Il gesuita salentino Sabatino De Ursis (1575-1620), straordinaria figura di scienziato missionario in Cina

ECHI LEONARDESCHI NELLA CINA DEI MING: L’IDRAULICA OCCIDENTALE DEL MISSIONARIO SALENTINO SABATINO DE URSIS

 

di Francesco Frisullo e Paolo Vincenti

Un articolo del 1963 di Ladislao Reti, Francesco di Giorgio Martini’s Treatise on Engineering and Its Plagiarists, colpisce la nostra attenzione, perché in questo contributo l’autore adombra il fatto che fra i vari plagiari di Francesco di Giorgio ci sia lo stesso Leonardo da Vinci[1].

Reti si occupa di un’opera del grande architetto Francesco di Giorgio Martini (1439-1501), fino ad allora poco nota o comunque poco valorizzata. Si intitola Trattati, in sette libri.  “L’importante codice appartenuto a Cosimo I, contiene una versione della «seconda stesura dei Trattati di Francesco (cc.5-112), la non poco significativa traduzione del De Architectura di Vitruvio (cc.103-192) e, infine, un complesso di disegni di macchine belliche e fortificazioni militari (cc. 193-244)»”[2]. Il Trattato di Architettura di Francesco, scrive Reti, “è preservato in parecchi manoscritti originali: una prima bozza nella Biblioteca Comunale a Siena (No.S.IV.4); una versione elaborata è nella Biblioteca Nazionale di Firenze (No.II.I.141), la presente copia dedicata a Federico de Montefeltro, Duca di Urbino, è nella ex libreria del Duca di Genova (Codice Saluzziano No. 148, pergamena). C’è anche un manoscritto incompleto che una volta apparteneva a Leonardo da Vinci. Quest’ultimo è di particolare interesse perché Leonardo ha aggiunto note e schizzi ai margini; il manoscritto è ora nella libreria Laurenziana a Firenze (Codice Mediceo Laurenziano 361, precedentemente Ashb. 361 [293])”[3]. Il Trattato fu pubblicato per la prima volta nel 1841 da Carlo Promis, usando il Codice Saluzzo, sebbene con l’omissione del settimo libro, quello certamente più interessante per i suoi disegni meccanici.[4]

Questo libro omesso da Promis venne pubblicato solo nel 1917 da Girolamo Mancini.[5] “Il Codice Laurenziano fu parzialmente pubblicato dal Mancini che lo assegnò all’Alberti. Si tratta di disegni che illustrano un sistema di chiuse con bacini navigabili «da condurre navigli su per la fiumara», uno schema di acquedotto e, in alto a destra, una fontana eroniana a tempo. In testa alla colonna destra, una delle annotazioni autografe di Leonardo: «Dell’acqua nel vasca»”[6]. Reti lamenta l’assenza di Francesco di Giorgio in importanti opere di tecnologia di titolati studiosi, nonostante la sua incontrovertibile importanza. In effetti, anche quei pochi storici che lo hanno citato, non hanno comunque rilevato le coincidenze che Reti elenca. “Sebbene il Trattato sia stato scritto intorno al 1475, tra i disegni possiamo osservare molti dispositivi meccanici generalmente attribuiti a epoche successive”.

Fra questi, un gran numero di pompe e dispositivi di sollevamento dell’acqua. “La domanda sorge spontanea sul perché i manoscritti e apografi di Francesco di Giorgio, contenenti una tale ricchezza di informazioni, rimasero inosservati per così tanti secoli. E la risposta è che non lo hanno fatto: le idee importanti che descrive sono state prese in prestito, senza citarlo, dagli scrittori del sedicesimo secolo. Alcuni degli autori l’accreditarono alla trasmissione del patrimonio di Leonardo nel campo dell’ingegneria, e seguendo i suggerimenti di Duhem, Beck e Usher siamo d’accordo nel nominare gli ingegneri della scuola Italiana: Ramelli, Besson, Zonca, Veranzio, Castelli, Strada,  ecc., che hanno trovato un’ampia ispirazione negli scritti di Francesco di Giorgio”[7].

Fra questi autori che si sono ispirati a Francesco di Giorgio, in alcuni casi indirettamente, in altri copiando spudoratamente, a detta di Reti, salta alla nostra attenzione Zonca. “Vittorio Zonca (1568-1602), fu meno attento. Il suo libro ha goduto di grande popolarità e ha attraversato quattro edizioni, l’ultima nel 1656”[8]. Scrive Reti: “molti dei disegni di Zonca furono incorporati, senza citare Francesco, in un altro compendio popolare, il Theatrum Machinarum di Heinrich Zeising. Questo libro è stato ripubblicato diverse volte dalla sua prima edizione nel 1607-14 fino alla sua ultima nel 1708. Confrontando le ultime sette figure del trattato di Zonca, tutte tranne una che illustrano i dispositivi di sollevamento dell’acqua, con i corrispondenti disegni di Francesco di Giorgio, troviamo che le tavole di Zonca sono riproduzioni dirette dei disegni di Francesco”[9], e riporta i disegni a testimonianza dei prestiti. “È forse assieme a quelle dello Strada l’opera a stampa tra fine Cinquecento e inizi Seicento che maggiormente risente dell’influenza delle macchine di Francesco di Giorgio. Uscita postuma, ebbe, come attestano le ristampe (quattro nel Seicento), notevole diffusione e influenzò molti autori europei, Zeising per esempio”[10].

A p.294, Reti scrive: “La tradizione tecnologica iniziata con Francesco di Giorgio ha trovato la sua strada, e molto presto, in Estremo Oriente. Sabbatinus de Ursis (1575-1620) fu assistente del famoso missionario gesuita Matteo Ricci (1562-1610), che aprì la Cina al Cristianesimo e in seguito divenne Superiore in quella chiesa. Tra gli altri importanti contributi, de Ursis (conosciuto in Cina come Hsiung San-Pa) redasse nel 1612 un libro illustrato con il titolo Machines of the West. Qui la tecnologia Europea contemporanea è stata presentata ai tecnici cinesi.

Per il suo compendio de Ursis utilizzò inter alia i libri di Besson, Veranzio, Ramelli e Zonca. Sfortunatamente, i disegnatori cinesi, che non conoscevano la prospettiva tecnologica Occidentale, non potevano copiare correttamente i disegni della macchina […]. Nel 1726 questo libro fu incorporato nella grande Enciclopedia cinese (5020 volumi). Quando alcuni studiosi europei studiarono questa monumentale opera tra il 1865 e il 1888, essi rimasero molto impressionati dalle conoscenze tecnologiche che vi trovarono. Solo più tardi si è realizzato che le sue fonti erano Europee”.

In Appendice riportiamo il disegno di Reti che illustra con uno schema ad albero i possibili plagiari di Francesco Di Giorgio. Fra questi, oltre al caso più eclatante di Leonardo,[11]proprio il salentino de Ursis. E veniamo così alla figura di questo gesuita scienziato citato dal Reti.

Sabatino de Ursis, nato in provincia di Lecce, precisamente a Ruffano[12] nel 1575, da quanto lo stesso riferisce nella sua lettera del 25 gennaio 1605 da Macao indirizzata a Bernardino Realino,[13] partito in missione in Cina, vi giunse nel 1603, esattamente a Macao, colonia portoghese.

Fu allievo di Cristoforo Griemberger, quando operava ancora nel Collegio Romano il grande matematico Cristoforo Clavio. La sua formazione inizia a Napoli, prosegue poi a Roma e a Coimbra in Portogallo, come di prassi per i gesuiti che si imbarcavano per le Indie orientali, e termina nel Collegio San Paolo di Macao, dove egli risiede dal 1603 al 1607, quando parte per Pechino.

Astronomo, matematico, geografo, architetto, versatile scienziato, giunse nel continente asiatico in seguito all’appello che Matteo Ricci rivolgeva ai suoi superiori per avere collaboratori esperti in materie scientifiche. Col Ricci collaborò negli ultimi anni della vita e del grande maceratese scrisse una biografia utilizzata ed ampliata poi da altri autori. A Pechino, dove divenne di fatto l’erede di Matteo Ricci, acquistò fama tra i mandarini come divulgatore di matematica e di idraulica. Scoppiata la persecuzione del 1616, fu espulso il 18 marzo 1617 da Pechino e costretto a riparare prima a Canton, poi a Macao, dove morì nel 1620. Scrisse, fra le altre cose, un Saggio sulla sfera armillare, un Saggio sul quadrante geometrico L’idraulica occidentale, ma importante anche il suo contributo alla riforma del calendario cinese. Egli previde l’eclisse solare del 15 dicembre 1610 e ricalcolò le coordinate di Pechino. Per questo, nel 1611, insieme al compagno spagnolo Diego Pantoja, ricevette l’incarico dall’imperatore WanLi. In tanto fervore di attività pratiche e scientifiche, mai perdette di vista la fede cristiana e insieme con essa, l’obbiettivo primario della sua missione, ossia l’evangelizzazione della Cina.  Negli ultimi anni di vita, ricopre l’insegnamento, come risulta dal Catalogo di Macao, riportato da Schutte, di “mestre dos livros sinicos, que vejo da China”.[14]  Su Sabatino de Ursis esiste una bibliografia sterminata, sui vari aspetti del suo operato scientifico, ma manca ad oggi un volume monografico sulla sua figura.

Sabatino, memore della lezione di Matteo Ricci, ben comprese l’importanza dello scambio delle conoscenze tra Oriente e Occidente, come via privilegiata per giungere alla conversione degli intellettuali cinesi prima e del popolo dopo. Il suo fu quindi un apostolato scientifico. Fra le varie sue opere, particolare importanza riveste ai fini della nostra analisi, il testo sull’Idraulica, che si presenta come un’opera originale rispetto ai precedenti lavori di Ruggeri e Ricci.  A questo testo, egli lavorò insieme ad un importante esponente dell’intellighenzia cinese nonché uno dei primi mandarini convertiti al cristianesimo, ovvero Xu Gianqui, romanizzato in “Dotto Paolo”, del quale è in corso la causa di canonizzazione insieme a quella di Ricci. Precisamente nel 1612 Sabatino detta a Xu Guangqi (1562−1633)[15], che la trascrive in cinese, “L’idraulica Occidentale / (Trattato sulle pompe idrauliche)”  Tai xi shui fa,[16]un’opera in 6 volumi su carta di bamboo che introduce per la prima volta elementi della tecnologia idraulica occidentale in Cina[17].

Il Chinese Christian Texts Database, dell’Università Cattolica di Lovanio, principale centro per gli studi sulle missioni cinesi, riporta la scheda bibliografica del libro con i suoi numerosi autori e collaboratori e le vicende editoriali del libro stesso[18].

L’opera è conservata in ARSI Jap-Sin II, 61 e la copia della Biblioteca Nazionale di Pechino, editata dal dotto Leone – Li  Zhizao ( 1565-1630 ), porta la prefazione del  Censore  Cao Zibian (1558-1634).[19]Un’altra copia è conservata presso la Biblioteca Apostolica Vaticana[20]. La prima edizione dell’opera dunque è del 1612. Come riporta la scheda in World Digital Library relativa alla copia conservata presso la National Library of China: “Tai xi shui fa (macchinari idraulici occidentali) è il primo lavoro sulla tecnologia idraulica agricola occidentale introdotta in Cina. Raccoglie l’essenza dell’ingegneria idraulica classica europea. L’autore fu Xiong Sanba (Sabatino de Ursis, 1575–1620), un missionario gesuita italiano, che dettò i testi, che furono tradotti in cinese da Xu Guangqi (1562-1633) e curati da Li Zhizao (1565-1630). Questa copia, pubblicata per la prima volta nel 1612, ha tre prefazioni all’inizio dell’opera, scritte da quattro autori Ming, una congiuntamente da Cao Zibian e Zheng Yiwei, un’altra da Peng Weicheng. La terza prefazione è del traduttore, Xu Guangqi. È incluso anche un saggio di de Ursis, intitolato Shui fa ben lun (Trattato sull’idraulica). Il nome dell’incisore è visibile anche nell’area del centro della pagina. Il libro è illustrato”[21].

Secondo le nostre conoscenze attuali, de Ursis non poteva attingere direttamente a libri sull’idraulica occidentale, né tantomeno Ricci aveva fatto richiesta di queste pubblicazioni, e inoltre gli interessi di de Ursis erano maggiormente rivolti verso testi di astronomia[22]. Fra i prefatori, Cheng Yiwei, che nel 1632 ricoprirà il ruolo di Ministro dei riti e Cancelliere; inoltre Peng Weicheng, che ne fu anche censore e correttore[23].

Nel 1626 l’Idraulica  viene inserita – insieme a  scritti di Ricci e di  altri gesuiti – nel Tianxue chu han (  La prima raccolta di scienze celesti ), compilata da Li Zhizao e Dong Shaoxin[24]. Nel 1639 viene pubblicata postuma dai suoi allievi, Nongzheng quanshu (農政全書) ), di  Xu Guangqi, un’opera sull’agricoltura all’interno della quale viene inserito il Tianxue chu han, che occupa esattamente i capitoli 19 e 20[25]. Ancora, l’opera viene inserita nella raccolta The Siku quanshu 四庫全書 “Complete books of the Four Storehouses” (Tutti i libri delle quattro sezioni della letteratura), un’opera monumentale sulla cultura cinese pubblicata nel 1782[26].

“Nella prefazione dell’Idraulica Xu volle unire le applicazioni della scienza pratica con le speculazioni teologiche, delineando due diversi atteggiamenti dei Gesuiti. Da un lato, Matteo Ricci il quale riteneva che la scienza pratica potesse risolvere i problemi di sussistenza del popolo e di fatto sostituire il Signore nella cura dei suoi figli […] Matteo Ricci era dell’avviso che, se dal punto di vista dell’agricoltura si fosse potuto migliorare la produttività, si sarebbe data una grossa mano al benessere del popolo. Sabbatino De Ursis (1575-1620) riteneva invece che soffermarsi sulla scienza pratica avrebbe distolto l’attenzione dalla salvezza dell’anima, e dunque sarebbe stato di poco aiuto per l’evangelizzazione della Cina. Xu Gunagqi chiese a Sabbatino De Ursis di partecipare alla traduzione delle tecniche idrauliche […] Xu Guangqi provò a convincere Sabatino De Ursis nei seguenti termini: Quando l’uomo è ricco, benevolenza e giustizia nascono di conseguenza, e questo è certamente un principio comune sia in Oriente sia in Occidente […]”[27]. Le fonti cinesi ci mostrano un de Ursis un po’restio a seguire la linea di Ricci, più portato all’azione missionaria  tradizionale, sì da ritenere la traduzione delle opere della scienza occidentale un diversivo rispetto al prioritario obiettivo della conversione. Tale immagine però non coincide con quella trasmessaci da Bartoli e soprattutto contrasta con quanto lo stesso Sabatino scrive nelle sue lettere dove insistenti sono le richieste per avere libri e padri esperti di Matematica, proprio come già aveva fatto Ricci[28].

Dalle stesse fonti a stampa gesuitica coeve, ricaviamo un profilo di de Ursis uomo di scienza più che di Chiesa, eccetto per il periodo antecedente all’arrivo a Pechino, quando affianca Lazzaro Cattaneo nelle prime avventure missionarie. Dalla lettera che de Ursis da Pechino scrive a P.Antonio Mascarenhas leggiamo: “nel principio che entrai in questa missione il P.Matteo Ricci mi chiamò per questa casa di Pakino. Il suo intento fu che sapendo io alcuna cosa di matematica, mi voleva introdurre nelle cose di questa scienzia […] ma come non abbiamo libri, non si può far nulla: i libri ch’abbiamo sono la Gnomica del P.Clavio, la Sfera e il suo Astrolabio. La verità è, che, come diceva, è necessario ad esso travagliare con due mani, la destra nelle cose di Dio, e la sinistra in queste cose, perché non si può far dimanco e quel che insino ad esso s’ha fatto, tutto di questo modo […] Mi raccomando a tutti, dimandando al P.Christoforo Grembergerio alcuna cosa di matematica, bella e curiosa per questi letterati della China perché sarà de grande servitio del Signore come altre volte l’ho scritto”[29].

L’avvio delle ostilità nei confronti dei gesuiti dal 1616, attaccati anche per i contenuti scientifici da loro portati, causerà un ripensamento circa l’opportunità  di continuare  nella traduzione delle opere scientifiche europee da parte dei padri. Il  provinciale Valentim de Carvalho aveva dato indicazione perché si interrompesse ogni collaborazione con i letterati cinesi e si sospendesse l’insegnamento della matematica nel collegio di Macao[30]. Ma ciò, come evidenzia Baldini, non avvenne, anche grazie a quanto scrisse de Ursis al Generale Muzio Vitteleschi dalla sua “ prigionia” a Cantone: “Forse il suo insegnamento ( matematica )  è stato reso possibile anche da una lettera di S. De Ursis al nuovo Generale, M. Vitelleschi (Canton, 2 dicembre 1617). In questa lettera (ora in ARSI, Jap.-Sin., 17, ff. 108r–109r) scrisse che i ‘più vecchi’ sacerdoti di Pechino, convinti che la matematica e la geografia erano stati strumenti preziosi per aumentare la loro credibilità con i cinesi, avevano programmato di inviare una lettera firmata da tutti loro alla residenza di Macao, dove dovrebbe essere letta a tutti i sacerdoti nel refettorio, incoraggiandoli ‘a trabalhar nesta Missao, e usar dos mejos sobredittos da Matematica, literas morais, e cosas semillantes.’ Questa mossa pubblica, apparentemente diretta a tutta la comunità, avrebbe potuto essere un tentativo di forzare il Provinciale a cambiare idea a seguito della reazione dell’assemblea”[31]. Sicché, l’insegnamento della matematica nel collegio di Macao fu quasi imposto dalla curia generalizia romana ai superiori portoghesi. Possiamo inoltre notare che de Ursis non chiede opere di idraulica ma di matematica e astronomia.

Du Shi-ran, nella sua opera[32], afferma che la strategia di Guangqi di apertura verso la scienza e la tecnologia occidentale era incentrata su tre mosse: “tradurre, assimilare e superare”[33].

Il controllo delle acque ha rivestito un ruolo importante nella storia cinese tanto che ad esso sono legati il mito del Grande diluvio e la figura di Yu il Grande (terzo millenio a.C ) a cui è attribuita la fondazione della dinastia Xia, dalla quale  prende il via la successione dinastica cinese. Yu stabilì la divisione della Cina in nove provincie e realizzò un sistema di drenaggio idrico per la regolazione delle acque[34], tanto che Yu è noto anche come il Grande regolatore delle Acque[35].

Donatella Guida ci fa capire in che contesto nasce l’opera di Idraulica. “Un concetto senza dubbio centrale nei testi confuciani che Xu aveva interiorizzato fin dall’età di 3-4 anni, prima ancora di imparare a scrivere, è il benessere del popolo: i classici delineano doveri precisi del sovrano e dei ministri, essenzialmente volti alla prosperità della comunità tutta e alla sua educazione e alle norme morali […]”[36]. Daniela Lambertini[37] scrive: “Che sorpresa ritrovare fra  le  pagine di un trattato cinese d’idraulica seicentesco le macchine del repertorio martiniano seppure  con qualche incomprensione del loro funzionamento […] De Ursis ( 1575-1620 ), [è] allievo e successore di padre Matteo Ricci e convinto sostenitore dell’importanza di dotare i soldati  della Compagnia di Gesù di conoscenze scientifiche e tecniche. Padre De Ursis, che si trovava a Macao già nel 1603, pubblicò a Pechino un trattato di idraulica, utilizzando la fonte più consueta ai suoi tempi: le macchine di tradizione martiniana”[38]. L’agricoltura rivestiva una importante funzione sociale poiché garantendo la prosperità della collettività dava legittimazione al potere del Sovrano. “Dal punto di vista filosofico, il controllo delle acque rappresenta, d’altro canto, un dato essenziale a sostegno del cosiddetto Mandato Celeste, su cui si basava la stabilità della dinastia regnante”[39]. I discepoli cattolici e confuciani rigettarono le religioni politeiste come il Taoismo e il Buddismo, poi rifinirono meglio il pensiero confuciano “attuando la cosiddetta politica di completamento del confucianesimo e correzione del Buddismo”[40]. In quest’ottica va visto l’interesse per il Cattolicesimo, lo dice espressamente Guangqi nell’Introduzione all’Idraulica del 1612, nel senso che il cattolicesimo doveva essere complementare al confucianesimo[41].

La Cigola spiega: “Ci sono quattro prefazioni, rispettivamente scritte da: Cao Yubian, Peng Weicheng, Xu Guangqi e Zheng Yiwei. Solo la prima di tre prefazione è datata 1612. La terza prefazione sui fogli 1 di juan 1–5 indica il titolo del libro, il numero di juan e i nomi degli autori (Xiong Sanba e Xu Guangqi) e del revisore (Li Zhizao). Vi sono dieci colonne per ogni mezzo folio con venti caratteri per ogni colonna e venti nel caso delle annotazioni. Il titolo del libro è riportato al centro di ogni foglio. Il numero di juan e del folio e i titoli dei capitoli sono indicati sotto la coda di pesce. Juan 1–4 si occupa dei metodi idraulici. Juan 5 dà risposte a coloro che hanno dubbi sul sistema idraulico o volevano saperne di più sul sistema. Juan 6 è costituito da illustrazioni. Quindi il testo è stato diviso in quattro parti che descrivono l’uso di acque fluviali, acque sotterranee e fonti, acqua piovana e neve e include un’appendice che copre argomenti vari. Il capitolo quattro comprende anche una sezione sulla distillazione di vari medicinali. Altrove vengono date delle spiegazioni manuali sulla fisiologia del corpo umano, un allineamento della visione rinascimentale della circolazione del sangue, i quattro temperamenti, ecc., con le loro controparti nel mondo naturale [ …]”[42]. La studiosa precisa che: “le illustrazioni di Taixi Shuifa sono organizzate in 18 figure nel Vol. 6, le prime 13 delle quali rappresentano dispositivi di sollevamento dell’acqua come. Long wei che(龙尾 车), Yu heng che (玉衡车)e Heng sheng che恒升车). In particolare le figure da 1 a 5 rappresentano chiaramente il Long wei che che era conosciuto come ‘La vite di Archimede’ o Coclea in Europa,[43] e le figure da 6 a 9 rappresentano Heng sheng che  che è conosciuto come la macchina di Ctesibius in Occidente.

Per rintracciare la fonte delle illustrazioni in Taixi Shuifa,  sono stati ricercati alcuni libri occidentali relativi alla conoscenza della macchina e abbiamo scoperto che la Vite di Archimede e la Macchina di Ctesibius erano anche incluse nel decimo libro di ‘De Architectura’ di Vitruvio nel capitolo 6: ‘La vite dell’acqua’ e nel capitolo 7: ‘La pompa dell’acqua di Ctesbius’  con illustrazioni. […] Per provare questa tesi facciamo un confronto tra le illustrazioni del Taixi Shuifa e quelle delle edizioni di Vitruvius stampata da Frà Giocondo nel 1513 e da Cesare Cesariano nel 1521. La vite di Archimede nel Taixi Shuifa è presentata per la prima volta in proiezioni ortogonali […] con pianta e elevazione, riprendendo una parte della carta di Cesariano […]”[44].

Uno dei primi libri cinesi sulla tecnologia e l’artigianato risale alla Dinastia Zhou  770–221 a.C.), ed è il “Kao Gong Ji” o “Il libro delle diverse arti”, di autore sconosciuto, ma è nel XVI –XVII secolo che si può già parlare di un primo superamento della tecnologia occidentale, come sostiene J. Needham nella nota “Questione Needham”[45]. L’introduzione della meccanica occidentale, grazie ai gesuiti, metterà in evidenza un maggiore sviluppo della tecnologia europea e introdurrà un elemento poco esplorato nella pubblicistica cinese: il disegno tecnico, o potremmo dire il disegno industriale[46]. Le illustrazione degli antichi testi cinesi mostrano prevalentemente le macchine in fase operativa, molto meno le sezioni dei singoli componenti[47].

“A differenza di Cesariano che ha presentato il dispositivo in ambiente naturalistico in cui un fiume e la sua sponda appare, Xu ha presentato la pompa a vite in un diagramma bianco, inserendolo in uno spazio asettico e astratto, con l’aggiunta di alcune didascalie. La seconda illustrazione sulla vite di Archimede […] è fortemente ispirata all’edizione di Vitruvio di Fra Giocondo datata 1513 anche se la pompa a vite è rappresentata solo con il corpo centrale. Anche in questo caso, l’impostazione è molto più semplice di quella di Fra Giocondo. Xu infatti elimina l’orizzonte e la vegetazione di fondo, lasciando semplicemente l’essenziale, e questa è la rappresentazione del flusso che è funzionale alla pompa a vite. L’acqua, tuttavia, è disegnata in un modo essenziale senza soffermarsi sul naturalismo, evitando di rappresentare le parti sommerse del dispositivo. Molto diverso è il fiume di Fra Giocondo, caratterizzato da linee sinuose, che eccedono e sommergono con grande abilità la base del dispositivo. Qui la traduzione in forme appropriate al gusto cinese del pilastro è interessante. La macchina di Archimede viene quindi studiata in modo più dettagliato nel Taixi Shuifa, perché Xu gli dedica altre tre carte […] in cui presenta una buona conoscenza delle proiezioni ortogonali che dimostrano come questo modo di disegnare cominciò a radicarsi nella Cina del diciassettesimo secolo. La macchina di Ctesibius […] ci viene presentata nel Taixi in uno spazio completamente vuoto, in una rappresentazione che riassume e sintetizza in modo quasi estremo.

Nell’edizione di Fra Giocondo il dispositivo è molto meglio finito in termini di rappresentazione e con buona cura del chiaroscuro. Per quanto riguarda l’illustrazione della vite di Archimede, in questo caso anche la parte immersa nell’acqua viene risolta con notevole abilità. Nell’illustrazione cinese Xu si sofferma di più sia sulla parte centrale che sui due sifoni, rappresentandoli in modo che sia possibile vedere all’interno, probabilmente per illustrare come funzionano. Proprio come per La vite di Archimede, Xu dedica altre tre carte alla macchina di Ctesibius […], in cui usa in un modo maturo e sicuro delle proiezioni ortogonali. Dobbiamo tenere presente che Taixi Shuifa è un volume che riprende in particolare alcuni dei testi tecnici europei italiani. Si dice che uno di loro dovrebbe essere il testo di Ramelli Le diverse et artificiose macchine di Agostino Ramelli che è inserito con numerose illustrazioni, ma da un’analisi di alcune figure del testo cinese è chiaro che Sabatino de Ursis e Xu avevano incluso nel loro lavoro illustrazioni che riflettono molto da vicino quelle di due dei più famosi autori del Rinascimento. Altre interpretazioni possono essere date al testo di Taixi Shuifa e De Architectura, che forniscono anche alcune possibili evidenze della connessione tra questi due libri. Nel vol. 1 di Taixi Shuifa, la parte di Longweiche Ji (龙  车 记) rappresenta  dettagliatamente  le componenti della vite di Archimede. Nel libro 10 di ‘De Architectura’ di Vitruvio, il capitolo 6 ‘L’acqua Vite’ è anche la descrizione della vite di Archimede”[48].

Molto complesso risulta il processo di scrittura del Taixi Shuifa, come di tutte le opere scritte dai gesuiti missionari, che viene ricostruito da Elisabetta Corsi, la quale spiega che le opere: “sono state scritte in una lingua complessa e sofisticata, nota come guanhua 官話, ovvero la lingua semivernacolare in uso già da secoli tra i membri dell’élite composta dai funzionari pubblici (guan 官) che avevano superato con successo gli ultimi gradi dell’esame di stato. Anni di intenso studio non necessariamente garantivano ai missionari la certezza di poter padroneggiare quella lingua al punto da essere in grado di impiegarla con profitto nella composizione dei testi. Ciò spiega dunque il ricorso alla rete degli adepti, cioè quei convertiti cinesi che potevano assicurare la messa in prosa dei concetti che i missionari, talvolta con il solo ausilio della memoria, poiché sprovvisti di testi di riferimento, trasmettevano loro, forse sotto dettatura, oppure attraverso appunti. Non solo la lingua rappresentò uno dei principali ostacoli all’adattamento dei missionari alla vita intellettuale cinese; la composizione dei testi dovette infatti tenere conto di norme editoriali invalse da secoli, di una comunità di lettori preparata ed esigente, di un mercato editoriale fiorente e differenziato a livello locale […] Un’ulteriore difficoltà che si riscontra nell’ermeneutica dei testi è determinata dal fatto che essi erano soggetti ad un processo di revisione non solo di carattere censorio ma anche stilistico”[49]. Sostiene la Corsi che, come riferisce il gesuita torinese Alfonso Vagnoni (1566-1640) che sarà compagno di de Ursis dal 1617, “nel Tongyou jiaoyu 童幼教育 (titolo in latino sulla prima pagina di guardia: De ludo litterario ad ducendos pueros): 遵教規凡是譯經典諸書必三次看詳方允付梓茲並鐫訂閲姓氏於後. le regole della venerabile religione [contemplano] che sia le traduzioni dei testi canonici sia qualsiasi altro libro debbano essere letti attentamente per tre volte ed emendati ogni qualvolta vi si riscontri qualcosa di sconveniente. I nomi dei revisori dovranno inoltre apparire sullo stampato”[50]. Inoltre, “date le difficoltà prosodiche della lingua cinese, i missionari dipendevano dall’aiuto di convertiti e assistenti per la messa in bello stile dei loro testi, i quali spesso venivano composti sotto dettatura (koushou 口授). È inevitabile che il processo di revisione del testo comportasse delle alterazioni di senso, talvolta forse anche molto significative. Non sempre i risultati di tali revisioni sono brillanti, poiché in alcuni testi la scrittura risulta diseguale e il periodare disadorno, come se fosse il prodotto dell’intervento di più mani”[51]. Dunque, come riferito dalla Cigola, la fonte a cui fa riferimento de Ursis è il testo di Agostino Ramelli[52].

Nel luglio 2016, il prof. Saldanha (Università di Macao) ha scoperto, nella Biblioteca Ajuda di Lisbona, un manoscritto di de Ursis. Questo manoscritto rappresenta un eccezionale ritrovamento poiché ad oggi non abbiamo gli scritti preparatori alle numerose opere dei gesuiti in Cina. Esso quindi ci permetterà di entrare nel laboratorio degli scienziati gesuiti e cogliere gli elementi di originalità e conoscere le fonti occidentali oppure cinesi di alcune di queste opere, capire quindi se quella del Nostro sia da considerarsi opera originale o mera trascrizione.

L’opera viene anche tradotta in giapponese. Tamburello scrive: “Il trattato del gesuita S. De Ursis,T’ai-hsi shui-fa, stampato a Pechino nel 1612, fu volto in kanbun da Matsushita Kenrin per un’edizione che apparve a Kyoto nel 1663, insieme ad altre opere dello stesso gesuita e di altri correligionari”[53]. Le opere sono state anche tradotte in coreano[54].

Bartoli sostiene che De Ursis è stato un uomo di scienza non solo teorico ma anche pratico e ci fornisce una dettagliata descrizione delle sue abilità, nel paragrafo intitolato “Macchine da innalzare l’acqua ammiratissime dai Cinesi”[55]. Saverio Santagata, parlando di de Ursis (dicendolo però nato a Napoli nel 1572), scrive che: “applicò l’animo a far vedere che gli altri missionari sforniti non erano di quelle Matematiche Scienze, onde si era renduto così ammirevole il già defunto[56]. Egli stesso, alle usate macchine, altre ne aggiunse, e quelle in particolare, che Idrauliche si appellano, non mai più vedute in Pechino, e perciò sommamente ammirate. La reputazione del Padre Sabatino crebbe moltissimo, quando di lì a poco in puro linguaggio mandarino stampò un Commentario Critico, Matematico, Istorico, e discoprì errori intorno alle Epoche e a’ Fasti Cinesi, aggiungendovi, tra altri trattati, il primo delle predette Macchine Idrauliche, el secondo di Gnomonica, e il terzo degli Analemmi”[57].

Ebbe de Ursis conoscenza delle acquisizioni di Leonardo, trovandosi egli in Cina? Ci aiuterà certamente a capirlo la traduzione in corso dell’Idraulica, a cura del Prof. Hans Ulrich Vogel dell’Università di Tubingen[58], raffrontandola con la nuova opera rinvenuta all’Ajuda di Lisbona. È certo però che se la fonte più accreditata di Sabatino è stato Agostino Ramelli, definito da Reti addirittura un plagiario di Leonardo, de Ursis ebbe sia pure indirettamente conoscenza degli studi leonardeschi[59]. La Cina ebbe senz’altro notevoli apporti dalla cultura araba e persiana[60]. I Rapporti con il mondo mussulmano, in epoca Song (960-1279), oltre la più nota via della seta erano segnati dalla “via del muschio”. Il commercio di questo prodotto univa il Mediterraneo e il Medio Oriente all’India, al Tibet e alla Cina[61]. Risalgono a questo periodo la traduzione delle prime opere scientifiche arabo-persiane. Il prestigio degli astronomi mussulmani si consoliderà in epoca Yuan (1279-1368), quando i mussulmani al servizio del Khan contribuirono enormemente al progresso scientifico e culturale dell’impero mongolo e della civiltà cinese, in generale operando un’originale sintesi tra la sapienza orientale e le idee provenienti dall’Occidente[62]. Molto probabilmente anche Leonardo ebbe conoscenza dei trattati arabi. Secondo la versione di Reti, molte furono le reciproche influenze fra gli scienziati europei, a partire da Francesco di Giorgio Martini, e dunque dovremmo fare un ulteriore passo avanti e dare per acquisito il fatto che Sabatino venne in contatto con gli studi di Leonardo e li assimilò, permeandoli nei suoi studi cinesi. Numerosi sono i riferimenti ai rapporti fra Leonardo e la tecnica cinese[63].

Se è così, possiamo allora affermare che attraverso Sabatino e suoi successori gesuiti missionari, gli echi leonardeschi si riverberano nella Cina dei Ming.

 

Note

[1] L. Reti, Francesco di Giorgio Martini’s Treatise on Engineering and Its Plagiarists, in «Technology and Culture», The Johns Hopkins University Press, Vol. 4, N. 3, 1963, pp. 287-298.

[2] Voce Francesco Di Giorgio Martini, in La corte il mare i mercanti la rinascita della Scienza editoria e società astrologia, magia e alchimia, Milano, Electa Editrice, Centro di Edizioni Alinari Scala, 1980, p. 157.

[3] L. Reti, op.cit., p.288. Tutte le traduzioni sono degli autori.

[4] “F. di Giorgio Martini, Trattato di Architettura Civile e Militare, edito da Carlo Promis (2 volumi, Turin, 1841)”: Ibidem.

[5] “G. Vasari, Vite cinque (Franceschi, Alberti, Franc. Di Giorgio, Signorelli, de Mercillat), annotati da Girolamo Mancini (Firenze, 1917)”: Ivi, p. 289.

[6] Voce Francesco Di Giorgio Martini in La corte il mare i mercanti la rinascita della Scienza, cit., p. 157.

[7] Ivi, p. 290.

[8] Ivi, p. 293.

[9] Ibidem.

[10] Voce Vittorio Zonca, in La corte il mare i mercanti la rinascita della Scienza, cit., p. 163.

[11] Per i rapporti fra Leonardo e Francesco Di Giorgio, si veda: F. P. di Teodoro, L’architettura idraulica negli studi di Leonardo da Vinci: fonti, tecniche costruttive e macchine da cantiere, in Architettura e tecnologia : acque, tecniche e cantieri nell’architettura rinascimentale e barocca, a cura di Claudia Conforti e Andrew Hopkins, Roma, Nuova argos, 2002, pp. 258- 277.

[12]G. Barrella, La Compagnia di Gesù nelle Puglie, 1574-1767, 1835-1940, Lecce, Tipografia Ed. Salentina, 1941, p. 81.

[13] Jap-Sin 14 II ff.192rv.-193r. ai righi 7-8.

[14] Per una bibliografia essenziale su de Ursis, si vedano:Vita del P. Carlo Spinola della Compagnia di.Giesù morto per la Santa Fede nel Giappone del p. Fabio Ambrosio Spinola dell’istessa Compagnia all’Illustriss. E Reverendiss. Signore, e Padron Colendissimo, Monsignor Prospero Spinola Digniss. Vicelegato di Bologna, In Roma e in Bologna, per Clemente Ferroni, 1628, p. 165; Dell’Historia della Compagnia di Giesu la Cina terza parte dell’Asia descritta dal P. Daniello Bartoli della medesima Compagnia, Roma, Stamperia del Varese, 1663, passim; P. Couplet, Catalogus Patrum SocietatisJesu qui post obitum S.Francisci Xaverii primo saeculo sive ab anno 1581 usque ad 1681 in Imperio Sinarum Jesu Christi fidem. Propagarunt, Paris 1686, pp. 12-13; Menologio di pie memorie d’alcuni religiosi della Compagnia di Gesù raccolte dal Padre Giuseppe Antonio Patrignani della medesima Compagnia e distribuite per quei giorni dell’anno, ne’ quali morirono. Dall’anno 1538. Fino al 1728. Tomo I, che contiene gennajo febbrajo, e marzo, Venezia, Niccolò Pezzana, 1730, pp. 51-52; H. Cordier, L’imprimerie sinoeuropéenne en Chine : bibliographie des ouvrages publiés en Chine par les européens au XVIIe et au XVIIIe siècle / par M. Henri Cordier, Parigi, Imprimerie Nationale, 1901, p. 41 e pp. 51-52; P.M.Ricci S.J., Relacao escripta pelo seu companheiro P.Sabatino De Ursis S.J. publicacao commemorativa do Terceiro Centenario da sua morte (II de maio de 1910) mandada fazer pela Missao Portoguesa de Macau, Roma, Tipografia Enrico Voghera, 1910; L.Pfister, Notices Biographiques et Bibliographiques sur les Jésuites de l’Ancienne Mission de Chine, Xangai, 1932-1934, passim, pp. 103-105; L. G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti, Vol.I, Lecce, Gaetano Campanella, 1874, p. 56; Opere storiche del P.Matteo Ricci S.I., a cura di Pietro Tacchi Venturi, Macerata, Tipografia F.Giorgetti, 1913, Volume II, p. 58; G. Barrella, I Gesuiti nel Salento Appunti di storia religiosa da documenti editi ed inediti pubblicati in occasione del III Centenario dalla morte del B. Bernardino Realino apostolo e compatrono di Lecce (1616-1916) Parte prima, Lecce, Tipografia Giurdignano,1918, pp. 71-72; Idem, La Compagnia di Gesù nelle Puglie, 1574-1767, 1835-1940, Lecce, Tipografia Ed. Salentina, 1941, p. 81; Storia  dell’introduzione del Cristianesimo in Cina scritta da Matteo Ricci S.I. nuovamente edita ampiamente commentata col sussidio di molte fonti inedite delle fonti cinesi da Pasquale M. D’Elia S.I.,Parte II, Libri IV-V, Da Nancian a Pechino (1597-1610-1611), Roma, La Libreria dello Stato,1949, p. 387; G. Ruotolo, Ugento Leuca Alessano Cenni storici e attualità, Siena Cantagalli, 1952, p.7; J.Wicki, Liste der Jesuiten-Indienfahrer:1541–1758, Münster Aschendorff, 1967, pp. 283-284; J. Dehergne S.J., Répertoire des Jésuites de Chine, de 1542 à 1800, Biblioteca Instituti Historici S.I. Volumen n.37, Roma, 1973, p. 75; J. F. Schutte, Monumenta Missionum Societas Iesu, Vol. XXXIV, Missiones Orientales, Monumenta Historica Japoniae I, Textus Catalogorum Japoniae 1549-1654, Roma, 1975, passim; Dictionary of Ming Biography 1368-1644 L.Carrington Goodrich, Editor, Chaoyng Fang, Associate Editor, Volume II, M-Z, Columbia University Press, New York and London, 1976,pp. 1331-1332; F. Iappelli, I gesuiti nel Salento 1574 -1767, in «Societas», n.4-5, 1992, p.112; U. Baldini, Saggi sulla cultura della Compagnia di Gesù (secoli XVI-XVIII), Padova, Cleup Editrice, 2000, p. 94; G. Ricciardolo, Oriente e Occidente negli scritti di Matteo Ricci, Napoli, Chirico, 2003, p.164; G. Spagnolo, Xion Sanba. Sabatino de Ursis, un gesuita salentino alla corte di Pechino, in «Il Bardo», a.XX, n.1, Copertino, dicembre 2010, p. 4; ecc.

[15]Per un’analisi complessiva della figura e dell’operato di Xu si rinvia a: Statecraft and Intellectual Renewal in the Late Ming: The Cross-Cultural Synthesis of Xu Guangqi (1562-1633), a cura di Catherine Jami, Peter Engelfriet, Gregory Blue, Leiden, Brill, 2001. Specificamente, in questo volume: A. Dudink, The image of XU Guangqi as author of christian texts ( a bibliographical appraisal), a p.100 cita L’Idraulica e Sabatino de Ursis; F. Bray, G. Metailiè, Who was the author of  the nongzheng quanshu ?, pp. 322-359, per un’analisi del “Nongzheng quanshu”; e A. Dudink, Xu  Guangqi’s carreer: an annotaded chronology, pp. 399-409, per la biografia di Xu. Su quest’ultimo aspetto si veda anche R. Stone, Scientists Fete China’s Supreme Polymath, in «Science», Vol. 318, 2 novembre 2007, p. 733.

[16] P. Couplet, Catalogus Patrum Societatis Jesu qui post obitum S.Francisci Xaverii primo saeculo sive ab anno 1581 usque ad 1681  in Imperio Sinarum Jesu Christi fidem Propagarunt  Paris 1686, pp. 12-13.

[17] M. Cigola, Y.Fang, Preliminary study of the work of Xu Guangqi in the technical knowledge in 17th century: from the perspective of drawing and representation, in IFToMM Workshop on History of Mechanism and Machine Science May 26-28 2015, St-Petersburg, Russia, p. 3

https://www.academia.edu/12604535/Preliminary_study_of_the_work_of_Xu_Guangqi_in_the_technical_knowledge_in_17th_century_from_the_perspective_of_drawing and_representation

[18] https://heron-net.be/pa_cct/index.php/Detail/objects/3273

[19] Copia digitalizzata in World Digital Library. https://www.wdl.org/en/item/13534/#q=sabatino+de+ursis.  Inoltre si vedano: A. Dudink, The Chinese Christian books of the former Beitang Library, in «Sino-Western cultural relations journal», Dept. of History, Baylor University, Waco, TX, USA, n.26, 2004, p.56; A. Chan, Chinese Books and Documents in the Jesuit Archives in Rome. A descriptive catalogue: Japonica Sinica I-IV, M.E.Sharpe, Amonk, New York, 2002, pp. 366-367 (Arsi, JAP.Sin. II, 61). “It is a manuscript made by six volumes (Jian卷) written on bamboo paper with a paper case. There is no date on, the cover bears a label with the title in Chinese and a Latin inscription: «Hydraulica | a p.Sabbathino | de Ursis, S.J»” : M. Cigola, Y.Fang,  op.cit., p. 3. Per la copia conservata presso la Biblioteca Nazionale di Francia: https://catalogue.bnf.fr/ark:/12148/cb445839431.

[20] Y. Dong, Catalogo delle opere cinesi missionarie della Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1996, che contiene 487 titoli di opere missionarie datate dal secolo XVI al secolo XVIII e comprende “documenti, manoscritti e a stampa che riguardano le attività missionarie in Cina in età moderna: testi di missionari europei, ma anche di scritti dei loro collaboratori cinesi”: p.II. Tra le opere di Sabatino, viene indicata l’Idraulica: “Ursis, Sabatthinus , de,  Tai  xi  shu fa in   Barb. Oriente 142 ( 1-2 ); R.G. Oriente. III. 227 (5)”, p. 98; “ LI Zhizao  Tian  xue  chu  han (Prima collezione delle discipline  celesti)  1 ed  a Beijing ? 1629 -1630, Barb. Oriente. 146  142-143”,  p. 116; “Nong Zheng quan Shu  Enciclopedia Agricola 1 ed a Beijing 1640  R.G. Oriente. III. 1 195 “, p. 124.

Altre copie sono conservate presso la Biblioteca di Shanghai. Si veda: A. Dudink,  The Zikawei 徐家匯 manuscript copy (1885) of Wang Zheng’s Renhui yue 仁會約 (1634) [revised, with footnotes], in «Sino-Western cultural relations journal»,  Dept. of History, Baylor University, Waco, TX, USA, n.36, 2014, pp. 14-24; Idem, The rediscovery of a seventeenth-century collection of Chinese Christian texts: The manuscript ’Tian xue ji jie’,in «Sino-Western cultural relations journal», cit., 15, 1993, pp.1-26. La Biblioteca di Shanghai sorge dove c’è stato l’ultimo collegio dei Gesuiti e dove ha insegnato il prof. Pasquale D’Elia. Shanghai ha dato anche i natali a Xu Guangqi, che è sepolto nel quartiere cattolico di Zikawei. L’insediamento gesuita di Zikawei  fu fondato nel 1847 quando il superiore gesuita, P. Claude Gotteland, ordinò a Padre Lemaitre di acquistare la proprietà a quattro miglia fuori dalla città di Shanghai adiacente al luogo di sepoltura dell’eminente studioso. Un ramo della famiglia di Xu era rimasto fedele ai cattolici per anni e aveva costruito una piccola cappella su questa proprietà in un sito chiamato appunto Zi-ka-wei (letteralmente “villaggio della famiglia Xu”). Si consultino: D. E. MungelloDrowning Girls in China Female Infanticide since 1650, Lanham, Md, Rowman & Littlefield Publishers, 2008, p.90; G. King, The Xujiahui (Zikawei) Library of Shanghai, in  «Libraries & Culture», University of Texas PressStable ,Vol. 32, n. 4, 1997, pp. 456-469.

[21] https://www.wdl.org/en/item/13534/#q=DE+URSIS+ .

[22] Come riportato da Standaert, l’arrivo di testi di idraulica, di autori come Zonca, Ramelli, ecc., risale al 1618 ed è quindi posteriore alla pubblicazione del trattato di de Ursis: N. Standaert, The transmission of Renaissance culture in seventeenth-century China, in «Renaissance Studies »Vol. 17 n.3, 2013, pp. 367-391. Sullo stesso argomento, R. André, J. Filliozat, Une bibliothèque de la Renaissance en Chine, in «Bulletin de l’Association Guillaume Budé», n.3, octobre 1953, pp.113-125; e ancora I. Iannaccone, Johann Schreck Terentius. Le scienze rinascimentali e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1998, pp. 63-64.

[23]G. Aleni, Vita del Maestro Ricci Xitai del Grande Occidente, a cura di Gianni

Criveller, Brescia, Centro Giulio Aleni, 2010, p. 167. Fra i correttori, anche Zhang Nai: T. Meynard SJ, The Jesuit Reading of Confucius The First Complete Translation of the Lunyu (1687) Published in the West, Brill Leiden, Boston, 2015, p. 43.

[24] E. Giunipero, Fede religiosa e ideali politici in Xu Guangqi alla luce della persecuzione di Nanchino, in Un cristiano alla corte dei Ming Xu Guangqi e il dialogo interculturale tra Cina e Occidente, a cura di Elisa Giunipero, Milano, Guerini e Associati, 2013, p. 167.

[25] M. Cigola, Y.Fang, Preliminary study of the work of Xu Guangqi in the technical knowledge in 17th century: from the perspective of drawing and representation, in IFToMM Workshop on History of Mechanism and Machine Science May 26-28, 2015, St-Petersburg, Russia, 2015, p. 2 https://www.academia.edu/12604535/Preliminary_study_of_the_work_of_Xu_Guangqi_in_the_technical_knowledge_in_17th_century_from_the_perspective_of_drawing_and_representation.  Inoltre si veda: L. A. Maverick, Hsü Kuang-Ch’i, a Chinese Authority on Agriculture,  in  «Agricultural History, American Historical Association», Vol. 14, n. 4, 1940, pp. 143-160.

[26] G. Bertuccioli, SABATINO DE URSIS, in Dizionario Biografico Degli Italiani, Torino, Treccani, 1991, p. 499. B. Zhang, M. Tian, Wang Zheng (1571–1644), in  Distinguished Figures in Mechanism and Machine Science Their Contributions and Legacies, Part 2, a cura di Marco Ceccarelli, Springer Science e Business Media B.V., 2010, pp. 247-260.  A p.254, il libro riporta che l’opera fu pubblicata fra il 1781 e il 1782.

