Interazione gazze-agricoltura nel territorio del Salento leccese
di Oreste Caroppo
Non si inizi una nuova crociata contro gli innocenti! E mi spiego. Vada bene per i monitoraggi e la quantificazione agronomica degli eventuali danni all’agricoltura dovuti alle Gazze, ma prima di avventarsi in cacce, contro questi poveri bellissimi ed intelligenti corvidi, protetti dalla Convenzione Internazionale di Berna, in interventi drastici di diminuzione della popolazione con soluzioni chimiche, magari volte a ridurne la fertilità e con l’eliminazione fisica delle gazze stesse, fermiamoci a riflettere un attimo. L’eventuale aumento della popolazione di gazze nel Salento, (da verificare con eventuali studi avifaunistici scientifici accurati, come lei giustamente suggerisce), non rappresenterebbe che l’effetto di uno squilibrio dell’ecosistema, di cui le gazze non sono certo colpevoli! Il colpevole sarebbe solo e soltanto l’uomo, che ha alterato nel tempo, ed in maniera più
Mentre tornava a casa quella notte e i semafori avevano appena iniziato a lampeggiare e gli veniva istintivamente voglia di invadere l’altra corsia e di buttare le cartacce dal finestrino, pensava che qui da noi, dopo la mezzanotte, si avverte come un senso di sbrago, di impunità, quasi come una più accentuata libertà di fare quello che di giorno non è permesso; al tempo stesso, però, mentre abbassava un poco il volume dell’autoradio, pensava che, chi fa le ore piccole fra queste contrade, si sente un po’ un disertore e gira come un ladro o un cane bastonato, con la paura di venire da un momento all’altro braccato; perché queste strade, per qualche ragione che non sapeva spiegare, ma che doveva avere a che fare con i sensi di colpa, sicuramente, con un complesso di inadeguatezza, con la sua scarsa coerenza o con qualcosa di rimosso, è come se appartenessero a chi di mattina va a lavorare; dunque, quella di sentirsene padrone di notte, sapeva, è solo un’illusione, una sensazione passeggera, perché si sa che quella sbornia terminerà inevitabilmente nell’arco di poche ore e dunque si tratta di un’appropriazione indebita, di contrabbando, ed anche la notte, si finisce con il sentirla clandestina, come clandestino è il cuore segreto di chi la vive… dunque, pensava, nel volgere delle brevi ore notturne, a quell’esaltazione di cose proibite, a quella brama di inconfessata turpitudine che eccita a fondo chi una morale non ce l’ha; e incrociando gli altri fari delle auto di fronte, anime perse che andavano a fondo, come lui, e come lui, forse, piccoli vascelli alla deriva nel buio dell’anima, sentiva di provare una sorta di umana compassione, di solidarietà fra consimili o, addirittura, di affinità, con chi gira di notte, con i vagabondi, i senza patria, i derelitti, gli impostori, con tutti quelli insomma che hanno un qualche tiramento, una pena; pensava alla sua famiglia, una moglie e due figli che dormivano insieme nel lettone, poiché lui era autoconfinato nel lettino di una delle due camerette, e nella scala dei valori, si chiedeva, quale posto doveva aver sempre dato ai propri piaceri, sicuramente un posto molto in alto, se si trovava una volta di più a ritornare a casa alle 4 di mattina e a non avere nemmeno voglia di rientrare ancora… c’era qualcosa, come un sommovimento dell’anima, un bagliore all’angolo della strada, come un riflesso incondizionato, un desiderio inconfessato, come un tempo sfibrato, ma legato ancora a riti e miti ormai obsoleti, passati, scaduti, sfilacciati, come di un’era in dissoluzione, c’era qualcosa, insomma, nella contemplazione del primo chiarore aurorale, che lo spingeva a fermarsi qualche minuto in più in macchina, per fissare su un foglietto alcuni versi che una improvvisa ispirazione gli stava dettando; ed era dolce, ogni volta che succedeva, farsi trasportare dalla corrente di quel fiume in piena che erano le sue idee che diventavano poesia, le sue liriche che prendevano corpo… dolce e amaro al tempo stesso, come questa terra, che doveva amare davvero tanto, tanto da odiarla, se non era andato via quando ancora era in tempo, quando davvero avrebbe potuto fare carriera su al settentrione e non c’era ancora una famiglia, ed era tutto da costruire… però lui aveva sempre creduto nella magia del sud, nell’incanto di questi posti che lo avevano visto nascere e crescere, anche se la sua, più che inconfessata nostalgia di ciò che è vicino, o melanconia, era stata pigrizia trista e controproducente, una forma di indolenza di fronte alle cose, un mal di vivere sottile che da sempre si portava dentro, e si era perciò come lasciato andare agli eventi, travolgere dalla forza vorticosa di una spirale che lo scuoteva, nell’abbraccio fatale di una terra che, allora ancora non immaginava, gli avrebbe succhiato via il sangue, con tutta l’energia, con la passione, il coraggio, l’entusiasmo, la voglia, gli avrebbe preso tutto quello che era la sua giovinezza, rendendogli in cambio uno straccio di vita, senza più aspirazioni, senza velleità, senza quelle piccole cose che aiutano a colmare il vuoto immenso che ci circonda…
Pensava che, nella dimensione dilatata, un poco ovattata della notte, l’ispirazione deve avere a che fare con la puzza di zolfo, con qualche cosa di demoniaco, come il patto di Faust con il diavolo, come le lettere di fuoco trovate nella cabina interna dell’armadio, come con l’albero degli impiccati, con i passi lenti e zoppicanti sul pavimento della veranda, come il volto senza nome che ti guarda con occhi incandescenti nell’oscurità, come lo spettro della tua cattiva coscienza che ti segue fino alla porta di casa e non ti molla nemmeno quando sei entrato, nemmeno quando sei ormai a letto, ma continua a soffocare il tuo petto, a tormentare il tuo sonno.
Quand’era giovanissimo, prima di questa movida esasperata, i locali di notte bisognava davvero saperli cercare, tanto erano poco numerosi, e se suo padre non gli avesse ripetuto fino alla nausea che di notte girano solo i delinquenti e le troie, forse, non avrebbe avuto ora, dentro, quella sensazione di proibito, quella voglia di trasgressione, ora la notte non sarebbe stata per lui l’ultima giostra ancora accesa, l’ultimo domicilio conosciuto, come l’ultima spiaggia dove si danza ancora fra le dune in una vertigine di tentazioni e perversioni. In effetti, nonostante il tempo trascorso da allora, il progresso, l’emancipazione femminile e la liberazione dei costumi, era convinto che questo posto continuasse a non esser fatto per la notte… e come gli assassini, i capobanda, i truffatori e i puttanieri sanno che hanno poco tempo per i loro sporchi giochi, anche lui, quando tornava molto tardi, continuava a sentirsi come un pipistrello; e quella notte non faceva la differenza, perché qualcosa gli diceva che queste strade appartengono a quei bravi cristiani, dai quali era continuamente circondato di giorno, che si alzano la mattina presto per andare a lavorare, come mediamente faceva anche lui, salvo prendersi, poi, delle pause salutari di anomalia, che erano come degli strappi, delle lacerazioni rispetto a quella finta normalità in cui viveva ogni giorno. E così, si mise a scrivere, in macchina, come l’ultimo tributo ad una notte goduta a pieno…
L’alba ormai dilagava, erano le 6, e aveva lasciato la macchina nel garage per rientrare in casa con passi felpati come un ladro… sarebbe accaduto il finimondo, se sua moglie si fosse svegliata e accorta dell’orario… erano in contrasto su tutto, con la moglie, ma non era quello il momento per le solite sterili e inconcludenti discussioni…
Il garage era diviso da casa dalla strada e, nell’attraversare, ancora preso dalle sue elucubrazioni, non si avvide del camion della spazzatura che passava ad una certa velocità e che lo travolse. Il trambusto, nel silenzio della prima mattina, fu forte e svegliò tutto il vicinato. E lui, come se nel libro dei deliri avesse sfogliato l’ultima delle pagine della notte, come una distrazione di luce in un tutto unico compatto buio, come se il camion della spazzatura fosse un bastimento carico di novità tutto illuminato nel selciato mare della notte, che venisse a prenderlo per trasportarlo in qualche terra di sogno non ancora esplorata, mai ancora immaginata, si lasciò andare, sentendo tutta l’energia vitale che abbandonava il suo corpo… l’ultimo pensiero fu per i suoi figlie e sua moglie… poi, non sentì più niente.
Si svegliò a distanza di alcuni giorni in un letto d’ospedale, circondato dai suoi cari, con una gamba amputata e diverse costole rotte, tuttavia vivo, ed anche fortunato, a detta dei medici, per come era andata, perché un impatto così violento avrebbe potuto anche ucciderlo. Lui, inutile dirlo, non era affatto d’accordo con i medici ed i suoi famigliari, anzi sapeva che avrebbe preso a maledire quella “fortuna” molto presto. Passarono le settimane, il Salento d’estate iniziava a brulicare di feste e sagre, a riempirsi all’inverosimile dei turisti che invadono le nostre coste ed anche le città interne, attratti da quella sorta di febbre che da anni ormai imperversa in tutta Italia.
