L’esiliato dei Pazzi, ultimo lavoro di Antonio Errico

Il 20 giugno alle ore 20.00, in piazza Garibaldi a San Cesario, sarà presentato il nuovo romanzo di Antonio Errico, L’esiliato dei Pazzi ( Manni editori).

Con i suoni di Gianluigi Antonaci.
Con le voci narranti di Michele Bovino, Antonio Calò, Maddalena Castegnaro, Giuseppe Cristaldi, salvatore della Villa, Simone Giorgino, Marco Graziuso, Ennio lecciso, Simona Luceri, Costanza Luceri, mauro marino, Giuliana Paciolla, Maria Grazia Preite, Piero Rapanà, Giulia Santi.
Con il Canto di Enza Pagliara.

La Signora degli Ulivi

di Wilma Vedruccio

Desiderio di Volare, pirografia di Silvana Bissoli

Esile, bionda, sorridente, sempre pronta al dialogo, la Signora degli Ulivi.

Scuri, massicci, silenziosi, gli Ulivi che Ella ama senza misura e riproduce col fuoco su fogli di legno. Elementi di una contraddizione che non spiegano ma confermano il mistero della nascita di un amore che diventa una vera e propria passione. Come ogni storia d’amore che si rispetti.

Mi meraviglia la sua capacità di ascoltare “Quello che gli ulivi ci dicono” con un solo sguardo, il suo incanto intriso di compatimento per ogni piega, contorsione, per ogni piegamento, per ogni spasmo del tronco. E sono mille  i tronchi oggetto del suo sguardo, non oliveto, come per noi, ma individui d’albero con nome proprio.

Mi meraviglia come sappia cogliere lo slancio dei rami da tronchi feriti e veda in essi una dimensione esistenziale che va oltre una volontà vegetale, come sappia gioire per ogni resurrezione d’ulivo, come cerchi il cielo con essi, foglia a sua volta, insieme a una miriade di piccole foglie, carezza di fuoco, segno bruno nella carne di legno di alberi fratelli all’ulivo.

Si posa il suo sguardo su un singolo albero e già l’albero non è più tale, è già figura mitologica che ha impressa nelle rughe una storia, un sopruso, uno scherzo del tempo; agronomi e contadini non hanno più voce, l’ulivo racconta ben altro che una potatura, una malattia o un abbandono di coltivo, l’albero si fa umano e assume caratteristiche da creatura arcaica che giunge a noi dopo

Ricordo di un Sindaco

di Rocco Boccadamo

16 giugno 1912 – 16 giugno 2012

Ricorre in questi giorni il centenario della nascita di  Agostino Nuzzo, primo cittadino del Comune di Diso, nel sud Salento, dal 1946  al 1951 e dal 1956 al 1963: secondo il sentire popolare, tuttora diffuso nelle fasce degli abitanti di una certa età, il Sindaco per antonomasia.

Uomo, genitore, educatore e pubblico amministratore.

Semplice e insieme autorevole,  cordiale con tutti, particolarmente vicino ai più deboli e bisognosi, capace di guidare e di coinvolgere, disponibile ad ascoltare il parere e i consigli degli altri.

Breve l’arcobaleno della sua esistenza terrena –  essendosene egli andato a sole cinquantuno primavere, nell’ormai lontano 1963 – e però caratterizzato da sfumature molto intense, in termini di idee, fatti, azioni e interventi per la crescita del territorio affidatogli.

Indubbiamente, una figura che ha saputo volare alto, tanto da divenire polo di

Libri/ Antonietta De Pace. La donna dei lumi

Antonietta de Pace è una donna splendida, vivace, intrepida; è uno spirito libero, che si batte per la propria libertà e per quella del popolo, da sempre sottomesso alle inique condizioni di vita imposte dal Borbone. È, per certi aspetti, donna selvaggia e indomita, istintiva e coraggiosa, che non si lascia imbavagliare dalle rigide regole del tempo, che combatte le umilianti condizioni in cui versano le donne.

Antonietta è un personaggio che non accetta le inique gerarchie della società contemporanea, che tenta di spezzare, il più delle volte riuscendovi, le catene della rassegnazione, del fatalismo, dell’indifferenza, dell’abbandono, dell’oblio, dell’eterna sottomissione; è una donna che, tra tanti sacrifici e ostacoli, riesce a scardinare mentalità retrive e ad inculcare la forza della ragione, del sentimento, del coraggio, della lotta: unici rimedi per garantire a chiunque dignità e conquistare i sacrosanti diritti alla vita.

Il libro di Rino Duma “Antonietta De Pace. La donna dei lumi” (Lupo

Tutino e la contraddizione pragmatica delle epigrafi del suo castello baronale

di Armando Polito

Debbo anzitutto ringraziare Marco Cavalera, autore, sul tema,  del post apparso sul sito qualche giorno fa perché, prima di leggerlo, di Tutino ignoravo pure il nome.

Particolare interesse hanno suscitato in me le iscrizioni riportate e le considerazioni che farò le riguardano in modo esclusivo.

Citerò di ognuna testo e traduzione per non obbligare il lettore ad un continuo andirivieni tra il mio post e quello di Marco.

1) ALOISIUS TRANE PRIMAE PATRlAE NOMEN GAZA VERO COGNOMEN INTER PRIMOS FORTUNAE NATOS FAVENTE MINERVA AD PRlSTINAM NOBILITATEM EJIUS FAMILIAM REDUXIT IMISQUE AB INFIMIS FUNDAMENTIS EREXIT POSTERISQUE SUIS VINCULA(VIT)

(Luigi Trani dal nome della patria di origine, in verità di cognome Gaza, tra i prediletti della fortuna, col favore di Minerva riportò all’antica nobiltà la sua famiglia, lo eresse fin dalle fondamenta e lo destinò ai suoi posteri).

Giustamente è stata citata per prima, perché costituisce la targhetta di riconoscimento del manufatto. Gli ingredienti che la compongono sono quelli che usualmente si leggono in documenti del genere, ma voglio far notare la riconoscenza espressa nei confronti di due divinità pagane: Fortuna e Minerva.

2) VINCE IN BONO MALUM (Vinci il male con il bene).

Si tratta della seconda proposizione di un periodo (12, 21) della lettera di San Paolo ai Romani:

Noli vinci a malo, sed vince in bono malum (Non farti vincere dal male, ma vinci il male nel bene).

Il lettore si sarà accorto della diversa traduzione che ho dato di in bono. Molto spesso la traduzione libera non esprime compiutamente il pensiero come quella letterale che, secondo me, va adottata tutte le volte che si incorre in questo rischio. Nel nostro caso l’originario complemento di stato in luogo (in bono, nel bene) è molto più pregno di significato del complemento di mezzo (con il bene), che in latino avrebbe richiesto la presenza dell’ablativo semplice (bono e non in bono). San Paolo, insomma, esortava non a vincere il male con il bene ma (restando) nel bene, formulazione di un principio generale che privilegiava la continuità di uno stato che, al di là della sua contingente incarnazione temporale, doveva avere anche un’atemporale funzione preventiva (chi sta costantemente nel bene non avrà bisogno di combattere il male perché non esiste neppure il rischio, almeno endogeno, di esserne assalito).

3) MELIOR DIES MORTIS QUAM NATIVITATIS  (Meglio il giorno della morte che quello della nascita).

Si tratta anche qui di una citazione parziale, questa volta  di un proverbio biblico (XXI, 2):

Melius est nomen bonum quam unguenta pretiosa, et dies mortis die nativitatis (È meglio un buon nome che profumi preziosi e il giorno della morte che quello della nascita).

Credo che il motivo ispiratore sia la condanna dell’apparenza (profumi preziosi) rispetto alla sostanza (buon nome), ricalcato nella seconda parte con la contrapposizione tra la morte (tempo di bilancio consuntivo) e della nascita (tempo di bilancio preventivo).

4) CORONA SAPIENT(I)UM DIVITIE(AE) EORUM (Corona dei sapienti è la loro ricchezza).

Citazione parziale di un altro proverbio (XIV, 24): Corona sapientium, divitiae eorum; fatuitas stultorum, imprudentia (Corona dei sapienti, le loro ricchezze; degli stolti, la superficialità e l’imprudenza).

Qui sono in ballo elementi tutti spirituali, come le ricchezze dei sapienti e la superficialità e l’imprudenza degli stolti.

5) MISERICORDIA ET VERITAS CUSTODIUNT REGEM   (Misericordia e verità proteggono il regnante).

Altra citazione parziale dal proverbio XX, 28: Misericordia et veritas custodiunt regem et roboratur clementia thronus eius (La misericordia e la verità proteggono il re e il suo trono è rafforzato dalla clemenza).

6) QUID PRODEST STULTO HABERE DIVICIAS CUM SAPIENTIAM EMERE NON POSSIT (Che cosa giova allo stolto avere la ricchezza se non può comprare la sapienza?)

Si tratta della citazione, questa volta integrale, del proverbio XVII, 16.

7) VERE PRINCIPUM EST SIMULARE (Fingere è proprio dei principi).

A Luigi XI, re di Francia dal 1461 al 1483, è attribuita la frase qui nescit dissimulare, nescit regnare (chi non sa fingere, non sa regnare), della quale la nostra iscrizione sembra la sintesi e che avrebbe trovato la sua sistemazione teorica, vedendo, fra l’altro, nascere il principio della ragion di stato, ne Il Principe (1513) di Niccolò Machiavelli.

8) NON ETS (EST) CONC(S)ILIUM CONTRA DOMINUM (Non sia complotto contro il signore).

Citazione parziale del proverbio XXI, 30: Non est sapientia, non est prudentia, non est consilium contra Dominum (Non c’è sapienza, non c’è prudenza, non c’è assennatezza contro il Signore).

E qui mi dissocio dall’interpretazione di Marco, che introduce (a parte est  reso con sia come se fosse sit)  un adattamento ad personam indotto, credo, dal non aver potuto considerare il testo originale nella sua completezza, per cui il consilium diventa complotto e Dominum diventa signore.

A conclusione di questa analisi voglio fare questa riflessione che è un’immonda ma certamente rabbiosa parafrasi di Domande di un lettore operaio di Bertold Brecht (per la sinistra, il centro la destra e per tutte le possibili posizioni trasversali http://www.filosofico.net/brecht83operaio3.htm): le iscrizioni appena esaminate per un imbecille come il sottoscritto andrebbero raccolte in due gruppi: nel primo la 1 (in cui Minerva  diventa quasi un’autocelebrazione pagana della propria sapienza)  e la 7; nel secondo le rimanenti in contraddizione totale con le due del gruppo precedente, che, non a caso, pur essendo in minoranza, prevalgono per i fatti concreti cui danno vita (il palazzo, il mantenimento del potere).

E allora, ben venga qualche atto vandalico o qualche terremoto che faccia piazza pulita di queste (presunte?) vergogne? Tutt’altro! Esse vanno conservate come testimonianza delle nostre contraddizioni e miserie (soprattutto quelle legate al potere in tutte le sue forme) e lette alla luce brechtiana che, in ultima analisi (incredibile per un comunista!), coincide con l’insegnamento cristiano (non cattolico!).

Vuoi vedere che la trascuratezza in cui versano i nostri, così pomposamente definiti, beni culturali non dipende solamente da un comodo principio di priorità connesso con le ristrettezze economiche?

La campagna salentina verso la fine di giugno…

SALENTO FINE OTTOCENTO

  

                      LA CCOTA TI LI CULUMMI

 

 di Giulietta Livraghi Verdesca Zain 

contadina salentina e fichi al sole (coll. priv. Nino Pensabene)

Verso la fine di giugno, la campagna era all’apice della sua fruttificazione, tant’è che reclamava l’impegno di tutta la famiglia colonica, assorbendone le forze per ogni ora del giorno e, non di rado, per buona parte della notte. I legumi, già secchi, andavano liberati dai loro baccelli, cioè battuti sull’aia nelle ore calde del meriggio e affannosamente ventilati con lo staccio quando, verso il crepuscolo, a interrompere l’afa, s’insinuava un provvidenziale filo di vento marino. Nei maggesi le piante dei melloni  cominciavano a stendere le braccia invocando acqua; acqua che in quella stagione il cielo non elargiva, costringendo gli uomini a vincolarsi per lunghe ore alle carrucole dei pozzi e stabilire interminabili processioni di secchi: dal pozzo alla piantagione, dalla piantagione al pozzo. Nei frutteti le maturazioni si accavallavano esigendo tempismi di raccolta, soprattutto nei ficheti che, a quell’epoca, nel Salento, erano a coltivazione intensiva. I fioroni per i padroni, o per i regali che questi dovevano fare ai loro amici, si raccoglievano all’alba, ancora intrisi dei succhi della notte, ma quelli da avviare al mercato occorreva coglierli nelle ore del vespro, sfidando i bollori del giorno rimasti aggrumati sotto i pampini ed esalanti fuoco nel lattice dei frutti.

Parlando di mercato non s’intendeva quello dello stesso paese, troppo  limitato per      assorbire l’intera produzione: occorreva spostarsi verso i paesi costieri (la cui terra rocciosa non permetteva coltivazione di  fiche culummare  [fichi da fioroni=culùmmi]) e soprattutto contare sul mercato leccese che pur se servito dai vari paesi limitrofi non si saturava facilmente.

Date le distanze per Lecce (da Copertino erano diciotto chilometri) e tenuto conto che si doveva viaggiare ad andatura lenta, per non dare sobbalzi  al carro e quindi maltrattare i fioroni sistemati nelle ceste, era necessario partire a sera inoltrata, in modo da completare il viaggio nell’arco della notte ed essere all’alba già sulla piazza, pronti alla vendita.

La raccolta doveva perciò essere completata prima del tramonto, per consentire al capofamiglia poche ore di riposo prima della partenza. Dopo aver aiutato a sistemare le ceste sul carretto, elargito all’asino o al cavallo doppia razione di biada, preparata una scodella di capunata (pane bagnato condito con cipolla, pomodoro, olio, sale e origano) per tutta la famiglia, ogni brava moglie contadina obbligava il suo uomo ad andare a dormire, rassicurandolo che sarebbe stata lei stessa a svegliarlo a llu mmasunu ti la stèddhra ti la muttura, cioè verso le ventitrè-ventitrè e trenta, ora in cui tramontava la stella Arturo, chiamata stèddhra ti la muttura perché – si diceva – il suo tramonto coincideva col cominciare a scendere della rugiada.

Chiusa la porta sul riposo del marito, di solito la donna si premurava di accendere un lumino, posandolo sulla soglia della casa a propiziazione del viaggio  e della vendita che da questo ne sarebbe derivata; poi, fiduciosa nelle buone virtù del suo gesto, tornava nel folto del ficheto, dando voce e chiamando al raduno. Da quel momento, per lei e per tutti gli altri membri della famiglia – figli, nipoti, nonni – che rimanevano in campagna, aveva inizio un altro lavoro, forse più allegro, certo più poetico, ma non meno faticoso. Per prima cosa  occorreva sgombrare lo spiazzo antistante la casa colonica, liberandolo da tralicci, panieri o altri arnesi di lavoro rimasti in disordine; poi, con  l’aiuto di paletti e lettiere di canne spaccate, si approntavano dei rustici tavolini, sui quali, a mo’ di decorazione, si posavano due cipolle e un cetriolo, spiritosamente allusivi nella loro studiata composizione. In verità, la loro

Maurizio Monticchio a Lecce

Maurizio Monticchio

Opere

Dal 16 al 26 giugno 2012

Lecce, Monastero di San Giovanni Evangelista

via delle Benedettine, 1

Inaugurazione sabato 16, ore 18

Orari di apertura: 10-12; 18-20.30 (inclusi festivi)

 

Da sabato 16 a martedì 26 giugno, le sale del monastero di San Giovanni Evangelista ospitano una personale di Maurizio Monticchio, da anni impegnato nel campo della ricerca sulla scultura aerea. Per l’occasione, Monticchio espone la sua produzione artistica più recente. Tra questi, “Vasi da fiori”, “Gatti” e vedute urbane realizzate con la tecnica del pastello.

La mostra è accompagnata dai testi redatti da Maurizio Monticchio e dal filosofo Emanuele Coppola. La personale è visitabile tutti i giorni (inclusi festivi) dalle 10 alle 12; e nel pomeriggio dalle 18 alle 20.30.

 

Maurizio Monticchio, Vaso da fiori

Biografia

Maurizio Monticchio si è laureato in architettura a Firenze dove ha svolto per alcuni anni attività di ricercatore universitario. Negli anni Ottanta si è trasferito a Lecce dove ha esercitato l’attività di architetto nel settore edilizio e del design artistico. Espone per la prima volta le sue sculture aeree nel1993, inuna personale allestita dal comune di Firenze pressola Palazzinadell’ex Ministero dell’Agricoltura. Successivamente espone a Ferrara, presentato da Franco Patruno, direttore di “Casa Cini”. In seguito allestisce una mostra a Lecce, presso Palazzo Scardino, in cui sono presenti anche le sue opere di pittura. Negli ultimi anni ha proseguito la sua attività dedicandosi anche all’aspetto teorico della ricerca storico-artistica.

Maurizio Monticchio, Gatti

Info e contatti

email: ufficiostampa.damagegood@gmail.com

cell.: 339/1414951

cell.: 340/6212127

www.mauriziomonticchio.it

A Parigi: La Puglia suona, l’Italia balla…

di Gianni Cudazzo

“LES POUILLES JOUENT, L’ITALIE DANSE”

Concerto della nuova scena musicale pugliese e italiana a Parigi

23 giugno 2012, Place d’Italie a Parigi

Nidi d’Arac

La Place d’Italie sarà in festa a Parigi, dal 22 al 27 giugno, in occasione della 12a edizione della Settimana Italiana del 13°: “Italia…maintenant ?”.

Cultura, letteratura, arte, cinema (da segnalare l’eccezionale presenza del

Da Parigi. Gianni Cudazzo chiacchiera con Alessandro Coppola

Quattro chiacchiere con Alessandro Coppola, fondatore di Nidi d’Arac e direttore artistico dell’evento “La Puglia suona, l’Italia balla” del 23 giugno 2012, a Place d’Italie a Parigi

 

Alessandro Coppola

“Italia… maintenant ?” è il tema della settimana italiana di quest’anno, esiste un Italia… “d’avant” ?

Purtroppo non può non venirmi in mente, visti anche i recentissimi fatti di cronaca… un’Italia che mi auguro di non rivivere più, ossia quella delle caste, delle mafie, della corruzione, delle stragi: un’Italia indegna della sua Storia, Cultura, e di quei Grandi italiani che hanno contribuito a “elevare” l’immagine del nostro Paese a simbolo di creatività e umanità nel mondo.

Venezia, Roma, Milano o Napoli sono le città italiane più conosciute all’estero, perchè una regione come la Puglia come simbolo di questo concerto?

Da qualche anno, noi pugliesi viviamo un momento importante per la nostra regione. Iniziamo finalmente a capire che bisogna valorizzare l’immagine del nostro territorio, adoperare al meglio le nostre risorse culturali come quelle naturali e la musica sta contribuendo molto alla diffusione di questo nuovo atteggiamento. Un esempio dunque per l’Italia intera che storicamente ha una delle più grandi tradizioni musicali del mondo ma che, da un po’ di tempo, non confida sufficientemente nell’arte dei suoi “nuovi” artisti.

 

Nel contesto politico e sociale così tormentato, pensi che la musica possa essere una sorta di “ambasciatrice” dell’Italia all’estero?

Potrebbe sembrare futile parlare di musica italiana davanti a questo scenario europeo, segnato da problemi più tangibili: la disoccupazione, il debito pubblico, le tasse… ma non dobbiamo dimenticare che la cultura e quindi anche la musica, hanno un ruolo fondamentale nel preservare la democrazia in momenti difficili come questo. Storicamente, basti pensare al ruolo che ha avuto Verdi in Europa durante il Risorgimento. Quindi: perchè non pensare ad

Quello che gli ulivi ci dicono…

di Pompea Vergaro

L’artista Silvana Bissoli dà la parola agli ulivi porgendo l’orecchio a

Quello che gli ulivi ci dicono…

Con la personale Quello che gli ulivi ci dicono… l’artista imolese Silvana Bissoli, nello spazio espositivo lungo le stanze del prestigioso ex Convento di Sant’Anna, a Lecce,  racchiude e chiude, con 26 opere, un percorso per cominciarne uno nuovo, nel suo continuo e inesauribile  pirografare…  per continuare a scoprire e catturare le essenze arcaiche dell’ulivo e vivere pienamente la contemporaneità.

