatore, bravo ma soggetto a bisogni improvvisi…; b) un presidente della repubblica che nel luogo di lavoro (?) ama stare in solitudine a curare le rose del giardino interno; c) Giacomo Leopardi?

-Sì- dirà qualcuno -la risposta c riscuoterebbe il minor successo-;  e Di Pietro: -Che ci azzecca tutto questo con Spigolature salentine?-. Come se la vita, e dunque anche la cultura, fosse fatta di compartimenti stagni…

Per convincere il buon Di Pietro prenderò in considerazione una sola parola, l’ultima, del titolo.

Siepe è dal latino saepe(m)=siepe, recinto, sbarramento, ostacolo, luogo chiuso, connesso con il verbo saepìre=chiudere, cingere, sbarrare. Dal suo participio passato neutro (saeptum) con valore sostantivato è derivato l’italiano setto. A questo punto chiunque potrebbe pensare che da setto è derivato settore,  come, per esempio, il letterario rattore (nella lingua comune rapitore) è dal latino raptòre(m) a sua volta da raptu(m), sostantivo a sua volta derivato da raptum, participio passato di ràpere. È evidente come nei due casi appena prospettati l’esito –tt– nascerebbe per assimilazione da –pt-.

Ho avuto altre volte occasione di affermare che nella lingua il principio della economicità va a farsi benedire e ciò avviene, secondo me, perché in essa la componente razionale non è dominante. A questo punto non posso far notare come questa situazione, paradossalmente, non ha procurato grossi danni all’umanità, a differenza della sublime razionalità (oltre che buona fede…) di certa economia e, in campo scolastico, di certe scelte, anche economiche,  e criteri di valutazione che ci hanno portato alla situazione attuale…

Tornando a noi: cosa impedisce di supporre che setto sia il padre di settore, vista la congruenza formale ma anche semantica (concettualmente il settore corrisponde ad una delimitazione di una parte rispetto all’intero)?

Nulla, se non il fatto che in latino esiste raptòre(m) ma non saeptòre(m); esiste, però, sectòre(m) che è da sectum, participio passato di secàre=segare. A questo punto appare chiaro che qui l’esito –tt– deriva, sempre per assimilazione, da un originario –ct– e non –pt-. Dunque, settore non è figlio di setto, e anche quella congruenza semantica prima invocata ci appare più sfumata (il concetto di delimitazione non corrisponde perfettamente a quello di taglio).

Ma Di Pietro incalza: -Se è vero come è vero che tutte le parole fin qui esaminate sono italiane, che ci azzecca tutto questo con Spigolature salentine?-.

La sua irruenza è senza dubbio giustificata dall’ignoranza del nostro dialetto. Probabilmente, se l’avesse conosciuto, avrebbe aspettato la mia conclusione (e se non fosse arrivata avrebbe avuto tutto il diritto di andare in escandescenze), che è questa: in dialetto neretino per definire una barriera naturale vegetale come la siepe si usa la voce sipàle, che non è altro che una forma aggettivale sostantivata della siepe immortalata ne L’infinito che, come risulta dalle prove INVALSI, secondo la maggior parte degli studenti italiani (per quelli africani e cinesi le cose stanno diversamente…) è un’opera mai terminata di un autore sconosciuto; pare, comunque, che fosse un astronauta (anzi un’astronauta, non per la par condicio ma perché, nel dubbio suscitato dalla desinenza in –a,  è meglio che l’apostrofo ci sia…) del XIII secolo…

Quel che occorre conoscere su cipolle e spunzali di Terra d’Otranto (prima parte)

di Massimo Vaglio

 

La cipolla (Allium cepa L.) è una pianta bulbosa appartenente alla folta famiglia delle Liliacee, si compone di un abbozzo di stelo ridotto a disco, detto tallo, che nella parte inferiore reca radici fascicolate e nella parte superiore delle foglie cave, fistolose sovrapposte  che ingrossandosi alla base danno luogo al bulbo, che costituisce la principale parte commestibile.

E’ una pianta tipicamente biennale, infatti nella prima annata si verifica l’ingrossamento dei bulbi, mentre solo nel secondo anno si sviluppano le infiorescenze, sbocciano i fiori e maturano i semi, per cui, per l’ottenimento dei bulbi, ossia delle cipolle, viene coltivata come annuale e raccolta dopo il primo ciclo vegetativo  che si completa mediamente dopo sei-sette mesi dalla semina.  Nei primi stadi di sviluppo la sua vegetazione è molto lenta, per poi accelerare con i primi calori andando a completare la formazione del bulbo in tempi molto rapidi.

I bulbi delle cipolle a seconda della varietà assumono le più diverse forme, dimensioni ed una notevole gamma di colorazioni, a completo sviluppo possono risultare schiacciati, oblunghi o perfettamente tondeggianti, mentre la colorazione varia dal bianco al rosso, passando per varie tonalità di giallo-dorato e di viola.  Questi sono formati da tuniche dette anche catafilli strettamente aderenti fra loro e, sempre a seconda delle varietà, più o meno succulente e ricoperte da altre tuniche cartacee, appellate più propriamente catafilli. Le une e le altre non sono altro che la porzione basale delle foglie; quelle carnose, hanno funzione di riserva, le altre, cartacee, hanno invece solo funzione protettiva.

Le cultivar di cipolla sono molto numerose. Nei cataloghi delle ditte sementiere italiane ne compaiono oltre cento e a complicare ulteriormente il quadro insistono numerose omonimie e sinonimie, ovvero varietà diverse appellate con lo stesso nome  e numerosi casi ove la stessa varietà acquisisce a

Brindisi. Una mano assassina ha violentato l’innocenza del futuro

di Pino de Luca

Le parole non devono mai mancare. Le parole sono essenziali perché l’umano prenda il sopravvento. Una scuola nella quale ho fatto il Presidente di Commissione qualche anno fa, nella quale ho conosciuto persone straordinarie, nella quale ho perduto il mio migliore amico, anche lui Presidente di Commissione,. A Michele esplose il cuore.

E nelle vicinanze di quella scuola, luogo di figli di ceti popolari, luogo di frontiera e di immensa umanità, qualcuno ci ha messo un ordigno.

Melissa è morta, Veronica lotta per vivere e altre sue compagne e compagni porteranno i segni incisi per tutta la vita.

Ipotesi, domande, retoriche vergognose, facce sinceramente attonite. La verginità della scuola è perduta, una mano assassina, forse mafiosa, forse terrorista o forse ancora di pura follia, ha violentato l’innocenza del futuro spargendo il sangue e tentando di spargere la paura.

Non mi avventurerò in “ipotesi investigative”, aggiungendo brodo al brodo. Certo che ognuno ha la sua idea, e la mia, come sempre, attraversa il concetto

Sull’asfalto i quaderni

attentato Brindisi

di Wilma Vedruccio

 

Li avevamo sempre visti sui banchi di scuola, di legno, incisi coi nomi, di formica, con cuoricini graffiati, sui tavoli da cucina con la tovaglia cerata, fra un vasetto di nutella e una mela. Sul nero dell’asfalto è la prima volta che si vedon quaderni di scuola.

Il vento di tramontana soffia ancora sulla Brindisi ventosa, e gioca il vento nella sua indifferenza, gioca con pagine fitte fitte di appunti, con pagine ancora bianche, di fine cellulosa. Le volta e le rivolta il vento, come se cercasse qualcosa, un appunto, un numero di cellulare, un nome, un indirizzo, una nota. Qualcosa che sia un indizio ragionevole, un bandolo per capire, per uno straccio di spiegazione, qualunque essa sia…perché ciascuno possa allacciare in qualche modo, i fili sospesi dallo sgomento per ciò che è accaduto.

Scorrono formule da quei quaderni, matematica per il futuro quotidiano di là da venire, date da mandate a memoria per sapere qualcosa di storia senza sapere che le proprie membra stracciate

Chi ha paura dell’Uomo Nero?

ph Woodi Forlano

di Raffaella Verdesca

L’ombra di questa creatura sinistra ha gettato da sempre nel panico generazioni di culle e di lettini.

Non esiste posto al mondo in cui una povera madre non sia stata costretta a far ricorso all’Uomo Nero per aiutarsi nell’annoso compito di educare la prole e di spegnere il divampante incendio dei suoi capricci e delle sue sterili lagne, prova ne sia la ninna nanna a noi tutti nota.

Per fortuna è arrivato più di cinquant’anni fa il mitico fumetto di Diabolik a risollevare la crisi post-traumatica dei futuri adulti e a consolare le più disparate fasce di adolescenti sull’identità e sulle intenzioni del cugino del temuto spauracchio infantile. In fondo Diabolik è solo un astuto ladro, che male potrebbero mai fare, dunque, lui e il famoso parente a un povero studente squattrinato?

Capita che ai giorni d’oggi, invece, questa ingenua certezza non sia più così consolidata.

L’Uomo Nero si espande a vista d’occhio, s’infiltra in campi e figure prima insospettabili fino a creare terrore e morte, stavolta quella vera.

Se nell’infanzia uno si consola dicendosi che, nella peggiore delle ipotesi, questo benedetto Uomo Nero lo preleverà a sorpresa per portarlo lontano da casa, attento a farlo sopravvivere se non addirittura vivere, nell’età della ragione uno sa, capisce che così non è.

L’hanno sperimentato i quattro ragazzi morti nell’attentato contro la scuola ebraica di Tolosa nel marzo di quest’anno, alcuni studenti della Finlandia, della Svezia, della Germania, del Belgio, le 186 piccole vittime di Beslan, in Cecenia nel 2004, e il 19 maggio 2012 Melissa Bassi, deceduta a Brindisi nello scoppio di un ordigno esplosivo davanti alla sua scuola.

No, questo non è un fumetto, amici miei, qui non c’è niente da rubare e

Solo l’amore e la morte cambiano ogni cosa

Woodi Forlano 2009

di Woodi Forlano

Reclamiamo il Salento quale terra di cultura della pace e del saper vivere comune,

reclamiamo il Salento quale terra di lavoro e solidarietà,

reclamiamo il Salento quale terra dignitosa e sincera,

reclamiamo il Salento quale esempio etico di fraternità, condivisione e prosperità per il futuro di coloro che ci vivono, lo amano, lo portano nell’anima e nei ricordi.

Brindisi degli amori, Brindisi dei terrori, Brindisi degli orrori, Brindisi porto di sbarco di cuori.