Edizioni moderne del Tianxue chuhan nel 1965: Tianxue chuhan [Fondamenti di astronomia], [annotato da] Li Zhizao, Taipei, Taiwan xuesheng shuju, 6 volumi,1965; del Siku quanshu zongmu tiyao nel 1997: Siku quanshu zongmu tiyao [Catalogo generale con annotazioni della ‘Biblioteca completa dei quattro depositi’], [edizione rivista a cura di] Lu Guangming, Beijing, Zhonghua shuju, 2 volumi, 1997; del Nongzheng quanshu jiaozhu nel 1979 e 1994: Nongzheng quanshu jiaozhu  [Edizione annotata del ‘Trattato completo sull’amministrazione agricola’], [compilato da] Xu Guangqi, [a cura di] Shi Shenghan, Shanghai, Shanghai guji chubanshe, 3 volumi, 1979; Nongzheng quanshu [Trattato completo di amministrazione agricola], [compilato da] Xu Guangqi, in Zhongguo kexue jishu dianji tonghui. Nongxue juan [Raccolta di testi sulla scienza e la tecnologia cinesi. Agricoltura], [a cura di] Fan Chuyu, Zhengzhou, Henan jiaoyu chubanshe, 5 volumi,1994. Il Bertuccioli dice che l’opera Tianxue chu han ha avuto un’ulteriore ristampa in sei volumi nel 1966 a Taipei e venne poi ristampata a Shanghai nel 1843: G. Bertuccioli, Sabatino De Ursis, in op.cit., pp. 498-499.

[27] Z. Xiaohong, Le opere di carità di Xu Guangqi e il loro fondamento teologico, in Un cristiano alla corte dei Ming Xu Guangqi e il dialogo interculturale tra Cina e Occidente, a cura di Elisa Giunipero, Milano, Guerini e Associati, 2013, pp. 154-156.

[28] Si veda M. Fontana, Matteo Ricci un gesuita alla corte dei Ming, Milano, Mondadori 2005, pp. 290- 291.

[29] Arsi, Jap.-Sin., 14 ff.347v. – 348r, riportato in P. M. D’elia S.J., Galileo in Cina. Relazioni attraverso il Collegio Romano tra Galileo e i gesuiti scienziati missionari in Cina (1610-1640), Roma, Pontificia Università Gregoriana, 1947, pp. 30-31.

[30] L. M. Brockey, Journey to the East: the Jesuit mission to China, 1579-1724, Cambridge, Belknap Press of Harvard University Press, 2007, pp. 75-76.

[31] U.Baldini, The Jesuit College in Macao as a meeting point of the European, Chinese and Japanese mathematical traditions. Some remarks on the present state of research, mainly concerning sources (16th–17th centuries),  in The Jesuits, the Padroado and East Asian science (1552-1773),  a cura di Luís Saraiva e Catherine Jami, Singapore, Hackensack, NJ, World Scientific, 2008, p. 47. A p.48, nota 47, viene riportato un estratto della lettera.

[32] D. Shi-ran, La science sous les dynasties Ming et Qing :les contacts entre les civilisations chinoise et occidentale, in Regards historiques sur sciences II, n.160, 1990, Unesco, pp. 397-404.

[33] Ivi, p. 400. Nella stessa pagina fa un elenco dei gesuiti, tra cui de Ursis.

[34] M. Paolillo, Il giardino cinese: una tradizione millenaria, Milano, Guerini e Associati, 2007, p. 20. L’origine della stessa città di Pechino è connessa alla figura mitologica di Zeha “collegato al tema della regolamentazione dell’elemento acqueo”: M. Paolillo, Un ragazzo venuto da lontano. Origine, fortuna e ruolo nel simbolismo spaziale di Pechino, in La Cina e il mondo Atti dell’XI convegno dell’Associazione italiana Studi Cinesi Roma, 22- 24 Febbraio 2007, a cura di Paolo De Troia, Università La Sapienza Roma Edizioni Nuova Cultura Roma, 2010, p. 417.

[35] D. Latini, Yu il Grande: biografia di un mito Ricostruzione e interpretazione simbolica del mito delle acque debordanti, tesi di Laurea (relatore Prof. Riccardo Fracasso), Università Ca Foscari Venezia, Anno accademico 2013/2014.

[36] D. Guida, Xu Guangqi e la ricostruzione della legittimità della dinastia Ming attraverso il pensiero occidentale, in Un cristiano alla corte dei Ming, cit., p. 93. Per le edizioni moderne delle opere di Xu: Xu Guangqi zhuyi ji, Scritti vari e opere tradotte di Xu Guangqi, [compilato da] Shanghaishi Wenwu Baoguan Weiyuanhui, Shanghai, Shanghai guji chubanshe,1983; Xu Guangqi ji, Opere complete di Xu Guangqi, [edito da] Wang Chongmin, Shanghai, Shanghai guji chubanshe, 2 Voll., 1984.

[37] D. Lambertini, La fortuna delle macchine senesi nel Cinquecento, in Prima di Leonardo Cultura delle macchine a Siena nel Rinascimento, a cura di Paolo Galluzzi, Milano, Electa,1991 pp. 135-146.

[38] Ivi, p. 137.

[39] Ivi, p. 94.

[40] L.Tiangang, L’armonia religiosa sulla “Via della Seta marittima”: il dialogo tra Confucianesimo e Cristianesimo, in Uomini e religioni sulla Via della Seta, a cura di Elisa Giunipero, Milano, Guerini e Associati, 2017, p. 113.

[41] Il concetto viene rafforzato da Y. Liu, The Complexities of a New Faith: Xu Guangqi’s Acceptance of Christianity in «Journal of Religious History», Religious History Association Vol. 37, n. 2, June 2013, pp. 228 -244. Specificamente a p. 236,Yu Liu dice: “In a preface to Sabatino de Ursis (1575–1620)’s treatise Taixi Shuifa [Western Irrigation], Xu famously summarised the relationship of Christianity with his native belief as supplementing Confucianism and repudiating Buddhism (buRu yiFo).”

[42] M. Cigola, Y.Fang, op.cit., p. 3.

[43] Si veda Z. Baichun, T.Miao, Wang Zheng and the Transmission of Western Mechanical Knowledge to China, in Transformation and Transmission: Chinese Mechanical Knowledge and the Jesuit Intervention, a cura di Zhang Baichun e Jürgen Renn, Max Planck Institute for the History of Science, Berlino, 2006, p.81. Si veda anche K-H. Hsiao, H –S. Yan, Mechanisms in Ancient Chinese Books with Illustrations, Springer, 2014, dove a p.116 si dice che de Ursis introduce la vite di Archimede  e a p.118 si riportano le illustrazioni.

[44] M. Cigola, Y.Fang, op.cit., p. 3.

[45] “«Why did modern science, the mathematization of hypotheses about Nature, with all its implications for advanced technology, take its meteoric rise only in the West at the time of Galileo? … why modern science had not developed in Chinese civilization (or Indian) but only in Europe? » This question was sharpen by his realization that «between the first century B.C. and the fifteenth century A.D., Chinese civilization was much more efficient than occidental in applying human natural knowledge to practical human needs»”: J. Needham, The Grand Titration: Science and Society in East and West, Toronto, University of Toronto Press, 1969, pp. 16 e 190.

[46] E.Bautista Paz, M. Ceccarelli, J. Echávarri Otero, J. L.Muñoz Sanz, A Brief Illustrated History of Machines and Mechanisms, in «History of Mechanism and Machine Science», Volume 10,Springer, 2010, p. 20.

[47] Ivi, pp. 19-20.

[48] M. Cigola, Y.Fang, op. cit., p. 4. A proposito delle invenzioni di Archimede, si rimanda a: Z. Baichun et Al., Archimedean Mechanical Knowledge in 17th Century China, in The Genius of Archimedes – 23 Centuries of Influence on Mathematics, Science and Engineering   Proceedings of an International Conference held at Syracuse, Italy, June 8-10, 2010,  a cura di S. A. Paipetis e M. Ceccarelli, Springer  2010, pp.189-205; Z. Baichun, Mechanical Technology, in A History of Chinese Science and Technology, a cura di Yongxiang Lu, Vol.3 Springer, pp. 277-384.

[49] E. Corsi, Missionari, saperi e adattamento tra Europa e imperi non cristiani. Atti del Seminario (Macerata 14 maggio 2013), a cura di Vincenzo Lavenia e Sabina Pavone, Macerata, Edizioni Eum, 2015, pp. 78-79.

[50] Ivi, p. 81.

[51] Ivi, p. 82.

[52] Le diverse et artificiose machine del capitano Agostino Ramelli dal Pnte Della Tresia Ingegniero del Christianissimo Re di Francia e di Pollonia. nelle quali si contengono varij et industriosi movimenti, degni di grandissima speculatione, per cavarne beneficio infinito in ogni sorte d’operatione: composte in lingua Italiana et Francese a Parigi in casa dell’autore, co. privilegio del re 1588. Con riferimento allo studio della Cigola, un’altra fonte è: B. S. Hall e A. Ramelli, A Revolving Bookcase by Agostino Ramelli, in « Technology and Culture», Vol. 11, n. 3, Jul., 1970, pp. 389-400, in cui si  nomina anche de Ursis alla nota 17, p. 395. E inoltre P. JIxing, The Spread of Georgius Agricola’s De Re Metallica in Late Ming China, in  T’oung Pao, Vol. 77, Liv.1/3,  Brill, Leiden, 1991, pp. 108 -118.  Si veda inoltre L. Reti, Leonardo and Ramelli, in « Technology and Culture», The Johns Hopkins University Press,Vol. 13, n. 4, Oct.,1972, pp. 577-605.

[53] A. Tamburello, La cultura occidentale nel Giappone Tokugawa: Parte I: Gli sviluppi del nanbangaku e l’apporto attraverso la Cina, in «Il Giappone», Vol. 19, IsIAO, Roma, 1979, p. 147. Notizie biografiche su Li Zizao e Xu Guangqi, con riferimento all’Idraulica, in A. W.Hummel, Eminent Chinese Of The Ch’ing Period 1644-1912 Vol.I  The Library of Congress Washington, 1943, in cui alla voce Hsu  Kuang -ch’I, a cura di J.C. Yang, pp.316-318, si parla di de Ursis e dell’Idraulica; alla voce Li Chih- tsao, a cura di P. Y. Teh-Lu e J.C. Yang, pp. 452-454, si parla di de Ursis precisamente a p. 453; e ancora K. Hashimoto, Hsu Kuang-ch’i and Astronomical Reform:The Process of the Chinese Acceptance of Western Astronomy 1629–1635, Kansai, Japan, Kansai University Press, 1988, dove a p.16 si parla dell’Idraulica. Inoltre, sempre sull’Idraulica cinese, si veda il già citato: E.Bautista Paz, M. Ceccarelli, J. Echávarri Otero, J. L.Muñoz Sanz, A Brief Illustrated History of Machines and Mechanisms, Springer, Science + Business Media B.V., 2010, in particolare al Cap 2, Chinese Inventions and Machines On Hydraulic Machinery, pp. 26 -32. Per un’analisi storica della tecnologia sulle macchine nell’Idraulica, si rinvia a C. Rossi, F.Russo, F. Russo, Ancient Engineers’ Inventions Precursors of the Present, Springer, 2009, pp. 81-148, in particolare per la vite di Archimede (nota in Cina come “la coda del drago”), p. 101. Inoltre, P. Palmieri, Breaking the circle: the emergence of Archimedean mechanics in the late Renaissance, in « Archive for History of Exact Sciences», Vol. 62, n. 3, Springer, May 2008, pp. 301-334.

[54] Si veda: D. L. Baker, Jesuit Science through Korean Eyes, in « Journal of Korean Studies Contents», Vol. 4, 1982-83, University of Washington Center for Korea Studies, 1982, pp. 207-239 (viene citato de Ursis alla nota 11, p. 210 ); Idem, The Seeds of Modernity: Jesuit Natural Philosophy in Confucian Korea,  in « Pacific Rim Report », n. 48, August 2007.

Sull’impatto delle macchine di de Ursis si veda  S. Kink, MA, Beistand für die Himmlischen Kräfte: Pumpentechnik, in Sabatino de Ursis’ Taixi shuifa 泰西水法 (Hydromethoden des Großen Westens, 1612), https://www.georgius-agricola.de/downloads.html L’articolo presenta vari estratti dell’Idraulica che risulta così essere non un semplice trattato ma una summa della fisica aristotelica appresa da de Ursis nel Collegio di Coimbra, soprattutto con riferimento all’effettivo uso che delle macchine idrauliche viene fatto, per esempio in Giappone.

[55] D. Bartoli, Delle Opere del Padre Daniello Bartoli della Compagnia di Gesù Volume XVII Della Cina Libro III, dalla Tipografia di Giacinto Marietti, Torino 1825, pp.15-18; nell’edizione originale secentesca, pp. 545ss. Recentemente è stata pubblicata una nuova edizione dell’opera di Bartoli: D. Bartoli, L’Asia Istoria della Compagnia di Gesù, a cura di Umberto Grassi Introduzione a cura di Adriano Prosperi Contributi di Elisa Frei, Torino, Einaudi, 2019.

[56] Si riferisce a Padre Giovanni Andrea Giordano, anch’egli matematico e missionario in Cina che morì a Nanchino nel 1613.

[57] S. Santagata, Istoria della Compagnia di Gesù appartenente al Regno di Napoli, descritta dal P. Saverio Santagata della medesima Compagnia dedicata a sua Eminenza Il Signor Cardinale Antonino Sersale, Arcivescovo di Napoli, Parte Quarta, Napoli, Stamperia Vincenzo Mazzola, 1757, pp. 177-178.

[58] Il progetto“Translating Western Science, Technology and Medicine to Late Ming China: Convergences and Divergences in the Light of the Kunyu gezhi 坤輿格致 (Investigations of the Earth’s Interior, 1640) and Taixi shuifa 泰西水法 (Hydromethods of the Great West, 1612),” dal 2018 al 2021, finanziato dalla German Research Foundation (DFG), sotto l’egida dell’Unesco.

[59] Per il contributo di Leonardo sull’idraulica, si veda anche L. Reti, The Leonardo da Vinci Codices in the Biblioteca Nacional of Madrid, in «Technology and Culture»,  Vol. 8, n.4, Oct.,1967, pp. 437-445.

[60]F. Rosati, L’Islam in Cina Dalle origini alla Repubblica Popolare, Roma, L’asino d’oro edizioni, 2017, passim.

[61] Ivi, p. 37.

[62] Si veda: J. Goody, Rinascimenti. Uno o molti?, Roma, Donzelli, 2010, passim.

[63] Si veda J. Needham, Science and Civilisation in China, Vol. 4: Physics and and Physical Technology, Part. II Mechanical  Engineering, Cambridge University Press,1965, passim.

Una tela di Domenico Antonio Carella nella chiesa del Purgatorio a Putignano

di Mimmo Mongelli
Il 10 novembre si festeggia Sant’Andrea d’Avellino (1521 – 1608), raffigurato su una tela presente in questa chiesa.
Sulla tela, pittura ad olio, il santo occupa la scena centrale mentre celebra messa sull’altare, nel momento in cui, sorretto da un diacono, improvvisamente muore, perciò l’incarnato del volto è già cadaverico. In basso a sinistra colpisce una insolita scena popolare: una donna che allatta un bambino.
L’opera è datata e firmata. Difatti, dopo recente pulitura della tela, osservando lo scanno ligneo ai piedi del Santo (indicata in foto con la freccia rossa),  è comparsa la scritta: “Dom.cus Carella …. F. 1795” (Domenico Carella fece 1795).
Pertanto questa è una delle rare opere firmata e datata da Domenico Antonio Carella, pittore nato a Francavilla Fontana nel 1721 e morto a Martina Franca nel 1813.
Vissuto a Napoli per la sua formazione artistica fu allievo di Francesco Solimena, da cui apprese il linguaggio figurativo della pittura barocca napoletana del Settecento. Raggiunse brevemente la maturità pittorica dando forte espressione artistica alle sue opere anche grazie alla influenza dei pittori Giaquinto e De Mura.
Il Carella raggiunta grande fama a Napoli, rientrato in Puglia realizzò molteplici opere sparse in tante città pugliesi, tra le quali Rutigliano, Monopoli, Ostuni, Castellaneta, Terlizzi, ecc…
Ritiratosi a Martina Franca, dove morì, si dedicò alle decorazioni del Palazzo Ducale.

La Madonna della Fontana fra i numerosi culti mariani di Francavilla (II parte)

di Mirko Belfiore

 

La scoperta di queste numerose effigi e dei luoghi di culto legati alla Matònna rappresenta il miglior modo per comprendere quelle che sono le manifestazioni di fede a Francavilla.

Ogni periodo dell’anno aveva una ricorrenza, una festa liturgica o un momento nelle attività lavorative dove era pratica diffusa invocare l’intercessione della Madre di Dio contro ogni tipo di calamità o per propiziare il buon raccolto. Anche in questo caso non mancano analogie nelle comunità circostanti, una fra tutte Taranto dove la Vergine venne eletta patrona della città dopo i terremoti del 1710 e del 1743. Gli esempi più forti di questa grande tradizione sono senza ombra di dubbio i racconti popolari legati alla Matònna ti l’Aulii (la Madonna degli ulivi) e alla Matònna ti Grani (la Madonna dei Grani), due leggende che hanno origine fra il XV e il XVI secolo e che si legano a due eventi in cui la Madonna intervenne a salvezza della cittadinanza francavillese.

Chiesa rurale di Santa Maria dei Grani (XVI secolo) durante la processione di pasquetta (Foto di Angelo Sgura)

 

Durante una forte nevicata, la principale fonte di sussistenza economica della popolazione, ossia gli ulivi, fu colpita duramente da un inverno particolarmente rigido. Il culmine si raggiunse il 23 gennaio, quando la disperazione fu talmente tanta che la gente si riversò nella chiesa Matrice per chiedere aiuto alla Madonna. Il giorno successivo, il 24 gennaio, conclusa la messa, la popolazione non solo vide che la neve si era sciolta, ma che tutti gli alberi erano salvi e quindi come ringraziamento, si lasciò andare a festeggiamenti. Dell’antica chiesetta seicentesca posizionata in quello che era l’antico casale di Casalvetere rimane solo una struttura di proprietà privata (Via dei Mulini), una volta ricca di affreschi e oggi in totale stato di abbandono.

Presso la scuola media “Vitaliano Bilotta” si trova ancora custodita la statua in pietra risalente all’VIII secolo e dedicata alla Madonna dell’Olivo, particolarità che sottolinea come questa venerazione fosse molto più antica e antecedente a quella della Madonna della Fontana.

Il secondo culto ci riporta ai primi decenni del Cinquecento, quando il regno di Napoli fu invaso dai francesi nelle cui fila combattevano i terribili Cappelletti, truppe mercenarie famose per la loro crudeltà e per i numerosi saccheggi.

Durante il giugno del 1529, questi giunsero alle porte di Francavilla e prima di attaccare la città si accamparono nei pressi di contrada Grani, mentre i cittadini chiusi all’interno delle mura, aspettavano il loro destino chiedendo aiuto alla Madonna. L’indomani mattina i soldati notarono che tutt’attorno al loro accampamento si era creata un’enorme palude impossibile da percorrere e così cambiarono idea dirigendosi verso la vicina Latiano.

A ricordo del miracoloso avvenimento fu eretta una cappella dedicata alla Madonna dei Grani, ancora esistente e costruita vicino a una sorgente perenne del Canale Reale, dove all’interno, seppur in pessimo stato di conservazione, si trova una splendida immagine mariana ad affresco e decorata in stucco, venerata fino a poco tempo fa ogni primo giovedì dopo Pasqua.

5. Immagine ad affresco con cornice in stucco della Madonna dei Grani (XVI secolo)

 

Questa ricorrenza popolare veniva definita come la Pasquetta dei francavillesi e si apriva con un lungo carosello di “traini” che, partendo dal centro della città e una volta giunto sul luogo, si lasciava andare a vari festeggiamenti, invocando la Vergine a protezione del futuro raccolto. A questi eventi miracolosi dobbiamo aggiungere una narrazione che si ricollega al periodo storico in cui governavano in città gli Imperiali, nobile famiglia di origine genovese che per due secoli, fra il Cinquecento e il Settecento, rimase al potere in città e nell’area circostante.

Una vera e propria tragedia mancata che vede come protagonista Aurelia Grimaldi, nobildonna nata nel 1646 dall’unione dei principi Michele II e Brigida Grimaldi, la quale venne data in sposa al duca di Martina Franca Petraccone V Caracciolo. Tutto accadde durante uno dei tanti viaggi che la principessa praticava fra Martina Franca e Francavilla e che vide la carrozza che conduceva lei e il suo seguito, rimanere bloccata in un terreno diventato paludoso a causa delle numerose risorgive lì presenti. Solo grazie all’intercessione della Vergine Maria, il gruppo di viaggiatori scampò al pericolo di morte e come segno di riconoscenza,

Casa Imperiali decise di innalzare un edificio dalla struttura ottagonale, unico nel suo genere, oggi sito vicino al nuovo ospedale, che venne intitolato in onore della Matònna ti li Grazzi (la Madonna delle grazie).

6. Madonna della Consolazione (Vincenzo Zingaropoli, XVIII secolo, olio su tela, Casa Resta)

 

7. Madonna degli ulivi (statua in pietra, VIII secolo, oggi conservata presso la scuola V. Bilotta)

 

La ricorrenza si festeggiava il 21 novembre, perché proprio in quel giorno i contadini portavano alle autorità religiose un pugno di semi da far benedire, da aggiungere in segno propiziatorio al resto della semina durante la messa dell’alba, mentre le donne si bagnavano i piedi a una vicina fonte per avere abbondanza di latte materno.

Una splendida statua si trova oggi conservata in una nicchia della chiesa dello Spirito Santo. Anche i numerosi complessi conventuali dedicati alla Madonna e presenti fuori dalle antiche mura del Settecento nascondono opere d’arte, come quelle presenti nel santuario di Maria SS.ma della Croce e nella chiesa di Santa Maria del Carmine.

La storia popolare dell’affresco che riproduce la Matònna ti la Croci (la Madonna della croce) ci riporta al miracolo che accadde a Francesco Antonio de Roncio, il quale venne guarito dalla sua cecità durante un temporale e che in segno di gratitudine promise l’edificazione di un santuario dove inglobare la piccola cappella con l’immagine dipinta della Madonna con la Croce e il Bambino. Ancora oggi, sia l’affresco sia la porzione di muro sopravvissuta si trovano inseriti nell’altare in legno maggiore e insieme alla statua con il bambino, portata in processione durante il mercoledì precedente la festività dell’Ascensione, sono tuttora conservati nell’edificio dei francescani riformati.

Durante la supplica del Mezzogiorno, una forte tradizione vuole che si aspetti il suono del campanello del Gesù Bambino per capire se una delle grazie richieste verrà accordata. La Matònna ti lu Carmunu (la Madonna del Carmine) viene festeggiata il 16 luglio in un edificio con annesso l’ex-convento dei frati carmelitani, situato a pochi passi dall’antica porta cittadina, e viene invocata per propiziare il vento e aiutare i contadini nella trebbiatura. In questo luogo non si conservano immagini di matrice bizantina come quelle della Madonna della Fontana o della Croce, ma in alternativa troviamo opere dipinte o sculture.

All’interno si conservano ben tre statue dedicate alla Vergine, la più antica è di scuola napoletana e risalente al Settecento, mentre una splendida rappresentazione in legno della Madonna del Carmine, opera di Donato Antonio de Milato, si trova scolpita in un pulpito del XVIII secolo.

Statua della Madonna della croce con bambino (XVIII secolo) e affresco situato sull’altare maggiore (XIII secolo) (foto dal Web)

 

Testo integrale del libretto della festa patronale di Francavilla Fontana – settembre 2022. Parte seconda

 

Per la prima parte:

La Madonna della Fontana fra i numerosi culti mariani di Francavilla (I parte) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

La Madonna della Fontana fra i numerosi culti mariani di Francavilla (I parte)

di Mirko Belfiore

 

Il culto della Madonna della Fontana ha origini antichissime e affonda le sue radici nell’anima e nell’identità di un’intera comunità. Una devozione che per secoli ha accompagnato la vita quotidiana del popolo francavillese e che ha trovato piena espressione nelle numerose tradizioni, nei riti e nel folclore che ancora oggi la contraddistingue. Un segno di riconoscenza che ritroviamo nelle immagini e nei luoghi di culto a Lei dedicati: chiese, complessi conventuali, santuari o piccole cappelle rurali, incastonati fra le vie del centro storico e nel paesaggio circostante.

1. Statua settecentesca della Madonna della Fontana portata in processione (foto di Alex Tomaselli)

 

Una storia di fede che la memoria popolare fa risalire simbolicamente al 14 settembre 1310, data in cui avvenne l’Invenzione del ritrovamento dell’immagine della Madonna della Fontana, una leggenda mariana nata a cavallo fra il XIII e il XIV secolo, che ancora oggi viene tramandata di padre in figlio fra dolci litanie e toccanti invocazioni.

Un miracolo che trova molte similitudini con i miti fondativi di altre città del territorio pugliese: la Madonna della Scala di Massafra, la Vergine di Cerrate, la Madonna della Fonte di Torremaggiore e quella di Conversano, tutte conferme di come nelle nostre terre già da tempo fosse molto diffusa la venerazione di Maria di Nazareth.

Un rito devozionale che precede di molto l’origine di Francavilla, lascito di quelle comunità che abitavano i molti casali (Casalvetere, Villa San Salvatore, Santa Maria di Grani, Santa Maria di Pazzano, Paludi…) sparsi lungo tutta la foresta oritana (Ager Uritanus) e che una volta riunitesi nella nuova Terra, richiamate dal miracoloso evento e dai progetti di ripopolamento degli angioini, portarono nel nuovo insediamento le loro diverse devozioni verso la Madonna.

2. Madonna della Fontana (elaborazione grafica di Alex Tomaselli)

 

Le autorità ecclesiastiche del tempo, con la volontà di fare sintesi dei molti titoli dedicati alla Vergine, decisero di unificare il tutto dando vita al culto della Madonna della Fontana o di Francavilla, fissando come prima ricorrenza la data del 24 gennaio.

Se girate per la città, entrate nelle botteghe, nelle case o se vi perdete tanto nelle strettule della città antica quanto nei caratteristici sobborghi fuori le mura, una cosa è certa, troverete l’immagine della Madonna della Fontana ovunque. Una popolazione che ogni 14 settembre rinnova la sua riconoscenza, accompagnando per le strade della città la settecentesca statua di Maria che stringe a sé il Bambin Gesù dalle guance rosse o si raccoglie in preghiera davanti all’antica immagine medievale, dove da secoli madre e figlio si scambiano sguardi d’amore eterno.

Secondo la tradizione, fu il principe di Taranto Filippo I d’Angiò, durante una battuta di caccia, a farne la miracolosa scoperta. Fra i nobili locali che lo accompagnavano, uno di loro, tale Elia Marrese, scagliò una freccia in direzione di un cervo che si stava abbeverando a una fonte e inaspettatamente la stessa freccia ritornò indietro quasi colpendolo. Il nobiluomo rimase sconvolto dall’accaduto e andò a chiamare immediatamente il Principe, il quale fece ripulire tutt’attorno la folta boscaglia e scoprì i ruderi di una chiesa dove si trovava l’affresco raffigurante la Madonna con il bambino. Subito dopo l’eccezionale ritrovamento, diede ordine di costruire un edificio che, oltre a celebrare l’evento, inglobasse il muro con l’immagine. Per alcuni anni, Egli promise agli abitanti delle comunità vicine terreni ed esenzioni e impose, inoltre, che il nuovo insediamento prendesse il nome di “Franca-Villa”, adottando come simbolo l’albero d’ulivo inserito fra le lettere F e V.

3. Affresco Madonna della Fontana, XIV secolo (foto di Alessandro Rodia)

 

L’immagine che ritrae la Vergine Hodighitria (colei che indica la via) e la porzione ridotta del muro originale ancora oggi vengono gelosamente conservati nella cappella della Madonna della Fontana, posta nella navata destra dell’attuale Basilica Pontificia minore del Santo Rosario.

Un edificio che oggi si mostra in tutta la sua magnificenza barocca, ma che venne ricostruito dopo il terremoto del 1743, per sostituire l’antica chiesa angioina bassomedievale dedicata alla Madonna della Fontana. Quest’ultima venne ampliata verso la fine del Cinquecento e reintitolata alla Madonna del Rosario, per celebrare la vittoria cristiana del 1571 contro i turchi ottomani durante la battaglia navale di Lepanto.

Questo cambio di intitolazione avvenne perché ormai era forte la volontà della Chiesa di Roma di latinizzare quanto più possibile i culti orientali ancora presenti in Puglia, il che trova conferme nella vicina Lecce dove Sant’Irene venne sostituita dal culto latino di Sant’Oronzo.

Il titolo della Madonna della Fontana inizia a imporsi con decisione fra il XVI e il XVII secolo, dopo un percorso lungo e tortuoso che si concluse con la realizzazione della statua settecentesca portata per la prima volta in processione nel 1760. Un culto questo che si unisce perfettamente con la morfologia del territorio, ricca di acque e risorgive, e l’invocazione mariana che tuttora è presente in un bassorilievo posto sulla facciata della Basilica, “Sitientes venite ad aquas” (Assetati venite alle acque), non solo rimanda al libro del profeta Isaia, ma è un chiaro riferimento indiretto all’immagine del cervo che, come le anime dei fedeli, va ad abbeverarsi alle acque della grazia, le quali scaturiscono dalla Vergine: “Fons Aquarum viventium” (Fonte di acqua viva).

4. Collegiata del Santissimo Rosario di Francavilla Fontana (XVIII secolo) (foto Mirko Belfiore)

 

Tutti gli affreschi, le sculture e le opere d’arte che si conservano nei luoghi religiosi rappresentano quella genuina espressione artistica in cui tutta la popolazione si riconosce e attorno alla quale si stringe alla ricerca di protezione e conforto.

A Francavilla le immagini della Vergine sono moltissime e ancora oggi rappresentano il tesoro più grande che la città conservi. Il suo “dolce viso” rappresenta il tramite più forte con il Figlio di Dio, sia per il ruolo di madre amorevole sia per il suo compito di portatrice del messaggio di salvezza. Qui e da secoli la Madonna viene invocata sotto diversi titoli (degli Olivi, dei Grani, dell’Addolorata, della Croce, delle Grazie, della Consolazione…) e accompagna il popolo nelle occasioni di festa e nei momenti di difficoltà.

Un fascino senza tempo che viene confermato anche dall’abilità e dalla cura con cui gli artisti locali realizzarono queste opere e che, a seconda del momento storico, possiamo ritrovare finemente stuccate, dipinte o invetriate in ceramica.

Una tradizione che nel corso del tempo si è diffusa in molte altre forme, parte integrante del patrimonio artistico di Francavilla: dai disegni su carta dei manoscritti antichi fino alle opere in tela della nostra scuola pittorica, dai medaglioni a sbalzo dell’artigianato locale fino agli eleganti santini con ricami, senza dimenticare le numerosissime edicole votive sparse per la città, ennesimo simbolo di quella grande anima devozionale che contraddistingue la nostra comunità.

 

 

Prima parte del testo integrale del libretto della festa patronale di Francavilla Fontana – settembre 2022

Le Tre Grazie di Egnazia

 

di Giovanni Maria Scupola

Nel 1970, nel corso degli scavi condotti da Elena Lattanzi nella zona monumentale della città antica, insieme ai resti della Basilica Civile venne in luce il mosaico delle Tre Grazie.  Si tratta di una parte del pavimento tessellato di un ambiente quadrangolare di cui non è nota la funzione, situato immediatamente a Nord della Basilica Civile e con questa comunicante.

Il vano non fu completamente evidenziato e scavato, perché si estende sotto la moderna strada Monopoli-Savelletri, che taglia in senso Est-Ovest la zona monumentale dell’antica Egnazia. Al momento del ritrovamento la lettura dell’apparato decorativo non fu subito pienamente evidente.

Solo nel 1977, in occasione di un intervento di restauro, fu possibile la completa visione dello schema ornamentale con il medaglione figurato. Di recente (2019) è stato rinnovato l’intervento conservativo sul mosaico ed è stata realizzata una ricostruzione virtuale del probabile aspetto originario. Come il complesso della Basilica, dopo il I secolo d.C. l’ambiente delle Tre Grazie subì rifacimenti e ristrutturazioni.

Pavimentato in una prima fase con un semplice tessellato bianco, fu ripavimentato con il mosaico figurato tra il III e la metà del IV secolo d.C., periodo a cui il mosaico delle Tre Grazie può essere stilisticamente assegnato. Il pavimento è decorato con motivo a squame embricate in tessere di terracotta di colore arancio rosato su fondo bianco e presenta al centro un medaglione circolare, che si conserva in maniera incompleta, incorniciato da un fregio vegetale.

Il medaglione contiene la raffigurazione del gruppo delle Tre Grazie: Aglaia, Euphrosyne e Thalia. Secondo una iconografia nota in età romana, le dee sono nude, con i capelli raccolti sulla nuca e trattenuti da un nastro o un diadema a fascia.
La Grazia centrale è di spalle, abbraccia le due sorelle, ritratte in posizione frontale, e poggia le mani sulle loro spalle.
Le due divinità laterali ricambiano l’abbraccio, posando una mano sulle spalle della Grazia centrale, mentre nell’altra mano stringono ciascuna una rosa.
La dea di sinistra forse era parzialmente cinta da un panneggio all’altezza dell’inguine (ne resta un accenno presso la linea della lacuna) ed aveva accanto a sé un vaso posato per terra, probabilmente una loutrophòros (contenitore per acqua), di cui si intravedono parti del labbro e di un manico.

Bottino di una razzia di pirati turchi sulla costa di Felline nel Salento

di Luciano Antonazzo

È tristemente nota la ferocia e la crudeltà manifestate dai turchi durante le loro scorribande lungo le coste e nell’entroterra salentino per saccheggiare e depredare, senza alcuna remora nell’uccidere chi contrastava le loro mire.

La loro efferatezza è crudamente documentata finanche nel primo libro dei morti della parrocchia di S. Francesco di Assisi di Gemini, dove si legge che il 4 agosto del 1674 fu celebrato il funerale del soldato “mastro scarparo di Alessano” ammazzato nella marina dai turchi e trasportato dai compagni nella chiesa di Gemini “con la testa separata dal busto”.

Obiettivo privilegiato delle loro scorribande erano le masserie prive di strutture di difesa ed è del saccheggio e razzia di due di queste che riporto quanto riferito in una declaratio fatta al notaio Francesco Carida, di Morciano e residente in Ugento.

Declaratio fatta per Angelum Venneri et Franciscum Venneri di Alliste

In Dei nomine amen

Die octava mensis februaris 15ae  Inditionis, Anno Domini millesimo, sexcentesimo, septuagesimo septimo

In Terra felline, et proprie in Castro dictae Terrae, Regnante …, In nostri presentia constituiti Angelus Venneri dè Alliste dicens esser massaro della massaria nominata la gisternella seù del monte, et Franciscus Venneri similiter dè Alliste dicens esser massaro nella massaria del Ninfeo feudo di felline, qui sponte, non vi, dolo, sed omni meliori modo , sponte ut supra coram Nobis asseruerunt, declararunt, et attestati sunt, pro ut predicto die declarant et attestant  in vulgari sermone pro faciliori facti intelligentia, √ʖ

Qualmente l’anno passato e propriamente nel mese di luglio et à di 17 di detto mese nel luscere il 18 di detto mese  la notte calò alla marina di felline alla cala nominata li fiumicelli seù la guardiola un fuste di Turchi, e sbarcorno una quantità di quelli e calorno per il feudo di felline e scorsero alla detta massaria nominata la Cisternella seù il Monte, e fecero preda in quella di un caccavo di Rame grande che valeva ducati diciotto, e più et anche se ne portorno tre vombri, quattro zappe et una cetta, che potevano valere da otto ducati incirca, e più se ne portorno un sacco grande di grano de trè tomoli, che col sacco valeva carlini venti, e più quattro pese de formaggio tardivo, che poteva valere ducati cinque incirca, e più uno vestito di lana del massaro e scarpe, che potevano valere ducati quatro né toccorno in detta massaria bestie minute, che stavano in quella e questo è quanto s n portorno da detta massaria; et essendono poi scorsi alla massaria nominata lo Ninfeo in quella fecero presa similmente di un caccavo, che valeva ducati venti, due vombri, trè zappe strette, et un larga, che potevano valere ducati sei, e più se ne portorno pese cinque incirca di formaggio similmente tardivo, che poteva valere ducati sei, e mezzo, e più se ne portotno un fariolo novo, e scarpe del massaro di valuta di ducati quatro, e più se ne portorno un paro di Bovi di carretta di valuta di ducati sessanta, et arrivati alla massaria, e poco distante di quella ammazzorno detti Bovi, e se li portorno ammazzati dentro il loro fuste  à vista di tutti, seù di molte genti, che dopo fatto giorno all’avviso e nova ricevuta de Turchi calorno alla marina et essi costituenti stevano nascosti dentro le fratte per non essere fatti schiavi et sic declaraverunt …..

Alla scoperta della città di Egnazia

 

di Giovanni Maria Scupola

“Gnatia lymphis iratis exstructa – Gnatia costruita sulle acque tempestose”.

Così Orazio, nel suo viaggio da Roma a Brindisi compiuto alla fine del I secolo a.C., definiva la città di Egnazia, nei pressi di Savelletri di Fasano.

La letteratura archeologica annovera una moltitudine di interpretazioni del famoso verso (Satira V, libro I), ma chi giunge ad Egnazia non può non condividere una lettura filologica recente che associa il termine lymphis iratis alle acque in tempesta dell’Adriatico su cui la città si affaccia, definito altrove, dallo stesso autore latino, iratum.  

Orazio che giungeva ad Egnazia percorrendo la via Minucia, dopo aver attraversato le mura di età messapica – che continuavano a racchiudere la città in età romana e che ancora oggi in un tratto a picco sul mare sono conservate nell’altezza originaria – vide certo i principali edifici pubblici e religiosi: la piazza porticata, la basilica civile, il foro, le terme pubbliche, il porto, un tempio sulla parte più elevata sul mare.

Edifici tutti che, con varie successive trasformazioni, connotarono la città sino al IV secolo d.C. quando, ormai in abbandono fornirono materiali da utilizzare per nuove costruzioni, come provano le calcare che si impiantarono nelle loro vicinanze, o divennero delle discariche di detriti, come le terme ed il criptoportico.

La via Traiana, fatta realizzare nel II secolo d.C. dall’imperatore Traiano, con la pavimentazione di tratti della Via Minucia, continuava ad essere ancora l’arteria principale di collegamento, come prova il tracciato all’esterno delle mura.

Vari solchi carrai profondamente scavati nella roccia indicano che la mancanza di quella manutenzione costante, che si aveva prima delle vie pubbliche, costringeva i carri a deviare dal tracciato originario.

Trenta secoli di storia furono gradualmente occultati dalla vegetazione e la fortificazione bizantina, eretta sulla parte più elevata della città, perse la sua funzione di difesa del territorio dai Longobardi.

In età medioevale piccoli nuclei di abitanti si insediarono fra i ruderi della città o riutilizzarono come abitazioni le tombe a camera dipinte di età messapica, adattandole alle loro esigenze.

Il nome della città viene dal XIV secolo d.C. tramandato nelle carte nautiche e nella cartografia e deriva dal fatto che il suo porto veniva principalmente utilizzato per raggiungere l’inizio dalla Via Egnatia (o Via Ignazia), l’antica strada di comunicazione della Repubblica romana che congiungeva l’Adriatico con l’Egeo ed il Mar Nero, la cui realizzazione ebbe inizio nel 146 a.C., su ordine del proconsole di Macedonia Gaio Ignazio, dal quale entrambi i toponimi originano.

Note sull’artista leccese Francesco De Matteis 

di Giovanni Maria Scupola

Francesco De Matteis nasce a Lecce il 25 febbraio 1852. Giovanissimo frequenta la bottega del noto cartapestaio Achille De Lucrezi dove ha modo di apprendere i primi rudimenti della scultura.

La sua passione lo spinge a trasferirsi a Napoli per iscriversi presso l’Istituto di Belle Arti dove incontra illustri maestri: Stanislao Lista, per l’insegnamento della scultura e Gioacchino Toma, per il disegno.

Ben presto diviene uno dei protagonisti dell’ambiente culturale partenopeo che a quei tempi si imponeva come uno dei più importanti centri di riferimento della cultura artistica italiana. Scultore abile ed innovativo supera le tradizionali forme accademiche e si distingue per la capacità di rappresentare le figure popolari del suo tempo.

La sua fama cresce al punto da essere chiamato, unitamente ad altri noti artisti, a decorare a Napoli il famoso Gran Caffè Gambrinus. Pochi anni dopo, nel 1897 partecipa alla decorazione della facciata del Teatro Del Fondo, successivamente rinominato Teatro Mercadante in onore del noto musicista di origini pugliesi.

Abilissimo, anche come decoratore, De Matteis viene invitato nel 1897 a partecipare alla decorazione del Teatro Comunale di Santa Maria Capua Vetere.
Oramai noto oltre i confini campani, torna a Lecce per decorare due nobili dimore, palazzo Carrozzini e palazzo Garzya (oggi noto come palazzo Famularo).

Nel 1898 è chiamato a realizzare nella città natia il monumento a Gioacchino Toma inizialmente collocato in piazzetta Ignazio Falconieri. Viene invitato a numerose importanti esposizioni: a Torino, a Venezia, a Firenze ed a Milano.

Gli ultimi anni della sua esistenza li vive quasi in disparte, collabora saltuariamente con la nota manifattura di ceramiche Cacciapuoti. Viene nominato Professore Onorario degli Istituti di Belle Arti di Urbino e Napoli, città nella quale scompare nel 1917.

Francesco De Matteis fa parte di quel non esiguo gruppo di maestri salentini che si sono affermati lontano dalla città di origine. Le sue opere si trovano oltre che in raffinate collezioni private, anche in importanti musei.

Libri| Saturae, di Paolo Vincenti

Giovedi 3 novembre 2022, presso il Circolo Culturale G. D’Annunzio di Casarano, si dialoga con i Classici greci e latini in una serata che si preannuncia coinvolgente e unica nel suo genere. “Ad animarla lo scrittore ricercatore e poeta Paolo Vincenti, autore di un raro e prezioso libretto dal titolo Saturae (Agave Edizioni), inequivocabile ed esplicito richiamo a un genere letterario tanto antico quanto immortale, con il quale i Classici Romani (da Lucilio a Orazio) e ancora prima i Classici Greci(da Archiloco ad Ipponatte), hanno lasciato ai posteri una grande lezione di realismo, di ironia e, diremmo oggi, di resilienza, nei confronti delle contraddizioni del quotidiano, delle ingiustizie e delle deviazioni del vivere civile.

Paolo Vincenti, con un personale stile colto e sarcastico, si ispira ai Classici con dovizia di citazioni e acuti riferimenti, per sferzare con le sue esilaranti Saturae personaggi e situazioni del mondo di oggi. E lo fa con risultati eccellenti, non solo sul piano della scrittura, ma anche della performance e del teatro. Senza infingimenti e ipocrisie, trascinando il lettore-spettatore in un vortice di piacevoli e spassose considerazioni e riflessioni”. (Anna Stomeo)

 

 

dalla prefazione di Patrizia Morciano

Che cosa si può dire di più adatto a questa silloge poetica di Paolo Vincenti se non che, ancora una volta, l’autore ci restituisce una classicità riattualizzata? L’avevo scritto a proposito di Al mercato dell’usato (Agave Edizioni, 2020) e lo riconfermo per questa raccolta: Paolo Vincenti ha la capacità di far rivivere il mondo della letteratura greca e latina, di declinarlo nei tempi della nostra postmodernità, a riprova della sua perenne attualità. E se nella precedente raccolta era salito sul terreno arduo del mito ed era riuscito nell’impresa di riportarlo fra di noi, qui scende su quello scabroso e perciò altrettanto difficile della satira, solo apparentemente meno impegnativo (lo riconosceva già Orazio nel decimo componimento del suo primo libro di Saturae).

Satura quidem tota nostra est, diceva orgogliosamente Quintiliano in età imperiale, alludendo all’origine tutta romana di quel genere caratterizzato, fin dall’età arcaica e dalla satira letteraria di Lucilio (III sec.a. C.), dalla varietà dei contenuti e dall’interesse rivolto al quotidiano, al domestico, al contemporaneo, al deviante da norme ideali di comportamento. Ma i Romani sapevano benissimo che le premesse di quella poesia stavano anch’esse nel mondo greco, nella commedia antica come in certi giambi di Archiloco, Ipponatte e di altri autori dell’età arcaica (ancora una volta è Orazio che ce ne esprime la consapevolezza nelle sue due satire di argomento letterario, la IV e la X del primo libro). Anche della lezione di questi tiene dunque conto la penna colta di Paolo Vincenti, soprattutto in quei testi in cui sembra di sentire l’eco dell’aggressività giambica (L’onorevole La Minchia, Vot’Antonio!, Cave canem, Mezzosangue).

Ma in questo libretto, a proposito di echi, riaffiorano anche quelli delle forme artistiche preletterarie che sono certamente alle origini della stessa commedia antica e, in genere, di tutte le espressioni artistiche successive fondate sul ridiculum e sulla comicità, com’è appunto la satira: certa licenziosità se non addirittura oscenità di alcuni dei testi presenti nella raccolta (si pensi, tanto per fare qualche esempio, a Palinodia, a Nuova edizione, vecchio vizio, a Una pezza a colore, che ha un seguito ancora più licenzioso in Chi è causa del suo mal…) rinvia, infatti, non solo a Catullo o all’Orazio, per esempio, degli Epodi, ma anche alle feste rituali greche delle “Falloforie” in cui feticci dell’organo sessuale maschile venivano portati in processione, con l’accompagnamento di canti osceni, o ai fescennini versus, versi licenziosi scambiati nella Roma contadina delle origini, sempre con funzione apotropaica e dunque recitati durante feste rituali nei campi o durante matrimoni, per garantirsi il favore della divinità. Ovviamente anche nei versi dell’autore moderno non c’è morbosità, ma lusus, il gusto di ricollegarsi a quest’antica tradizione

Le Saturae di Paolo Vincenti sono dunque come ponti a grandi arcate che ci riportano alle scaturigini della poesia occidentale…

Della morte nel 1799 del “giacobino” ugentino Oronzo Santacroce

 

di Luciano Antonazzo

 

Pietro Palumbo nel suo Risorgimento Salentino[1] descrisse i molteplici scontri, sfociati in omicidi, tra i fautori della Repubblica Napoletana ed i filo-Borbonici nel Salento.

Per quanto concerneva Ugento, testualmente scrisse a pagina 47:

“Ugento era lacerata dai partiti Santacroce e d’Alessio, il primo democratico, l’altro borboniano. Alle notizie di Lecce e di Campi gli odî si riaccesero e parve giunto il momento di sbarazzarsi dei giacobini. Il popolo fu spinto a tumultuare da Francesco d’Alessio, da Ippazio Viva e da Pasquale de Paolis, i quali decisero di ammazzare Oronzo Santacroce.

Suonando il vespero degli 11 febbraio [1799] un esercito di sfaccendati, di preti, di disertori, allagò le vie armato di schioppi e con le coccarde rosse ai cappelli. A quel rumore il Santacroce, indovinando le sinistre intenzioni della folla, segretamente uscì alla campagna. Scoperta la fuga, i più audaci gli corsero alle spalle, e il Santacroce sparò ed uccise Salvatore Pongo [Ponzo] il quale stava per ghermirlo. Ma raggiunto da altri fu finalmente colpito da punte di baionetta ed ucciso con pietre”.