L’artista, ogni volta che giunge nel Salento, ne vive così intensamente i respiri, che abilmente, riesce a condurre lo spettatore… sulle orme di una terra arcaica, generosa, ma esigente, per narrare di viaggi e di soste, di gioie e di dolori, di abbandoni… in un continuo pirografare.

Il pirografo è il suo strumento per eccellenza, è la scrittura col fuoco, una tecnica d’incisione antichissima che giunge dal mediterraneo. Gli ulivi sono i suoi soggetti prediletti, le cui origini si perdono nella notte dei tempi, altrettanto abitanti del mare nostrum.

Quello che gli ulivi ci dicono… è una ricerca nel percorso della propria esistenza; in realtà Silvana Bissoli va a cercare e a ri-trovare gli ulivi, si inebria dei loro cambiamenti, ma anche delle nuove scoperte, scovando luoghi sconosciuti e poco praticati. Ogni volta che giunge nel Salento, coglie sia i loro silenzi, sia il vento che ora li accarezza, ora li scuote.

E nelle misteriose piane sassose, il mare, non lontano, anche se non sempre del tutto visibile, fa la sua parte, perchè regala spesso e volentieri venti impetuosi con i quali gli ulivi, quasi imperturbabili, hanno imparato a convivere e affrontare, in un continuo annodarsi, piegarsi e rialzarsi.

Ogni volta l’artista, gioiosamente li fotografa per poi affidarsi… all’Arte che si manifesta nella sua piena magnificenza e unicità!

Nella sua ultima produzione questi “millenari” acquistano nuove spazialità, divenendo tridimensionali, quasi … delle installazioni.

Silvana Bissoli di “questi esseri” non può più farne a meno per questo ritorna sempre nel Salento, ci invita a fare una passeggiata ammirandone i tronchi e le folte chiome e, con un profondo atto di generosità, prova a dargli la parola, invitandoci a porgere l’orecchio a… Quello che gli ulivi ci dicono!

 

Stefano da Putignano e la statua di Sant’Antonio a Nardò

Nardò, chiesa di S. Antonio da Padova, statua del santo di Stefano da Putignano (1514) (ph Mino Presicce – riproduzione vietata)

di Marcello Gaballo

La festa del santo patavino è occasione utile per focalizzare una delle cappelle laterali esistenti nella chiesa del santo a Nardò (Lecce), fondata nel 1497 dal primo duca, Belisario Acquaviva d’Aragona, che la affidò ai francescani Osservanti.

La cappella, seconda del fianco destro, ospita un altare in pietra leccese di pregevole fattura, alto circa 3 metri e largo 4. Non sono la mensa o il gradino a renderla particolarmente interessante, quanto la decorazione che orna la parete frontale e la statua del santo, cui l’edificio è dedicato.

La novità è data dall’altorilievo del Padre Eterno sul coronamento dell’altare, per alcuni aspetti simile all’iconografia riscontrabile sull’altare di S. Girolamo in Cattedrale e sul protiro cinquecentesco della chiesa del Carmine, sempre a Nardò. Nella nostra chiesa il Padre fuoriesce da una nube, attorniato da testoline di putti e adorato da due angeli ai lati, genuflessi e oranti.

Sono coevi i quattro alti plinti posti alle estremità laterali, con decorazioni floreali ed enigmatiche  figure antropomorfe, sostenenti  altrettante colonne, sempre in pietra leccese. Decorate con tralci di vite e grappoli d’uva, terminano con graziosi capitelli in stile corinzio. Ai lati dell’ altare sono scolpiti due interessanti stemmi gentilizi baronali, con elmo, cimiero e svolazzi, di cui il primo dei coniugi De Castello e De Vito, il secondo della coppia De Castello e Delli Falconi[1]. Alla base delle colonne interne vi sono le iscrizioni ANNO DOMINI  e 1637 e al centro Pugliese di Nardò, senza altri nomi[2].

Due epigrafi, che ancora si vedono all’interno della cappella, rispettivamente del 1637 e del 1749, chiariscono alcune delle vicende storico-architettoniche; a destra si legge: DIVO ANTONIO PATAVINO SERAF. ORD. PRAECLARO LUMINI/ SANCTITATE DOCTRINA PRAEDICATIONE/ ET MIRACULIS INSIGNI ALTARE HOC POPULUS DICAVIT A.D. MDCXXXVII/ PROTEXI SEMPER ET PROTEGAM.

Su quella di sinistra, successiva di oltre un secolo, l’iscrizione ricorda la concessione pontificia in altare privilegiato per la celebrazione quotidiana delle messe: ALTARE PRIVILEGIATUM QUOTIDIANUM PERPETUUM CONCESSUM A BENEDICTO PAPA XIV, PRO SACERDOTIBUS TANTUM/ FRATUM MINORUM FRANCISCI/ A.D. MDCCXLIX.

Il  riquadro centrale della cappella è occupato da una nicchia in cui trova posto una importante statua in pietra policroma, alta circa 170 cm,  raffigurante S. Antonio, opera certa del celebre Stefano da Putignano (ca. 1470-1540), che la firma annotando sullo zoccolo della base circolare: S. A. DI  PADUA  – 1514 – STEPHANUS  APULIAE  POTENIAM ARCHITECTUS[3]. E’ l’unico caso, come scrive Clara Gelao, in cui lo scultore si firma con tale qualifica: “ciò che gli ha fatto attribuire  senza alcuna prova – dato che non possediamo testimonianze architettoniche documentate come di Stefano – almeno due fabbriche (il registro inferiore del campanile della cattedrale di Polignano a Mare, la chiesa di San Domenico a Monopoli, oltre alla cappella dei SS. Medici nella chiesa matrice di Turi)”[4].

Il santo, in posizione frontale, d’aspetto giovanile e imberbe, con capigliatura corta, riccioluta e ampia tonsura, indossa il saio dei Minori francescani. Scalzo, con la mano destra regge un giglio di epoca successiva, con la sinistra un messale aperto, con copertina rigida provvista di fibbia. Sulle due pagine del libro si intravede un’iscrizione impossibile a decifrarsi, forse riscritta in occasione della ridipintura della statua a causa di discutibili termini (Com/par, inclite, ovom. nobbis).

Una terza iscrizione ricorda il restauro eseguito con il concorso dei fedeli nel 1913.

Il patronato della cappella spettava alla città di Nardò, che aveva designato il Santo comprotettore civico nel 1630.


[1] cfr. M. GABALLO, Araldica civile  e religiosa a Nardò, Nardò Nostra 1996, pp. 46,55.

[2] E. Mazzarella,  Nardò Sacra, a c. di M. Gaballo, Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò e

Gallipoli, Congedo, Galatina 1999, p.242; M. FALLA-CASTELFRANCHI, I monumenti di Nardò, in B. Vetere, Città e Monastero – i segni urbani di Nardò (secc. XI-XV), Congedo, Galatina 1986, p.262.

[3] B. F. Perrone., I conventi della serafica riforma di S. Nicolò in Puglia (1599-1835), I, pp. 29-164.

[4] C. Gelao, Stefano da Putignano nella scultura pugliese del Rinascimento, Schena Ed., Fasano 1990, p. 70.

Lecce e i conventi dedicati a Sant’Antonio da Padova

Lecce, chiesa di Sant’Antonio da Padova, prospetto principale, statua del Santo (ph Giovanna Falco)

di Giovanna Falco

Il 13 giugno la Chiesa cattolica commemora Sant’Antonio da Padova (1195-1231), canonizzato dopo un solo anno dalla morte e proclamato Doctor Evangelicus nel 1946 da Pio XII.

È uno dei santi più venerati: protettore degli orfani, dei poveri, delle reclute, dei sacerdoti, degli sposi, è Santo patrono del Portogallo, del Brasile, della Custodia di Terra Santa, di molte città e centri urbani italiani e, in Terra d’Otranto, di Ceglie Messapica, Fragagnano e di tredici paesi nel leccese[1].

Il Santo Taumaturgo dal 1631 è anche compatrono di Lecce, «quando questa Città prese il Santo per suo particolare protettore, che veramente si fé sì solenne, che non può dirsi maggiore»[2]. La decisione di proclamare Sant’Antonio patrono della città nacque dal suggerimento dato al sindaco Giovan Domenico Veneziano da fra Nicolò de Seracina «huomo di gran Santità, e dotato da Dio dello spirito della Profetia»[3].

Da qui la fondazione del bellissimo altare nel Duomo e di quelli in altre chiese di Lecce, nelle cui nicchie sono riposti dipinti e statue che ritraggono Sant’Antonio da Padova nell’iconografia usuale, con Gesù Bambino in braccio[4].

Quattro fondazioni francescane leccesi, inoltre, sono state dedicate a questo Santo: Sant’Antonio della piazza, Santa Maria di Ogni Bene, Santa Maria dell’Idria, Sant’Antonio a Fulgenzio.

La chiesa di Sant’Antonio da Padova, il cui prospetto attuale si trova in via Ludovico Maremonti, fu voluta da Gian Giacomo dell’Acaya, il celebre architetto di Carlo V. Originariamente il fondatore voleva istituirvi una comunità di suore Clarisse, ma non ottenendo l’approvazione decise di affidarlo ai frati Minori Osservanti, ordine religioso di cui faceva parte il figlio Francesco.

Narra Giulio Cesare Infantino come già nel 1564 ne aveva già fondato uno in Acaya «e vedendo il gran frutto, che questi Padri facevano, mosso dal medesimo zelo, donò à questi una sua casa principale in Lecce nel 1566»[5].

I frati francescani «comprando altro sito contiguo alla detta casa, con concessione di Pio V, fabricarono una commoda Chiesa, e Convento, come hoggi veggiamo sotto il titolo di S. Antonio di Padova»[6].

Lecce, chiesa di Sant’Antonio da Padova, prospetto principale (ph Giovanna Falco)

L’Infantino, oltre a descrivere il sacro edificio, racconta come il 13 giugno di ogni anno si addobbava «tutta la detta Chiesa di bellissimi drappi, con musiche,

Tutino (Lecce). Il castello baronale dei Trane

di Marco Cavalera

Il castello di Tutino fu costruito, negli ultimi decenni del XVI secolo, su una preesistente struttura normanno-sveva (fig. 5). La struttura, che si caratterizza per la presenza – su tre lati – di un profondo fossato, è dotata di una cinta muraria alta sei/sette metri e spessa un metro e mezzo circa. La possente fortificazione – realizzata in pietre di calcare locale e “bolo” – era difesa da ben nove torri, delle quali attualmente ne sopravvivono solo cinque. Alla base è rafforzata da una scarpata e sulla sommità, in alcuni tratti meglio conservati, è visibile ancora il cammino di ronda. Le due torri situate a nord-est, prive di scarpata e di coronamento, sono state più volte oggetto di rifacimenti e rimaneggiamenti.

La costruzione del palazzo baronale comportò l’abbattimento di alcune torri e il riempimento della parte settentrionale del fossato. Un’iscrizione a grandi caratteri latini, incisa lungo la facciata rivolta su Piazza Castello, ricorda il committente di questa imponente opera difensiva, ossia il barone Luigi Gaza da Trani: ALOISIUS TRANE PRIMAE PATRlAE NOMEN GAZA VERO COGNOMEN INTER PRIMOS FORTUNAE NATOS FAVENTE MINERVA AD PRlSTINAM NOBILITATEM EJIUS FAMILIAM REDUXIT IMISQUE AB INFIMIS FUNDAMENTIS EREXIT POSTERISQUE SUIS VINCULA(VIT) (Luigi Trani dal nome della patria di origine, in verità di cognome Gaza, tra i prediletti della fortuna, col favore di Minerva riportò all’antica nobiltà la sua famiglia, lo eresse fin dalle fondamenta e lo destinò ai suoi posteri).

La facciata è stata realizzata con blocchi in carparo ed è alleggerita da eleganti finestre in pietra leccese, sulle cui architravi sono incise delle massime ancora perfettamente leggibili. Da sinistra verso destra si legge:

VINCE IN BONO MALUM (Vinci il male con il bene– (San Paolo)
MELIOR DIES MORTIS QUiM NATIVITATIS     (Meglio il giorno della morte che quello della nascita)
CORONA SAPIENT(I)UM DIVITIE(AE) EORUM (Corona dei sapienti è la loro ricchezza)

MISERICORDIA ET VERITAS CUSTODIUNT REGEM   (Misericordia e verità proteggono il regnante)
QUID PRODEST STULTO HABERE DIVICIAS CUM SAPIENTIAM EMERE NON POSSIT (Che cosa giova allo stolto avere la ricchezza se non può comprare la sapienza?)
VERE PRINCIPUM EST SIMULARE (Fingere è proprio dei principi)

NON ETS (EST) CONC(S)ILIUM CONTRA DOMINUM (Non sia complotto contro il signore).

Sul portale è ancora visibile il drago caratterizzante lo stemma di famiglia[3].

La struttura, allo stato attuale, necessita di tempestivi ed urgenti interventi di consolidamento statico e recupero funzionale.

Il culto di Sant’Antonio da Padova in Capitanata

Orta Nova (FG) Statua di S. Antonio da Padova (ph. Savino Gaeta)

di Lucia Lopriore
“L’Autentico religioso appartiene concretamente al piano della storia. Non collegato solo a periodi intrisi di forte spiritualità e di magistero della chiesa, come il Medioevo o l’età della Controriforma, si manifesta comunque di più quando il “silenzio di Dio” nelle tragedie collettive esaspera la valenza negativa del quotidiano. Con il suo potenziale di annuncio e liberazione, l’autentico religioso continua a rimanere elemento coagulante delle comunità che avvertono vivo il senso del sacro. E questo è ancora coglibile nei centri minori dove la carica culturale tradizionale, incarnata nelle forme della religiosità popolare, resiste meglio alla speculazione razionale e all’imperativo  della tecnologia che irrompe con le sue liturgie.”

Così esordisce Filippo Fiorentino, storico scomparso di recente, parlando della devozione per la religiosità popolare in relazione ai culti presenti nel Gargano.

In particolare, secondo Fiorentino, in quest’area il fenomeno religioso continua ad alimentare processi di coesione sociale, senza essere però solo esperienza storica di rapporto culturale che funziona nella quotidianità o solo coinvolgimento che legittima la realtà sociale plasmandone, attraverso il Vangelo, gli stili di vita e le scelte. La fede ha incontrato sempre la vita, il sentire, l’operare, il produrre della gente.

Nelle turbolenze esistenziali, nella ricerca del benessere e del progresso tecnologico, le comunità “marginali” del Gargano hanno sperimentato sia liberazione che secolarizzazione attraverso la dimensione culturale, attraverso la figura di affidamento miracolistico del Santo protettore. Così il culto per Sant’ Elia patrono di Peschici, o per San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo, o per San Valentino a Vico, o per altri santi patroni venerati in questa zona, rappresenta l’evento determinante per la popolazione del luogo.

Il Gargano è da sempre la terra delle tradizioni. Osservando più da vicino questo fenomeno strettamente connesso a contesti di religiosità popolare, emerge lo stimolo per analizzare attentamente tale fenomeno attraverso la devozione dei Santi patroni.

Da tempi immemorabili, in ogni centro urbano che si rispetti tutti dovevano contribuire ai festeggiamenti del Santo patrono. Artigiani, commercianti esercenti arti e professioni ogni anno erano invitati a versare laute somme per le spese dei festeggiamenti.

Alcune categorie, come ad esempio quella degli appaltatori, erano obbligate dai comuni a versare una quota sugli appalti (vendita di carne, farina, neve, sale,

Appunti sulla torre del Fiume di S. Maria al Bagno nota come Quattro Colonne

di Salvatore Muci

Sul finire del XVI secolo la città di Nardò è un cantiere aperto e si registra il rifiorire di ogni attività edile pubblica e privata, civile e religiosa.

I documenti già attestano la presenza di decine e decine di complessi masserizi, specie nelle vicinanze della foresta dell’Arneo, rinomato luogo di caccia per cervi e cinghiali per baroni e cortigiani al servizio della celebre famiglia dei duchi Acquaviva d’Aragona, che aveva scelto di dimorare a Nardò.

Ma la tranquillità dei luoghi viene turbata in questo secolo dalle continue scorrerie di orde di barbari e corsari, che dal mare possono sbarcare in un qualsiasi punto della estesissima costa della fertile Puglia.

In obbedienza a quanto promulgato da Napoli, ci si preoccupa di difendere il pingue territorio con la fortificazione della costa, ricorrendo a collaudati sistemi di avvistamento come le torri, alcune delle quali anche adatte a fronteggiare sparuti manipoli di pirati assetati e famelici e perciò bisognosi di far scorta di acqua e viveri.

Come già evidenziato nei precedenti contributi, in tutto il regno sorgono dovunque le torri, più rade nei tratti di scogliera alta ed impervia, più ravvicinate in tratti di costa bassa, come nel tratto neritino.

Volendo fare un elenco esse sono, nell’ ordine: Torre del Fiume, S. Caterina, dell’ Alto, Uluzzo, Inserraglio, S. Isidoro, Squillace, Cesarea, Chianca, Torre Lapillo, Castiglione (diruta) e Colimena. Tutte queste, fatta eccezione di quelle di Uluzzo e Castiglione, sono a pianta quadrata e dall’ architetto Faglia, massimo studioso del sistema torriero del Regno, classificate come “della serie di Nardò”.

L’incremento maggiore si ha sotto il governo dei vicerè don Pedro da Toledo e don Pedro Afan de Ribera (1559-1571).

ciò che resta di una delle torrette angolari di Torre del Fiume

L’ordine di realizzarle, promulgato dalla Regia Camera della Sommaria di Napoli, viene dato nel 1563, indirizzato ai regi ingegneri, che devono perciò erigerle su tutta la costa del regno, col contributo delle universitas che distano meno di 12 miglia dal mare.

Se alcuni mastri erano giunti dalla capitale partenopea nella nostra provincia per realizzare alcuni dei fortilizi, altri si formavano in loco, sino a diventare essi stessi i principali referenti della Regia Camera di Napoli che sovrintendeva alla realizzazione del sistema costiero.

ciò che resta di un’altra delle torrette angolari di Torre del Fiume, comunemente nota come “Quattro Colonne”

La fortuna dei documenti sopravvissuti ci permette oggi di attribuire con certezza gli artefici di alcune di esse, almeno per la zona di Nardò, che trovano i massimi esponenti nel clan degli Spalletta, neritini, tra cui Vincenzo e Angelo, rispettivamente padre e figlio, che certamente realizzarono le torri dell’Alto, de Castiglione, de Crustamo (Uluzzo) e del Fiume, oggi più nota come 4 Colonne, essendone sopravvissute le torrette angolari del fortilizio crollato nella sua parte centrale.

Le Quattro Colonne a S. Maria al Bagno-Nardò (ph Mariaurora Trentadue)

Vediamo dunque come si arriva a quest’ultima. La Regia Camera il 22 giugno 1595 invia una lettera a Pietro Castiglione, ingegnere della R. Corte che si trova in provincia di Terra d’Otranto per ispezionare diverse fortezze, con l’ordine di recarsi a Nardò e consegnare ai predetti Spalletta pianta e disegno; purtroppo la lettera arriva quando il Castiglione è già rientrato in Napoli.