Nelle lunghe sere di degenza, solo e immobile nel suo letto d’ospedale, pensò spesso a come coniugare la parola muta, lo strazio, la pena, al cuore dei vent’anni, quegli amari tetri pomeriggi dell’autunnale festa con il bagaglio di voci, di ricordi, canzoni, con i barbagli di luce che dallo specchio del piccolo laghetto dell’ospedale si riflettevano sulle sue finestre… guardava la torre dell’orologio della chiesetta di fronte scomparire nel buio della sera e pensava alla fretta distratta dei corrieri e ai suoi colleghi di lavoro che a quell’ora stavano ritornando nelle loro case, e che, come lui tutte le sere in cui era tornato a casa, sconvolto e amareggiato da un lavoro che non gli era mai piaciuto, lasciavano passare indifferenti, inascoltato, dimenticato, quel treno che, sbuffando, ancora sferragliava alla stazione, ancora deragliava sui binari morti dei ricordi…
Pensava a come declinare l’invito della vita che fuori da quel luogo di sofferenza ancora gridava e chiedeva la propria parte e tante volte lo aveva chiamato alla festa dei sensi… come analizzare il periodo complesso delle ansie disattese, dei falliti sogni, con la grammatica degli abbandoni, dei corpi deviati in volo, delle sfere rotanti, della giostra della memoria… come farsi una ragione di quel tempo così triste, ancora più cupo che lo attendeva… E poi pensò a versi nati male o mai nati, agli amori dispari, amori sbagliati di una stagione andata, alle sere d’estate accompagnate da una musica leggera, come le leggere parole di quando non si ha ancora l’amarezza della triste rinuncia, di attesa e di speranza, di quei sussulti che spettinano i pensieri già disordinati… a versi riusciti bene e ad amori pari, a desideri che si tendono fino allo spasimo come degli elastici… poi ai sogni d’oro dei suoi bambini, alle nuvolette disegnate sui loro cuscini e al minimo soffio di vento che le disperde nella sera… A tutto questo pensava, mentre la notte, l’ennesima notte, calava sulla città madida di sudore di un giorno di caldo giugno afoso… Poi non pensò più niente, fece solo uno sforzo sovrumano per alzarsi dal letto e raggiungere la finestra, staccarsi i fili che lo imprigionavano come la tela di un ragno e sentire quell’aria fresca che finalmente portava un poco di sollievo in quella stanza di dolore.
Il suo letto era vuoto quando, la mattina dopo, l’infermiera entrò nella sua stanza… lui era cinque piani più in basso, che stringeva nella mano una lettera sulla quale c’erano scritte poche parole: “vi amo”, e seguivano i nomi dei suoi due figli e della moglie, “ma sono troppo stanco, perdonatemi se potete…”
È una delle mie tante società, ormai, non registrate, non quotate in borsa e, stranamente, non aventi sede in qualche paradiso fiscale. Non ho la minima intenzione di mettermi in regola, anzi dichiaro pubblicamente fin da ora che, se le autorità competenti, nell’ambito dell’intensificazione della lotta all’evasione fiscale, dovessero prendere i dovuti provvedimenti a mio carico, anche nel caso (tutt’altro che improbabile…) di condanna (mia… e del mio socio Nerino) all’ergastolo, continuerò imperterrito a sfornare (in pratica impunibile, perché 1 ergastolo+1 ergastolo solo in matematica dà 2 ergastoli…) in carcere società di questo tipo, fino alla fine dei miei giorni.
In attesa che tutto ciò avvenga da un momento all’altro, invito il lettore a leggere cosa offre la società (la mia e anche quella di tutti…) di oggi.
Tra gli strumenti “educativi” del tempo che fu, insieme con lubattipanni, laugghìna1 e la curèscia (correggia, cinghia dei pantaloni sempre, purtroppo, a portata di mano … del padre, mentre la madre tentava di sottrargliela) c’era lu ìnchiu, cioè un pollone, solitamente d’olivo2 che, opportunamente usato (opportunamente si riferisce, almeno si spera, al nesso di causualità insubordinazione>pena, non certo al possesso di un titolo di studio, all’epoca poi…, necessario per utilizzarlo adeguatamente), lasciava sulla schiena, ma preferibilmente sulle gambe, parte solitamente scoperta soprattutto in estate, del malcapitato (chi faceva parte di una famiglia cittadina era favorito, perché allora gli olivi crescevano in campagna, oggi manco in quella…) i segni del suo passaggio, cioè degli arrossamenti chiamati, con un pizzico di enfasi che trovava riscontro nella realtà solo poche volte (il genitore, per quanto severo, non era un aguzzino, come oggi la cronaca ogni tanto registra…), issìche (vesciche).
Non è mia intenzione avventurarmi in analisi pedagogiche e sociologiche che non mi competono; guardo soltanto sconcertato, io che ho assaggiato, anche se poche volte, battipanni, ugghina e curèscia e ho punito i miei figli in altro modo (sì, con un esemplare modificato di vergine di Norimberga…), ad alcuni aspetti dell’educazione attuale improntata al tutto e subito, alla necessità sentita primaria di apparire e non di essere, alla rinunzia e al sacrificio come valori che onora solo chi non avrebbe (gli interessati usano l’indicativo…) capito come va la vita. Anche i furbi, però, a volte perdono la pazienza e ogni tanto si assiste a reazioni inconsulte dovute non al nesso di casualità azione>reazione di cui parlavo all’inizio ma proprio alla “strana novità” della stessa reazione che prima di allora mai si era manifestata. La cosa più triste, secondo me, ma paradossalmente salvifica, almeno in parte, alla distanza, è che la crisi attuale creerà una massa enorme di giovani disperati ai quali non resterà che autoeducarsi al sacrificio (per loro la vedo dura…) o delinquere o suicidarsi.
Tornando al nostro strumento di tortura (!), ìnchiu (c’è anche il diminutivo inchiùlu) corrisponde all’italiano vìnchio (o vinco), dal latino vìnculu(m)=legame, attraverso i passaggi: vìnculu(m)>vinclum (l’ultima forma, derivante dalla precedente con sincope di –u-, si alterna ad essa nell’uso del latino classico)>vìnchio. Ìnchiu ha subito in più la consueta (come in vìncere/incìre, venìre/inìre, etc. etc.) aferesi di v-. Direttamente da vìnculu(m) è derivato l’italiano vìncolo col suo significato metaforico, rispetto a vìnchio, che apparirà più chiaro fra poco.
Vìnculum deriva dal verbo vincìre=legare (da cui l’italiano avvìncere), a sua volta dalla radice vi– del verbo vière=piegare, legare, intrecciare, del quale esiste anche la forma incoativa vièscere=piegarsi sullo stelo, avvizzire. Il participio passato di vière è viètus e da questo secondo me deriva l’italiano vieto=vecchio, superato, malaticcio, avvizzito.
Mi ha sorpreso, perciò, leggere “dal latino vetu(m)=vecchio” nel Dizionario De Mauro, e “dal latino vetus=vecchio”, nel dizionario Treccani on line. Se non fosse stato per ìnchiu probabilmente non avrei mai avuto l’occasione di controllare l’etimo di vièto e non mi sarei accorto di queste due etimologie che, secondo me, sono fasulle. Comincio dalla prima dicendo subito che vetum in latino non esiste, nemmeno in quello medioevale (nel nostro caso, poi, mancando l’asterisco non è da intendersi neppure come voce ricostruita…). Passando alla seconda le cose, almeno inizialmente, sembrano migliorare, nel senso che vetus in latino esiste ed è un aggettivo ad una sola uscita (nominativo vetus, in autori arcaici veter, genitivo vèteris); di norma le parole si formano dall’accusativo maschile che nel nostro caso è vèterem che sopravvive nell’italiano vetero-, primo componente di alcune parole composte di formazione moderna. Ci saremmo aspettato, perciò, vètere/vètero, non vièto. Qualcuno potrebbe spiegare l’etimo della Treccani dicendo che la voce si è formata non dall’accusativo maschile (vèterem) ma da quello neutro (vetus). Sarebbe l’unica eccezione che io conosco, a parte meglio (da mèlius) e peggio (da pèius), rispettivamente per migliore e peggiore, nei quali, però è evidente il cambio di marca grammaticale (da avverbio ad aggettivo) di uso popolare. Appare invece di una linearità fonetica e semantica a prova di bomba, direi da manuale, far derivare vièto da viètus/a/um= che si piega, flaccido, cascante. E poi, se veramente vieto fosse derivato da vetus e di quest’ultimo vietus fosse stato una sorta di variante, Terenzio ci avrebbe lasciato (Eunuchus, 688): Hic est vetus, vietus, veternosus, senex, colore mustellino (costui è antiquato, flaccido, rimbambito, vecchio, con la carnagione del colore di una donnola)? E pure nel latino medioevale avremmo avuto viètum per il quale nel glossario del Du Cange, Favre, Niort, 1883, tomo VIII, pag. 325, al lemma relativo leggo: incurvum, inflexum; unde vietos vocaverunt ligna rotarum quae cantu ambiuntur (cosa curva, piegata; perciò chiamarono vieti i pezzi di legno delle ruote che sono uniti dal cerchione)?