Se la legge dell’odio ha scelto Brindisi per un bagno di sangue, che

Della terra salentina si possono dire cose bellissime, non roviniamo questa sognata “arca di pace”

migliaia di persone si sono ritrovate ieri a Brindisi e Mesagne (ph Alba Schina)

di Giacomo Cazzato

I simboli, lo sappiamo tutti, contano, soprattutto se ad essere vilipeso è quanto di più prezioso possa esistere in questo mondo. Anticipo a dire dunque che mi sento alquanto inadeguato a riflettere non la semplice morte di una ragazza mesagnese di soli 16 anni in una delle tante scuole intitolate a due martiri del bene comune, ma la sconfitta stessa dell’etica di ogni uomo,  della vita fragile e denudata in tutta la sua vulnerabilità, aggravata per l’emozione della collettività dal carico dell’innocenza.

La constatazione della capacità distruttiva nella psiche meschina dell’uomo è il fardello su cui si arrovellarono, si arrovellano e si arrovelleranno tutti i pensatori di ogni tempo, inutile pertanto sprecare ulteriori parole. La mancanza di un movente lascia nessuno spazio a lapidazioni mediatiche sugli aguzzini. Ma se nelle prossime ore venissimo a sapere che quanto avvenuto non è addebitabile a follia estemporanea, bensì a pensiero lucido, organizzato, allora dovremmo tutti assumerci la responsabilità dell’involuzione culturale e civile di questo paese. Ora come ora, per la pochezza circa i dettagli del crimine, indifferenti al cursus ormai finito di quella povera vita spezzata, possiamo solo biasimare secondo metodi gandhiani la vergognosa codardia, maggiore per disgusto e disprezzo, anche alla violenza.

Come per ogni esperienza, per noi che si rimane, il compito di lottare

Brindisi. Le scuole rimarranno aperte, i ragazzi devono riprendersele

di Gianni Ferraris

di Francandrea Leoci

Lutto cittadino domenica 20 e lunedi 21 a Brindisi, “però le scuole rimarranno aperte, i ragazzi devono riprendersele e utilizzare la giornata per parlare, per combattere la paura, perchè la scuola è loro” così il sindaco della città Mimmo Consales. “E chiedo – prosegue – che su ogni finestra ci sia un fiore”. Le scuole rimarranno comunque chiuse nella giornata di martedi, quando a Mesagne ci saranno i funerali di Melissa.

La piazza è gremita all’inverosimile “Sicuramente più di cinquemila persone” mi dice un vigile. Una ragazza accanto a me piange per tutta la durata della manifestazione con il padre che le sta accanto e sembra senza parole. E’

SÓLO EL AMOR Y LA MUERTE LO PUEDEN TODO

Woodi Forlano 2009

Reclamamos el Salento como tierra de cultura de paz y del saber vivir común,

reclamamos el Salento como tierra de trabajo y solidaridad,

reclamamos el Salento como tierra digna y sincera,

reclamamos el Salento como ejemplo ético de hermandad, participación y prosperidad para el porvenir de los que aquí viven, lo quieren, lo llevan en el alma y en los recuerdos.

Bríndisi de los amores, Bríndisi de los terrores, Bríndisi de los horrores, Brindisi puerto de desembarco de corazones.

Si la ley del odio ha elegido Bríndisi para un baño de sangre, que escrita en la misma sangre sea nuestra respuesta:

L@s salentin@s desconocemos estas dinámicas del poder violento, acaparador, inhumano, despiadado

¡La cultura del terror no nos pertenece!

De nosotr@s diréis que somos transparentes como nuestra mar

A nosotr@s pediréis sonrisas y vino de los que abundamos

Por nosotr@s descubriréis que la sangre corre en las venas y no en las aceras

Con nosotr@s constataréis que aquí la muerte siempre es mañana y el recuerdo siempre hoy.

Por nosotr@s grita hoy la indignación, porque nos quedamos sin palabras.

Woodi Forlano 19 del 05 de 2012

ONLY LOVE AND DEATH CHANGE ALL THINGS

Woodi Forlano 2009

We demand Salento as a land of culture of peace and common savoir vivre.

We demand Salento as a land  of work and solidarity.

We demand Salento as a land of dignity and sincerity.

We demand Salento as a ethical example of brotherhood, sharing and prosperity for the future of those who live here, love it, carry it in their soul and memory.

Brindisi of  loves, Brindisi of terrors,Brindisi of horrors, Brindisi harbour of  landing hearts.

If the law of hate chose Brindisi for a blood bath, written with that same blood will be our answer.

We people from Salento disown these dynamics of violent power, grabber, merciless.

The culture of terror doesn’t belong to us!

Of us you will say we are clear as our sea.

To us you will ask smiles and wine we’re plenty of.

By us you will find out the blood flows through our veins not on pavements.

With us you will establish here death is always tomorrow and memory always today.

For us indignation cries out today as we are speechless.

Woodi Forlano 19th.05.2012

Funere mersit acerbo.

 

di Andrea Calabrese
Insegno all’Istituto professionale per i servizi sociali Francesca Morvillo Falcone di Brindisi e nella sua succursale di San Vito dei Normanni intestata a Peppino Impastato. La mia è una scuola speciale, un presidio di legalità e civiltà in quel deserto dei tartari che spesso è la periferia delle nostre città. Questa mattina avrei dovuto recarmi a San Vito per due ore di lezione.

Alle 8.55 miha telefonato il bidello: “Professore, non venga a scuola, perché non ci sarà lezione. Hanno messo una bomba alla sede centrale di Brindisi”.

In un primo momento ho pensato che nottetempo avessero messo un ordigno e avessero soltanto danneggiato l’edificio. “No professore, ci sono ragazze ferite”. Non ci potevo credere. Ho subito chiamato un mio collega di Brindisi per saperne di più: ” Andrea, qui non si capisce niente, sembra Beirut”.

In simili circostanze non sai cosa pensare, speri solo che non ci siano feriti gravi o che almeno non siano coinvolte le tue alunne. Magra consolazione sapere che le tue sono sane e salve quando vieni a sapere che un’altra non ce l’ha fatta. Melissa. Una ragazza della seconda sezione moda, la classe accanto alla tua. Quando realizzi la mostruosità di un tale atto non puoi fare a meno di piangere. Come si può uccidere una ragazza, distruggere i suoi sogni, la sua solare bellezza? Come può l’uomo scendere a simili abissi? E rimani attonito, senza risposte, a guardare inebetitola TV, a cercare la risposta dagli altri. Non c’è risposta.

Seguono una serie di telefonate fatte e ricevute per sincerarsi della salute dei colleghi e per cercare di saperne di più, specialmente quando si rincorrono notizie discordanti sulla salute dell’altra ragazza grave: Veronica. Si aggiungono i particolari agghiaccianti dei primi soccorritori: ragazze sfigurate, mutilate, che non saranno mai più se stesse, che hanno perso in quel

Quello che resta

di Stefano Manca

Riprendere in mano vecchi saggi sulla storia delle organizzazioni malavitose italiane, riprendere quel vecchio libro-intervista a Giovanni Falcone e sovrapporlo alle dichiarazioni delle ultime ore. Procuratori, politici, uomini d’ordine, magistrati, cronisti di giudiziaria. Le immagini si susseguono. “Flusso”, lo chiamano i sociologi. Ascoltar tutto e tutti e poi confrontare frasi, idee, ipotesi, indizi. Hanno ammazzato Melissa, una studentessa sedicenne, attraverso un ordigno piazzato nel cassonetto davanti alla scuola. Con qualche amico del sabato giochi a ripercorrere la storia d’Italia degli ultimi sessant’anni. Non ti sfiorava, fino a stamattina, manco l’idea della paternità. D’un tratto invece ci pensi. Poteva capitare a mia figlia, ti ripeti. Poi di nuovo cambi inquadratura e ti ritorna in mente con colpevole campanilismo che Falcone e Borsellino erano meridionali e che Melissa era una ragazza meridionale. Magre consolazioni, certo, ma non è tempo per pensieri coerenti. Eppure ci provi e ci riprovi, a inquadrare lucidamente tutte le cronache che ti passano davanti. Non ci si mette molto tempo ad essere invasi dalle notizie, sapete. Nell’epoca sempre più “social”, sempre più “media”, sempre più “new media” le opinioni e i rimandi di certo non mancano. Linkare qualcuno o qualcosa diventa un’operazione quasi mentale. Alla fine, quando il televisore è spento e il portatile è chiuso, quello che resta sono sempre le stesse immagini: l’assolato asfalto salentino all’ingresso di una scuola e una

A Brindisi la barbarie ha fatto strage di democrazia

di Gianni Ferraris

E se avesse ragione Gad Lerner che dice che quando c’è vuoto di potere le mafie e i terroristi temono di perdere il potere?

Le notizie scorrono veloci e contradditorie sullo schermo. Prima una ragazza morta, poi due, poi di nuovo una sola. Comunque a Brindisi la barbarie ha fatto strage di democrazia. Si parla insistentemente di criminalità organizzata, d’altra parte non si capisce bene quale altra possa essere la matrice. I

l Salento di nuovo preso di mira in maniera assolutamente inedita, mai era successo che i criminali osassero colpire una scuola, queste operazioni sono degne di terrorismi che già abbiamo conosciuto negli anni ’70, quello dei fascisti spalleggiati da servizi segreti deviati, oggi si mutua quello stile.

Mentre scrivo, in TV dicono che gli inquirenti indagano a 360 gradi, qualcuno ipotizza il gesto di un folle, non convince molto questa ipotesi in quanto, dalle prime notizie, si sa di un cassonetto spostato per mascherare la bomba, e di un ordigno azionato a distanza, non convince anche se, come dice il giornalista in TV, si trattava forse di due bombolette di gas.

Anche il ministro Cancellieri sottolinea come l’attentato sia inusuale per le mafie. In ogni caso rimane sottilissimo il confine fra comportamenti mafiosi e mafiogeni.  Mentre scrivo, l’unica certezza è la  ragazzina morta in un periodo

Terra d’approdo

ph Anna Sterpone

di Wilma Vedruccio

La si può trovare a Est, lasciando la litoranea che da S. Cataldo va verso Otranto, annidata su un costone di calcare. Non una torre ma un faro-torre, il faro di Missipezza che ammicca nella notte sul Canale d’Otranto per segnalare ai naviganti alcune secche antistanti su cui cresce, rigogliosa, la posidonia.