Con altra lettera del 26 settembre si ordina all’ Audienza Hidruntina di provvedere essa a fornire l’utile, servendosi di un architetto del posto, che poi risulterà essere il leccese mastro Giovanni Perulli, il quale in data 11 ottobre effettua il sopralluogo e fornisce il relativo disegno ai neritini incaricati dell’esecuzione. Il 22 novembre mastro Angelo Spalletta dichiara al notaio leccese di ricevere il progetto e che la pianta della torre sarà di palmi 72 de quatro senza i 4 spontoni segnati al modello con la caduta ordinaria d’ogni 10 palmi uno; che sia piena di masso di palmi 34 con una cisterna di palmi 8 de quatro in mezzo alla sala della torre; l’altezza della torre sarà di palmi 85 con la barba; la fabbrica sarà tutta d’opera netta di taglio di fuora, e di dentro sarà d’opera netta di taglio solamente dove bisogna e ricerca… Alle cantonate delli spontoni li pezzi abbiano d’essere di lunghezza palmi 3, e di larghezza 1 palmo e mezzo per fortezza della torre sino alli palmi 20 solamente; che la torre si faccia distante dalla bocca del fiume dove i vascelli dei nemici spesso vennero a fare acqua, di palmi 200 circa.

Due anni dopo i lavori non sono ancora iniziati perché l’università riceve i primi 300 ducati dalla Regia Camera, cui se ne aggiungeranno altrettanti qualche mese dopo “in fabrica et constructione turris maritime dicta del Fiume”.

Finalmente Angelo e Vincenzo Spalletta si impegnano nel 1597 alla realizzazione della torre con Cornelio Carriero da Montescaglioso ed Ercole Mazzo da Tutino, a patto che essi mastri Angelo e figlio siano tenuti darli tutta la monizione, così di calcie, terra, petre, quatrielli et pezzi lavorati e l’ acqua dove si trova e mancando il fine siano obligati essi mastri Angelo e figlio di darcela a loro parere ali sotto di detta torre, quanto più si può accostar la carretta.

Dopo dieci anni, nel 1605, la torre risulta ultimata ed efficiente[1], visto che l’8 maggio il sindaco di Nardò Benedetto del Castello rilascia procura al cassiere Scipione De Vito di riscuotere presso la Percettoria in Lecce il denaro speso dall’università per pagare il salario ai militi in essa presenti[2].

In essa dovevano esserci almeno due caporali, che nel 1607 percepivano una paga di 71 ducati[3].

Nel 1609 troviamo tra i caporali Gian Francesco Scaglione[4] e l’anno dopo tra i militi risultano Pietro Vincenti e Donato D’Aprile, che percepiscono mensilmente circa 13 ducati[5].

Tra l’estate 1616 sino a tutto il 1617 il caporale risulta Giovan Leonardo Vecchio di Galatone e suoi compagni Francesco e Giorgio Ferraro[6], che ricevono in consegna dei barili di polvere mandati dai castelli di Lecce e Gallipoli.

Il periodo d’altronde fa registrare numerose incursioni ottomane o corsare di provenienza balcanica, ma anche mediorientali e nordafricane, per cui ogni torre doveva necessariamente essere pienamente efficiente e le spese erano a carico dell’università più vicina: nel biennio 1595-96 l’amministrazione comunale di Nardò deve sborsare ben 762 ducati.

Diminuite le incursioni dal mare il personale delle torri deve affrontare un altro fenomeno dilagante, quello del contrabbando, e soprattutto quello del sale, tanto che occorre incrementare il personale adibito alla sorveglianza del territorio, registrandosi dunque il raddoppio del numero dei cavallari. La nostra torre, come le altre del litorale neritino, resta sempre sotto la sovrintendenza della Comarca di Cesaria.

Nel 1695 il caporale è Tommaso De Ferraris[7] e due anni dopo l’università di Galatone, cui in parte erano accollate le spese di gestione dell’immobile, come da accordo preso con la regia Segreteria e con il Preside alle Armi di Terra d’Otranto, si impegna a realizzarvi la porta alla guardiola ed altre riparazioni, compresa la scala del ponte, oltre ad acquistare un moschetto, ad integrazione dell’armamentario; parte delle spese necessarie vengono accollate all’università di Nardò[8].

Nel gennaio 1730 il capo torriero è Angelo Longo e suo compagno ordinario Filippo Cordigliano; in servizio risultano anche Pietro Stasi e Antonio Francone[9], probabilmente di Galatone, come lo erano Giuseppe Francone e Nicola Marsalò, cavallari nel 1777.

Nel 1790 cavallari sono Pasquale Vonghia e Fortunato Giuri di Nardò[10].

Non si registrano vicende importanti dopo questa data se non un arresto nelle immediate vicinanze, su delazione del canonico Lombardi, del giovane esperto in lettere Nicola Ingusci e del farmacista Francesco Rocca, giunti dal bosco della Sila calabrese per la via di Copertino, portando con sé un sospetto e sovversivo foglio stampato a carattere liberale.

La torre, con quelle di Squillace e di S. Caterina, è soggetta a vincolo del ministero solo dal 1986, grazie alle segnalazioni del circolo culturale “Nardò Nostra”, che se ne occupò con una mostra itinerante e con una pubblicazione non più in commercio.

 

Le foto sono della Fondazione Terra d’Otranto


[1] G. Cosi, Torri Marittime di Terra d’Otranto, Galatina, Congedo Editore, pp. 98-101.

[2] Archivio di Stato di Lecce (ASL), not. F. Fontò di Nardò, (66/1), 1606, cc. 149r-149v.

[3] ASN, Percettori e Tesorieri – vol. 6234, (J. Bonvicino), c. 63r.

[4] ASN, Torri e Castelli – vol. 126, c. 145r.

[5] ASN, vol. 6234, c. 34v.

[6] ASN, vol. 135, c. 19r.

[7]ASN, vol. 128, c. 248r.

[8] G. Cosi, Torri… cit., p. 21; il documento citato è stato riportato dallo storico Mario Cazzato.

[9] ASN, vol. 131, cc. 19r-28v.

[10] ASL, atti not. B. Ravenna di Gallipoli (40/38) 1790, c.183v.

Cucuzzano: due anime e due volti

Ritaglio di una cartolina di Montesano Salentino (1927). Archivio Telemele.

di Marco Cavalera

Cucuzzano è un piccolo borgo di poche anime, un tempo dedite all’agricoltura e all’artigianato, con pochi giovani squattrinati e molti anziani che custodiscono gelosamente i risparmi sotto il materasso, con il volto scavato dal sudore e dalla fatica, aspro in superficie ma tenero nell’animo come le rocce calcaree delle campagne salentine.

Cucuzzano ha due volti e due anime: nei periodi di festa sembra Disneyland, tutto addobbato con luminarie sfarzose, a volte esagerate ma mai oltre i limiti della decenza, vivace come una qualsiasi metropoli del Nord. Nei mesi più freddi il paese si svuota, non solo fisicamente, ma anche mentalmente.

Cucuzzano vanta una classe dirigente obsoleta, sempre la stessa da 30 anni, riciclata come le pagine di un rotocalco rosa, che si specchia nella popolazione che rappresenta.

I giovani che lavorano lontano dal paese li riconosci dalle macchine lussuose che guidano con una mano sul volante e il braccio teso fuori dal finestrino. Si tratta di Audi, BMW, Alfa Romeo, tutte acquistate rigorosamente di seconda mano. Parlano con tipico accento nord italiano, che assumono mediamente dopo due mesi di permanenza fuori dal paese. Curiosamente ed inspiegabilmente tutti con cadenza romagnola, indipendentemente dalla regione in cui sono emigrati.

I giovani che servono lo Stato nelle forze armate, invece, li riconosci dalle loro donne: belle, colte e opportuniste.

I ragazzi che risiedono a Cucuzzano tutto l’anno non hanno un segno distintivo particolare. Si riconoscono dal loro abbigliamento e pettinatura alla penultima moda, parlano solo di calcio, di donne e motori anche se non praticano sport, sono perennemente single (nella realtà, perché con la fantasia arrivano ad asserire di essere stati gli amanti della Belen di turno) e non hanno mezzi di locomozione degni di tale nome (a parte la Panda 50 taroccata da auto di Formula 1). Non conoscono la crisi perché non hanno mai assaporato il gusto agrodolce ed effimero del benessere.

La festa patronale spezza una monotonia che a volte infastidisce lo stesso residente, che litiga con il malcapitato tutore dell’ordine rivendicando il diritto – a suo dire sacrosanto – di poter circolare nel paese liberamente, noncurante della festa, delle bancarelle e della processione. Tutta quella gente, secondo il cucuzzanese oltranzista, invade il suo territorio alla stregua di moderni pirati Turchi, gli stessi che devastarono e distrussero il paese nel 1484, e poco importa se questi novelli corsari provengono dai paesi vicini; lo tzunami, proveniente dai paesi vicini, avvolge tutto ciò che incontra sulla sua strada.

Cucuzzano è un mondo a sé, uno storico locale fa risalire l’origine del nome al sostantivo cucuzza: animo e spirito duri come il cetriolo, afferma con orgoglio il professore di lettere in pensione; vuoti come una zucca precisa il sottoscritto, con giudizio più distaccato ed oggettivo.

Passeggiando tra i vicoli stretti del paese si respira un’aria di antico frammista al moderno. Non è raro osservare una persiana di alluminio bianco impostata su una vecchia porta di legno celestina, o una casa del centro storico intonacata con tinte “appariscenti” fucsia, rosso red passion, giallo canarino e verde olio oliva extravergine. Rigorosamente una diversa dall’altra, come ogni famiglia si deve distinguere dal vicino odioso, che si è fatto la casa bella solo perché ha lavorato 10 anni in Svizzera.

Il motivo del nuovo che copre il vecchio si riflette chiaramente sulle piastrelle marroni appiccicate sulla bella facciata in carparo del palazzo più antico del paese, Palazzo Baronale, della cui imponente fortezza cinquecentesca, rimane solo una torre angolare. Quelli che a prima vista appaiono appartamenti costruiti in serie, come una qualsiasi villetta a schiera di una località qualsiasi della costiera salentagnola, in realtà sono delle stalle riutilizzate come civile abitazione. Il vecchio celato dal nuovo, come la strada principale del centro storico, via Fosso, realizzata sul riempimento di un fossato di difesa di cui conserva solo il nome.

Cucuzzano in origine era di proprietà vescovile. Non sorprende, quindi, la presenza di tantissime cappelle, nicchie, edicole votive sparse per il paese.

I nobili del paese possedevano tutte le terre del circondario, coltivate prevalentemente a tabacco. Il ricordo vola fino a pochi decenni fa, file interminabili di “talari” (telai di legno che si stendevano per appendere le foglie di tabacco e farle essiccare) caratterizzavano le stradine del paese, e alla prima nuvola all’orizzonte partiva il tran tran delle tabacchine che correvano qua e la per mettere al riparo il prezioso prodotto ed evitare che la pioggia mandasse in fumo giorni e giorni di duro lavoro condotto sotto il feroce sole estivo del Salento.

L’odore del tabacco si percepisce nelle strade di periferia, dove si affacciavano i garage adibiti a magazzini improvvisati.

Le abitazioni più antiche del paese hanno il tetto a doppio spiovente coperto da tegole in terracotta prodotte in un paese vicino, le case della periferia hanno il tetto a doppio spiovente coperto da tegole in pvc importate dalla Cina. Le prime sono essenziali e squadrate, le seconde monumentali ed eclettiche, a seconda del gusto del geometra. Numerosi sono gli scheletri delle case costruite e mai terminate, forse perché il proprietario ha finito i soldi, forse perché il figlio è emigrato al Nord.

Cucuzzano non è riportato sulle guide turistiche, non esistono pubblicazioni sulle sue origini e sui suoi – scarsi e mal tenuti – monumenti storici ed artistici, ma si sa che nelle campagne sorgeva un insediamento preistorico distrutto dall’avidità dell’uomo moderno. Si dice che qualcuno abbia raccolto dei piccoli frammenti di storia e li abbia consegnati alle “autorità competenti”; quasi a nessuno interessa sapere dove sono conservati. Laddove insisteva un sito archeologico ora fa bella mostra di sé un insediamento industriale, anch’esso pressoché inutile per l’economia del paese.

La locale squadra di calcio fa il tutto esaurito quando gioca in casa e anche nelle trasferte ha il suo seguito. Può darsi che gli spettatori vadano allo stadio perché dagli spalti si ha una visione suggestiva degli ulivi secolari nelle campagne circostanti, ma non ne sono convinto più di tanto, e penso a quelli sradicati per fare posto la struttura sportiva.

Questo, in sintesi, è Cucuzzano, uno dei tanti paesi del Salento di cui è difficile innamorarsi a prima vista, in cui i giovani sognano di andare via, lasciare il profumo di tabacco dei vicoli del centro abitato, gli umani pettegolezzi della gente, il campo sportivo tra gli ulivi, il centro ricreativo adibito ad osteria, le proprie “terracate”, per andare a fare “fortuna” in una ricca metropoli del Nord, alloggiare al 5° piano di un palazzo freddo e arido come la steppa, respirare fumi e smog, rispecchiarsi in fiumi neri come la notte senza stelle e senza luna e ritornare di rado nel paese ad ostentare un effimero benessere e uno sterile “beneavere”.

La torre di S. Maria dell’Alto sulla costa di Nardò

Note sulla torre di S. Maria dell’Alto alias del salto della capra

di Salvatore Muci

Torna utile riproporre un documento già noto agli studiosi che da anni indagano sul sistema di fortificazioni a carattere difensivo dell’area salentina. Nel grande Archivio di Stato di Napoli, nel fondo Collaterale Curiae, si conserva una lettera del Viceré don Parafan de Ribera diretta al Presidente della Regia Camera della Summaria, esplicativa per una storia delle torri costiere del regno: “Ad Alfonso Salazar. Negli anni et mesi passati per servitio di S. Maestà defensione et guardia de li popoli di questo Regno, et per virtù di detti nostri ordini si sono fabbricate alcune torri et altre restano a farsi, et quelle che sono fatte intendemo che bisognano visitarse di si stanno bene complite et ben fatte. Febbraio 1568. Don Parafan”.

In seguito a questo ordine l’ingegnere T. Scala giunse dunque nella nostra provincia per una ricognizione dei siti più idonei su cui elevare le torri desiderate, e fra questi diversi sulla costiera neretina, dove trovò indicazione anche lo sperone roccioso, propaggine delle Serre Salentine, che oggi domina la baia di Portoselvaggio.

Su di esso quindi doveva realizzarsi ancora una torre, dalla quale procedendo sempre verso oriente dopo un miglio vedesi la torre di S. Caterina, mentre ad occidente comunica visivamente con quella di Uluzzo.

La torre, come le altre, sarebbe stata dotata di pezzi d’artiglieria. È infatti dell’anno seguente il dispaccio dello stesso Vicerè che ordina di provvedervi, anche se nella nostra torre i canoni giunsero solo nel 1614, avendoli prelevati dal castello di Lecce: “… Havendo fatto costruire nelle marine del regno alcune torri per guardia di quelle et per dar l’avisi necessari quando capitassero nelli mari del regno predetto alcuni vascelli d’infedeli, ci è parso affalché stiano provviste, come et li soldati che risedono in quelle oltre di dare detti avvisi, si possono difendere, et obviare alli danni, che si potriano commettere per detti infedeli, provvedere et ordinare che siano provviste di alcuni pezzi d’artiglieria de metallo, et per adesso fare provedere delli prezzi predetti l’infrascritte torri de le marine de le provincie di Terra d’Otranto […] ordiniamo che al ricevere di questa senza perder momento di tempo dobbiate fare il partito di metallo, et altre prezzo che potrete, et le farete costruire con ogni prestezza affalché si possano consegnare in dette torri…Datum Neapoli die X Septembris 1569”.

Il costruttore fu con certezza il neretino mastro Angelo Spalletta, che iniziò i lavori intorno al 1570 e che, come nelle altre poco distanti, vi realizzò il piano terra con la cisterna, il deposito e la stalla; il piano superiore con camino, dove viveva il caporale con i suoi soldati; all’ultimo livello la terrazza con la guardiola, da cui si poteva effettuare l’avvistamento e da cui si poteva sparare col cannone qui posizionato. Come le altre della serie in alto è definita da una cornice a beccatelli, con tre caditoie ravvicinate, localizzate al centro della facciata, a balzo su mensoloni.

Poichè nel 1594 lo Spalletta doveva ancora ricevere il pattuito, questi si rifiutò di eseguire delle riparazioni che si erano manifestate nella costruzione, tanto che il 5 agosto dello stesso anno vengono affidati urgenti restauri o probabili ampliamenti al concittadino mastro Lupo Antonio Mergola. Difatti in un atto del 1595 si legge “fabricanda turris de l’ Alto nominatam dello salto della capra”. Forse fu questo mastro a dotarla dell’importante scalinata su archi, dalla quale si accede alla porta levatoia al primo piano.

panorama dalla torre dell’Alto

Ancora a Napoli, nel fondo Percettori e Tesorieri, si legge che i soldati della torre nella primavera del 1577 ricevevano la paga di 52 ducati dall’università neretina. Altri pagamenti risultano da atti notarili degli anni 1583 e 1584, a favore dei cavallari, caporali e torrieri della torre dell’Alto e di quelle “nuncupate de Crustano, de Critò e Santi Sidori” da parte del municipio, che recuperava le somme dalla Regia Corte napoletana per il tramite del Percettore di Terra d’Otranto, cui spettava il compito di verificare i vari conti dell’amministrazione centrale, tra i quali anche quelli per le costruzioni ex novo di torri e le spese in esse utili per manutenzione o restauro.

Nel giugno 1584 tra i caporali della nostra torre ritroviamo Nicola Cavallaro e Gio: Paolo Sombrino, che percepiscono lo stipendio di 19 ducati, tarì 2 e grana 10.

L’anno dopo, come si evince dai rogiti del notaio Cornelio Tollemeto, il sindaco del popolo Bernorio Caballone consegna la torre a Giacomo Sassone, che vi resterà quale caporale sino a novembre 1598. Gli subentrerà nella carica il congiunto Giovanni Donato Sassone, che già gli era stato affiancato negli anni precedenti, per restarvi fino all’aprile del 1601, quando cede il passo ad un altro parente, Lucrezio Sassone, il quale ricoprirà l’incarico per ben dieci anni, sino all’8 giugno 1611.

Nella seconda metà dello stesso  secolo vi presteranno servizio soldati spagnoli, i cui nomi figurano nel Liber Mortuorum della Cattedrale.

Forme di commercio illegale, di banditismo e vari altri fenomeni criminosi, tipici di una malavita di stampo più che altro corsaro, si verificarono tra la fine del Sei e primi del Settecento sulle coste salentine, tanto che le autorità si videro costrette ad emanare severe istruzioni per provvedere alla contumacia di imbarcazioni di provenienza sospetta che approdavano sulle nostre sponde e che in diversi casi apportarono malattie contagiose.

Gli atti del notaio Emanuele Bovino documentano la ferma in quarantena di turchi e corsari slavi nelle torri costiere del feudo di Nardò, tra cui quella di Santa Maria dell’Alto, dove vennero isolati sulla guardiola o nel piano inferiore, adibiti perciò a lazzaretto, sotto la stretta sorveglianza sanitaria dei cavallari. Tanto era loro imposto dal Tribunale della General Salute di Napoli che li obbligava a darne repentina comunicazione ai prodirettori, che a loro volta avrebbero trasmesso la notizia all’istituzione sanitaria, che metteva in atto ogni utile precauzione per evitare l’introduzione ed il propagarsi di morbi contagiosi.

In verità questa fu una competenza dettata dalla necessità, ma i loro compiti, è risaputo, consistevano in ben altro e principalmente nell’avvisare gli abitanti dei paesi vicini quando un naviglio di corsari si avvicinava a riva. Sia di giorno che di notte percorrevano a cavallo il litorale e l’avvistamento veniva segnalato ai caporali torrieri, che a loro volta trasmettevano la notizia mediante segnali di fumo o di fuoco, a seconda che fosse giorno o notte.

Ogni torre, poi, doveva informare dell’accaduto l’università di competenza, dalla quale era salariata.

Due sono i cavallari che siamo riusciti finora a scoprire in questa torre: nel 1730 Felice Varri, nel 1777 il neretino Nicola De Simone. Anche questa era compresa nella Comarca di Cesaria, guidata dal sopraguardia che in quella aveva dimora.