La mia speranza è di suscitare qualche interesse in chi è appassionato di questioni del genere ma ancor più di provocare l’intervento di qualche addetto ai lavori che non dico senta il dovere, ma almeno abbia la bontà di degnarsi a precisare e correggere pubblicamente le mie scemenze, reali o presunte.
Probabilmente il rigore scientifico di questo spazio è ancora così basso che bisogna attendere tempi più propizi… eppure, in rete non è difficile imbattersi in siti nei quali l’acribia appare come una stranezza da alieni e incontrarvi il nome di accademici che “ci mettono la faccia”, probabilmente a loro insaputa…
Tornando per la seconda volta all’assunto principale va detto che alla stessa radice vi- di vière si collega vimen=vimine (secondo un processo di formazione con l’intervento di un infisso nasale come in lumen =luce da lucère=splendere, flumen=fiume da flùere (scorrere), semen=semeda sèrere=seminare, etc. etc.)3, ramo flessibile, paniere, dal cui aggettivo sostantivato (per ellissi di collis) viminalis è derivato il Viminale (chissà se, ripristinando le piantagioni di vimini e la relativa coltura, da affidare a tutti coloro che attualmente ci lavorano con retribuzioni, va detto, indegne…di un paese serio, le cose non migliorerebbero…). E alla radice vi– potrebbe connettersi pure vitis=vite (solo la pianta) da cui in italiano vite (la pianta e l’oggetto).
–Pi osce nd’ha bbinchiàti– mi sembra di sentir dire da più voci. La traduzione letterale sarebbe Per oggi ci hai saziato, locuzione che è l’elegante ed eufemistica variante di Per oggihai rotto abbastanza, in parole povere, anzi in una sola parola, Basta!
Credo però che, una volta imb(r)occata la strada del vizio, soprattutto se prima o poi si sa di poter e voler ritornare, conviene percorrerla fino in fondo. E io aiuterò il lettore, spendendo le parole finali proprio per bbinchiàre che nel dialetto neretino è usato nel duplice significato di saziare e di colpire.
Per il Rohlfs si tratta evidentemente di un’unica voce, poiché al lemma abbinchiàre leggo: “empire lo stomaco, saziare, rimpinzare; bbinchiare soddisfare, tempestare di colpi [identico all’italiano avvinchiare incrociato con il salentino nchiare=gonfiare].
Credo, invece, che bbinchiàre=colpire derivi dal latino ad+vinculàre=legare, incatenare (stessa etimologia di avvinchiare, variante meno usata di avvinghiare), a sua volta da vìnculum, ma che nella voce dialettale fa prevalere il significato di strumento con cui percuotere più che legare, in linea con il mezzo “educativo “ di cui, sempre all’inizio, ho parlato (trafila: *advinculàre>avvinculàre>abbinchiàre>bbinchiàre). E, visto che, come ho detto all’inizio, vincìre è connesso con vìnculum e da vincìre deriva l’italiano avvìncere non è difficile cogliere il rapporto formale e semantico tra avvìncere ed avvinghiare, tutti discendenti della radice vi-.
Bbinchiàre=saziare, invece, secondo me deriva da ad+(v)unchiàre (variante di nchiare citato dal Rohlfs) che è dal latino inflàre=gonfiare (trafila: *advunchiàre>*avvunchiàre>*vvunchiàre>*vvinchiàre>bbinchiàre).
Tutto ciò permette di evitare l’incrocio proposto dal Rohlfs, che oltre che nelle vie di comunicazione urbane ed extraurbane, è sempre pericoloso, forse proprio perché costituisce la soluzione più facile, pure sulla strada, già di per sé impervia, della filologia.
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2 Mi meraviglio che come giustificazione all’espianto di ulivi, secolari e non, nessun politico abbia addotto l’esigenza di evitare che prima o poi si corra il rischio che a qualche genitore venga la tentazione di punire il figlio per qualche marachella con l’antico strumento del vinco. Ma, forse, immaginare in un politico tanta, pur strumentale fantasia, è troppo…
Cantando di notte sulla strada verso i campi da spigolare
CANTANDO DI NOTTE SULLA STRADA VERSO I CAMPI DA SPIGOLARE
LU CARROFALU RUSSU
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
Chi non è stato mai su un’aia nel tempo delle messi non può sapere quanto costava raccogliere i frutti della terra: sudore, vento e pula facevano dell’aia nna pinitènzia ti Ddiu, dimensione che sembrava trascendere la concretezza del momento per elevarsi a essenza di oblazione e stabilire, in forma quasi liturgica il prezzo del pane. Il pane visto come morso di vita, frutto di un ancestrale rapporto fra il sacrificio dell’uomo e le forze benefiche della natura, e perciò invocato, amato e rispettato fin nella più piccola delle briciole.
L’uomo dell’oggi, l’uomo del benessere, che affogato nel superfluo non si fa scrupolo a buttarlo nei cassonetti delle immondizie, non può certo collocarne l’immagine nel magma rovente delle aie; e di conseguenza non può comprendere sino in fondo la gioia che dilagava nei cuori di fronte al ripetersi di quell’annuale miracolo, poiché colmarsi le mani di grano equivaleva a foderarsele di oro e sentirsi eletti della Provvidenza.
Mietere, trebbiare, ventilare, era un portare a compimento il parto della terra, e come in tutti i parti veniva a stabilirsi un bilancio fra travaglio di doglie e apoteosi della fertilità: ne nasceva un ‘atmosfera irripetibile, nel riverbero stimolante del sole che accelerava i ritmi del sangue in un pullulare di risvegli.
Le donne che andavano a spigolare non si sottraevano alla magia del momento, e anche il loro marciare antelucano verso i campi si compiva all’insegna di un fermento che le rendeva svelte nel passo. Le più giovani diventavano addirittura irrequiete, e sembravano tante capre sfuggite al vincastro del pastore: gli afrori estivi le avvolgevano in una cortina di indecifrabili provocazioni, lievitandole in sensazioni nuove, quasi che l’avvenuta maturazione dei frutti s’innescasse nel profondo del loro essere
Un minuscolo giardino, fra i tanti su cui si affacciano, nel retro, le bianche case d’abitazione del paesello, sparuto corredo di alberi da frutta, qualche cespuglio fiorito con prevalenza di rettangoli di gerani sparsi qua e là. Non c’è che dire, un infinitesimale scorcio del solatio universo mediterraneo, in chiave di comune, spartana naturalezza.
Sennonché, accedendo di buon’ora nel piccolo orto in questione, in una calda e bella giornata di luglio, è parso d’avvertire una sensazione strana, sconosciuta. E, del resto, non poteva essere altrimenti, giusto lì, aleggiava la presenza di un miracolo d’arte, sottoforma di maestosa scultura in pietra leccese raffigurante un Angelo, e però di verosimiglianza umana, terrena, svettante e longilineo, in piedi, eretto su un banalissimo bancale ligneo, di quelli che si usano come basamento per determinati trasporti.
Dell’opera, a parte la grandiosità dell’insieme, prima e soprattutto, colpisce immediatamente l’espressione di dolcezza che traspare dal volto, dallo sguardo, dagli occhi.
Angelo salvatore, a tutela del globo intero.
Miracolo nel miracolo, la realizzazione è frutto delle doti e del lavoro di un giovane artista di Marittima, il ventiquattrenne Danilo Arseni, studente dell’ultimo anno all’Accademia delle Belle Arti di Lecce, Sezione Scultura, nel 2009 segnalato da detta istituzione come migliore allievo alla Pro Loco di Vernole (Lecce), ai fini della rassegna – Premio Dell’Era – organizzata annualmente per festeggiare, valorizzare e premiare le diverse espressioni artistiche e, in tale ambito, giudicato meritevole di un riconoscimento.
Ragazzo in gamba, con i fondamenti ben piantati e la testa solida sulle spalle, una carica innata di estro, inventiva e talento, serio nello studio e nell’applicazione, e ciò senza estraniarsi dalla vita aderente alla sua età, amicizie, svaghi, sport.
In aggiunta alle soggettive qualità d’alto livello del protagonista, al quale si desidera sinceramente tributare lodi e manifestare ammirazione, nella specifica fattispecie, chi scrive è indotto a veder scorrere nella mente una sorta di sequenza storica di un estro, man mano perfezionatosi, che tocca e riguarda più generazioni dello stesso ceppo familiare.
Ad iniziare dalla bisnonna Maddalena, fornaia, la quale, in tempi ormai lontani, con le sue mani ruvide, forti, rugose, aduse a sforzi e fatiche, ha a lungo modellato friselle, pucce e forme di “panemoddhre”, nel forno pubblico del paese, per conto della generalità degli abitanti. Poi, il nonno Costantino, imbianchino, in gergo dialettale “llattature”, di fatto pittore, che, l’unico o quasi del mestiere a Marittima, ha abbellito, disegnato, colorato una moltitudine di povere ma dignitose abitazioni. Infine, il papà, Giuseppe Arseni, docente di scultura plastica al Liceo Artistico di Lecce, da più d’un decennio artefice della realizzazione della scena del presepe natalizio all’interno del gioiello del Barocco nel capoluogo salentino, ossia la Basilica di S. Croce.