E’ la posidonia ad approdare per prima, ad ogni autunno che ritorna, portata dalle correnti del mare ad ammucchiarsi lì,  sulla spiaggetta-porticciolo, ai piedi del faro. Le foglie brune, sminuzzate dal mare, riposano lì, poi non le vedi più, se le riprende il mare.

In direzione Nord si seguono sentieri a strapiombo sul mare, su “scenari mozzafiato” come si usa dire. Bisogna fare attenzione a non lasciarsi distrarre dalla bellezza della costa perché il sentiero può rivelarsi interrotto all’improvviso, inghiottito da una frana provocata dalle piogge o dalle mareggiate.

Ripreso il cammino, un cammino in punta di piedi per non disturbare, si può godere degli odori di stagione: una fioritura di tamerice o di mirto, un mentastro o una santoreggia sollecitati dal proprio calpestio.

E intorno voli, evoluzioni in volo di piccioni di mare, da un nido all’altro, nelle pareti dei faraglioni, cesellate.

Se poi c’è mareggiata, provocata dalla tramontana o dal grecale, il cammino si fa più coinvolgente. Da scalette che fendono la tenera roccia, si può scendere giù al livello del mare e camminare sugli scogli dove approdano le onde.. Estremo e fantastico il percorso, tra un mare mutevole a seconda del vento del giorno, e una roccia color oro che si fa modellare.

C’è il Bastimento, poi il Castello delle Microfate e l’ampia spianata di Acquaduce: qui le acque dolci sotterranee approdano al mare, formando vasche, gallerie, anfratti, dove si può avvertire il gocciolare del tempo e il respiro del mare. Il luogo ideale per la pesca con la canna, per nuotare, per prendere il sole, per meditare.

Se si vuol proseguire si arriva alla punta del Matarico e al costone a sud della baia di Torre dell’Orso con le Due Sorelle.

In direzione Sud da Torre Sant’Andrea, il cammino si fa più intimo, lungo sentieri polverosi d’estate, fangosi poi, dove si possono notare le ossa della terra che affiorano quali carrarecce spontanee e remote.

A lato, cespugli di macchia odorosi in ogni stagione, fioriti all’improvviso anche fuori stagione.

A Est l’orizzonte è solcato da vele e pescherecci, da vecchie petroliere, carghi che rimandano a Conrad e ad avventure letterarie.

Seguono approdi improvvisi,  solitari, per varia umanità, e piccole oasi di sabbia sottile. Aldilà del Canale d’Otranto, a volte, capita di vedere il profilo dei monti d’Albania, che sposta più in là l’orizzonte.

Passo dopo passo si arriva a San Giorgio dove ha inizio una catena di dune che porta a Frassanito e poi oltre, verso Alimini. Radici antiche di ginepro trattengono la sabbia di queste dune maestose sopravvissute al logorio ed alla smania dei nostri tempi e alla furia delle mareggiate.

Una vegetazione spontanea, mediterranea, le ricopre e le infiora e il mare si fa mansueto per non spaventare.

L’era del virtuale, non della virtù

L’umiltà vince sulla superbia, da un codice medievale

di Armando Polito

Ho avuto più di una volta l’occasione di sostenere, e spero di averlo dimostrato, che le parole spesso tralignano, non necessariamente nei loro derivati, proprio come succede negli umani, per cui non si può parlare di nobiltà (quella autentica, non basata sui titoli che volentieri lascio a chi si accontenta di questa miseria…) acquisita per tutta la vita  e ancor meno ereditaria, restando coinvolte in un processo di evoluzione semantica in cui il significante rimane tal quale mentre il significato finisce per rappresentare addirittura il contrario. Le gradazioni di questo processo sono praticamente infinite e legate alla nostra storia, di cui l’uso della lingua è parte integrante e forse primaria. In senso lato si parla di uso metaforico del linguaggio e va subito detto che in sua assenza non esisterebbe neppure la poesia, quella autentica, che è probabilmente l’espressione più alta delle nostre sinapsi neuronali. Da questo punto di vista i collegamenti ipertestuali che, sia pure limitatamente alla ricorrenza di una o più voci, qualsiasi programma di ricerca è in grado, in modo più o meno sofisticato, di fornire rappresentano, almeno fino ad ora, per fortuna,  solo un’imitazione fulminea ma primitiva e  rozza del nostro potenziale cerebrale, per cui qualsiasi computer rimane ancora un cretino, per quanto velocissimo.

Si tratta, comunque, di uno strumento prezioso, ormai insostituibile,  e qualsiasi professionista o il semplice curioso se ne facessero a meno resterebbero tagliati fuori, pure per la rapidità temporale oggi richiesta, da qualsiasi processo produttivo, concreto o astratto, vittime di una nuova forma di analfabetismo. Io stesso per scrivere queste righe non sto certo usando una mitica olivetti 32 e non le invierò al sito utilizzando il normale (per quanto ancora?) servizio postale e la redazione per decidere se pubblicarle o no non entrerà mai in contatto con un pezzo di carta…

Prima ancora che la nostra specie fosse in grado di comprendere la complessa realtà che la circondava e che, guidata solo dalla buona fede, si mettesse volta per volta d’accordo sulla sua interpretazione, è apparsa (anzi, questa l’abbiamo fatta apparire tutta noi) un’altra realtà, quella virtuale.

La voce virtuale è dal latino medioevale virtuàle(m)=potenziale, accusativo di virtuàlis, forma aggettivale del classico virtus [dal suo accusativo virtùte(m) il nostro virtù], e questo da vir=uomo. Qualsiasi vocabolario di latino per virtus registra, a scalare, questi significati: carattere, capacità, bravura, eccellenza, valore, coraggio, perfezione morale. Proprio quest’ultimo significato consente di comprendere come gli antichi dessero ai precedenti, senza equivoci, una valenza positiva. Infatti, di per sé il carattere può essere buono o pessimo (ma ancora oggi quando si dice uomo di carattere non credo che ci si riferisca ad un opportunista e cambiabandiera), la capacità, la bravura, l’eccellenza, il valore e lo stesso coraggio non sono certo doti positive se applicate solo al proprio tornaconto. Non a caso virtus è da vir, compendiandone l’essenza più nobile.

Tuttavia i processi degradanti di cui parlavo all’inizio e che sembrano esclusivo frutto della nostra epoca spesso hanno un’origine antica. Già in epoca medioevale, infatti, virtus, pur conservando il significato di virtù (al plurale quello di miracoli ma anche di diritti, privilegi), non solo in molte glosse ma anche in parecchi testi, per dir così, ufficiali, assume quello di pura forza fisica o di violenza. Due soli esempi:  Se qualcuno commette con violenza adulterio con una ragazza di buona famiglia…1; Se in verità il ladro abbia sottratto questo con violenza da una chiesa…2

Si direbbe che il ricordo della parentela etimologica tra vir=uomo, vis=forza, violenza e virus=veleno a tratti riaffiori coinvolgendo l’innocente virtus.

Dei suoi derivati il classico virtuòsus ha conservato la connotazione morale positiva che continua nell’italiano virtuoso, e lo stesso può dirsi per il citato medioevale virtuàlis  che si riferisce solo alla facoltà astratta, alla potenzialità, indipendentemente dal suo incarnarsi concreto e tanto meno da una valutazione di carattere morale.

Per quanto ancora il nostro virtù resterà immune dal significato negativo già assunto, come s’è visto, nel passato ? Non sono in grado di prevederlo (comunque, non sono ottimista…),  posso solo affermare che virtuale già comincia a manifestare, secondo me, preoccupanti segnali di spostamento dal significato neutro con cui è nato, se si tiene nel dovuto conto il rischio che esso ci faccia perdere il senso e la voglia di conoscere la realtà, schiavi di un’epoca dilaniata dalla contraddizione (apparente solo se non si considera la logica che la sottende: quella del profitto a tutti i costi) tra l’immagine (per giunta sostitutiva, dunque, in un certo senso, astratta) e una morale basata sul materiale e sul concreto o sul mezzo per ottenerli (fortuna che non tutte le coscienze si possono comprare…): il denaro.

E questo rischio si può correre anche quando le intenzioni, magari, sono in assoluta buona fede3 e la realtà virtuale non viene sfruttata per realizzare un videogico,  per la ricostruzione tridimensionale e interattiva di un tempio andato perduto, per simulare un volo o un intervento  chirurgico o gli effetti di un terremoto su un edificio costruito con certi criteri  o le presunte fasi di un omicidio,  per realizzare un dvd che consenta a tutti la fruizione indiretta di un bene quando quella diretta, ammesso che fosse possibile, ne comporterebbe prima il deterioramento e poi la scomparsa (per esempio, le pitture della Grotta dei cervi), ma nell’allestimento, addirittura, di un museo.  Mi chiedo, a tal proposito (purtroppo è solo uno dei tanti esempi che potrei fare) se l’impatto educativo del MAV (Museo Archeologico Virtuale) di Ercolano sia pari a quello, indiscutibile, della sua spettacolarità o, senza mettere in campo campanilismi che scientificamente non hanno senso (e poi, io sono nato a Manduria e vivo a Nardò…), non sarebbe stato meglio spendere quanto si è speso (e non si tratta certo di spiccioli, tenendo conto anche della costosa manutenzione richiesta da attrezzature ipertecnologiche4) per mettere in sicurezza almeno le parti più traballanti di Pompei?

Avevo appena finito di pensarlo quando Nerino mi ha riferito di una strana telefonata…

*Ti hanno appena telefonato dal MAV di Ercolano.

 

** Ma v..!!!… e la voce non era virtuale…

_________

1 Si quis cum ingenua puella per virtutem moechatus fuerit…(Lex Salica, tit. 14, § 15).

2 Si vero per virtutem hoc raptor de Ecclesia abstulerit…(Lex Alamannorum, tit. 5,  2).

3 Contrariamente a quanto succede per alcune amicizie virtuali nate in rete e conclusesi sul tavolo di un obitorio.

4 http://www.radiocrc.com/blog/economia/mav-ercolano-i-lavoratori-lanciano-lsos-20065

La Madonna del SS. Rosario e la confraternita di Salve

di Giuseppe Candido

L’esistenza della confraternita è documentata nel 1711, come si evince dai verbali redatti dal Vicario Capitolare Tommaso De Rossi. Nello stesso periodo, precisamente nel 1715, è documentata la commissione della statua lignea della Vergine del Rosario a spese della confraternita, sotto l’arcipretura di Don Andrea Tommaso Lecci.