Il lavoro sporco della letteratura

di Stefano Manca

L’attentatore di Brindisi, raccontano i giornali di oggi, conservava in casa un libro di Paulo Coelho: “Manuale del guerriero della luce”. Me lo ricordo bene quel titolo. Adolescente, mi venne regalato dalla fidanzatina dell’epoca. È una raccolta Bompiani che racchiude racconti brevissimi (potete sfogliarlo a caso e leggere la prima pagina che vi capita) in cui l’uomo è intento a risvegliare la propria anima nei suoi momenti di difficoltà.

Collaboro saltuariamente con una libreria della provincia. Mi hanno sempre incuriosito i gusti letterari degli italiani. Al punto che qualche anno fa provai a leggere uno degli autori più venduti degli ultimi tempi: Fabio Volo. Il libro era “È una vita che ti aspetto”, pubblicato, come tutti gli altri di Volo, da Mondadori. Ammetto di essere riuscito a stento ad arrivare all’ultima pagina. Non ho nessun pregiudizio nei confronti della letteratura popolare. Ma ritengo che nei diari degli studenti si possa trovare di meglio. Tuttavia, quelle ore trascorse a leggerlo non furono sprecate. Ricordo il distacco, direi quasi l’odio del protagonista, uno spaesato quarantenne, per le ragazze snob, fighette, altezzose e piuttosto oche. Poi mi sono venute in mente alcune lettrici di Volo. Quelle che mi ritrovavo e mi ritrovo in libreria e che lo adorano e ti parlano di lui. Spesso sono snob, fighette, altezzose e piuttosto oche. Mi chiedo quindi cosa spinga un lettore a leggere libri che parlano male di lui fino ad arrivare ad adorare l’autore e paradossalmente essere d’accordo con ciò che scrive.

Ecco, cosa c’entra tutto questo?

Il libro di Coelho è pieno di amore per la vita. Ma era in casa di un assassino.

Il libro di Volo parla male delle fighette. Ma è letto dalle fighette.

Forse la letteratura serve a questo. A farci sentire per un attimo ciò che non siamo e che non saremo mai.

In fondo, sono solo parole.

Pittori pugliesi del nostro Risorgimento

di Lucio Causo

Francesco Netti – Le-ricamatrici levantine

 

   Francesco Netti è nato a Santeramo in Colle nel1832, ha frequentato le scuole degli Scolopi e si è laureato in Giurisprudenza a Napoli, si è spento nel 1894.    A Grez, in un paesino vicino a Fontainebleau, ha studiato Camille Corot e Gustave Courbert, ha viaggiato per l’Europa fino in Turchia.

Egli ha dipinto I Gladiatori, La pioggia sul Vesuvio in gara con Gioacchino Toma, I Mietitori curvi sulle falci con il sole della sua Puglia che spacca dall’alto le pietre delle Murge.

Pietro Marino, in occasione della retrospettiva dedicatagli nel 1980 nella Pinacoteca dell’Amministrazione Provinciale di Bari, visitata dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini, mentre era in allestimento, ha scritto che le 140 opere del Netti lo pongono fra gli artisti intellettuali, in controcanto con gli artisti del Nord, come Angelo Morbelli e Giuseppe Pellizza da Volpedo, animato dal Quarto Stato.

Il Netti è ritenuto anche un grande innovatore della critica d’arte. L’illustre santeramese ha dimostrato con evidente rischio la sua solidarietà verso i popoli in conflitto, militando da volontario nella Croce Rossa Italiana durante la guerra franco-prussiana.

Giuseppe de Nittis, L’ora tranquilla (1874)

Giuseppe De Nittis  è nato a Barletta nel 1846, dopo la sua permanenza a Napoli, ha raggiunto Parigi dove ha sposato nel 1869 Léontine Gruvelle con la quale ha ricevuto nel suo salotto E. De Concourt, Dumas figlio, A. Daudet, E.

Spigolature da un Eden di mare e cielo

di Rocco Boccadamo

Caro amico, ti scrivo…

Si materializza e affiora inevitabilmente, in un sito che racchiude sapori,
profumi, colori, immagini e suoni d’autentica magia, l’idea di domandare in
prestito, al legittimo interprete famoso, a lungo di casa da queste parti, le
quattro parole dell’abbrivo.
E appare opportuno e calzante, chiosare, subito di seguito, con un osanna al
godimento della natura, gratuito e generoso. Quando ci vuole, ci vuole.
Tanto per incominciare, è una piacevole sorpresa accorgersi che si vive
benissimo senza la morbosa dipendenza dalla TV; lo stesso scorcio al giornale
può essere rapido, di mera sintesi.
Il tempo scorre egualmente e si esalta sotto l’insegna di sole e bagni e,
però, parallelamente, anche di filari di pensieri e di riflessioni avulse da
trucchi e condizionamenti, dall’impronta genuina.

°   °   °

Attraverso qualche titolo distrattamente sbirciato o recepito, al comune
osservatore di strada, al confino in questa sorta di paradiso isolano eppure
prossimo, è nondimeno giunto un interrogativo ad effetto – autore non si sa chi e, ad ogni modo, verosimilmente non disinteressato – che suona, nello stesso tempo, come ennesimo annuncio di “fine del mondo” e/o noiosa ripetizione di fanfaluca: “FalliMonti?”.
Con ciò, volendosi presagire che le nostre tasche sono inesorabilmente
destinate a contenere vuoto, miseria e fame; il terreno sotto i piedi, a
trasformarsi in precipizio ingoia tutto; le prospettive, i sogni e le speranze,
a mutarsi in filari di salici piangenti e in corone di spine; intorno, in
assoluto, buio e silenzio.
Sennonché, almeno a parere di chi scrive, non di ragionato e ispirato
vaticinio si tratta, piuttosto di provocazione strumentale, oltretutto buttata
lì con scarso buon gusto.
Si può essere, al contrario, certi che, nonostante le difficoltà non nuove e
anzi pesanti, le albe e i tramonti continueranno a susseguirsi, le menti e i
cuori ad aprirsi, palpitare e gioire. Alla faccia dei gufi con braccia e
gambe!

°   °   °

Ciò, vanno sussurrando, senza la minima ombra d’interesse, i gabbiani, che qui sono reali, dal simpatico bozzetto di macchia rossa sul becco, con il loro
volteggiare armonioso, elegante e solenne, gli schizzi rapidi sotto la coltre
color blu intenso del cielo ovvero a pelo d’acqua per maratone di caccia, o
pesca, su obiettivi consistenti in minuscoli esemplari guizzanti.
Si osservano sovente in coppia, i sopraddetti volatili, alle prese col
presidio premuroso a beneficio di un ciuffetto alato, caracollante lentamente
nel sottobosco e intento ai primi saltelli che lo educheranno e addestreranno,
per parte sua, ai viaggi e alle missioni fra aria e spazi.
Invitano a credere che ci sarà un domani, anche i nutriti stuoli di scolari e
giovani studenti di classi elementari e medie di varie città e regioni,
convenuti qui, insieme con insegnanti e mamme e papà, per la conclusione e le premiazioni di un concorso di scrittura.
E, analogamente, la compagine di una squadra di pallavolo femminile, che, a
titolo di premio per il buon torneo disputato in serie D sino ai play off, si
va godendo una settimana di vacanza.
Ancora, esorta a guardare avanti, la presenza di ben quattro fasce
generazionali in seno ad un esercizio commerciale dell’arcipelago, il
minimarket shop 88: dalla bisnonna, ai nonni, alla mamma, sino ad un piccolo
bimbo biondo.
E’ di segno positivo anche la circostanza che, in un altro esercizio del
posto, stamani, una donna proveniente da un paese dell’est, ha potuto
immediatamente trovare un’occupazione, una paga e un alloggio.
Del resto, nell’affascinante tradizionale villaggio turistico che mi ospita,
ho notato, al solito, ragazzi e ragazze di innumerevoli regioni italiane e
anche dell’estero, che danno l’impressione di muoversi con entusiasmo e fiducia nelle prospettive. V’è, in particolare, una giovane donna che, dal 2004, suole dividersi fra la natia valle alpina e le Tremiti, laboriosamente; quest’anno, ho costatato con piacere che si è fatta raggiungere dall’anziana madre, colmando così, in certo qual modo, la distanza fra due mondi obiettivamente lontani e dissimili.

°   °   °

Il vecchio faro di una volta sulla punta di S. Domino che guarda il Gargano è
ormai da molti anni in disuso o disarmo. In sua vece, funziona un fanale
alimentato da pannelli solari.
Appare tuttavia emozionante e conferisce un’eco di confidenze, antiche storie
e rievocazioni, il contatto ravvicinato con l’edificio che va cadendo. Dagli
usci socchiusi e sotto le volte in via di sgretolamento, si riaffacciano
vicende umane, attività lavorative, momenti familiari, magari affettivi e
amorosi, inanellatisi  all’interno del manufatto.
Chiaramente, nulla più residua dei passati concerti esistenziali, nell’habitat
circostante regna unicamente il dominio dei già citati gabbiani e della
fattispecie specifica delle Tremiti conosciuta con il nome di Diomedea, attiva
e protagonista particolarmente durante le ore notturne, in forza di misteriosi
canti o lamenti che, taluno, vorrebbe ricollegare niente poco di meno che al
“dolore” per la scomparsa dell’eroe greco Diomede, sbarcato e alla fine
spentosi proprio su queste isole.
°  °   °
Da un anno, l’arcipelago delle Tremiti ha un nuovo parroco, giovane intorno ai quaranta, di aspetto simpatico, estroverso, fattivo. Non un parroco
propriamente ordinario, intanto è un monaco benedettino, incardinato quindi in uno degli ordini – Cistercensi, Benedettini e Lateranensi – che dimorarono
anticamente su queste isole e cui è riferibile la splendida abbazia in S.
Nicola; è nativo della Siria, parla un ottimo italiano e predica altrettanto
benissimo, è giunto qua, dopo l’arrivo in Italia, proveniente dal monastero dei Benedettini di Pulsano in Monte S. Angelo (Foggia).
I Tremitesi stravedono per lui, dicono che il suo arrivo è stato un miracolo e
auspicano di averlo in loco per qualche decina d’anni.
Particolare non  secondario, riandando indietro con la memoria, ho scoperto,
ricevendone poi conferma,  che Padre Massimo Hakim è parente  di un’altissima personalità cattolica della Siria, il Patriarca Arcivescovo Maximos V Hakim, scomparso nel 2011, giusto in contemporanea con l’insediamento alle Tremiti dell’omonimo religioso.

°   °   °

Ho incontrato, conosciuto e brevemente intervistato Giuseppe Fentini,
imprenditore turistico, neo eletto sindaco del comune di Isole Tremiti, un
omone con folta barba e soprattutto dotato di forte carica vitale e operativa.
Commentando le caratteristiche e i problemi del suo territorio, con speciale
riguardo al profilo finanziario – per la cui soluzione, si era recentemente
ventilato di alienare ampie estensioni di terreno su S. Domino, progetto però
non condiviso dagli abitanti e tanto meno da parte degli ambientalisti e
quindi, almeno per ora, abbandonato – il primo cittadino ha espresso la
consapevolezza sulla necessità di ricorrere a canali eccezionali e
straordinari, se si vuol tenere in piedi il bilancio del Comune.
Con i 400 o poco più residenti, durante la stagione invernale addirittura solo
7/8 presenze in S. Nicola e 70/80 in S. Domino, non può certamente reggersi da solo fra entrate e uscite, risorse disponibili e necessità.
A chi, sulla base di democratica scelta,  è preposto all’amministrazione e
alla gestione di questa realtà locale, non si può non rivolgersi un augurio e,
insieme, un’esortazione: di saggezza, equilibrio, dedizione, trasparenza e
condotta assolutamente proba. Giacché, vale la pena di ricordarlo, l’arcipelago delle Tremiti rappresenta veramente una realtà speciale, unica, alla pari con le più celebri località del pianeta.

P.S.
Tra il natio Salento, il Gargano e le Isole Tremiti, domina il denominatore
comune del mare, un mito. Sull’onda di questa premessa, mi piace dedicare il
presente post, in particolare, a Marcello, mecenate generoso e nocchiero
provvido di “Spigolature Salentine” e non solo.

A Sava, dove il Primitivo è primitivo

di Pino de Luca

Ultimi sprazzi d’un giro vorticoso ed entusiasmante che mi ha permesso di attraversare, enologicamente e musicalmente, tutte e tre le province del Grande Salento. E di raccontarle spero piacevolmente.

L’asfalto, come ogni venerdi, si svolge sotto le ruote della mia fida automobilina mentre Belcore canta: “Per me l’amore e il vino/ due numi ognor saranno./ Compensan d’ogni affanno/ la donna ed il bicchier.”

E sulla destra compare l’ingresso della Vinicola Savese dei F.lli Pichierri. Entro accolto da una pergola d’antica fattura sulla sinistra, da un po’ di disordine e dal volto di Francesco al quale non posso celar intenzione e identità. Il mio tentativo d’esser incognito cliente evapora subitaneo.

Disordine da trasloco è in corso. Una nuova cantina, più grande, moderna ed efficiente. Una telefonata e ho il privilegio di visitare il nuovo stabile.

Moderna la costruzione ma l’aria che si respira è antica.

Sono a Sava, città tarantina oltre il Muro Tenente, nella quale il Primitivo è primitivo. Alberelli, terre forti, possenti e vino grasso, dalla presenza alcolica prorompente ma di rado percepibile tanto è immersa in un substrato di profumi e sapori davvero eccezionali.

I fratelli Pichierri sono al lavoro, lo testimoniano i visi ma soprattutto le mani.

Più che mani sono monumenti, testimonianze plastiche da preservare, in esse son racchiusi secoli di cultura del lavoro e della vigna, mani forti, dure e generose. Ultimi testimoni, irriducibili, del primitivo primitivo.

Vittorio è personaggio autentico, colto come può esserlo un ragazzo che ha superato la sessantina, conosce il mondo e sa scegliere i collaboratori secondo

Libri/ Nefrhotel (mi hanno venduto un rene)

di Francesco Greco

Storia di Kamal, l’innocenza perduta dell’universo

Om mani padme hum… Dagli inferi danteschi, il sottosuolo dostoevskijano, il cuore di tenebra di un universo corrotto, (s)perduto, che ha rinunciato a ogni etica, incagliato nell’assenza di una qualche spiritualità, nella palude d’una solitudine cosmica dove le parole ormai non hanno più eco, ecco la voce di un bambino: ascoltiamola.

E’ quella di Kamal, bambino nepalese, solo al mondo, che narra la sua odissea scagliando parole dure come pietre, accuse a una civiltà infame, un’umanità disumana che usa i corpi per realizzare immondi profitti tra medici, intermediari, documenti falsi. Nato bene, nella casta potente dei Newari, devoto a Buddha, si ritrova a vagare come un animale ferito ai margini di Kathmandu, a lottare per avere il suo posto al mondo, riconquistare l’onore del censo perduto, un fantasma senza volto come se ne vedevano nei lager, i guilag, i laogai, bambino senza più innocenza in “un’India adultera dagli occhi di fanghiglia” col dito puntato verso di noi.

“Nefrhotel” (mi hanno venduto un rene), di Giuseppe Cristaldi, Promomusic, Corvino Meda Editore, Bologna 2011, pp. 200, € 12, è un romanzo curioso, spiazzante, insospettato. Il quarto (dopo “Storia di un metronomo capovolto”, 2007, Libellula; “Un rumore di gabbiani – Storia dei martiri del petrolchimico”, 2008, Besa; “Belli di papillon verso il sacrificio”, Edizioni Controluce, Besa 2010) del giovane scrittore pugliese.

E’ il lungo soliloquio di Kamal col suo aguzzino: il medico che gli ha chirurgicamente asportato il rene che finirà sul mercato di un Occidente che monetizza tutto, dove ormai i Lumi sono spenti, tra spraed, governi in affanno e banche che tengono in ostaggio i popoli, impotenza, suicidi, follia.

Che in India ci sia un mercato di organi è risaputo, abbiamo fatto l’assuefazione: non scandalizza nessuno, non ne parla nessuno. Lo scandalo, paradossalmente, non è qui, ma nell’aver rubato l’infanzia alle generazioni a cui per sopravvivere (a Kamal servono molte rupie per aprire un negozietto), un mondo dove tutto è mercificato non dà altre opzioni che il dolore, la rapina, la piaga in continua suppurazione.

Il romanzo procede su più livelli, che si intrecciano di continuo per poi separarsi, come fiumiciattoli che corrono verso il mare. Quello che colpisce è il furore politico scagliato contro lo status quo e i suoi orrori quotidiani, che una civiltà retta dal liberismo selvaggio ha ormai elevato ad archetipi. Notevole il piano lirico del narrare in cui la sensualità di un mantra (“Om mani padme hum…”), anzi, due (“Dottò”) inasprisce le parole di un bambino a cui è negata ogni pietas, che pure tutte le religioni invocano, per essere spinto sotto i ferri dei macellai: allegoria tremenda. L’accusa è di non aver saputo costruire un mondo diverso, di non aver avuto una, visione alternativa al reale, credere che questo sia il migliore dei mondi possibili: abbiamo coltivato il vuoto dove poi il serpente ha deposto le uova fatali. Ridotti a vegetali senza più utopie, sogni, a vivere in un mondo pieno di cicatrici dove “il silenzio è di moda” e capita di non dormire per sfinimento. Kamal siamo tutti noi, umiliati e offesi, vilipesi, saccheggiati nell’immaginario, omologati a modelli estranei e devastanti.

Del romanzo colpisce, cattura la scrittura viscerale, rapsodica, rabbiosa, che a un primo sguardo sembrerebbe sperimentale, e che invece è la modulazione scelta dallo scrittore per osservare il tutto e il particolare in una continua osmosi del senso che fluisce senza requie in un’affabulazione magnetica. Ma anche la padronanza della storia, che sconfina nella metafisica di un’universalità lacerata e purulenta, naufragata sotto il peso delle sue stesse bestemmie e orrori, delle continue abiure e dalla ridefinizione continua di valori relativizzati.

Pubblicare non vuol dire essere scrittori, oggi che il consumismo ha penetrato e corrotto l’etimo interno della scrittura piegata al marketing, all’apparire, alle scuole, al best-seller sintonizzato col gusto di lettori dalla percezione arida e formattata. La Babeleci avvolge e ci confonde, per cui trovare una propria via non è facile. Oggi anche Steinbeck o Caldwell resterebbero inediti. Benchè giovane, più mediterraneo che europeo, Cristaldi è un franco narratore che ha trovato una sua password assolutamente originale, una sorta di Sacro Graal che si regge su una melodia carsica che attraversa una koinè di parole magmatiche e ispide, portatrici di una semantica nuova, escatologica, di significati rimodulati. E’ anche qui la forza di un romanzo commovente, immaginifico, che suggerisce di cercare l’innocenza perduta per salvare il bambino in noi e richiudere una ferita che sanguina senza requie mentre altri tiranni affilano il bisturi, dottò. Om mani padme hum…   

Scàncaru e figli, reali o presunti

di Armando Polito

Lo scàncaru è in dialetto neretino quello che in italiano è detto ganghero, cioè l’elemento di una cerniera (delle imposte di usci e altri infissi), fissato al telaio o murato nello stipite, il quale porta il perno o spina che va a infilarsi nell’occhio della bandella fissata al battente Il modello più primitivo era costituto in pratica da due chiodi terminanti ad anello (prima foto).

Gànghero è una di quelle voci per le quali le etimologie proposte sono le più disparate e, dopo  il Muratori (XVIII secolo) per il quale la voce trae origine dal tedesco Angel e il Salvini (XVIII secolo) per il quale è formata sulla stessa base di canchero, l’etimo che oggi gode più credito è il primo proposto, cioè quello di Gilles Ménage (XVII secolo), secondo il quale la voce è dal greco kànchalos, attestato da  Esichio di Alessandria (V secolo d. C.) in Glòssai (glossario contenente più di 50000 lemmi): kànchalos: krikos o epì tais thýrais. Sikelòi (Kànchalos: anello sulle porte. Siciliani).