Danilo Arseni è agli inizi del suo percorso d’artista, ma già pone in luce chiari segni di capacità e classe. La “scuola”, pubblica e di famiglia, fra le cui pareti è cresciuto e si è forgiato, gli farà verosimilmente da stimolo a proseguire con viepiù crescente entusiasmo e interesse e, v’è da credere, non mancheranno i buoni traguardi e i successi.
La scultura dell’Angelo nata nel giardino di Marittima (visione angelica, ama dire Danilo), che, sul seme dell’ideazione dell’artista, ha preso corpo materiale da un blocco di pietra leccese individuato e poi estratto in una cava del Salento, sulla scia del sopra accennato apprezzamento, sarà da domani esposta sul sagrato della chiesa della Visitazione nell’anzidetta cittadina di Vernole.
Oggi parliamo di “freddo”: tutta colpa del verbo latino “frigère”
Quel maledetto mio post sul caldo continua imperterrito a comparire tra gli articoli più letti. Per evitare che dal prossimo inverno e per i successivi analogo, immeritato destino abbia il fratello dedicato al freddo, ho deciso di partorirlo adesso, anche se i frutti fuori stagione, ormai, sembrano i più ricercati….
Oltretutto qualcuno potrebbe rimproverarmi di aver sfruttato l’appeal che questa parola per contrasto suscita proprio in questo periodo dell’anno che ha visto alternarsi Scipione, Caronte, Minosse & C. (non capisco perché i nomi femminili siano riservati solo ai tifoni e a nessuno è venuto in mente di chiamare Cleopatra almeno una delle ondate di caldo, visto che la regina d’Egitto riuscì ad incendiare personaggi importanti…).
-Non te ne saresti potuto stare buono buono e lasciar riposare il programma di videoscrittura?-
Sì, così avrei dato l’opportunità a qualche sado-masochista di soddisfare la sua perversione, nel senso che, magari mezzo lettore avrebbe volentieri prima o poi corso il rischio di soffrire con la lettura di un mio post sull’argomento dopo avermi rimproverato, godendo nella convinzione di mettermi in difficoltà, di non aver scritto nulla fino ad allora sul tema.
Partorisco, pardon, parto…
Freddo è dal latino frìgidu(m) attraverso la trafila frìgidu(m)>*frigdu(m) (sincope)>*friddu (assimilazione; e in dialetto neretino freddo è proprio friddu)>freddo. Da notare che per via diretta da frìgidu(m) è nato frigido.
E frigidaire, la voce francese che dal 1953 per alcuni decenni è prevalsa sul nostrano frigorifero [da frigori– che è dal latino frigòre(m)+fero, che è dal tema di ferre=portare], prima che frigo prendesse, almeno fino ad ora, il sopravvento? Frigidaire nasce come nome proprio commerciale di una marca di frigoriferi per uso domestico ed è dall’aggettivo latino neutro sostantivato frigidàriu(m), alla lettera cosa che serve a raffreddare . C’è da dire, però, che la voce compare nel significato di ghiacciaiaper cibi già in Lucilio (II secolo a. C.): mercemin frigidariaferre1=mettere la merce nelle ghiacciaie; e poi in quello di vaso di bronzo per l’acqua freddain Vitruvio2 (I secolo a. C.); come sostantivo frigidaria nel significato di stanza per il bagno freddo compare in Sidonio Apollinare (V secolo d. C.). In funzione aggettivale abbiamo: cellafrigidària3=stanza per il bagno freddo (Plinio il Giovane, I secolo d. C.); cisternafrigidaria4=cisterna per raffreddare (Petronio, I secolo d. C.).
Il genitore, però, di tutte le voci fin qui riportate è il verbo latino frigère=esser freddo, compresi frigor, nominativo del già citato frìgòre(m), e frigus (di genere neutro)5.
In latino esiste pure un quasi omofono: frìgere col significato di friggere. Non c’è nessun rapporto filologico tra i due (probabilmente quest’ultimo è di origine onomatopeica), anche se solo casualmente crea un aggancio semantico il fatto che frigus e frigor sono usati anche nel senso di febbre in Venanzio Fortunato (VI secolo d. C.): l’autore parla dei brividi di freddo come sintomo della febbre.
Un pensierino, invece, io ce lo avrei fatto su fresco fatto derivare dal germanico frisk. E se ci avesse messo, invece, lo zampino il latino frigùsculum attestato da Tertulliano (II-III secolo d. C.) col significato di un poco di freddo? È evidente come frigùsculum è diminutivo di frigus come opùsculum di opus, mùsculus di mus, etc. etc.; per passare da frigùsculum a fresco bastano, in fondo, una sincope ed un’apocope: frigùsculum>*frìsculum>*friscum>fresco.
Mi rendo conto che non è questa la stagione adatta, a parte la mia limitata competenza e ancor più limitata autorevolezza, per mettere in discussione un etimo consolidato, ragion per cui vado a rinfrescarmi il contenitore delle idee e tutto il resto con l’acqua gelida del pozzo. E poi me la prendo (se il doppio senso non è palese, fatemelo sapere) con i reumatismi…
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1 Saturae, VIII, 10 [VIII] δ (cito dall’edizione a cura di L. Mueller, Teubner, Lipsia, 1872, pag. 41).
2 De architectura, V, 10
3 Epistulae, II, 17 e V, 6.
4 Satyricon, LXXIII.
5 Frīgŏr e frīgŭs costituiscono una coppia interessante come hŏnŏr e hŏnōs che significano entrambi onore. La prima forma di entrambe le voci (frīgŏr e hŏnŏr) dev’essere la più recente perché mostra, rispetto alla seconda (frīgŭs e hŏnōs) l’avvenuto rotacismo. Da notare anche l’esito parallelo della quantità della vocale tematica: frīgŭs l’ha conservata nel genitivo frīgŏris (leggi frìgoris), frīgŏr no (frīgōris, leggi frigòris); hŏnōs l’ha conservata nel genitivo (hŏnōris, leggi honòris), hŏnŏr no (hŏnōris, leggi honòris).
Se pensiamo al successo, soprattutto economico, di maghi, indovini, fattucchiere e simili non deve far meraviglia che in tempi meno tecnologici e razionali dei nostri ci fossero anche nel Salento entità occulte ad uso degli adulti e dei bambini.
Inizio dal mondo degli adulti sui i quali il discorso è più breve, nel senso che, a parte le entità da loro consapevolmente inventate per i bambini, c’era il solo munacèddhu, spirito folletto delle credenze popolari, molto dispettoso, che sovente assumeva le sembianze di un piccolo monaco, ad alimentare, turbandole, le loro fantasie. Era un’entità, in fondo, benigna che si divertiva a fare piccoli dispetti, come nascondere gli oggetti o sedere sulla pancia del dormiente; con una facile ironia, che non mi sento di condividere completamente perché avulsa dalle pur necessarie considerazioni storico-ambientali (basti pensare che l’omologo napoletano munaciello assurse a dignità giuridica in un decreto emesso il 24 dicembre 1587 dal Conte di Miranda, all’epoca vicerè, per cui si stabiliva quanto segue: “Se avvenga che nella casa locata l’inquilino spinto da panico timore creda essere assalito de’ maligni spiriti che in Napoli chiamansi Monacelli, anche gli si permettesse di lasciarla senza essere tenuto a pagamento di mercede”1), qualcuno potrebbe parlare di folletto-arteriosclerosi nel primo caso, di folletto-digestione difficile nel secondo.
Passo ora ai bambini per i quali l’assortimento di spauracchi era più ampio. Comincio con il meno spaventoso, perché, almeno nell’ambiente salentino, realmente esistente: il mmammòne. Il termine, infatti, designa un parassita delle fave secche, nelle quali scava gallerie; esso corrisponde all’italiano mammone (dall’arabo maymun=scimmia, anche in funzione appositiva nella locuzione gatto mammone, mostro immaginario presente in certe fiabe in lingua) ed è figlio diretto della cultura contadina.
Le creature più spaventose, però, erano quelle immaginarie che, a differenza del mmammòne, erano in grado di divorare interamente un individuo, preferibilmente un bambino (l’ironico di prima parlerebbe di un naturale, maggior gradimento della carne tenera). Ecco, allora, il mau (secondo il Rohlfs deformazione di mago, ma secondo me non è da escludere che sia una voce infantile di origine onomatopeica; ancora oggi, infatti, nei giochi tra bambini la pronuncia cupa e prolungata della m dovrebbe servire, almeno nelle intenzioni, ad incutere terrore): era un mostro gigantesco, dalla voce cavernosa, antropofago.