La statua è opera dello scultore napoletano Nicola Fumo. Alla confraternita del SS. Rosario fu riconosciuto lo scopo esclusivo o prevalente di culto con

Il delfino e la mezzaluna (quarta parte)

di Armando Polito

Per dovere di completezza va ricordato anche uno sfruttamento “laico” del delfino che compare in molte marche tipografiche dei secoli XVI-XVII, che qui distinguo in due gruppi a seconda della loro composizione riportandone solo alcuni esemplari:

1)  La Fortuna: una donna in mare è sorretta da un delfino e tiene con le mani una vela gonfiata dal vento.

2) Delfino avvinghiato ad un’ancora.

Il primo, destinato anche a restare il più famoso, ad adottare questa marca, conservata poi tal quale dal figlio Paolo, fu Aldo Manuzio.

Il lettore ricorderà che nella nota 10 della terza parte avevo lasciato in sospeso la questione dell’accostamento fatto dal Piccinelli tra il delfino e l’ancora. È giunto il momento di dire come effettivamente stanno le cose. Tutto nasce dall’incontro tra Aldo Manuzio (1449-1515) ed Erasmo da Rotterdam (1466/1469-1536) il quale nei suoi Adagia pubblicati da Aldo nel 1508,  dopo aver riportato la testimonianza di Gellio relativa ad Augusto da me citata nella stessa nota 10,  trae una prima conclusione: Che il medesimo detto (lo spèude bradèos che Gellio ci ha tramandato esser caro ad Augusto) sia piaciuto a Tito Vespasiano si deduce facilmente dalle sue antichissime monete, una delle quali d’argento mi mostrò Aldo Manuzio uomo benemerito di ogni antichità, moneta di fattura antica e chiaramente romana, che diceva essergli stata mandata in dono da Pietro Bembo, patrizio veneto, giovane non solo erudito tra i primi ma anche diligentissimo investigatore di antichità letterarie. La moneta era fatta così: da una parte presenta il volto di Tito Vespasiano con un’iscrizione, dall’altra un’ancora la cui parte centrale o timone è abbracciata da un delfino avviluppatovi intorno. Che poi questo simbolo null’altro voglia significare che il detto spèude bradèos di Augusto ne offrono indizio le testimonianze dei geroglifici24.

Dopo essersi dilungato sul valore simbolico dei geroglifici ed aver ricordato certe rappresentazioni egizie di serpenti avviluppati e con la coda in bocca da interpretare come il trascorrere ciclico del tempo, Erasmo così continua: In primo luogo il cerchio, poi l’ancora la cui parte centrale il delfino abbraccia col suo corpo avviluppato; il cerchio poiché non è delimitato da nessun confine, allude all’eternità del tempo; l’ancora, poiché tiene ferma, lega a sé e blocca la nave, indica la lentezza. Il delfino, del quale nessun animale è più veloce o più pericoloso per l’impeto, esprime l’idea della velocità. Tutto questo, se sapete cogliere le connessioni, darà origine  ad un motto di questo tipo: aèi spèude bradèos, cioé semper festina lente (affrettati sempre lentamente)25.

Poi, dopo aver sciolto l’apparente contraddittorietà dell’ossimoro, così conclude:  E così questo motto spèude bradèos appare partito fin dagli stessi misteri dell’antica filosofia, per cui fu avocato a sé da due dei più lodati imperatori, cosicché all’uno funse da proverbio, all’altro da stemma. Ora ha trovato in Aldo Manuzio il suo terzo erede26.

In tutto ciò, secondo me, l’unica cosa certa è l’esistenza della moneta di Tito Vespasiano (79-81 d. C.) di cui parla Erasmo.

Con il delfino e l’ancora nel verso, a quanto ne so, furono coniati  un aureo (in basso)

e diversi denarii e molto probabilmente, con un pizzico di fortuna,  tra quelli di seguito riportati uno corrisponderà proprio a quello mostrato ad Erasmo.

Tutto il resto mi pare un’abile operazione di marketing ante litteram per il lancio della marca editoriale Aldo Manuzio, perché il dato iniziale (Gellio) non fa una piega, è forzato, invece, il trasferimento di quel dato a Tito Vespasiano  e perciò, quanto meno, molto discutibili  tutte le ipotesi interpretative connesse da quello derivate.

C’è pure da osservare che nella monetazione romana il delfino, l’ancora, il tridente di Nettuno appaiono da soli o associati come elementi, per lo più,  di una rappresentazione celebrativa di una vittoria navale o di una semplice competenza nello stesso settore, collocata di regola nel verso, anche se alcuni di loro in qualche caso sono presenti nel dritto. Le immagini che seguono, disposte in ordine cronologico per meglio seguire l’evoluzione del fenomeno,  vogliono provare quanto appena asserito:

1) 

asse (209-208 a. C.). Nel dritto testa laureata di Giano, nel rovescio prua di nave con ancora e legenda ROMA. Qui l’ancora appare come un semplice accessorio della nave.

2)

denario di Sesto Giulio Cesare (129 a. C.). Nel dritto testa di Roma a destra, con elmo attico alato; a sinistra verso il basso  un’ancora a destra verso il basso il simbolo dei sedici assi.  Nel rovescio Venere, su biga in movimento verso destra, tiene le redini con la sinistra e una frusta con la destra mentre alle sue spalle Cupido  la incorona; legenda: SEX  IULI  CAISAR  ROMA.

3) 

denario di Varrone e Pompeo Magno (49 a. C.) per il quale vedi la moneta successiva. Nel dritto testa di Iuppiter terminalis con legenda VARRO PRO Q. Nel verso uno scettro tra un delfino e un’aquila, con legenda MAGN PRO COS.

4)

denario (44-43 a. C.) di Nasidio, generale navale di Pompeo Magno la cui testa, il tridente ed il delfino compaiono nel dritto con leggenda NEPTUNI. Nel verso quattro triremi disposte in combattimento, con leggenda Q.NASIDIUS.  La legenda precedente sottintende filius sicché l’intero nesso significa figlio di Nettuno.Se ai nostri tempi c’è ancora chi è disposto a sborsare somme ingenti per esibire titolo nobiliare o, ancor meglio, un diploma o una laurea, perché meravigliarsi se nell’antica Roma c’era chi pretendeva di avere addirittura origine divina? Ecco cosa scrive, però Plinio più di un secolo dopo (Naturalis historia, IX, 55) su questo personaggio:  Siculo bello, ambulante in litore Augusto, piscis e mari ad pedes eius exsiliit; quo argumento vetes respondere, Neptunum patrem adoptante tum sibi Sexto Pompeio (tanta erat navalis rei gloria), sub pedibus Caesaris futuros qui maria tempore illo tenerent (Durante la guerra di Sicilia, mentre Augusto passeggiava sulla spiaggia un pesce saltò dal mare ai suoi piedi; in base all’accaduto gli indovini dichiararono che, poiché Sesto Pompeo si era adottato come padre Nettuno, tanta era la gloria della vittoria navale, sarebbero finiti ai piedi di Cesare  coloro che in quel tempo dominavano i mari).

5)

quinario di Marco Giunio Bruto (43-42 a. C.). Nel dritto testa della Libertà con legenda LEIBERTAS. Nel rovescio ancora e punta di prua di nave in posizione incrociata.

6)

denario di Pompeo Magno (42-40 a. C.). Nel dritto testa di Nettuno con un tridente in spalla e legenda MAG PIVS IMP ITER. Nel rovescio trofeo navale con corazza, elmo con tridente, prua di nave a sinistra, aplustre a destra. Sotto due mostri marini (Scilla e Cariddi) e un’ancora come sostegno; legenda: PRAEF CLAS ET [ORAE  MAR IT EX S C].

7)

asse (data incerta ma comunque posteriore al 31 a. C.) di M. Agrippa la cui testa appare nel dritto con la corona navalis o rostrata, onorificenza concessagli da Augusto per la vittoria ad Azio (31 a. C.) contro la flotta di Antonio; legenda: M. AGRIPPA L. F. COS. III. Nel rovescio Nettuno si volge a destra reggendo il tridente con la sinistra e tenendo nella destra un piccolo delfino; legenda: S C.

Dagli esempi addotti si direbbe che il delfino, l’ancora e il tridente esprimano significati politico-religiosi più che morali.

Ed è un caso che tutti e tre (il delfino avvinto al tridente), compaiano in un galerus  (sorta di piccolo scudo per il quale è stata avanzata anche l’ipotesi di una funzione votiva) rinvenuto il 10 gennaio 1767 a Pompei nella Scuola dei gladiatori (divenuta nel mondo, con il recente crollo, il simbolo della seconda rovina della città…) e custodito nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli?

Non sapremo mai, comunque, se l’idea di sfruttare il delfino e l’ancora vespasianei con l’aggiunta del motto festìna lente balenò prima nella mente di Aldo oppure in quella di Erasmo.  Forse ci giunsero di comune accordo dopo una serie di incontri aziendali…e non è da escludersi che ci sia stato pure lo zampino del Bembo, che faceva parte, con Erasmo,  dell’Accademia Aldina fondata dal Manuzio nel 1494. Sulla questione c’è da dire, infine, che nella marca tipografica del Manuzio mai compare il motto in questione che fu solo citato da Aldo nella dedica della sua edizione del 1498 delle opere latine di Angelo Poliziano.

Certo è che il delfino e l’ancora (in alcuni casi con la presenza del motto) continuarono ad essere usati da tanti altri tipografi…

Il motto della marca di Ruffinelli (mediato dal Manuzio) fu adottato, forse in modo più appropriato, anche dall’editore Bartolomeo Sermartelli (attivo a Firenze dal 1571al 1630): infatti lì è una tartaruga che in mare sorregge con il guscio una vela spiegata al vento recante un giglio araldico  (in basso le marche del 1609-1625 e del 1571-1630):

Molto originale, perché esula dai due schemi e ripropone il mito di Arione, è la marca di Johannes Oporinus risalente al 1558:

E poteva mancare nel genere letterario degli emblemata cioè di quelle opere,  che tanto successo ebbero a partire dal XVI secolo, di carattere moraleggiante, sostanzialmente costituite da tavole il cui titolo in latino era un motto ed il cui testo in versi, pure essi latini, commentava l’immagine centrale? Un solo esempio per tutti, proprio quello che si riallaccia strettamente a quanto poco prima è stato riportato sul Manuzio. Dagli Emblemata di Jean-Jacques Boissard usciti nel 1584 riproduco e commento la tavola n. 56.