La voce, dunque, sarebbe di uso siciliano, ma la definizione esichiana richiede che mi soffermi sulla sua prima parola. Krikos in epoca classica indica l’anello al centro del gioco per l’attacco al carro, l’anello di una chiave o di una catena, anello o occhiello di vela o tenda, anello come monile, braccialetto, l’anello usato per il gioco chiamato krikelasìa1, da krikos,  che in questo caso significa cerchio, + elàuno=sospingere.

Per quanto fin qui detto e tenuto conto della definizione e dell’etimologia all’inizio date di ganghero, delle due l’una: o i Siciliani montavano all’inverso i due componenti della cerniera chiamando kànchalos la bandella (cioè la parte di cardine che si infila nel gangheri, da cui la locuzione metaforica uscire fuori dai gangheri) oppure, molto più probabilmente, Esichio con krikos vuol significare il raccordo (in un certo senso anulare…) che si forma al centro quando la bandella è inserita nel ganghero o i due cerchi reciprocamente infilati l’uno nell’altro nel modello più primitivo.

Se le cose stanno così, nulla vieta di pensare che pure scàncaru derivi dalla voce greca con semplice aggiunta di una s– intensiva.

E scancarisciàre (divaricare le gambe in modo eccessivo) denunzia solo una somiglianza fonetica con scàncaru, al di là delle suggestioni semantiche che senza difficoltà consentirebbero di collegare tra loro la posizione delle gambe divaricate e dei cardini quando i battenti sono  aperti?

Intanto faccio notare il suffisso –isciàre, corrispondente all’italiano –eggiàre  (dal latino –idiàre, connesso col greco –ìzo). Come conteggiare   deriva da contare, posteggiare da postare etc. etc. e nel dialetto neretino ddurmiscìre da ddurmìre, così scancarisciàre supporrebbe un originario scancaràre2.

Nel dialetto neretino scancaràre non esiste ma è attestato nel dialetto napoletano (in cui, per converso manca scàncaru).  In Gabriele Fasano3, La Gioresalemme libberata (canto XI, ottava 37, vv. 5-8) in Collezione di tutti i poemi in lingua napoletana, Porcelli, Napoli, 1786, tomo XIV, pag. 14, si legge: E già l’ariete a le mmura a la mpressa/accosta gruosse trave a ssarva mano,/de fierro mponta, comm’a ccaparrune,/pe nne scancarà pporte e bastiune.

È evidente come nel testo appena citato scancarà (infinito presente) ha il significato di scardinare e formalmente corrisponde all’italiano sgangherare.

Il suo uso nel dialetto napoletano è confermato dal lemma (registrato senza l’apocope tipica dell’infinito presente napoletano: vasà=baciare, parlà=parlare, etc. etc.) scancarare o scancareiare del Vocabolario delle parole del diaaletto napoletano, che più si scostano dal dialetto toscano, con alcune ricerche etimologiche sulle medesime degli Accademici Filopatridi, Porcelli, Napoli, 1789, tomo I, pag. 88, dove è riportata la seguente definizione: isgangherar, rovinare, levar da sesto.

Corrispondente, infine, al napoletano scancarà  è il siciliano scancaràri per il quale in Michele Pasqualino, Vocabolario siciliano etimologico italiano e latino, Reale stamperia, Palermo, 1790, tomo IV, pag. 366,  leggo questa definizione: cavar de’ gangheri, scommettere, sgangherare, emovere cardinibus (togliere dai cardini). Da cancaru colla s iniziale che fa forza della ex de’ Latini. Sancarari (evidente errore per scancarari) la pinna, vale sconciar la temperatura (rovinare l’affilatura della penna d’oca), depravare calamum (rovinare la penna). Scancarari la pinna in senso figurato v. Pinna. Scancararisi, figuratamente vale levarsi di sesto, slogarsi, luxare (procurarsi una lussazione), si scancarau li cosci, o mi scancaravi tuttu.

E a cancaru, messo in campo come etimo di scancaràri il Pasqualino correttamente registra un primo significato di strumento di ferro, che serve per congiugnere i coperchi delle casse, degli armadi, e simili arnesi, ed anche di cardine a sostener le imposte delle porte, ganghero , cardo. Cancaru fimmininu, v. masculinu (distinzione tra la bandella  e il ganghero propriamente detto); immediatamente dopo è riportato il secondo significato: tumore, o ulcere cagionato da collera nera: ha intorno le vene stesse a guisa delle gambe del granchio, e va rodendo, canchero, cancer, carcinoma. Per imprecazione come (cancaru chi ti mancia, chi ti vegna lu cancaru etc.) canchero, canciola. Altrettanto correttamente le due diverse etimologie: per il primo significato il greco kànchalos che, come ho  riportato all’inizio, secondo Esichio è di uso siciliano, e per il secondo il latino cancer.

Che la voce, infine, non sia solo meridionale lo attesterebbe G. Faggin che in Vocabolario della lingua friulana, Del Bianco, Udine, 1985, v. II, pag. 1175 al lemma scancarà dà questa definizione: scardinare, sgangherare, scassinare, scassare.

Basta e avanza per affermare che scancarisciàre è figlio di scàncaru.  L’appetito, si sa, vien mangiando e a questo punto mi viene in mente il verbo neretino ncarancàre, registrato dal Rohlfs oltre che per Nardò anche per Galatone, col significato di cavalcare. Quest’ultimo è ambiguo perché può significare tanto procedere che salire a cavallo, mentre la voce dialettale è usata solo nel senso di salirencarancàre sobbra lla canna ti la bicicletta; ncarancare sobbra li spaddhe (sistemarsi sulla canna della bicicletta; salire sulle spalle) e anche assolutamente: ‘ncaranca! (sali!).

Ma, qual è l’etimologia di ncarancare (per quanto dirò dopo mi pare più corretta la grafia ‘ncarancàre)?

Il Rohlfs nulla aggiunge a quanto ho già riportato e debbo perciò presumere che per lui la voce sarebbe deformazione dell’italiano cavalcare ed avrebbe la stessa etimologia. Bisognerebbe, però, dare ragione dei passaggi –v->-l– e –l->-n-; quanto a  n– iniziale, essa non pone alcun problema derivando dalla preposizione in che ha poi subito l’aferesi (per questo ho scritto prima che la grafia più corretta dovrebbe essere ‘ncarancàre)

Ipotizzo perciò che proprio il già visto napoletano scancarà, ancor meglio il siciliano scancaràri sia alla base di ‘ncarancare attraverso la trafila scancaràri>scarancàre (metatesi a distanza; la voce è usata nel neretino nel senso di scavalcare un ostacolo)>’ncarancare (sostituzione in testa di ex– con in-). Sul piano semantico scarancàre comporterebbe l’apertura di quella cerniera ideale rappresentata dalle gambe, ‘ncarancàre la sua  chiusura attorno a qualcosa (sia essa la canna di una bicicletta o il collo di una persona).

Se così è veramente andata, andrebbe riconosciuta al nostro scàncaru una prolificità insospettata.

_________

1 La voce è attestata da Oribasio (IV secolo d. C.), Collectiones medicae, VI, 26 (traduco dal testo originale dell’edizione curata da Bussemaker e Daremberg, Stamperia nazionale, Parigi, 1851, v. I, pagg. 521-522): Sull’esercizio del cerchio (krikelasìa), tratto dalle opere di Antillo e in particolare dal trattato Rimedi posti in atto. L’esercizio del cerchio può rilassare le parti del corpo tese e rendere flessibili quelle anchilosate, attraverso i movimenti che si fanno per evitare il cerchio e le variazioni di posizione del corpo; può rinforzare e rilassare i nervi indeboliti, produrre il calore e ristabilire una condizione indotta dall’effetto dell’umor nero. Bisogna che il diametro del cerchio sia minore della statura dell’uomo che lo usa, in modo che gli arrivi all’altezza del petto. Non si deve spingere il cerchio solo in linea retta, ma anche a zig-zag. Il bastone dev’essere di ferro ed avere il manico di legno. I piccoli anelli che si trovano all’interno del cerchio sono stati considerati da qualcuno come superflui, ma non è così, perché il suono che producono infondono distrazione e piacere nell’animo. All’inizio si spingerà il cerchio stando dritti ma quando il corpo è divenuto caldo e umido di sudore allora bisogna saltare e correre qua e là. Verso la fine si spingerà di nuovo il cerchio stando dritti per frenare l’ondeggiamento prodotto dall’esercizio. Il tempo adatto per l‘esercizio, come per gli altri impegnativi, è quello che precede il pranzo o il bagno.

2 Non tragga in inganno scancàre (spalancare le gambe) che avrebbe dato come intensivo scanchisciàre. Per quanto riguarda poi l’etimologia di scancàre, esclusa la possibilità di ex+anca (avrebbe dato ssancàre o, come in italiano, sciancàre, pure con problemi aggiuntivi di natura semantica), resterebbe da pensare alla stessa etimologia (ex+palanca) di spalancare con sincope di -la (*spancàre) e passaggio –p->-c– come in scantàre (spaventare) dall’antico italiano (ma sopravvive nel Salento come  variante di scantàre) spantàre, a sua volta dal latino *expaventàre.

3 1645-1689. La prima pubblicazione dell’opera citata avvenne pochi mesi prima della morte.

Il terremoto in Emilia vissuto e raccontato da Paperoga

L’Orcolat in salsa emiliana

di Paperoga

Quando a 50 km da casa tua un terremoto lesiona buona parte delle abitazioni civili, non è troppo melodrammatico dire che la tragedia ti ha sfiorato. Sfiorato appunto, perchè non sono stato una vittima del terremoto emiliano. Ho ancora una casa perfettamente in piedi, un lavoro e, se conto le persone care ci sono tutte e in perfetta salute. Se così non fosse non proverei a prenderla con la filosofia di chi da una parte ne è scampato, e dall’altra è quel filino intelligente da capire che è tutto così potente, incontrollabile, invisibile e imprevedibile da non potersi opporre altro che un pacato fatalismo.
Ovvero, tradotto e semplificato, non c’è proprio un cazzo da fare. A parte le regolette di buon senso di accucciarsi o scappare, a parte le evacuazioni ordinate con perfetto tempismo, a parte l’evitare gli ascensori e strozzare il panico dentro il gargarozzo, tutto quello che puoi fare è guardarti attorno, e vedere se qualcosa crolla o tutto rimane in piedi. Tu, la tua casa, i tuoi affetti, la tua vita. Sei un mero spettatore, disarmato come una cacca di cane. E allora puoi chiuderti in un silenzio scosso, o fare lo spavaldo che la butta sull’umorismo nero. Oppure puoi rimanere del mezzo, e provare ad accettare tutto questo non senso, e sfidare con amara ironia questa prova provata dell’inesistenza di qualsiasi dio non dico buono, ma almeno non così sadico.
Proviamoci allora, nel momento stesso in cui ancora la terra trema, le macerie sono calde, la gente muore ed una provincia tranquilla e sonnolenta si accartoccia su se stessa.

Anche da quando vivo in Emilia, i terremoti sono sempre stati fenomeni che succedevano senza che me ne accorgessi.  A quelli che “hai sentito il terremoto ieri?”,  opponevo una faccia del tutto stolida e ignara. O non c’ero, o dormivo. E se non dormivo, il mio corpo era un sismografo piatto, senza pile, sui cui percettori sensoriali si spegnevano le tracce del sisma.
Tanto gli anni reggiani quanto quelli parmigiani sono trascorsi sul sentito dire, sulle scossette impercettibili. Tant’è che quando in una notte di maggio bolognese mi sono svegliato come spostato da un vento invisibile, ed ho percepito in un attimo che c’era un terremoto vero e in carne ed ossa, mi sono meravigliato, imbambolato com’ero dal sonno e da quella strana sensazione del venire sbatacchiato da una forza sovraumana. Ho acceso la luce, ho messo

Alezio. Le “catacombe” della Madonna della Lizza

di Massimo Negro

Ad Alezio mi ero recato per visitare delle tombe, ma di altra datazione ed origine, risalenti ai tempi dei Messapi. Solo che, mentre ero all’interno del Museo Cittadino, dopo aver visitato la necropoli sul Mont’Elia, Mino, un gentilissimo signore aletino conosciuto poco prima, si avvicina e mi dice: -“Se ti interessa, questa mattina è aperta la Congrega, ci sono cose interessanti da vedere”.

Non che la visita nel locale della Congrega includesse ulteriori “approfondimenti” ma, come sanno coloro a cui piace parlare con le persone del posto che si visita e non solo limitarsi a fotografare i monumenti, una domanda tira l’altra e così si è arrivati a parlare delle “catacombe” presenti nel sottosuolo della Chiesa di Santa Maria della Lizza (XII secolo circa), più comunemente conosciuta come “Madonna della Lizza”.

Il termine “catacombe” è improprio, e forse deriva dall’attuale conformazione e stato dei luoghi. Corridoi e stanze che si dispiegano nel sottosuolo e che fanno pensare appunto alle antiche catacombe cristiane.

In realtà, nel loro stato originario quei luoghi erano ben diversi. Si trattava di sepolture ipogee realizzante mediante lo scavo di tombe a camera, secondo una tipologia di sepoltura molto usata nel passato nelle chiese e che, in quanto a struttura, ci arriva addirittura da antiche tradizioni mortuarie del passato.

L’uso di tumulazioni all’interno delle chiese e nei centri abitati vide il suo termine con l’Editto napoleonico di San Cloud;  il decreto fu emanato in Francia il 12 giugno 1804 ed esteso in Italia con decreto del 5 settembre 1806. Un editto molto discusso e perlopiù accettato a fatica. Qualcuno ricorderà il famoso componimento di Foscolo, il carme “Dei Sepolcri”, con il quale l’autore polemizzava con i contenuti di quell’editto.

C’è da dire che gli aletini se la presero con grande calma nell’attuare quel provvedimento. Anzi lo attuarono quando ormai la Restaurazione aveva ormai avuto da tempo la meglio.

Infatti l’ultima sepoltura nel cimitero ipogeo della Lizza avvenne 12 giugno del 1867, un certo Vincenzo De Benedetto deceduto all’età di 57 anni. Come controprova, nei registri parrocchiali dell’epoca risulta che due giorni dopo avvenne la prima sepoltura nel nuovo Campo Santo, un certo Ippazio Vito Merenda morto all’età di 72 anni.

Ma anche dopo di allora qualche eccezione venne fatta e seppur per casi limitati si procedette alla tumulazione all’interno delle celle sepolcrali ipogee, come per il caso di morte prematura di Rocco Abele Capano, un bimbo di 3 mesi, che venne sepolto sotto la chiesa il 1 agosto 1874.

In conclusione, gli aletini ci misero un bel po’ a far propria quella normativa, tanto che a ulteriore riprova di questo comportamento, la benedizione della chiesa del Campo Santo e dello stesso cimitero fu impartita solo l’8 novembre 1879 dall’allora Vescovo di Gallipoli Mons. Gesualdo lochirico.

Come accaduto in altre occasioni (ad esempio, la cella mortuaria ipogea della Chiesa di San Biagio a Galatina (1), il rinvenimento avvenne in modo del tutto casuale. Nessuno aveva mantenuto memoria di quei luoghi. Così nel corso dei lavori del restauro svolti nel 1959 – 1962, d’un tratto parte del pavimento cedente e consentì la scoperta di una prima stanza sepolcrale. Si procedette così ad esplorare il resto dell’antica pavimentazione, e questo consentì il ritrovamento delle restanti stanze. Ben dieci ambienti.

Le stanze, come accennavo in precedenza, non erano unite da scale e corridoi che ora è possibile percorrere. Erano degli ambienti isolati, tipicamente di grandezza variabile di circa otto –nove metri quadrati e alti tre metri, con le pareti rivestite con blocchi di tufo. L’unico accesso era la botola attraverso la quale veniva calato il defunto. Ogni stanza era provvista di uno sfiatatoio verso l’esterno, ma anche di un semplice foro di collegamento con le stanze adiacenti. Questo consentiva di disperdere i gas che venivano prodotti dalla decomposizione dei corpi. Sulle pareti venivano ricavate delle nicchie che dovevano essere utilizzate per appoggiare le lucerne e quant’altro necessario per consentire la sepoltura.

La botola era chiusa con una lastra lapidea sulla quale veniva inciso l’anno di realizzazione ed il cognome della famiglia che in essa era sepolta, nel caso si trattasse di una cella destinata all’uso esclusivo di un parentado. All’interno le salme venivano riposte per strati.
In alcuni casi dalla botola si poteva scendere mediante delle scale realizzate con conci di tufo.

La disposizione delle celle sepolcrali era in funzione della dislocazione degli altari laterali della chiesa. Nella camera scavata davanti l’altare, la salma veniva disposta di fronte a questo, in segno di rispetto e remissione al santo protettore e guida dell’anima del defunto sepolto ai suoi piedi.

Il sepolcro di maggior prestigio, era quello più prossimo all’altare maggiore, per questo riservato alla famiglia di estrazione sociale più elevata, ovvero al clero. All’interno di questa stanza, la più grande presente all’interno del percorso, vi è un bel riquadro realizzato con delle maioliche sul quale è rappresentata la Vergine Immacolata.  Allontanandosi dal presbiterio, le camere mortuarie erano destinate alla gente comune.

Di questi altari laterali non rimane purtroppo traccia in quanto sono stati distrutti nel corso del restauro del 1962, demolendo così un pezzo importante di storia collettiva della comunità aletina. Venne anche realizzato il corridoio di collegamento tra le stanze, che seppur creando un percorso suggestivo, ha definitivamente alterato lo stato dei luoghi.

Fino al Giubileo del 2000 erano ancora presenti ossa e teschi all’interno delle celle. In occasione dei lavori che furono condotti per quell’evento, i resti presenti furono prelevati e trasportati in un ossario all’interno del Cimitero.  Sebbene sia un po’ macabro pensare che sarebbe stato più opportuno mantenere quei resti all’interno delle celle, c’è da dire che oggi percorrendo quelle stanze si ha solo una pallida idea di quello che poteva essere l’ambiente prima di quegli interventi.

Alcune delle persone che mi hanno accompagnato, e hanno visitato il luogo prima della rimozione dei resti umani, ricordano tra i tanti una piccola bara di una bimba di pochi mesi con il suo vestitino bianco di merletto quasi intatta. Di quella sepoltura in quei luoghi resta solo la lapide con la quale i genitori ricordavano la scomparsa prematura della piccola.

Tra i locali messi in comunicazione anche la vecchia cisterna d’acqua, l’unico locale intonacato, che serviva la comunità religiosa.

Al termine del percorso, è stata realizzata una stanza nella quale sono stati riposti alcune antiche suppellettili, pezzi di cornicioni e stemmi di antiche arme.  Tra le tante cose, anche qualche piccolo osso umano poggiato sull’improvvisato altare.

Una visita inaspettata e per questo ancora più emozionante, in questo un percorso nelle memorie del nostro passato.

Note:
(1) http://massimonegro.wordpress.com/2011/12/09/galatina-la-chiesa-di-san-biagio-dove-riposano-gli-abati/

Riferimenti e fonti:
– Sito “Madonna della Lizza”
http://digilander.libero.it/cristianami/struttura%20madonna%20della%20lizza.htm

http://massimonegro.wordpress.com/2012/05/30/alezio-le-catacombe-della-madonna-della-lizza/

UNICUIQUE SUUM

di Armando Polito

I giochi di parola, i titoli sparati, la solita donnina ammiccante: cosa non si fa per carpire  l’attenzione di chi ancora ha un po’ di tempo da dedicare alla lettura! Chi scrive (uso la terza persona per mantenere le distanze da me stesso…) ci è cascato, ci casca e certamente ci  cascherà fino alla fine dei suoi giorni, vittima predestinata della sana (lo dice lui…) curiosità che lo anima, non disgiunta, almeno lo spera, da una dose sufficiente di capacità critica (buona notte!…).

Così il titolo di oggi potrà essere scambiato da qualcuno per una nuova parolaccia, da un altro per una formula magica, da un altro ancora per un nesso inglese che fino ad ora non conosceva.

Se a queste tre possibilità si aggiungesse una quarta che vede nel titolo un nesso latino, avremmo un quesito perfetto per le prove INVALSI e sicuramente questa quarta opzione riscuoterebbe una percentuale irrisoria di suffragi (mai termine fu più adatto al test, fino alla noia da me definito, per via delle croci, cimitero della cultura).