Siccome probabilmente con qualche bambino particolarmente sveglio il mau non funzionava, venne inventato, per raddoppiamento, il mamàu, che, credo sulla parola, anzi sul suono, qualche effetto doveva farlo anche sui più ribelli. Ma anche in questo campo non mancava la concorrenza e alla pari col mamàu era quotato il nanniuèrcu, composto da nanni, variante di nonnu=nonno (usata solo, con suffisso dispregiativo, nella voce nannàscinu=antenato/uomo molto vecchio e nel nesso alli tièmpi ti lu nanni=ai tempi del nonno) e uèrcu che può derivare dal latino Orcus, dio dell’oltretomba, ma anche da orca, il cetaceo che già presso i Romani godeva fama di voracità ed antropofagia. Bastava (!?) l’espressione mo’ chiàmu lu nanniuèrcu ca ti màngia (=adesso chiamo il nonno orco che ti mangia) per far sì che i bambini ubbidissero o se ne stessero buoni.
E come dimenticare la manulonga (che inevitabilmente avrebbe ghermito il bambino che imprudentemente si fosse affacciato all’orlo di un pozzo e simili) che proprio per questa sua identità mutilata era, forse, la più misteriosa ed inquietante?
Tali sistemi educativi oggi fanno rabbrividire i moderni pedagoghi e psicologi (sarebbe, forse, più opportuno che ogni tanto aleggiasse sul loro volto, almeno su quello dei più attempati, un sorriso non di sprezzante ironia, ma di nostalgico affetto), però vale la pena ricordare che essi (i vecchi sistemi educativi) non hanno traumatizzato nessuno e che sono certo più dannosi quelli odierni basati su una forma di ricatto peggiore, cioè non più sull’assunto antico se non fai il buono perdi qualcosa che già hai (addirittura la vita, per colpa del nanniuèrcu), ma su quello moderno e consumistico se non ti comporti bene, non avrai quella cosa che tanto desideri (il motorino, la playstation, il telefonino nuovo, l’i pod).
Come si fa a spiegare ad un adolescente di oggi quanto fosse più poetica, intrigante, addirittura, forse, misteriosamente più educativa e formativa la figura dell’incombente nanniuèrcu di fronte a quella, tanto per citarne solo una, del freddo e metallico motorino, incombente pure lui in ogni pagina o spot pubblicitario e in ammiccante attesa in questa o in quella concessionaria? La considerazione più amara nasce dal fatto che oggi, paradossalmente, il mau, il mamàu e il nanniuèrcu non sono morti, anzi sono più vivi che mai, solo che hanno assunto sembianze insospettabilmente umane, entrando così in una dimensione più crudele ed innaturale, insomma sono diventati il campione della peggiore umanità, quella dei sadici, degli incestuosi, dei pedofili, peggio ancora se padri o addirittura nonni; e alla manu longa che in passato esercitava il suo ipotetico potere sui bambini imprudenti è subentrata, nelle forme più disparate e impensabili (tv e pubblicità per citarne solo due) , la longamanus che subdolamente manipola le nostre esistenze.
La realtà, purtroppo, ha superato ancora una volta, e in peggio, la fantasia. Quanto al mmammòne che, come ho detto era il meno cattivo o pericoloso, ha fatto la solita fine dei buoni, cioè è scomparso da tempo non solo come spauracchio ma ha i giorni contati pure come parassita, di fronte a veleni sempre più potenti ed ai miracoli (?) della transgenetica. Proprio il contrario di quello che succedeva nelle care, vecchie fiabe!
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1 Gregorio Grimaldi, Istoria delle leggi e magistrati del Regno di Napoli, De Simone, Napoli, 1771, tomo IX pag. 4.
Antonio Errico ha fatto bene: una guida ad uso dei viandanti della Ferrovia Sud-Est
Qualche giorno fa in questo stesso sito ho scritto sulle Ferrovie Sud-Est, proponendole tra le righe come il vettore unico con cui il viandante può vagare in questa terra estrema, possibilità per vagabondare oltre l’ordinario, nei sentieri di quell’altrove che è oltre il Salento per turisti ma anche oltre l’abbandono, oltre la lentezza scandita dal tempo che pur distilla, nel mezzo di quell’essere che giace pulsando nelle pietre, negli ulivi dell’entroterra, nelle cose cadute in disuso come questa via ferrata. A quanti sanno abitare questa dimensione molto più a Sud dell’esistenza ordinaria, locali o stranieri che rifiutano la sintassi del comune gergo turistico, voglio proporre questa volta una guida del proprio errare. Come infatti ogni buon turista si accompagna con la sua agile guida, così il viandante si può incamminare con un segnavia che lo sappia condurre nel suo viaggio senza mete in Terra d’Otranto. Questo segnavia non può che essere Secoli fra gli ulivi di Fernando Manno, un libro che quando uscì la prima volta, oltre cinquant’anni fa, era già e per sempre fuori dal tempo come scrive giustamente Antonio Errico nella sua perfetta introduzione alla ristampa del testo, riedito nel 2007 da Manni. Fuori dal tempo; non vi è modo migliore per alludere al senso complessivo delle pagine di un’opera “intrappolata in una condizione di memoria senza futuro”[1]. Antonio Errico ha ben colto meglio di chiunque altro questa condizione, costui del resto non è stato un semplice curatore di questa opera nel corso della sua recente riedizione ma molto di più, divenendo a parer mio in qualche modo anche lui parte del libro, non solo perché lo ha amato profondamente, come si comprende dalla sua introduzione, ma anche perché a questo libro appartiene una parte della sua esistenza che ogni tanto si riaffaccia, magari a distanza di decenni misurati col tempo ordinario: “Per vent’anni non ho più ripreso in mano Secoli fra gli ulivi. Accade con i libri quello che a volte – spesso – accade con le persone, con gli amici, con le creature alle quali in qualche modo siamo appartenuti o che ci sono appartenute […] Ma quando ci si ritrova – se ci si ritrova – basta un istante soltanto per riconoscersi, per annullare tutto il tempo passato, per ritornare da dove si è partiti […]”[2].
Il libro a lui, ad Antonio Errico, un po’ appartiene dunque, è parte della vita di quel ragazzo che nella primavera del ‘79, ancora studente , folgorato da un incontro casuale con il testo acquistato in un mercatino e letto in quindici ore – lo immagino ogni tanto quel ragazzo, in quelle quindici ore di febbrile vagare, lo immagino e provo una profonda istintiva simpatia per lui – decise in quindici minuti di farne argomento della sua tesi, agendo in un modo che sembrava avventato e insensato agli occhi di quanti gli andavano ripetendo “che te ne fai di una tesi su un libro sconosciuto di un autore sconosciuto”[3].
Ha fatto bene quel ragazzo, ha fatto bene il giovane Antonio Errico a non dare ascolto a quei consigli, pur comprensibili nei ricami delle logiche dell’ordinario, ha fatto bene a dedicare i suoi studi ad un libro che fu il primo e l’ultimo del suo autore.
Non vi parlerò del libro di Manno in sé, rinviando i lettori, in coerenza con quanto detto, alla felicissima penna di Errico e alla sua inarrivabile introduzione al testo. Sarebbe davvero pleonastico, credetemi, se non addirittura immorale proporre qui un surrogato di cosa già detta altrove molto meglio peraltro di quanto potrebbe fare il sottoscritto. Leggete l’introduzione di Errico e avrete tutto quanto vi occorre per comprendere il valore del libro e del suo immenso quanto sconosciuto autore. Mi dedicherò qui piuttosto, per quanto mi concerne, a suggerire questo lavoro come il segnavia per il viandante delle Sud-Est, come l’unica “guida” che sappia far volgere e indirizzare lo sguardo di coloro che intendono vagare per le vie ferrate e pietrose nell’altrove salentino, una dimensione che essendo fuori dal tempo non è mai mutata.
Scrive a tal proposito Errico alla fine della sua introduzione: “È cambiato molto in questi anni. Quasi tutto. Com’è normale che sia. È rimasto soltanto il Salento di questo libro, perché non esistendo, non essendo mai esistito, non poteva essere soggetto a nessuna trasformazione. Il Salento di Secoli fra gli ulivi è una pura invenzione. Un’ombra della memoria. Il souvenir di una fantasia. Il paese di una fiaba. La figurazione di una nostalgia. L’apparizione per un incantesimo. Il rammarico per una mancanza. Il rimpianto per un’assenza. Una regressione al fondo dell’infanzia. L’ipotesi di un’origine. La rappresentazione di una mitologia interiore. Una recherche du temps perdu”[4].
Soltanto un ponte dunque, ad uso dei viandanti, mi limiterò qui a gettare oltre le condivisibili e meravigliose parole di Errico, soltanto questo vorrei suggerire d’ulteriore: le vie ferrate della Sud-Est offrono la possibilità di raggiungere quell’ombra di memoria, quella pura invenzione che è nelle pagine del libro di Manno, poiché queste vie sono costituite della stessa materia di quella fantasia, sono l’anello di congiunzione tra quel Salento dell’immaginario e quello del reale, segnando con i loro tracciati i confini tra un Salento ordinario, che muta, ed un Salento dell’altrove, immutabile. Due dimensioni che trovano in ogni piccola stazione deserta il loro critico anello di congiunzione, quasi si fosse di fronte all’incomprensibile e sfuggente legame tra la materia e lo spirito di questa terra, all’incontro tra la sua extra-ordinaria anima e le sue ordinarie membra. La Littorina che corre lungo le vie ferrate a Sud-Est è il mezzo per vagare nel medesimo Salento di Secoli fra gli ulivi e le pagine di Secoli fra gli ulivi sono il segnavia unico e perfetto per chi con quel treno intende e sa smarrirsi. Ogni pagina del libro, voltandola, lascia il medesimo agrodolce sapore che il vano passaggio della Littorina trascina dietro di sé tra i caselli abbandonati; ogni ostinata ripartenza del trenino, allo stesso modo, lascia una scia che invita a perdersi in quel sapore dell’altrove di secoli da sempre sospesi tra distese di ulivi e mai trascorsi, un invito ad abbandonarsi in quel “tempo dell’anima, sognante e indefinito” che il Manno voleva stringere con il suo libro, scritto “per dire l’incantesimo della fissità che pervade l’aria, per dire che il mutare dei tempi con cambia il sangue”. Buon viaggio viandanti!