Il titolo Nec temere nec segniter (Nè troppo presto né troppo tardi) esprime lo stesso concetto del Festina lente. In basso due distici elegiaci:  Dum rem suscipies quamcumque gerendam/consilium hinc mulier suggeret, inde senex./Coepta morae impatiens festina, ait, impiger. At tu/lente, inquit, propera, tardus hic, illa levis (Mentre intraprenderai qualsiasi cosa da fare, una donna da una parte, un vecchio dall’altra ti suggeriranno un consiglio. Dice questi lento:  – Ma tu affrettati lentamente! -. Dice quella leggera: – Svelto, impaziente dell’indugio, affretta il lavoro cominciato! -).

(continua)

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24 Iam vero dictum idem Tito Vespasiano placuisse, ex antiquissimis illius numismatis facile colligitur: quorum unum Aldus Manutius, vir de omni antiquitate praeclare meritus, spectandum exhibuit argenteum, veteris, planeque Romanae scalpturae, quod sibi dono missum  aiebat a Petro Bembo, patritio veneto, iuvene cum inter primos erudito, tum omnis literariae antiquitatis  diligentissimo pervestigatore. Numismatis character erat huiusmodi: altera ex parte faciem Titi Vespasiani cum inscriptione praefert, ex altera anchoram,cuius medium ceu temonem Delphin obvolutus complectitur. Id autem symboli nihil aliud sibi velle, quam illud Augusti Caesaris dictum spèude bradèos, indicio sunt  monimenta literarum hieroglyphicarum.

25 Primo loco circulus, deinde anchora, quam mediam delphinus obtorto corpore circumplectitur: circulus  quoniam nullum finitur termino, sempiternum innuit tempus; anchora, quoniam navim remoratur, et alligat, sistitque, tarditatem indicat. Delphinus, quod hoc nullum animal celerius, aut impetu perniciore, velocitatem exprimit; quae, si scite connectas, efficiente huiusmodi sententiam aèi speude bradèos, cioè semper festina lente.

26 Itaque dictum hoc spèude bradèos, ex ipsis usque priscae philosophiae mysteriis profectum apparet, unde adscitum est a duobus omnium laudatissimis imperatoribus, ita ut alteri adagionis esset locus, alteri insignium vice. Nunc vero in Aldum Manutium Romanum, ceu tertium heredem, devenit.

PER LE ALTRE PARTI:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/11/il-delfino-e-la-mezzaluna-prima-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/12/il-delfino-e-la-mezzaluna-seconda-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/14/il-delfino-e-la-mezzaluna-terza-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/27/il-delfino-e-la-mezzaluna-quinta-ed-ultima-parte/

Vedi pure: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/30/il-delfino-stizzoso-dellantico-stemma-di-terra-dotranto/

 

Dillo con un fiore, ma fai attenzione!

di Michele Stursi

È capitato, capita e capiterà in secula seculorum di regalare dei fiori nelle occasioni speciali, quando si vuole condividere una gioia con qualcuno o si vuole convincere qualcuno/qualcuna d’avere dinanzi la persona giusta, il principe azzurro o la principessa sul pisello. Difatti un bel mazzo di fiori è una soluzione rapida e sempre efficace, un pensiero elegante, sobrio e mai scontato a cui si ricorre soprattutto quando non si vuole rischiare di fare brutta figura. Con dei bei fiori colorati e profumati, possibilmente di stagione, si va sempre sul sicuro, non si rischia mai di sbagliare (a meno che non siano crisantemi!) o di essere fraintesi.

Su questo siamo tutti d’accordo, anche coloro che non amano i fiori o sono allergici al polline, dovranno infatti, con un po’ di onestà intellettuale, ammettere il potere misterioso che si cela dietro questi … organi riproduttivi. Ops, l’ho detto! È più forte di me, nonostante tutta la buona volontà non riesco a pensare ai fiori diversamente. È questo il rischio che si corre quando si studiano le scienze biologiche: rimanere poi intrappolati in una forma mentis che ti fa vedere le cose che ti circondano con un occhio diverso dagli altri. Non saprei dire se questo è un bene o un male, però in un certo senso mi spiace non riuscire a non pensare a degli organi riproduttivi nel porgere dei fiori a qualcuno e non riuscire a trattenere il sorriso quando l’altro li annusa e compiaciuto ringrazia. Come si fa a non vedere le cose per come sono?

Eppure la struttura di un fiore si studia sin dalle scuole elementari, dove con molta pazienza e professionalità la maestra seziona un piccolo fiorellino e con la bacchetta ci indica il pistillo, ovvero l’organo femminile composto da una base slargata detta ovario, e gli stami, organi maschili formati dai filamenti e dalle antere dove è contenuto il polline. E infine senza arrossire, ci mancherebbe pure, arriva a spiegare all’alunno esterrefatto come avviene l’impollinazione, ovvero come il polline della parte maschile fecondi quella femminile per dare vita ai frutti.

La storiella la conosciamo tutti, eppure nessuno ci fa mai caso quando sceglie di comprare dal fioraio degli organi riproduttivi da regalare alla propria amata o al proprio amato. Forse perché sappiamo che come minimo ci rimarrebbe male! Difatti non è nelle intenzioni di chi regala un fiore offrire “un apparato complesso e composto da schemi riproduttori”, piuttosto del fiore scegliamo e apprezziamo il profumo, il colore, il significato che negli anni gli è stato assegnato. Se così non fosse qualcuno domani potrebbe andare dal macellaio e farsi incartare e infiocchettare testicoli e ovaie come pensiero romantico per l’anniversario di matrimonio o per una dichiarazione d’amore (non fatelo!). Quantomeno verremmo guardati male, se non dichiarati del tutto fuori senno!

Come uscirne fuori? Ovviamente io non ho rinunciato, e mai lo farò, alla bellezza e all’eleganza dei fiori, pertanto ogni volta che li regalo sono poi costretto a tirar fuori la storiella della maestra, quantomeno per giustificare quel risolino sfacciato che puntuale mi si ripresenta sulle labbra. Fare il sapientone non funziona sempre, vi avverto, dipende se la persona che si ha di fronte è in grado o meno di vederci anche con gli occhi dell’intelligenza. Male che vada sarete fraintesi e porterete a casa l’ennesimo ceffone.

Un vino bianco, possente, maturo e fatto tutto nel cuore delle terre del primitivo

di Pino de Luca

Il gorgo impetuoso che ci conduce a percorrere le strade del Grande Salento, a breve  potrà finalmente placarsi.

In giro per andare a trovare i tesori che si celano in decine di Aziende con produzioni enologiche è entusiasmante ma faticoso.

Non amo il banale, provo a non subire l’influenza di costo, nome o dei premi di una bottiglia.

A volte vi racconto vini di gran fama a volte vini sconosciuti (che magari dopo qualche mese assurgono all’interesse collettivo…).

A volte di grandi aziende, a volte di perline incastonate in territori tanto minuscoli quanto preziosi.

Lasciato Salice Salentino dritti verso Manduria, si prosegue: Sava e poi Lizzano.

Obiettivo dichiarato: provare a fendere, almeno un po’, il velo di false credenze e luoghi comuni con il quale superficialità, semplificazione ed ignoranza coprono la realtà.

“I vini bianchi devono essere freschi, leggeri, magari frizzantini …”

“I vini bianchi vanno bevuti giovani, non devono maturare …”

“Al sud, al sud i vini bianchi non li sanno (ho udito anche “sappiamo”) fare …”

Sentito dire tante volte da provar nausea. Ma è vero? Per sempre, per tutto e per tutti?

Non è semplice arrivarci nel groviglio di viuzze che s’attorcigliano tra via Galilei, Via Colonna e via 4 Novembre, ma alla fine al Largo vicino alla Chiesa si giunge.

Milleuna, azienda che ha scelto di fare vini buoni. Di perseverare nelle coltivazioni proprie della zona: alberello e senza irrigazione, vigneti vetusti e

Per una storia della Fiera di San Nicola a Salve

Interno della chiesa di San Nicola Magno a Salve

di Giuseppe Candido

Il 18 luglio 1886 si riuniva il Consiglio Comunale. Durante quella seduta il consesso cittadino dell’epoca approvava la seguente deliberazione avente per oggetto: “Istituzione di una Fiera sotto il titolo di San Nicola”.

La deliberazione ha questo tenore: “Il Presidente si fa dovere esprimere al Consiglio Comunale, che quasi ogni comune ha una fiera annuale di animali ed altre per la comodità di poter fare degli affari nel proprio Comune ed anche per scambievole interesse dei Comuni vicini. Opinerebbe quindi istituire in questo Comune Capoluogo una fiera sotto il titolo di San Nicola e in quel tempo che il Consiglio crede più opportuno ed in epoca da non esserci altre fiere vicine. Trova che tale fiera non riuscirà discola a niuno, stante che nella

Libri/ Stagioni mediane (Pensieri multipli lungo una litoranea salentina)

Da Marina Serra a Leuca

alla ricerca dell’io perduto

di Francesco Greco

Frammenti di un’identità mediterranea lacerata, sparsi nell’aria untuosa di scirocco. Il puzzle della memoria magno-greca scomposto in mille tessere.

Nel mezzo del cammin di nostra vita, nella “terra di mezzo” dove la tramontana sagoma i fianchi delle montagne albanesi e svela l’isola greca di Fanos. Fra mediani di spinta, oscuri e faticatori, e politici mediani, parassiti attaccati all’auto blu e a tutti i benefit castali impudici più che mai, retaggio di un feudalesimo destrutturato.

Nella bufera di una recessione globale, che dal 2009 riscrive i confini del mondo e l’animo degli uomini, oltre alla loro quotidianità, la lettura del reale di un imprenditore di successo incuriosisce, intriga la sua password. La offre Alfredo De Giuseppe in “Stagioni mediane” (Pensieri multipli lungo una litoranea salentina), Minuto d’Arco editore, Tricase, pp. 130, € 10.