Sono profondamente convinto che la crisi degli studi classici (e, oggi, dello studio in genere in Italia) sia stata provocata, oltre che da scelte politiche consapevolmente scellerate, dagli stessi operatori culturali (sta a insegnanti come operatori ecologici sta a spazzini, con la differenza che questi ultimi guadagnano di più…1) che non hanno tempestivamente adeguato il loro insegnamento proiettando la luce del passato sul presente e soprattutto sulle sue ombre e limitandosi, magari, ad uno studio prettamente grammaticale che, da sempre, è il miglior sistema per non appassionare dei giovani che fanno parte di un popolo che considera sempre, forse da sempre e non per sua, direi genetica, responsabilità,  la regola come la peggiore nemica; poi, quando per un degrado qualitativo della stessa formazione (da un docente inadeguato fatalmente verranno fuori pessimi allievi e il nesso esce dalla scuola di non avrà più alcun senso) lo stesso insegnamento prettamente o prevalentemente “grammaticale” vien meno, lascio intuire al lettore l’esiziale esito (a proposito, le due ultime voci hanno la stessa etimologia, dal latino exìre=uscire, solo che nella prima l’uscita è definitiva…) .

A questo punto sarà chiaro che il titolo è un nesso latino, ma, purtroppo, sarà altrettanto chiaro per il lettore masochista (mai vizio fu più sano, tanto da coincidere con la virtù!) che, per vedere dove voglio andare a parare, sarà costretto a seguirmi fino in fondo (sempre in terza persona mi dico illuso!).

Unicuique suum (a ciascuno il suo) è la riduzione o, se si preferisce, l’adattamento di suum cuique tribuere (attribuire ad ognuno il suo), principio del diritto romano (che brutta fine abbiamo fatto!…) risalente ad un frammento di Ulpiano (II-III secolo d. C.) citato nei Digesta di Giustiniano (533 d. C.).

Per riprendere a modo mio il che brutta fine abbiamo fatto!, che per pudicizia e non per esigenza di interpunzione ho messo tra parentesi, mi permetto di sciorinare una serie di mie interpretazioni del tema, indicando volta per volta l’oggetto oscuro (ma non tanto…) del desiderio.

OSSO

Al maniaco sessuale l’osso buco, alla cubista l’osso cuboide, al marinaio, a scelta, l’osso di seppia e l’osso scafoide, a Bossi l’osso duro,  al romantico, a scelta, l’osso tenero e l’osso lunato, al muratore e all’imbianchino l’osso parietale, al faraone l’osso piramidale, al prete l’osso sacro,  al mago Silvan l’osso sesamoide, all’ammalato di rogna l’osso squamoso,  al collezionista di orologi l’osso temporale, allo studioso di geometria, a scelta, l’osso trapezio  o l’osso trapezoide. E, infine, al tuo cane? Qualsiasi, ma sbrigati a darglielo perché, povera creatura, a sentirti leggere (il tuo cane, ricordalo, sente anche quando non parli…), gli è venuto un tale appetito che rischi di far scegliere a lui un osso a piacere fra le tue ossa…

PACE

Al guerrafondaio la pace armata, all’impotente la pace dei sensi, a chi ha uno scompenso cardiaco il pacemaker (a proposito di quest’ultimo qualcuno mi ha pietosamente avvertito  che pace corrisponde all’italiano passo, ma il cuore, è il caso di dire, non ce l’ha fatta ad eliminarlo).

PALAZZO

A chi soffre il caldo il palazzo del ghiaccio, a chi ama gli ambienti molto luminosi il palazzo di vetro, ai giudici, agli avvocati e agli imputati il palazzo di giustizia, ai politici il palazzo Madama (pare che stia perdendo rapidamente quotazione  da quando ogni tanto si sente dire: “Scappiamo, arriva la madama!”. Vuoi vedere che tra poco sarà il palazzo per i poliziotti?).

PASSO

Alla bella ma stupida il passo dell’oca (su altri suoi usi ancora più deleteri per l’umanità farò riferimento alla fine), all’ipocrita il passo doppio, al gestore di pompe funebri il passo estremo (degli altri…), a chi si butta, politicamente parlando, prima a sinistra e poi a destra e viceversa il passo alternato e a chi mente il passo falso.

PASTA

A chi soffre di reumatismi la pastasciutta, a chi soffre di prurito la pasta abrasiva, al vanitoso la pasta di vetro, a Bossi la pasta dura (essendo stato ultimamente sorpreso, sempre a sua insaputa!, con le mani in pasta, se si trova un avvocato all’altezza riuscirà a dimostrare la sua innocenza; così, male che vada, sarà accusato non più di appropriazione indebita o di truffa ai danni dello Stato, ma di autoerotismo, che, come pure il mio gatto sa, non ha rilevanza penale, nonostante lo stesso avvocato sia convinto che quest’ultima parola derivi da pene e non da pena, cosa che il mio gatto, insieme con me, non condivide); a chi soffre il caldo la pasta fresca, alla regina d’Inghilterra la pasta reale. E per l’autunno? La pasta sfoglia.

PATTO

Al locatario il patto in deroga, al metalmeccanico il patto d’acciaio, al vampiro il patto di sangue e al marinaio il Patto atlantico.

PENNA

Al matematico la penna a sfera, alla bella ma stupida, dopo il passo (e poi parlano di meritocrazia…2), la penna d’oca, al titolare di un negozio di occhiali la penna ottica.

PESCA

Al pescatore zozzone la pesca alla mosca, al pescatore appassionato pure d’alpinismo   la pesca d’altura, al Papa la pesca miracolosa.

PIANO

Al pilota d’aereo il piano di volo, allo studente universitario il piano di studi, allo speculatore edilizio ammanicato col politico il piano regolatore,  al cuoco il piano di cottura, al musicista astemio il piano a coda e a quello alcolizzato il piano bar.

SPORT

All’appassionato delle gare in piscina la pallanuoto, al cacciatore la palla a volo, al ghiottone di frittate la palla ovale, a chi pratica la masturbazione (maschile) la palla a mano.

PESCE

A Berlusconi che scalpita per replicare la stagione di Forza Italia! il pesce azzurro (solo per strappare voti a quei pezzenti dei comunisti, per il resto saraghi e aragoste di Portoselvaggio), a Bersani il pesciolino rosso (è o non è un proletario?) anche se mi ricorda  un pesce lesso (con tutto il rispetto per il pesce!) , ai Verdi (in attesa del ritorno in Parlamento) il pesce rampicante, al Papa il pesce San Pietro. E a noi comuni mortali che pesci restano? Il pesce d’aprile e il pesce sega.

L’ironia è sempre dissacrante ma, in modo solo apparentemente paradossale, riesce, purché si faccia capire, a dare a Cesare (per quanto dirò dopo il peggior Cesare, forse , della storia umana, appunto il Kaiser) quel che è di Cesare e a Dio (o a chi per Lui…, con risultati quanto meno discutibili) quel che è di Dio.

Per questo non mi sembra blasfemo (tutt’altro!) concludere, anche per dimostrare che una cultura classica “grammaticale” (come se la grammatica fosse sganciata dalla sua incarnazione, i testi) non serve a nulla, ricordando che il nesso del titolo è uno (quello a sinistra) dei due che compaiono nella testata dell’Osservatore romano [l’altro, a destra, è non praevalebunt=(le forze del male) non vinceranno] e che costituiscono quasi un inno alla meritocrazia. Purtroppo Jedem das Seine, traduzione letterale in tedesco di unicuique suum, campeggiava, atroce bestemmia, all’ingresso del campo di sterminio di Buchenwald…

Per un attimo mi illudo che solo un’adeguata riflessione sui contenuti concreti che ogni parola o insieme di parole hanno incarnato nella storia umana può presumere (bella consolazione!) di salvarci.

Poi, trascurando quelle fotocopia di questo o di quel rappresentante di questo o di quello schieramento politico, penso alle dichiarazioni di accorata partecipazione di Napolitano (nomina omina, lascio scegliere a voi l’anagramma più consono: pilota nano o Pilato nano) e di Benedetto (che, aggiunto ai titoli d’ufficio Santo Padre e Sua Santità, rappresenta il  concentrato più spinto dell’umiltà cristiana, anche se pure lui può dire che gli ultimi due  se li ritrova senza saperlo e che al momento di scegliere il nome pontificio non era del tutto sobrio…) XVI al dolore delle popolazioni colpite dall’ultimo terremoto e mi scende il latte alle ginocchia, anche se, posso esibire certificato medico…veritiero, sono di sesso maschile e le mie ghiandole mammarie sono, dalla nascita, atrofizzate.

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1 Può sembrare “razzista”, ma io seguo il principio, da me inventato, della interscambiabilità dei ruoli: è giusto che uno spazzino guadagni quanto un professore, se dopo un apprendistato di tre mesi riesce a svolgere dignitosamente il lavoro di quest’ultimo, … com’è giusto che un professore sia licenziato in tronco se dopo lo stesso periodo di apprendistato non sia in grado di assolvere decentemente alle funzioni di spazzino. Per quanto riguarda, poi, certi dirigenti  e consulenti (come se non bastassero i consiglieri…) di nomina politica, il colore è assolutamente irrilevante, lascio ai lettori liberi (sarò un illuso ma ho l’impressione che questo sito ne sia la culla) ogni ulteriore riflessione.

2 Il popolo ha icasticamente congelato questa antica piaga nel detto: A cci fatìà nna sarda, a cci no ffatìa una e mmenza (A chi lavora una sarda, a chi non lavora una e mezza).

Papaveri e… paparine

 
ph R. Schirosi

Il Salento leccese “Papa – ver” e “Papa – rine”


di Antonio Bruno
Non dirmi che non sai che cosa sono le paparine? Come mai, sei nato e cresciuto nel Salento leccese, le hai mangiate con le olive, le nere olive della cellina e dell’oliarola, e non sai che pianta è quella della paparina? Allora te lo dico io: è il papavero! Non lo sapevi vero? Noi del Salento leccese raccogliamo il papavero in pieno inverno, dicembre – gennaio, quando non ha ancora il fiore, gli tagliamo le radici , eliminiamo eventuali foglie secche, laviamo tutto (adesso mia moglie si arrabbia perchè sostiene che parlo come il Papa ma a fare tutto questo non siamo noi, né io con il plurale maiestatis, ma lei al singolare) e mia moglie prepara! E come non ricordare quello che tutti abbiamo detto da piccoli: Mamma dammi la pappa; infatti il termine Papaver deriva dal latino papo (= pappa) o da una parola celtica con il medesimo significato.

Pare che il papavero rosso sia originario delle regioni medio – orientali e che sia comparso in Europa con l’introduzione delle colture di cereali.

CAVE CANEM

di Armando Polito

Tra i tanti sistemi a buon mercato per dissuadere qualche ladruncolo a mettere in atto i suoi piani criminali c’è quello di appendere al cancello o alla porta di casa un cartello con la scritta ATTENTI AL CANE! (il punto esclamativo di solito manca e in questo caso bisognerebbe che l’interessato chiedesse al rivenditore un congruo sconto…).

L’espediente ha origini antiche e basterà dire che ATTENTI AL CANE! è la traduzione del nesso del titolo, usato dai Romani allo stesso scopo.

Pompei, mosaico nella Casa del poeta tragico.

Chiedo scusa al lettore se, come al solito, farò una premessa di natura grammaticale.

Cave, come ogni buon studente di liceo classico o scientifico pure oggi dovrebbe sapere, è la seconda persona singolare dell’imperativo presente del verbo cavère=guardarsi da,  non sopravvissuto direttamente in italiano, ma dal cui supino (cautum) sono nati in latino l’aggettivo cautus/cauta/cautum=guardingo e i sostantivi cautèla e cautio=precauzione, dai quali, rispettivamente, gli italiani cauto, cautela e cauzione.

Cauzione è un termine giuridico che, cito dalla Treccani on line, “comprende istituti di varia natura, tendenti a garantire il creditore contro inesatte interpretazioni del contratto, o contro l’insolvibilità o cattiva volontà del debitore. In particolare, deposito di denaro effettuato a garanzia dell’adempimento di eventuali obbligazioni future, oppure, nel diritto processuale penale, a garanzia di un obbligo derivante da un rapporto processuale: sottoporre a cauzionedareversare una cauzionerestituire la cauzioneCauzione di buona condotta, misura di sicurezza patrimoniale consistente nel deposito presso la cassa delle ammende di una certa somma, che viene restituita se il cauzionante non commette alcun delitto o alcuna contravvenzione per la quale la legge stabilisce la pena d’arresto; in caso diverso la somma depositata è devoluta alla cassa stessa”.

Mi chiedo se in particolare  la fattispecie penale dell’istituto non contrasti con l’articolo 3 della Costituzione e non costituisca una palese violazione del principio (ahimè troppo teorico… del tutti uguali di fronte alla legge). Se infatti uno non ha soldi nemmeno per comprarsi le mutande (magari non ha neppure colpa alcuna… ), come può permettersi  semplicemente di pensare di comprare, altro termine non riesco a trovare, la libertà, sia pure a certe condizioni aggiuntive?

Il problema travalica le frontiere, come il caso recente (ma è anche storia del passato…) dei due marò italiani detenuti in India, a prescindere dalla sussistenza o meno del pur minimo grado di colpevolezza; e qui, oltretutto, mi chiedo chi in concreto pagherà la cauzione: i diretti interessati o i contribuenti? Se, infatti, in rapporto a quanto ho asserito nel periodo precedente, c’è da dire che ogni riserva di legittimità costituzionale è stata già in passato respinta con la motivazione che l’entità della cauzione viene determinata in base alle condizioni economiche e patrimoniali dell’interessato e che son previste pure la sostituzione e addirittura la revoca della cauzione stessa, mi chiedo chi sono o da chi sono “pilotati” i due cittadini indiani garanti nel caso in questione.

Il mio ragionamento può sembrare cinico, ma non è un cinismo peggiore mantenere in vita un istituto del quale solo pochi privilegiati potranno avvalersi o perché glielo consente la loro posizione patrimoniale (sulla correttezza di acquisizione della stessa non mi attardo…) o una conoscenza alla quale sono legati a doppio filo e che per questo è disposta, anzi costretta, a garantire, pagando magari tramite prestanomi, per loro o nella generosità imposta dalla fiducia cieca nutrita nei loro confronti dall’amico o, forse, meno probabilmente, dal parente? Come trascurare, poi, l’effetto del rumor con cui, pur doverosamente, i media hanno accompagnato il caso (ma che non tutti i cittadini fossero uguali davanti alla stampa lo si sapeva…)?

E, tornando al cave canem, forse non staremmo più  in pace con noi stessi,  facendoci perdonare certe idiozie di cui solo gli umani sono capaci1, e con i nostri amici a quattro zampe se sul cancello o sulla porta mettessimo un cartello personalizzato come quello che Nerino (è un gatto, e, si sa, i gatti sono più liberi e meno rispettosi dei cani…) ha confezionato per me a furia di zampate (con risultati, debbo riconoscerlo, superiori a quelli di certi artisti moderni) in dieci minuti partendo da un tappeto (non un mosaico, un professore in pensione, per quanto megalomane, non può permetterselo…) imitazione del famoso mosaico pompeiano?

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1 Se ne hai voglia vai all’indirizzo  http://www.vesuvioweb.com/it/wp-content/uploads/Armando-Polito-Il-CAVE-CANEM-di-Pompei-vesuvioweb.pdf

Don Peppino la pinna po

di Rocco Boccadamo

Nell’ambito della periodica rotazione, non gli era toccata la leva del 1941, ovvero la mia, e, però, lo conoscevo bene, al pari dell’intera scolaresca, sin dal debutto fra i banchi, come l’insegnante, il maestro per antonomasia del paese, il più vecchio.

Non a caso, per l’età e alla luce dell’anzianità di servizio, oltre a curare, formare e educare la sua classe, rivestiva anche il ruolo di Fiduciario per il plesso nell’insieme, ossia a dire di braccio operativo e rappresentante in loco della direzione didattica – rammento i nomi di due titolari pro tempore, di entrambi i sessi, Luigi Formoso e Abbondanza Costa – situata nella cittadina di Poggiardo.

Per carità, appena sei – sette chilometri di distanza e però, di fatto, sulla base dei mezzi di trasporto privati e pubblici all’epoca disponibili, una sede lontana, le visite dei responsabili della zona alle strutture periferiche di loro competenza erano rare, capitava di vedere di persona i funzionari in parola un paio di volte in tutto il ciclo delle elementari, più spesso, invece, era dato di scorgere e leggere le relative firme sulla facciata delle pagelle oppure a convalida dell’esito degli esami di terza e di quinta.

Don Peppino M., il fiduciario, era un omone un po’ carico di acciacchi, durante le stagioni fredde si caricava, addosso, un’immensa mantella che lo ricopriva dal capo sino alle suole delle scarpe, in testa, in permanenza, un cappello con falde, arricchito, sul davanti, da una piuma, fumava la pipa, un arnese col fornello in argilla cotta e un lunghissimo e arcuato cannello – si scusi il bisticcio, di canna, giustappunto – con funzioni di bocchino.

Non ce la faceva a percorrere a piedi il tragitto da casa a scuola e, quindi, doveva avvalersi di un calesse tirato da un cavallo senza troppe pretese, le redini in mano ad un salariato, non carrettiere a tempo pieno ma adibito a lavori vari nelle campagne di pertinenza del vecchio maestro.

Un quadretto d’insieme, non propriamente ordinario intorno alla figura dell’insegnante in questione, arrivato ad un certo punto ad ispirare, nella fervida fantasia degli scolari, una breve filastrocca: “Don Peppino la pinna po, vane nnanzi ca vegnu mo, e te piju cu lu cocò, Don Peppino la pinna po” (Don Peppino dalla piuma in vista, vai avanti che ti vengo subito appresso, e ti rilevo con il calesse, Don Peppino dalla piuma in vista).

Abitava, don Peppino,  in un palazzotto terraneo, solido ed elegante, al centro del paesello, con un attiguo ampio giardino ricco d’alberi da frutta; il suo nucleo familiare era composto dalla moglie Maria, dai figli Nino e Tommaso e dalla figlia Concettina.

Di “borsa”, diciamo così, e di mentalità, non che fosse avido, ma sicuramente tirato. Fra le piante dietro casa, svettavano rigogliosi esemplari di arancio

Mi manca il mio Mare

di Mino Bianco
Quello che mi diceva. Come mi rimproverava. Come mi calmava.
Sono anni, da quando vivo solo, che confido in Lui.
Ormai sono un essere completamente legato a questo elemento.
Non credevo a quelle storie nelle quali si dice che alcune persone possano legarsi tanto al Mare, come se fosse una persona. Ma poi crescendo e conoscendoil genere umano ho cambiato idea.
Quante volte ho preso la mia macchina, così all’improvviso, senza chieder niente a nessuno e mi sono diretto da Lui. A confidare i miei segreti, a farmi sgridare con le sue onde oppure a farmi calmare con la sua tranquillità.
Quante volte lo sconosciuto mi ha visto parlare con Lui, come se potesse rispondermi con la mia stessa lingua.
Magari un cuore meno sensibile a leggere quello che spesso faccio potrebbe prendermi come un pazzo, e se dovesse essere così sarei felice di essere reputato come tale. I folli sono sempre i migliori perkè se ne fottono del Mondo e fanno quello che vogliono. Liberi nella loro pazzia, anche se poi questo diventa a sua volta una prigione.
Ma meglio prigionieri della propria pazzia che delle leggi altrui.
A me il mio Mare manca.
Qualche settimana fa ero in “dolce compagnia”, così poco dolce che è sparita subito dalla mia Vita. Erano settimane che non vedevo la sua immensità e in quella serata ho detto “stasera andiamo al Mare, perchè mi manca”.