In realtà però questo avvenimento ebbe luogo la notte del 15 marzo del 1799, presso la Porta San Nicola, ad ovest delle mura bizantine, e non in campagna, come ci attesta don “Hippatius Canonicus Theologus Colajanni Aeconomus Curatus” che registrò la morte del Santacroce nel libro dei defunti della cattedrale di Ugento. Questa registrazione ricalca l’esposizione di fatti riportata dal Palumbo, ma è più cruda nella sua realtà. Egli, quasi come cronista dell’epoca, testualmente riportò:

Uxenti die decima quinta Mensis martii anni R. S. millesimi septingentesimi noni, hora vigesima tertia cum dimidio, Orontius Santacroce, vir Barbarae Paschali coniugis de Uxento, aetatis sua annorum circa quadraginta, obiit extra muros hiuiusce Civitatis prope Portam vulgo dicta Santi Nicolai, ex violenti populari impetu lapidibus fractus, insimulatus tamquam Religiosissimo Regi nostro Ferdinandi IV rebellis, Gallisque hostibus amicus, vulgo Jacobinus; quam paullo ante ipse tormenti bellici laxata rota ignito globulo Salvatori Ponzo se se proprius inseguenti mortem intulisset in ipso dicto Portae Santi Nicolai fornice audituque. Ipse autem Orontius S. Croce in mortis articulo dato poenitentiae signo, ab adomudum Reverendo P. Magistro F. Alberto Arditi Carmelita de Praesitio Sacramentaliter absoluto decessit. Cuius corpus in proximum S. Oratorium Beatae Mariae Virginis sub titulo Assumptionis jam sequente nocte illatum, sequenti mane in Cathedralem Ecclesiam apportatutum, ibidem peractis ex R.R. Sacris cerimonis in sepultura heredum quondam canonici D. Antonii Sava inumatum fuit[2].

A questa segue la registrazione della morte di Salvatore Ponzo di circa trenta anni, deceduto “ex ictu sclopeti, qui sibi vulnus inflictum fuit ab Orontio S. Croce[3]. Il Ponzo ebbe il tempo di confessarsi allo stesso Colajanni e di ricevere il viatico, prima di rendere l’anima a Dio. La mattina seguente fu officiato il rito funebre ed il suo corpo fu deposto nella sepoltura dell’Università.

I tragici avvenimenti sopra descritti ebbero uno strascico ancora più crudele il giorno dopo.

Nello stesso registro dei defunti, dopo l’annotazione della morte del Ponzo, si legge infatti:

Uxenti die decima septima mensis martii millesimi septingentesimi noni, hora septima noctis praecedentis anima innocentis puellae Aemiliae S. Croce filia quondam Orontii Santacroce, aetatis suae annorum quatuor, et mensis unius cum dimidio in Coelum advolavit; convulsionibus enim repente abrepta fuit puella, quia imprudenter ducta fuissete in Sacrum Oratorium sub titulo Sanctae Mariae in Coelo Assuntae ad videndum Orontium S. Croce patrem suum vulneribus saucium domique miserrime jacentem. Cuius puellae corpus in Ecclesiam Cathedralem seguente mane illatum, expletis ex R.R. Sacris cerimoniis in sepultura heredem quondam canonici D. Antonii Sava simul cum patrem depositum manet[4].  

Oronzo Santacroce era nato il 24 ottobre 1658 dal notaio Vito e da Maddalena Nicolazzo, ed era fratello del notaio Francesco. Quest’ultimo venne implicato nella vicenda dei due omicidi ma, da quel che è dato sapere, ne uscì indenne. Di lui Nicola Vacca scrisse:

“Viene notato di perduto genio repubblicano. Mostrò tutta la premura di democratizzare quel luogo. Si insignì di coccarda tricolorata. Sparlò in pubblico dei sovrani.  Fu carcerato ed indi abilitato. Vi seguirono due omicidi, per i quali se n’è persa la memoria dal sig. udit.re D. Antonio Greco, ed esso Santacroce fu abilitato”[5]. 

 

[1] P. PALUMBO, Risorgimento Salentino (1799-1860), Gaetano Martelli Editore, lecce 1911.

[2] Trad.: “Ugento giorno quindici dell’anno della Riconquistata Salvezza 1799, all’ora ventitreesima e mezza, Oronzo Santacroce, marito di Barbara Pascale, coniugi di Ugento, all’età sua di circa quarant’anni, morì fuori le mura di questa città, vicino la porta dal volgo detta di S. Nicola in seguito a violento impeto popolare, fracassato con pietre, accusato sia come ribelle al nostro religiosissimo re Ferdinando IV, che come amico ai nemici francesi, per il volgo giacobino; il quale poco prima, esso stesso, con un’ infuocata palla di scioppo (tormenti bellici laxata rota),  a Salvatore Ponzo che proprio lui inseguiva, aveva arrecato la morte nello stesso detto arco ed adito della Porta di S. Nicola.  Lo stesso Oronzo S. Croce, dato in articulo mortis il segno della Penitenza dal molto Reverendo Padre Maestro frate Alberto Arditi carmelitano di Presicce, assolto sacramentariamente, decedette. Il cui corpo già deposto la notte seguente nel vicino S. Oratorio della Beata Vergine Maria sotto il titolo dell’Assunzione, la mattina successiva fu portato nella chiesa cattedrale, nello stesso luogo, avendo adempiuto secondo i Riti alle sacre cerimonie, fu inumato nella sepoltura degli eredi del defunto canonico don Antonio Sava”.

[3] Trad.: “per una ferita che gli fu inflitta da Oronzo Santacroce mediante un colpo di schioppetto”.

[4] Ugento -Archivio parrocchia della Maddonna Assunta, registro dei defunti 1798-1808, cc. 70r-70v.

Trad.: “Ugento, giorno diciassette del mese di marzo 1799, all’ora settima della notte precedente, l’anima dell’innocente fanciulla Emilia Santacroce, figlia del fu Oronzo Santacroce, all’età di anni quattro e mesi uno e mezzo volò in cielo; infatti la fanciulla fu repentinamente portata via dalle convulsioni perché imprudentemente era stata condotta nel Sacro Oratorio sotto il titolo di S. Maria Assunta in Cielo per vedere il padre suo straziato dalle ferite e nel tempio miseramente giacente. Il di cui corpo, della fanciulla,   portato il corpo la mattina seguente nella chiesa cattedrale, dopo aver adempiuto secondo i riti alle sacre cerimonie, rimane deposto insieme con il padre nella sepoltura degli eredi del fu canonico don Antonio Sava”.

[5] N. VACCA, I rei di Stato del 1799, Vecchi & C. Editori, Trani 1944, p. 98.

Tra Serio e Faceto. Alessandro Licchetta e Andrea Sequestro

 

Si è conclusa la prima parte della XXII stagione concertistica del Festival “I Concerti del Chiostro” con un evidentissimo successo tra Galatina, Soleto e Cutrofiano, e ora al via dal 10 al 28 ottobre quattro nuovi appuntamenti con la grande musica, con il Patrocinio del Conservatorio di Musica “Tito Schipa” di Lecce e in collaborazione con il Club Unesco.

Si alza il sipario del Teatro Cavallino Bianco lunedì 10 ottobre alle ore 20:30 con il duo pianistico a 4 mani, Alessandro Licchetta e Andrea Sequestro, nello spettacolo “Tra Serio e Faceto”. Un concerto per divertirsi e allo stesso tempo riflettere grazie alle mille atmosfere evocate dalla musica: la brillante “Sonata in re maggiore K381” di Wolfgang Amadeus Mozart, la profonda “Moldava” di  Bedřich Smetana, i ruffiani sei pezzi della suite “Dolly” di Gabriel Fauré, l’intensa ouverture de “La Forza del Destino” di Giuseppe Verdi e le irresistibili ouverture da “Il Barbiere di Siviglia” e “Guglielmo Tell” di Gioacchino Rossini.

Un volto sorridente della musica classica accostato a quello più “serioso” e tradizionale. Un connubio di passioni e melodie, voci di anime distanti nello spazio e nella loro più intima natura, ma sorelle nella medesima e comune umanità, fatta di solennità e idiozie, gravosità e gioco, poesia e incanto.

 

ALESSANDRO LICCHETTA

Alessandro Licchetta, nato a Tricase (LE) nel dicembre 1993, ha studiato pianoforte con i maestri Adalberto Protopapa, Filippo Arlia, Corrado De Bernart e Pasquale Iannone e musica da camera con Francesco Libetta. Ha vinto numerosi concorsi di portata nazionale e internazionale, risultando spesso vincitore di categoria. Si è esibito, come solista o in formazione da camera, nell’ambito di diversi festival ed enti concertistici, quali, tra gli altri, il “Festival Terra tra due mari” a Gallipoli presso il Castello Angioino; la “Camerata Musicale Salentina” a Castro presso il Castello Aragonese; a Lecce il “Maggio Salentino” presso il Teatro Apollo, il “Festival del XVIII Secolo” presso la Fondazione Palmieri, “Strade Maestre” presso i Cantieri Teatrali Koreja, a Martina Franca “PianoLab”, oltre ad essersi esibito diverse volte presso la Fondazione Grassi; a Barletta il “Barletta Piano Festival”; a Cosenza il “CosenzaPianoFest” presso la Sala Quintieri del Teatro Rendano; a Milano “Piano City” presso la Casa degli Atellani con il pianista Francesco Libetta; a Salisburgo presso la Steinway Saal  del  Musikum;  a  León  presso  la  Sala  Eutherpe della Fundación Eutherpe. È fondatore e Presidente dell’associazione di promozione sociale Eleusi di Corsano (LE). È direttore artistico del Festival Cameristico Internazionale del Capo di Leuca e delle rassegne Parla Piano e Piano|Mediano. Oltre agli studi musicali, ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l’Università del Salento e successivamente l’abilitazione alla professione forense.

 

ANDREA SEQUESTRO

Andrea Sequestro intraprende lo studio del pianoforte in età giovanissima. Di diploma presso il conservatorio “Tito Schipa” di Lecce con il massimo dei voti, lode e menzione sotto la guida del maestro Corrado De Bernart, si perfeziona poi presso l’Accademia Musicale Pescarese con il maestro Pasquale Iannone. Si è esibito, come solista o in formazione da camera, nell’ambito di diversi festival ed enti concertistici quali: “Maggio Salentino” presso il Teatro Apollo, per il “Festival del XVIII Secolo”, “Strade Maestre” presso i Cantieri Teatrali Koreja, Associazione Mozart, per gli Amici della Lirica di Lecce, con cui ha anche collaborato in qualità di maestro accompagnatore al pianoforte, in duo con il sassofonista Alessandro Malagnino per il festival “Classiche Forme” sotto la direzione artistica di Beatrice Rana; a Martina Franca “PianoLab” e presso la Fondazione Grassi; a Cosenza il “CosenzaPianoFest” presso la Sala Quintieri del Teatro Rendano; a Milano “Piano City”, in collaborazione con il pianista Francesco Libetta, presso la Casa degli Atellani in un concerto registrato da Sky Classica, Festival Cameristico Internazionale del Capo di Leuca; Fundacion Eutherpe di León, in Spagna. È socio fondatore e segretario dell’associazione Eleusi APS.

 

Il costo del biglietto è di euro 10,00 – posto assegnato.

Per under 18 e over 65 è di euro 5,00 – posto assegnato.

La prevendita è attiva su https://www.diyticket.it/events/Musica/9284/tra-serio-e-faceto

Per informazioni: 331.4591008

Osservazioni specialistiche sulla natura e lo stato della cappella di Sant’Aloja in Cerfignano

Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja, parete sud, Terza arcata, particolare con zampognaro

 

di Giuseppe M. Costantini*

 

LE PREMESSE

Elìgio di Noyon, vescovo altomedievale originario del Limosino[1], fortemente venerato e promosso dalla dinastia degli Angioini[2], vanta varie forme appellative, oltre all’italiano “sant’Eligio”: “saint Éloi” in francese, “sant’Aloja” nell’ex regno napoletano, nonché, da un’alterazione verbale di quest’ultima denominazione, “santa Loja” in Cerfignano, forma che nel Basso Salento è attestata anche in altre località e per iscritto[3].

Sbaglia chiunque consideri il Salento un luogo periferico, privo di originalità e di idee aggiornate: costituito da ceti istruiti e no, è da sempre un territorio di originalità nonché di raccolta e semina di informazioni e di idee, anche nelle arti e nell’architettura, almeno quanto il resto dell’Europa. Tale pervicace presupposto è sempre stato condiviso con Sergio Ortese[4], il promotore di questo approfondimento disciplinare sulle superfici della Cappella di Sant’Aloja in Cerfignano, o “Santa Maria di Costantinopoli”. Pertanto questo saggio, che intende contribuire alla piena comprensione nonché alla tutela e valorizzazione della Cappella, in ragione delle inevitabili future decisioni o esitazioni sulla sua conduzione, comprende alcuni cenni critici sulle maggiori alterazioni di origine antropica che la hanno reiteratamente interessata.

Quanto al Salento, quale territorio di originalità nonché di scambio di idee, è geniale ed emblematico, di là dai dubbi sulla sua veridicità storica, il quadretto salentino offerto nell’anno1817, nelle memorie del proprio grand tour, dal fine intellettuale e scrittore Stendahl (al s. Marie-Henri Beyle):

«OTRANTO, 15 maggio. (Dovrei) …arrivare ad un terzo volume, se dessi la descrizione dei paesi poco noti che ho attraversato … non assomiglia a Firenze più di quanto Firenze assomigli a Le Havre.

Il marchese Santapiro, un vecchio amico di Mosca … ha una situazione abbastanza propizia per non dover mai adulare né mentire. Credevo che qui una simile originalità fosse impossibile; Santapiro mi disinganna. Dopo aver portato per tre anni in giro per l’Italia quel bel caratterino…  Si è messo a dire che la musica lo annoia, che i quadri in un appartamento danno ad esso l’aria da funerale; che egli preferisce un burattino di Parigi, che muove gli occhi e caccia la lingua, ad una statua di Canova; ed ha dato a Napoli concerti che gli sono costati due o tre volte il prezzo consueto, perché ha voluto esclusivamente arie di … ecc.

… È persona piena d’allegria e d’imprevisti, che ci fa trascorrere dinanzi una folla d’idee … alle quali, se non fosse stato per lui, non avremmo mai pensato…

Durante la grande calura di ieri, stesi ciascuno su un divano di cuoio, in un’immensa bottega … con cortine di tela verde, prendevamo sorbetti … A Firenze, avevo un palazzo … otto cavalli, sei servitori, e spendevo meno di mille luigi. … ho visto ad ogni inverno passare sotto i miei occhi seimila stranieri. …Tutti gli aneddoti di codesta aristocrazia miravano a prendere in giro i re…». (Stendhal 1960, vol. 2°, pp. 48-50).

Attualmente, al cospetto della Cappella di Cerfignano, ogni singolo elemento e l’intero insieme confondono il visitatore sensibile: gli aspetti orografici e viari del sito; il contesto urbano e paesaggistico; l’attuale realtà dell’intero ex complesso ecclesiastico; i caratteri esterni del fabbricato in sé; la completa ruderizzazione[5] delle superfici intime, già interamente decorate. È toccante constatare, nei devoti delle rispettive materie, analoghe sensazioni al cospetto della sacra Sindone e nell’osservazione della Cappella: in effetti rappresentano entrambe la straziante descrizione della passione e morte di un organismo già sacro e vivo, alleviata soltanto da un’incrollabile fede nella rinascita. A ogni modo, a ben considerare, ciò che percepiamo e abitiamo di un’architettura, ovvero il suo organico funzionamento, è determinato sia dalla natura e dallo stato delle sue strutture sia, allo stesso tempo e congiuntamente, dalla natura e dallo stato delle sue finiture superficiali[6]. Pure con fatica e dotati di adeguata attrezzatura critica, osservando Sant’Aloja si può cogliere natura e qualità di quanto ne resti solo in un secondo tempo.

Tali osservazioni non scalfiscono l’ammirazione dovuta al premuroso salvataggio in extremis della Cappella realizzato negli anni 2013-2015[7], poiché le condizioni dell’antico fabbricato prima di tale intervento, quali evincibili da una competente consultazione delle immagini e degli elaborati progettuali coordinati dal compianto architetto leccese Roberto Bozza[8], chiariscono come i lavori realizzati abbiano rappresentato esclusivamente una tardiva e ardua operazione di salvataggio sulla materia superstite della sfortunata e martoriata fabbrica salentina. Pertanto tutto ciò che, grazie a quel salvataggio, ci è pervenuto dell’immobile Sant’Aloja necessita ancora di un’ampia e articolata azione di restauro, intesa come recupero del contesto e dei funzionamenti naturali, anche rimuovendo delle manomissioni svilenti e agendo dei “ripristini funzionali” ancora praticabili.

Questo scritto, pensato per l’incompiuto sesto volume della ardita e preziosa collana De Là Da Mar di Sergio Ortese, vuole costituire l’auspicio e l’alfa di un organico restauro del Bene culturale considerato, iniziativa da perorare fino a sua completa orchestrazione ed esecuzione. Infatti, il “restauro conservativo 2013-2015”, pure provvidenziale, ebbe carattere di necessità e di incompiutezza già negli intendimenti progettuali: «Si premette che, per ragioni connesse alle limitate risorse finanziarie, gli interventi di restauro qui previsti sono limitati a quelli a carattere conservativo, urgenti e non differibili…»  (Bozza et al. 2013, Allegato A). Tra l’altro, le imprescindibili ricerche preliminari hanno rilevato un comune dato in tutti gli enti di competenza sul Bene e sulle attività compiutevi: l’indisponibilità di un qualsiasi “consuntivo tecnico-scientifico-documentario” del “restauro conservativo 2013-2015”.

fig. 1 Cerfignano (Lecce), Cappella di Sant’Aloja, superfici esterne: Facciata

 

LE SUPERFICI ESTERNE

Nelle superfici esterne della Facciata (fig. 1) e di entrambi i suoi lati (figg. 2 e 3), la Cappella si presenta radicalmente priva di residue finiture superficiali, così, suggellando il proprio progressivo svilimento formale e funzionale.

fig. 2: Cerfignano (Lecce), Cappella di Sant’Aloja, superfici esterne: Lato verso nord

 

fig. 3 Cerfignano (Lecce), Cappella di Sant’Aloja, superfici esterne: Lato verso sud

 

Il pieno rifacimento della copertura di Sant’Aloja dovette essere susseguente all’eliminazione del sistema originario: «Gli imbrici sono ancora evidenti nelle foto scattate prima dei consolidamenti del 2005» (Supra); di là dalle sue occorrenza ed efficacia nell’ambito del “restauro conservativo 2013-2015”, sta di fatto che l’attuale tetto è lontano dalla naturale connotazione temporale del fabbricato e ne recide ogni collegamento tecnico e formale con il tipo di copertura originale, quale arguibile dalle stesse foto di progetto[9]: una chiusura dell’estradosso discontinua “a dorso d’asino”, piuttosto diffusa nel tardo medioevo salentino, finita direttamente con embrici manufatti e protetta da un semplicissimo coronamento delle pareti laterali o dell’intero perimetro dell’aula[10].

L’estremità presbiteriale della Cappella, regolarmente “orientata”, è pressoché obliterata da un deposito agricolo privato. Si tratta di una costruzione in totale continuità con Sant’Aloja, bisognosa di appropriati approfondimenti, sia per la possibile testimonianza di passati ambienti liturgici o conventuali collegati alla Cappella stessa, sia per poterne delineare una, davvero imprescindibile, “riconversione”.

Oltreché fuorviata dalla ingombrante presenza del deposito sopraccitato, la lettura dei due prospetti laterali della Cappella soffre dell’assenza di ogni naturale materia e carattere superficiali: basti considerare che il solo intricato palinsesto di uno stipite del portale lapideo d’ingresso, inciso da numerosi e sofferti disegni e da iscrizioni devozionali (fig. 4), rivela il secolare metabolismo di Sant’Aloja più di tutte le sue superfici esterne messe insieme.

Il fronte della Cappella è strozzato dallo scavo di una moderna strada asfaltata che, cingendo in modo scriteriato e progressivo il sacro fabbricato, ne ha amputato il sagrato e l’orografia naturali, e lo ha ridotto in una rotatoria.

Due elementi di recente invenzione, la scala d’accesso, determinata dal maggiorato piano di calpestio interno, e il coronamento a seghettatura regolare, che si ripete sulla parete presbiteriale, benché in armonia colla destinazione rurale del finanziamento europeo, appaiono allontanarsi da quanto ancora recuperabile dei caratteri naturali della facciata.

Un’attenzione a parte meritano alcune strutture laterali centinate, ora cieche, forse esplorate e fotografate da G. Giangreco (Soprintendenza leccese), in occasione dei sopraccitati “consolidamenti del 2005”. Si tratta di archi incastonati nel banco roccioso di fondazione, sotto l’area presbiteriale: elementi essenziali nell’identificazione dei caratteri originari del sito, nonché per l’individuazione di un’eventuale cripta o differenti ambienti ipogei, forse già destinati a sepolture e organicamente collegati all’aula subdivale.

A proposito dei luoghi di culto, è significativo il fatto che tali siti sacralizzati insistano spesso in “luoghi eccellenti”: dominanti un territorio, dotati di grotte, ricchi di buona acqua; caratteri ancora noti o già dimenticati. Insomma, i siti sacralizzati sono in possesso di uno o più d’uno naturale carattere straordinario: l’eziologia stessa della “persistenza dei luoghi di culto”, quel fenomeno, preesistente al cristianesimo, che conferisce connotati ancestrali all’ubicazione dei luoghi sacri.

fig. 4 Cerfignano (Lecce), Cappella di Sant’Aloja, superfici esterne-portale lapideo: particolare dello stipite sx con incisioni devozionali

 

L’INSIEME DELLE SUPERFICI INTERNE

L’insieme delle superfici interne, benché abbia costituito, e parzialmente costituisca, un interessante palinsesto decorativo, nonché conservi tracce di un’impaginazione prebarocca, con diversi brani pittorici comprensibili e apprezzabili, risulta decisamente ruderizzato.

Le “superfici orizzontali” interne di Sant’Aloja, analogamente a quelle degli esterni, esibiscono l’assenza di ogni naturale materia e carattere superficiali (fig. 5).

fig. 5 Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja, angolo SE, alterazione delle superfici orizzontali: Volta duramente segnata; Pavimentazione soprelevata e con impiantito marmoreo

 

La Volta è priva della sua regolamentare linea d’imposta sulle pareti maggiori, di là che si trattasse di uno “scalino” materiale o illusorio. Tutta la struttura muraria a botte, già lacerata da lunga incuria e conseguenti, multiformi, agenti di degrado, dopo le recenti, necessarie, azioni di ricucitura e recupero funzionale, appare eccessivamente nuda e ancora duramente segnata. In particolare, un’attrezzata comparazione di “natura e stato” tra le superfici parietali e quelle dell’intradosso, dimostrano la prevalente spellatura di quest’ultimo che, di tutti i trattamenti superficiali susseguitisi nel passato, conserva esclusivamente un residuo di scialbatura preparatoria a calce (fig. 6).

fig. 6 Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja, particolare nel lato nord della volta: resti di scialbatura preparatoria

 

L’impiantito, di recente ideazione, in presumibili “lastre di Apricena”, è posto a una quota largamente infedele al naturale piano di calpestio interno: l’attuale soprelevazione di circa ottanta centimetri, oltre a sotterrare tutto il registro basamentale, mutila persino i riquadri istoriati. Tale grave alterazione morfologica determina un insanabile squilibrio nelle proporzioni dell’aula, cancella i gradini dell’area presbiteriale e tronca di netto ogni testo pittorico parietale intercettato, integro o lacunoso che sia. La documentazione disponibile lascia indistinte le responsabilità di tale attuale quota pavimentale interna, benché individuabili tra:

  • La probabile aggiunta di sepolture all’interno della navata, in un tempo compreso tra la sostituzione del ciclo pittorico prebarocco e il primo Ottocento (attuazione del napoleonico Décret Impérial sur les Sépultures [11]).
  • Le non identificabili manomissioni operate nei sopraccitati “consolidamenti del 2005”.
  • Le concrete attività del “restauro conservativo 2013-2015”, cui certamente appartiene anche l’attuale impiantito.

Di là dagli espliciti frammenti pittorici prebarocchi, che questo articolo tratta in forma alquanto sistematica (vedi oltre), nelle “superfici verticali” sono attestabili anche alcuni trattamenti murali coevi o successivi all’età barocca. Tali frammenti sopravvivono principalmente “mimetizzati” tra i lacerti pittorici prebarocchi più sparuti ed enigmatici dell’intera aula, in: “Parete presbiteriale”; “Prima arcata”, dove meglio si distingue una sorta di ridipintura, presente anche altrove, che classifico “testo a fondo biancastro”. In particolare, le superfici prive di frammenti pittorici prebarocchi appaiono largamente decorticate con significativa accortezza, ovvero, oltre al loro testo superficiale hanno perduto ogni strato preparatorio di ognuna delle loro multiple sequenze stratigrafiche.

A tale proposito, appare interessante che il “restauro conservativo 2013-2015” abbia dichiaratamente circoscritto le competenze progettuali del RBC[12]: «…agli interventi di restauro previsti in progetto sui dipinti murali all’interno della Chiesa…» (Bozza et al. 2013, Allegato 01), nonché che, conseguentemente, la concreta individuazione e riconoscimento, nonché i criteri e le modalità del «Restauro di volte e pareti non interessate da dipinti murali» (Ibid.), siano stati a totale appannaggio di architetti e ingegneri, compresa la determinazione di “dove e cosa” sottrarre della materia superficiale presente.

A completamento di un quadro d’insieme delle superfici interne: è molto probabile la passata esistenza di una generalizzata impaginazione barocca della navata, costituita anche da elementi plastici, sia nelle pareti laterali sia in quelle lunettate, cioè altri altari e vari elementi d’arredo architettonico e liturgico. Tale deduzione trova anche un certo riscontro, oltreché in varie testimonianze locali di tipo verbale, nella consultazione di alcune vecchie stampe fotografiche, con Sant’Aloja in pieno degrado e invasa da detriti, conservate dal locale archivio parrocchiale.

 

LE SUPERFICI DELLA PARETE NORD

La campitura di fondo della Parete Nord conserva solo pochi e frammentari resti pittorici. Il pennacchio centrale raffigura un kantharos aureo (fig. 7)[13], si tratta del frammento intonacale di una più ampia quadratura ad affresco, forse appartenente al “testo a fondo biancastro” sopraccitato. A ogni modo, è una pittura di dubbio riconoscimento stratigrafico e cronologico, nonché, come tutti i brani pittorici superstiti della Cappella, largamente svilita da un notevole impoverimento materiale.

fig. 7 Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja, superfici parietali nord: frammento pittorico con kantharos aureo

 

Lo “impoverimento materiale” rappresenta una questione campale nella critica e nella storiografia d’arte. Come il frequente fraintendimento di redazioni pittoriche intenzionalmente naïf, nonché gli abituali mancati riconoscimenti di avvenute manomissioni, anche la prassi di misconoscere o sottovalutare l’impoverimento materiale dei testi pittorici, costituisce un profondo vulnus nella generale estimazione della pittura salentina, e non solo di questa. In tutti i casi in cui la tecnica e la stesura adoperate abbiano previsto più strati di colore, come accade persino nella tecnica ad affresco, la perdita o il significativo impoverimento di uno o più strati conclusivi comporta una profonda alterazione svilente di tutto il dipinto. Si tratta di un deficit a volte difficilmente intelligibile da parte dello storico dell’arte che manchi di avvalersi anche del contributo di un RBC, lo specialista disciplinarmente dotato di una profonda e concreta cognizione della natura materiale dei dipinti e del loro funzionamento fisico in ogni loro stato, anche in termini visivi. Tutte le opere pittoriche interessate da fenomeni di impoverimento superficiale, anche più tenue di quello che affligge Sant’Aloja, a causa di innumerevoli accidenti materiali, che qui è impossibile approfondire, a un esame incompleto in materia di tecnologie dell’esecuzione e del degrado, dimostrano soprattutto una qualità originaria largamente inferiore al dato reale: un fenomeno endemico nei territori lungamente colpiti da stravolgimenti politici, socio-economici e culturali, come il Salento. In argomento occorre ricordare che l’opera di Sergio Ortese ha costantemente rivolto un’attenzione eccezionale e innovativa alla realtà materiale del Bene e, in conseguenza, anche all’approccio multidisciplinare di una corretta lettura del Bene stesso[14].

fig. 8 Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja, superfici parietali nord˗estremità dx: riquadro associato a sant’Aloja

 

L’estremità destra della parete nord, nel suo attuale registro rasoterra, porta un riquadro comunemente riferito a sant’Aloja (fig. 8): vescovo benedicente, con mitria, pastorale e piviale di particolare raffinatezza. Nella restante campitura parietale considerata, sono presenti alcuni lacerti di buona qualità tecnica e pittorica, caratterizzati da una posizione stratigrafica ormai ingarbugliata che riguarda un’iconografia ancora indecifrata (fig. 9).

fig. 9 Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja, superfici parietali nord˗estremità dx: frammenti pittorici indecifrati

 

fig. 10 Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja, superfici parietali nord: Prima arcata

 

Nella parte sinistra della parete settentrionale, due fregi geometrici dicromi, affrescati “a stampino”, incorniciano la Prima arcata (fig. 10): frontalmente, in parete, appare un motivo a base cromatica terra verde; lo stipite, compreso sottarco, è occupato da un differente motivo a base cromatica terra rossa. Entrambi i fregi dell’arco, benché la loro materia pittorica sia fortemente impoverita, costituiscono un interessante trompe-l’oeil destinato a simulare alcuni preziosi ornati del “Meridione normanno”, come i reali “bassorilievi con tarsie lapidee” dell’architettura palermitana.

È qui opportuno precisare che tutta la pittura murale, in sé, come ogni superfice architettonica decorata, costituisce un trompe-l’oeil, che, nell’occultare e proteggere la natura materiale del fabbricato, cerca, più o meno efficacemente, di evocare differenti spazi, tempi, forme, materie, oggetti, soggetti nell’intero ambiente.

Il fondo cieco della prima arcata, benché ormai prevalentemente lacunoso, costituisce un interessante palinsesto di testi pittorico-decorativi. La redazione di maggiore valore tecnico-artistico, forse la più antica tra quelle rilevabili nell’arcata, appartiene a una superficie già interamente istoriata “a buon fresco”, il suo frammento più significativo e bello, posto lungo il margine destro della metà inferiore del riquadro, raffigura magistralmente il palmo di una mano sinistra di presumibile appartenenza francescana: “mano francescana”. A ciò che resta della probabile figura francescana si affianca l’estatico profilo di un possibile monaco domenicano; a ragione o no, i mirabili frammenti evocano l’iconografia del celeberrimo incontro tra san Francesco e san Domenico (fig. 11).

fig. 11 Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja, superfici parietali nord˗Prima arcata: frammento con “mano francescana” e con “profilo domenicano”

 

Nella medesima arcata sono rilevabili anche frammenti di ulteriori strati policromi che, nell’area lunettata, risultano inconfutabilmente sovrammessi all’affresco “mano francescana”. Di là da tale primaria successione stratigrafica, gli strati policromi successivi al testo con “mano francescana”, pur esibendo una cronologia tecnicamente confusa, costituiscono comunque un’importante testimonianza della ripetuta metamorfosi iconografica dello scomparto. Una parte consistente dei frammenti superstiti, anche di significative dimensioni, posti soprattutto nella parte inferiore del riquadro, mostrano un fondo biancastro con tratti di disegno, giallastro, caratterizzato da geometrie elementari. Si tratta di una redazione che andò a sostituire quelle policrome sopraccitate, sovrapponendosi ai loro pochi resti. Tale “testo a fondo biancastro”, che potrebbe anche rappresentare una sorta di sinopia di manufatti plastici perduti, come un eventuale altare laterale, ha il difetto di potersi spacciare per complanare all’affresco “mano francescana”, soprattutto nelle attuali condizioni di sutura tra i relativi intonaci, nonché ha il pregio di costituire la prova materiale che lo stesso affresco “mano francescana” è stato sostanzialmente distrutto, massimamente demolito, in un tempo remoto e decisamente precedente alla realizzazione del “testo a fondo biancastro” stesso.

Poiché l’ultimo restauro ha generalmente rispettato la regola disciplinare del “tassello testimone[15]”, segnalerò volta per volta le superfici d’interesse che, come questa prima arcata, manchino di tale riscontro.

fig. 12 Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja, superfici parietali nord: Seconda arcata

 

Nella parte destra della parete settentrionale, è largamente perduta la cornice pittorica in parete della Seconda arcata (fig. 12), ne resta un significativo brano al centro dell’archivolto; si tratta di una collana floreale, con moduli a spirale, in ocra dorata; la redazione pittorica del testo è radicalmente perduta, ridotta a solo disegno preparatorio condotto a fresco. Quanto al parallelo fregio che orna il sottarco e gli stipiti, rappresenta anch’esso una collana floreale: qui i moduli sono circolari e includono larghi fiori geometrici, sempre a base ocra dorata, e il disegno è realizzato a compasso. Anche questo testo, generalmente sopravvissuto, è largamente impoverito, innanzitutto nella sua redazione pittorica. Entrambi i bei fregi policromi che scandiscono il secondo arco, come già nel primo arco, simulano dei preziosi bassorilievi scultorei con incrostazioni lapidee: le evidenti ascendenze di epoca normanna, anche di tipo plastico, qui evocano direttamente la chiesa del santi Nicolò e Cataldo in Lecce.

Il riquadro attribuito a Sant’Aloja, già rilevato nell’estremità inferiore destra del fondo della stessa parete nord, appare successivo alla scompartitura degli archi, della quale non rispetta affatto né gli spazi né la materia.

Il fondo cieco dell’arco, benché fortemente lacunoso, rivela ancora una presumibile “Annunciazione di Maria”. In alto, sotto a una sfera dorata, certamente impoverita delle stesure finali, appare una ghirlanda di serafini e cherubini. La restante figurazione si colloca in uno spazio architettonico delineato dalla sommità di un muro in laterizi, da un impiantito a scacchi e da una fascia basamentale, forse costituita da gradini, caratterizzata da probabili incrostazioni lapidee, non dissimili da ciò che nella parete presbiteriale occupa il registro basamentale. Di là dalla suggestiva e bella illustrazione di un tendaggio fortemente oblungo che custodisce le sacre scritture, è possibile intravedere, e intuire, sia l’arcangelo Gabriele, a sinistra, sia, a destra, la Vergine, forse sorpresa di fronte a un filatoio. Nel malfunzionamento pittorico di questa scena mutila, pure ancora apprezzabile, è da considerare anche un effetto del degrado poco conosciuto: sotto alla candida catena di nuvole che accolgono l’ordine alto degli angeli, un cielo già azzurro, avendo ormai interamente perduto tutto il suo pregiato pigmento azzurro, che fu regolarmente steso a secco su un fondo morellone, appare in un’ingannevole continuità cromatica con la sottostante, e decisamente terrena, parete in laterizi.

Anche qui, sembra mancare alcun “tassello testimone” delle consistenti attività di restauro. In questa scena, come spesso nell’intero registro contiguo all’attuale impiantito, è particolarmente cruenta la cesura orizzontale esercitata dall’attuale piano di calpestio.

fig. 13 Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja: superfici della Parete lunettata presbiteriale

 

LE SUPERFICI DELLA PARETE LUNETTATA PRESBITERIALE

Sono le cornici con fregi policromi delle arcate cieche laterali a connotare l’attuale l’impaginazione prebarocca della Cappella, tuttavia anche l’intera Parete lunettata presbiteriale (fig. 13) è analogamente scandita da una cornice, ormai largamente lacunosa e poco leggibile, realizzata lungo i margini delle superfici contigue: le estremità˗sud della volta a botte e delle due pareti laterali. Si tratta sempre di motivi floreali stilizzati a stampino, qui affrescati a base terra verde. I frammenti più evidenti di tale cornice presbiteriale insistono in: lato sinistro della volta (fig. 14); estremità sinistra della parete-sud (fig. 15).

fig. 14 Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja. Frammenti della cornice pittorica della Parete lunettata presbiteriale: Volta, lato sx

 

fig. 15 Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja. Frammenti della cornice pittorica della Parete lunettata presbiteriale: Parete-sud, estremità sx

 

Potrebbero appartenere a una fase prebarocca anche le “finte incrostazioni lapidee” dell’attuale fascia rasoterra che, malgrado siano state private dell’originario registro basamentale con gradini, e versino in un generale stato di degrado, conservano una qualità sorprendente e di raffinata impostazione classica. L’intera fascia di zoccolatura, è composta da specchiature dipinte su tre differenti piani verticali:

  • Il normale piano di fondo che, nell’affiancare l’altare, presenta da entrambi i lati un’incrostazione circolare, con sottile bordura marmorea, inscritta in uno scomparto rettangolare.
  • Le due estremità laterali del registro di zoccolatura, costituite dal segmento verticale di un pilastro sporgente, portano un’incrostazione romboidale, con sottile bordura marmorea, posta in uno scomparto quadrangolare.
  • Il paliotto dell’altare maggiore, ridotto a un palinsesto fortemente lacunoso e discontinuo, oltre a una probabile figurazione con simboli, conserva alcuni brani riferibili a dei finti marmi.

Sopra all’altare maggiore, unico sopravvissuto nella Cappella, dentro un’apposita nicchia muraria quadrangolare, restano chiare tracce di una pala realizzata ad affresco, il cui soggetto appare ormai pressoché indecifrabile.

La materia muraria presbiteriale manca di qualsiasi cornice o altra discontinuità tra il lunettone e la parete stricto sensu. Una piena continuità tra lunettone e parete è confermata anche dalle redazioni pittoriche identificabili, benché largamente frammentarie e lacunose:

  • Il suggestivo testo pittorico più antico, di carattere prebarocco, in alto, è rappresentato, sia a sinistra sia a destra, da pochi frammenti di una suggestiva folla di donne e uomini; in basso, nell’estremità a destra, comprende alcuni frammenti di una probabile punizione infernale ( 16 – 18). L’insieme dei suoi frammenti suggerirebbe trattarsi di un “Giudizio universale”.
  • Del testo più recente, di ispirazione barocca, si riconosce solo un grande drappo con fiorami ( 19): possibile contorno di una popolare “Madonna del Rosario”.

Sembrano assenti dalla parete est “tasselli testimone” del “restauro conservativo 2013-2015”.

fig. 16 Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja. Lunettone presbiteriale-sx: frammento pittorico con una folla di donne e uomini

 

fig. 17 Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja. Lunettone presbiteriale-dx: piccolo frammento pittorico raffigurante due soggetti signorili e un vescovo

 

fig. 18 Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja. Registro basso della Parete presbiteriale: frammento pittorico con probabile raffigurazione di una punizione infernale

 

fig. 19 Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja. Parete lunettata presbiteriale: frammenti pittorici raffiguranti un grande drappo rosa a fiorami

 

 

LE SUPERFICI DELLA PARETE SUD

Tra le imposte dei due archi, come già a nord, la campitura di fondo della Parete Sud è affrescata con un kantharos aureo. Tale frammento pittorico, oltre a un impoverimento nella materia superstite e un’enigmatica attribuzione stratigrafica e cronologica, è più lacunoso dell’omologo contrapposto.

Per il resto, la campitura di fondo a sud è priva di resti pittorici, con l’eccezione un frammento rilevabile nella sua estremità sinistra: una stesura tendente al bianco con tratti di disegno “giallastro” a geometrie elementari. Come altrove rilevato, anche tale frammento potrebbe costituire la “sinopia” di un manufatto plastico perduto e, inoltre, presenta molte analogie con il “testo a fondo biancastro” sopraccitato. Le premurose azioni di restauro su questa superficie paiono mancare di “tassello testimone”.

fig. 20 Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja, superfici parietali sud: Terza arcata

 

fig. 21 Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja, parete sud, imposta sx della Terza arcata: particolare della cornice con una rientranza dell’arco

 

L’insieme pittorico-decorativo che ci è pervenuto nella Terza arcata (fig. 20), a sinistra nella parete meridionale, si distingue per una serie di singolarità, tanto da poter rappresentare l’esito di una completa revisione, o un successivo completamento, rispetto alla prima matrice prebarocca ancora intuibile in ognuna delle altre tre arcate. L’arco che comprende il dipinto è l’unico a presentare, da entrambi i lati, una rientranza in corrispondenza della sua linea d’imposta: gli stipiti sono intenzionalmente più larghi dell’arco (fig. 21). Questa cornice pittorica, la meglio conservata delle arcate, è sormontata, in chiave, dall’antico monogramma di Cristo “IHS”, detto “Cristogramma” e, dopo l’anno 1541[16], emblema gesuitico. Frontalmente rappresenta una ricca collana floreale, realizzata a mano libera in ocra gialla, terra rossa, grigio e nero. Si tratta di un fregio, di ispirazione romanica, alquanto regolare, ma totalmente privo della geometria che caratterizza ogni altra omologa scompartitura della Cappella. Il parallelo fregio che orna il sottarco e gli stipiti, rappresenta anch’esso una collana floreale e porta gli stessi caratteri tecnici ed esecutivi; qui la redazione manuale, meno fitta, oltre al grigio, è condotta esclusivamente a sanguigna.

Il dipinto racchiuso nel fondo dell’arco cieco, benché inferiormente lacunoso, nonché troncato di netto dall’attuale impiantito, è ancora largamente godibile: si tratta di una rappresentazione della “Natività di Gesù”. Le modalità compositive e redazionali della scena, pure di singolare semplicità e fortemente didascaliche, dimostrano una sicura conoscenza dell’affresco e una chiara capacità tecnica, come prova la stessa conservazione del manufatto. Tali caratteri pongono l’opera tra le sopraccitate “redazioni pittoriche intenzionalmente naïf”, frequenti nella pittura salentina e spesso oggetto di valutazioni alquanto sommarie. Su tali opere si potrebbe citare un’infinita e alta bibliografia, a partire dalle fonti cappadoce come “Elogio di san Teodoro” di Gregorio di Nissa e fino alle interessanti monografie contemporanee, tuttavia mi limito a considerare che alcuni dipinti eseguiti magistralmente e con occhi semplici, offrono un’emozione angelica e certamente sono intenzionalmente indirizzati all’attenzione degli umili e a quanto resti di infantile in ogni persona, secondo un indirizzo evangelico: «…i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: Chi dunque è più grande nel regno dei cieli? Allora chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli. …È meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna del fuoco. Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli…» (Matteo, cap. 18, vers. 1-11).

Questa arcata è una delle parti che evidenziano la dichiarata incompiutezza del recente recupero.  Benché assente qualsiasi “tassello testimone”, risulta evidente come il, pure consistente, intervento non sia andato oltre agli smontaggi e alle operazioni di primo disvelamento. Tra l’altro emergono alcune gravi problematiche, tra cui:

  • L’opera è interessata da microflora e da perniciose efflorescenze saline.
  • Molte superfici necessitano ancora di consistenti azioni sottrattive.
  • Le operazioni di integrazione plastica sono ancora prive di coerenza in termini, non solo funzionali ed estetici, anche conservativi.
  • La corretta conservazione della scena è ostacolata dalla innaturale altezza dell’attuale piano di calpestio.

La cornice della Quarta arcata, posta nel lato destro della parete meridionale, presenta una grande affinità con l’omologa dell’opposta prima arcata ed è formata da due paralleli fregi geometrici dicromi, affrescati a stampino: frontalmente, in parete, appare un motivo circolare a base cromatica terra verde; lo stipite, compreso sottarco, è occupato da un differente motivo a base cromatica di nero e terra rossa. Entrambi i fregi, pure largamente impoveriti, evocano un bassorilievo con tarsie lapidee dell’antico “Meridione normanno”.

fig. 22 Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja, superfici parietali sud-Quarta arcata: soggetto principale

 

fig. 23 Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja, superfici parietali sud-Quarta arcata: registro inferiore

 

Quest’ultima arcata (figg. 22 e 23) è occupata da una “Incoronazione di Maria”, presumibile scena finale di un ciclo mariano. La parte celeste della composizione è offesa da una grande lacuna, largamente coincidente con la figura del Bambino. La parte terrena della composizione, delimitata da una ghirlanda di nuvole, appare ormai decapitata, nella sua parte superiore, da una lacuna che la attraversa orizzontalmente in corrispondenza del capo delle figure maggiori. In basso, è questo il dipinto maggiormente mutilato dall’impropria quota dell’attuale pavimento, maggiorata di circa ottanta centimetri rispetto al piano originale. Una piena interpretazione di questa scena potrebbe portare nuova linfa alla conoscenza dell’intero fabbricato, soprattutto per la probabile presenza delle figure dei committenti o donatori, una coppia signorile prostrata ai piedi del sacro evento: a sinistra un uomo (fig. 24) e a destra una donna (fig. 25).

fig. 24 Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja, parete sud, Quarta arcata-registro inferiore: particolare con figura sx dei committenti o donatori

 

fig. 25 Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja, parete sud, Quarta arcata-registro inferiore: particolare con figura dx dei committenti o donatori

 

Nonostante un “tassello testimone”, resta da chiarire la posizione stratigrafica di alcuni frammenti appartenenti a una differente redazione, forse persino coincidenti con la “sinopia” di un manufatto plastico sovrammesso. Inoltre, proprio in prossimità dello stesso “testimone”, nella fascia apicale del dipinto, è presente uno scalino che potrebbe rappresentare sia la linea di contatto di due differenti testi sia l’errata interpretazione operatoria dell’originaria comunione tra due giornate di un unico affresco.

Anche in questa arcata è evidente la dichiarata incompiutezza dell’ultimo intervento, e tra l’altro emerge:

  • La presenza di microflora e di efflorescenze saline.
  • La necessità di consistenti azioni sottrattive, soprattutto nella metà inferiore del dipinto.
  • L’insufficienza o inadeguatezza, anche in termini conservativi, delle integrazioni plastiche in opera.
  • La notevole sovrapposizione al dipinto dell’attuale pavimento.

 

LE SUPERFICI DELLA CONTROFACCIATA LUNETTATA

In entrambe le estremità laterali, il registro basamentale della Controfacciata lunettata mostra traccia muraria della base di un pilastro sporgente; si tratta di un carattere morfologico meglio rilevabile nella opposta parete presbiteriale, dove analoghi tronconi sono più integri e conservano la loro interessante finitura superficiale. L’architrave del portale appare fortemente manomessa, la tipologia costruttiva non esclude che in precedenza potesse avere natura lignea, carattere consueto in simili ambiti storici e culturali. La finestra del lunettone e il portale d’accesso, cioè entrambe le bucature di controfacciata, conservano tenacemente dei frammenti di scialbatura preparatoria a calce. La restante nuda parete è interrotta, nel lato sinistro, solo dalle tracce di una cornice, ultima testimonianza materiale di un ampio scomparto affrescato (fig. 26).

fig. 26 Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja-Controfacciata lunettata: frammenti pittorici superstiti di una perduta scompartitura inferiore sx

 

fig. 27 Cerfignano (Lecce), aula della Cappella di Sant’Aloja-Controfacciata lunettata: frammento pittorico superstite della “Madonna di Costantinopoli”

 

Nel lato destro la controfacciata custodisce l’unico suo brano pittorico superstite, pure gravemente mutilo e fortemente impoverito: un’elegante “Madonna di Costantinopoli” (fig. 27). Si tratta di un’iconografia, giunta dall’Adriatico con il massiccio esodo di cristiani seguito alla caduta di Costantinopoli del 1453, che evoca un mitico episodio costantinopolitano: Maria arresta miracolosamente un tentativo arabo di invasione della Metropoli con il fuoco, probabile riferimento al grande assedio guidato da Maslama nel 715-717 (Calia 2013). Nel medesimo riquadro mariano, in prossimità del “tassello testimone”, è presente una netta lacuna di profondità, di equivoca origine perché caratterizzata dall’eterogeneità dei suoi conci rispetto al relativo contesto murario.

 

LE CONCLUSIONI

Il recente recupero ha sottratto l’antica Cappella da sicura dissoluzione. A ogni modo, Sant’Aloja presenta un funzionamento ancora alterato in termini di contesto e di identità architettonica, a tal punto da approssimarsi a una condizione di rudere.

Per quanto il paragone possa sbigottire i non addetti ai lavori, “il restaurare”, di là dalle qualità in gioco e dagli esiti, presenta un’affinità con le prestazioni di una “stazione di servizio”, che vanno da un rifornimento minimo, fino al pieno, magari corredato da un completo check-up e conseguenti messe a punto: in entrambi i servizi, a meno che non ci si trovi in panne, quanto richiesto è largamente condizionato dalle disponibilità economica e di tempo del committente.

I possibili provvedimenti in campo di restauro spaziano da una minima attività d’urgenza atta a evitare danni notevoli all’opera, o un’attività strettamente manutentiva, o conservativa, fino al “restauro” propriamente detto che, partendo da un progetto multidisciplinare e globale, giunga dovunque con accuratezza. È fondamentale sapere che un buon progetto di restauro, multidisciplinare e onnicomprensivo, è suscettibile, in un secondo tempo e con diligenza, di suddivisione in lotti esecutivi.

Sarebbe ancora possibile, senza cadere in un anacronistico restauro stilistico, recuperare parte del naturale contesto dell’affascinante e prezioso sito di Sant’Aloja, nonché ripristinare, in termini non falsificatori, un migliore funzionamento della sua forma e del suo apparato iconografico.