E dunque, sebbene la giovinezza pare infinita – almeno per bamboccioni e sfigati – giunge il giorno di un bilancio, pubblico e privato.

E se il viaggio più faticoso è quello che si compie dentro se stessi, quando ci si avventura nel sottosuolo, il labirinto, gli inferi danteschi, l’inconscio, se con lo stupore del bambino in noi si riesce a portare in superficie un diario di bordo disincantato e folle, comporre un affresco dai colori schizzati come nell’action painting (quelli che vediamo sulle fiancate delle littorine quando scivolano felpate fra ulivi e muri a secco), allora la mission è compiuta.

De Giuseppe si mette in discussione. Non ha formule alchemiche particolari da offrire, è la sua sensibilità di artista a tutto tondo che gli consente di penetrare nella “selva oscura”, il suo navigare in mare aperto, pronto a tutte le contaminazioni possibili: politiche, esistenziali, estetiche, e comunque a porre in chiave dialettica i postulati della sua formazione culturale. Ne esce un libro ricco di spunti e di poesia, di pensieri e di input. Vagando in luoghi particolari (i locali fra Marina Serra e Leuca tra maggio e giugno, quando si preparano alla nuova stagione), e sintonizzandosi con la loro “anima” segreta, lo scrittore (che ha dato prova di sé anche come poeta e cineasta) riesce a cogliere e dilatare gli echi dei suoi passi nudi.

Le pennellate sociologhe e antropologiche sono rapide quanto sapide, l’occhio e l’orecchio attenti. E dove noi vediamo un cameriere annoiato, sottopagato, lo scrittore intravede storie, osserva i tic di tipi curiosi, i loro destini piegati amari, i sogni infranti, le contaminazioni (l’uomo del Nord che apre un locale fra Torre Nasparo e Scalamasciu, scala di maggio, il “Blu Pub”). In certi passaggi riecheggia la pietas dolente di Ettore Mo nel suk di Kabul o ai bordi delle risaie di Saigon, in altri il furore iconoclasta di Pasolini (“Noi siamo dei privilegiati… Quelle popolazioni non volevano continuare ad accettare la sottomissione della povertà”, “Le religioni tendevano ad ostacolare qualsiasi scoperta che mettesse in discussione i dogmi della loro fede”, “…dopo il 1989 la nuova storia dell’umanità era già scritta: bastava saperla leggere”). Ma anche l’Arbasino che nel suo “viaggio” anni Settanta colse l’Italia in rapida trasformazione (e il Salento oggi lo è), come il Piovene che nel dopoguerra scannerizzò un paese ricco d’inconsapevole bellezza, di passato e di umanità, che poi sarebbe sfociato nel “fantastico trentennio”.

A “Lido Piscina” (invenzione di un disoccupato che per non emigrare si incuneò fra gli scogli morbidi), col “mare a due metri, la luna davanti e nessuno intorno (…). Puoi stare qualche minuto a sentire la risacca… amplificando oltremodo i tuoi pensieri atei (…). Senti nell’attimo di una risacca ripetuta di aver compreso il tuo tempo, quello che verrà e quello che potrebbe essere”. Curioso lo scontro fra vecchio e nuovo: una presentatrice tv ha scambiato la Serra per l’Eden e porta in tribunale i ragazzi che al “Jamao” tirano tardi nelle sere d’estate ascoltando musica. Ovviamente perde. Bello lo sdoganamento del termine “mediano”, che forse lo scrittore proietta su se stesso: lavoro tanto, anche per gli altri, gloria poca. Furino (Juventus) e Lodetti (Milan), Pelagalli (Atalanta) e Gregori (Bologna), Bedin (Inter) e Mascetti (Verona).

E’ poco il vetriolo sui politici mediani: “topolini della casta, che ottengono privilegi per loro e la ristretta cerchia di amici e famigliari… figli del monopolio televisivo… l’immagine conta molto, ancora più lo stravolgimento del significato delle parole”.

Ma dove il libro ha uno scarto lirico è nel diario parallelo della ragazza bolognese, che lavora, e guadagna bene, nella pubblicità, che sugli stessi topoi dello scrittore passa vacanze solitarie: la sua vita è ferma in una palude, cerca qualcosa, forse un uomo che valga la pena, forse ha fretta di diventare madre: “Sarei ancora in grado di essere moglie e poi mamma?”, “Forse sono qui a cercare qualcosa che ancora non so, indefinito totem della mia personale felicità”. Come noi aborigeni, del resto…

Burocrazia più resistente del ferro

 

di Rocco Boccadamo

Batti il ferro finché è caldo”, si è soliti dire con specifico riferimento a fabbri, maniscalchi e altri artigiani che lavorano il metallo: trattandolo quando è appena uscito dalla fucina, ovvero mentre è ancora rovente, è più agevole modellarlo, ottenere, in altri termini, i risultati voluti.

Fosse così anche per la struttura della macchina burocratica della pubblica amministrazione, si starebbe tutti meglio, si assisterebbe a risposte e ad esiti ben diversi dagli attuali.

Purtroppo, in tale ambito, è impresa dura, anzi durissima, ancor che si batta, tanto a caldo quanto a freddo e senza sosta alcuna.

Il “cisternale” di Vitigliano (Santa Cesarea Terme) tra degrado e abbandono

di Marco Cavalera

Le origini di Vitigliano (frazione di Santa Cesarea Terme) risalgono alla fase ellenistica dell’età messapica (2400-2300 anni fa), quando il suo territorio gravitava intorno all’importante città fortificata di Vaste, situata a 1,5 km in direzione Nord-Ovest.

Vitigliano si trova lungo l’antica strada che da Vaste conduceva a Castro, che in età imperiale e tardo antica rivestiva un importante ruolo di approdo di riferimento per la rete di insediamenti rurali sparsi nell’immediato entroterra.

Il tracciato viario lambiva la sommità di una collina dove, a seguito di indagini topografiche condotte dall’Università di Pau et des Pays de l’Adour (Francia) – coadiuvata dal Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università di Lecce – sono state rinvenute tracce di frequentazione di età tardo romana, attestate dalla presenza di numerosissimi frammenti di ceramica, sparsi in un’area estesa circa 1 ettaro e mezzo.

I reperti raccolti sono riferibili a recipienti in ceramica comune, a manufatti da mensa, lucerne e anfore da trasporto di produzione africana, anfore di provenienza greco-orientale ed egiziana e macine in pietra lavica[1].

L’insieme dei materiali rinvenuti permettono di datare l’insediamento tra il III e il VI secolo d.C.[2]

Ai piedi della medesima collina, nella periferia nord-occidentale del paese – pochi metri a nord dell’incrocio tra la via Extramurale Nord e via Cazzanoci – si nota una vecchia e arrugginita inferriata che delimita una cisterna monumentale (localmente nota come “cisternale”). La struttura, scavata nel banco di roccia fino ad una profondità compresa tra i 4,30 metrie i 4,45 metri,

Così oggi faccio la mia parte…

di Armando Polito

* Vorrai dire, in senso teatrale, partaccia. Oltretutto, pensi che non se ne accorgano che ti sei messo a riciclare pure le vignette cambiando solo i fumetti?

La nostra esistenza si gioca tutta, anzi dovrebbe essere giocata, in consapevole sospensione tra gli opposti: anzitutto ad un estremo la limitatezza della nostra natura di animali (a questo destino, però, non sfuggono neppure le pietre…), all’altro una misteriosa tensione (per chi sa e sente di dover tendersi…) all’infinito. Ne risulta che questa nostra sospensione in concreto si riduce ad un compromesso perenne tra istanze formalmente riconosciute a livello  universale (o quasi…) e i conti che volta per volta dobbiamo pur fare con situazioni contingenti. Quando però quel compromesso, con scivolamento preferenziale verso il finito,  diventa qualcosa di scontato e normale e una regola seguita dalla maggioranza, gli effetti in campo politico e sociale sono devastanti e il nostro destino è segnato se, come mi pare stia succedendo adesso, non ce ne rendiamo nemmeno conto.

Le due parole opposte dalle quali partirò sono tutto e parte (anche se l’opposto di tutto sarebbe niente, alla fine si vedrà come il prevalere della parte ci stia portando verso l’annichilimento). Come sempre succede, ad ognuna di loro può essere attribuito un numero enorme di significati e la contrapposizione può incarnarsi tra l’infinito e il finito, tra la nostra galassia e l’universo, tra il nostro corpo e un suo organo, tra l’insieme di cellule che lo compongono e la singola cellula, tra la singola cellula e i vari pezzi che la formano, tra ogni suo singolo pezzo che, a sua volta, probabilmente sarà costituito da altri pezzi, e così via. È come se anche gli elementi finiti conservassero in sé il ricordo dell’infinito [dal latino infinìtu(m), composto da in privativo e finìtum, participio passato di finìre, a sua volta da finis=confine] e anche i più piccoli fossero partecipi [dal latino partìcipe(m), composto da pars/partis=parte e càpere=prendere (sarò tautologico, ma non trovo altro termine più adatto)] della sua sconfinata [da s-privativo (dal latino ex)+confinare, da confine, a sua voltadal latino confìne(m)=confinànte(m) composto da cum=insieme e finis=confine; altra tautologia…] grandezza.

Tutto, invece, è, forse (pure l’etimologia sembra risentire del mistero che la voce racchiude in sé…) da un latino *tuttu(m), variante di totu(m)=tutto intero, con geminazione intensiva o da un *tuctu(m) nato per incrocio con cunctu(m)=tutto insieme.

Com’era naturale che accadesse anche i derivati conservano le particolarità delineate.

Ne riporterò solo i più significativi, limitandomi ai sostantivi e agli aggettivi sostantivati:

per PARTE: partaccia, partecipazione, appartenenza, partenza,  particella, participio, particola, particolare, particolarismo, particolarità, particolarizzazione, particolato, partigiano, partita, partito,  partitocrazia, partitura o spartito, partizione, spartizione, partner (deformazione del francese parcener, dal francese  antico parçonier, dal latino medievale partionàrium, dal classico pars), party (dal francese partie=partita, nel senso di divertimento), appartamento (dallo spagnolo apartamiento, da apartarse=appartarsi), compartimento, dipartimento, parzialità, parcella, etc. etc…

per TUTTO: totale, totalitarismo, totalità, totalizzatore, tuttologo.