[1] A. Errico, Introduzione a F. Manno, Secoli fra gli ulivi, Manni Editore, San Cesario di Lecce 2007, p 13
“Menomale, menomale che la stampa, quella che parla troppo, non ha parlato di noi, dice papà Tarlo a mamma Tarlo” nell’angolo loro d’un tavolino di legno d’olivo “menomale che possiamo stare ancora tranquilli almeno noi in questi tempi di magra”. Si riaddormentano i Tarli nobili di Casa Comi, mentre la campanella, a Lucugnano, alle sei suona prima tre tocchi e poi, in cadenza cinque e poi sette e attende che si svegli l’orologio e sono le sei e un quarto e anche l’orologio si sveglia; di notte, a Lucugnano, anche l’orologio dorme e si riposa.
Lo sveglia tocco di campana, canto di galline nei giardini, voci di contadini che già ritornano dai campi con la verdura fresca; così riprende un altro giorno e questa è un’altra storia di una notizia sfuggita dal segreto, di Tarli un po’ poeti, di un prato all’inglese e di un caffè.
E anche di quattro chiacchiere al bar Comi, naturalmente; ché esiste già un bar Comi accanto al palazzo suo; un caffè e la notizia della giornata; e il cielo benedica sempre la stampa, quella, oggi fa rimbalzare la notizia anche quella di un “fazzoletto, piccolissima porzione d’un giardino chiuso sino ad ora trascurato e dimenticato da tutti, logisticamente separato da palazzo Comi”. E come fai a dimenticarlo? Se lo chiedono i cittadini di Lucugnano intorno al caffè, è là, sotto gli occhi di tutti, ci passi decine di volte al giorno, che è quasi un obbligo se si vuole andare in chiesa, comprare sigarette e giornali, fare la spesa, sedersi in piazza, è lì e non può essere dimenticato; qualcuno, a turno, da volontario, l’ha sempre coccolato ed ora c’è Cesario, c’era prima Fernando. Già Fernando; “ora se ne è andato in pensione”, ti dicono. Era lui l’anima del giardino; quello che ne curava ferite, coccolava e carezzava piante e s’è disperato perché vedeva morire le palme e gli sembrava di tradire memoria del barone che scendeva dalle scale di casa sua e lo sentiva subito il primo sbocciare d’una rosa; questo tu pensi e intanto si legge insieme che quel “fazzoletto” si descrive lontano e diviso e invece è proprio legato, comunicante da tutti gli angoli e da tutte le porte alla Casa Comi, basta scendere scale per ritrovarsi giù, tra le piante.
“E mo pacenzia”… il giardino tanto quanto, dice la voce, é dentro che sta morendo “sta casa” e tanto quanto significa che proprio non è che stia tanto male il giardino e invece… ma il caffè è finito e il sole avanza e suda anche lui, il barone sul suo piedistallo e chissà che pensa, chissà se pensa. E la giornata
Leuca luogo dell’anima e del ritorno. Leuca come le colonne d’Ercole
in questi umili luoghi dove termini, Italia, in poca rissa
d’acque ai piedi d’un faro.
È qui che i salentini dopo morti
fanno ritorno col cappello in
testa”
(Finibusterrae, V. Bodini)
Il luogo dell’anima e del ritorno. Così descriveva Leuca il poeta Vittorio Bodini nella sua “Finibusterrae”. Dal greco leucos, che è bianco ma anche fantasmagorica visione, riprendendo una nota leggenda, secondo la quale se non ci si reca a Leuca da vivi, bisognerà tornarci da morti, prima di salire in cielo. Passaggio verso l’infinito. Una sorta di porta per il Paradiso.
E non può definirsi che paradisiaca la visione dell’alba a Leuca con il sole che si leva dall’Adriatico, così al tramonto quando il disco solare si inabissa lentamente nelle acque dello Jonio.
Qui dove la terrà è sospesa tra il cielo e l’antico Mare nostrum, verso il quale si protende questo lembo d’Italia, il panorama toglie il respiro, azzera il pensiero ed entra per sempre negli occhi…
Leuca è luce, la luce abbagliante che sembra aver ispiratola Metafisica a Giorgio De Chirico, è terra, pietra che corre verso il mare frastagliandosi in mille insenature che da millenni si lasciano scalfire dalle acque facendosi porto per naufraghi e pellegrini.
Ci sono luoghi che entrano dentro. Nell’anima. Che fanno vibrare il cuore come le corde di uno Stradivari e la musica è l’incantevole preludio di un sogno. Un sogno bianco come le scogliere di Leuca, della sua Marina tempestata di grotte misteriose e di atavici approdi.
Qui trovò riparo Enea, scrisse il poeta Virgilio, nel terzo libro dell’Eneide: “Dalla marina d’Oriente un seno/ curvasi in arco, e contro ai massi opposti / delle rupi, le salse onde spumose/ s’infrangono. Celato ad ogni vista/ si spazia il porto interior; di cui/ dall’un fianco e dall’altro un doppio muro/ si protende di scogli, e dentro terra/
Seicento in Terra d’Otranto: oppressione fiscale, gabelle, violenze; privilegi e immunità ecclesiastica
350 ANNI FA L’ASSASSINIO DELL’ARCIPRETE DI GROTTAGLIE FRANCESCO ANTONIO CARAGLIO
(22 MAGGIO 1662)
TRA PREPOTENZE E VIOLENZE BARONALI,
SCOMUNICHE E DIFESA DELLE IMMUNITÀ ECCLESIASTICHE
di Rosario Quaranta
Il 24 maggio 1662, davanti al Capitolo della Collegiata di Grottaglie riunito in una atmosfera plumbea, D. Niccolò Antonio Angiulli, “procuratore dei morti”, leggeva con comprensibile dolore e tristezza una lettera pervenuta dal Vicario Generale di Taranto che annunciava: essendosi inteso con particolare disgusto l’assassinamento fatto da vilissimi et empii figli d’iniquità in persona dell’Arciprete di cotesta Terra delle Grottaglie nella Terra di Francavilla diocesi d’Oria, Mons. Arcivescovo con il suo solito zelo pastorale non tralasciando oprare quanto sarà necessario e li viene imposto da’ sacri canoni per il castigo di sì enorme delitto; vuole intanto che le SS. VV. per trenta giorni festivi nel Choro genuflessi prima della Messa conventuale recitino ad alta voce l’acclusi salmi et oratione contro quelli sacrileghi. Onde lo notifico alle SS. VV. e li bacio le mani. Taranto li 23 maggio 1662. Delle Signorie Vostre affetionatissimomo servitore Abate Ottaviano de Raho.
Era la mesta notizia dell’omicidio perpetrato nella persona dell’arciprete. Il testo della missiva, scarno e laconico, nascondeva una somma di gravissime tensioni, culminate tragicamente, tra la chiesa grottagliese e gli amministratori (curia baronale e governo cittadino).
L’uccisione di un ecclesiastico, per quanto esecranda, non era un caso unico, né sporadico, in quel tempo di prepotenze e di tirannia. La nostra mente correrà senza dubbio alla descrizione manzoniana del degrado politico-giudiziario nella Lombardia del secolo XVII; dalle nostre parti la situazione non fu migliore. Basti pensare che qualche anno prima, nel 1656 sempre a Grottaglie, ci fu un analogo delitto contro l’arciprete di Faggiano.
Era da decenni che in Terra d’Otranto, come in tutte le altre province del Viceregno, l’autorità del potere centrale e la giustizia dello Stato non riusciva a far sentire la propria voce contro lo strapotere dei feudatari locali.
Si leggano in proposito le illuminanti pagine scritte da Rosario Villari nel suo “La rivolta antispagnola a Napoli” e si scoprirà, ad esempio, fino a che punto giungesse la tracotanza del Conte di Conversano che fece uccidere non solo il Sindaco, ma anche massacrare i preti nella cattedrale di Nardò. Gli stessi responsabili della giustizia ammettono l’impotenza: In questa Provincia (di
“Fate fogli di poesia, poeti, vendeteli per poche lire!”.
Quella di Antonio Verri è una figura centrale nel panorama della cultura salentina degli ultimi anni. Personaggio eclettico, brillante ed attivissimo sul fronte della promozione culturale, animatore instancabile di varie iniziative, voce dissonante, personaggio “contro”, per usare una espressione forse abusata, poiché Verri non era “contro”, ma, se mai, “ a favore” della cultura e della rinascita salentina, attraverso la poesia, la scrittura, l’arte in genere.