Alcuni dei temi irrinunciabili, che un progetto multidisciplinare e globale dovrebbe svolgere, per un “restauro” di Sant’Aloja, procedendo dall’insieme verso il particolare, sono:

  • Riqualificazione paesaggistica e viaria dell’intero sito che è naturalmente caratterizzato proprio dalla presenza dell’antico edificio religioso.
  • Ripristino di condizioni adeguate del sagrato e dell’area che circonda la Cappella.
  • Approfondimenti e riconversione del Fabbricato rurale contiguo alla Cappella.
  • Approfondimenti e riqualificazione di eventuali spazi ipogei della Cappella o del Fabbricato rurale contiguo.
  • Copertura.
  • Morfologia degli esterni, scala di accesso, timpano, ecc.
  • Trattamento superficiale degli esterni.
  • Recupero dell’originale piano calpestio interno, con riqualificazione dell’altare maggiore e della fascia basamentale delle pareti.
  • Restauro delle superfici interne completamente nude.
  • Restauro degli affreschi lacunosi o frammentari.

Nella dinamica progettuale di un restauro, l’azione su alcuni elementi o particolari costituirebbe in sé la ragione e l’ispirazione di molteplici altre azioni, anche d’insieme. A esempio, il ripristino dell’originale piano di calpestio interno avrebbe immediate ripercussioni a catena: sulla facciata, sull’attuale accesso, sulla lettura della morfologia e degli affreschi interni, sul rapporto della natata con il sagrato, con i possibili spazi ipogei, con i probabili collegamenti del fabbricato rurale, con l’insieme viario, e via approfondendo. Analogamente, un trattamento delle superfici murali lacunose e con lacerti pittorici, indirizzato a una maggiore leggibilità di quanto pervenuto e attenuazione di quanto sia andato perduto, oggi preponderante, costituirebbe anche la ragione e l’ispirazione di una reimpaginazione esterna, meno rustica dell’attuale, della Cappella e di tutti i suoi contorni.

Tutto ciò consegue dalla premessa del mio esimio invitante: «…la pubblicazione… sarà utile a estendere la conoscenza delle opere pittoriche e con ciò ad assicurare alle stesse una più ampia conservazione e valorizzazione.» (Ortese 2018, p. 1).

 

Note

[1] Storica regione francese attorno a Limoges.

[2] Regnante nel Meridione d’Italia e originaria dalla contea francese di Angiò.

[3] Generosa indicazione di Filippo G. Cerfeda, valente storico-archivista salentino, che ha attestato la presenza di tale dizione popolare in vari documenti d’archivio datati tra la metà del XVI e il XVIII secolo.

[4] Storico dell’arte (Lecce 1971 – Milano 2019).

[5] RUDERIZZARE – Termine disciplinare del restauro. Atto o effetto di un’azione tendente a spingere un’opera, di là dalle sue dimensioni e dai suoi funzionamenti (anche estetici), al carattere di rudere, cioè a un’intrinseca incompiutezza e frammentarietà (nonché frequente fragilità materiale e funzionale). Può trattarsi di processi volontari e no, consapevoli e no.

[6] Vedi anche: Costantini 2018, pp. 65-66.

[7] Un restauro conservativo, concluso con una solenne “Riapertura al culto” nella tarda mattina del 22/11/2015. L’intervento fu finanziato dalla locale “Parrocchia Visitazione di Maria Vergine”, con cofinanziamento del “Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale”. Una targa, infissa sul lato sud della muratura esterna, recita: «Repubblica Italiana /Regione Puglia /Unione Europea –  LEADRE+ Misura 323 Tutela e riqualificazione del patrimonio rurale». Riporto, qui di seguito, un elenco dei principali connotati documentari dell’Intervento che, assieme al corposo progetto, è stato possibile consultare:

a) 1° Deposito del Progetto, presso MBAC-SBAP-LE, Prot. 06/05/2013.

b) Autorizzazione MIBAC-SBSAE d. Puglia in Bari, Prot. 20/09/2013.

c) Autorizzazione MBAC-SBAP-LE, Prot. 28/11/2013.

d) Autorizzazione MIBAC- Beni Archeologici d. Puglia in Taranto, Prot. 10/02/2014.

e) A.L. (presumibilmente relativa alla Cappella), deposito in Uff. Tecnico Comunale, Prot. 24/06/2015.

[8] Vedi: Bozza et al. 2013.

[9] Vedi: Bozza et al. 2013, Allegato 02.

[10] Vedi anche: Ortese 2012, pp. 77-81, 119.

[11] Spesso denominato “Editto di Saint Cloud”.

[12] RBC, acronimo di “restauratore di beni culturali”, titolo professionale regolamentato.

[13] Voglio precisare che una buona parte delle asserzioni di questo articolo in tema iconografico e storico-artistico scaturiscono da lucide osservazioni di Sergio Ortese nei sopralluoghi congiunti, oltreché dal nostro sistematico e piacevole scambio interdisciplinare.

[14] Basti considerare che i saggi di tutti i cinque regolari volumi della collana di Ortese vedono la costante presenza di due soli autori: il loro ideatore e curatore e me stesso, proprio in quanto RBC di sua fiducia.

[15] TASSELLO TESTIMONE (o Tassello di riscontro) – Termine disciplinare del restauro. Dal lat. tessella, dim. di tessĕra. Il “tassello” nel disvelamento e nel restauro di un’opera è sempre una determinata e circoscritta superficie entro cui il testo sia stato operato o no in modo specifico. Nel “testimone” la superficie non è stata affatto operata, allo scopo di conservare una testimonianza materiale, o riscontro, dello stato precedente all’intervento di disvelamento o di restauro.

[16] Anno in cui fu adottato come proprio sigillo da Ignazio di Loyola.

 

Bibliografia

Bozza R., Alicino S., Arthur P., Stefanelli E.M. 2013, Progetto Esecutivo di Valorizzazione e Restauro Conservativo Architettonico e del Patrimonio Iconografico Murale della Chiesa detta “di Sant’Aloya” (Sec. XV-XVI) in Cerfignano (Comune di Santa Cesarea Terme – Provincia di Lecce), Arcidiocesi di Otranto˗Parrocchia “Visitazione di Maria Vergine” in Cerfignano. Febbraio 2013, n.14 fascicoli.

Calia A. 2013, Costantino nelle fonti ottomane dell’età di Mehmed II. Enciclopedia Costantiniana Treccani 2013. https://www.treccani.it/enciclopedia/costantino-e-costantinopoli-sotto-mehmed-ii-l-eredita-costantiniana-dopo-la-conquista-ottomana-di-costantinopoli_%28Enciclopedia-Costantiniana%29/ (visitato il 11/11/2021).

Costantini G.M. 2018, Breve Analisi delle Superfici, in Castelfranchi M.F., Ortese S. (a cura di). Muro Leccese. Chiesa di Santa Marina, Il Più Antico Ciclo Nicolaiano del Mondo Bizantino, Galatina (LE).

Matteo (Vangelo secondo…), Il Discorso sulla Comunità dei Discepoli – Chi è più grande nel regno? Testo CEI, 2008, https://www.bibbiaedu.it/CEI2008/nt/Mt/18/ (visitato il 11/11/2021).

Ortese S. (a cura di) 2012, ICS, Sannicola, Abbazia di San Mauro, Gli affreschi sulla serra dell’Altolido presso Gallipoli, Galatina (LE), Lupo Editore, Dicembre 2012.

Ortese S. 2018, Pubblicazione Chiesa di Santa Loja in Cerfignano. Proposta sommario, Lecce, 02/12/2018.

Stendahl 1960, Roma, Napoli e Firenze, in Terenzi A. (a cura di), Milano-Firenze.

 

Giuseppe Maria COSTANTINI, restauratore di beni culturali, dal 1983 esercita attività libero professionale operatoria e no, con un’esperienza a livello nazionale di oltre trecento interventi documentati. Oltre a un’Alta Formazione, presso la Scuola Regionale per la Valorizzazione dei Beni Culturali di Botticino-Brescia, in Restauro dei Dipinti Mobili e Murali, è specializzato in Scienze della conservazione nonché in restauro delle opere lapidee e dei dipinti contemporanei. Sistematicamente attivo anche nella ricerca disciplinare, dal 1985 ha prodotto vari articoli scientifici e dal 1993 è periodicamente impegnato nelle docenze a contratto.

info e contatti: costantinistudio.com

La chiesa della Purità in Gallipoli

 

di Giovanni Maria Scupoli

Tra le sei chiese esistenti in Gallipoli, dedicate al culto mariano, quella della Purità o di Santa Cristina è decisamente il più bell’inno all’arte figurativa.
La chiesa venne costruita intorno alla metà del 1600 ed eretta a Confraternita dei Bastasi, ovvero degli scaricatori del porto, dal vescovo spagnolo Giovanni Montova de Cardona, che governò la Diocesi gallipolina dal 1659 al 1666.

La chiesa si specchia nelle acque del mare Jonio, sulla spiaggia detta della Purità. Ha una facciata semplice con un trittico raffigurante la Vergine col Bambino, San Giuseppe e San Francesco d’Assisi.
Si accede all’interno per due modeste porte e ci accoglie una navata lunga circa 20 metri.

L’attenzione è subito richiamata dalla decorazione pittorica che ricopre tutte le pareti e l’intera volta; non si scorge un palmo di vuoto: il tutto è ricoperto di tela e dove questa non giunge sono intagli lignei che la sostituiscono.
Nel XVIII secolo la Confraternita, come tutte le altre, sottopose il suo statuto all’approvazione reale che le venne concessa il 31 dicembre 1768, dal Re Ferdinando IV di Borbone.

L’interno, ad unica navata rettangolare decorata con sfarzosi stucchi, ospita un marmoreo altare maggiore sul quale è collocata la tela di Luca Giordano raffigurante la Madonna della Purità tra San Giuseppe e San Francesco d’Assisi.
La navata è completamente ricoperta da settecenteschi dipinti su tela attribuiti al pittore alessanese Oronzo Letizia e per la maggior parte al murese Liborio Riccio.

Del Riccio sono anche la Moltiplicazione dei pani e dei pesci sulla controfacciata e le quattro scene bibliche (Caino e Abele, Adamo ed Eva, Mosé, Davide e Golia) sulle pareti laterali.
Sulla volta, completamente affrescata, sono presenti tele raffiguranti scene tratte dall’Apocalisse; mentre tra gli spigoli, resi più cupi dai colori invernali, si avvolge, nelle ampie spirali, il demone del male.

Non si possono individuare gli artisti; ma non sono certamente estranei i maestri gallipolini: Catalano, Coppola e Lenti ed i napoletani Carlo e Niccolò Malinconico, che tanta traccia hanno lasciato nel patrimonio artistico gallipolino.

 

Un “consiglio di famiglia” per un matrimonio copertinese del 1809

di Davide Elia

Domenica 7 maggio 1809 una giovane coppia comparve al Comune di Copertino per formalizzare la propria volontà di contrarre matrimonio e procedere ai relativi adempimenti di legge, quali l’accertamento delle identità, la verifica delle certificazioni prodotte e l’affissione delle pubblicazioni. Lui era Baldassarre Isacco Verdesca, 26 anni, muratore; lei Tersilla Marulli, 19 anni, “artista” (ossia artigiana).

 

Entrambi abitavano alla “strada dei Pappi”, l’attuale via Matteotti, ed erano quindi vicini di casa. “Tersilla” non era certo un nome dei più consueti, soprattutto tra le famiglie di estrazione popolare …ma insoliti erano anche il nome del padre Eliodoro, defunto diversi anni addietro, e dei numerosi fratelli e sorelle: Prassede, Emerenziana, Florentino, Emilio, Demetria e Realina[1].

Il promesso sposo quel giorno si presentò munito dell’autorizzazione al matrimonio concessagli dai genitori, ancora viventi. La futura moglie, al contrario, orfana di padre e madre, era “assistita dal consiglio di famiglia, per la mancanza di detti genitori, avo ed ava”.

Entra in scena, quindi, un “consiglio di famiglia” interpellato per vigilare e deliberare sulla scelta di una giovane orfana. Un istituto oggi del tutto scomparso, che non può non suscitare curiosità oggi, ma che probabilmente anche all’epoca risultava poco consueto: esso era infatti retaggio di una legislazione straniera, solo da pochi mesi introdotta da Napoleone Bonaparte nel meridione d’Italia.

 

La figura di Napoleone non si distinse solo per le imprese militari e per gli sconvolgimenti politici che produsse in Europa, ma anche per una quantità di intuizioni epocali che si tradussero in altrettanti “balzi in avanti” per il progresso della civiltà occidentale. Tra queste, sicuramente l’introduzione del Codice Civile, che dalla Francia, dove era stato promulgato nel 1804, venne esteso agli altri paesi via via assoggettati dal Corso. In qualunque luogo d’Europa arrivasse, questa raccolta dall’enunciazione chiara, snella, elegante, spazzava via ogni obsolescenza e ambiguità insite nell’antiquata legislazione precedente. Nel Regno di Napoli, conquistato dai Francesi nel 1806, il Codice entrò in vigore il 1° gennaio 1809, regnante Gioacchino Murat. Riconoscendone l’efficacia, al loro ritorno sul trono nel 1815 i Borboni si guardarono bene dall’abrogarlo in toto: al contrario, lo mantennero in vigore in via provvisoria fino al 1819, quando venne varato il nuovo “Codice per lo Regno delle Due Sicilie”, che nei fatti era poco più che un suo rimaneggiamento.

 

…Ma torniamo al 1809 e al Codice Napoleone. Ben dettagliata era la parte dedicata al diritto di famiglia. In particolare, il codice introduceva la novità del matrimonio civile, regolato dal Titolo V del Libro I, per un totale di ben 85 articoli.

L’età minima per contrarre matrimonio era di 18 anni per l’uomo e 15 per la donna (articolo 144), derogabile in casi eccezionali (145). Nondimeno, fino ai 25 anni per l’uomo e 21 per la donna era comunque necessario chiedere il consenso dei genitori (148), o di uno solo qualora l’altro coniuge fosse già morto (149); in mancanza di entrambi, il placet doveva provenire dai nonni (150)[2].

L’articolo 160, tuttavia, aggiungeva: “Se non vi sono né padre né madre, né avoli né avole, o se si trovino tutti nella impossibilità di manifestare la loro volontà, i figli o le figlie minori di anni ventuno non possono contrarre matrimonio senza il consenso del consiglio di famiglia”. Compare qui un’istituzione, il “consiglio di famiglia”, che suona insolita, quantomeno alle nostre latitudini. Al Titolo X del Libro I, il Codice civile precisava: “Il consiglio di famiglia, non compreso il giudice di pace, sarà composto di sei parenti od affini, metà del lato paterno, metà del materno, secondo l’ordine di prossimità in ciascuna linea, i quali potranno prendersi tanto nel comune ove si farà luogo alla tutela, quanto nella distanza di due miriametri. Il parente sarà preferito all’affine nello stesso grado; e, fra i parenti di ugual grado, verrà preferito il più vecchio” (407), e: “I fratelli germani del minore, ed i mariti delle sorelle germane sono i soli eccettuati dalla limitazione del numero stabilito nel precedente articolo. Quando siano sei o più, saranno tutti membri del consiglio di famiglia, che da essi soli verrà composto, unitamente alle vedove degli ascendenti ed agli ascendenti legittimamente scusati, se ve ne fossero. Quando fossero in numero minore, saranno chiamati gli altri parenti per completare il consiglio” (408).

 

La nostra giovane copertinese Tersilla Marulli, minorenne e priva di genitori e nonni, dovette pertanto ottenere l’autorizzazione alle nozze da un consiglio di famiglia che, però, nell’occasione appare costituito da due soli componenti (ossia i due fratelli maschi), anziché i sei previsti sopra: “[…] e noi Florentino Marullo, ed Emilio Marullo fratelli col presente atto prestiamo il nostro consenso alla nostra sorella Tersilla Marullo figlia degli quondam Eliodoro, e Teresa Cordella, stante la mancanza degli genitori, e dell’avo, e dell’ava a poter contrarre matrimonio con Baldassarre Isacco Verdesca, essendo del nostro piacere, e volontà[3].

Per chi fosse giunto fin qui con la lettura e avesse maturato ormai la curiosità di sapere se i due sposi “vissero felici e contenti”, possiamo dire che il matrimonio civile ebbe luogo il 17 maggio 1809[4] e fu allietato dalla nascita di una prima figlia il 23 marzo 1810[5].

Il consiglio di famiglia, introdotto dai francesi, venne mantenuto anche dopo la Restaurazione sia nel diritto civile napoletano sia nella legislazione degli stati sabaudi, finendo anche per comparire nel Codice Civile dell’Italia unita del 1865, il cui modello fondamentale continuava a essere il codice napoleonico. Nella legislazione italiana il consiglio di famiglia scomparve definitivamente nel 1942, con la promulgazione del nuovo codice civile, tuttora in vigore pur con significative rettifiche e aggiornamenti.

 

Note

[1] Archivio Vescovile di Nardò, Stati delle Anime, Comune di Copertino, anno 1805.

[2] Il successivo articolo 152 estendeva ulteriormente agli uomini fino ai 30 anni e alle donne fino ai 25 la raccomandazione di richiedere, come forma di “atto rispettoso”, un “consiglio” ai genitori (o, in mancanza di questi, ai nonni). In caso di mancata risposta, si sarebbe dovuto reiterare tale richiesta mensilmente per tre mesi di seguito, dopo i quali l’interessato avrebbe acquisito in ogni caso la facoltà di convolare liberamente a nozze. Questo spiega perché, come narrato in precedenza, il Verdesca esibì l’approvazione dei genitori pur essendo ormai maggiorenne.

[3] Stato Civile del Comune di Copertino, 1809, Processetti, n. 4, foglio 2.

[4] Stato Civile del Comune di Copertino, Registro dei Matrimoni, 1809, n. 16.

[5] Stato Civile del Comune di Copertino, Registro delle Nascite, 1810, n. 33.

Viaggio nel passato al Museo Ferroviario della Puglia

di Giovanni Maria Scupola

Il Museo Ferroviario della Puglia è una struttura del Comune di Lecce, gestita dall’AISAF Onlus (Associazione Ionico Salentina Amici Ferrovie), sodalizio con finalità no profit che persegue la diffusione e valorizzazione del trasporto collettivo su rotaia attraverso la conoscenza della storia e della realtà ferroviaria.

Il museo, sito in Via Giuseppe Codacci Pisanelli, si aggiunge a tante altre realtà che a livello locale sono sorte in questi anni e che sono la testimonianza vivente di quanta passione ed amore sollecitino le ferrovie nei territori delle nostre belle province.

Dal 1997 l’AISAF è impegnata nella raccolta e salvaguardia di rotabili storici, cimeli e documenti per testimoniare la storia ferroviaria della Puglia.

Nel 2007 il Comune di Lecce ha acquisito dalle Ferrovie dello Stato i fabbricati e parte dell’area di pertinenza delle ex Officine Squadra Rialzo di Lecce, ne ha avviato la ristrutturazione e nel 2010 li ha affidati all’AISAF per l’organizzazione, la gestione e l’apertura al pubblico del museo.

La collaborazione tra AISAF, Ferrovie dello Stato e Ferrovie del Sud Est ha portato alla salvaguardia di importanti testimonianze storiche della rete ferroviaria pugliese, oggi visitabili all’interno del museo.

Nel 2016 la raccolta si è arricchita di un rotabile che è l’unico testimone rimasto della tradizione a vapore nel Salento: la locomotiva N. 316 FSE del 1913, recuperata e restaurata grazie al notevole impegno dei soci della Onlus.

Oggi nel museo sono esposti cimeli di vario genere, diorami (ambientazioni in scala) e plastici ferroviari che riproducono situazioni locali, nazionali ed internazionali, locomotive a vapore, locomotori elettrici e diesel, carri e carrozze, provenienti dalle Ferrovie dello Stato, dalle Ferrovie del Sud Est, dalla ex Manifattura Tabacchi di Lecce; testimonianze che, grazie anche alla qualificata ed attenta collaborazione di Fondazione FS Italiane, si spera poter incrementare e valorizzare al meglio.

Un bell’esempio di quali risultati possa raggiungere la passione per la ferrovia quando è unita all’amore per le proprie radici, all’impegno ed al sacrificio personale.

Libri| Come cardellino in gabbia

 

Un lungo viaggio, dal Seicento ai nostri giorni, alla ricerca delle fonti che svelano e documentano, per la prima volta e in modo sistematico, la “scena reale” nella quale si collocano le Canzoncine spirituali attribuite a Fra Giuseppe da Copertino. Non sono certo prove letterarie. Ed egli lo sapeva bene, conoscendo i suoi limiti di “boccaperta” e di “homo senza lettere”; ma sono solo semplici e schiette preghiere, che sgorgavano dal suo cuore quando, inebriato di Dio, della Vergine e dei Santi, fremeva dentro e, spesso d’istinto, componeva i suoi versi, che, di frequente, egli rivestiva anche di musica e canto: assai umili espressioni d’amore, che, come quieti e taciti rivoli, risuonavano di gioia, portando le proprie acque al grande fiume della sua santità.

 

L’Amministrazione Comunale di Copertino, in collaborazione con le Associazioni “Amici della Grottella” e “Casello 13”, promuove per le ore 19,30 di giovedì 29 settembre, la presentazione del volume:

Corrado Galignano, Come cardellino in gabbiaFra’ Giuseppe da Copertino (1603-1663) e le sue canzoncine spirituali, Editrice Salentina, Galatina, 2022

 

Saluti di avvio:

– Sua Ecc. Mons. Fernando Filograna, Vescovo di Nardò-Gallipoli

– Prof.ssa Sandrina Schito, Sindaco della Città

– P. Daniele Maiorano, Ministro Provinciale dei Frati Minori Conventuali di Puglia

– P. Eugenio Galignano, Rettore del Santuario Santa Maria della Grottella.

 

Intervengono i Professori Mario Spedicato e Carlo Alberto Augeri dell’Università del Salento

Conduce la Prof. Chiara Galignano

Intervalli:

– Testi: San Giuseppe da Copertino:

          * Salve, Regina, rosa senza spina

          * O bella volontà del mio Signore

          * Chi questi versi ha fatto

– Musica: Dario Pagano

– Voci: Marina Conte e Samuele Greco

Sede dell’evento: Santuario Santa Maria della Grottella.

 

Corrado Galignano, già docente di Lettere e dirigente scolastico, specializzato in Teoria e tecnica del cinema alla Scuola Superiore delle Comunicazioni Sociali (Mi), ha collaborato con la rivista Letture e lo Schedario cinematografico, pubblicando con l’editore Marsilio un suo contributo in La critica cinematografica in Italia (1977). Ha assicurato interventi specialistici in diversi quotidiani e riviste nazionali, come L’Osservatore Romano, La Gazzetta del Mezzogiorno; Miles Immaculatae, Mjlizia Mariana, e dal 1967 al 2002 con Il Santo dei voli, bimestrale dei Frati Minori Conventuali di Puglia. Ha scritto e diretto Vendemmia amara, (1975), documentario cinematografico; Giunta, o Madre, è quell’ora… (1992), sacra rappresentazione con testi poetici di San Giuseppe da Copertino; Magister adest, documentario televisivo su Mons. Raffaello Delle Nocche, vescovo di Tricarico e fondatore della Congregazione delle Suore Discepole di Gesù Eucaristico. Ha curato la pubblicazione di Creatore, creatura – S. Giuseppe da Copertino cantore della Natività del Signore, Torino 2002 e di S. Giuseppe da Copertino cantore del Mistero della Redenzione del Signore, Padova 2003. Dal 2002 collabora con Avvenire.

Rocco Coronese, nel ventennale della scomparsa

di Paolo Vincenti

La 24esima Edizione di “Identità Salentina”, organizzata dalla sezione Sud Salento di Italia Nostra, quest’anno è stata dedicata a Rocco Coronese, nel ventennale della scomparsa. “Ricordando Rocco Ricercando l’arte per la bellezza del territorio”: questo il titolo della manifestazione, voluta dal professor Marcello Seclì, già presidente della sezione Sud Salento di Italia Nostra.

La rassegna, che si svolge a Parabita, è partita il 17 settembre e si protrarrà fino al 16 ottobre, ed è patrocinata da: Comune di Parabita, Provincia di Lecce, Consiglio Regione Puglia, Camera di Commercio di Lecce, Università del Salento, Accademia Belle Arti di Lecce, Istituto Superiore “Giannelli” di Parabita, Confartigianato Imprese Lecce e Banca Popolare Pugliese.

Rocco Coronese è un parabitano illustre ed è per questo che la sua città natale ha voluto rendergli omaggio. Rocco Coronese era nato a Parabita, nel 1931. Aveva iniziato la sua attività come pittore, frequentando, negli anni Cinquanta, gli ambienti artistici romani. Dalla fine degli anni Sessanta, aveva iniziato l’attività di scultore che lo aveva portato ad esporre nelle maggiori città italiane. Sono numerose le manifestazioni organizzate da Coronese in spazi aperti, come a Roma, Lecce, Parabita, seguendo l’innovativo progetto di valorizzare, attraverso questi eventi artistici, anche i luoghi che li ospitavano e la loro storia. Parallelamente all’attività artistica egli portò avanti l’attività didattica: insegnante di grafica pubblicitaria all’Accademia di Belle Arti di Lecce e, in seguito, di Plastica ornamentale all’Accademia di Belle Arti di Frosinone, di cui era anche Direttore. Tenne prestigiose collaborazioni con la Rai, con il Coni, con il Comune di Roma, dove ha vissuto per molti anni, e con diversi Enti Pubblici. Realizzò marchi per importanti aziende, tra cui la nostra Banca Popolare Pugliese.

A Roma fece molte amicizie, come quella con Vittorio Bodini, quella con Cesare Zavattini. Coronese è morto nel 2002 a Frosinone ed è sepolto nel cimitero di Parabita.

Un sentito omaggio all’arte del creativo, venne reso con il libro Rocco Coronese, per opere, per luoghi, per parole, pubblicato dal Comitato “Gli amici di Rocco Coronese”, già nel 2012, in occasione del decennale della scomparsa. Patrocinato dal Comune di Parabita, da Provincia di Lecce, Presidenza Giunta Regionale, Università del Salento, Accademia Belle Arti di Lecce, Liceo Artistico “Giannelli” di Parabita, e sostenuto finanziariamente da Banca Popolare Pugliese, il libro, curato da Marcello Seclì, con l’Introduzione del professore Luigi Scorrano, ripercorreva la carriera del Maestro attraverso la pubblicazione dei cataloghi delle sue mostre. Ora il ventennale della morte offre una nuova occasione di approfondire la figura di Rocco Coronese come artista ed operatore culturale, con particolare riferimento alla sua città dove ha lasciato testimonianze importanti ed indelebili.

La rassegna dedicata a Coronese da Italia Nostra prevede una serie di mostre, convegni, incontri, in un programma molto articolato di cui si dà notizia sui pieghevoli di presentazione e nei manifesti e nelle locandine affissi e distribuiti per la città.

Nella inaugurazione di sabato 17 settembre, coordinati dallo studioso Paolo Vincenti, hanno preso la parola Mario Fiorella, presidente di Italia Nostra Sud Salento, l’organizzatore Marcello Seclì, già allievo e amico di Rocco Coronese, la studiosa Federica Coi, laureata in Beni Culturali, che ha parlato del nuovo volume edito da Italia Nostra, Rocco Coronese. Ricerche e mostre in memoria di un maestro, che si basa proprio sullo studio condotto dalla dottoressa Coi nelle sue attività di ricerca sul percorso artistico di Coronese.

È seguito poi l’intervento del professore Massimo Guastella, docente di Storia dell’arte contemporanea presso l’Università del Salento, che si è soffermato sulla figura e sulla carriera di Coronese. Le iniziative collocate in questa edizione di Identità Salentina, come scrive Marcello Seclì nella brochure di presentazione, “non hanno alcuna ritualità commemorativa, ma sono dettate dalla volontà di perseguire nel solco che Rocco ha tracciato quegli obiettivi di crescita culturale e di tutela del territorio attraverso percorsi pedagogici e creativi dell’arte”.

La manifestazione si articola in due mostre. “In memoria di Rocco Coronese. 20 artisti per il ventennale”, che si tiene nei locali di Via Piave, vede la partecipazione di venti artisti salentini che hanno conosciuto personalmente o hanno collaborato con Coronese e che hanno accolto l’invito di Italia Nostra ad omaggiare il maestro con una loro opera; essi sono: Franco Contini, Antonio De Salve, Enzo Fasano, Marcello Gennari, Antonio Greco, Sandro Greco, Giuseppe Lisi, Laura Manieri, Giusy Palma, Carmelo Piccinno, Cesare Piscopo, Vito Russo, Marcello Seclì, Luigi Sergi, Fernando Schiavano, Francesco Spada, Salvatore Spedicato, Cosimo Damiano Tondo, Rita Tondo, Franco Ventura.

La seconda mostra è “Manifesti per l’Arte. L’arte nei manifesti”, che si svolge a Villa Colomba, riprende l’iniziativa del 2002 e si rifà alla grande passione del maestro Coronese per l’arte del manifesto. L’idea di raccogliere dei manifesti e di creare uno spazio apposito per contenerli era venuta a Rocco sul finire degli anni Settanta e, nel 1982, aveva realizzato questo ambizioso ed innovativo progetto, con l’apertura del Centro di attività per la comunicazione-Museo del Manifesto a Parabita che, oggi, conta più di 70.000 pezzi. Purtroppo l’attività del Museo, a Parabita, si arrestò nel 1987, a causa di problemi logistici, ma Coronese continuò ad organizzare eventi nel parallelo Museo del Manifesto di Ferentino, in provincia di Frosinone, la città in cui egli risiedeva.

Nel 2002, l’Amministrazione di Parabita destinò al Museo un’ala di Palazzo Ferrari e da giugno a settembre di quell’ anno, si è tenne la 1° Mostra tematica, “L’Arte nei Manifesti”, ma ancora una volta le attività del centro si arrestarono. La sezione Sud Salento di Italia Nostra però ha continuato a raccogliere materiale delle più svariate provenienze e ad oggi la collezione consta di oltre 5000 pezzi italiani e stranieri. Ed ora questa ulteriore raccolta di manifesti viene resa pubblica. Gli orari delle mostre sono: 10-12.30 e 16.30-19, escluso il lunedi mattina. Nella serata del 17 settembre, era purtroppo assente il critico d’arte Toti Carpentieri, che avrebbe proprio dovuto illustrare la nuova raccolta di manifesti.  Durante la serata, Marcello Seclì ha poi omaggiato tutti i presenti di una plaquette nella quale è riportato un disegno di Coronese, “Un albero per il Salento”, dedicato ad Italia Nostra, associazione di cui era membro, ed una significativa poesia intitolata “Verde”, già pubblicata in un volume del 1992, Noi, il tempo, le immagini – Album di vita parabitana, edito dal Centro di Solidarietà Madonna della Coltura e Italia Nostra. Sabato 8 ottobre 2022 si terrà a Villa Colomba la tavola rotonda “Forme e funzioni dell’opera d’arte nel XXI secolo”.

Sabato 15 ottobre invece presso il Teatro Carducci, sempre a Parabita, si svolgerà il convegno “L’istruzione artistica e il suo ruolo per la bellezza del territorio”. Interverranno varie personalità del mondo dell’arte, della formazione, delle istituzioni e della cultura in genere. Domenica 16 ottobre la serata conclusiva della manifestazione, presso il Teatro Carducci, “Il polo delle arti nel Sud Salento”, con proiezione di docufilm, interventi di esperti e concerto degli studenti del Liceo musicale “Giannelli”.

Scrivono gli amici, nel volume del 2012 Rocco Coronese, per opere, per luoghi, per parole: “semplice e diretto Rocco Coronese sapeva coinvolgere, sapeva dare e domandare il giusto per nobili fini. Egli riusciva ad affascinare con la sua capacità di stare fra la gente, semplicemente. Pur essendo mancato per alcuni anni, ad ogni suo ritorno si sentiva a casa più di tanti che erano rimasti. Di fatto non si era mai allontanato da quella cultura orgogliosamente sua, suo punto di forza. Parabita ed il Salento, dunque, origine e fine. Grande comunicatore e promotore culturale, Rocco Coronese, nella sua straordinaria esperienza di artista e creativo, ha utilizzato vari linguaggi che ora vogliamo riproporre in alcune iniziative culturali per quanto è nelle nostre possibilità. Con l’auspicio che questo territorio sappia apprezzare e valorizzare le sue opere più di quanto non abbia fatto fino ad oggi…”. L’artista intesseva un dialogo continuo, serrato, con l’arte, cercando nella varietà delle soluzioni, la risposta alle proprie domande. Egli era anche convinto della funzione sociale dell’arte. “L’apertura verso gli altri è totale”, scrive Luigi Scorrano “Coronese esercita, si può dire, un’azione di affrancamento dal pregiudizio e dalla asfitticità di posizioni separanti. Percepisce la novità”.

Il nuovo volume dedicato a Coronese è disponibile presso la sede di Italia Nostra a Parabita. L’intera rassegna, è il caso di segnalarlo, è finanziata con fondi privati ovvero grazie all’intervento degli sponsor che l’hanno sostenuta.  Sempre nel segno di Rocco Coronese.

 

Libri| Cosimo De Giorgi 1866. Un salentino a Firenze capitale ed altri inediti

Nel 2022 ricorre il centenario della morte di uno dei più illustri salentini di sempre, Cosimo De Giorgi. Tra le iniziative volte a ricordare tale ricorrenza è l’importante volume di oltre 400 pagine, da poco dato alle stampe per le Edizioni Esperidi, opera di Riccardo Carrozzini, “Cosimo De Giorgi 1866. Un salentino a Firenze capitale ed altri inediti”.

Verrà presentato venerdì 30 settembre 2022 alle 18.00 nella sala conferenze del MUST-MUseo STorico della città di Lecce (via degli Ammirati 31).

Sono previsti i saluti di:

Carlo Salvemini, sindaco di Lecce;

Loredana Capone, presidente del consiglio della regione Puglia;

Costantino Giovannico, sindaco di Lizzanello

Fulvio Pedone, già sindaco di Lizzanello;

Giovanna Caretto, già dirigente del Liceo Scientifico “Cosimo De Giorgi” di Lecce.

 

Interverranno:

Livio Ruggiero già professore associato di fisica dell’atmosfera – UniSalento;

Cristina Martinelli, saggista e scrittrice;

Addolorata Adas Mazzotta, già dirigente dell’Istituto “O. G. Costa” di Lecce.

Concluderà l’autore.

Sarà presente l’editore Claudio Martino.

 

Il volume ha potuto vedere la luce principalmente per la grande liberalità di Teresa Salomi, figlia del naturalista Liborio, amico e successore di Cosimo De Giorgi presso l’istituto “O. G. Costa” di Lecce, che ha voluto donare all’autore il materiale inedito che suo padre aveva ricevuto dal De Giorgi e che costituisce il nucleo centrale di questo lavoro.

Arricchito da ulteriori originali ricerche e contributi, il volume è focalizzato soprattutto sugli anni giovanili del periodo toscano del De Giorgi, periodo che tanta influenza ebbe per la formazione e il consolidamento del suo carattere e del suo habitus di scienziato dai vastissimi interessi e dalla vastissima cultura. Il diario 1866 ci mostra, già a 24 anni, tutti gli aspetti della personalità del De Giorgi maturo. DG si reca spesso in Parlamento, a Palazzo Vecchio, e diventa anche puntuale cronista della preparazione e degli avvenimenti della guerra austro-prussiana e della “nostra” terza guerra d’indipendenza, all’epilogo della quale rientra a Lecce utilizzando la linea ferroviaria adriatica appena ultimata. (Come non notare le evidenti analogie tra la guerra vissuta dal DG e la guerra provocata dall’invasione russa dell’Ucraina che tutti noi stiamo vivendo dallo scorso 24 febbraio?).

I contributi di Gaetano Cascavilla e di Vito (Gianni) Ingrosso, e quello sulle 21 poesie inedite contenute nel volume, di cui scrive Cristina Martinelli, integrano molto validamente il lavoro e le ricerche dell’autore.

Tutte le notizie e i tanti documenti inediti contribuiscono ad arricchire la figura a tutto tondo e la statura del nostro mai troppo famoso conterraneo, che da questa lettura escono, se ce ne fosse bisogno, ulteriormente accresciute. La presentazione del volume è stata scritta dalle Dirigenti delle due Istituzioni scolastiche legate alla figura dello scienziato, il Liceo scientifico “Cosimo De Giorgi” e l’Istituto “O. G. Costa” di Lecce, che De Giorgi contribuì a fondare e a tenerne alta la fama.

La copertina del volume è stata ottenuta da un disegno d’epoca del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, che raffigura l’apertura del Parlamento a Firenze capitale (1865), modificato ed adattato con l’inserimento di Cosimo De Giorgi e del Re Vittorio Emanuele II.

La città di Lecce ha patrocinato l’evento e il volume, che è stato dato alle stampe per il contributo di Leo Costruzioni, Banca Popolare Pugliese, Liceo Scientifico “Cosimo De Giorgi”, Istituto “Costa-Scarambone-Galilei” di Lecce.

 

Riccardo Carrozzini è nato nel 1949. Architetto e già docente di scuola superiore, è autore di numerosi contributi sui beni archeologici e architettonici di alcuni comuni del Salento centrale e in particolare sull’area archeologica di Roca Vecchia. Più di recente, nel 2015, ha dato alle stampe un volume sulla vita e l’opera di Liborio Salomi: Liborio Salomi, un illustre salentino quasi sconosciuto. Ha poi curato, nel 2017, i volumi I Salomi, antica famiglia del Salento, di Teresa Salomi, e Fatti, vicende e personaggi del “Cosimo De Giorgi”, primo liceo scientifico di Puglia. Nel 2021 ha partecipato al contenuto del volume Torre dell’Orso, una località balneare salentina tra ricerca e memoria, a cura di Mario Spedicato, con il contributo Il popolamento antico (beni archeologici, artistici e storici a Torre dell’Orso).

La masseria Monteruga, borgo fantasma

di Giovan Maria Scupola

Tra le campagne salentine, nel sud-ovest del Salento, si trova un piccolo borgo di nome Monteruga. Una frazione abbandonata situata a Veglie, in provincia di Lecce.

La caratteristica principale di questo piccolo borgo, è quello di essere stato abbandonato in epoca remota, ed oggi, frastagliato dal tempo, presenta tutte le caratteristiche di un paese del mitico Far West.

Monteruga è una frazione sorta nel ventennio fascista (1928) ed è un tipico esempio di villaggio rurale di quel periodo. Negli anni ‘50 il borgo si rinverdì grazie all’espropriazione dei terreni agricoli, assegnati ai contadini che si insediarono. Con lo sviluppo dell’agricoltura, diverse famiglie del Sud si stabilirono a Monteruga per lavorare i campi ed il piccolo borgo, raggiunse gli 800 abitanti circa.

Il paesino annovera al suo interno: una scuola, la caserma, la chiesa di Sant’Antonio Abate, la piazza principale ed un campo di bocce per il passatempo. Il lavoro rurale svolto a Monteruga era riconosciuto in tutto il Salento, in particolar modo grazie alla produzione di tabacco e del vino.

La migrazione dovuta alla privatizzazione verso i grandi centri fu uno dei fattori predominanti per l’abbandono del luogo divenendo ben presto un vero e proprio paese fantasma nell’immaginario collettivo.

Monteruga è al momento un luogo deserto, trattasi di proprietà privata con accesso limitato, e le sue costruzioni sono ancora vivide anche se non totalmente integre. È uno dei borghi della provincia di Lecce da visitare almeno una volta.

Agar nel deserto del Solimena… persuasa a non tornare indietro a Tutino! 

Dipinto originale del ‘600 attribuito a Francesco Solimena detto Abate Ciccio trafugato nella notte del 21 maggio 1982 (foto in b/n tratta dal Cat. gen. Soprint. Beni Storici Artist. ed Etnoantrop. di Puglia)

 

di Fabrizio Cazzato

Ricorre quest’anno il quarantesimo anniversario del furto della pregevole opera pittorica  “AGAR nel DESERTO” (persuasa dall’Angelo a tornare indietro), attribuito al maestro napoletano Francesco Solimena  (*1657- +1747), conosciuto anche con il nome di Abate Ciccio, trafugata da ignoti nella notte del 21 maggio 1982 nella chiesa di San Gaetano di Tutino.

La tela, in dote alla corposa collezione dei Principi Gallone di Tricase, che molta influenza ebbero nella società partenopea sia nell’arte che nel commercio, venne donata alla venerabile confraternita dell’Immacolata e S. Nicolò in Tutino dal padre spirituale don Giuseppe Gratis nel 1889 e successivamente restaurata nel 1896, dato non poco rilevante che già evidenziava, presumibilmente, uno stato di conservazione del dipinto non proprio buono.

Il programmato restauro e l’imminente traslazione del dipinto presso un laboratorio di Belle Arti di Puglia, trovò il disappunto dell’allora consiglio di amministrazione della confraternita dell’Immacolata proprietaria dell’opera, che per paura di riceverne una copia in cambio dell’originale, fece trattenere il dipinto nella sua sede originaria di S. Gaetano.

Prospetto Chiesa di san Gaetano – Tutino – sede della Confraternita dell’Immacolata e s.Nicolò. (foto trattta dal sito uff. del Comune di Tricase)

 

Con stupore, dopo alcuni giorni, si notò la grande cornice appesa sulla parete destra della chiesa (per intenderci sullo stipone della statua lignea di S.Gaetano) senza la tela che era stata asportata dal telaio e che a Tutino non fece mai più ritorno.

Francesco Solimena operò nella città partenopea nel XVII secolo, entrando in contatto con altri grandi pittori del periodo barocco come Luca Giordano e Mattia Preti,  acquisendo un alto livello artistico espresso nei suoi capolavori ricercati e commissionati dalle più importanti Casate del tempo.

Nell’agosto del  1995 in occasione della riapertura al culto della chiesa di S.Gaetano, dopo un radicale restauro durato un anno, la confraternita dell’Immacolata commissionò al pittore prof. Roberto Buttazzo da Lequile una copia del dipinto “Agar nel deserto”, in sostituzione di quella originale e posizionata nella stessa cornice per l’occasione restaurata.

Dipinto “Agar nel deserto” del maestro prof. Roberto Buttazzo da Lequile 1995 – Chiesa san Gaetano Tutino – Foto di Fabrizio Cazzato

 

Dopo quarant’anni AGAR  attende di essere ritrovata e di ritornare nel suo luogo di appartenenza.

Da questa vicenda forse impareremo a capire e amare l’arte, perché solo una comunità consapevole del proprio patrimonio sarà in grado di custodirlo, proteggerlo e trasmetterlo alle future generazioni.

 

Bibliografia

R.Baglivo, La Confraternita dell’Immacolata nella Cappella di San Gaetano di Tutino, Congedo Editore, Galatina 1996

Casarano. Le parole sono pietre, dal 23 al 30 settembre 2022

 

La manifestazione “Le parole sono pietre” nacque nel 2002 da una coraggiosa intuizione, quella cioè di investire sulla cultura attraverso l’arte puntando sul proprio territorio. Chi lo dice che non si possa fare cultura anche in modo leggero? Perché la cultura dev’essere noiosa e per pochi eletti? Ed è così che la manifestazione organizzata dall’associazione culturale Percorsi d’arte è cresciuta di anno in anno, ospitata in luoghi antichi e importanti dal punto di vista storico e architettonico per Casarano, da Palazzo de Judicibus nel 2002, l’anno successivo nella Chiesa di Casaranello e poi la Stazione delle Ferrovie sud-est, Castello Pio, l’ex Arena moderna, un Calzaturificio. Le pietre furono i luoghi che accolsero e amplificarono in un reciproco scambio i contenuti racchiusi, arte, poesia e musica in una perfetta sintonia, diventando ideali contenitori culturali.

Quest’anno nel 2022 la manifestazione ritorna nella settima edizione, patrocinata dalla Regione Puglia, dalla Provincia di Lecce Salento d’Amare, dal Consolato Turco, dal Comune di Casarano, dal Comune di Nardò, in un luogo suggestivo di Casarano, il suo centro storico, a cura di Cinzia De Rocco. La Kermesse partirà dall’inaugurazione della mostra di scultura dell’artista Daniele Dell’Angelo Custode, all’interno del settecentesco Chiostro Comunale venerdì 23 Settembre alle ore 19, presentata dal critico d’arte Paolo Marzano. Proseguirà lungo un percorso fin nel centro storico dove le piazze e i palazzi antichi ospiteranno le sculture in una mostra diffusa, concludendosi poi nel seicentesco frantoio ipogeo che ospiterà fino al 30 Settembre la personale dell’artista neretino. La manifestazione proseguirà con un reading poetico e con una selezione di poesie dei più conosciuti poeti turchi da Nazim Hikmet a Sabahattin Ali, a Cemal Sureya e Orhan Veli Kanik, intervallati a brani di musica tradizionale turca. Speciali lettori delle poesie saranno: Maria Saracino, Margherita Franja, Sibel Tarhan, Paolo Vincenti e Elisabetta Tucci. La serata si concluderà con l’affascinante danza degli sposi tra i presenti, che li coinvolgerà attivamente.

Il tema di quest’anno sarà “La Turchia e i rapporti col Salento, tra passato e presente” e l’obiettivo sarà quello di accrescere attraverso l’arte, la poesia e la musica, la conoscenza reciproca dei due paesi, che vada a rafforzare il già esistente sentimento di amicizia ed agevolare lo sviluppo culturale, sociale ed economico di entrambi i territori. E di questo ci parleranno il Console turco Pinar Ugursal Bolognini e la prof.ssa Isabella Oztasciyan Arnesano ex docente di letteratura neogreca all’Università del Salento.

Poiché la Puglia è sempre stata un crocevia molto importante e un punto di approdo di diversi popoli, tra cui i turchi, e considerando che negli ultimi anni tra le due nazioni si è sviluppato un rapporto di collaborazione e cooperazione, tanto che l’Italia è uno dei maggiori paese stranieri che investe in Turchia, siamo certi che la manifestazione avrà un ottimo riscontro di pubblico e un’alta valenza culturale e sociale per il basso Salento.

 

Daniele Dell’Angelo Custode è l’artista che sta affascinando architetti creativi e designer per la sua appassionata operosità ed esuberante bravura nel controllo della lavorazione del metallo. L’artista salentino affermato a livello internazionale, ama la ricerca del rapporto tra scultura e spazio circostante, gioca con la luce per modellarla dentro le sue opere. E’ un’artista in cui l’atto creativo e l’approccio intellettuale, si accompagnano ad una “straripante” capacità manuale che gli permette di trasformare un materiale quale il ferro, rigido in natura, in “infinite” e diverse forme e texture. “Il ferro lo convinci… ma non del tutto. Le regole sono e rimarranno le sue” dice l’artista, anche se osservandone i lavori, si intravede una mano ferma che con rispetto e risolutezza, modifica e forgia il metallo. Le opere recenti evidenziano una concreta maturità nell’uso del ferro. Le sue opere sono indirizzate verso quell’arte informale, che spazialmente evoca le interessanti contaminazioni materiche dell’avanguardie, ma da cui l’autore riesce a rileggere ed esibire una sofisticata contemporanea espressività. Le opere riscuotono interesse per la loro colta elaborazione, inserendosi nel paesaggio artistico per il quale Daniele Dell’Angelo Custode davvero, mostra di avere ancora molto da dire.

La leggenda di Virgilio brindisino d’adozione

 

di Nazareno Valente

La voce che il poeta di Andes avesse posseduto casa a Brindisi non era fine a sé stessa, quanto piuttosto funzionale a tutto l’apparato di leggende messe insieme per costruire l’immagine di un Virgilio brindisino d’adozione. Era pertanto di supporto ad una pretesa consuetudine del mantovano a risiedere nei nostri lidi ed alimentava, al tempo stesso, tutta una serie di deduzioni degne dei migliori miti del passato. I rami più estremi di questi frutti medievali si sono con il tempo inariditi, tuttavia, ogni tanto, vengono riproposti come fossero originali primizie. Vale così la pena di riesaminarli, nella speranza di dare un sia pur marginale contributo ad una loro definitiva collocazione nell’ambito più proprio delle tradizioni leggendarie, così da rendere in aggiunta questi racconti maggiormente fruibili per una promozione turistica della città. Città per altro tanto ricca di storia che non ci sarebbe bisogno di raschiare il fondo del badile per alimentare il suo fascino.