Il lettore avrà notato che, mentre la prima serie potrebbe continuare a lungo, la seconda si conclude con un punto fermo. Si potrebbe sospettare che lo abbia fatto ad arte. Può anche darsi che abbia dimenticato una o più voci (sarei grato a chi me le segnalasse) ma in assoluta buona fede non posso fare altro per il momento che giungere alla desolante conclusione che anche nel linguaggio il concetto di parte prevale in modo schiacciante su quello di tutto.

Ancor più desolante è la constatazione che tutti i vocaboli sottolineati nell’uno o nell’altro elenco si riferiscono, almeno teoricamente (e in qualche caso su interpretazione… di parte, vedi partigiano), ad un valore negativo, ma non pochi di loro sono sulla buona, si fa per dire, strada…

Per il primo elenco, trascurando partaccia, particolarismopartitocrazia e parzialità, non posso non far notare come partito, da strumento fondamentale della democrazia, sia diventato quello che è sotto gli occhi di tutti, proprio a causa dell’assenza di quella nobile tensione di cui parlavo all’inizio, finendo per conferire un significato negativo anche a voci in origine innocenti come spartizione, parcella (penso a certi emolumenti corrisposti con denaro pubblico per consulenze, a volte ridicole, prestate o, addirittura mai prestate…) e, chi l’avrebbe detto?, appartamento

Nel secondo, trascurando totalitarismo, totalizzatore mi evoca immediatamente il mondo, per lo più poco pulito, delle scommesse(avrei pure da dire qualcosa su lotterie, gratta e vinci e simili…) e per tuttologo non resisto alla tentazione  di affermare che colui che crede di sapere tutto è il portatore, si fa per dire, sano della più pericolosa forma di ignoranza, frutto anche questa di una difettosa tensione verso l’avvicinamento, magari illusorio, alla verità che non può prescindere, mai, dall’umiltà del dubbio….

Avrà ragione il mio gatto?

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1 Con totalizzatore sono connessi totip [da tot(alizzatore) ip(pico] e totocalcio [da tot(alizzatore del) calcio, con aggiunta di –o– eufonico]; da totocalcio, poi, potenza della pedata!…, è stato estratto toto– primo componente di parecchie voci, all’inizio di uso giornalistico, che hanno a che fare con le previsioni: totoelezioni, totosanremo (qui la potenza del calcio ha finito per annientare anche un santo…), etc. etc.

Il delfino e la mezzaluna (terza parte)

di Armando Polito

Non c’è da meravigliarsi, inoltre,  se le prerogative di salvatore del delfino, (che diventa metafora di vìrtù divine e dell’uomo (in riferimento a quest’ultimo, come spesso succede nella simbologia di ogni tempo, anche di vizi) e di salvatrice dell’ancora (che nella forma ricorda, oltretutto, la croce che, però, all’inizio non venne usata in quanto all’epoca era il principale strumento di tortura e di esecuzione capitale) siano state fatte proprie anche dalla religione cristiana fin dai primi tempi del suo avvento. Oltretutto il delfino è un pesce e, com’è noto proprio il pesce costituisce il simbolo originario di questa religione perché la parola greca ιχθúς, che significa, appunto, pesce è anche acronimo di Ιεσοúς Κριστòσ Θεοú Υιòς Σωτήρ (Gesù Cristo figlio di Dio salvatore). I graffiti che seguono furono tracciati a Roma sulla via Ardeatina nella catacomba di Domitilla (nel primo secolo vissero due Domitille, una moglie, l’altra nipote del console Flavio Clemente, quest’ultima venerata come martire nel IV secolo). E sorprende che l’ancora, anche se attribuirle una precisa datazione è pressoché impossibile, compaia, sia pure avviluppata da un delfino, nelle monete di Tito Flavio Vespasiano, cioé di un appartenente, più o meno coevo, alla stessa gens, cosa di cui si parlerà in seguito.

Fondamentale, per chi voglia accostarsi all’argomento con particolare riferimento ai motti che in epoca successiva accompagnarono il delfino, è Mondo simbolico formato di imprese scelte, spiegate, et illustrate con sentenze , ed erudizioni Sacre, e Profane di Filippo Picinelli, Vigone, Milano, 1680 (presente nella biblioteca A. Vergari di Nardò; l’immagine sottostante si riferisce ad un’edizione del 1653).

L’intero libro VI è dedicato ai pesci e il suo XVII capitolo (pagg. 321-324) al delfino. Mi limiterò a citare fedelmente, anche nella punteggiatura oggi discutibile, col mio commento nelle relative

MA’

ph Woodi Forlano

di Stefano Manca

Dallo specchietto retrovisore capisci l’esito di un esame clinico. È da lì che vedi tua madre avvicinarsi al parcheggio con il sorriso di chi ha appena parlato col medico e si è cucito addosso la gioia. Finisce che anche tu ringrazi quel Dio che non vedi e non credi, lo stesso Dio che sta pregando lei, in silenzio, su quel sedile accanto a te che pochissime donne hanno mai occupato, per impacciate timidezze di gioventù che mandavano all’aria incontri da una notte e via, ed oggi lo benedici, quell’impaccio di allora che ti fece selezionare e scartare, come San Pietro sulla porta del Paradiso che dice “tu sì, tu no”, con addosso una maglietta “staff”.

Ma oggi è un’altra storia ancora. Su quel sedile c’è tua madre e con lei ti lasci alle spalle semafori e suoni e proseguite verso casa in coerente silenzio, visto che di quelle inconsapevoli preghiere condivise non parlerete mai, mentre la clinica è ormai lontana e non si vede più da nessuno specchietto.

Proverbi agricoli salentini tra gennaio e aprile

Saggezza contadina

LU DITTERIU

Il tempo, i mesi e le stagioni

di Piero Vinsper

L’agricoltura è stata sempre la forza trainante del nostro Salento. Si coltivavano l’ulivo, la vite, gli agrumi, gli ortaggi, il cotone, il tabacco, i cereali e via discorrendo. Qualsiasi tipo di coltura si adattava bene a questa terra, dotata di un clima abbastanza mite. Si esportava l’olio, il vino, la patata galatina, la cicoria galatina, il pomodoro galatina. Ogni pezzetto di terreno era coltivato e sfruttato dai nostri contadini; non vedevi, come puoi vedere tutt’oggi, vaste aree incolte e masserie dirute. Ogni zolla era dissodata anche tra i sassi, con il sudore dei contadini che scorreva lento lento tra le infinite rughe dei loro volti bruciati dal sole.

Erano i nostri contadini che dettavano i tempi della coltivazione, della preparazione dei semenzai, della semina e dei raccolti. Erano loro che, forti della loro esperienza, stabilivano se un terreno fosse idoneo a questa o a quell’altra coltura. Erano dei veri e propri “dottori in agraria” o, come li definisco io, i “filosofi della terra”.

Certo, non ci hanno lasciato scritto alcun trattato, ma ci hanno trasmesso, in eredità, la loro esperienza e ci hanno tramandato, di generazione in generazione, una miriade di dittèri, di proverbi, che manifestano la loro grandissima competenza in materia.

Scennaru siccu massaru riccu (Gennaio secco massaro ricco)

Se il mese di gennaio è secco e asciutto, cioè privo di piogge, il proprietario del terreno è quasi sicuro di un abbondante raccolto. Infatti, se il terreno è secco e asciutto, le piante non vegetano e non crescono in altezza, ma affondano le loro radici nella terra succhiando tutti gli umori e immagazzinandoli per il loro sviluppo durante i mesi successivi. D’altra parte si sa che la pioggia e l’umidità producono insetti e parassiti che danneggiano le piante. Se questi parassiti non si sviluppano nel mese di gennaio per lo spirare

Sant’Isidoro, Salento. Niente Viagra, qui si mangiano i chiavatoni!

di Tommaso Esposito

Stamattina al mercato dei frutti di mare a Sant’Isidoro.
Sul banco tra le vongole, le fasolare, le cozze pelose e quelle tarantine ce n’è una zuppiera ripiena a disposizione dei clienti che ne prendono e ne mangiano liberamente con un po’ di limone.
Che son questi?
Pete de capra. Chiavatoni. Assaggiali son buoni!”
Piede di capra? Chiavatoni?
“Si, chiavatoni.”
“Son mussoli di scoglio” mi sussurra qualcuno all’orecchio.
Una rapida istantanea carrellata su net con l’iPhone e ne so di più.

“Mollusco allo stato vivo, pescato a mano o con attrezzi strascicanti lungo il litorale costiero e scoglioso.
Vien detto anche Arca Noae perchè ha la conchiglia con le valve ruvide di forma bizzarra che ricorda le imbarcazioni primitive.
Si presenta bruno con striature bianco – rossastre. Ha sapore delicato, di mare.
La pesca del “mussolo” avviene solamente a mano tra le rocce degli scogli

Dalla “Questione” alla “Tragedia meridionale”

da http://economia.tuttogratis.it/

di Giuseppe Spedicato

Continuiamo a chiamarla “Questione meridionale” ma altro non è che una tragedia che sembra non avere fine, per decenni dimenticata da tutti, finanche dagli stessi meridionali. Nel lontano passato la tragedia veniva rappresentata, ma non era uno spettacolo come lo intendiamo oggi, era un rito collettivo della pòlis, tanto che avveniva in un luogo pubblico ad essa consacrato. La rappresentazione aveva il fine di comprendere le ragioni della tragedia e di esorcizzare il male che l’aveva generata. Noi non rappresentiamo le nostre tragedie, non abbiamo neanche spazi dove rappresentarle, né le capacità di esorcizzare il male che le ha generate. Sembriamo impotenti di fronte alle avversità.

Da noi vi è una paurosa diaspora di giovani, da noi due giovani su tre non trovano lavoro e quando lo trovano è quasi sempre precario, ma a chi e dove raccontiamo questa tragedia? Anzi a chi e dove raccontano questa tragedia le singole famiglie? Da noi la tragedia non diviene mai un fatto collettivo, resta sempre un fatto privato della singola famiglia isolata dalle altre. Lo Svimez ci dice che la situazione peggiorerà nei prossimi anni, cioè ci avvicineremo sempre di più verso standard da Paese del Terzo Mondo, ma a chi interessa ciò? Dove e con chi ne parliamo? E soprattutto, ne vogliamo parlare?