Era nato a Caprarica di Lecce, nel 1949, e fin da giovanissimo aveva manifestato un grande amore per la sua terra ed al tempo stesso una certa insofferenza per la cultura accademica, per i circoli asfittici di quegli intellettuali aristocratici che intendono la cultura come “elitaria”, riservata a pochi eletti.Verri odiava quella immagine quasi macchiettistica che si dava del Salento con i suoi riti, usi e costumi, che da folklorici diventano folkloristici, ed odiava quella operazione di marketing con cui si voleva e si vuole vendere il nostro Salento ai turisti, con poca anima e poca attenzione alla nostra storia ed identità vere. Egli non accettava che la letteratura diventasse anch’essa merce di scambio, sottoposta alle regole della domanda e dell’offerta, alla legge del profitto, insomma. Per questo si diede da fare, autofinanziandosi, con iniziative che potevano sembrare folli, ma che folli non erano. Stampò da solo i suoi primi volumi e fece dei volantini con le sue poesie, senza nessun tornaconto economico ma, anzi, rimettendoci, come purtroppo assai spesso, oggi, accade a chi voglia fare promozione culturale nel Salento.
Antonio Verri fu poeta, giornalista, romanziere ed editore. Molto forte il suo legame con Parabita, anche e soprattutto grazie all’amicizia con Aldo D’Antico, il quale, con la sua casa editrice “Il Laboratorio”, pubblicò, nel 1988, I trofei della città di Guisnes, e più volte ebbe Verri ospite a casa sua o alle varie manifestazioni culturali parabitane organizzate dallo stesso D’Antico.
Verri spendeva tutto se stesso nelle iniziative in cui credeva e, purtroppo, un tragico incidente stradale lo ha prematuramente portato via. Ebbe l’idea di distribuire, in numerose città italiane, un “Quotidiano dei Poeti”, che durò solo quindici giorni, e, vera rarità bibliografica, fece distribuire delle cartelle di cartone, chiuse solo dallo spago, in parte diverse l’una dall’altra, contenenti fogli di poeti, pittori, giornalisti, fotografi, musicisti.
Fondò e diresse riviste, come “Caffè greco”, “Pensionante dè Saraceni”, che divenne anche un centro di cultura ed una casa editrice, e collaborò con la rivista “Sud Puglia”. Diresse la rivista “On Board” e aderì al Movimento Genetico di Francesco Saverio Dodaro, una delle linee portanti del Salento europeo, insieme alla pittura di Edoardo De Candia, alla poesia di Salvatore Toma, alle esperienze musicali di Cosimo Colazzo, estetiche di Salvatore Colazzo, letterarie di Carlo Alberto Augieri e teatrali di Fabio Tolledi.
Nel 1983, pubblicò Il pane sotto la neve; nel 1985, Il fabbricante d’armonia, trasmesso dalla Rai Puglia nel maggio dello stesso anno; nel 1986, La cura dei Tao, nel 1987, La Betissa, da cui Fabio Tolledi ha tratto una versione teatrale.
Verri era molto legato ai suoi compagni di viaggio: Maurizio Nocera, autore di Antonio Antonio- O dell’amicizia, poetico omaggio all’amico scomparso, pubblicato nel 1998 e poi ripubblicato nel 2003 proprio dal “Laboratorio” di Aldo D’Antico, Rina Durante, giornalista e scrittrice, il poeta Bruno Brancher, l’archeologo Cosimo Pagliara, docente dell’Università di Lecce, Antonio Errico, valente critico letterario, Vittorio Pagano, grande poeta e traduttore, al quale Verri ha dedicato il volume Per Vittorio Pagano contenuto in “Pensionante de Saraceni”, Aldo De Jaco, scrittore e giornalista, i fratelli Cosimo e Salvatore Colazzo, Vittore Fiore, che ha definito Verri “battistrada storico dell’avanguardia culturale salentina”, ed altri.
Verri curò le collane “Spagine-scrittura infinita”, con F.S.Dodaro, “Abitudini-cartelle d’amore”, con M. Nocera, “Compact Type:Nuova narrativa”, “Diapoesitive-Scritture per gli schermi”, sempre con Dodaro e “Mascheroni”.
Nel 1988, pubblicò I trofei della città di Guisnes, nel 1990 Ballyhoo, Ballyhoo, nel 1991, E per cuore una grossa vocale e Il naviglio innocente. A Cursi, istituì il Fondo internazionale contemporaneo “Pensionante dè Saraceni”, eccentrica ma preziosa biblioteca composta da più di tremila volumi, riviste, manoscritti, cataloghi, spartiti e audiovisivi.
“Mi sembrano così idiote queste mie rane, tirano e tirano, girano e girano, fino a scoppiare, sono davvero così idiote… Guizzano e non sono che abbozzi di parole, spettri, apparenze, birbe verdastre, non sentono l’arsura e corrono tutto il guscio, e si arrotondano; balenotteri sembrano, ballerine di fila, subrettine.” (da I trofei della città di Guisnes).
Queste sono le parole, per Antonio Verri: incanti magici, lisce, ruvide, significanti e significati, elastiche, infinite.
Una scrittura continua, quella di Verri, che ricorda, per certi versi, lo “stream of consciousness”, il “flusso di coscienza” di joyciana memoria. Burle, frottole buttate lì, gialle, nere, rosse, lanciate al galoppo. Come dice Antonio Errico, “motivi che si presentano, scompaiono, si ripresentano con valenza semantica accentuata. L’intenzione e l’ansia di trasmettere alla frase il proprio respiro, di far coincidere strutture profonde e strutture superficiali, il suono e il senso, i tempi della vita con i tempi del testo. E poiché la vita non ha niente di finito, niente di finito c’è nel testo.
Ogni frase, ogni parola, ogni fantasma, è sempre un ritorno ad altre frasi, altre parole, altri fantasmi, oppure rinvia ad un declaro. Il testo, insomma, è un ponte tra il già fatto e ciò che si deve ancora fare.” Verri somiglia al suo diavolo Zèbel in Guisnes, “è come un camaleonte, sa così bene simulare, chiacchera a vanvera, splende. Oggi per lui va bene girare su se stesso, è così leggero, crede di vedere nell’invisibile, sa entrare in un corpo e ripetersi all’infinito… Il mondo è una immensa replica, è un libro in cartisella!”.
Verri morì nel 1993. La sua eredità artistica ed umana è stata raccolta, tra gli altri, da Mauro Marino, grafico e poeta, e Piero Rapanà, fondatore della compagnia teatrale Teatro Bliz, i quali, con il “Fondo Verri- Libero Cantiere”, portano avanti la grande lezione dello scrittore di Caprarica. E sul solco dell’esperienza del banco letterario che Verri inaugurò con “Caffè greco” e con “Pensionante de Saraceni”, ogni anno, a maggio, nel cortile del Convento dei Teatini a Lecce, si tiene la mostra mercato “Gran Bazar”, ovvero “Il libro in tasca, banco dell’editoria e della poesia salentina”, evento culturale organizzato dal Fondo Verri e dalla Libreria Icaro, che ottiene, ad ogni nuovo appuntamento, un crescente successo. Vi si tengono presentazioni di libri, incontri con gli autori, readings letterari e concerti musicali; uno spazio aperto alla consultazione e alla ricerca, come del resto è il Libero Cantiere, con la sua collezione di circa 1500 libri, patrimonio di chiunque voglia approfondire ed esplorare, tendendo un filo fra l’esperienza letteraria e la realtà contemporanea, sempre più esposta al disagio e alle difficoltà sociali.
… Per non dimenticare chi era Antonio Verri.
Pubblicato su “NuovAlba”, luglio 2005 e poi in “Di Parabita e di Parabitani”, di Paolo Vincenti, Il Laboratorio Editore, 2008.
“Velina”, ovvero dalle stalle alle stelle e viceversa nell’illusione, in qualche caso, che da una mucca nasca una stella…
A scanso di equivoci dico subito che mi son sempre piaciute le donne, continuano a piacermi e che, nonostante la mia età, non ho problemi di reazione (ho sbagliato a scrivere, ma, ormai è fatta…e poi quell’altra parola non è forse, concettualmente, un sinonimo?). Comunque, anche se il primo impatto che fa colpo sull’uomo (e sulla donna, oppure vogliamo ancora credere alle favolette messe in campo da noi uomini e da psicologi che definire maschilisti è eufemistico?) è quello fisico-visivo, è anche vero che una donna, per quanto bella, almeno ai miei occhi (però mi mancano, per ciascuno, nove diottrie …), subisce un innalzamento o un calo in progressione geometrica del suo fascino in rapporto a quel che mi dice (certo, se mi dice che sono meglio del miglior sexy symbol del momento ci sarà un rallentamento, garantito ma, purtroppo per lei, momentaneo, del calo … del suo fascino su di me).