A raccogliere tutti questi aneddoti fu Giovanni Maria Moricino, anche se a diffonderli ci pensò nel XVII secolo Andrea Della Monaca. Nel suo «Memoria Historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi», quasi copia conforme del manoscritto “Dell’Antichiquità e vicissitudine della Città di Brindisi” del Moricino, il carmelitano arrivò a scrivere che Virgilio «volle non di meno aspettar la morte, ch’egli prevedeva in quella città (ndr, Brindisi), che s’havea eletta per patria, havendovi tenuto lungo domicilio…». Dopo aver anche fantasticato sui presunti trascorsi brindisini di Quinto Orazio Flacco, il Della Monaca aggiunge poi in piena libertà: «Non men stretta amicizia hebbe l’altro, cioè Virgilio coi Brundisini affettionandosi di tal modo a quelli, che volle farsi lor Cittadino, come fù da tutti unitamente acclamato, eligendosi anco la casa, che è nella parte della città, che mira per drittura al porto sopra il promontorio delle due Colonne. Quivi menò egli parte de’ suoi anni, e quivi scrisse buona parte delli suoi maravigliosi componimenti dell’Egloghe, delle Georgiche, e dell’Eneide…».

Sulla casa, i cui resti sono ora inglobati in una palazzina sulla sommità della Scalinata Virgilio, s’è già parlato, per cui basterà esaminare le altre questioni sollevate dal frate.

Virgilio non poteva, come afferma il Della Monaca, «farsi cittadino» brindisino per due banali considerazioni. La prima per una questione di fatto: Brindisi allora era un municipium ed i suoi abitanti erano cittadini romani, quindi in possesso della stessa cittadinanza di Virgilio; la seconda collegata al diritto romano che non prevedeva, anzi ricusava, la doppia cittadinanza: se i brindisini avessero avuto una cittadinanza diversa, Virgilio, assumendola, avrebbe conseguentemente perso quella romana. L’acquisizione di una cittadinanza diversa faceva infatti automaticamente decadere dalla titolarità di quella romana. A tal proposito, Cicerone ricordava che «nessun cittadino romano può appartenere a due città: non può essere di questa città chi si è dichiarato per un’altra» («Duarum civitatum civis… nemo potest: non esse huius civitatis qui se alii civitati dicarit potest»).

Risulta allo stesso modo improponibile che a Brindisi «menò egli parte de’ suoi anni».

Se, come attestato dai suoi biografi, il poeta rifuggiva per la sua indole riservata dalla stessa Roma perché troppo industriosa e caotica, è difficile credere che trovasse invece congeniale vivere in una città come la nostra che per caratteristiche era molto simile all’Urbe. D’altra parte le fonti letterarie antiche riportano in maniera perentoria che il poeta risiedeva in prevalenza in Campania e, in alternativa e per periodi limitati, in Sicilia. Ci sono poi evidenze di ogni tipo che smentiscono il Della Monaca.

 

È ampiamente risaputo che, in punto di morte, Virgilio manifestò la ferma volontà che l’Eneide fosse data alle fiamme perché priva degli ultimi ritocchi. Questo non fu però il suo unico desiderio. Ne espresse a chiare lettere un altro, meno conosciuto ma di analoga importanza per lui:  essere sepolto nell’amato sobborgo di Napoli sulla via Puteolana. Aspirazione che risulterebbe alquanto bizzarra, se Brindisi avesse rappresentato la città dove desiderava morire avendola eletta a  patria ed a dimora permanente.

Ci assicura infatti il suo più affidabile biografo, Elio Donato, che il desiderio del poeta fu esaudito e le sua ossa «furono trasportate a Napoli e riposte sulla via di Pozzuoli a circa due miglia» («Ossa eius Neapolim translata sunt tumuloque condita, qui est via Puteolana intra lapidem secundum»). Fu quindi vicino a Napoli che Virgilio volle essere sepolto, perché quella era la sua dimora più abituale.

Lo stesso famoso distico, che si racconta composto dal poeta perché servisse come sua iscrizione funebre, sta a provare che Brindisi non lo aveva coinvolto emotivamente al punto tale da fargli considerare la possibilità di viverci. Si legge infatti: «Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc/ Parthenope; cecini pascua rura duces». Vale a dire: «Mantova mi generò, i Calabri mi rapirono, mi tiene ora/ Napoli; cantai i pascoli, le campagne, i condottieri». Virgilio indica pertanto esplicitamente la città di nascita e di sepoltura, mentre il luogo in cui sta per morire lo identifica con un generico Calabri. Un modo invero un po’ freddo per dimostrare affetto nei riguardi della nostra città.

In definitiva, non c’è motivo valido per credere che Virgilio abbia avuto mai l’intenzione di fermarsi a Brindisi più di quanto le circostanze rendessero casualmente necessario. La sua seconda patria, senza dubbio alcuno, era la solitudine che la periferia di Napoli gli garantiva.

Se Virgilio ha frequentato solo occasionalmente la nostra città, è logico dedurre che non vi abbia potuto scrivere «buona parte delli suoi maravigliosi componimenti dell’Egloghe, delle Georgiche, e dell’Eneide». Ma vi sono evidenti indizi che inducono a consolidare tale ipotesi.

Le Egloghe furono composte nel periodo in cui il poeta era impegnato anche a seguire di persona la triste questione dell’esproprio delle terre paterne possedute nel mantovano e, per questo motivo, era costretto a risiedere nella città d’origine e, quindi, oggettivamente impossibilitato a stare nello stesso tempo a Brindisi, che distava almeno un paio di settimane di viaggio.

Per le Georgiche è lo stesso Virgilio a farci sapere che, durante i sette anni in cui le compose, egli viveva a Napoli coltivando il piacere di stare in disparte: «illo Vergilium me tempore dulcis alebat / Parthenope studiis florentem ignobilis oti…». E stessa dimora, al più intervallata con qualche sporadica visita in Sicilia, sembra che il poeta abbia avuto nel periodo di stesura dell’Eneide.

Se non bastasse, anche Ferrando Ascoli, che pure non era certo poco propenso a dare credito alle dicerie, si mostrò a tal riguardo scettico dichiarando esplicitamente: «È leggenda popolare che qui egli abbia composto buona parte delle sue opere. Viste le molte e strane leggende, che intorno a Virgilio s’intrecciano nel Medio-Evo, è lecito dubitare di ciò, considerando anche l’architettura e la posizione della casa».

Per completare il quadro, occorre ricordare che Virgilio non riservò neppure un verso della sua produzione alle nostre contrade; al contrario dimostrò grande attenzione ai lidi tarantini. E la cosa non è certo sorprendente. La città ionica continuava ad affascinare i letterati e le classi colte, grazie alle sue origine greche ed agli influssi culturali ancora percepibili. Brindisi, al contrario, aveva altri pregi che la ponevano tra le città più rinomate dell’impero, gradita piuttosto alla classe equestre e alla parte senatoriale interessata ai circuiti produttivi. Era quindi del tutto scontato che Virgilio — il quale non a caso risiedeva vicino Napoli, località greca per antonomasia — manifestasse maggiore interesse per Taranto e la frequentasse tanto da dedicarle due citazioni in versi molto apprezzati delle Georgiche.

Nella prima celebrò l’ubertoso retroterra tarantino, «saltus et saturi petito longinqua Tarenti» (Georgiche, II, 197); nella seconda, ancor più celebre e significativa, rese onore  alla vita semplice d’un vecchio contadino che, coltivando il suo terreno di pochi iugeri sotto le torri della rocca di Taranto, eguagliava nell’animo la ricchezza dei re (Georgiche, IV, 125-132). La dovizia di particolari con cui il poeta si sofferma sulle campagne del tarantino fa inoltre intuire una conoscenza non solo mediata di quei posti, facendo di conseguenza trasparire una consuetudine di rapporti che, invece, con Brindisi sembrano inesistenti.

C’è da ricordare un’ultima leggenda; questa però d’estrazione tarantina.

Nei tempi antichi non correva buon sangue tra Brindisini e Tarantini, e i motivi del dissidio si manifestarono sin da quando i Parteni — i futuri fondatori della colonia greca di Taranto — apparvero all’orizzonte. A quel tempo (inizio VIII secolo a.C.) il territorio brindisino si estendeva lungo tutta la direttrice dell’istmo che unisce la nostra città a Taranto e c’erano stanziamenti sparsi un po’ d’ovunque. Un gruppo di nostri concittadini era insediato sul promontorio dell’allora penisola posta tra il Mar Grande e il Mar Piccolo, l’odierna Taranto Città Vecchia, e fu il primo ad essere attaccato e distrutto dai nuovi arrivati. Da quel momento, iniziarono le ostilità che si protrassero per secoli con alterne fortune e con non pochi bagni di sangue. Poi, appena i romani imposero le loro leggi, la battaglia per la sopravvivenza divenne scontro di carattere tipicamente commerciale che, in breve, si risolse a favore della nostra città, o per meglio dire a vantaggio del nostro porto che divenne la quasi esclusiva porta per l’Oriente.

I Tarantini avevano di che masticare amaro e, come avviene in questi frangenti, al danno si aggiunsero le beffe: il “loro” per certi versi Virgilio aveva infatti avuto l’avventura di morire proprio nell’odiata città di Brindisi. Questa circostanza creò però anche un appiglio per dare vita ad una leggenda tarantina che modificasse la realtà secondo i loro desideri. L’evento prescelto fu appunto la morte di Virgilio che si spacciò avvenuta a Taranto e non, come in effetti accaduto, dalle nostre parti. Il tutto nacque probabilmente negli ambienti colti tarantini ed ebbe lunga gestazione, sinché valicò gli angusti confini provinciali prendendo addirittura corpo in una tradizione manoscritta della “Vita Vergilii” di Servio.

I tentativi dei Tarantini di manipolare i fatti furono però facilmente smascherati: sebbene non vi avesse mai avuto fissa dimora, né occasione di frequentarla con assiduità, risultava però incontestabile che il poeta avesse consumato a Brindisi gli ultimi istanti della sua vita.

Tra i vari autori che hanno narrato l’episodio della morte di Virgilio, quello che gode di maggiore credito è Elio Donato che poté contare sulle informazioni annoverate in opere, andate poi perdute, di scrittori d’un periodo vicino a quello in cui i fatti si erano svolti. Nella sua “Vita di Virgilio”, Donato ci narra che il poeta, all’età di cinquantuno anni, nell’intento di dare il tocco finale all’Eneide, si recò in Grecia ed in Asia. Giunto ad Atene, incontrò Augusto che tornava a Roma dall’Oriente e, pur di non separarsi da lui, decise di rientrare insieme in Italia ma, «mentre visitava la vicina città di Megara, sotto un sole cocente, fu colto da un malore che crebbe durante la navigazione non più interrotta, così che sbarcò alquanto aggravato a Brindisi, dove in pochi giorni morì, l’XI giorno avanti le Calende di ottobre sotto il consolato di Cn. Senzio e di Q. Lucrezio» («dum Megara vicinum oppidum ferventissimo sole cognoscit, languorem nactus est eumque non intermissa navigatione auxit ita, ut gravior aliquanto Brundisium appelleret, ubi diebus paucis obiit XI Kal. Octobr. Cn. Sentio Q. Lucretio coss.»).

 

Quindi, secondo Donato, il poeta morì a Brindisi il 21 settembre del 19 a.C., essendovi sbarcato già in fin di vita pochi giorni prima. Anche il “Chronicon” di San Girolamo, sia pure succintamente,  ci riporta la stessa informazione («Virgilius Brundusii moritur», «Virgilio morì a Brindisi»); allo stesso modo pure gli altri autori antichi non si allontanano da questa versione, che quindi risulta ampiamente accreditata. L’unica eccezione, a parte lo specifico manoscritto manipolato dai Tarantini di Servio, è la “Vita Vergilii” attribuita a Marco Valerio Probo in cui si trova la generica indicazione che Virgilio «morì in Calabria» («decessit in Calabria»), vale a dire in Salento, e quindi Brindisi non è, in questo caso, indicata in maniera esplicita.

Troppo poco però per mettere in dubbio un fatto che tutti gli storici davano per certo.

Almeno in questo caso, la verità storica trionfò e prevalse sulla leggenda che i tarantini avevano tentato d’imporre.

La chiesa e la confraternita di San Giuseppe a Nardò nel simposio mondiale di studi giuseppini in Messico

 

di Marcello Gaballo

A Città del Messico, dal 18 al 25 settembre, si terrà il XIII Simposio Internazionale su San Giuseppe, cui partecipano i più importanti studiosi mondiali della figura del padre di Gesù, al fine di valorizzazarne la figura e porre attenzione riscoprendo e attualizzando il suo ruolo come guida, educatore, capo autorevole e vigile della Sacra Famiglia.

La confraternita di San Giuseppe di Nardò già alcuni anni addietro, per celebrare i suoi 400 anni, organizzò un seminario di studi sul santo di cui porta il nome, con particolare attenzione sul loro oratorio edificato a Nardò nei primi decenni del 1600, poco dopo la sua fondazione (1619) e prima dell’accelerazione impressa alla devozione giuseppina dal decreto dell’ 8 maggio 1621 con il quale papa Gregorio XV estendeva la festa del 19 marzo alla chiesa universale.

In quell’occasione la confraternita realizzò anche un corposo volume che coinvolse tutta l’Italia, con qualificati interventi e ricco di testimonianze iconografiche sparse nei musei italiani, nelle varie chiese e confraternite dedicate al santo patriarca, quasi sempre influenzate dalla devozione nei vari secoli. Alle tradizionali iconografie con Gesù tra le sue braccia o in atto di sorreggerlo, furono affiancati gli insoliti aspetti della sua intima partecipazione alla vita della divina famiglia, ritratto quasi sempre pensieroso, ma anche nei gesti di sollecitudine che ogni buon padre manifesta oppure ripreso in mansioni lavorative del falegname, in azioni umili e concrete, come preparare la zuppa o attizzare il fuoco.

Sempre in quel seminario furono esaminate le pitture e la fabbrica della chiesa neritina, comparandone l’arte e il culto in essa presenti con le varie espressioni giuseppine in diocesi e nei paesi vicini, in Puglia e nelle varie regioni italiane. Soprattutto si mise in evidenza l’altare maggiore, autentica e sorprendente espressione del barocco leccese, e il suo meraviglioso altorilievo della “Fuga in Egitto”, in verità La Sacra Famiglia in Viaggio, posto nella parte superiore dell’altare maggiore. Un tema questo che ha avuto fortuna proprio a partire dal XVI
secolo, epoca del capolavoro neritino, che per questo si ritiene proveniente da altro edificio più antico. In quell’occasione la studiosa ed esperta iconografa romana Stefania Colafranceschi, ebbe a dire che questo capolavoro di scultura “richiama lo sguardo per la suggestione del sorriso che promana dai volti, e riecheggia negli angioletti sui lati, due per parte, e in quelli della trabeazione, anch’essi sorridenti. Tutti sorridono verso l’osservatore, mentre Giuseppe guarda più in su, al cielo, verso un angelo guida che idealmente segna la via…  Sorride Maria, il bambino Gesù, l’angelo intento a raccoglie i datteri dalla palma prodigiosa, secondo l’episodio narrato dai vangeli apocrifi. Sorride anche l’asino, partecipe del destino di salvezza che in quel viaggio si attua. Divino e umano, in cammino… Ad una visione ravvicinata, l’opera rivela la sua raffinatezza esecutiva e il vigore plastico: dalle vesti mosse dell’arcangelo, la veste militare e i calzari, al panneggio del manto di Maria, alla botticella scanalata di san Giuseppe, all’accurata resa dei capelli e della barba di san Giuseppe, fino alla criniera e lo zoccolo sollevato dell’asino, e non ultima, la palma leggermente inclinata, forse in parte perduta”.

particolare dell’altare maggiore della chiesa di San Giuseppe a Nardò (le due foto sono di Lino Rosponi)

 

La preziosità di questo altorilievo e delle altre testimonianze artistiche che si osservano nella chiesa neritina hanno suggerito alla studiosa di riproporre nel più grande appuntamento mondiale sul santo le peculiarità del poco noto tempio sacro. La chiesa di San Giuseppe a Nardò (Lecce): espressione di pietà e delle pratiche liturgiche confraternali è il titolo del suo intervento, previsto alle ore 10 di venerdì 23 settembre, come può leggersi nel programma dei lavori allegato.

 

Qui il programma dettagliato:

Programa XIII Simposio Internacional sobre san José

 

Altri link utili sulla chiesa e confraternita di San Giuseppe di Nardò:

De Domo David. 49 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Un convegno e un libro per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

De Domo David e la confraternita di San Giuseppe di Nardò. La recensione su L’Osservatore Romano di padre Tarcisio Stramare – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

De Domo David e l’edizione di Nardò, dalla Congregazione degli Oblati di San Giuseppe – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

La leggendaria casa di Virgilio

 

di Nazareno Valente

Le narrazioni ed i miti, partoriti a partire dal Basso Medioevo, associarono al Virgilio poeta un Virgilio dotato addirittura di poteri magici.

C’è infatti tutto un filone di leggende, ormai cadute in disuso per mancanza di anime candide disposte a crederci, che illustrava le opere di magia compiute dal poeta a beneficio dell’umanità, a cominciare da quella che l’aveva visto creare una prodigiosa mosca di bronzo in grado di liberare Napoli dal flagello delle mosche. Ma non solo: le stesse fognature di Napoli si tramandava fossero state fatte da Virgilio, così come una statua umana che, soffiando in una tromba, proteggeva il clima dagli effetti negativi del vento di Favonio, ed ancora altre meraviglie assortite. Tra le quali — pensate un po’ — anche un miracolo che risolverebbe la vexata quaestio su chi abbia effettivamente edificato le colonne romane posizionate sulla collinetta nord del porto Brindisino. Basterebbe infatti riabilitare il racconto popolare che ne attribuiva a Virgilio la costruzione, compiuta nello spazio d’una sola notte allo scopo di abbellire il luogo dove risiedeva, per avere la soluzione a portata di mano. Residenza anch’essa facente parte delle tante storielle generate dalla fervida fantasia della cronachistica locale, che hanno il loro apice appunto nella presunta casa di Virgilio.

Ed è infatti dalla leggendaria casa di Virgilio che s’inizia questo viaggio alla scoperta degli immaginosi racconti che legano il poeta alla città di Brindisi sperando che, così facendo, non si finisca per deludere coloro che li hanno ritenuti sino ad ora realistici.

Come già raccontava con la dovuta cautela Annibale de Leo, «poco lontana dal mare, ed in faccia all’imboccatura del porto interno, presso le due antiche colonne» si può vedere «un’antica casa … la quale per antica tradizione si dice essere stata la casa di Virgilio». Lo studioso brindisino era infatti troppo colto per dare un incondizionato credito alle dicerie popolari, cui lasciava spazio più per assecondare le certezze dei lettori che per effettivo coinvolgimento. Per questo preferiva riportare l’informazione accompagnandola con un «si dice» che lasciava indefinito, pur rendendolo implicito a chi avesse voluto intendere, il suo pensiero.

Alcuni secoli prima, meno circospetto s’era dimostrato Giovanni Battista Casmiro nel dare presenti nella nostra città i resti, non solo della casa di Virgilio, ma anche di quella di Pompeo. Altro però era il contesto: la sua “Epistola apologetica”, indirizzata nel 1567 a Quinto Mario Corrado, s’inseriva nell’accesa diatriba sorta con Oria per il titolo arcivescovile. Era quindi scontato che l’opera del notaro brindisino fosse ispirata al più radicale campanilismo ed in tale ottica vanno in parte interpretate le sue affermazioni.

 

Va per altro ricordato che la notorietà di cui godeva Virgilio nel periodo medievale era tale che la sua figura attirava fake news più di quanto il nettare sappia fare con le api. Non c’era infatti città, per quanto appena sfiorata dal poeta mantovano, che non sfornasse racconti incentrati sulla sua figura. Per questo motivo, fu tutto un fiorire di bufale che, come già riferito, fecero assumere a Virgilio addirittura le sembianze del mago, per fortuna benevolo.

Era quindi del tutto naturale che anche la città di Brindisi partecipasse a questo gioco creativo, sfruttando la favorevole circostanza d’aver ospitato il sommo poeta latino nei suoi ultimi istanti di vita. Quella della casa virgiliana vicina alle Colonne rappresenta certo la narrazione più radicata e la meno logorato dal tempo e che, rispetto alle altre dicerie, gode addirittura di maggiori consensi adesso che in passato. Forza della moderna cultura e delle innumerevoli fonti d’informazione alternativi ai polverosi libri.

Con ogni probabilità, la leggenda prese piede nel XIV secolo, vale a dire nel momento in cui la fama di Virgilio era al culmine, elaborata dalla cerchia di eruditi brindisini con l’evidente intento di risollevare il prestigio cittadino allora scaduto ai minimi storici dopo i fasti d’epoca romana. I primi riscontri oggettivi si hanno però agli inizi del XVI secolo, quando il racconto trovò ospitalità in un’operetta in distici elegiaci dell’ecclesiastico monopolitano Aurelio Serena attivo in quel periodo.

Nella “Descriptio portus Brundusii” (Descrizione del porto di Brindisi) il Serena ci riferisce che «è proprio certo che Virgilio abbia abitato a Brindisi, tant’è che i resti della sua casa si possono vedere tuttora», dando così per scontato sia che il poeta di Andes avesse vissuto a lungo nella nostra città, sia che la casa vicina alle colonne fosse stata davvero di sua proprietà. C’è però da tener presente che, pur considerando la duttilità dei letterati del tempo, il Serena era tuttavia un verseggiatore e la “Descripsio” un lavoro con intenti squisitamente poetici, sicché le argomentazioni storiche in esso contenute andrebbero valutate con la dovuta cautela, prima d’essere prese per buone.

Basterebbe osservare che, oltre alla chicca della casa virgiliana, il Serena tenti pure di far passare che il castello di Terra sia impresa del «potente Federico che prese nome dalla barba rossa», arrivando così a confondere Federico I Barbarossa con Federico II, per evidenziare come le sue conoscenze storiche non fossero davvero un granché.

In effetti l’edificio indicato dal poeta monopolitano pare improponibile come casa di Virgilio anche da un punto di vista strutturale. È infatti una costruzione che è già tanto se può considerarsi della fase di mezzo dell’Alto Medioevo, per cui bene che vada non sembra avere nemmeno la metà degli anni che gli si vorrebbero attribuire. La sua vecchiezza è talmente inadeguata allo scopo che può pure ipotizzarsi che il nucleo iniziale della leggenda riguardasse esclusivamente la zona dove si riteneva che Virgilio fosse morto e che, soltanto in seguito, si pensò di integrarla arruolando una casa in stile classico posizionata più o meno nei paraggi. In qualsiasi modo si sia evoluto il racconto, conviene ricordare che tra il Settecento e la prima metà del secolo scorso i più la indicavano come la “cosiddetta” casa di Virgilio, lasciando presagire che era il frutto d’una tradizione popolare e nulla più. Che questo fosse il pensiero ricorrente è comprovato dalla circostanza che, a differenza di quanto sarebbe dovuto avvenire con un reperto antico di quell’inestimabile valore, la casa sia sempre stata adibita ad esclusivo uso privato e, sempre per fini privati — per consentire un miglior utilizzo dei locali da parte dei suoi proprietari — si decise perfino che fosse incorporata in una nuova struttura, che è poi quella adesso visibile.

Ma, se anche l’edificio avesse i duemila anni che non ha, sarebbe comunque improbabile che Virgilio l’abbia mai potuta eleggere a sua dimora abituale. Il carattere del poeta, le consuetudini di quell’epoca, le caratteristiche della nostra città ed i riscontri storici inducono comunque a dubitarne.

La documentazione cita solo due circostanze in cui Virgilio passò per Brindisi: il famoso viaggio della primavera del 37 a.C., raccontato con dovizia di particolari dal poeta Orazio, e quello con destinazione Atene del 19 a.C. che si sarebbe dimostrato fatale. Il che non preclude che non vi possano essere state altre occasioni: Mecenate, cui il poeta era molto legato, gli chiedeva a volte di tenergli compagnia nei suoi frequenti viaggi, e non è detto che in alcuni di questi vi fosse Brindisi come fuggevole meta.

In ogni caso si trattava di viaggi di studio e di lavoro che non comportavano la necessità di avere una propria casa, anche perché in quelle occasioni era usuale fruire della generosa ospitalità di qualche danaroso amico. Proprio Brindisi fornisce un evidente esempio che così avveniva. Come sappiamo, Cicerone frequentò con ben maggiore assiduità la nostra città,  pur tuttavia non pensò mai di comprarsi una casa, perché ogni volta veniva ospitato da qualche amico brindisino. Figuriamoci Virgilio che la visitava al seguito di Mecenate che, ricco sfondato com’era, possedeva ville un po’ dappertutto.

Il poeta per altro non amava vivere nel caos delle grandi città, tanto è vero che, come ci racconta il suo biografo Elio Donato (IV secolo d.C.), soggiornava raramente pure nella stessa Roma («Romae, quo rarissime commeabat»). Lo storico Svetonio (I secolo d.C. – II secolo d.C.) ci fa in aggiunta sapere che, sebbene avesse a Roma una casa messagli a disposizione appunto da Mecenate, presso i suoi orti sull’Esquilino, se ne tenne per lo più distante preferendo risiedere in luoghi più tranquilli, lontano dalla gente, in Campania e in Sicilia («habuitque domum Romae Esquiliis iuxta hortos Maecenatianos; quamquam secessu Campaniae Siciliaeque plurimum uteretur»). Era poi così schivo e probo che a Napoli lo chiamavano «Parthenias», vale a dire il verginello. E proprio Napoli, dove divideva una villa con gli amici Vario e Tucca, in una zona isolata sulla via Puteolana, costituiva la sua residenza prediletta. Brindisi, che a quel tempo era una metropoli e che per certi versi assomigliava molto più a Roma che alla tranquilla periferia di Napoli, non rientrava di certo tra le città in cui il poeta avrebbe scelto di dimorare.

Di conseguenza si fa fatica a pensare che un tipo come Virgilio, così amante della quiete, abbia potuto decidersi a mettere su casa nelle vicinanze del porto brindisino che a quei tempi era uno dei posti più caotici e vivaci, percorso com’era dai continui rumori generati dalle innumerevoli tabernae, da vivaci lupanaria e da un arsenale sempre in piena attività. Avesse deciso di comprare casa dalle nostre parti, Virgilio avrebbe certamente preferito un posto più appartato, magari nella zona del Casale, dove non a caso dimorava l’establishment brindisino.

Deve aggiungersi che, per quanto casto e riservato, il nostro era abituato bene e non si sarebbe mai negato gli agi che le sue notevoli possibilità economiche gli consentivano. Ad ascoltare Svetonio, possedeva un patrimonio di quasi dieci milioni di sesterzi («Possedit prope centiens sestertium»), valutabili all’incirca in dieci milioni di euro, e quindi in grado di permettersi un’abitazione di ben altra collocazione e consistenza di quella che il Serena e la tradizione popolare gli hanno voluto assegnare. Si pensi poi che un viaggio sino a Brindisi, la cui durata allora non si calcolava in ore ma in parecchi giorni, non si faceva da soli e con un paio di valige: ci voleva quanto meno un amanuense che fungesse da segretario, quattro o cinque schiavi che pensassero ai bagagli ed agli altri bisogni quotidiani, e in più la compagnia di qualche fidato amico — tra i quali non potevano certamente mancare Vario e Tucca — con il loro rispettivo seguito di servitori. Pur prescindendo dall’effettiva epoca di costruzione, la modesta casa vicina alle colonne non avrebbe mai potuto soddisfare neppure alla lontana a tutte quelle necessità.

Al tirar delle somme, appare del tutto inverosimile che quella che viene detta la casa di Virgilio lo sia mai davvero stata.

 

È invece plausibile che, in quei pressi — ma io sarei propenso a credere molto più all’interno della città — Virgilio abbia trascorso gli ultimi istanti di vita, come per altro riportato sulla lapide eretta nel 1930 la quale per l’appunto non la indica come dimora del poeta ma unicamente come luogo dove egli «l’ultima volta salutò la Saturnia terra».

Come dire che c’era maggiore conoscenza degli avvenimenti passati, quando il progresso non aveva ancora reso possibile di connettersi in rete e di sfogliare Wikipedia, e si era pertanto costretti a consultare i tanto impervi libri custoditi nelle biblioteche.

 

Libri| Giuseppe Casciaro di Ortelle (1861-1941), pietra miliare della pittura paesaggistica napoletana

Questo libro ricostruisce in maniera completa e dettagliata la vita artistica di Giuseppe Casciaro (1861-1941), uno dei pittori più amati in Italia all’inizio del secolo scorso, maestro ineguagliato nella tecnica del pastello, pietra miliare della pittura paesaggistica napoletana e punto di riferimento per un’intera generazione di pittori a lui successiva. La narrazione è arricchita da frequenti rimandi al contesto storico, economico e relazionale entro cui il Maestro di Ortelle si muoveva, consentendo al lettore di riscoprire l’assoluta grandezza del pittore amato dai Savoia e di cogliere alcuni tratti dell’intero movimento artistico italiano all’inizio del secolo scorso.
Tramonto a Nusco, Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi, Piacenza
La produzione casciariana era strettamente incentrata sulla sacralità del paesaggio, di cui il pittore cercava gli scorci più ameni. Quelle atmosfere pacifiche e solenni, rese con ineguagliato lirismo,  erano espressione degli arcaici equilibri uomo-natura, in contrapposizione ad una quotidianità sempre più antropizzata e meno sostenibile.
Casciaro, considerato per il pastello il fondatore di un vero e proprio genere, lavorò prevalentemente tra Napoli, Ischia e Capri ma le sue opere, romantiche e veriste, seppero testimoniare ed interpretare anche il Sud meno noto (a partire dai paesaggi della sua terra nativa, il comune di Ortelle e le coste di Castro), superando alcuni stereotipi della pittura regionalista e divenendo un simbolo di italianità, con larghissimo apprezzamento in tutte le più importanti mostre d’arte del mondo.
In questo libro, accanto alla corposa trattazione biografica generale, è presentata una inedita  catalogazione complementare relativa alle opere realizzate a Nusco (AV), un’altra località iconica molto amata dal Casciaro ed i cui paesaggi, maestosi e vibranti di intonsa antichità, rappresentarono la principale alternativa ai paesaggi costieri per i quali era celebre.
Edizione della casa editrice Mephite di Avellino, finito di stampare a giugno 2022. 208 pagine, molte delle quali corredate di illustrazioni e schemi, 25×28 cm.

Ezechiele Leandro e l’arte fuori dal sistema

Esterno della casa di Ezechiele Leandro a San Cesario di Lecce

 

di Giovanni Maria Scupola

Ezechiele Leandro nasce a Lequile, piccolo paese alle porte di Lecce, nel 1905. Rimasto in giovane età orfano di entrambi i genitori, viene accolto in un convento di Francescani dove apprende i rudimenti della scrittura. Si forma autodidatta, accostandosi da solo all’arte della pittura e della scultura, tenendosi lontano dalle scuole e dalle botteghe dei maestri.

Nel 1933 si reca come minatore in Africa, dove acquista familiarità con terre e sostanze naturali che impara a mescolare ricavandone colori con i quali inizia a realizzare rudimentali opere pittoriche.

Successivamente si reca in Germania per lavoro. Tornato in Italia, sopravvive grazie agli introiti che gli derivano dall’attività di raccolta e rivendita di ferro vecchio. Sarà proprio il contatto con il ferro e con i materiali di recupero quotidianamente trattati ad accrescere il desiderio di assemblare i rifiuti della società, di riutilizzarli per dare forma ad istintive creazioni artistiche.

Negli anni ’40 Leandro inizia così la sua produzione realizzando sculture in ferro e cocci di ceramica o materiale vitreo, assemblati col cemento. Alla fine degli anni ’50, realizza le sue prime opere pittoriche.

Apprezzato dalla critica, riceve diversi riconoscimenti e partecipa e viene invitato a numerose manifestazioni artistiche.

Geniale, istintivo e dall’animo inquieto, Ezechiele Leandro riesce ad elaborare un proprio originale linguaggio artistico impropriamente definito naif o outsider.

La sua arte in realtà va oltre la mera rappresentazione e le sue opere, al tempo stesso primordiali e graffianti, finiscono con assumere soprattutto una valenza simbolica, metafora dei valori e dei disvalori della società contemporanea.

Pur non avendo conseguito alcuna istruzione scolastica, Leandro si rivela sensibile ed originale scrittore.

Nelle sue opere letterarie, scritte secondo uno stile anch’esso originale che mescola la forma dialettale ad un italiano sgrammaticato, Leandro manifesta un pensiero che, passando attraverso la religione, le usanze, i costumi del mondo contemporaneo, giunge all’elaborazione del proprio “fare arte”.

Testimonianza dell’espressività di Leandro sono d’altronde anche le pitture e le sculture che egli ha eseguito sulle facciate esterne della sua abitazione a San Cesario di Lecce, offerte alla visione di tutti.

Vero e proprio museo all’aperto, nel giardino interno che egli definiva “Santuario della pazienza” sono presenti numerosissime sculture che Leandro ha realizzato nell’intero corso della sua vita.

Ezechiele Leandro muore a San Cesario di Lecce il 17 febbraio del 1981, alla vigilia dell’inaugurazione di una importanza mostra personale organizzata dal suo paese d’adozione che, superate le difficoltà di comprendere un artista di inconsueta originalità, lo aveva finalmente accolto come autore di primaria e meritata importanza.

 

Vedi anche:

La storia dell’artista Ezechiele Leandro (artribune.com)

Arte| L’intensismo di Antonio Caracuta. Il percorso, la missione

 

di Gianluca Fedele

Il Salento, si sa, è costituito da paesi e frazioni che, come piccoli scrigni, custodiscono storie di comunità e persone. Da qualche tempo vivo Carmiano, una realtà che nonostante la frenesia del presente, in alcuni luoghi ha saputo preservare la bellezza dei rapporti spontanei, di una quotidianità lenta ed anche di gioielli d’arte com’è la chiesetta dell’Immacolata.

Qui vive e opera da sempre il pittore Antonio Caracuta. Lo si può incontrare la mattina presto in piazza Cesare Battisti, quando consuma il suo primo caffè con un pezzo di sigaro toscano e che, non fosse altro per la sua folta e lunga barba bianca, è il prototipo dell’anziano saggio, quasi un mistico. Si fa presto ad entrare in confidenza. L’aria trasognata, si alterna a momenti di malinconico amarcord e ciò che traspare più di ogni altra cosa è la sua viscerale necessità di sentirsi parte di una storia, di segnare attraverso l’estro artistico il passaggio sul mondo.

  • Com’è sorta l’aspirazione all’arte?

La vocazione per l’arte nasce da bambino, anche se non comprendevo ancora il vero significato della creatività né tantomeno avevo gli strumenti per tradurre il tormento che mi portavo dentro. Bisogna sapere che provengo da una famiglia molto povera, ma ricca di affetto semplice. A quel tempo la scuola per me era diventata una prigione che mi costringeva a non poter contribuire all’economia della casa, economia vessata dai debiti e, conseguentemente, dai creditori. Non era infatti una scena isolata per me quella di vedere i miei genitori subire il sequestro in casa, persino di oggetti davvero modesti come poteva essere una sedia. A tal proposito ho ancora viva nella mente l’immagine di mia madre che, dopo essersi dovuta separare dalla sua macchina per il cucito, con la quale riparava i nostri indumenti logori, giustificò a noi figli l’episodio sostenendo che portavano via l’attrezzo per essere riparato. Salvo poi scoprirla in disparte a piangere.

È probabilmente quello l’episodio più emblematico e traumatico della mia infanzia, quello che mi ha scatenato la rabbia contro le oppressioni, in difesa dei più deboli, dei sofferenti, dei bisognosi che vorrebbero far fronte alle situazioni più difficili per riscattarsi, nella legalità e senza commettere crimini naturalmente, ma che purtroppo non hanno i mezzi.

In età adolescenziale crescevo irrequieto e a tratti molto violento: all’età di undici anni picchiai un coetaneo, un figlio di papà, che sputò un pezzo di pane imbottito di profumato affettato contro un ragazzino che moriva di fame. Mio padre, un uomo dignitoso nonostante la condizione economica, con autorevolezza mi fece capire che con la violenza si possono solo intraprendere strade senza uscita. Ed è così che ho trovato nella pittura la mia valvola di sfogo.

 

  • Quindi già dipingevi da ragazzino?

Sì ma all’epoca era un’attività che mi metteva in imbarazzo e che mi costringeva a nascondermi, probabilmente per quel senso di colpa causato del fatto che non ci fossero soldi per acquistare tele e colori. Allora utilizzavo carboni sui muri come remoti graffiti, oppure disegnavo sulla carta che si usava per avvolgere il pesce, più robusta e facile da reperire. Ma se vogliamo per un attino ritornare ancora alla mia infanzia, mia madre mi raccontava che per addormentarmi avevo bisogno di vedere delle carte dai colori sgargianti.

A dodici anni non riuscivo più a nascondere questa grande passione che mi scoppiava dentro e così iniziai a sottoporrei i miei disegni ad un pubblico sempre più ampio, tanto da essere premiato per la prima volta, al primo posto tra molti artisti più adulti ed esperti. Conservo ancora delle opere di quel periodo, e stiamo parlando di oltre mezzo secolo fa, visto che oggi ho settantaquattro anni.

 

 

  • Come si è evoluta nel tempo la passione che descrivi?

Dopo il matrimonio la mia vita ha subito mille disavventure umane, private e professionali. Terremoti che mi hanno obbligato ad abbandonare tutto per molto tempo: dapprima la separazione da mia moglie, poi il fallimento dell’industria di falegnameria e restauro che avevo creato. Da questa fase così complessa ho tratto però la nuova linfa, iniziando il mio vero percorso nel mondo dell’arte che non si è più concluso.

Da quel momento ho iniziato a visitare le carceri, circa 45 anni fa, gli ospedali, gli ospizi, tutti luoghi in cui si tocca il dolore più comune e allo stesso tempo nascosto alla società. Penso a quei figli che abbandonano i genitori nei ricoveri per anziani, condannandoli ad una incolpevole solitudine. Lì ho cercato coi miei colori di portare serenità nel cuore e nella mente di questa gente, di alleggerire la loro sofferenza e spero di esserci riuscito qualche volta.

 

  • Si avverte una profonda fede cristiana in quello che esprimi, quanto questo aspetto ha influenzato la tua produzione?

Come ho già detto io non ho alcuna formazione scolastica, tutto quello che sono è frutto di un dono che sento di aver ricevuto da Dio, il minimo che posso fare è ricambiare con gesti di generosità. Tante energie le ho profuse combattendo la violenza, la tossicodipendenza, la pedofilia, l’ho fatto anche entrando nelle scuole, cercando di parlare ai cuori dei più piccoli. Ma anche nelle prigioni perché credo profondamente che si possano correggere e salvare adulti e ragazzi caduti nel gioco di una società a volte disattenta, che emargina anziché includere.

Nel periodo in cui raccontavo il dramma della droga, gli abissi nei quali sprofondavano intere famiglie, subii persino delle minacce, ma nulla mi ha fatto mai desistere dai propositi di denuncia che avevo intrapreso attraverso questa attività.

 

  • Mi hai raccontato che hai iniziato molto presto, ma quando hai capito di essere apprezzato come artista?

In realtà gli esordi sono stati travagliati e proprio il mio paese mi ha dato tanto dispiacere.

Le malelingue avevano diffuso la voce che i quadri non fossero frutto delle mie capacità e in tanti, persino tra i notabili, avevano aderito a questa versione crudele. L’apice della follia avvenne il 25 dicembre del 1985 quando un gruppo di giurati autoproclamatisi alla soluzione del caso mi “invitarono” a chiudermi in una stanzetta dietro la piazza con all’interno solo cavalletto, pennelli e colori. Avrei potuto declinare l’offerta, invece accettai. Quel pomeriggio i miei bambini scapparono da casa di mia madre per lasciarmi un biglietto sotto alla porta con su scritto: “coraggio papà”. Era struggente ma allo stesso tempo con quel messaggio mi diedero la forza per superare una prova assurda. Cancellai dalla tela l’opera dipinta sino a quel momento e realizzai un Natale di neve, come augurio ai miei concittadini, segno che non serbavo rancore.

Opera collocata presso la casa paterna di San Giuseppe da Copertino

 

Con Mons. Fernando Filograna, vescovo di Nardò-Gallipoli
  • Il tempo comunque ti ha riscattato.

Non certamente grazie a critici o galleristi! La notorietà raggiunta la devo esclusivamente alle persone umili di ogni ceto sociale che ho incontrato lungo il mio articolato cammino.

Oggi posso vantare otto medaglie d’oro, alcune delle quali vinte in concorsi internazionali, persino in America. Ho donato opere a tre pontefici, altre sono esposte in diverse basiliche e cattedrali. A Copertino una rappresentazione di San Giuseppe trova collocazione all’interno della casa de il Santo dei voli.

Ma tra gli episodi che conservo nel mio cuore con maggiore orgoglio c’è l’aver conosciuto Don Tonino Bello, il quale mi indirizzò un sentito augurio a seguito di una visita presso una mia mostra allestita a Santa Maria di Leuca. Un incontro che ha marchiato indissolubilmente la mia indagine sulla pace.

 

  • Quando dipingi ci sono dei colori che prediligi rispetto ad altri?

Per me i coloro sono creature che mi sbocciano dentro, l’emozione che mi provocano mentre si generano è paragonabile all’amore che si può provare per un figlio. In tutte le sfumature cerco di infondere uno spirito gioioso, capace di penetrare senza grandi fatiche nel cuore umano e nella mente.

E se talvolta un colore non viene armonioso più mi lego a quello, proprio come un genitore che sorregge la debolezza di un figlio.

Opera collocata presso la casa in cui ha vissuto don Tonino Bello

 

 

  • È stato coniato il termine Intensismo per raccontare la tua recente fase stilistica, in cosa differisce dal più diffuso Astrattismo?

Metto in conto che ci siano artisti migliori e più capaci di me, ma alcuni eventi che ho qui raccontato mi hanno spinto a perseverare all’interno di una ricerca intima, personale, del tutto originale.

Intensismo è uno stato d’animo, si serve delle emozioni del fruitore per esprimere un messaggio che è già dentro sé. Ma è anche il suono che mette in comunicazione un mondo mio sconosciuto con tutti coloro che dimostrano una spiccata sensibilità d’ascolto. Non nascondo che talvolta, alla loro ultimazione, alcune immagini nate sopra le tele abbiano sorpreso persino me.

 

  • Intendi dire che dipingi in uno stato di incoscienza?

È capitato in effetti molte volte di perdere la cognizione del tempo e della realtà circostante mentre ero assorto nella pittura, e non solo nell’intimità del mio studio. Passavano le ore, un’intera giornata addirittura, mentre al “risveglio” a me sembravano trascorse solo poche decine di minuti.

Fenomeni simili li ho vissuti anche sui palchi dove periodicamente vengo invitato per esibizioni estemporanee, tra centinaia di spettatori. Situazioni in cui respiro un’emozione indescrivibile.

 

  • Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Se Dio mi donerà la forza per continuare quest’opera non smetterò di divulgare il mio messaggio di pace, specialmente di questi tempi in cui si avverte la grandissima necessità di trasmettere pensieri positivi, di amore e fiducia verso il prossimo.

Opera della corrente di Intensismo

Una torre colombaia appena fuori l’abitato di Lecce

 

di Giovanni Maria Scupola

La torre colombaia, presente nel parco, apparteneva al complesso della Masseria Madama, che era situato appena fuori l’abitato di Lecce.

Esteticamente assimilabile alle torri di difesa, per la sua forma prevalentemente cilindrica e priva di finestre sull’esterno, la torre era usata nell’antichità per l’allevamento dei piccioni, particolarmente apprezzati per le loro carni, commestibili, dall’alto potere nutrizionale, prodotte con bassi costi e molto ricercate nella dieta alimentare dei salentini del tempo, e poiché gli escrementi prodotti dai colombi erano utilizzati come fertilizzante naturale del tempo in quanto ricchi di palombino, ottimo concime a base di azoto di origine animale, utilizzato anche nella concia delle pelli.

Dobbiamo ricordare inoltre, tra i motivi che dovettero spingere alla costruzione di questa tipologia architettonica che a lungo i piccioni sono stati impiegati per inviare messaggi, grazie alla loro straordinaria capacità di orientamento e resistenza alla fatica e che spesso i colombi allevati venivano usati come animali da richiamo per la caccia di quelli selvatici.

Non conosciamo precisamente l’epoca della sua costruzione ma il suo impianto planimetrico circolare, e i connotati cinquecenteschi fanno pensare che essa sia stata edificata nei primi anni del ‘500.

La torre è stata realizzata interamente in pietra leccese, come poche altre torri colombaie presenti in prossimità degli abitati di Lecce e Maglie.

L’accesso originario ad essa è il varco posto in posizione sopraelevata, ricavato nell’interruzione della tessitura muraria, ciò serviva per evitare l’accesso all’interno della torre di animali come faine, donnole, topi, rettili o altri predatori che vi si avvicinavano per predare i suoi abitanti e vi si accedeva solitamente tramite una scala in legno.

Una recente apertura, appena sotto quella originaria, consente invece attualmente di accedere alla torre, questa è stata sicuramente aperta dagli uomini della masseria quando la torre aveva perso la sua funzione di colombaia, per poterla utilizzare più comodamente.

All’interno della torre vi sono circa 1760 piccole celle, di forma trapezoidale, le case dei colombi; queste nicchie, ricavate nello spessore della cortina muraria, sono ottenute dalla disposizione sfalzata dei conci che costituiscono la torre. Ogni nicchia ospitava di solito una coppia di colombi, pertanto, per avere un’idea di quanti volatili vi fossero all’interno della torre, si deve moltiplicare per due il numero delle celle.

Nel nostro caso quindi, la torre avrebbe potuto ospitare sino a 3520 colombi, anche se è difficile che tutte le celle fossero occupate contemporaneamente. All’interno, un sistema di sei rampe elicoidali consente il raggiungimento delle celle più alte.
Nel Salento, dove attualmente se ne contano circa 96, di varia tipologia, le torri colombaie rappresentano un’importante testimonianza della presenza dell’uomo sul territorio, tale presenza sottolineava la ricchezza e lo status sociale del proprietario della masseria che la possedeva, ed era motivo di vanto ed orgoglio.

Libri| Racale in età feudale

 

Lunedì 12 settembre, alle ore 19.30, il prof. Mario Spedicato, con la moderazione di Paola Ria, presenterà nella biblioteca Comunale di Racale il volume di Antonio Sebastiano Serio Racale in età feudale.Territorio vassalli utili signori fra XI e XVIII secolo, a cura di Marcello Gaballo, Claudio Grenzi Editore, inserito nella Collana Analecta Nerito-Gallipolitana.

Antonio Sebastiano Serio non è nuovo a simili imprese editoriali: oltre al volume Racale. Note di storia e di costume, di cui è stato co-autore Giuliano Santonio, ha pubblicato uno studio di grande interesse sulla Chiesa di S.Maria La Nova a Racale e, di recente, Casarano nel Tardo Medioevo.

Racale in età feudale è un volume di ben 900 pagine, frutto di accurati studi tra archivi locali e nazionali, che ha richiesto buona parte della vita dell’Autore che – come scrive don Guliano Santantonio nell’Introduzione – con “questo volume offerto alla pubblica fruizione, è un atto di amore alla sua città natale, che ha dapprima servito come amministratore e che poi ha voluto conoscere fino in fondo scavando lungamente e indagando faticosamente nei meandri spesso oscuri della sua parabola storica. Ognuno si potrà facilmente rendere conto che si è trattato di un’impresa a dir poco ciclopica, che ha richiesto più di quarant’anni di ricerca e che lascia un segno indelebile nella storia di Racale e costituisce per questa città uno straordinario valore aggiunto: nessuno potrà in seguito ignorare questo basilare e imprescindibile lavoro. Lo dico non certo per piaggeria, di cui non vedo quale potrebbe essere per me il vantaggio, e senza esagerazione, ma a ragion veduta: chi ha contezza di cosa significhi raccogliere, interpretare e raccontare in modo veritiero e imparziale ciò che fa la storia di un luogo, me ne darà conferma”.