Il Sud è già un territorio sottosviluppato e deindustrializzato dove la classe media sta scomparendo, inoltre si allontana sempre di più dal resto del Paese. In buona sostanza stiamo andando a fondo. In questo scenario inoltre, le mafie possono elaborare una strategia aggressiva e finire per controllare del tutto l’economia ed il territorio meridionale. Se vogliamo cambiare il nostro destino è indispensabile rappresentare e rappresentarci il nostro dramma con un rito collettivo. Dobbiamo capire come siamo arrivati a questo punto e trovare le soluzioni per uscirne. Ineludibile è il passaggio ad una nuova politica di sviluppo (intesa non solo come crescita economica ma soprattutto come progresso sociale e culturale), per il Meridione e per l’intera Italia. Tale politica comporta il doverci confrontare su quale sviluppo vogliamo per noi e per il nostro territorio.

Per Amartya Sen (in “Lo sviluppo è libertà”), premio Nobel 1988 per l’economia, lo sviluppo deve essere inteso come un processo di espansione delle libertà reali di cui godono gli esseri umani, nella sfera privata come in quella sociale e politica. Di conseguenza la sfida dello sviluppo consiste nel soddisfare i bisogni primari, ma anche nell’eliminare i vari ostacoli che impediscono all’individuo l’opportunità e la capacità di agire secondo ragione e di costruire la vita che preferisce. Questa libertà di agire è limitata e vincolata dai percorsi che ci impone il sistema (percorsi economici, politici, sociali) pertanto, la libertà individuale deve essere intesa come un impegno sociale. Non ci può essere progresso se le capacità, la voglia di fare e le speranze degli individui, di tutti gli individui, non vengono riconosciute o negate del tutto.

Nel Meridione la libertà di agire dell’individuo viene negata in tanti modi. Uno è attraverso la regolamentazione delle opportunità lavorative: limitarne la disponibilità a quelle controllabili da clientele politiche e corporazioni, farle divenire una concessione del principe di turno e attraverso la loro precarizzazione. Un altro è il controllo dell’informazione. Un altro metodo è impedire la mobilità sociale, cioè impedire che ruoli strategici vengano occupati da spiriti liberi. Un altro è negare anche la speranza del cambiamento. Pertanto, la condizione  indispensabile per avere vero sviluppo è quella di dotarsi di un sistema democratico partecipativo. La democrazia deve essere un rito collettivo, non è sufficiente il diritto di voto. Deve essere sempre un rito collettivo, anche quando si decide di realizzare una modesta opera in una piccola città. Ma lo deve essere soprattutto quando lo sviluppo sembra chiedere rinunce a diritti consolidati o la scomparsa di un retaggio culturale. In questi casi è in gioco un modo di vivere di un popolo e queste decisioni non possono spettare ad un piccolo club di politici ed esperti. Queste decisioni devono essere discusse con tutta la comunità coinvolta.

[1] Pubblicato su “Il Paese nuovo” il 8 maggio 2012

Il delfino e la mezzaluna (seconda parte)

di Armando Polito

Oggi il delfino è conosciuto per la straordinaria intelligenza che biologi ed etologi gli attribuiscono, oltre che per la sua dedizione (ma è la conferma di un pensiero antico) nei confronti dell’uomo (e qui, secondo me,  sarebbe opportuno che il delizioso cetaceo diventasse anche un po’ furbo, ma questo è un modo di ragionare tipicamente umano…).

Chi non conosce la favola di Arione e il delfino? La cito dalla fonte diretta che ce l’ha tramandata: Erodoto (V secolo a. C.). Lo storico greco nel secondo capitolo del primo libro delle Storie così scrive: Periandro, figlio di Cipselo, fu colui che comunicò a Trasibulo la risposta dell’oracolo e fu re di Corinto. Qui si narra, e gli abitanti di Lesbo lo confermano, che fu testimone di un grandissimo prodigio: l’arrivo a Tenaro di Arione Metimneo seduto su un delfino. Arione era un citaredo tra i migliori del suo tempo e per primo aveva inventato, denominato ed esposto in corinto il ditirambo1. Si narra che costui, dopo essere rimasto a lungo presso Periandro, fu preso dalla voglia di navigare alla volta dell’Italia e della Sicilia. Soddisfatto il suo desiderio e dopo aver guadagnato molto denaro volle ritornare a Corinto. Dovendo partire da Taranto poiché si fidava solo di quelli di Corinto noleggiò un equipaggio tutto costituito da marinai corinzi. Questi, però, quando furono in alto mare, tramarono di impadronirsi del suo denaro scaraventandolo fuori dalla nave. Arione se ne accorse e, pur di avre salva la vita, offrì loro tutto quello che aveva. I marinai per tutta risposta gli consigliarono di suicidarsi lì se voleva essere sepolto in terra o di saltare subito in mare. Arione chiese di soddisfare l’ultimo desiderio: cantare, vestito di ogni suo ornamento, sul ponte della nave; fatto ciò, si sarebbe suicidato. I marinai, desiderosi di ascoltare un simile campione di canto, passarono dappa poppa al centro della nave. Arione, pomposamente abbigliato, prese la cetra e, stando sul ponte della nave, modulò quel canto che si chiama ortio2 e terminato il canto si buttò in mare con tutti i suoi ornamenti. I marinai proseguirono la navigazione verso Corinto, mentre Arione venne preso sul dorso da un delfino e trasportato a Tenaro. Qui una volta a terra se ne andò con le stesse vesti a Corinto dove, appena giunto, raccontò quanto gli era successo. Ma Periandro non gli credette; perciò fece sorvegliare da uomini di sua fiducia l’ordine che gli aveva dato di non uscire e convocò i marinai ai quali chiese se avevano notizia di Arione. Risposero che sano e salvo se ne andava in giro per l’Italia e che l’avevano lasciato in perfetta salute a Taranto. A quel punto comparve Arione con lo stesso abito che indossava quando si era gettato in mare e i marinai dovettero confessare il loro tentativo di impossessarsi dei suoi averi eliminandolo. Questo fatto lo raccontano a Corinto e a Lesbo, a

Pedalare

ph Woodi Forlano
di Stefano Manca
Ieri mi sono fatto sostituire il copertone della bicicletta. Quando sono andato a ritirarla non era ancora pronta. Mentre mi dava una controllata ai freni, quell’uomo mi raccontava che in questo periodo tutti rimettono a nuovo la bici. La differenza rispetto agli anni passati – mi dice preoccupato – è che prima ad andare da lui erano solo gli amanti della passeggiata sulle due ruote. Adesso invece molti padri di famiglia pedalano perché non possono permettersi di pagare l’assicurazione auto. Certe testimonianze valgono più di una tabella istat e di cento editoriali griffati messi insieme.

Libri al rogo

di Gianni Ferraris

Il 10 maggio 1930 fu una data importante che ci ricorda  come si possa voler fare scempio di civiltà. I nazisti, proprio in quel giorno, iniziarono a mandare al rogo i libri degli autori ebrei. Questo avvenne fino al 1945. Non è assolutamente un caso isolato, i regimi dittatoriali e le religioni fondamentaliste da sempre hanno osteggiato la cultura. Il fascismo incarcerava e mandava al confino gli intellettuali che non piacevano al regime, il nazismo bruciava libri, nel Cile di Pinochet i roghi erano all’ordine del giorno. In questo caso una vulgata popolare mette in evidenza l’ottusa idiozia degli esecutori materiali di ordini criminali. La leggenda narra infatti di roghi di libri che parlavano del cubismo perché i militari pensavano inneggiassero alla Cuba castrista. Magari è solo una favola,  plausibile però se pensiamo a come gli esecutori materiali di tali scempi debbano essere idioti ed incolti, i servi scemi. Qualcosa di simile accadeva anche nell’Unione Sovietica. A riprova dell’incultura che guida queste menti ricordiamo che ai giorni nostri tal Raffaele Speranzon, assessore (leghista ovviamente) alla (ahinoi) cultura della provincia di Venezia, abbia stabilito di eliminare dalle biblioteche i libri “indesiderati” (sic). Si tratta di autori del calibro di: Evangelisti, Carlotto, Scarpa, Balestrini, Cacucci, Moresco, Tassinari, Carla Benedetti, Wu Ming, Raimo, Dazieri, Lipperini, Philopat, Manfedi, Grimaldi, Moresco. Rei, secondo l’assessore, di avere firmato un appello a favore del brigatista Cesare Battisti. Il fatto che si lascino sugli scaffali altri autori (Mein Kampf e via dicendo) la dice lunga sulla capacità intellettiva del figuro.

“Non concordo con quanto tu dici, ma sono pronto a dare la vita perché tu possa continuare a dirlo” è una delle regole auree delle democrazia. A qualcuno non piace molto, evidentemente.

Alcune date dei roghi:

Anno 212 a.c. : rogo dei libri in Cina.

Anno  292        : Diocleziano ordina di bruciare i libri di Alchimia.

Anno  367        : Atanasio, Vescovo di Alessandria, ordina il rogo degli scritti

“inaccettabili”.

XV secolo         : Gerolamo Savonarola ordina il “Falò delle Vanità”, facendo bruciare i

libri ritenuti immorali.

XVI secolo        : Distruzione dei libri Maya ad opera degli spagnoli.

Distruzione da parte degli andalusi dei libri scritti in arabo che non

fossero di Medicina, filosofia e storia.

Anno 1966        : John Lennon dice   “i Beatles sono più famosi di Cristo” e integralisti

cristiani bruciarono i suoi dischi.

Anno 1976        : Menèndez (dell’esercito golpista argentino) ordina un grande rogo

di libri fra i quali: Proust, Garcia Marquez, Cortazar, Neruda, Vargas

Lljosa, Saint Exupery, Galeano. Lo fece “perché l’inganno non si

tramandi ai nostri figli”.

Inoltre si è protratto fino al 1966 lo scempio dei libri all’indice imposto dalla Chiesa Cattolica. Questa idiozia venne fermata da Paolo VI. Fra i proibiti: Il Decamerone, Machiavelli, Rabelais, Erasmo da Rotterdam, Copernico, Bacone, Balzac, Kant, Hume, Dumas, Flaubert, Hobbes, Rousseau, Alfieri, Beccaria, Savonarola, Gentile, Guicciardini e molti altri.

Ed è di pochi anni fa la distruzione da parte dei Talebani delle enormi statue del Buddha scolpite su un monte in Afghanistan, a nulla valsero gli appelli provenienti dal mondo intero.

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