Sicuramente l’altro orecchio l’avrà interpretato come “andiamo ad appartarci per fare le cose nostre” (cose che ovviamente non ci sono state -.-’ ) e invece io davvero lo volevo vedere, volevo sentire la sua voce. Ma non era la stessa cosa. Il cuore che era con me era talmente poco sensibile che mi ha persino detto “io non esco dalla macchina che fa freddo”.
Al mio fianco era scontato che non potesse rimanerci.
Ma io sono uscito, sono andato da lui e mi ha sussurato delle piccole cose.
Io e il mio Mare.
Quante lacrime ha visto?
Quanti segreti miei conosce?
Quante bestemmie ha sentito dalla mia bocca?
Ricordo solo che quest’ anno è stato il più compleanno della mia Vita, perchè alla mezzanotte eravamo solo io, Lui e le nostre conversazioni. Tre ore a parlare. Da soli, come due amanti possono fare. Il giorno dopo con gli amici e sguazzare sotto la Luna.
Io e il mio Mare.
Quanto prima devo andare a salutarlo.
Come si dice: prima o poi si ritorna da dove si è venuti, è quello è il posto dove io sono nato.
Mi manchi.

Arneo, la Maremma della Puglia

di Oreste Caroppo

LE LOTTE CONTADINE PER DISTRUGGERE IL PARADISO SELVAGGIO DELL’ARNEO, LA MAREMMA DELLA PUGLIA!
UN ERRORE STORICO GRAVE CUI SI DEVE RIMEDIARE OGGI CON L’ESTESA RINATURALIZZAZIONE-RIMBOSCHIMENTO DI ARNEO CON PIANTE AUTOCTONE!

Un errore storico, non l’occupazione delle terre per le esigenze di tutti contro lo strapotere dei baroni-latifondisti, ma la folle foga devastatrice degli ecosistemi forestali plurimillenari lì esistenti, fonti di prodotti alimentari e di un’economia intrecciata silvo-agro-pastorale, che andavano sfruttati ecosostenibilmente, ma che furono invece quasi del tutto cancellati a scapito poi di chi vi praticò, tra mille sacrifici, le monoculture dagli esiti a lungo termine più che mediocri! Un fallimento agronomico!

Sabato sera, 27 maggio 2012, a Lecce si è tenuto il virtuoso Festival della Dieta Med-Italiana, finalmente un festival di valore ambientalista vero a Lecce dopo la kermesse volgare e strumentale del Festival dell’ Energia tenutosi per tre anni a Lecce prima di essere cacciato via a calci e fischi dai salentini, poiché mirava palesemente, nel progetto dei suoi ideatori, a fare del Salento una desolata inquinata landa dove produrre energia da ogni fonte da esportare altrove!

Tra gli appuntamenti del Festival della Dieta Med-Italiana, un bel convegno sulle lotte contadine novecentesche di Arneo, l’area del Salento che si affaccia sull’arco ionico del Golfo di Taranto, da Gallipoli a Nardò fino a Manduria e oltre.

Ho avuto lì modo di ascoltare i racconti delle lotte contadine di Arneo per l’occupazione delle terre “incolte” anche dalla voce dei vivi protagonisti dell’

Io, clandestino, ho denunciato i miei sfruttatori

 Io, clandestino, ho denunciato i miei sfruttatori, fate come me

Andrea Gabellone*

ph Woodi Forlano

Mohammad, matematico pakistano, è fuggito dal Pakistan per evitare un matrimonio combinato. Ora sfida chi lo ha ingannato e lo ha fatto venire in Italia di nascosto, facendosi pagare 11 mila euro. Ha dovuto pagare per avere un contratto (fasullo) per aggirare la legge, ha trovato un lavoro (vero) ma con stipendi di fame. Ora ha deciso di denunciare tutto, per esasperazione e forse anche per dignità. E invita chi è nelle sue condizioni a fare lo stesso.

«Quel che accade attorno all’immigrazione, in Italia, è tutto un grande giro illegale di affari. Sono a disposizione della legge italiana per raccontare quello che ho vissuto: un sistema criminale che rovina la vita di migliaia di persone».

Quello di Muhammad Farooq, 28 anni, matematico pachistano,clandestino nel nostro paese, è un urlo disperato, ma fiero. Nonostante le minacce che pendono sulla sua incolumità e su quella della sua famiglia, è determinato a raccontare quello che gli è accaduto: «La mia vita, così com’è oggi, non va in nessuna direzione. Non ho paura né dei trafficanti né della polizia. Comunque, non potrebbe andare peggio di così. Denuncio questa situazione soprattutto per evitare che tante altre persone commettano gli errori che ho commesso io».

Quando Muhammad comincia a raccontare le sua storia, sembra di vivere un déjà vu. Le sue parole descrivono situazioni simili, anche nei dettagli apparentemente più insignificanti, a quelle di migliaia di altri migranti come lui. Se non si scappa da una guerra, si scappa dalla povertà. Quasi sempre, più che all’inseguimento di un sogno, alla ricerca di un benessere tanto evocato, quanto sconosciuto.

ph Woodi Forlano

Muhammad ci tiene a raccontare il suo viaggio verso l’Italia, perché quel viaggio ha cambiato per sempre la sua vita. Partire da Gujranwala – nella provincia del Punjab – per attraversare l’Iran,la Grecia e il Mar Adriatico gli è costato 11 mila euro. Il prezzo di una vacanza di lusso in crociera. Lui ha

Aiuta il Patriglione all’ottimismo, anche in momenti difficili

di Pino de Luca

Rimanere senza parole, per chi scrive, è una iattura di dimensioni ciclopiche. Ma vi sono eventi che lasciano sgomenti, increduli e annodano la gola, soffocano ogni verbo, disidratano ogni aggettivo e lasciano lo spazio solo a monosillabi disorganizzati e suoni gutturali da primordi della civiltà.

Quando la barbarie prende il sopravvento, quando la pietas viene obnubilata dalla ferocia, tanto peggiore quanto più è razionale, e giovani vite vengono spente per ragioni sempre bieche è difficile  trovare le parole giuste.

Poi pensi che le belve vogliono farti deviare, incuterti timore e affondarti nella tristezza dell’ignoranza, imprigionarti nella tenebra dell’ignoto.

E reagisci, con forza e decisione, e rincari la dose. Ebbene, oggi è il turno di una casa vinicola importante, di un pezzo di storia enologica. L’azienda Taurino di Guagnano fondata da Cosimo, troppo presto venuto a mancare. Nel mio percorso avrei voluto raccontarvi di una produzione di questa cantina che mi piace assai: il Cosimo Taurino, un blending di ottima fattura.

Ma, per una volta, concedetemi di mettere un carico da undici, di alzare la posta e di spendere le mie umili parole di fronte ad un gigante della enologia mondiale: il Patriglione. Di questo vino si è detta ogni cosa e ho poco da aggiungere. Le poche bottiglie che possiedo (non posso permettermene molte) le uso per grandi occasioni o le metto all’asta per beneficenza, una del 1995 è stata battuta qualche mese fa all’asta organizzata dal CCCP.

Ma questa è una grande occasione e l’ultimo 1995 rimasto ve lo racconto così: tiene bene il tappo ed emana odor di…vino. Nel calice scende fluido e il colore è impenetrabile e dall’unghia brillante. Niente riflessi d’ossidazione, lasciatoli li a prendere un po’ d’aria ti ricompensa con profumi suadenti di mora e di

Mia madre Lucia che amava le bambole

1972. Mia madre Lucia (1919-1994) al tempo in cui stavamo a Civita Castellana per la coltivazione del tabacco

 di Alfredo Romano

Mia madre aveva una passione smodata per le bambole, anche in tarda età non smetteva di circondarsi di bambole: vedevi bambole sul divano, sulla macchina da cucire, sul letto grande e sui lettini, sul piano della specchiera e della cucina e, quelle che erano di troppo, le teneva chiuse nell’armadio.

A parte la bambola del soggiorno di tutto punto vestita che aveva il marchio di fabbrica, le altre erano bambole particolari. Si dà il caso che quando mia madre s’imbatteva in manichini di bambole logorati dall’uso, ormai inservibili, lei li raccoglieva con somma pietà e se li portava a casa. S’intendeva di cucito mia madre e così, con i rimasugli di merletti, lane e panni vari colorati stipati in un cassetto del comò, in quattro e quattr’otto trasformava il manichino in una bambolina sorridente quasi sempre d’aspetto zingaresco. Talvolta poi, non disponendo della capigliatura, ricorreva a un berrettino di lana che poggiava sul capo della bambolina quasi la volesse riparare dal freddo.

Bambola nella casa di Collemeto. I vestiti di tutte le bambole, eccetto l’ultima in basso, sono stati confezionati da mia madre.

Ma questa smodata passione di mia madre per le bambole nascondeva una mancanza della quale non si fece mai una ragione. Dopo il matrimonio, i miei genitori dovettero aspettare dieci lunghi anni per l’arrivo di un figlio e il primo a venire al mondo fui io. C’era tanta neve quella notte e mio padre Giovannino,

Dove osavano le aguglie

La baia di Uluzzo sulla costa di Nardò

di Massimo Vaglio

L’aguglia, è un pesce che in genere non gode, gastronomicamente parlando, d’univoca considerazione, ma in alcune località rivierasche è tenuta in alta, e a mio modesto avviso giustificata, considerazione.

Nella marina di Nardò, in particolare, era praticata, ed è tuttora praticata da qualche nostalgico, una forma di pesca tradizionale, utilizzando “lu kuenzu ti l’àcure”, un caratteristico pàlamito a vela appellato anche “kalòma” in altri distretti meridionali.

Per praticare questa pesca si doveva essere profondi conoscitori delle poste, dei venti e delle correnti, pena l’infausta perdita dell’attrezzo che era costato, denaro, e diverse giornate di certosino lavoro. Questa, più che una forma di pesca, era un rito che iniziava con l’armatura dell’attrezzo cui ognuno apportava personali quanto segrete modifiche. Era un rito pure la ricerca dell’esca, che doveva essere costituita da latterini freschissimi e preferibilmente dalla specie appellata “trenula longula” o “gentile”, che generalmente veniva pescata torpedinandola a suon di “trunetti”, ossia con delle piccole bombe, confezionate con tritolo e spoletta, pratica, inutile dirlo, particolarmente pericolosa e vietata.

Il periodo in cui si esercitava questa pesca andava dalla Madonna del Carmine, 16 luglio, a San Martino, 11 novembre. Il via lo dava Zambo, un personaggio piccolo, tarchiato, nero e con dei tratti somatici simili a quelli dei negritos che animano i fumetti di Corto Maltese. Costui, si dedicava per mestiere a questa pesca e appena compariva davanti ai leoni della chiesa del Carmine con le prime reste d’aguglie infilate con il giunco, la stagione di pesca era ufficialmente aperta.

Il teatro di quest’attività, che veniva praticata  quasi esclusivamente dagli scogli, andava dalla Reggia, nella marina di Galatone, che costituiva il limite meridionale, alla Forca, nei pressi di Torre Castiglione, che segnava quello settentrionale.

Santa Maria al Bagno – Nardò

In questo tratto di costa, lungo una trentina di chilometri, esistevano qualche decina di poste, che altro non erano che dei tratti di scogliera non troppo alti da cui si aveva un affaccio diretto sul mare profondo. Le poste più ambite erano quelle di “Nsirragghia” che ospitava la mitica “Posta Mancina”, quelle di “Paritone”, nei pressi di Torre Squillace, meglio nota come “Torre ti Scianuri”, e quelle comprese tra Torre Lapillo e Torre Castiglione, fra cui le famigerate “Poste ti lu Bumbinu”.

I pescatori raggiungevano questi luoghi come meglio potevano, a bordo di cicli, lambrette ed auto che spesso rimanevano in panne lungo i dissestati tratturi: con la coppa dell’olio spaccata, qualche balestra fuori uso o perché si impantanavano.

Ogni pescatore aveva le sue poste preferite che sceglieva  a seconda della direzione da cui spirava il vento. Ognuno inoltre aveva le sue fisime sulle modalità di armamento del pàlamito. Vi erano a proposito diverse scuole di pensiero e tra i vari caposcuola risaltavano due personaggi veramente creativi: Uccio Tondo, poeta e cantastorie popolare con la passione delle aguglie e Memmo Romanello, personaggio eclettico quanto originale, già sottoufficiale di marina, reduce del naufragio di Capo Matapan, orologiaio e apicoltore, ma che esprimeva il meglio di sé nel praticare tutte le forme di pesca sportiva allora conosciute, anche se non  apprezzava  particolarmente alcun piatto di pesce all’infuori, appunto, della “pastina cu lu sucu di àcure” da cui, la predilezione per questa pesca.

Gli attrezzi, erano anche un po’ fonte di vanità, per cui dovevano ben figurare già quando si trovavano nelle ceste ben raccolti in spire. Particolare cura era tributata anche nella preparazione della vela, che era confezionata generalmente in sgargiante tessuto da fodera rosso. Il più bel palamito che io abbia mai visto lo aveva confezionato un vecchio lupo di mare per mio zio Dino che ne perdeva almeno due all’anno: era in cordoncino viola sottilissimo con dei sugheri piccoli e perfettamente sagomati a sezione ottagonale. Lo ricordo benissimo, anche se è passato quasi mezzo secolo, perché contrastava in modo impressionante con quello di mio padre che aveva il trave costituito da una dozzinale treccia di nylon da imballaggio ed i galleggianti costituiti da normali turaccioli di sughero interi, ma che, pur non rispondendo allo standard codificato di nessuna referenziata “scuola”, pescò, nella sua lunga carriera, migliaia d’aguglie.

Di questa gloriosa pesca, ora resta solo il ricordo di grandi spacconate e piccole diatribe tra pescatori, in oziose giornate trascorse in compagnia di sparuti “salinieri”* e “pitanti di mare”**, ultimi rappresentanti di una specie in via d’estinzione, l’uomo libero.

*contrabbandieri di sale                                                                                

**poverissimi pescatori a piedi.

 

 

ZUCCHERO E ZERO

di Armando Polito

Chi crede che il titolo si riferisca agli pseudonimi, rispettivamente,  dei cantanti Adelmo Fornaciari e Renato Fiacchini può tranquillamente dedicarsi alla lettura di qualche altro post; ai più giovani per i quali gli artisti appena citati appaiono come dinosauri di difficile identificazione dico che la lettura del post, comunque, non presenta controindicazioni,  neppure se hanno qualche problema col diabete o con la matematica e non solo con quella, come constateranno con lo… zuccherino finale che ho preparato per loro.

La prima parola del titolo di oggi è emblematica di certe scelte più o meno razionali che la lingua opera. Dico più o meno razionali perché a monte di quelle scelte ci sarà stato pure un motivo, anche se non sempre è agevole ricostruire il percorso evolutivo.

Intanto non guasta ricordare che l’estrazione dello zucchero dalla barbabietola risale alla metà del XVIII secolo e che l’unico zucchero prima esistente era quello estratto dalla canna: originaria dell’India, fu  poi esportata alla fine del VI secolo a. C. dai Persiani che ne estesero la coltivazione nel Medio Oriente, opera completata dagli Arabi con coinvolgimento della Spagna (nell’VIII secolo) e della Sicilia (nel X secolo).

Le prime importazioni dello zucchero da canna in Europa avvennero ad opera di Genovesi  e Veneziani a partire dall’XI secolo e agli inizi del secolo XIII Federico II di Svevia reintrodusse, dopo che gli Arabi ve l’avevano portata, come abbiamo visto,  per la prima volta,  la coltivazione della pianta in Sicilia. Lo zucchero estratto, costosissimo, era utilizzato per la preparazione di farmaci e come dolcificante solo da qualche Paperon dei Paperoni dell’epoca. Con la scoperta dell’America la canna da zucchero fu portata dagli Spagnoli a Cuba e nel Messico, dai Portoghesi in Brasile, dagli Inglesi e dai Francesi nelle Antille, territori che ancora oggi detengono il record di produzione. Poiché lo zucchero americano era di qualità migliore e a basso costo (leggi schiavi; ma, non ci avevano detto che la delocalizzazione era figlia della globalizzazione?) le coltivazioni spagnole e italiane vennero abbandonate e l’importazione da quei paesi dello zucchero ne determinò la diffusione e il connesso calo di prezzo (economia di scala, ben nota agli economisti fin dal XVIII secolo).

Se la sostanza può derivare dalla canna o dalla barbabietola, zucchero per tutti è dall’arabo sukkar, ma questo, per le pur succinte notizie storiche date, è certamente di origine indiana (in pali sakkhara), come i greci sànchari  (Arriano, II secolo d. C.; ma vedi nella nota 4) sàncharis  e sàncharon (Dioscoride, I secolo d. C.)1 e i latini sàccharon (evidente trascrizione del greco sàncharon) e sàccharum (Plinio, I secolo d. C.).

Proprio Plinio nel capitolo 17 del libro XII della Naturalis historia così scrive: Saccharon et Arabia fert, sed laudatius India: est autem mel in arundinibus collectum, gummium modo candidum dentibus fragile, amplissimum nucis avellanae magnitudine, ad medicinae tantum usum (Lo zucchero nasce anche in Arabia ma è di gran lunga più pregiato in India: è miele colto nelle canne, candido come gomma, che si rompe con i denti; quello più grosso ha le dimensioni di una noce e si usa solo in medicina).

Questo miele raccolto nelle canne può alludere alla prima fase dell’estrazione dello zucchero  o la canna non è affatto quella che poi sarebbe stata classificata come Saccharum officinarum L. ?  Si tratta di una vexata quaestio che ha impegnato gli studiosi già in passato senza giungere a risultati certi. Così se il botanico tedesco Kurt Sprengel (XVIII-XIX secolo), ricalcando il Salmasio (XVII secolo),  identificava il sàccharon pliniano nella Bambusa arundinacea2, una varietà di bambù che dalle giunture dei nodi secerne una specie di miele, altri autori3, basandosi su una diversa interpretazione non solo di Plinio ma anche di altre fonti sia greche che latine4, credevano di riconoscervi proprio la canna da zucchero.

A parere mio ha ragione Sprengel, ma il lettore sarà libero di farsi la sua opinione tenendo conto delle fonti  che ho citato nel testo e nelle note.

La forma dialettale neretina è vicinissima all’arabo sukkar così come lo era la forma italiana obsoleta zuccaro. Il primo esempio, letterario, risale al XIV secolo ed è il verso finale del sonetto 37 delle Rime di Malatesta Malatesti: la vita fele e zuccaro la morte. Tuttavia risale allo stesso periodo la forma zucchero, presente, per esempio, passim, nel Viaggio in Terrasanta di Leonardo Frescobaldi.  È solo nella seconda metà del XIX secolo che zucchero prenderà il sopravvento, tant’è che il Leopardi nel verso 27 del componimento CXCVI della Crestomazia italiana così scrive: Silvio lo zuccaro infonde, e destro appresta.  Dopo il sobbalzo provocato nel lettore dal verso in questione, subito rientrato per considerazioni di ordine cronologico (ma a volte ritornano…), ecco una testimonianza non letteraria di qualche secolo prima. Così scrive il medico bolognese Baldassarre Pisanelli a pag. 148 del suo Trattato della natura dei cibi e del bere, Bonibelli, Venezia, 1596: Il Zuccaro si chiama mele di canna, perché si cava dalle canne di mele, e per esser buono: conviene ch’egli sia ben cotto, sodo, e bianchissimo, come è quello che volgarmente da Medici è detto Tabarzet. Egli tira al caldo, ma non quanto fa il Mele, e non è anco tanto astersivo, e però più diletta allo stomaco, al polmone, et al petto, ch’il Mele, in tutte le vivande è gratissimo, Eccetto che nella Trippa, perché postovi sopra la fa puzzare, come sterco di Buoi fatto di fresco, Mollifica la gola, et il petto, come anco fa quel Zuccaro, che si chiama Candita, che la raucedine.