L’incredibile supporto bibliografico, il numero di note, i rimandi documentari tratti dall’Archivio di Stato di Napoli e di Lecce e l’analisi puntigliosamente scientifica delle fonti, , ne fanno un’opera davvero straordinaria e – scrive sempre Santantonio – “non sono molti i centri abitati che, al di là di improbabili e fantasiose congetture prive di riscontri e quasi sempre mosse da spirito campanilistico, possono vantare una ricostruzione della propria vicenda storica nel corso del II millennio (fino all’abolizione del feudalesimo) così completa, dettagliata e suffragata da fonti documentali di assoluta attendibilità, come quella che ci viene consegnata attraverso il poderoso volume Racale in età feudale… 

Un altro elemento di pregio che spicca in questo lavoro è che l’autore non si è accontentato di indagare le figure di rilievo sul piano socio-politico, ma ha provato a trarre fuori dall’oblio nomi, volti, vicende di quante più persone è stato possibile e che nel corso del tempo hanno costituito la comunità racalina, restituendo loro un’identità che, pur nell’umiltà del lignaggio, ha contribuito a costruire quel patrimonio immateriale di valori, di stili di vita, di esperienze, che tramandato di generazione in generazione rappresenta la tradizione peculiare e distintiva di un paese come Racale. E’ come dire che una storia fatta solo dai “grandi” mancherebbe di completezza e non basterebbe per dare piena ragione degli sviluppi che ne sono conseguiti.  Per altro canto, è un modo per certi versi nuovo e sicuramente suggestivo quello di narrare la storia non come fredda sequenza di fatti, ma come attenzione alle persone, al loro vissuto, ai loro sentimenti, alle loro relazioni e alle vicende che le hanno caratterizzate: ne viene fuori un afflato di umanità, capace di restituire sensazioni ed emozioni, che sono poi il filo rosso che collega tra loro le generazioni che si succedono, promuovendo il senso di appartenenza e di radicamento in un luogo…”.

Questo è il ricco piano dell’opera, attraverso i titoli dei 35 capitoli:

CAPITOLO I. Le origini
CAPITOLO II. L’età normanno-sveva e i feudatari della famiglia de Tallia
CAPITOLO III. Feudatari la cui Signoria è documentata da un falso della storiografia del XVII secolo (Guglielmo Bonsecolo), o da dati problematici (Guglielmo Pisanello), o da equivoci storiografici (De Monti e Malaspina)

CAPITOLO IV. Le figlie di Agnese de Tallia e l’avvento nel Regno di Carlo
d’Angiò

CAPITOLO V. L’età primoangioina e la divisione in due quote della terra dei de Tallia

CAPITOLO VI. La famiglia di Pietro de Marra

CAPITOLO VII. Risone II de Marra, II Signore di Racale

CAPITOLO VIII. Pietro II e Risone III de Marra, III e IV Signore di Racale

CAPITOLO IX. Giovannuccio de Marra, V Signore di Racale

CAPITOLO X. Giovannotto de Marra, VI Signore di Racale

CAPITOLO XI. Riccardo de Marra, VII e ultimo Signore di Racale

CAPITOLO XII. La famiglia di Riccardo de Marra

CAPITOLO XIII. Bucio Tolomei de Senis e l’insediamento su Racale di una nuova famiglia di feudatari

CAPITOLO XIV. Salvatore Tolomei de Senis e la sua famiglia

CAPITOLO XV. Racale ai tempi di Salvatore Tolomei de Senis

CAPITOLO XVI. Buccio e Marcantonio Tolomei: la conquista ottomana di Otranto e veneziana di Gallipoli

CAPITOLO XVII. Bindo Tolomei e la conquista spagnola del Regno

CAPITOLO XVIII, Alfonso Tolomei e la scomparsa dell’antica chiesa matrice
di S. Giorgio

CAPITOLO XIX. Porzia Tolomei contessa di Potenza

CAPITOLO XX. La terra ai tempi della Signoria di Porzia Tolomei

CAPITOLO XXI. La popolazione nel XVI secolo

CAPITOLO XXII. I feudatari della fine del XVI

CAPITOLO XXIII. I Cappello feudatari di Racale fra fine XVI e inizio XVII secolo

CAPITOLO XXIV. Il clero tra XVI e XVII secolo: rissosità, litigi e bravate nei regesti
dei processi del tribunale ecclesiastico diocesano

CAPITOLO XXV. Ferrante Beltrano conte di Mesagne e Signore di Racale

CAPITOLO XXVI. Racale al tempo di Ferrante Beltrano

CAPITOLO XXVII. La Signoria di Maria Beltrano e il miracolo del 1653

CAPITOLO XXVIII. 1664-1695. Racale nelle mani di diversi affittatori

CAPITOLO XXIX. L’apprezzo del 1682

CAPITOLO XXX. L’acquisto di Racale da parte di Felice Basurto e la refuta in
favore del figlio Domenico

CAPITOLO XXXI. Racale nella prima metà del XVIII secolo

CAPITOLO XXXII. Il duca Francesco Paolo Basurto senior e lo smantellamento delle opere di fortificazione della terra

CAPITOLO XXXIII. La fine del feudalesimo

CAPITOLO XXXIV. L’amministrazione della giustizia feudale

CAPITOLO XXXV. Sindaci ed eletti universali

Corredano il volume tre utilissimi indici, indispensabili per districarsi nella mole di nomi e luoghi puntaualmente menzionati tra i testi e le note: Indice delle sigle, Indice dei personaggi e Indice dei toponimi.

 

Geremia Re, pittore leveranese del Novecento

Geremia Re, autoritratto (dal sito geremiare.it)

 

di Giovanni Maria Scuppola

Geremia Re nasce a Leverano il 21 giugno 1894, primo di sei figli. Artista originale e creativo, è da annoverarsi nell’élite degli artisti salentini della prima metà del Novecento.

Nel 1912 si iscrive all’Istituto d’Arte di Roma, conseguendo il diploma nel 1917. Dal 1922 al 1928 insegna decorazione pittorica a Lecce presso la Regia Scuola Industriale d’Arte ove viene subito apprezzato per le sue doti artistiche e qualità umane.

Tra il 1928 ed il 1929 si reca a Parigi, a quel tempo principale centro d’irradiazione della cultura artistica in Europa.

Nella capitale francese espone le sue opere al Salon d’Automne, venendo a contatto con numerosi pittori appartenenti a diverse correnti. Importante nella sua formazione è anche il soggiorno a Parma, dove, agli inizi degli anni ’40, occupa la Cattedra di Figura presso l’Istituto d’Arte della città emiliana.
Sempre durante il periodo emiliano ha modo di frequentare artisti innovativi e di forte calibro come Mattioli, Soldati, Lilloni, Morandi e Guttuso.

Ritornato a Lecce, riprende il posto di insegnante di decorazione pittorica presso la Regia Scuola. Re non impone mai stili pittorici, ma esorta i suoi allievi a farsi guidare soprattutto dalla propria creatività e sensibilità, senza tuttavia ignorare i cambiamenti artistici che in quegli anni interessano l’Italia e l’Europa.
La sua pittura, sospesa tra tradizione e modernità, è caratterizzata dalla presenza e dall’uso di colori luminosi e vivaci, pieni di contrasti, senza dubbio legati alla sua terra.

Viene a mancare improvvisamente nel 1950 a Lecce, a 54 anni, per strada, per un attacco di angina.

Così Vittorio Pagano (poeta, scrittore e docente di italiano) raccontò il corteo funebre che accompagnò l’artista al cimitero di Leverano: “Non ci furono croci dietro la sua salma indosso alla quale era stata trovata una tessera di iscrizione al PCI. I religiosi non si ricordarono di Dante e di Manfredi, e questa è dolorosa cronaca dei nostri tempi, una cronaca dell’Anno Santo. Ma c’era, fra gli accompagnatori” come ricorda Pagano (1919-1979), “un frate francescano, pittore valorosissimo come Geremia Re”.

Geremia Re, Paesaggio (dal sito geremiare.it)

 

Per approfondire:

Geremia Re :: Pittore del Novecento

Libri| “Su canzoni mai cantate – poesie scelte (1994-2017)” di Cosimo Russo

“Su canzoni mai cantate – poesie scelte (1994-2017)” di Cosimo Russo

 (Musicaos Editore, Poesia 37, 2022)

 

di Renato De Capua

 

“Le poesie più belle mai le ho scritte

le ho lasciate lievitare nello stupore dello sguardo

custodite nello scrigno del non detto

prigioniere della gabbia amorevole del cuore

orfane di confine e di parole

le ho nutrite di silenzi”

(Cosimo Russo)

 

Ogni terra, tra i copiosi frutti che ospita fra le sue zolle, ha i propri poeti. Sono essi ad alimentare, con le loro opere e i loro giorni, l’humus culturale e identitario su cui si fonda un tessuto sociale, nonché a rendere uno spazio vasto, una sconfinata distesa feconda di messi.

Per tale ragione è importante leggere la poesia e raccontare i poeti; per far sì che il loro canto sia ancora udibile e che le parole da loro profuse, siano un invito a proseguire nell’andare.

Cosimo Russo

 

Su canzoni mai cantate[1], è la nuova pubblicazione postuma di Cosimo Russo, poiché racchiude un gran numero di poesie scelte in un arco cronologico che parte dal 1994 e arriva al 2017 (anno della sua prematura scomparsa). Il dato temporale è importante in quanto racchiude in sé una parabola poetica già compiuta, troppo presto sottratta alla vita, ma nel contempo ben dialetticamente definita. Il poeta ne era ben consapevole e infatti, poco prima di andarsene, confidò al fratello che sentiva di aver detto tutto quello che poteva mediante il linguaggio poetico e che da un po’ di tempo non stava più componendo poesie.

Cosimo Russo nasce a Gagliano del Capo il 26 giugno 1972 da Luigina Paradiso, bibliotecaria del paese, fervida lettrice dall’animo sensibile e appassionato; e da Umberto Russo, un imprenditore e un grande amante del mare e dei suoi silenzi. Cosimo, chiamato “Mimmo” dai familiari e dagli amici più cari, ha un fratello, Antonio, che è per lui una parte imprescindibile di sé e quindi motivo di interlocuzione poetica, così come le figure genitoriali.

La frequenza della biblioteca è un punto chiave nella formazione di Russo, poiché è lì che inizia a manifestarsi una certa propensione per la letteratura. Dopo aver conseguito il diploma da ragioniere, nel 1995 ha ventitré anni e trascorre un significativo soggiorno in Argentina, che non manca di tradurre in parola mediante la poesia; al suo ritorno inizia a partecipare alla vita culturale della città e pubblica l’unica poesia edita in vita dal poeta Il mio paese (1997), che gli vale una menzione di merito nell’ambito del concorso di poesia Premio Presicce “Poesia-Giovani”. Nel 2001 si laurea in Economia e Commercio all’Università del Salento, poi inizia un nuovo ciclo di studi in Giurisprudenza, che era riuscito quasi a terminare. In questi anni è cruciale la lettura di Girolamo Comi e la frequenza delle sale del suo palazzo di Lucugnano, dove è custodita la biblioteca del poeta. Comi è per Russo un padre spirituale, a cui dimostra una certa adesione e devozione, come un navigante che cerca con gli occhi le luci del faro di destinazione.

Nel 2002 sposa Lucia Ciardo e ha la prima figlia Sofia Luigina Maria; nel 2006 nasce la più piccola Chiara Maria.

Il 19 febbraio 2017, a causa di un’embolia polmonare, si spegne presso l’ospedale di Tricase. Ma prima di trasalire all’altra sponda del cielo, Russo aveva avviato un’attenta revisione dei suoi testi e comunicato ai suoi familiari l’intenzione di voler realizzare una silloge poetica. Così dal 2017 la famiglia Russo-Paradiso porta avanti, divulga con abnegazione e sacrificio, l’eredità di Russo uomo e poeta, consegnandolo ai lettori e alla storia letteraria.

Le sue poesie sono divenute argomento di ricerca, studio e interesse da parte di studenti, docenti universitari, cultori di lettere e di appassionati lettori.

Per comprendere pienamente la poetica di Russo, si deve tener conto del dato biografico. Alcuni motivi cruciali legati alla sua esistenza, divengono presenza costante nei suoi versi e motivo di riflessione e interrogazione poetica: il territorio e gli enti che lo abitano, l’amore, la famiglia, la vita, la morte, lo scorrere del tempo.

Ma a questi se ne potrebbero accostare molti altri; il lettore potrà scegliere quale strada percorrere.

Certo è che ognuno di questi temi merita un singolare approfondimento, per poter far luce negli orizzonti poetici di una figura che ha ancora tanto da dire.

Tutte queste immagini, inizialmente personali, confluiscono in un’atemporalità che può essere collettivamente condivisa. Se il Salento in questo contesto, come ha osservato Massimo Bray in apertura del volume, può essere interpretato come “il primitivo e archetipico ordinamento del suo mondo”, è anche l’immagine del luogo natio, del simbolo, della nostalgia, dell’inatteso, del ritorno nel quale sempre sperare nella lontananza.

La formazione letteraria e umana di Russo è sconfinata e poliedrica. Molti sono gli autori che sono stati per l’autore oggetto di studio e probabilmente ispiratori della sua linea poetica. Tra questi nella sua biblioteca figurano Antonin Artaud, Georges Bataille, Charles Baudelaire,Walter Benjamin, Jorge Luis Borges, Celine Louis-Ferdinand, Rimbaud, Osip Mandel’Stam, Ludwig Wittgenstein e molti altri[2].

L’enumerazione di questi grandi nomi della letteratura e della filosofia, può fungere da indicazione per chi volesse leggere in queste liriche la formazione di un grande poeta contemporaneo, in cui si compendiano il sentire letterario e l’indagine filosofica.

La prima lirica che apre la silloge illustra un tipico paesaggio del Salento e ha la funzione di condurre il lettore “nell’aria aperta/ tra gli ulivi e le/vigne/ e i fichi color di miele/ qui rigoglioso nasce il mio/paese”. Il paesaggio è dominato dalle case di calce bianca, da alberi di limone carichi di frutti; da un mare pigro che contempla la notte prima dell’alba. Successivamente, in un altro componimento, da uno sguardo più ampio che guarda il paesaggio, il lettore viene condotto tra le mura più intime e appartate della casa del poeta; è un luogo che Russo sente come quello dell’appartenenza per eccellenza, dove il suo spirito è “chiuso come una perla in un’ostrica” e può contemplare il fluire delle stagioni, dei loro colori e del tempo. Il poeta si presenta come un navigante errante poiché, come insegna l’immagine di leopardiana memoria della siepe ne “L’infinito”, un luogo fisico può sempre essere travalicato dall’immaginazione, dalla capacità creativa dell’uomo. Così è la stessa casa a essere fonte di materna rassicurazione, è l’unica in cui l’io lirico può aggirarsi come un principe e che continuerebbe a riconoscere, anche se gli venissero sottratti l’udito e l’olfatto. La sua casa è in grado di alleviare le sue sofferenze e di riscaldare il suo cuore. Quante volte abbiamo pensato alla nostra casa, dovendone essere lontani?

Un altro motivo ricorrente in Russo è la condizione del poeta e l’importanza della poesia. In “Le ali spezzate”, al poeta vengono spezzate le ali, non può innalzarsi ed è costretto a giacere su uno scoglio. Invoca la morte quasi fosse un atto di liberazione, verso un altrove, nuovi cieli in cui poter emanare il suo canto.

In questo passaggio è chiaro il riferimento a Baudelaire e al suo Albatro de “I fiori del male”, l’uccello dalle grandi ali che appare goffo e impacciato, quando viene imprigionato per scherno dai marinai. Infatti Russo è stato un grande amante dei maudits francesi e del loro fonosimbolismo ha saputo trarre gli strumenti per fornire una chiave interpretativa inedita della realtà.

Il lavoro di un poeta, come è stato spesso evidenziato, avviene nel silenzio della notte, quando “intorno è spenta ogni altra face,/ e tutto l’altro tace”[3] per dirla ancora una volta con Leopardi. Russo adopera due immagini suggestive per mostrare il lavorio del poeta. Nella prima è colui che si ripara “in un/ campo di stelle,” tra una e l’altra,/ pigre prede e/ cacciatrici del /silenzio.”;  nella seconda è colui che in estate riflette, medita, vive la vita, sempre con poesie nella mente.

Alcuni credono che la poesia sia inattuale e inadeguata a spiegare il tempo in cui viviamo; quest’asserzione può essere sostenuta soltanto da argomentazioni labili, fallaci e soprattutto superficiali. Il poeta americano George Carlin scrisse[4] che il problema del nostro tempo risiede nell’avere autostrade sempre più grandi, ma orizzonti mentali sempre più ristretti. Russo dimostra a noi tutti che la poesia è anche esigenza di riflessione sull’attualità, esemplificazione del paradosso del nostro tempo “Abbiamo immense/miniere di oro/ e d’argento/ innumerevoli/battaglie da vincere, /oggi abbiamo vinto?”.

Il quesito finale risuona d’imponenza, la domanda è formulata con puntuale chiarezza e indirizza un’eventuale risposta ai numerosi margini di perfettibilità a cui l’uomo dovrebbe pensare e tendere.

Nella lirica Plenilunio, Russo evidenzia poi il sottile e silenzioso meccanismo attraverso cui il mondo cambia ogni giorno, in maniera manifesta o piuttosto implicita. Mentre l’uomo guarda un plenilunio “la terra/si faceva/ carezza di metamorfosi”, poiché come enuncia una legge della fisica

“Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. E così come quest’essere “carezza di metamorfosi” è inscritto nel destino e nell’essenza costituente dell’uomo, un’altra componente fondamentale e antropologicamente constatata è la tendenza a scoprire il nuovo, l’innata  curiositas, quasi un’attrazione fatale, l’ammaliamento di un canto.

“Siamo figli di Ulisse,/ crediamo alle cose per quanto sono lontane;/ e più sono lontane e più le carichiamo/di noi stessi.”

In questi tre versi Russo riassume la vicenda esistenziale di Ulisse che, secondo la mitografia e la rappresentazione dantesca (e quindi anche secondo l’immaginario medievale), aveva osato attraversare le colonne d’Ercole, sfidare quel limite di demarcazione imposto dagli dei, peccando di hybris (tracotanza).

L’uomo di oggi, secondo il poeta, discende da Ulisse, poiché tende a voler raggiungere ciò che è lontano e ciò che appare propenso a farsi carico di significati ulteriori. Così alla fine del componimento, s’ipotizza che forse tutta la vita sia una pura approssimazione, dove alla fine la testa e la croce della moneta hanno lo stesso valore. E forse tutta quella sete di conoscenza potrebbe ridursi all’essenziale.

La poesia è quindi per Russo strumento di designazione della propria identità, è l’unità di misura del tempo che è concesso a una vita.

L’uomo appare spesso disorientato, come se fosse sull’orlo di un dirupo. È qui che la poesia salva, e rende eterno l’attimo.

Come sottolineato dalla curatrice Cudazzo, l’agire poetico di Russo “vive di antitesi e antinomie”, di nessi ossimorici come ad esempio tempo-eternità; finitudine–infinito; limite–desiderio di oltrepassarlo. E anche quando il poeta tocca punti di natura pessimistica, il tutto non si conclude nel nichilismo, come ci si potrebbe aspettare, ma ogni cosa tende all’amore. Che sia per le piccole cose, per la natura, la famiglia o una donna, è sicuramente l’atto di amare, l’azione, il senso e il sentimento dominante nella poetica di Russo. Così come l’uomo tende a voler raggiungere ciò che appare lontano, difficile o remoto, allo stesso modo dovrebbe tendere all’amore, quello vero, puro e scevro d’infingimenti. È questo l’invito e il messaggio di fondo dell’opera di Russo poeta.

Ritorno ancora sul libro. Il titolo “Su canzoni mai cantate” è stato scelto dalla famiglia dell’autore e dall’editore. Le fonti che gli hanno concesso di prendere corpo e forma sono state fogli di manoscritti autografi, conservati presso la casa dell’autore, alcuni testi comparsi nelle due raccolte poetiche già precedentemente pubblicate “Per poco tempo” e “Ancora una volta”, scrupolosamente revisionati. È stata quindi fatta un’accurata operazione filologica.

Il criterio d’ordinamento dei testi segue una scansione cronologica, scandita in alcuni casi dalle date, in altri dalle variazioni dello stile e dei temi, per la delineazione di un compiuto disegno di poetica.

 

“Su canzoni mai cantate

muore la mia lingua

in note perdute su verdi

alberi

si nasconde il mio segreto.

 

Su gabbiani del mediterraneo

si muove leggero l’alito

delle onde.

(I rosai si sono bevuti

i silenzi della notte).

 

Su distese lattiginose divampa un’ansia

mentale.

Come granuli di seta gialla

dorme nel petto del mondo.”

 

Eppure la lingua di Russo non è destinata alla morte, ma è anzi un inno alla vita che si rinnova e nella cui speranza ognuno di noi deve credere. È infatti poesia che abita i luoghi anche materialmente, perché alcune epigrafi sono state collocate, in comune accordo con la famiglia e gli enti del territorio, a Gagliano del Capo, a Santa Maria di Leuca e nella Marina di Novaglie.

E così un viaggiatore che si trovi presso il Lungomare Cristoforo Colombo di Leuca può leggere, sognare e incantarsi con Leuca all’Alba, con la quale concludo queste mie note, aventi lo scopo dell’invito alla lettura e all’approfondimento.

Leuca all’alba

Sbucano col sole

Leuca

E le sue onde

e l’immobile

Faro

Riposa come muto.

[1] C.Russo, Su canzoni mai cantate- poesie scelte (1994-2017), a cura di Annalucia Cudazzo con interventi di Massimo Bray e Michela Biasco, Neviano, Musicaos Editore, 2022.

[2] Per l’elenco degli autori facenti parte della biblioteca personale di Cosimo Russo, è stata di fondamentale importanza la testimonianza della madre, Luigina Paradiso, a cui va il mio ringraziamento.

[3] G. Leopardi, Il sabato del villaggio, da I Canti.

[4] G. Carlin, Pensieri dopo l´11 settembre.

Il porto di Brindisi: le tante favole inventate su Andrea Pigonati (II parte)

di Nazareno Valente

C’è tuttavia un disastro ambientale ben più consistente d’una semplice secca che viene addossato a Pigonati e riguarda addirittura la stessa ostruzione della foce del bacino d’accesso al porto interno. Infatti, a detta dello storico locale Giacomo Carito, «fino a prima dei lavori di Pigonati, le navi entravano sicuramente nel porto interno»29 e che, solo successivamente, questa possibilità fu loro negata. Come dire in altre parole che l’interrimento non esisteva neppure, o non aveva consistenza tale da impedire la navigazione, quando l’ingegnere siracusano tracciò il tanto discusso canale, e fu pertanto lui a generarlo sbagliando l’esecuzione dei lavori. Posta così la questione, si ha il sospetto che Carito rimanga in un qualche modo legato alla ormai datata visione di Ferrando Ascoli, convinto che i problemi del bacino brindisino fossero dovuti ad un errore tecnico compiuto da Pigonati. Mentre nella realtà è ormai assodato da un secolo e mezzo e più che l’insabbiamento era dovuto a fenomeni naturali, che i tecnici del tempo non seppero certo gestire ma che, in ogni caso, prescindevano da come il canale potesse essere scavato od orientato. In particolare, l’insabbiamento era conseguente allo stato delle coste e delle correnti, come Tommaso Mati riferì nel suo progetto presentato nel lontano 25 novembre 186130. L’ingegnere aretino, «dopo accurate visite lungo le coste esterne ed interne del golfo» appurò, che nella costa Guacina e, soprattutto, nella costa Morena — collocate rispettivamente a ponente ed a levante dell’allora porto esterno — «scorgevansi indizi di grandi corrosioni antiche e recenti» e si convinse che gli interrimenti erano dovuti «quasi esclusivamente dalle avvertite corrosioni e che bastava impedire queste per render possibile la conservazione dei fondali»31. Mati in definitiva provò coi fatti che l’insabbiamento era in maniera preponderante dovuto a fenomeni di erosioni cui erano soggette le coste, del tutto indipendenti da eventuali lavori realizzati nella zona. La foce, quindi, si ostruiva per un evento naturale di corrosione, probabilmente intensificatosi sempre più con il trascorrere degli anni, che l’ingegneria romana  era stata forse in grado di gestire con protezioni, poi rese inservibili dal tempo, oppure con normali interventi di manutenzione. In definitiva, salvo che Pigonati non avesse avuto anche poteri taumaturgici, tali da rendere friabili le coste al suo solo apparire, non poteva indurre un simile fenomeno, a prescindere dai possibili errori compiuti.

In poche parole, l’ipotesi dello storico brindisini appare basata già di per sé su premesse errate e presuppone in aggiunta che le proteste dei brindisini sullo stato del porto non avessero granché motivo d’essere se, come lui afferma, «le navi entravano sicuramente nel porto interno». Per cui non si capirebbe su cosa i nostri concittadini recriminavano, se la foce non era in effetti ostruita a tal punto da inibire le principali attività che si svolgono normalmente in un porto. Ebbene, per Carito, si trattava di semplice strategia del lamento: «come spesso si fa» in queste circostanze per ottenere qualcosa, si «descrive una situazione molto peggiore di quella che è in realtà»32. Peccato che lo storico non chiarisca quale fosse questa «realtà» e dove fosse il problema, se l’insabbiamento di cui ci si lamentava tanto era per lo più solo un pretesto, un modo per ingigantire il disagio e convincere le autorità ad intervenire in fretta. Verrebbe quasi da considerare che, se le cose stavano davvero così, i nostri amati concittadini se l’erano un po’ voluta, se poi l’interrimento era effettivamente arrivato, come il lupo della storiella, dopo le tante volte che lo si era evocato a sproposito.

Ma, a parte questo, sul versante lamentele andrebbe forse ricordato che le suppliche da rivolgere al sovrano non potevano certo essere fatte dal primo venuto, ma dovevano essere avanzate da persone autorevoli, di riconosciuto prestigio, oltre che titolate a rappresentare la città. Tutta gente che non avrebbe naturalmente messo in gioco la propria reputazione per questioni di poco conto o per recriminazioni in buona parte inventate. Senza poi contare che tali suppliche, prima di arrivare al sovrano,  passavano al vaglio di chissà quanti funzionari regi che verificavano se l’istanza era supportata dai fatti. Pertanto è già di per sé troppo semplicistico lo stare a credere che fosse sufficiente piangere di più, o con più calde lacrime, per ottenere qualcosa.

Ma a prescindere da tutte queste argomentazioni, che fanno già comprendere come l’ipotesi sia difficile da sostenere, vi sono testimonianze e documenti che permettono di affermare senza ombra di dubbio che il porto interno brindisino aveva grossi problemi ben prima che Pigonati comparisse all’orizzonte e che i Brindisini avevano valide ragioni per richiedere che s’intervenisse a mettere a posto le cose. In pratica si verificherà, anche per questa via, che l’ingegnere siracusano non creò di certo lui l’interrimento. Ribadito che, anche volendolo, non l’avrebbe potuto fare, se, come più volte ripetuto, era un evento del tutto naturale.

Per avere un’idea di qual era la situazione prima di Pigonati, sarà sufficiente prendere in considerazione la documentazione e le fonti più significative che danno informazioni sulle condizioni del porto brindisino dal Cinquecento in poi.

Partiamo così dalla testimonianza del Galateo, autore di grande affidabilità, che all’inizio del Cinquecento raccontava nel “De situ Iapygiae” che, ai suoi tempi, il canale del porto interno era attraversato dalle sole imbarcazioni di piccole dimensioni, a due o a tre ordini di remi («nunc non nisi  parvis navibus, et biremibus, et triremibus pateat»33). Quindi già all’inizio del XVI secolo i navigli d’una certa consistenza non potevano accedere nei seni interni del porto brindisino e, di conseguenza, la foce del canale di collegamento era parzialmente insabbiata.

Sebbene meno circostanziata, pure la relazione di Camillo Porzio, inviata nel 1575 al viceré Don Innico Lopez de Mendoza, va nello stesso senso sospettando per altro che l’interrimento fosse creato di proposito dalla gente del posto per impedire ai «Saracinidella comodità» di accedere nel porto interno34. Aspetto questo confermato dal nostro concittadino Giovanni Maria Moricino, il quale rilevava con malizia che la medesima ragione «ha mosso a’ tempi nostri il Re di Spagna a non consentire che s’apra, e si scavi quel tratto di mare che ormai diventa terra. Dovendo al suo Consiglio (dove la cosa più volte è stata proposta) che sia maggior sicurezza de la Città lo starsene così chiusi»35.

L’interrimento pare perdurare pure all’inizio del Seicento. Anzi si aggrava. A confermarlo un documento ufficiale redatto nel 1612 da un funzionario vicereale, probabilmente il visitatore generale delle fortezze, che riferiva sulla condizione dei castelli del regno. Parlando del castello Svevo («El Castillo de’ tierra dela ciudad de Brindez») collocato nel porto interno,  c’è l’esplicita annotazione che la bocca del porto «està ciega de manera que en menguando la mar apenas pueden entrar barquillas» («è cieca, sicché essendo lì il mare basso possono a malapena entrare le piccole barche»36). La quale affermazione già di per sé non dà adito ad altra possibile interpretazione. In più, trattando del castello di Mare, che chiama «castillo de Brindez»  (castello di Brindisi), lo stesso funzionario rileva un aspetto ancor più interessante. Sottolinea infatti che, insieme al forte, il castello presidia la zona del porto situata tra l’isola e la città, il cui altro suo porto tanto famoso ha l’entrata cieca («El fuerte y el Castillo de Brindez… sobrestan á un puerto muy capaz, que de su naturalezza se haze dentro la ysla, y la Ciudad, cuyo puerto tan famoso está ciego enla entrada»37). Lasciando così chiaramente intendere che il porto, quello «tanto famoso» che abbraccia la città, quindi in definitiva l’interno, è inutilizzato, sicché quello che si trova tra l’isola e la città, vale a dire il bacino portuale esterno, è divenuto il solo porto utilizzabile. Per cui nel 1612, non solo l’interrimento esisteva, causando l’inagibilità del porto interno, ma questa circostanza faceva sì che era la rada ad essere considerata il porto di Brindisi.

Uno dei punti di forza dell’ipotesi che prima di Pigonati i seni interni erano praticabili e che sia stato lui a causare la loro inagibilità, si collega alla guerra quasi personale che Pedro Téllez-Girón de Osuna, viceré di Napoli, aveva ingaggiato tra il 1617 ed il 1618 contro i Veneziani e che ebbe a volte, come teatro delle operazioni, proprio il porto di Brindisi. Carito afferma infatti che nel porto interno c’era normale attività tanto che «addirittura intorno al 1618, si concentrò qui tutta l’armata spagnola»38. A parte che lo storico confonde l’armata spagnola, che non c’entrava nulla con queste operazioni militari, con quella del vicereame napoletano, di gran lunga meno consistente, il fatto che la flotta fosse giunta a Brindisi non vuol necessariamente dire che fosse approdata nel porto interno. E, nella realtà, dove questa armata abbia effettivamente gettato l’ancora, ce lo fa sapere un testimone illustre, don Diego Duca di Estrada, protagonista di rilievo di quegli avvenimenti bellici. Nelle sue memorie racconta infatti che, giunto nel porto di Brindisi nel giugno del 1617 con una flottiglia di cinque galeoni, ormeggiò, insieme ad altri tredici galeoni, trenta galee e quattro brigantini, vicino a «una Fortaleza que está sobre un escollo grande» («vicino un forte che sta su un isolotto»39). Risulta pertanto del tutto evidente che l’armata vicereale non approdava nel porto interno, ma attraccava  vicino a Forte a Mare, se non proprio nella sua darsena. A dissipare ogni eventuale dubbio, don Diego spiega perché la flotta gettasse l’ancora così lontano dalla città, dichiarando che a Brindisi ci sono di fatto due porti: quello interno cieco («ciego»), le cui acque sono quasi morte («las aguas casi muertas»), e l’altro, appunto vicino alla fortezza, che invece ha la capacità di ospitare molte navi («hai capacitad para muchos bajeles»40). A confermare le parole di don Diego, un personaggio ancor più compromesso in quegli avvenimenti, vale a dire Francisco de Quevedo, famoso scrittore politicamente impegnato che, in quel periodo, era addirittura corresponsabile con il viceré di Napoli di quella strana guerra avviata contro i Veneziani, essendone  segretario delle finanze e condividendone l’odio per la Serenissima. Nel suo “Lince de Italia”,  de Quevedo decantava i seni interni del porto di Brindisi ritenendoli una risorsa inestimabile, potenzialmente in grado di far rivaleggiare lo scalo brindisino con quello di Venezia come postazione commerciale strategica con l’Oriente. Peccato però, soggiungeva papale papale che il porto interno di Brindisi «è cieco, come quelli che non vogliono disturbare Vostra Maestà per farlo pulire» («ciego, como los que no importunan a Vuestra Majestad que le limpié»), lasciandolo così in uno stato di totale abbandono41. Quindi testimonia anche lui che la foce del canale di accesso al porto interno era a quei tempi ostruita e che di conseguenza le armate potevano essere ospitate solo nel porto esterno.

C’è da aggiungere un’altra considerazione. Il fatto che si era costretti a svolgere le attività portuali nella zona esterna, limitava di certo il porto brindisino che però restava ugualmente una risorsa preziosa, per il semplice motivo che in quel particolare momento storico tutti i porti del regno erano in condizioni precarie e che c’era quindi penuria di approdi. E questo avveniva soprattutto sulla sponda adriatica, dove il vicereame poteva contare solo su due porti in grado di ospitare un consistente numero di navigli: quello di Manfredonia — pur esso mezzo insabbiato — e, innanzitutto, di Brindisi che, sebbene privato dei seni interni, aveva un bacino esterno molto ampio e protetto in cui le navi da guerra potevano essere proficuamente ospitate. In pratica ci si doveva accontentare di quello che passava il convento, ed il porto esterno brindisino, visto il contesto, svolgeva bene il suo compito soprattutto d’inverno, mentre d’estate la cattiva aria della città poneva, a detta dei cronisti del tempo, più d’un problema.

Era da un punto di vista commerciale che l’inagibilità del porto interno creava, invece, grosse complicazioni. Erano di fatto le operazioni di sbarco ed imbarco ad essere penalizzate, perché si dovevano usare le barchette, in grado di navigare nel canale, a mo’ di moderne navette per trasportare le merci dall’ormeggio delle navi vicino Forte a Mare ai moli interni, e viceversa. E questo comportava un aggravio non banale nei costi e nei tempi di svolgimento delle operazioni.

Che nel Seicento i galeoni, i brigantini e qualsiasi legno appena consistente non potesse ormeggiare nei seni interni è ribadito in aggiunta dai portolani o dalle carte che prevedevano questo specifico tipo di informazione, rappresentando le guide dei viaggiatori dell’epoca.

Significativa in questo senso è la pianta del 1650, firmata dall’ingegnere militare Onofrio Antonio Gisolfo (figura n. 8), dove nella legenda è esplicitato che nel porto di Brindisi si ormeggia solo nel porto esterno. In corrispondenza ad esso, è  infatti specificato: «mare grande dove danno fondo li vascelli et distante due miglia dalla città è il loco dove sta’ il forte et è tutto porto». Mentre nessun ancoraggio è previsto per il porto interno.

 

Ancor più chiara, quantomeno da un punto di vista visivo, l’indicazione contenuta nel portolano del cartografo olandese Johannes van Keulen, pubblicato nell’ultimo ventennio del Seicento nei volumi dell’atlante “De Nieuwe Groote Lichtende Zee-Fakkel” (figura n. 9): tutti i simboli delle ancore sono disegnati nel porto esterno, mentre quello interno ne risulta privo. Altro aspetto interessante i seni interni non fanno neppure più parte del porto brindisino, identificato in questo portolano dalla sola rada.

 

C’è quindi documentazione più che sufficiente per ritenere che il porto interno di Brindisi era nel Seicento negato ai bastimenti. Ed ancor più agevole dimostrare che questa situazione persisteva pure nel Settecento. Aiuta in questo senso una vivace disputa accademica, accesasi  agli inizi del Settecento, a cui partecipano tre intellettuali del tempo.

Il tutto ha inizio quando Nicolas Lenglet Du Fresnoy, un erudito pieno d’interessi e senza peli sulla lingua, tanto da incappare più volte nella censura ai tempi di Luigi XV ed in svariati periodi di prigionia anche alla Bastiglia, compone nel 1718 “Méthode pour étudier la geographie” in cui parla del regno di Napoli. Uno storico napoletano, Matteo Egizio, trova lo scritto del Lenglet lacunoso, così gli indirizza una lunghissima lettera polemica in cui gli contesta tutta una serie di errori, uno dei quali riguarda proprio il porto di Brindisi che l’abate francese aveva citato come uno dei più rinomati tra quelli esistenti. «Sarebbe uno dei più belli del Mediterraneo — lo riprende lo storico — se non fosse chiuso»42. Lenglet, che non si dà pensiero neppure del giudizio del re, figuriamoci se bada a quello d’un comune mortale, per cui non replica neppure. Interviene invece in sua difesa un geografo campano, Giuseppe Antonini, il quale fa presente ad Egizio che è vero, come lui afferma, che il porto di Brindisi «è guasto, o chiuso, o (come volgarmente diciamo) ciccato», però, «bisogna distinguere, e sapere, che i porti di Brindisi son due: l’interiore, ed il più vicino alla città, anzi che quasi tutta intorno la cinge, è quello, che capace d’un numero grandissimo di navi, ed a cui per istrettissima bocca si entra, è chiuso; l’esteriore, ed a l’uscir di questo primo, è formato, e coverto da un’isola, su di cui sta fabbricato un Forte con buon presidio. Questo porto è bello, grandissimo, ed intero, poiché per qualunque arte, e spesa non si può mai chiudere»43. In pratica è vero che il porto interno è chiuso, ma è aperto, e pienamente operativo, quello esterno. Per cui — per Antonini — è evidente che Lenglet si riferisca, pur non avendolo specificato, al porto esterno, visto che è risaputo che quello interno è “ciccato”.

In risposta Agezio ammette d’essere in torto, riconoscendo che, non essendoci stata precisazione, avrebbe dovuto capire che il Lenglet alludeva al porto «esteriore». In ogni caso, precisa: «So che Brindisi abbia due porti come Tolone, l’uno interiore, l’altro esteriore, e che l’interiore, che sarebbe più sicuro per una grande armata, sia chiuso per i vascelli grandi, e che perciò, l’area sia resa mal sana… Ne fui informato circa 30 anni addietro da D. Antonio di Felice, che ivi era stato giudice e governatore»44.

Così come era consuetudine negli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo di dare per scontato che, quando si parlava del porto, s’intendeva senza dubbio alcuno di quello interno, perché in quelli medio ed esterno non si svolgeva praticamente nessuna attività portuale, l’opposto avveniva nel Seicento e nel Settecento. Allora si dava per certo che, quando s’indicava il porto di Brindisi senza nessun’altra specificazione, ci si riferiva implicitamente al porto esterno. Pertanto è del tutto usuale trovare in scritti di quell’epoca la citazione generica del porto di Brindisi, ma questo non significa che si stia parlando del porto interno. Anzi sarebbe esattamente vero il contrario. Basterebbe, ad esempio, consultare la raccolta della “Colección de documentos inéditos para la historia de España”, contenenti i documenti sugli episodi bellici che coinvolsero negli anni 1617 e 1618  i Veneziani ed il viceré de Osuna. Come sappiamo dai racconti dei protagonisti Diego Duque de Estrada e Francisco de Quevedo in quegli anni il porto interno di Brindisi era inagibile e pertanto qualsiasi naviglio spagnolo ormeggiava nei pressi della «Fortaleza» (Forte a Mare). Ebbene nei documenti questa specificazione non viene molto spesso fatta, pur tuttavia, quando si tratta d’ormeggi, magari tra le righe, grazie a  qualche piccolo indizio, si desume che si tratta in ogni caso del porto esterno.

Ciò non toglie che vi possano essere stati dei periodi il cui la foce di collegamento venisse pulita rendendola per brevissimi intervalli di tempo navigabile per i navigli di limitata consistenza, che quindi potevano entrare nel porto interno. Di questi particolari periodi se ne conoscono sia dopo, sia prima l’intervento di Pigonati. Ad esempio, a seguito dell’operazione di spurgo del bacino progettato nel 1828 dall’ingegnere Lorenzo Turco, il canale scavato da Pigonati fu portato ad una profondità di 10-12 palmi (tra 2,63 e 3,15 metri circa) «onde vi passano i legni di 100 a 120 tonnellate; e prima non dava passaggio che a piccole barche»45, come ebbe a dichiarare Francesco Antonio Monticelli, nella terza memoria in difesa della città e del porto.  Allo stesso modo, quando verso la fine del periodo di dominazione austriaca, il viceré Giulio Borromeo Visconti tra il 1733 ed il 1734 tentò in ogni modo di non cedere il regno alla dinastia spagnola dei Borbone, vi furono analoghi lavori di pulitura della foce che portarono, quasi in una parata, a vedere navigare cinque feluche tra il molo di Porta Reale e Forte a Mare46. Situazione talmente particolare da essere ricordata nella “Cronaca dei Sindaci” la quale in genere parla anch’essa, nei fatti narrati per il Settecento, genericamente di porto di Brindisi, lasciando però facilmente intuire che si riferisce al porto esterno, in quanto se scende nei dettagli fornisce località che si trovano nell’attuale porto medio o nelle immediate vicinanze. In tal senso si ha più di un esempio. Il notaio Perrino, raccogliendo l’attestazione di un capitano di ventura nel 1703,  aggiunge, dopo aver parlato del porto di Brindisi, in località «le Calcinari»47, cioè un posto che si trovava dalle parti di Forte a Mare nel porto esterno. Un’altra volta, il 30 giugno 1734, per timore che «li Tedeschi non facessero qualche disbarco» nel porto, si presidiano le zone della «massaria di Pascale Blasi e tutta la marina di S. Leonardo»48, vale a dire zone vicine alla Cala della Navi che si trovava nel porto esterno. Oppure quando il 22 maggio 1741 arrivano nel porto delle tartane sbarcando attrezzi militari vicino alla masseria di Pascale Blasi49; o la volta in cui il 7 settembre 1742 tal Felice Chisiena approda con una tartana nel porto, scaricando un elefante a San Leonardo50. E, come già riportato, sia la masseria di Pascale Blasi, sia la marina di San Leonardo erano vicine alla Cala delle Navi che era l’approdo ufficiale. In definitiva si desume che, quando la “Cronaca” parla di sbarchi nel «porto di Brindisi», implicitamente dà per scontato che si tratti di ormeggi nella Cala delle Navi, in caso contrario indica in maniera esplicita la zona dove l’ancoraggio avviene. Infine qualora l’approdo non avviene nel porto esterno, tale circostanza viene evidenziata affermando che il porto di cui si parla è quello «interiore» oppure indicando l’ormeggio di Porta Reale.

Anche i portolani conosciuti del Settecento attestano, al pari di quelli del Seicento, che nel porto di Brindisi i bastimenti ed i velieri possono ormeggiare solo nella rada. Ne è un tipico esempio il portolano firmato da Roux nel 1764 (figura n, 10), dove le ancore, a simboleggiare gli approdi, sono disegnate tutte nel porto esterno, mentre quello interno ne è del tutto privo. Anche in questo portolano, lo scalo brindisino è limitato al solo porto esterno; quello interno, non avendo approdi, non è infatti più ritenuto un porto.

 

Già così ce ne sarebbe davanzo per non avere dubbi che, anche prima dei lavori di Pigonati, le navi non entravano nel porto interno e che, quindi, non fu lui ad ostruire la foce. Tuttavia c’è disponibilità di altra documentazione che discolpa Pigonati e, tanto per convincere anche i più indecisi, ci sono due preziosi documenti del 1762 e del 1763, collegati con l’intervento di Pigonati, che sgombrano il campo da ogni possibile equivoco.

Il primo l’abbiamo già in parte descritto in quanto riguarda le lamentele sulle condizioni critiche del porto interno brindisino esposte nel 1762 al sovrano dall’arcivescovo di Brindisi. Il secondo è la relazione del 1763 d’un funzionario governativo — redatta proprio a seguito della predetta supplica —  contenente le proposte di Giovanni Bompiede, ingegnere idraulico delegato a verificare lo stato dello scalo brindisino; l’elenco fatto dall’arcivescovo stesso dei fondi con cui il comune di Brindisi avrebbe potuto partecipare all’eventuale spesa ed il parere del capitano generale di marina sulle proposte avanzate da Bompiede.

Intanto, diversamente da quanto raccontato da Carito che anche in questo caso equivoca, l’arcivescovo che avanzò la supplica non fu Annibale de Leo51, allora ancora giovane canonico di belle speranze impegnato negli studi di diritto ecclesiastico a Roma e che, solo un trentennio e passa dopo (1798), avrebbe ricoperto quell’incarico. L’arcivescovo che si rivolse al sovrano è, come già riportato, Domenico Rovegno il quale scrisse a re Ferdinando IV quando ormai era consapevole di essere all’epilogo della sua esistenza — quindi in un momento in cui si fa ammenda delle bugie dette, e si cerca di non aggiungerne delle altre — per una malattia dovuta proprio a l’aria insalubre di Brindisi su cui l’arcivescovo si soffermò abbastanza per convincere Ferdinando IV ad intervenire. Allo stesso modo Rovegno si soffermò sull’altro aspetto critico che penalizzava la città, vale a dire la situazione precaria vissuta dal porto. «La negoziazione del mare poi è oltremodo difficile — segnalò con decisione — poiché alla bocca del porto interiore non possono accostare i legni grossi da carico, e l’imbarco dell’oglio, e d’altre derrate non può farsi che in due miglia di distanza dalla città, caricandosi prima su piccole barchette, che incagliando talora nello stretto, bisogna con grande stento tirar fuori con le funi, e per tal motivo un porto tanto rinomato si vede oggi abbandonato da tutti»52. L’arcivescovo faceva poi presente che questa condizione difficile avrebbe sollecitato le attenzioni de «l’Augusto Genitore Vostro», che sicuramente sarebbe intervenuto per aggiustare le cose, come fatto per i porti di Taranto e Cotrone53, «se ei non fosse andato a dimostrare la sua paterna Pietà a’ regni più ampî»54, in quanto aveva rinunciato al regno di Napoli, abdicando a favore del figlio Ferdinando, per succedere sul trono di Spagna. Per questo si rivolgeva a lui: «animato dalla clemenza della M.V. in nome del mio povero gregge umilmente la supplico ordinare gli espedienti più propri per l’apertura del porto predetto»55.

A sentire l’arcivescovo Rovegno, anche le barchette stentavano a passare il canale e dovevano essere trainate con le funi; i vascelli ormeggiavano così due miglia lontani dalla città e dovevano essere caricati e scaricati dalle merci al largo, proprio grazie al via vai delle barchette. Il che è in linea con quanto riscontrabile negli altri documenti dell’epoca, nei portolani ed anche nel più volte citato dipinto di Filippo Hackert.

La barchetta usata prevalentemente come navetta è infatti disegnata dal pittore nel momento in cui è impegnata in operazioni di scarico (n. 6 del dipinto). Si tratta di una chiatta che i brindisini chiamavano lontro, dal basso pescaggio e dalla forma piatta (in questo caso allargata) che ricorda le famose caudicarie impiegate dai romani per il trasporto fluviale mediante un sistema di alaggio. Lo si nota pure dagli scalmi presenti a poppa e a prua, ed invece assenti ai lati dove comunemente trovano posto i remi, la qual cosa chiarisce che l’imbarcazione era trainata a braccia con l’aiuto di una fune. D’altra parte era del tutto usuale, nei porti pugliesi con i fondali bassi o interriti, che le navi restassero ancorate al largo e che le operazioni di carico fossero svolte con barchette dallo scarso pescaggio, molto simili a quelle ancora in uso sui fiumi. C’è però da precisare che i lontri più comunemente usati dai brindisini erano molto simili alle canoe e, quindi, con una struttura ben più limitata di quella raffigurata da Hackert. In quei periodi di inagibilità, i navigli approdavano così esclusivamente nelle anse del porto esterno e l’ormeggio più favorevole si trovava sulla costa Guacina, nelle insenatura situate nei pressi delle Fontanelle, ed era di uso talmente comune che il suo toponimo, Cala delle Navi, veniva riportato nelle mappe e nei testi di navigazione.

Come però detto, Carito è convinto che l’arcivescovo esagerasse e che invece anche i grossi vascelli entravano nel porto interno. Ribadito che, non si comprenderebbe di cosa l’arcivescovo si doleva, se in realtà le attività portuali si potevano davvero svolgere nel porto interno, occorre aggiungere che la supplica era fatta con tono pacato e triste, più che a fosche tinte. Forse, a cercare il pelo nell’uovo, calcava un po’ la mano sulle questioni finanziarie in quanto a simili aspetti i burocrati incaricati dell’esame preliminare delle suppliche erano particolarmente sensibili, mettendo in rilievo che le molte difficoltà avrebbero potuto portare  il porto brindisino ad essere «abbandonato da tutti», con un costo economico non banale per la corona. Ma, a parte questa timida sottolinetura, non c’era nessuna esagerazione riguardo all’interrimento e l’arcivescovo brindisino riportava le cose come per davvero stavano: quando c’era bassa marea neanche le barchette riuscivano ad attraversare la foce. Figuriamoci se erano in grado di farlo i navigli.