Se qualche ragazzo ha preso quattro al tema di italiano (si usa ancora?…) per aver scritto il zùfolo o il zampino e simili  non ha che da esibire al titolare della materia il Zuccaro e quel Zuccaro presenti nel testo appena riportato. Se ciò non bastasse, come giustizia reclama, ad elevare il voto da quattro a sei, esibisca il leopardiano E intanto riede alla sua parca mensa,/fischiando, il zappatoree rivendichi il diritto di usare l’articolo che gli pare, dal momento che il buon Giacomo, come s’è visto, nelle mani di Silvio aveva messo lo zuccaro. A questo punto può succedere (non saprei dire quanto grande sia la probabilità…) che l’insegnante sottolinei come il Leopardi si sia concesso quella licenza per motivi metrici, altrimenti  avremmo avuto un ottonario invece del settenario. Il ragazzo, però, può replicare dicendo che questo non vale per lo zuccaro di Silvio e, per la prosa,  nemmeno per Alessandro Manzoni che in Sopra una staffilata dl Monti ai Romantici scriveva: …non m’importa un zero di scena o non di scena…e in una lettera del 14 settembre 1806 indirizzata a Giovan Battista Pagani:…non voglio essere il zimbello di nessuno, e massime d’un libraio… e, ma gli esempi potrebbero continuare pure con altri autori, nella redazione del 1827 dei Promessi sposi (cap. XIV): …tanto che egli divenne il zimbello della brigataccia (in quella definitiva: tanto che divenne lo zimbello della brigata…).

Il voto, ridimensionato,  non supera il sei? Niente paura! Una capatina nell’aula di informatica, un salto all’indirizzo http://books.google.it/books?id=RJIoKBLCwl0C&pg=PA143&dq=il+zappatore&hl=it&sa=X&ei=Wbu_T67rLafV4QSn8L21CQ&ved=0CGUQ6AEwBw#v=onepage&q=il%20zappatore&f=false

e, senza tergiversare, spiattellare all’insegnante la pagina 123 di Giovanni Tolu , opera di Enrico Costa, Zedda, Cagliari, 2007, ove si legge: Fatti alcuni passi udimmo abbaiare un cane, che comparve sulla porta della casa, distante una trentina di passi dal cancello. Quasi subito venne fuori un zappatore, il quale, dopo aver imposto al cane di tacere, guardò verso di noi e si fermò con senso di sgomento. In un attimo sbucarono dalla casa sette carabinieri, che si schierarono sul piazzale, come per meglio esaminarci. Il zappatore, certamente, aveva pronunciato il nome di Cambilargiu.

Questa volta per l’insegnante non c’è scampo e non può arrampicarsi sugli specchi parlando di licenza magari indotta dalla presenza di quei sette (manco due!) carabinieri, peraltro in servizio…

Ecco come un elaborato, sia pure in modo sofferto, può spiccare il volo dai bassifondi della mediocrità alle vette dell’eccellenza.  Il bello è che la cosa può essere sfruttata strategicamente (anche se una sola volta…ma l’effetto benefico può durare a lungo) pure con l’insegnante di matematica: basta proferire nel bel mezzo di un’interrogazione il nesso il zero, ascoltare in rispettoso silenzio la scandalizzata reazione del docente, altrettanto pacatamente invitarlo ad un abboccamento chiarificatore della questione con il collega di italiano… e la cosa è fatta. Nella circostanza come prova aggiuntiva e specifica converrà esibire: I primi versi però non mi piacciono un zero (Vincenzo Monti, Epistolario, Lettera a Clementino Vanetti del  20 maggio 1780) e di Galileo Galilei, tratti dal Dialogo sopra i due massimi sistemi (1632): …cominciando dall’unità, anzi dal zero; …il minimo grado sia il zero; …mille rispetto all’infinità è come un zero

Basta ed avanza per essere accusato di corrompere i giovani, nonché, dopo l’ultima sparata sulle prove INVALSI, di essere un bieco sobillatore, ma sfido chiunque a dimostrarmi che esiste sistema didatticamente più efficace della scenetta appena terminata. Tuttavia, siccome non voglio fare, modestamente, la fine di Socrate, passo ad altro, anche perché nel frattempo alla defezione dei lettori  interessati ad Adelmo Fornaciari  si sarà appena aggiunta quella degli ammiratori di Renato Fiacchini;  e, come al solito, mi rifugio nel sarcasmo (altro che patto…) generazionale (non sembra, eppure è una forma d’amore…): quando nacqui io per tenermi buono mi ficcavano in bocca la pupatella (voce di origine napoletana, diminutivo di pupa), un aggeggio a forma di bambola ottenuto mettendo un pò di zucchero al centro di una pezza di cotone che poi veniva chiusa ai quattro lati e la parte apicale contenente lo zucchero (la testa della bambola) veniva separata dal resto passando attorno un numero adeguato di giri di filo di cotone. Poi venne il ciuccio (ho il sospetto che alcuni siano stati progettati nella galleria del vento…) e il suo matrimonio con lo zucchero divenne opzionale, ora probabilmente sta per essere lanciato sul mercato qualche aggeggio elettronico che risparmierà al neonato la fatica di succhiare e che, eventualmente, assolverà in modo virtuale pure ad una funzione dolcificante del secreto salivale.

Sì, ma anche se lo zucchero del ciuccio tradizionale nel frattempo dovesse avere un effetto lassativo molto spinto,  non sarà, forse, mai il bambino5 di quel distico che ai miei tempi  accompagnava l’evento: Bbambinièddhu zzuccaràtu/sentu puzza: cce, t’ha ccacatu? e neppure quello, terreno e celeste nello stesso tempo,  di  A nnatu (È nato) dell’album Mamminieddhu zzuccaratu (1994) del Canzoniere grecanico salentino ; per capirlo sarà sufficiente l’ascolto all’indirizzo

http://canzonieregrecanicosalentino.net/index.php?option=com_content&view=category&layout=blog&id=37&Itemid=54&lang=it

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­­­­­­­1 De materia medica, II, 104: (traduco dal testo dell’edizione Operum medicorum Graecorum quae exstant, v. XXV, curata da C. G. Khün, C, Cnobloch, Lipsia, 1829, pag. 231): Si chiama pure zucchero (sàncharon) una specie senza dubbio di miele che solidifica in India e nell’Arabia felice, trovato nella canne, simile alla struttura del sale e che come il sale si sbriciola sotto i denti . Facilita lo svuotamento dell’intestino, favorisce la digestione diluito con acqua e bevuto. Giova in casi di cistite e ai reni, spalmato elimina pure gli offuscamenti delle pupille.

2 Historia rei herbariae, A spese della taverna dei libri e delle arti, Amsterdam, 1807, v. I, pagg. 170 e 256.

3 Vossio (XVI-XVII secolo), Mattioli (XVI secolo), Mundella (XVI secolo) ed altri.

4 Per le latine:

Lucio Anneo Seneca (I secolo d. C.), Epistulae morales ad Lucilium, 84: Aiunt inveniri apud Indos mel in harundinum foliis, quod aut ros illius caeli, aut ipsius harundinis humor dulcis et pinguior gignat Dicono che presso gli Indiani si trova miele sulle foglie delle canne, generato o dalla rugiada dell’aria o dalla linfa dolce e grassa della stessa canna); Marco Anneo Lucano (I secolo d. C.), Pharsalia, III, 237: Quique bibunt tenera dulces ab harundine succos (E quelli che bevono dolci succhi dalla tenera canna); Caio Giulio Solino (III secolo d. C.), Collectanea rerum memorabilium, LII: Quae palustria sunt arundinem creant ita crassam ut fissis internodiis lembi vice vectitet navigantes. E radicibus eius exprimitur humor dulcis ad melleam suavitatem (Questi luoghi palustri fanno crescere una canna così rigogliosa  che un internodo spaccato a metà è in grado di trasportare dei naviganti a mo’ di barca. Dalle sue radici si estrae un succo dolce che ha la gradevolezza del miele); Isidoro di Siviglia (VI-VII secolo d. C.), Etymologiae, XVII, 7: In Indicis stagnis nasci harundines calamique dicuntur, ex quorum radicibus expressum suavissimum sucum bibunt; unde et Varro ait: Indica non magna in arbore crescit harundo;/illius et lentis premitur radicibus humor,/dulcia cui nequeant suco contendere mella (Dicono che negli stagni dell’India nascono specie di canne e che ne bevono il succo estratto dalle sue radici, per cui anche Varrone dice: La canna indiana non raggiunge grandi dimensioni e dalle sue flessibili radici viene spremuto un succo con il quale non possono competere i dolci mieli).

Per le greche:

Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Geographia, XV: (Nearco) intorno alle canne (in India) riferì che producono miele senza che ci siano le api.

Nel Periplo del mar Rosso, attribuito dubitativamente a Lucio Flavio Arriano (II secolo d. C.) tra i prodotti portati dall’interno ai mercati sulla costa è citato anche il meli to kalàminon legòmenon sànchari, alla lettera miele di canna detto zucchero.

5 L’associazione metaforica del bambino con lo zucchero è frequente nella tradizione popolare meridionale. Valga per tutti il siciliano O Bamminu bamminieddu,/siti duci e siti bieddhu; chidda notti chi nascistivu,/oh chi friddu chi sintistivu!/La mammuzza v’allunà, San Giuseppi vi ‘nfascià (Giuseppe Pitré, Canti popolari siciliani, Pedone-Lauriel, Palermo, 1871, v. II, pag. 14), presente anche con varianti irrilevanti in area calabrese.

Divi oltre ogni pudore

di Elio Ria

spettacolo

Ormai si eccede in tutto: nell’informazione, con le parole, le interviste, reportage. Tutto deve essere amplificato per fare rumore e scandalo. I giornali in alcuni giorni sono illeggibili, infastidiscono il lettore, propinano notizie non per informare – come è giusto fare – , no… solo per innalzare o abbassare l’indice di gradimento di personaggi dello sport e della televisione.

Una commedia dentro la commedia: tutti attori di un palcoscenico costruito sulla vanità. Il buon senso, l’educazione, il garbo e il rispetto lasciano il passo alla volgarità e alla violenza.

Le redazioni giornalistiche godono nel dare risalto alle malefatte del personaggio di turno che si è distinto per una “bravata” o qualcosa di più grave, svilendo e annullando la funzione informativa del giornale. Si avverte in molti casi l’emulazione del peggio in costante ascesa nella scala dei valori. Ancora, vi è l’accanimento verso taluni personaggi e notizie, tralasciando le cose “buone”: non fanno notizia. E allora non c’è da stupirsi se la maglia buttata a terra da Balotelli in occasione della partita Inter – Barcellona (20 aprile 2010), diventa un romanzo a puntate da seguire con morbosa attenzione. L’irascibilità del ragazzo, la sua arroganza appassiona il mondo sportivo. Il suo urlare “sono il numero uno” dovrebbe indurre  alla riflessione, ponendo fine all’esagerata sindrome del divismo. Sì, divismo, considerato che oggi per diventare divo ed entrare nel mondo mediatico per essere osannato  ci vuole poco: urlare, tenere comportamenti demenziali e gesti fuori dall’ordinario e oplà: ecco un nuovo astro da far apparire all’isola dei famosi, grande fratello, porta a porta, amici, talk show.

Il palcoscenico, quello vero, è vuoto. Attende protagonisti seri e qualificati, possibilmente.

Letterati salentini/ Fra Serafino dalle Grottaglie (1623 – 1689)

S. Francesco d’Assisi. Mattonella maiolicata policroma del sec. XVII. Francavilla Fontana, chiesa della Croce

LETTERATI SALENTINI

 

FRA SERAFINO DALLE GROTTAGLIE

 Donato Antonio D’Alessandro (1623 – 1689)

di Rosario Quaranta

Tra i tanti letterati salentini che affollarono il Seicento letterario un posto merita anche Fra Serafino dalle Grottaglie, figura autorevolmente riproposta anni fa da Mario Marti nel volume sugli Scrittori Salentini di Pietà fra Cinque e Settecento (Galatina 1992), ma che ha trovato attenzione anche in altri studiosi e critici come Francesco Zerella, Francesco Tateo, Benigno Perrone.

Per Marti si tratta di un autore interessante sul versante  puramente lette­rario. Egli, originario di un centro di tutto rispetto quanto a tradizioni cultu­rali e religiose (si pensi almeno al poeta Giuseppe Battista, al teologo del Concilio Tridentino Anto­nio Marinaro, al canonista Giacomo Pignatelli, a S. Francesco de Geronimo), riuscì ad acquisire una preparazione umanistico-filosofico-teologica di primo piano, tale da imporlo all’attenzione di molti e da consentirgli una versatilità di interessi te­stimoniata da una abbon­dante produzione lettera­ria: poesia epica e melo­drammatica, esegesi bi­blica, moralistica e poli­tica.

Uno scrittore che, secondo  quanto scrive Marti, «può es­sere (anzi dovrebbe es­sere) recuperato alla storia letteraria nazionale in gra­zia dei tre più grossi impe­gni, giunti salvi fino a noi: il poema del Mondo re­dento, i Lamenti sacri e scritturali, e infine L’idea della vera e buona politica togata e militare apparsa in prima  redazione  (1680, Mollo, a Cosenza) col titolo di Lettere scritturali, con le postille politiche». Opera, quest’ultima, che ha tratto qualcuno in inganno, inducendo a considerare Donato Antonio  D’Alessandro un politologo del Seicento; in realtà si deve ricondurre anche  questa esperienza in una dimen­sione puramente letteraria «laddove ogni cosa è messa in versi e tutto gronda letteratura»; una tensione letteraria piegata, però, al fine moralistico ed edificatorio, in sintonia pe­raltro con l’atmosfera controriformistica   all’in­temo della quale Fra Se­rafino si distingue per l’in­sistenza sul dolore con­naturato all’umana specie e sulla passione e morte del Redentore che Marti definisce in maniera appropriata «passiocentrismo».

Ma chi era Fra Serafino dalle Grottaglie?  Donato Antonio D’Alessandro (così egli si chiamava al secolo) nacque appunto a Grottaglie il 17 settembre 1623 da Cataldo e da Isabella Quaranta. Fu battezzato lo stesso giorno da D. Marcantonio Scardino essendo padrini D. Claudio Antoglietta e Chiara Marangiulo.

Spinto probabilmente dal conterraneo P. Ludovico La Grotta anch’egli francescano ri­formato (che insieme con Giuseppe Battista, aveva curato la sua prima formazione culturale) entrò nel 1641 tra i  frati Minori Osservanti Riformati compiendo il noviziato nel convento di Seclì. Fu poi guardiano più

Due insoliti termini salentini: ‘ntrasciulàti e ‘ntraccatùti

di Armando Polito

A volte le parole dialettali riaffiorano dai meandri della memoria con tutti i rischi connessi, specialmente quando, come me, si ha una certa età…

Da mia madre ho sentito spesso il nesso del titolo, ma mai in tanti anni, stranamente, ho avuto la curiosità di approfondirne l’etimologia. Poi, qualche minuto fa, qualche bizzarra (ma fino ad un certo punto, per quello che dirò…) sinapsi me lo ha fatto ricordare e ne parlo anche perché sarei grato se qualche lettore me ne confermasse l’esistenza,

Il suo significato è inequivocabile, indicando uno stato fisico molto, ma molto precario. La definizione mi aiuta notevolmente nel tentativo di individuare l’etimo di quelli che appaiono come due participi passati in funzione aggettivale, altrimenti sarei stato costretto ad affermare che certo è solo quello della congiunzione… e il lettore interessato a questi temi avrebbe avuto tutto il diritto di sbottare: -E mi scomodi per tutto questo?-

Potrei supporre  che ‘ntrasciulàtu significhi alla lettera affetto da antrace o carbonchio, che, come tutti sanno, è un’infezione acuta (non curata  è per lo più mortale) provocata da un batterio. Antrace è dal greco àntrax che significa carbone; infatti la malattia procura lesioni cutanee di colore nero.  Lo conferma il sinonimo carbonchio, dal latino carbùnculu(m), diminutivo di carbo/carbonis=carbone. Un dettaglio fonetico, però, suscita in me qualche perplessità sulla quale tornerò dopo.

‘Ntraccatùtu credo che derivi per epentesi di –r– (indotta dallo stesso fonema della voce precedente) da un precedente ‘ntaccatùtu, a sua volta da ‘ntaccàtu (alla lettera intaccato)  ma rimodellato con un ulteriore suffisso forse per influsso di ‘nsaccarùtu=arso di sete.

Non sarei corretto, però, se non motivassi la parziale bizzarria della sinapsi interessata. In realtà stavo pensando alle voci dialettali che potrebbero essere usate per definire la nostra precaria situazione attuale, purtroppo non solo economica e così, amara consolazione, ho preso due piccioni con una fava perché il tutto mi ha consentito anche di pensare ad affetti materialmente perduti ormai da parecchi anni.

Tornando al carbonchio: il “pericolo di contagio in zona euro” è una litania quotidiana ma la cosa più grave è che la nostra salvezza dovrebbe, chissà perché, stare nelle stesse mani degli “untori”. È come se si pretendesse di curare la tubercolosi iniettando nel malato una bella dose di streptococchi (nel loro pieno vigore, non attenuati… nella speranza che il povero sistema immunitario faccia la sua parte).

Ma c’è un’altra frase imperante che chi conosce le figure retoriche chiamerebbe ossimoro (in poesia non ha mai fatto danni, anzi…): “coniugare il rigore con la crescita”. Sarebbe come pretendere di accoppiare con successo un elefante con una topolina, tant’è che il risultato è un’espressione cara, questa volta, alla sinistra: “macelleria sociale”.

Lascio immaginare, a chi ha avuto fin qui la pazienza di seguirmi,  chi sarebbe, fuor di metafora, la topolina…

Purtroppo anche nel caso che le mie etimologie fossero discutibili o addirittura errate, poco, anzi nulla, cambierebbe in concreto del nostro stato. Lo dico chiarendo la perplessità fonetica di cui parlavo all’inizio e il lettore si prepari ad una raffica di condizionali.

La difficoltà di spiegare il passaggio –ce– di antrace in –sc– di ‘ntrasciulatu (in cui –ul– potrebbe essere giustificato da un diminutivo antràculum, quasi un gemellaggio con carbonchio da carbùnculum) potrebbe indurre a pensare che le due voci in questione siano state mediate dal mondo contadino. E se per ‘ntraccatùtu viene in mente l’aratura, per ‘ntrasciulàtu potrebbe essere tirata in ballo l’erpicatura. Tràgula chiamavano i latini un tipo di giavellotto, ma la voce è usata da Varrone Reatino (I secolo a. C.) proprio col significato di erpice. Non c’è da meravigliarsene, tenendo conto che tragos (voce di origine greca ad indicare più di una specie vegetale) è in Plinio il nome di una pianta spinosa e tràgula può esserne comodamente il diminutivo; basta guardare l’erpice antico in basso riprodotto (non a caso  nel dialetto neretino l’attrezzo, alle origini costituito proprio da un insieme di rami spinosi tenuti insieme e aderenti al terreno da una pietra piatta sovrapposta,  si chiama tràgghia).

E il pensiero va a quando, ragazzino, assistevo alla pulizia del camino operata da mio padre e mia madre. L’uno saliva sulla terrazza e dal comignolo calava una corda al cui punto mediano l’altra, sotto la cappa, legava una pianta di spinarùta (ginestra spinosa, Calycotome spinosa L.);  poi entrambi con una decina di saliscendi ripulivano dalla fuliggine la canna fumaria. Oggi gli spazzacamini sembrano tanti astronauti e la spinaruta è stata sostituita da aggeggi ipertecnologici sulla cui efficacia nutro più di un dubbio…

Pongo fine a questo attacco di senile nostalgia e riprendo il discorso. Da tràgula si può essere formato il verbo *tragulàre, dal cui participio passato [*tragulàtu(m)] con prostesi della preposizione in (*intragulàtu) e successiva aferesi (‘ntragulàtu), attraverso un intermedio *‘ntrajulàtu si è arrivati finalmente a ‘ntrasciulàtu, come a sciùmbu (=gobbo) si è giunti da un latino gibbus attraverso un intermedio *jumbus.

Qualcuno dirà: -Meglio l’erpicatura del carbonchio!-.  Sì, ma quella operata sulla terra dopo l’aratura produrrà i suoi frutti; sarà così anche per l’aratura ed erpicatura che stiamo subendo noi e, a quanto pare, non solo noi?…

* Mi ha detto che queste crocchette mi devono bastare per tutta la giornata, ma con gli altri si vanta dicendo che, siccome ho appena un anno, dovrò ancora crescere!!! 


 

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