E non era il solo a dichiararlo.

Lo affermava a chiare lettere pure Bompiede, l’ingegnere idraulico incaricato dal sovrano di verificare quali erano le condizioni reali del porto brindisino. E lo confermava il capitano generale di marina che era perfettamente a conoscenza della situazione critica in cui versava la struttura portuale.

Queste opinioni sono contenute nel secondo documento, sottoposto all’attenzione del sovrano da un funzionario deputato a raccogliere ed a riassumere i progetti e i pareri su un possibile intervento sullo scalo brindisino. Re Ferdinando IV, ricevuta la lamentela di Rovegno, aveva infatti ordinato un accertamento di cui era stato incaricato Giovanni Bompiede, un ingegnere di marina molto stimato, mentre, allo stesso tempo, era stato richiesto all’arcivescovo brindisino di quali possibili fondi disponeva il comune per un eventuale concorso alla spesa.

Nel dicembre del 1763, quando Rovegno era nel frattempo morto, il funzionario governativo stende appunto la sua relazione in maniera asettica  raccogliendo le opinioni di un tecnico, che non aveva nessun interesse a ingigantire le cose, e quelle di un politico, il capitano generale di marina, portato semmai a sminuirle per non essere accusato d’essere stato negligente. Ebbene il quadro che ne emerge non è per nulla meno fosco di quello tratteggiato dall’arcivescovo brindisino, tanto è vero che l’ingegnere Bompiede conferma appieno la condizione tragica in cui si trova il bacino interno dello scalo brindisino. Valutata infatti la situazione generale del porto interno di Brindisi, Bompiede sottolinea in maniera perentoria che: «tanto dalla parte di fuori dell’imboccatura, quanto internamente, essere un tal porto inservibile e pregiudiziale alla salute, ed al Commercio, perché in tempo di basso mare, oltre il non potervi passare nemmeno le barchette scariche, si rendono altresì li due bracci di mare, che ne formano l’interiore, privi di flusso e riflusso»56. Per questo «in tempo d’esta’, come da’ stagni ne derivano perniciose esalazioni, le quali crescono sempre più a caggione delle acque piovane, che mischiate co’ ristagni medesimi danno più materia all’infezione dell’aria e producono frequentemente nella città e luoghi vicini delle più pertinaci e mortali malattie, anche per caggione del limo con l’alga [alaga] infracidita che lasciasi steso sul suolo de’ suddetti due bracci dalle Sciabiche, che in tempo d’esta’ vi pescano»57.

Oltre alla curiosità che l’ingegnere Bompiede riteneva la pesca con le sciabiche nociva per lo stato delle acque dei seni interni e ne suggeriva il divieto58, l’aspetto che salta agli occhi è quindi il giudizio netto che lui dà sullo stato del porto interno stesso: «inservibile e pregiudiziale alla salute». Un parere che non ammette repliche e che riconosceva pertanto del tutto valide le lamentele esposte da Rovegno. Per migliorare le cose Bompiede prendeva in considerazione due possibili rimedi in alternativa tra loro: uno di basso profilo volto a «render l’imboccatura del porto navigabile alle barche ed alli schifi che tragittavano le botti dell’olio alli bastimenti»59;  l’altro di ampio respiro che rendeva possibile «il beneficio dell’entrata de’ bastimenti mercantili nel porto interiore»60. Per la prima soluzione che avrebbe mantenuto almeno «aperta la imboccatura del porto interiore necessaria alle barchette» e al «libero flusso e riflusso alle acque interiori con miglioramento dell’aria» era prevista una spesa dai 3.500 ai 4.000 ducati61. La seconda soluzione più radicale prevedeva che fosse scavato  un canale dove edificarvi «due moli paralleli di fabbrica; dovendo il primo verso ponente e per lungo palmi 1.800; ed il secondo verso levante di lunghezza maggiore»62, con un progetto quindi molto simile a quello poi adottato da Pigonati. La spesa però prevista da Bompiede era di gran lunga superiore, in quanto avrebbe potuto «ascendere a ducati centoottantanovemila»63, salvo imprevisti. Se si pensa, che Pigonati eseguì le stesse opere con una spesa di poco superiore a 54.000 ducati, quindi di neppure un terzo, occorre dire che l’ingegnere siracusano trattava i soldi pubblici con la stessa parsimonia di quanto avrebbe fatto con i propri. E fu, forse proprio questo suo voler essere a tutti i costi troppo sparagnino a fargli commettere gli errori più gravi: la mancata bonifica totale e la parziale fragilità delle sponde del canale. Tra questi però non si può annotare quello che gli addebita lo storico, cioè a dire l’aver creato lui i problemi di interrimento del bacino di accesso al porto interno, per il semplice motivo che questo era insabbiato da almeno un paio di secoli, come s’è potuto verificare nei documenti e nelle testimonianza appena elencati. L’ultima, quella del capitano generale di marina è, con ogni probabilità, la più composita ed esplicativa delle condizioni in cui, almeno dagli inizi del Seicento, versava il porto interno di Brindisi e del perché non si pensava di modificare le cose.

Il capitano generale di mare, pur riconoscendo a sua volta che i seni interni erano interdetti alla navigazione, fa intendere che era da così tanto tempo che si era in quella situazione da essersi ormai abituati ad utilizzare il porto esteriore per tutte le attività militari e commerciali, per cui riteneva eccessivo impegnarsi in un’impresa tanto costosa per ridare vita al porto interno del quale si faceva da molti decenni a meno senza eccessivi scompensi64. Mentre si dichiarava d’accordo per il progetto, volto a migliorare le condizioni ambientali ed a vietare la pesca «che si fa d’esta’ nei due bracci di detto porto con sciabiche», che avrebbe portato sollievo alle sofferenze della città65.

In conclusione, dieci anni prima dell’avvio dei lavori di Pigonati, il porto interno era, a detta di tutti, «inservibile», essendo la foce di comunicazione completamente ostruita, e paiono di conseguenza del tutto infondate le accuse rivolte all’ingegnere siracusano d’aver generato lui l’interrimento. Anzi, al contrario, occorrerebbe porre in rilievo che, sia pure per un periodo limitato di tempo, Pigonati rese possibile l’agibilità nei seni interni. Lo attestano Giovanni Monticelli e Benedetto Marzolla nella loro “Difesa della città e del porto di Brindisi” affermando che benché le opere del Pigonati «non furono ben dirette né durevoli, pur tutta volta qualche utilità portarono a quelle popolazioni… Intanto tornarono a vedersi nel porto interno legni da guerra e navi mercantili di qualunque portata sino al 1800»66.  Chiarendo quindi anch’essi — non certo estimatori di Pigonati — che prima del suo intervento il porto interno era precluso alla navigazione e che successivamente, sia pure per breve tempo dal 1778 al 1800, grazie ai lavori dell’ingegnere siracusano, poté ospitare navigli di ogni portata. Quanto riportato dai due illustri nostri concittadini trova conforto in un portolano dei primissimi anni dell’Ottocento nel quale, dopo due secoli e più, il simbolo dell’ancora compare anche nel porto interno (figura n. 11).

 

In conclusione, diversamente da quanto asserisce Carito, se c’è qualcosa di sicuro è che il porto interno era del tutto fuori uso ben prima dell’arrivo di Pigonati e che le navi erano di conseguenza costrette ad ormeggiare in quello «esteriore». Ed il suo pare un accanimento persino esagerato quando, in altra occasione,  ribadendo che Pigonati «sbagliò completamente i lavori», ritiene bizzarro che la foce abbia «il nome di colui che in effetti l’ha chiusa»67. Peccato che pure in questa circostanza lo storico si sia mantenuto sul generico, senza specificare in alcun modo quali siano stati questi errori e senza chiarire, in particolare, come essi avrebbero potuto comportare l’ostruzione della foce.

Pigonati non fu certo esente da colpe — sponde fragili, orientamento del canale non del tutto adeguato, mancata bonifica della valle di Ponte Grande e, soprattutto, l’invenzione della favola dei moli di Cesare che avevano, a sua detta, dato esca all’interrimento — malgrado ciò nessuno di questi suoi errori era in grado di far insabbiare la foce. Per il semplice motivo che tale fenomeno, come ampiamente spiegato dall’ingegnere Mati nel suo progetto del lontano 1861, era dovuto allo stato delle vicine coste ed al gioco delle correnti.

In fondo, sarebbe bastato perdere un po’ di tempo a leggere il progetto di Mati, per convincersi che Pigonati, pur non avendo saputo risolvere il problema che attanagliava da secoli il porto interno di Brindisi, non era di sicuro stato lui ad originarlo.

( 2 – fine)

 

Note

29 G. Carito, intervento webinar della presentazione del libro di G. Perri,  Pagine di storia brindisina, vol. II, Ottobre 2021, https://www.youtube.com/watch?v=sLyVzlJvPVI (visitato il 9 luglio 2022).

30 T. Mati, Lo zibaldone di casa Mati, A cura di l. salvestrini, Montaione.net, p. 145.

31 Ibidem, pp. 139 e 140.

32 G. Carito, Cit.

33 Galateo,  De Situ Iapygiae, per Petrum Pernam, Basileae 1558, p. 64.

34 Autori vari, Collezione di opere inedite o rare di storia napoletana, Officina tipografica, Napoli, 1839,  pp. 18 e 19.

35 G.M. Moricino, Dell’antichità e vicissitudine della città di Brindisi. Opera di Giovanni Maria Moricino filosofo, e medico dell’istessa città. Descritta dalla di lei origine sino all’anno 1604, manoscritto ms_D12, 1760-1761, Biblioteca pubblica arcivescovile “A. De Leo”, Brindisi, 233r.

36 Los Castillos del Reyno de Napoles Maniscrito, manoscritto n. 1933, Biblioteca Nazionale di Spagna, p. 27.

37 Ibidem, p. 29.

38 G. Carito, Cit.

39 D. De Estrada, Comentarios del desengañado, ó sea vida de d. Diego Duque de Estrada, escrita por él mismo, in Memorial Histórico Español, Imprenta Nacional, Madrid 1860, pp. 166 e 167.

40 Ibidem, p. 166.

41 F. De Quevedo villegas, Obras de Don Francisco de Quevedo Villegas, Tomo primero, colección completa, corregida, ordenada e ilustrada por Aureliano Fernández-Guerra y Orbe, M. Rivadeneyra, Madrid 1852, p. 244.

42 M. Egizio, Lettera amichevole di un napoletano al signor abate Langlet du Fresnoy, in g. antonini, La Lucania: discorsi di Giuseppe Antonini, parte III, Francesco Tomberli, Napoli 1797, p. 151.

43 G. Antonini, Lettera scritta al signor d. Matteo Egizio, in g. antonini, Cit., p. 188.

44 M. Egizio, risposta, in g. antonini, Cit., pp. 209-210.

45 F.A. Monticelli, Terza memoria della città e de’ porti di Brindisi, Gabinetto bibliografico e tipografico, Napoli 1833, p. 33.

46 P. Cagnes – N. Scalese, Cit., p. 296.

47 Ibidem, p. 153.

48 Ibidem, p. 308.

49 Ibidem, p. 357.

50 Ibidem, p. 361.

51 G. Carito, Cit.

52  D. Rovegno, Cit., 195v-195r.

53 Crotone.

54  D. Rovegno, Cit., 195v.

55 Ibidem.

56 Memoria sul porto di Brindisi 3 dicembre 1763, Casa reale antica, fascicolo 864, Archivio di Stato di Napoli, p. 2.

57 Ibidem.

58 Ibidem, p. 6.

59 Ibidem, pp. 2-4.

60 Ibidem.

61 Ibidem, p. 5.

62 Ibidem, p. 3.

63 Ibidem, p. 4.

64 Ibidem, pp. 8 e 9

65 Ibidem, p. 8.

66 G. Monticelli – b. marzolla, Difesa della città e del porto di Brindisi, II edizione, Gabinetto Bibliografico e Tipografico, Napoli 1832, p. 24.

67 G. Carito, Gli interventi sul porto: pillole di storia, History Digital Library https://www.youtube.com/watch?v=r9-vy1ZvTRQ Brindisi s.d., (visitato il 9 luglio 2022).

 

Per la prima parte:

Il porto di Brindisi: le tante favole inventate su Andrea Pigonati (I parte) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Antonio Scupola: l’ultimo Impressionista salentino

 

Antonio Scupola, Scorcio di un vicolo a Lecce

 

Antonio Scupola nasce a Taurisano, in provincia di Lecce, il 2 febbraio 1943. Trasferitosi a Lecce, si diploma presso l’Istituto Statale d’Arte “Giuseppe Pellegrino” e frequenta l’Accademia di Belle Arti.

Ha come mentori i leccesi Mario Palumbo (1905-1979) e Raffaele Giurgola (1898-1970), pittori che hanno lasciato un solco indelebile nello scenario artistico di Terra d’Otranto della prima metà del 900.

Antonio Scupola davanti al cavalletto

 

Negli anni ‘60, si reca a Milano, dove lavora per noti galleristi del capoluogo lombardo. Rientrato nella sua Terra, viene in contatto con i maggiori artisti salentini del secondo dopoguerra, in particolar modo con Amerigo Buscicchio, pittore figurativo e fortemente legato alla tradizione accademica della scuola napoletana, che influenzerà la sua futura produzione pittorica.

Antonio Scupola, Natura morta

 

Servendosi di colori vividi, magistralmente disposti, lo Scupola raffigura nel suo repertorio: scorci di campagna, marine, paesaggi ed angoli della città, pieni di riflessi di luce ed intrisi da un alone di quiete.

Nelle sue opere, narra le leggiadrie della Terra d’Otranto, servendosi di un personale e prosaico stile; realtà ed irrealtà si fondono, rivelando tutta la viscerale sensibilità dell’esteta.

Stimato dai collezionisti per la sua riguardevole abilità tecnica, Antonio Scupola può essere considerato, innegabilmente, uno dei principali pittori impressionisti salentini del XX secolo.

 

I colori da soli non dicono nulla, è l’artista che li anima mescolandoli insieme al suo stato d’animo, così nasce la pittura di uno schivo artista che non deve essere necessariamente né gioiosa né esteticamente bella, ma solo la cronaca delle proprie, e più intime, emozioni.

Il porto di Brindisi: le tante favole inventate su Andrea Pigonati (I parte)

di Nazareno Valente

 

«Brindisi è inoltre fornita di un buon porto: entro un’unica imboccatura sono racchiusi diversi seni tutti dalla forma sinuosa che li pone perfettamente al riparo dai flutti e che li fa rassomigliare alle corna d’un cervo» («Καὶ εὐλίμενον δὲ μᾶλλον τὸ Βρεντέσιον: ἑνὶ γὰρ στόματι πολλοὶ κλείονται λιμένες ἄκλυστοι, κόλπων ἀπολαμβανομένων ἐντός, ὥστ᾽ ἐοικέναι κέρασιν ἐλάφου τὸ σχῆμα»)1.

Questa la più antica descrizione pervenutaci del porto di Brindisi dovuta a Strabone, uno storico e geografo vissuto tra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C., che pone in evidenza come lo scalo consentisse molteplici approdi, quasi fosse costituito da più porti. In particolare il geografo di Amasea rappresenta quello che per noi è il porto interno, vale a dire solo una parte dell’attuale complesso portuale brindisino, costituito com’è noto anche dal porto medio e dal porto esterno. In antichità il bacino che contiene i moderni porti medio ed esterno non era considerato un porto vero e proprio ma dai Romani una «statio» e da parte dei Greci un «ὅρμος» (ormos), perché consentiva unicamente di attraccare, mentre una struttura portuale — identificata rispettivamente con i termini di «portus» e di «λιμήν» (limén) — doveva permettere, oltre al semplice ormeggio, pure un’adeguata protezione dai venti e dai flutti, come riportato nella caratterizzazione di Strabone che utilizza appunto nel passo citato il vocabolo «λιμήν». A quei tempi, quando si parlava del porto di brindisi s’intendeva quindi il solo porto interno; il porto medio e quello esterno facevano invece parte della cosiddetta rada.

Che Strabone si riferisca al porto interno è chiarito anche da quell’unica imboccatura che ne consente l’accesso2 e che racchiudeva le varie insenature protette dai venti e dal mare aperto, allora composte dagli attuali seni di Ponente e di Levante e, con ogni probabilità, anche dal canale navigabile che scorreva nello spazio ora occupato da corso Garibaldi e dagli inizi di corso Roma.

I Greci caratterizzavano un porto di prestigio, in cui le navi trovavano un sicuro rifugio, con il termine «εὐλίμενος» (eulìmenos, buon porto), che è appunto la voce usata da Strabone per caratterizzare il porto brindisino che rimase di alto livello per secoli, almeno sino a “Lo Compasso de navegare”, un portolano del Duecento, ritenuto il più antico tra quelli conosciuti, dove viene presentato come «bom porto», per evidenziarne gli indubbi pregi ancora posseduti. Tuttavia, finiti i tempi in cui i grandi imperi (romano e bizantino) e le grandi monarchie (normanna, sveva, angioina, aragonese) presidiavano le rotte dell’Adriatico e ne proteggevano le coste, arrivarono periodi bui per Brindisi. Tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento s’incomincia ad aver timore ad allontanarsi dalla costa. Ed i motivi sono presto detti, ormai l’Adriatico è uno spazio governato da altre nazioni e «perciò i marinai, pescatori e legni, che usano in questo mare, escono quasi tutti dal dominio Veneziano»3 e, soprattutto, essendo Terra d’Otranto, la provincia in cui è inserita Brindisi, quella più prossima «allo stato del Turco, sta in maggior pericolo di ricever danno da lui che tutto il restante Regno»4. Non a caso le sue coste sono disseminate di fortezze e di torri; protette stabilmente da ben 2.543 fanti locali e presidiate «in tempo di sospizione di armata Turchesca» da armigeri reali5. Il mare non è più una finestra aperta sul mondo, ma un varco da tenere sbarrato perché da lì possono arrivare terrore e morte.

 

Brindisi, pertanto, non è più la porta d’accesso al ricco Oriente, quanto piuttosto un possibile cavallo di Troia di cui il «Saracino» potrà nella bisogna avvalersi per compiere le sue scorrerie. Il suo porto non è più una risorsa, ma un pericolo costante, e va pertanto interdetto. Così, sebbene ci siano già il Castello Alfonsino e Forte a Mare a vigilare sugli ingressi, a scanso di equivoci, si gettano sassi e terra nel canale di comunicazione con il porto interno perché sia «dal terreno in alcuna parte diminuito» e non consenta così l’ingresso delle grosse navi6.

Proprio a questa difesa passiva, seguita da una totale incuria, si devono i motivi principali del dilagare dell’ostruzione della foce del canale di comunicazione tra porto e rada che resero i due seni interni di fatto interdetti alla navigazione. Limitazione per lo scalo brindisino destinata a perdurare sino alla seconda metà dell’Ottocento tanto da farla diventare una caratteristica tipica della città, di cui si ricordava appunto il porto interno «ciccato» o «guasto».

Il mancato rinnovo delle acque del bacino interno creava in più degli stagni maleodoranti e un conseguente ambiente insalubre alimentato pure dalle paludi che, per colpa del mancato controllo del territorio e dei frequenti terremoti che ne avevano sconvolto l’assetto idrico, si andavano dilatando alle estremità dei seni dalle parti di Ponte Grande a ponente e di Ponte Piccolo a levante, e per l’appunto chiamate palude di Ponte Grande e palude di Ponte Piccolo o di Porta Lecce. Anche in questo caso, erano finiti i tempi in cui i Romani compivano una manutenzione maniacale dei corsi d’acqua. Quando i lavori di pulitura di porti e fiumi venivano fatti a regola d’arte, in modo che alvei e rive fossero resi liberi da qualsiasi pianta che potesse costituire causa d’impedimento o di pericolo per le navi che vi transitavano («ne quid aut morae aut periculi navibus in ea virgulta incidentibus fieret»7). Nell’ottica poi di «attenuare i danni di un’aria malsana» («quibus mitigetur pestifera lues»8), analoga attenzione si dava alla difesa dal paludismo ed al controllo delle acque reflue facendovi fronte con un corretto mantenimento e con regolari opere di bonifica.

Manutenzione e gestione del territorio che invece vennero a mancare con la caduta dell’impero romano con conseguente impaludamento dei canali — il Cillarese e il Palmarini-Patri, nelle vecchie mappe indicati rispettivamente con i nomi di Patrica e di Masina — che si riversavano nelle acque del porto interno nelle anse estreme di ponente e di levante. Un’altra palude, detta delle Torrette, s’era formata nella curva di entrata  del canale, dove si depositavano le alghe e vi stagnavano le acque piovane trattenute dal terriccio e dai cespugli che, soprattutto d’estate, producevano «orribile fetore»9. In più di fronte, dalle parti del molo di Porta Reale, si riversavano in mare gli scoli che confluivano nella depressione posta tra le collinette a nord e  a sud della città (di fatto l’attuale corso Garibaldi). Questo avvallamento che, come detto, in antichità era stato un terzo piccolo ramo del porto interno, diventava con l’aiuto dell’acqua piovana esso stesso un veicolo costante di trasporto di detriti, privo com’era di pavimentazione. Anche qui l’odore era così acre che la zona, pur centrale, era sgombra di abitazioni ed ospitava solo sparuti negozi collegati con le attività portuali. In definitiva contribuivano all’interrimento, alle paludi ed alla conseguente aria insalubre, balzane strategia di difesa, cause del tutto naturali ed una marcata inefficienza di fondo nella manutenzione e nella gestione del territorio.

Con il tempo i problemi si andarono accentuando, sicché i servizi portuali furono spostati prevalentemente sulla costa Guacina e nei presi di Forte a Mare, nell’attuale porto medio, e la rada incominciò ad essere chiamata «porto esteriore» mentre il porto storico, ormai ridotto alla semplice navigazione di barchette, assunse quello di «porto interiore» ed in molti portolani neppure più considerato un porto. All’arrivo della dinastia Borbone, la foce era più melma che mare ed i seni interni erano in una situazione precaria per altro non molto dissimile da tutti gli altri scali meridionali. C’era però un ritrovato interesse per i porti, diretta conseguenza questa della ripresa economica d’inizio Settecento che aveva impresso nuovi stimoli pure alle attività commerciali marittime. Non a caso sin dal 1734, anno di insediamento dell’amministrazione borbonica, il nuovo governo puntò subito a rinnovare le strutture portuali per adeguarle alle nuove esigenze.

Uno dei primi atti riguardanti Brindisi fu la decisione di costruirvi un lazzaretto — collocato a nord sull’isola di Sant’Andrea — che rendeva per certi versi evidente l’intenzione di Carlo di Borbone di riportare la città nella sua antica configurazione di porta per l’Oriente. Infatti la presenza del lazzaretto era allora condizione indispensabile per divenire uno dei possibili scali nei viaggi diretti a levante. Con ogni probabilità, in quell’occasione, la città si avvalse per la prima volta di una novità introdotta in campo finanziario dal regime borbonico. Riguardo alle spese concernenti le infrastrutture portuali, le comunità locali potevano infatti concorrere sia con propri fondi, sia istituendo delle apposite casse con fondi provenienti dalle rendite comunali, dai dazi e dalle gabelle derivanti dall’abolizione delle franchigie ecclesiastiche. E questo rendeva più agevole la possibilità di reperire liquidità per l’esecuzione di lavori d’interesse locale, senza intaccare quelli a bilancio. In pratica era un modo come un altro per la città di autotassarsi, qualora l’avesse ritenuto funzionale ai propri scopi.

Si iniziò pure nel concreto a pensare al restauro del porto. Ed è proprio di quegli anni un’accorata lettera dell’arcivescovo di Brindisi, Domenico Rovegno, indirizzata nel 1762 al re Ferdinando IV, che dà il segno della dolorosa condizione in cui versava la città di Brindisi.

Su ordine dei medici, l’arcivescovo si trova in convalescenza a Napoli, tuttavia il suo desiderio è di ritornare dal suo  «gregge» e per questo comunica che sta per ripartire per Brindisi con la consapevolezza, però, di «andare incontro alla morte»10. Il motivo della sua malattia «altro non è stato, che l’aere infetto della stessa città» che, «per la divisata cagione», è destinata alla rovina «se dalla M.V. non saranno presi gli opportuni rimedi»11. Gli abitanti sono infatti «oppressi da pericolose infermità, ed atterriti dalle mortalità continue, rilevandosi chiaramente da’ libri parrocchiali, che il numero dei morti in ogni anno è doppio di quello dei nati»12. E sarebbe già spopolata da tempo se, «mantenendo la città de’ singolari privilegi da passati sovrani di questo regno», non avesse potuto accogliere abitanti provenienti da altre zone13.

Il privilegio citato dall’arcivescovo riguardava l’esonero da qualunque gravame o vincolo feudale accordato a chi risiedeva a Brindisi per almeno cinque anni. Era questo il marchingegno utilizzato da secoli per mantenere in vita le zone depresse: piuttosto che intervenire sulla causa, si  concedevano bonus che, come al solito, erano un modo come un altro per rendersi graditi e lasciare però le cose al punto di partenza.

Per fortuna i tempi erano maturi per tentare di riportare a nuova vita il porto interno, e a non lasciarlo più ostaggio della poltiglia e degli odori nauseabondi. Anche se si dovette aspettare un’altra decina d’anni sopratutto a causa della grave crisi economica innescata dalla carestia del 1764. Era così il luglio del 1775 quando l’ingegnere Andrea Pigonati, direttore del Genio militare incaricato di progettare la riapertura del porto interiore, mise per la prima volta piede sul suolo brindisino. Fu il primo dei tanti tentativi non riusciti compiuti dai Borbone per risolvere i problemi d’una foce che, non appena ripulita, tornava senza scampo ad insabbiarsi nuovamente ma che, rispetto a tutti i successivi fallimenti, ha ottenuto gli onori della cronaca per il fatto che  sui lavori compiuti si sono addensate le spietate ed arbitrarie critiche degli storici e dei cronisti locali.

In sintesi, il progetto14 con cui l’ingegnere siracusano cercò di ridare funzionalità alla struttura portuale di Brindisi prevedeva la realizzazione di un canale, che mettesse in comunicazione il porto interiore col porto esteriore, e la bonifica delle principali paludi, vale a dire quella delle Torrette, che era nei pressi della foce del canale, e di quella di Porta Lecce o di Ponte Piccolo, che si trovava all’estremità nel seno di Levante. In questo modo Pigonati riteneva di rendere navigabile il porto interno e di risanare le condizioni ambientali della città. Quindi tutta una serie di lavori che l’ingegnere siracusano condusse con molto zelo tanto che, in poco più di due anni d’intensa attività, riuscì a far scavare un nuovo canale di collegamento (di fatto quello poi a lui intitolato); a colmare le principali paludi; a risanare il molo di porta Reale e, quel che più conta, ad aprire il cuore dei Brindisini alla speranza. Speranze che, come ben sappiamo, andarono ben presto deluse, ma, a differenza di quanto narrato nelle ricostruzioni approssimative di buona parte della cronachistica locale, non tutta la colpa dei successivi guasti è da ascriversi all’ingegnere borbonico, verificato che nei fatti concorse in maniera non banale la mancata manutenzione ordinaria da parte delle autorità locali15. Comunque sia, dopo nemmeno un decennio, il porto interno ripiombò nei suoi soliti problemi.

Il primo a lanciare specifiche accuse sull’operato di Pigonati fu Ferrando Ascoli che, riprendendo una critica fatta dall’ingegnere Tironi quando peraltro era già ritenuta priva di ogni fondamento, affermava in maniera categorica che Pigonati aveva commesso un errore colossale nell’orientare l’imboccatura del canale da lui scavato verso greco-levante, mentre avrebbe dovuto disporla nella direzione di greco «per metterla al riparo da ogni traversia e da ogni interrimento»16. Il che era in parte corretto per quanto riguarda le traversie, ma del tutto fantasioso riguardo all’interrimento che si era nel frattempo appurato non dipendeva dalla direzione del canale ma da cause del tutto naturali. Tuttavia, poiché questa storiella, diffusasi acriticamente da un cronista all’altro, passa ancora per buona, è tuttora convinzione comune che Ascoli avesse tutte le ragione del mondo ad incolpare Pigonati d’aver sbagliato i calcoli e che il canale s’insabbiasse proprio a causa dell’orientamento che lui gli aveva impresso. Per questo il buon Pigonati passa ancora adesso per un povero sprovveduto, mentre era un tecnico che gli stessi Brindisini, che avevano avuto modo di conoscerlo, apprezzavano soprattutto per la sua onestà17.

 

Nella realtà, era l’approccio al problema ad essere sbagliato, e quantomeno l’ingegnere siracusano, essendo il primo ad averlo affrontato, non poté contare su esperienze pregresse, a differenza di tutti gli altri che, sino a quando nel 1861 non si trovò la soluzione, perseverarono nel commettere gli stessi errori e non ottennero certo risultati migliori dei suoi. Ciò nonostante, Pigonati viene sempre presentato come l’unico responsabile di ottant’anni di insuccessi che, invece, accomunarono molti tecnici borbonici e non. Sarà magari stato per questa consuetudine a crederlo capace dei più banali errori che non c’è nefandezza, perpetrata in quel torno di tempo, che non gli venga inevitabilmente addossata.

Oltre all’errore della direzione del canale, di cui il lettore interessato potrà trovare tutti i dettagli in un mio precedente intervento18, Pigonati è accusato della demolizione di antiche costruzioni e di disastri ambientali.

Per quanto concerne i beni architettonici, in quegli anni sparirono infatti dallo scenario cittadino due antiche costruzioni: Porta Reale, che si trovava non molto lontana dai Giardinetti, e la chiesa di Santa Maria de Parvo ponte, che era dalle parti di Porta Lecce. Ebbene i più raccontano che Pigonati, avendo bisogno di pietre per mandare avanti i suoi lavori, se l’era procurate demolendo entrambi i monumenti. Non solo, sempre per lo stesso motivo, si dice avesse fatto abbattere una delle due torrette angioine, alle cui fondamenta si attribuisce la fantasiosa origine della secca, chiamata anch’essa angioina, che solo le mine riuscirono in seguito a distruggere; in questo caso, oltre a depauperare la città d’un bene artistico, Pigonati avrebbe causato anche un dissesto ambientale. Di malefatta in malefatta qualcuno è stato capace di narrare che persino ponte Grande, ancora in piedi quando l’ingegnere faceva da decenni parte del mondo dei più, fosse stato da lui demolito, quasi che anche da morto vagasse per le strade di Brindisi alla ricerca di pietre per il suo canale. Il che rientra nel nostro radicato vezzo di trovare un capro espiatorio a tutti i costi: capitò lo scorso secolo negli anni Cinquanta per la demolizione del parco della Rimembranza e del teatro Verdi (colpevole il “ciclone” che, in effetti, arrivò solo a proposito); negli anni Sessanta per gli scompensi edilizi e la mancata edificazione del nuovo teatro (colpevole un costruttore che i sussurri malevoli dicono abbia goduto di presunti privilegi per aver portato la locale squadra di calcio in serie B); in maniera simile, a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, l’Attila di turno fu appunto Pigonati. Eppure ci vorrà poco per dimostrare tutte queste accuse destituite di fondamento e scagionare così Pigonati dall’aver compiuto i disastri di cui lo si biasima senza ragione.

Iniziamo da porta Reale che, in effetti, scomparve in modo misterioso dallo scenario del porto brindisino insieme al suo molo proprio in quel periodo, tuttavia, i dati in nostro possesso discolpano del tutto l’ingegnere dell’amministrazione borbonica. L’ultima volta che un documento cita la famosa porta è nel riepilogo contenuto nella “Cronaca dei Sindaci di Brindisi” sui lavori fatti da Pigonati specificatamente su quelli realizzati sul canale e sui suoi argini, a conclusione di tutto l’intervento di ripristino del porto. Viene infatti riportato che i lavori, terminati con la posa dell’ultima pietra il 26 novembre 1778, erano stati iniziati sui moli del canale in maggio dello stesso anno con materiale (pietre) ricavato dalle case «della Corte, vicino la porta Reale»19. Quindi non solo qui è precisato dove Pigonati si era rifornito delle pietre necessarie «per il fabbrico del gran canale»20 ma è anche espressamente indicato che porta Reale era ancora bella e in piedi alla fine dei suoi lavori.

 

D’altra parte c’è il famoso dipinto di Jakob Philipp Hackert, “Baja e porto di Brindisi”del 1789 (figura n. 3), a confermarlo ritraendo il molo di porta Reale in piena attività, mentre le botti di olio vengono caricate sulle barche per poi essere trasportate sino alla Cala delle Navi nel porto esteriore dov’erano infine trasbordate sui bastimenti. La porta era così ancora in piedi ad oltre dieci anni dal compimento dei lavori di Pigonati. Da quel momento in poi della porta Reale non si ha più notizia ed è dalla mappa, ”Pianta della città, porto e rada di Brindisi” (figura n. 4), disegnata nel 1811 da Vincenzo Tironi, che il monumento ed il suo molo non vengono più citati. La demolizione avviene quindi tra il 1879 ed il 1811. Quando e perché, è difficile dirlo con precisione, non essendoci riscontri oggettivi. È però ugualmente possibile formulare un’ipotesi del tutto verosimile e coerente con il successivo svolgimento dei fatti.

 

Il tentativo di Pigonati non aveva sortito gli effetti sperati e già circa dieci anni dopo, mentre Hackert lavorava al dipinto, se ne  avviò uno nuovo di cui fu incaricato l’ingegnere Carlo Pollio. Ebbene, tra le opere realizzate da Pollio ci furono, nei pressi di porta Reale, la costruzione «della deputazione di sanità, che volle chiamare lazzaretto»; il riadattamento della strada del canale di scolo della Mena, poi rialzata sul livello delle acque del porto e che diede origine alla strada Carolina, poi divenuta corso Garibaldi, e l’edificazione d’un tratto di banchina «a cominciare dalla Sanità o lazzaretto verso ponte Grande per una lunghezza di canne 250»21. Con ogni probabilità il rialzamento del piano stradale della Mena, congiunto alla banchina costruita dalla Sanità verso ponente per più di 500 metri, dovette costare il sacrificio della porta Reale che si trovava appunto lungo le direttrici dei lavori. In merito, non ho potuto trovare documenti che l’attestino, tuttavia è questa l’ipotesi più plausibile, visto che è certo che porta Reale scompare tra il ritratto di Hackert e la mappa di Tironi e che, in quel ventennio, le uniche opere di rilievo effettuate su quella zona del porto sono quelle realizzate dal Pollio.

Secondo la cronachistica bene informata, nel corso del risanamento della palude che si trovava nell’estremo ramo di levante, sempre per penuria di materiale da costruzione, Pigonati abbatté poi attorno al 1777 la pregevole chiesa di Santa Maria de Parvo ponte. Questa  chiesa, che si trovava sulla strada che da porta Lecce conduceva fuori le mura della città a quello che era appunto il Ponte Piccolo (Parvo ponte), era stata edificata nel XII secolo grazie alle sovvenzioni del famoso ammiraglio Margarito da Brindisi. Già «diruta» ai tempi dei lavori dell’ingegnere siracusano è citata anch’essa nella “Cronaca dei Sindaci di Brindisi” quando si descrivono gli effetti benefici dei lavori di sanificazione compiuti nella zona dal «direttore del porto, d. Andrea Pigonati… fuori la porta di Lecce, e la chiesa nominata del Ponte, avendone avuto grande utile per l’aria la città»22. Quindi anche in questo caso è certificato che la struttura esisteva ancora, una volta colmata la palude che l’ospitava. In aggiunta la chiesa compare, sempre “diruta” circa trent’anni dopo nella mappa del Tironi (figura n. 5) e quindi non è stata certo smantellata da Pigonati.

 

Con ogni probabilità, la chiesa di Santa Maria de Parvo ponte fu demolita un poco alla volta, come avveniva a quei tempi per tutti gli edifici in rovina. Si deve infatti considerare che allora era usuale adoperare nelle costruzioni materiali di risulta, e che chi ne aveva bisogno faceva man bassa di pietre dalle costruzioni abbandonate perché in disfacimento.

 

Allo stesso modo, Pigonati è del tutto incolpevole anche per la distruzione di ponte Grande, non fosse altro perché in quella zona non ebbe neppure modo di operare. D’altra parte Ponte Grande risulta ancora in funzione nella mappa del Tironi e nella cartografia anche successiva, quantomeno sino alla carta di Benedetto Marzolla (figura n. 6) — redatta forse nei primi anni Quaranta dell’Ottocento — e rimase con ogni probabilità in piedi finché usato per superare la vallata omonima. Quando le acque e la palude di quella zona furono canalizzate (all’incirca tra il 1858 ed il 1862) e fu successivamente creato un nuovo invaso, non servendo più, il ponte fu con ogni probabilità demolito. Difficile poter dire con esattezza però quando e ad opera di chi. Dubito per altro che la sua struttura fosse, come taluni dicono, di epoca romana. In ogni caso sopravvisse molti decenni all’ingegnere siracusano.

Ai tempi dell’intervento di Pigonati, sulle opposte sponde del vecchio canale Angioino, si trovavano i resti delle due torrette costruite dagli Angioini nel lontano 1279 per impedire che la città fosse attaccata con truppe da sbarco dalla parte del mare. La più grande, fabbricata sulla riva di ponente, era originariamente collegata all’altra torretta con una catena che, in caso di bisogno, un congegno tendeva in modo da precludere l’accesso al porto interno. Con il passare del tempo simili metodi di difesa divennero anacronistici e le due torri subirono successivi riadattamenti, tant’è che Pigonati, all’iniziò dei suoi lavori, attesta ancora l’esistenza della maggiore — risistemata però per alloggiare le guardie della dogana — ed i soli «avanzi»23 di quella edificata a levante. Il dipinto di Hackert evidenzia l’integrità della torretta adattata a dogana e, sulla riva opposta, la presenza dei resti dell’altra torretta, ben un decennio dopo la conclusione delle opere del Pigonati. Questa testimonianza grafica può quindi essere usata per confutare una surreale ipotesi avanzata da Ferrando Ascoli, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento.

Afferma appunto l’Ascoli che Pigonati, nel fabbricare il molo a ponente del canale, trovatosi in difficoltà per la penuria di materiale, «impiegò le pietre estratte dalla diruta casa della Torretta fabbricata dagli Angioini»24. E poi prosegue: «Di questa torretta rimasero le fondamenta che aperto il canale, furono intieramente ricoperte dalle acque, formarono col tempo una secca abbastanza estesa, chiamata secca Angioina»25. In definitiva, a detta dell’Ascoli, la secca, che sarebbe divenuta in effetti fonte di gravi alterazioni per l’agibilità del porto brindisino, era diretta conseguenza di uno dei tanti errori compiuti dal Pigonati, a cui doveva quindi addebitarsi anche questo ulteriore guasto.

Già lo stesso interessato aveva precisato d’aver sopperito alla mancanza di materiale con il «cavar pietre dall’isoletta»26, vale a dire dall’isola Angioina, ma le affermazioni dell’Ascoli sono come visto palesemente smentite pure dal dipinto di Hackert. La cosa ancor più curiosa è che tutti i successivi autori, ritenendo la supposizione dell’Ascoli credibile, l’hanno propagata sino a farla passare per una delle tante verità incontrovertibili.

Eppure, dovrebbe essere noto agli addetti ai lavori che il canale Angioino fu preservato da Pigonati non per il transito ma al solo fine di agevolare lo scorrimento delle acque e non sconvolgere il naturale flusso delle correnti. In pratica era stato solo ripulito ed aveva quindi un fondale basso per altro intervallato, dove cambiava direzione, da un rialto (n. 6, figura 2) che lo rendeva impraticabile anche alle barchette. Se poi si tiene conto che era il luogo più soggetto ad insabbiarsi, gli allagamenti erano in effetti un evento quasi del tutto impossibile. In ogni caso, il dipinto di Hackert smentirebbe già di per sé le supposizioni fantasiose dell’Ascoli ma, in merito, ancora più eloquente appare la documentazione disponibile.

 

La cartografia della seconda metà del XIX secolo ha infatti rappresentato in maniera chiara la situazione che s’era creata nel porto brindisino ed è pertanto sufficiente esaminare una qualsiasi pianta dell’epoca per ricavare che la secca Angioina, oltre ad essere molto estesa, si trovava proprio nel punto in cui sino a poco tempo prima era posizionata l’isola Angioina ed i suoi estesi bassi fondali (n. 7 della mappa di Tironi). È quanto emerge in tutta la sua evidenza in un particolare del “Piano generale del porto di Brindisi” del 1866 (figura n. 7): la secca ha due lati ampi più di cento metri ciascuno ed è disegnata proprio dove una volta c’era l’isoletta omonima. Appare a questo punto ovvio che le fondamenta di una torretta alta pochi metri non avrebbero mai potuto generare una secca di simile sviluppo, la cui origine era molto più semplicemente dovuta ai lavori per l’abbassamento dell’isola Angioina iniziati formalmente nel 184227 e conclusisi ben oltre il 1860. È infatti nelle mappe di quegli anni che nello scenario del porto brindisino la secca incominciò a prendere il posto dell’isoletta. Non fu quindi la mania demolitrice del Pigonati a crearla, per il semplice motivo che questa preesisteva, come si evidenzia pure dal disegno di Tironi, e fu in seguito ampliata dal «profondamento dell’isola Angioina», come si desume con precisione da una relazione di metà Ottocento28. Scavata quindi sino a restare poco al di sotto della superficie del mare, l’isola Angioina ed i bassi fondali vicini non potevano che trasformarsi in secca. Con buona pace della bizzarra versione dell’Ascoli che, anche in tempi recenti, trova numerose adesioni.

(1 – continua)

 

 

 

 

 

 

 

Note

1 Strabone (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, VI 3, 6.

2 Sino ad i lavori iniziati tra il 1863 ed il 1864, la rada aveva tre possibili ingressi: la Bocca di Puglia, spazio ora occupato dalla diga che congiunge la cala Materdomini all’isola di Sant’Andrea; lo spazio tra Forte a Mare e le Pedagne e il passaggio dei Trapanelli, anch’esso ora occupato da una diga.

3 C. Porzio, Relazione del regno di Napoli al marchese di Mondesciar, viceré di Napoli, tra il 1577 e 1579,  in Collezione di opere inedite o rare di storia napoletana, Officina tipografica, Napoli 1839,  pp. 17 e 18.

4 Ibidem, p. 18.

5 Ibidem, p. 19.

6 Ibidem, p. 19.

7 Gellio (II secolo d.C), Notti attiche, XI 17.

8 Columella (I secolo d.C), Res Rustica, I 4.

9 A. Pigonati, Memoria del riaprimento del porto di Brindisi sotto il Regno di Ferdinando IV, Michele Morelli, Napoli 1781, p. 12.

10  D. Rovegno, Rappresentanza dell’Arcivescovo di Brindisi al Re per l’apertura del porto, Manoscritto ms_L1, Miscellanearum Tomus I, Biblioteca pubblica arcivescovile “A. de Leo”, Brindisi, 193v.

11 Ibidem, 193r.

12 Ibidem, 194r.

13 Ibidem.

14 N. Valente, Quando Pigonati scavò il canale nel porto di Brindisi, “Il7 Magazine”, Brindisi 2022, n. 254, pp. 36-39.

15 N. Valente, Il porto di Brindisi: la favola di come il canale andava orientato, “Il7 Magazine”, Brindisi 2022, n. 255, pp. 30 e 31.

16 F. Ascoli, La storia di Brindisi, Forni editore, Sala Bolognese 1981, p. 371.

17 Anonimo, Sulle opere del porto di Brindisi eseguite sotto la direzione del tenente colonnello Albino Mayo, Brindisi s.d. In questo pamphlet dell’Ottocento, redatto da Brindisini inviperiti contro i tecnici borbonici per le ruberie da loro perpetrate, Pigonati viene presentato come uno dei pochi funzionari onesti.

18 N. Valente, Il porto di Brindisi: la favola di come il canale andava orientato, “Il7 Magazine”, Brindisi 2022, n. 255, p. 33; N. Valente, La lunga agonia del porto interno di Brindisi, “Il7 Magazine”, Brindisi 2022, n. 256, p. 34.

19 P. Cagnes – N. Scalese, Cronaca dei sindaci di Brindisi (1529 – 1787), A cura di R. Jurlaro, Amici della “A. De Leo”, Brindisi 1978, p. 460.

20 Ibidem.

 21 F. Ascoli, Cit., p. 373.

22 P. Cagnes – N. Scalese, Cit., pp. 459 e 460.

23 A. Pigonati, Cit, p. 12.

 24  F. Ascoli, Cit., p. 367.

25 Ibidem.

26 A. Pigonati, Cit, p. 72.

27 S. Morelli, Brindisi e Ferdinando II o il passato, il presente e l’avvenire di Brindisi, Del Vecchio, Lecce 1848, p. 118.

28 l. Giordano, Intorno alla struttura di un nuovo porto in Bar”, Fratelli Cannone, Bari 1853, p. 26.

I Martiri di Otranto

 

di Giovanni Maria Scupola,

Per comprendere al meglio l’eccidio dei martiri otrantini è opportuno inquadrarlo nel tempo e nella tradizione, la cui conoscenza appare fondamentale a spiegare il motivo per cui la popolazione idruntina preferisce la morte piuttosto che rinnegare la propria fede.

Il 13 agosto di ogni anno, Otranto ricorda con una grande e suggestiva celebrazione i suoi Martiri uccisi nel 1480.

Il significato è da ricercare nella storia, facendo esattamente un salto alla prima metà del 1400, quando il sultano Maometto II, iniziò un progetto volto alla realizzazione di un grande Impero Ottomano e, per il raggiungimento di tale disegno bellico, era basilare conquistare nuovi territori, tra cui la provincia di Otranto.

Come tristemente auspicato, il 27 luglio del 1480 l’Impero Ottomano approdò con alcune delle proprie imbarcazioni nei pressi di Roca e l’esercito idruntino uscì dalla città per affrontare i Turchi nei pressi dei Laghi Alimini.

Gli abitanti furono abbandonati al loro triste destino e le milizie turche iniziarono ad attaccare la città. La popolazione riuscì a resistere per 14 giorni e l’11 agosto del 1480 i turchi riuscirono ad entrare nel paese.
Gli abitatori, sospinti da una solida fede religiosa, si consegnarono nelle mani del nemico affermando di voler morire in onore della fede di Cristo e così, all’interno della cattedrale, si consumò una delle carneficine più terribili.

Circa 813 sopravvissuti all’eccidio dopo essersi rifiutati di ripudiare la propria religione, furono condotti sul colle della Minerva e decapitati su una pietra.

Il primo a subire questa fine atroce fu un anziano tessitore, Antonio Pezzulla: fu il primo a venire decapitato, motivo per cui fu soprannominato Primaldo.
In seguito a questa infausta vicenda storica furono riconosciuti ufficialmente Martiri della Chiesa ed i resti, si trovano tutt’oggi disposti in sette grandi teche in legno nella Cappella dei Martiri ricavata nell’abside all’interno della Cattedrale.

Furono, altresì, dichiarati beati il 14 dicembre 1771 da Papa Clemente XIV e canonizzati il 12 maggio 2013 da Papa Francesco.

La loro memoria liturgica ricorre il 14 agosto, tranne che nella diocesi di Napoli, che ospita le reliquie di circa 250 di essi e che li onora ogni 13 agosto.

Libri| Il Salento dei primi del ‘900

Una macchina del tempo in forma di libro: Il Salento dei primi del ‘900 di Palumbo e Resta

 

di Giuseppe Corvaglia

Già nel 2021, leggendo il libro di Eugenio Imbriani “Fiabe e canti dell’antica Terra d’Otranto “, avevo scoperto le meravigliose fotografie di Giuseppe Palumbo  e oggi le Edizioni Grifo ce ne offrono una antologia quasi completa nel libro “Il Salento nel Novecento – Come eravamo nelle immagini di ieri”.

San Foca : pescatore nel vano di una grotta 1925 (AFP 681)

 

Il libro, oltre alle presentazioni di Luigi de Luca e all’introduzione di Hervè Cavalera, si arricchisce di uno scritto di Antonio Resta che spiega in maniera efficace quello che potrebbe sembrare un film, ma che, invece, è un vero e proprio viaggio nel tempo in un mondo apparentemente lontano, ma non così distante.
Chi ha la mia età alcune di quelle immagini se le ricorda (ricordo le strade sterrate e le ginocchia sbucciate); altre emergono dai ricordi dei racconti degli anziani.

E se il pregio del libro può  sembrare la sontuosa raccolta di foto che ci mostrano luoghi, volti e vita del Salento nella prima metà del ‘900, lo scritto di Antonio Resta è significativo e davvero bellissimo perché descrive quella vita e quella società contadina che ci mostrano le foto fin nel più minimo dettaglio.

Il telaio a mano nelle borgate del Salento 1920 (AFP 853)

 

Uno dei pregi di questo libro, come detto, sta nella collezione di foto, ma è particolarmente importante anche la loro genesi.

Giuseppe Palumbo, con una sensibilità e una perspicacia non comuni, vede questo mondo che sembra abbia una sua solidità,  una sua immutabilità e invece si appresta a scomparire e a mutare sia che si tratti degli uomini che lo popolano, sia che si tratti di luoghi.

Allora prende macchina fotografica e bicicletta (ma non solo) e gira il Salento a immortalare luoghi e volti, monumenti e situazioni, oggetti e natura.

Lecce: piazza S. Oronzo come si presentava prima dell’attuale sistemazione. 1923 (AFP 101)

 

Quelle foto, fatte nell’arco di diversi decenni, le offrirà al Museo Castromediano a costituire un archivio fra i più completi e un documento prezioso frutto della sua curiosità ma anche della consapevolezza di cui parlavo prima.

Attento ai luoghi trasformati dal tempo e dalle intemperie, ma anche dall’incuria, attento pure alla Natura mirabile sia quando la doma l’uomo sia quando da esso non si fa domare, Palumbo non resiste a immortalare anche gli abitanti di quei luoghi catturando negli sguardi, nelle posture e negli atteggiamenti, sensazioni, stupore, rabbia, gioie, dolori e dignità.

Impasto della creta all’interno di un’officina . 1919 (AFP 869)

 

Ed ecco un documentario in bianco e nero, senza sonoro che, però, parla… eccome se parla!
Il testo di Resta davanti a quella mole di immagini potrebbe sembrare un corollario e invece è parte indispensabile di quella macchina del tempo con tutta la sua complessa descrizione, fatta di odori, sapori, suoni quasi percepibili nella descrizione, che associata alle immagini riporta proprio fisicamente in quei luoghi, e fa rivivere eventi di normale quotidianità o anche inusuali o ancora straordinari.
E lo fa con una cura delle informazioni, con una meticolosa sistematicità, con una esaustività per ogni argomento trattato di quella povera vita, che sono davvero mirabili.

Inizia con discrezione a  raccontare la vita di tutti i giorni del Salento dei primi anni del ‘900, una vita povera, molto distante da quella che viviamo noi, ma poi ci accorgiamo che ce la descrive senza trascurare alcun aspetto e lo fa con tratti, mi verrebbe da dire pennellate, essenziali, senza fronzoli, ma efficacissime.

 

Parla del ciclo della vita e della morte, ma anche del desinare, del lavoro nei campi, di come i contadini si procuravano quel lavoro, di cosa facevano le donne, di come giocavano i bambini di come passavano il tempo i grandi con immagini che a qualcuno, in qualche caso, potrebbero sembrare manchevoli di qualcosa, ma che, a ben vedere, vanno a trattare con efficacia tutti, ma proprio tutti, gli aspetti.
Approfondirli tutti (come lo stesso autore ha fatto per i giochi di una volta in un libro dello stesso editore) avrebbe reso il testo un “mattone” interessante, più esauriente, ma non così gradevole.
Il libro si legge tutto d’un fiato ed è davvero una lettura divertente; subito dopo ci si sente contenti di averlo letto ma ne vorremmo ancora. Allora al lettore, che comprende che si è parlato di tutto, che ha visto la gran parte di cose che pensava perdute, non resta che sfogliarlo di nuovo per rivedere le immagini e  leggere qualche passo, rinnovando il godimento.

Dal mio punto di vista penso che sia un libro da leggere per ogni salentino per almeno due ragioni. Una è intuibile: se non conosci le tue radici, anche quando queste sono scomode,  non hai una tua identità.

Contadini intenti ad infilzare la foglia 1924 (AFP 774)

 

E conoscere le proprie radici non vuol dire vagheggiare un ritorno al passato, ma vuol dire riflettere sul presente, capire cosa c’era di buono del passato che abbiamo buttato via e che potremmo recuperare e quali delle cose belle del presente  sono valori da custodire e quali, pur sembrando allettanti piaceri o vantaggi fugaci, si rivelano poi disvalori o rischi dissennati per la nostra felicità e il nostro benessere.

 

La seconda ragione, non meno importante, è che una lettura, non dico attenta, ma utile, ci farebbe vedere che la condizione dei nostri nonni in termini di diritti umani e soprusi, di livello culturale e di credenze, di restrizioni sociali e di condizioni igieniche, di libertà e di benessere, non era molto diversa da quella di popolazioni che, con dispregio, etichettiamo come arretrate, incivili, barbare, rimaste ancora nel Medioevo e se leggiamo questo libro capiremo che nel Medioevo, nella inciviltà e nella arretratezza c’erano i nostri nonni, quelli che ci tenevano sulle ginocchia a farci galoppare con ” hoppi, hoppi cavallucciu…”

Maglie Edificio del Liceo Ginnasio Capece 1928 (AFP 280)

 

Se capissimo questo forse non saremmo più censori spietati nel giudicare quegli uomini e quelle donne e li capiremmo quando decidono di partire o di lasciar  partire i propri figli esponendoli a pericoli potenzialmente mortali e allora, forse, saremmo non dico più benevoli, ma almeno più cauti nel giudizio.
Il libro costa 10 euro in edicola con Il Quotidiano e penso che sia una operazione editoriale meritoria per chi come l’editore Grifo e il Quotidiano,  trova questi tesori e ce li mette a disposizione per poterne fruire comodamente.

Note sul pittore Gioacchino Toma

 

di Giovanni Maria Scupola

La personalità artistica di Gioacchino Toma, originario di Galatina, ove nasce nel 1836, caratterizzata da una spasmodica ricerca del vero e delle diverse sfaccettature della psiche umana, risente molto del dolore e della malinconia legati al ricordo degli anni infausti dell’infanzia e dell’adolescenza.

Rimasto orfano, a soli 6 anni, sia di padre che di madre, nel 1853 viene accolto presso il Regio Ospizio di Giovinazzo nel barese, dove frequenta un’illustre scuola d’arte sotto la guida del napoletano Nicola Ricciardi, e si avvia alla decorazione ed alla pittura.

Intorno alla metà degli anni Cinquanta del XIX secolo, ritorna nel Salento, dove inizia la sua vera e propria carriera artistica, dipingendo su committenza ritratti di aristocratici, borghesi ed opere a tema religioso.

Nel 1856 Toma si reca a Napoli, dove frequenta le botteghe di Gennaro Guglielmi e di Alessandro Fergola (per quest’ultimo realizzerà “trasparenti” ossia tende da finestre, parzialmente decorate con arabeschi, paesaggi o figure), subendo successivamente l’influenza pittorica di noti artisti come Filippo Palazzi e Domenico Morelli.

Particolarmente impegnato nelle lotte risorgimentali contro il regime borbonico di Napoli, viene arrestato per ben due volte, confinato a San Gregorio Matese presso Caserta e a Piedimonte d’Alife, poi imprigionato ad Isernia.
Una volta liberato dall’esercito garibaldino, nel 1878, viene chiamato da Domenico Morelli per insegnare disegno presso il prestigioso Istituto di Belle Arti di Napoli.

Da quest’ultima esperienza trae l’impulso ad abbandonare la pittura accademica spinto dal forte bisogno di narrare la realtà circostante: “Un prete rivoluzionario” (1861), “I figli del popolo” (1862).

Agli anni Settanta risalgono celebri ritratti di donne aristocratiche come “Luisa San Felice in carcere”, una delle principali protagoniste della rivoluzione napoletana del 1799 morta sul patibolo.

Nell’ultima fase della sua carriera, dipinge paesaggi, marine, ville e case rustiche campane, vedute di Napoli e del Vesuvio in varie ore del giorno.

In queste opere, sembra aderire alla lezione dei macchiaioli e degli impressionisti parigini della seconda metà del XIX secolo mettendo in evidenza l’interiorità e la profondità dell’animo del soggetto rappresentato.

Il pittore del grigio, tra i protagonisti dell’Ottocento napoletano, muore a Napoli nel gennaio del 1891 a soli 55 anni.

Libri| Ossi di parole in “Malesciana” di Giacomo Giancane

 

di Renato De Capua

“E fu un sogno inatteso vedere

le cinque punte di una rondine

tramutarsi in una stella”

(G. Giancane, Il Pompelmo, da Malesciana)

 

“Malesciana”[1] è il titolo del primo album poetico di Giacomo Giancane, giovane autore salentino che nella sua poesia esprime un’attenta osservazione del territorio: le bellezze naturali, i costumi e le atmosfere del Salento, divengono lo spunto per una riflessione di ampio respiro sull’esistenza e sulle istanze dell’umano.

Il libro, in un crescendo emozionale, è una confessione d’amore, un atto di fede verso la propria terra che, sin dalla dedica posta in limine alla raccolta, viene definita “amata terra a sud del sud”.

Il dato geografico è importante per muovere i primi passi all’interno degli orizzonti poetici di questa silloge: siamo nel Salento, nei paesi e nella terra più a sud della penisola italiana; chi li abita può riconoscersi facilmente nelle descrizioni e ritrovarsi tra quelle vie scandite dalla pulsazione di una “vita che ribolle in quelle ore” (v.6 “Le spighe) e si dipana e poi s’infrange “sulla falce della luce” (v. 11).

L’idea di fondo della concezione del tempo che emerge dalle poesie, può essere esemplificata attraverso l’arco della vita di un frutto; il poeta per indicarne lo sviluppo non usa il verbo “crescere”, ma “maturare”, poiché l’idea della maturazione va più facilmente incontro allo scacco dell’esistenza[2]. Un frutto deve essere colto nel giusto tempo, proprio come le opportunità della vita, altrimenti si spezza, recide il legame con la pianta da cui è stato generato, cade e si perde tra le zolle sottostanti.

Il tempo è quindi percepito come effimero, mutevole, sfuggente come la “brevità dei fiori”, altra immagine[3] che si presta a una descrizione fugace di quello che è il fluire degli eventi attorno a noi. Se da un lato i fiori adornano col loro sguardo la nostra vista, dall’altro ci ricordano che tutto è cangiante e transitorio; intenso sì, ma pur sempre breve nell’estensione.

Si leggano i vv. 6-8 di “Simulacri” (pag. 12), nel prosieguo della nostra trattazione.

“Abito ogni cosa che rimane

Un giardino conchiuso nella ruggine,

un paese sgominato dalla polvere.”

 

Il nostro viaggio è partito da un dato geografico e dall’estremo sud, ma questi versi ci inducono a trascenderlo e disancorarci da uno spazio determinato, perché il poeta e la poesia abitano ogni cosa che rimane; il canto si eleva, diviene memoria, un simulacro; oltrepassa le barriere e s’insinua tra molteplici scenari.

La poesia attraversa i luoghi, è parte costituente di essi e non a caso proprio la parola “paese” trova dimora numerose volte nel corso dell’opera. Innanzitutto fa da sfondo a ogni suggestione catturata e tradotta in parola: è speranza e attesa (“tornerò nel mio paese” pag. 9 v.1); è la personificazione di un Padre che attende il ritorno del proprio figlio (“Padre mio paese mio” v. 1 pag. 20); è intimo raccoglimento (“il sole è tardo/sul paese che prega” vv.1-3 pag. 23); è lentezza schiacciante e rarefatta (nel lento paese/ dove presto guastano/i gelsi vv. 3-5 pag. 53).

È una realtà complessa, da narrare con “parole striminzite”, intrise dall’arsura del sole, ma estremamente precise e veritiere.

La scelta delle parole, infatti, non è mai approssimativa, ma designa un aspetto particolare; rende tangibile il silenzio del meriggio in cui un cane riposa raggomitolato su se stesso (l’autore usa il termine “letargo” per rendere l’idea[4]); evoca mediante ardite analogie l’avverarsi del possibile o, perlomeno, di ciò che la mente costruisce e rappresenta, come si legge ai vv. 3-5 di “Lecce, Via Beccherie Vecchie”:

“nell’ora stellata di geranio

S’odono le rondini

Leggere il Corano”.

 

Immaginiamo un borgo antico in estate e sul far della sera, quando i gerani emanano il profumo alacre dalle loro foglie misto a quello dei fiori. Le rondini in stormo passano e creano forme nel cielo, e l’immaginazione rende a parole il loro canto.

Un altro aspetto determinante è la condizione del poeta espressa in “Malesciana”. Egli è la voce del suo paesaggio; mediante l’uso di un’efficace metafora animale e iconografica, il poeta viene paragonato a un geco guardingo e solitario nel suo angolo e a un geroglifico, simbolo accattivante di un tempo remoto ma criptico e talvolta non immediatamente decodificabile[5].

In questa raffigurazione della figura del poeta, ritornano echi della letteratura; si pensi a Baudelaire e all’Albatro de “I fiori del male” che ci ricorda i limiti che l’uomo può imporre all’arbitrio della parola poetica: anche se si hanno grandi ali, se queste sono avvinte e derise da una fune, non si può spiccare il volo. Ricordiamo anche Aldo Palazzeschi che in una sua nota lirica, “Chi sono?”, prova a definire la figura stessa del poeta, partendo da se stesso e concludendo di essere il saltimbanco della sua stessa anima.

Su questa linea di pensiero, ma con un tocco di leggero ottimismo si ritrova in “Testamento” di Giancane l’idea di un poeta che riesce a esorcizzare se stesso, proiettandosi nel tempo “ tra i posteri/ a nutrire con la torba dei versi/ la sete dei frutteti futuri” (vv.10-12).

Tra il bilico dell’incertezza e del limite, è sicuro che ogni tempo ha bisogno del suo racconto, delle sue voci, dei suoi poeti.

Non si possono raccogliere buoni frutti, senza che qualcuno si prenda cura degli alberi che li producono; così è per gli uomini che senza la letteratura stenterebbero a trovare le parole e si sentirebbero ancor più soli.

Il titolo dell’opera di per sé incuriosisce. La parola “malesciana” è in dialetto salentino ed è composta a sua volta da due sostantivi tra loro accostati, “male” (usato come prefisso conferente un’accezione negativa al termine) e “sciana” (parola che significa “umore, disposizione”; ma anche “stato dell’anima”).

Una traduzione letterale del termine con “cattivo umore/ stato turbato dell’anima”, sarebbe un azzardo un po’ goffo, perché “malesciana” in poesia si carica di significati ulteriori.

È un concetto accostabile al male di vivere montaliano che lotta e prova a esprimere la propria insofferenza in un mondo che bada troppo alle apparenze; è lo spleen malinconico di Baudelaire che vuole imprimere un cambiamento alla realtà, ma non sempre ci riesce e ne rimane devastato.

Quindi la “malesciana” di Giancane è una preghiera e un auspicio, che si dissimula nella pienezza di un sole “che muore sulla biada del mare” (v. 5 “La malesciana” pag. 8).

La lingua che il poeta sceglie di adoperare è media e talvolta settoriale; parla del quotidiano, ma gli conferisce una declinazione precisa nelle consapevolezze delle proprie modalità espressive.

C’è un’attenzione al fonosimbolismo delle parole, che nel suono padroneggiano il verso. Ad esempio il vento dà voce e movimento alle mandorle, “facendole vibrare come chitarre”.

Alcuni termini dialettali vengono poi armoniosamente accostati a quelli italiani, quasi da renderne difficile la distinzione.

Ad esempio in “Le spighe” si trova l’espressione perifrastica “vado scerrando”, che risulta indefinita ma dinamica e progressiva. Il termine “scerrare” significa dimenticare e in questo caso la progressione della dimenticanza, è restituita dall’idea di volersi lasciare tutto alle spalle per sentirsi più leggeri e perdersi e confondersi nella luce.

Un altro dialettismo presente nella stessa lirica è il termine “friculare”, coniugato all’infinito, modo dell’estensione e della distensione dell’azione. Esso significa sfregare, strofinare, ma anche “darsi da fare”, “occuparsi di più cose”.

L’immagine delle spighe che tra loro “friculano” rende ambedue le accezioni del termine: il suono dello sfregamento reciproco, l’idea di una vegetazione che cresce “e s’affretta, e s’adopra/ di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba”, forse avrebbe detto Leopardi[6].

Il viaggio all’interno di un’opera letteraria conduce sempre a molteplici conclusioni, a strade che mai si chiudono e sempre sorgono nuove e sconfinate. Ognuno, leggendo quest’opera, troverà la propria voce o le parole per esprimerla, perché il senso dello scrivere è quello di tessere legami tra gli uomini.

È un invito al viaggio, a tornare “in questa malaugurata piana”, a scoprirla con occhi nuovi senza timore.

Chi decide di restare fermo a guardare e ha paura di meravigliarsi, potrebbe rimanere immobile “come aprili incastrati/ in una muraglia d’inverni”[7]. Leggere questa raccolta può condurci a sud del sud o ovunque vorremmo essere.

 

 

Giacomo Giancane nasce e vive nel Salento e inizia a dedicarsi alle lettere sin da giovanissimo. Fervido lettore dei “maledetti” francesi, degli ermetici italiani e degli avanguardisti russi, esordisce con “Malesciana”, album di liriche nel quale l’autore esplora esperienze di luce e ombra in una penisola salentina che diviene ideale, patria lirica e interiore di vita e desiderio.

Oltre a quella per la letteratura, coltiva un’ardente passione per la musica. Vuole diventare uno scrittore ed è attualmente al lavoro sul suo primo romanzo.

 

Note

[1] G. Giancane, Malesciana (poesie), edizioni esperidi, Lecce, 2021.  Le citazioni, dove non diversamente specificato, fanno riferimento a questa edizione.

[2] Si fa riferimento al v. 1 de “Il tempo quaggiù”.

[3] “la brevità dei fiori” è l’immagine conclusiva presente in “La basilica barocca” a pag. 29.

[4] Si legga “Persiane” vv.7-8 pag. 95.

[5] Si legga “Le giuggiole” vv. 1-3 pag.102.

[6] Leopardi G., Il sabato del villaggio, da Canti, vv. 36-37, contenuto in Canti, Operette morali, Pensieri pag. 101,  De Agostini, Novara, 1961.

[7] La similitudine è ripresa dai vv. 8-9 di “Io non lo so”, pag. 33.

Il monumento a Francesca Capece in Maglie opera di Antonio Bortone

 

di Giovanni Maria Scupola

Il monumento a Francesca Capece, ultima feudataria di Maglie, è collocato nella piazza principale della cittadina.

In marmo bianco di Carrara, rappresenta una anziana signora seduta su una poltrona. Sulla spalliera è raffigurata l’arma gentilizia, un leone rampante; la contessa amorevolmente si rivolge ad un fanciullo ignudo: il piccolo regge con la mano sinistra uno scudo con lo stemma civico e con la mano destra prende un libro ed una croce che la benefattrice gli porge.

Su due scudi, scolpiti a rilievo sulle fiancate del basamento ornato da festoni sono riportati un motto della prima lettera di San Paolo ai Corinzi (Ego plantavi …suddeus incrementum dedit) ed un verso del XXX canto del Paradiso della Divina Commedia (Luce intellettual, piena d’amore).

Ma chi è la donna che troneggia nel cuore della città? Francesca Capece nasce a Maglie nel 1769, da Nicola Capece, marchese e barone di San Marzano e di Maglie, e da Maria Vittoria Della Valle di Aversa, e governa dal 1805 al 1843 il feudo avuto in eredità. Sposa molto giovane nel 1778 Antonio Lopez y Royo, duca di Taurisano e Monteroni.

Non avendo discendenti, dona nel 1843 i suoi beni ai Gesuiti affinché istituissero scuole pubbliche di orientamento umanistico. Muore a Lecce nel 1848 ed è sepolta a Maglie nella chiesa Matrice ai piedi di un altare laterale.

Si deve all’avvocato Alessandro De Donno nato a Maglie nel 1821, del quale la baronessa era madrina, la modifica del testamento a favore della cittadinanza magliese.

Le argomentazioni utilizzate dal De Donno puntano sulla mancata attuazione da parte dei Gesuiti delle condizioni poste dalla Capece per la suddetta donazione.

La modifica del testamento fu però un successo temporaneo: i Gesuiti ritornarono nel 1849 alla carica mostrando di adempiere agli obblighi testamentari: istituirono scuole pubbliche che gestirono per circa un decennio, ma con l’Unità d’Italia questo patrimonio fu incamerato dallo Stato.

Si deve allo stesso De Donno l’idea di un monumento da dedicare alla benefattrice. Un desiderio intenso, come si evince nella lettera pubblicata da Popolo Meridionale del 12 dicembre 1896: “Oh! Se prima di morire mi fosse dato ammirare e prostrarmi dinanzi a quel monumento! Quello sarebbe sì l’unico premio a cui ambisco per quel che ho fatto ed è il più bel giorno della mia vita”.

Ed è ancora Alessandro De Donno che ha l’idea di rivolgersi al cavaliere Antonio Bortone. Lo scultore nasce a Ruffano nel 1844 da genitori di modesto ceto sociale. Fu scultore assai stimato e numerose sono le sue opere sparse in tutta Italia.

Discepolo di Maccagnani, grande cartapestaio leccese, che lo avviò allo studio della plastica e del disegno. Dal 1910, dopo un lungo soggiorno a Firenze dal 1865 al 1905, risiedette a Lecce, di cui divenne cittadino onorario, e dove continuò a lavorare fino alla morte, avvenuta nel 1938 a 94 anni.

È del periodo fiorentino la statua a Francesca Capece, la cui realizzazione avviene dopo aver ricevuto, dal De Donno, il libretto delle “Memorie” accompagnato da una lettera nella quale chiede di eseguire un bozzetto del monumento.

Dopo pochi mesi, il bozzetto di gesso è esposto in una sala del palazzo De Donno, dove accorsero tanti cittadini per ammirarlo. Nacque, quindi, un comitato con lo scopo di raccogliere, mediante una pubblica sottoscrizione, i fondi occorrenti per l’emolumento della statua, un compenso (diciassettemila lire) che, per espresso desiderio dell’artista era assai modesto (un altro scultore, il magliese Giuseppe Mangionello, propose, senza successo, un suo bozzetto).

Il Municipio concorse alla sottoscrizione con cinquemila lire e si impegnò a versare mille lire l’anno, a partire dal 1898.

Il 29 luglio 1900 a Maglie si inaugura il monumento alla Benefattrice. Quella candida statua illumina ed ombreggia le nostre giornate e la sua icona vive in questi centoventidue anni nelle attività commerciali, politiche, turistiche, culturali ed istituzionali.

Considerazioni sulla “veduta” di Ugento del Pacichelli del 1703

di Luciano Antonazzo

 

Delle mura messapiche e di quelle bizantine della città di Ugento, negli ultimi decenni, si sono occupati diversi istituti di ricerca e diversi studiosi, sia italiani che stranieri.

Per quanto riguarda le più recenti ed esaustive pubblicazioni dei nostri connazionali, il prof. Antonio Pizzurro ha parlato diffusamente delle mura messapiche nel suo Ugento- Dalla preistoria all’Età Romana[1]. A lui ha fatto seguito il prof. Giuseppe Scardozzi con La cinta muraria di Ugento[2] e da ultimo la prof. Giovanna Occhilupo ha realizzato un importante lavoro dal titolo Ugento – La città medievale e moderna[3] nel quale ha dedicato un capitolo alle Mura medievali, ossia alla cinta muraria bizantina, lunga circa un chilometro, realizzata verso il X secolo per proteggere la parte alta della città.

Per i loro lavori i succitati autori si sono avvalsi della cartografia storica pervenutaci su Ugento: la “veduta” della città del Pacichelli del 1703, la Pianta iconografica dell’antica e moderna città di Ugento, realizzata dall’arch. Palazzi nel 1810 e la Pianta generale dei beni della casa Colosso in Ugento, realizzata dall’ing. Giuseppe Epstein nel 1897.

La dott.ssa Occhilupo nel suo testo rimarca come attorno alle mura della città, sia messapiche che bizantine, vi sia notevole confusione e discordanza tra gli studiosi riportandone le diverse opinioni.

La sua analisi parte dalla veduta della città che il Pacichelli (1634 – 1695) inserì nel secondo volume de Il Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodici province, edito postumo nel 1703.

Veduta della città di Ugento – Pacichelli 1703

 

Si tratta di una pianta pseudo prospettica nella quale la città è vista da Est. In basso è evidenziato il borgo dal quale si diparte una strada che conduce alla fortificazione bizantina. L’accesso alla città per chi proveniva dal borgo era quello di Porta Paradiso, ma accanto a questo il Pacichelli ne riporta un secondo denominato Porta Piccola[4]. Sono quindi riportati gli edifici più importanti della città, indicati numericamente ed elencati in legenda. Alle spalle del centro urbano è raffigurata la cinta muraria messapica con tre porte denominate Porta S. Giorgio, Porta Santa Croce e Porta S. Nicola. Oltre le mura è raffigurato il mare su cui si affacciano altri centri urbani sovrastati da rilievi montani.

Questa pseudo-pianta però non è realistica in quanto vi sono delle incongruenze sia con lo stato dei luoghi che con quanto riportato da diversi documenti, sia anteriori che posteriori al 1703. Che detta riproduzione, assieme ad altre, non fosse del tutto affidabile lo si evince dal giudizio che ne diedero i posteri. Infatti, se il Regno di Napoli in prospettiva agli inizi raccolse molti elogi, successivamente fu oggetto di critiche severe.  Pietro Antonio Antonio Corsignani dichiarò che il Pacichelli incorreva in “vari abbagli”, come era “solito fare in quella sua opera,[Il Regno di Napoli..] affastellata senza discernimento” (1738. I, p.27)[5], mentre Lorenzo Giustiniani giunse a dire che si trattava di opera “con rami rozzi daddovero[6] e mal fatti” e “scritta da uomo acciabattante qual egli era[7]. Altri sollevarono dubbi sulla veridicità delle informazioni da lui riportate nelle sue opere, nelle quali si sarebbe dovuto “distinguere ciò che egli stesso ha veduto, da ciò che ha udito narrare per tradizione[8]. Anche studi recenti hanno accertato che la fama del Pacichelli è da ritenersi in larga misura usurpata. Risulta infatti che egli si limitò a riportare notizie raccolte qua e là, e che i suoi viaggi si svolsero solo dopo che aveva consegnato il manoscritto agli editori[9].

La prima osservazione da farsi è che egli, nel descrivere la città, dice che era “un miglio distaccata dal mare”, mentre in tutti i documenti, più o meno antichi, si dice (come in effetti era ed è) che la città distava dal mare “quattro miglia”; inoltre, nei due scudi ai vertici superiori della pianta non è raffigurato lo stemma di Ugento, benché lo stesso, come documentato, fosse stato adottato dalla città almeno dalla prima metà del ‘500[10].

In terzo luogo, nella cerchia delle mura messapiche indica a N/E della città, col n. 4, Porta S. Nicola, in corrispondenza dell’ex monastero dei Celestini, a Nord del borgo. In realtà questa porta era situata a S/O della cinta muraria bizantina e la conferma si ha, oltre che da innumerevoli documenti, dal fatto che detta porta prese la denominazione dell’esistenza nei suoi pressi di una chiesetta intitolata a S. Nicasio[11], appena fuori le mura.  Ed ancora, nel circuito delle mura messapiche col n. 3 è indicata a N/O porta S. Giorgio, mentre la stessa si trovava esattamente a N/E, nella contrada che da sempre è stata identifica col toponimo Santi Giorgi[12]. A N/E egli colloca invece Porta Santa Croce che certamente prese il nome dalla contrada S. Croce, poi Acquarelli[13], che si trovava a N/O dell’antico centro abitato.

E veniamo alla cosidetta Porta piccola che il Pacichelli colloca a S/E della muraglia bizantina, a poca distanza da Porta Paradiso sita a N/E, dalla quale secondo Salvatore Zecca irruppero in città i turchi nella loro incursione del 1537[14].

Dell’esistenza di questa porta non si è mai avuta cognizione ed il solo a parlarne fu il Pacichelli che ebbe come primo emulo l’arch. Palazzi il quale nella sua Pianta Iconografica di Ugento, la collocò, identificandola col n. 17, alle spalle della cattedrale, al vertice posteriore del suo lato destro (vista di fronte).

Tutti i successivi studiosi e scrittori locali, con dei distinguo, hanno preso per veritiera la “veduta” del Pacichelli, ma nei documenti pervenutici è rimarcato che due erano gli accessi alla città: Porta Paradiso[15] e Porta S. Nicola. Il primo di questi documenti è del 1634; si tratta dell’apprezzo che fece il tavolario Giulio Cesare Giordano in occasione della messa all’asta del feudo di Ugento. Vi si legge: “La città di Ugento […] è posta su una cima di Montetto murata attorno con bastioni, torri et altre fortificazioni, tiene li suoi ingressi per due parti, una dimandata la Porta di Paradiso, nella regione di levante, e l’altra dimandata Porta di Santo Nicola nelle regione di Ponenente […][16].  

Il feudo fu aggiudicato a Don Emanuele Vaaz de Andrada e nel documento della presa di possesso è precisato che la comitiva entrò in città da “Portam dictam del Paradiso” e che attraversando la piazza giunse a Porta S. Nicola[17]. Non vi è menzione di nessuna altra porta.

Oltre un secolo dopo, nell’apprezzo del tavolario Luca Vecchione del 1761, si legge che la città di Ugento si trovava: “quasi nel mezzo del feudo, sopra un dolce colle, da ogni intorno murato: si entra in essa mediante due porte: una detta del Paradiso, che riguarda Oriente, l’altra nominata di Santo Nicola coll’aspetto ad Occidente[18]. Anche qui non si accenna ad altre porte.

È verosimile che qualche decennio dopo vennero aperti altri varchi nella muraglia bizantina, ma fino ai primi dell’Ottocento, quando cominciarono ad essere usurpate le antiche mura bizantine[19], non si è rinvenuta alcuna testimonianza documentale in proposito.

Ma tornando alla famigerata “Porta piccola”, da dove salta fuori?

La spiegazione si trova nei protocolli del notaio Francesco Carida, di proprietà privata. In diversi suoi atti rogati tra il 1679 ed il 1696 troviamo che l’abitazione dei Papadia (corrispondente all’attuale sede degli uffici per il turismo che dà su Piazza A. Colosso e fa angolo von via Barbosa) era sita “in strada ubi dicitur la porta piccola di S. Vincenzo[20], o “ in strada ubi dicitur la porticella di S. Vincenzo[21], “in strada ubi dicitur la Porticella[22], “in strada ubi dicitur la porta piccola della chiesa di S. Vincenzo[23], “in strada ubi dicitur la porticella di S. Vincenzo[24], “ in strada ubi dicitur la porticella[25], “in strada ubi dicitur la porticella della Cattedrale di Ugento[26], “ in strada ubi vulgo dicitur la porticella della chiesa di S. Vincenzo[27], “in strada ubi dicitura la porticella[28], in strada ubi dicitura la porta piccola di Santo Vincenzo[29].

La denominazione ufficiale della strada era via Sferracavalli e come dice il notaio “dal volgo” era detta della

“porticella della chiesa di S. Vincenzo” perché conduceva alla porta secondaria e laterale di accesso alla cattedrale; non si trattava pertanto di un piccolo accesso aperto nella antica muraglia per comodità dei cittadini. Lo conferma anche il fatto che allora, fra il costone roccioso su cui sorge la cattedrale ed il piano sottostante, vi era un dislivello a strapiombo di oltre una decina di metri. Ai piedi di questo costone roccioso, prima che fosse realizzata l’attuale Via dei Cesari, correva un viottolo che permetteva ai contadini di raggiungere i propri poderi che si sviluppavano fino all’incrocio con Via Sallentina, nella contrada Barco. Tale dislivello venne superato solo alla fine dell’Ottocento con una ripida e lunga scalinata, oggi denominata salita Brancia, che si sviluppa in quattro rampe per un totale di una sessantina di gradini.

Tralasciando la disamina della rappresentazione e dell’ubicazione imprecisa di alcuni edifici della città raffigurati nella pianta del Pacichelli, è da attribuirsi dunque agli errori in essa contenuti la gran confusione che si è creata successivamente. Il Pacichelli (o chi per lui) probabilmente prese per buono, o equivocò, quanto riferitogli senza appurarne la veridicità e raffigurò una porta inesistente. A lui seguì il Palazzi il quale nella intestazione della pianta scrisse che la stessa era stata realizzata anche “per supplire alla deficienza delle memorie del primiero lustro di essa Città”. Probabilmente fu per perpetuare una fallace memoria che egli riportò l’esistenza di quella porta nelle mura bizantine mai esistita.

In effetti la città, data la sua esiguità all’interno delle mura, non necessitava di nessuna altra porta oltre le due documentate. Per recarsi nei fondi fuori le mura erano sufficienti le stradine che correvano attorno alla muraglia e per recarsi nei paesi limitrofi o alla marina erano sufficienti le strade che originavano dalle due porte poste ad Est ed a Sud/Ovest dell’abitato e distanti tra loro in linea d’aria circa 250 metri.

 

Delle mura messapiche

Il primo accenno alle mura messapiche è verosimilmente individuabile nel breve passaggio della Stima dei beni della Contea di Ugento, redatta da Troano Carafa nel 1530, in cui si dice: “La città a quattro miglia dal mare è cinta di forti mura con fossato[30].  Esplicitamente delle mura messapiche parla invece padre Secondo Lancellotti nel suo Il Mercurio Olivetano. Testualmente egli scrisse:

“Con l’occasione, che io l’anno 1616. girando per notare l’antichità, e raccorre le cose più degne dè nostri luoghi, mi trovai in queste parti, e mi trattenni l’inverno, fui chiamato a predicare la Quaresima ad Ogento. Hora è questa una città di sì pochi abitatori, che io credo, che non passino il numero di 500. […]. Dicevano gli Ogentini, che già la loro era una gran Città, ma non mi mostravano scrittore antico, che ne parlasse. […]. Ne meno apparivano vestigia di edifitij antichi a Città pretesa sì nobile convenevoli. È posta sopra un colle assai ben pietroso. Quindi, questo è ben vero, vedesi giù alla pianura un terzo di miglio lungi, gran giro di sassi coperti da gli sterpi, e dalle spine, e questo affermavano essere dell’antico Ogento. Io per curiosità fui quivi appresso, e volsi scavare un poco e vidi realmente essere una muraglia di pietre grandi, e quadrate secondo l’usanza di quei tempi, e tanto più stupij della rovina di tanta città, & e ancora quasi d’ogni memoria d’essa”[31].

Dopo quella pseudo prospettica del Pacichelli del 1703, la più datata pianta della città di Ugento si deve all’architetto Angelo Palazzi del 1810. La sua intestazione recita: Pianta iconografica dell’antica e moderna città di Ugento rilevata nel mese di febbraio dell’anno 1810 per supplire alla deficienza delle memorie del primiero lustro di essa Città. Nella planimetria, espressa in canne napoletane e piedi francesi, il sud è rappresentato in alto ed assieme al nucleo cittadino con le mura bizantine e i suoi torrioni, vi sono rappresentati il borgo e le diverse vie di comunicazione. Il tutto è circoscritto dalle mura messapiche il cui perimetro non presenta interruzioni. In alto, a destra, è raffigurato lo stemma antico di Ugento, e alla sinistra e ai piedi della pianta si sviluppa la legenda esplicativa dei diversi elementi raffiguratevi indicati con dei numeri. Il circuito messapico è contrassegnato col n. 1 e nella Annotazione si legge: “Antiche mura rilevate dai ruderi esistenti, e dalle traccie che tuttavia sovrastano, le quali il tempo non ha finora cancellato, della larghezza di circa palmi 18 per quanto si è potuto raccogliere. Il perimetro effettivo di detta città è di miglia italiane due e mezzo, e quarantanove canne lineari. L’estensione di suolo che occupavasi dall’antica città è ỻe [tumulate] 185, e passi quadri 1101, considerato il tomolo di passi quadri 1600 e ciascun passo di palmi 8[32].

Alla base della pianta vi è una dedica appena percettibile non riportata da alcuno degli studiosi che l’hanno visionata e tantomeno è presente nelle riproduzioni che ne sono state fatte a stampa. In essa si legge: “Dedicata al Sig. d.(?) Gius.pe  Colosso”. Si trattava dell’Arcidiacono e Cantore don Giuseppe Colosso sr. (1745-1833), personaggio di profonda cultura ed erudizione che scrisse diverse importanti opere rimaste inedite. Fra queste quella riguardante la storia di Ugento ispiratagli probabilmente proprio dalla pianta del Palazzi dato che egli la intitolò: “Antichità di Ugento esposte da Adelfo Filalete, O sia Rischiaramento su la Pianta iconografica dell’antica e moderna città di Ugento, rilevata dall’Architetto Angelo Palazzi l’anno 1810, e dell’Annotazione su la stessa dal medesimo fatta[33].

A questa pianta fece seguito nel 1897 la Pianta generale dei beni della Casa Colosso in Ugento, realizzata dall’Ingegnere Giuseppe Epstein con scala in metri 1: 10.000. In questa pianta sono raffigurati la città ed i territori circostanti con relativi toponimi, mentre con linee tratteggiate sono rappresentate le parti della muraglia messapica ancora visibile al suo tempo.

Riferisce il prof. Domenico Novembre in una sua pubblicazione che lo stesso Epstein aveva in precedenza ispezionato la cinta muraria e ne aveva stabilito il perimetro in 7 km.[34] A tal proposito Pizzurro, rifacendosi al citato autore, scrive:

“Nel 1889 Apstein (Epstein) misurò le mura e le trovò lunghe m. 7.000, in quanto sosteneva di aver trovato tracce di mura sia nella parte settentrionale (al di là della masseria Crocifisso) sia in quella orientale (al di là della cisterna del Serpe). Purtroppo non ci è giunto alcun rilievo di Apstein né la descrizione del perimetro della cinta muraria da lui rilevata”[35].

Ho il piacere, in questa occasione, di sottoporre all’attenzione degli studiosi proprio quella che ritengo sia una copia dell’originale (e malridotta) pianta realizzata dall’Epstein nel 1889, andata evidentemente perduta. La pianta in oggetto reca l’intestazione “UGENTO dentro le sue antiche muraglie”, mentre allo spigolo inferiore destro si legge. “Rilevò e disegnò Gius. Epstein – ing. l’anno (?) 1889”.

Pianta di “Ugento dentro le sue antiche muraglie” – Ing. G. Epstein 1889

Imm. 2

 

Di detta copia, assolutamente inedita, sono venuto casualmente in possesso e dal suo confronto con le altre due citate è possibile verificare il progressivo disfacimento delle mura messapiche.

È racchiusa in una cornice che misura cm. 39,5 x 30 ed è espressa anch’essa in metri con scala 1: 5.000, ciò che permette, a differenza del variabile valore della canna napoletana, di risalire all’effettiva lunghezza delle mura rilevata dall’Epstein. Misurando i vari tratti del perimetro (comprensivi dei tratti mancanti all’altezza della Cripta del Crocifisso e di quelli verosimilmente corrispondenti alla presenza di porte ubicate sulle strade di accesso alla città), complessivamente il tracciato misura circa 95 cm, corrispondenti sul terreno a circa 4.750 m., misura molto vicina a quella definitivamente accertata di m. 4.900 circa. Risulta pertanto errata e priva di fondamento la lunghezza delle mura messapiche di 7.000 metri attribuitagli.

Vi è rappresentata la città e il territorio compreso entro la cerchia messapica con alcuni toponimi ed il nome dei proprietari dei deversi appezzamenti di terreno.  Non vi è legenda ma per ognuna delle strade è indicato il nome del luogo o abitato verso cui conduce.  Vi sono raffigurate le nuove strade per Taurisano, per Gemini, per la marina di Torre S. Giovanni e per Gallipoli. Vi è delineato il percorso della futura Ugento – Casarano (1893) e la variante D’elia per via Monteforte. Vi è anche indicata l’ubicazione di una “antica tomba” lungo la strada che attraversava la contrada Colonne, poco prima che la stessa ripiegasse a S/O verso masserie Mandorle. Il circuito murario messapico è rappresentato con linee continue, tratteggiate o interrotte, a seconda dello stato delle mura, se intatte, con tracce visibili o inesistenti. Non vi sono indicate torri o porte specifiche. Un lieve differenza nel circuito con quella del Palazzi è riscontrabile nel tratto a sud/est, all’altezza dell’estremità sinistra della Terra dell’Aia. Per il Palazzi le mura formavano una specie rientranza a forma di cuneo fra la strada delle Pastane e la via vecchia per Acquarica. Secondo l’Epstein questa deviazione non c’era ed il percorso da lui tratteggiato proseguiva quasi per linea retta.

Si evidenzia anche come la strada delle Pastane (come appurato dagli studiosi succitati) si sviluppava a ridosso, o al di sopra, delle mura. Si differenzia ancora questa pianta con quella del Palazzi per quel che concerne il tracciato della vecchia via per Taurisano. Questa stradina partiva dalla via della Madonna della Luce (ex Sallentina), dal lato sinistro della chiesetta di S. Lorenzo, ed attraverso i campi giungeva ad incrociare la via per Taurisano che proseguiva, costeggiando le mura, fino all’incrocio tra la via per Melissano e quella per Casarano. Nella pianta dell’Epstein si vede invece chiaramente come questa strada sia stata interrotta dalla creazione di nuovi fondi agricoli. Il tratto occultato di questo sentiero conduceva direttamente a quello che il Palazzi riportò sotto la denominazione di “Torrione di S. Giorgio”, verosimilmente già demolito ai tempi dell’Epstein dato che egli nella sua pianta rappresenta il breve tratto di mura verso la nuova strada per Taurisano con una linea punteggiata. Come ritengono gli studiosi, il torrione prese la denominazione di S. Giorgio dalla porta omonima e nei suoi pressi una ventina di anni fa fotografai una grande lastra in pietra quasi integra che, se non è stata rimossa o distrutta, dovrebbe essere ancora sul posto. Molto probabilmente fungeva da copertura ad una tomba. Se ne riporta l’immagine:

Manufatto in pietra rinvenuto in prossimità del torrione S. Giorgio delle mura messapiche

 

Note

[1] A. PIZZURRO, OZAN UGENTO. Dalla Preistoria all’Età Moderna, Edizioni Del Grifo, Lecce 2002.

[2] G. SCARDOZZI, La cinta muraria di Ugento, Edizioni Leucasia, Presicce 2007. Accanto a questo testo è da menzionarsi l’ultima sua opera dal titolo Topografia antica e popolamento dalla Preistoria alla tarda Antichità – La Carta archeologica di Ugento, Edizioni Quatrini, Viterbo 2021.

[3]G. OCCHILUPO, Ugento – La città medievale e moderna – Metodologie integrate per la conoscenza degli abitati, Claudio Grenzi Editore, Foggia 2018.

[4] Le due porte sono contrassegnate rispettivamente con i numeri 11 e 12.

[5] P. A. CORSIGNANI, Reggia Marsicana ovvero memorie topografiche-storiche di varie Colonie, e città antiche e moderne della Provincia de i Marsi e di Valeria, Presso il Parrino, Napoli 1738, parte I, p. 277.

[6] Daddovero – arc. letterario = davvero

[7] L. GIUSTINIANI, La Biblioteca storica, e topografia del Regno di Napoli, Stamperia Vincenzo Orsini, Napoli 1793, p. 110.

[8] G. TIRABOSCHI, Storia della letteratura italiana del cavaliere abate Girolamo Tiraboschi, presso la Società Tipografica, Modena 1793, l. I, p. 98.

[9] V.: G. DE ROSA – A. CESTARO (a cura) Storia della Basilicata. 3. L’Età moderna, Editori Laterza, Bari (Ed. Digitale: dicembre 2021), p. 137. Le “vedute” utilizzate da Pacichelli sono opera del cartografo Francesco Cassiano da Silva  

[10] V.: L. ANTONAZZO, Gli stemmi della città di Ugento, Tip. Marra, Ugento 2016.

[11] Questa chiesetta bizantina era sita a pochi passi a nord della chiesetta della Madonna del Corallo, fuori le mura.

[12] Not. F. Carida, protocollo del 22/11/1683, c. 139v. Questo atto conferma che la località S. Giorgio era adiacente ad ovest all’Armino, suffeudo che si trovava ad Est del feudo di Ugento; vi si legge infatti “in loco ubi dicitur Santo Giorgio, iusta bona feudi nuncupati l’Armino ex occidente”.

[13] Not. F. Carida, protocollo del 10/1/1684, c. 12r.

[14] S. ZECCA, Portus Uxentinus vel Salentinus, Editore Mariano, Galatina 1963, p. 44.

[15] Se, come detto, Porta San Nicola derivava la sua intitolazione dalla vicina chiesetta di S. Nicasio, Porta Paradiso aveva assunto questa denominazione per la presenza nei suoi pressi di un giardino murato. Infatti il termine “paradiso” deriva dal persiano pairidaeza  (= giardino recintato) reso in greco con  paràdeisos. Il giardino in questione non corrispondeva però a quello realizzato dai conti Pandone sui lati nord ed ovest del castello, ma a quello degli Urso, esistente in parte ancora di fronte all’attuale ingresso al castello stesso.

[16] Archivio di Stato di Napoli, atto del notaio Leonardo Aulisio del 31 gennaio 1643 attinente all’acquisto del feudo di Ugento da parte di Pietro Giacomo d’Amore (Emptio Civitatis Ugenti pro Petro Jacobo de Amore).

[17] ASLe, Sez. Not., 46/39, not. G. F. Gustapane, protocollo del 15 marzo 1636, cc. 197r-216r.

[18]V.: G. OCCHILUPO, Ugento – La città medievale e moderna, cit. Appendice documentaria, p. 155.

[19]V.: L. ANTONAZZO, Trasformazioni urbane a Ugento tra Ottocento e Novecento, Edizioni Leucasia, Presicce 2005.

[20] Not. F. Carida, prot. del 6 gennaio 1679, c. 2v.

[21] Idem. Prot. del 30 ottobre 1683, c. 114r.

[22] Idem, prot. del 4 gennaio 1684, c. 3v, prot. del 11 gennaio 1684, c. 39r.; prot. del 18 settembre 1685.

[23] Idem, prot. del 21 febbraio 1685, c. 3r.

[24] Idem, prot. del primo agosto 1685, c. 60v.

[25] Idem, prot. del 18 settembre 1685, c. 111v.

[26] Idem, prot. del 5 dicembre 1685, c. 142r.

[27] Idem, prot. del 6 gennaio 1693, c. 1r.

[28] Idem, prot. del 3 settembre 1696,

[29] Idem, prot. del 8 luglio 1697, c. 108r.

[30] V.: F. CORVAGLIA, Ugento e il suo territorio, Editrice Salentina, Galatina 176, p. 77. Questo inciso potrebbe far riferimento anche alla cinta muraria bizantina, ma è improbabile data la morfologia del terreno che solo a nord e ad ovest delle mura, per essere pianeggiante, consentì la realizzazione di un fossato prospiciente il castello. Per quanto concerne il fossato antistante le mura messapiche, la sua esistenza per il momento è stata accertata limitatamente ad una porzione del lato est, in contrada Armino.

[31] S. LANCELLOTTI, Il Mercurio Olivetano, overo la Guida per le strade d’Italia, per le quali sogliono passare i Monaci Olivetani, Perugia 1628, pp. 55-56.

[32] La canna napoletana variava a seconda dei luoghi da un minimo di m. 2,14 ad un massimo di m. 2,37. Il Pizzurro, dando alla canna napoletana il secondo valore stabilì il perimetro delle mura messapiche in m. 5.237 (A. PIZZURRO, Ozan …, cit.p. 246). Rifacendosi invece al primo valore la lunghezza delle mura sarebbe stata di m. 4.729, misura più vicina ai circa m. 4.900 stabiliti negli anni Novanta del secolo scorso dagli studiosi.

[33]Ricalca pedissequamente questa operetta, anche nella ripartizione dei capitoli, l’opuscolo Memorie sulle antichità di Ugento 1857, di autore anonimo custodito presso la Biblioteca Provinciale Nicola Bernardini di Lecce ed edito a cura dello scrivente nel 2003 per Edizioni Leucasia.

[34] D. Novembre, Ricerche sul popolamento antico del Salento con particolare riguardo a quello messapico, in Annuario del Liceo Ginnasio “G. Palmieri”, Lecce 1965-66, pp. 78-79.

[35] A. PIZZURRO, Ozan …, cit., p. 247.

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