Ciò che non tollero è che la massima aspirazione delle ragazze di oggi più o meno carine (per fortuna non di tutte) è quella di diventare una velina. Io glielo sconsiglierei per una semplicissima considerazione di carattere economico legata al calcolo delle probabilità: la concorrenza è così massiccia che, pur immaginando che il rapporto offerta-domanda rimanga immutato per qualche anno (anche in questo campo, per fortuna, la crisi si fa e si farà sempre più sentire…), le opportunità , non dico dell’inizio di una vera e propria carriera (la famosa, santa gavetta…) ma di un successo, per quanto effimero, sono piuttosto limitate.
Non vorrei che il solito lettore malizioso vedesse un’alternativa occupazionale nel mucca del titolo: il passaggio da mucca a vacca è molto breve e tutti sanno che cosa all’istante l’innocente vacca diventa per un semplicissimo scivolamento metaforico (se nelle stalle avessero messo adeguati tappeti tutto questo forse non sarebbe successo…ma ormai, pure questa, è fatta!).
Dopo aver deluso, perciò, qualche probabile aspettativa boccaccesca cercherò di non deludere chi a questo punto ha deciso di continuare a tenermi compagnia.
Ho scritto nel titolo “dalle stelle alle stalle e viceversa” per sottolineare come la voce velina abbia avuto, come tante altre, un destino altalenante. Prima che assumesse il significato attuale, l’unico oggi universalmente conosciuto, era un termine tecnico-specialistico del mondo della produzione libraria in cui indicava un foglio di pergamena ultrasottile.
La storia della parola è esaurientemente riportata al lemma vélin nel Trésor del CNRTL da cui riporto, tradotte e compendiate1, le parti salienti: circa nel 1245 è attestato un veeslin con la definizione di peaudeveau mort-né, plus fine que le parchemin ordinaire (pelle di vitellino nato morto, più sottile della pergamena ordinaria)2; nella seconda metà del XIII secolo la voce ha assunto la forma veelin che diviene velin nel 1360 e vélin nel 1664. Nel 1798 compare il nesso papier–vélin (carta velina) e da questo, per ellisse, nel 1811 vélin; nel 1829 vélin, per metonimia, assume il significato di ouvrage ancien, incunable imprimé sur vélin (opera antica, incunabolo impresso su velina); altri nessi: toile véline (tela velina) del 1869 diventato toilevélin nel 1904.
Va chiarita meglio, invece, l’etimologia dallo stesso Trésor riportata: Dér. de l’a. et m. fr. veel (veau*); suff. -in* [derivato dall’antico e medio francese veel (veau*); suffisso -in*]. Sarebbe stato più corretto scrivere: derivato dall‘antico e medio francese veel, a sua volta dal latino vitulìnu(m)=di vitello, aggettivo da vìtulus=vitello; si è avuta prima una sincope (vitulinum>*vilìnum, poi un’apocope (vilìnum>vilìn), infine ill passaggio –i->-e-.
Dalla Francia la voce sarebbe entrata in Italia nel XVII secolo assumendo la forma vellino attestata, secondo quanto si legge nel citato sito dell’Accademia della Crusca, in un’opera (non si dice, però, quale) di Luigi Ferdinando Marsili. Velino, invece, compare (qui gli accademici sono precisi) nel milanese Giornale italiano del 5 ottobre 1806; la voce sarà usata pure, questo lo aggiungo io, da Vincenzo Monti [Epistolario, lettere del 3 aprile (foglio grande velino) , e 20 aprile (foglio velino) 1809; 23 dicembre 1810, 8 maggio, ? luglio 1816 e 3 settembre 1818 (esemplarevelino), 17 maggio 1811 (foglio reale velino); 25 maggio 1811 (foliovelino), 30 gennaio 1816 (foliovelino)]. Va sottolineato come sempre in una sua lettera dell’11 aprile 1810 compaia velina in forma sostantivata (alcuni esemplari in pergamena, altri in velina e quattromila in altra bella carta), anche se l’ellisse di carta può essere stata indotta dalla sua presenza più avanti.
Leopardi fa un uso sostantivato di velino una sola volta [Epistolario, lettera del 13 marzo 1820 (velinosopraffino)], per il resto predilige l’aggettivo femminile in nesso con carta [lettere del 19 ottobre 1818, 30 novembre 1818, 9 dicembre 1818, 14 dicembre 1818, 13 gennaio 1819, 12 febbraio 1819, 22 marzo, 17 maggio, 1 e 9 giugno, 17 luglio 1820, 8 marzo 1821, 5 dicembre 1823 e 5 maggio 1824 (cartavelina); del 18 maggio 1819 (carta velina reale); del 10 e 19 febbraio 1820 (carta velina soprafina) e del 19 maggio 1824 (carta fina velina)].
Nel Foscolo, accanto alla forma aggettivale velina [Epistolario, lettere del 19 novembre 1806, 2 aprile 1808, 9 e 19 marzo 1809 (cartavelina)], s’incontrano, come già nell’ultimo dato relativo al Monti, forme che possono essere considerate sostantivate ma anche ellittiche di carta che puntualmente compare prima (lettera del 4 marzo 1808: Bada che tirandosi alcuni esemplari dell’edizione in carta velina, simili alla carta in cui ti scrivo questa lettera, e’ bisogna pare che il rame per quelle copie sia stampato in velina) o dopo (lettera del ? marzo 1809: ecco una bella copia in velina, e due in carta finissima cilindrata).
Nell’Epistolario del Manzoni (lettere del 31 dicembre 1829 e del 17 marzo 1830) compare cartavelina.
Che di questa carta ci fossero innumerevoli tipi lo dimostra questo elenco che ho ricavato dal Catalogo dei libri che si trovano vendibili presso Giuseppe Molini e Comp., All’insegna di Dante, Firenze, 1820: pag. 88 carta velina reale e carta real velina; pag. 89 carta velina di Francia; pag. 101 carta velina inglese da disegno, carta velina d’Annonay, carta velina pressata ; pag. 114 carta grande velina sopraffine; pag. 117 carta grande velina; pag. 142 carta velina d’Inghilterra; pag. 162 carta velina di forma sopra-imperiale; pag. 176 carta grande velina; pag. 180 carta stragrande velina arcimperiale.
Si intuisce, poi, che ad ogni tipo di carta velina doveva corrispondere un minore o maggior pregio, come dimostra quanto si legge in Alfonso Muzzarelli, Il buon uso della logica in materia di religione, Silvestri, Milano, 1840, dove in appendice l’editore pubblicizza altri testi con descrizione del supporto e prezzo: dodici volumi in 16° grande, carta velina sopraffina levigata, 52 lire; un’altra edizione: in carta sopraffina lire 25, 22; in carta velina lire 40.
Bisogna attendere (dopo le ricordate, ambigue attestazioni del Monti e del Foscolo) il periodo fascista perché velina sia usato in forma sostantivata ad indicare il foglio di carta con cui il ministero della cultura popolare (il Minculpop, e poi ci mettiamo a ridere per qualche acrostico curioso dei nostri tempi…) inviava ai giornali per comunicare su quali argomenti bisognava parlare e su quali tacere, insomma uno strumento di censura.
Poi venne Striscia la notizia e velina fu chiamata ognuna delle due vallette che inizialmente su pattini a rotelle recavano ai conduttori messaggi scritti su fogli di carta. Probabilmente l’equazione fascista velina>censura continua in forma edulcorata e, direi, subliminale per il doppio potere distraente: della notizia che serve a far dimenticare problemi ben più gravi di quelli denunziati (anche se, debbo riconoscere, negli ultimi tempi le inchieste-denunzia hanno conferito alla tramissione l’aureola di tv di servizio) e delle ragazze che, non indossando scafandri, suscitano ancora, nonostante i tempi, un certo interesse nel sesso opposto. E a proposito dei mancati scafandri ora è chiaro perché la velina, nonostante il suo abbigliamento succinto e i suoi stacchetti (secondo me stanno diventando sempre più grotteschi ed hanno il fascino, volevo dire sex appeal… , di una macchina da rottamare) non ha nulla a che fare, etimologicamente parlando, col velo e nemmeno con la danza dei sette veli.
Protagonista, come abbiamo visto, del post di oggi è la mucca che di solito vive in una stalla e partorisce il vitellino dalla cui pelle è nata la carta velina (dalla mucca e dalle stalle, alle stelle, cioè al libro, alla cultura), poi la velina della censura fascista e la velina attuale (in un certo senso ritorno alle stalle e, in qualche caso, alla mucca nel significato metaforico che ho ricordato all’inizio e per il quale chiedo scusa alla vacca reale; reale da intendersi come sinonimo di in senso letterale e non del re … di turno). Ma gran parte di tutto questo Pippo, volevo dire la nostra pimpante (o pippante?…) ragazza, non lo sa.
Mi chiedo a cosa si arriverà con velina nel 2050. Non mi aspetto una sua difesa d’ufficio da parte del Greggio, perché attualmente la sua quotazione è, stranamente, stazionaria e probabilmente è impegnato in qualche battibecco con le Sette sorelle…
Ci ho messo molto del mio ma credo che Minosse abbia fatto sentire in anteprima su di me i suoi calorifici effetti. Vado a chiudermi nel congelatore, ma non esultate: con una modifica che ho apportato si può aprire anche dall’interno…
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1 Chi voglia può leggere il testo originale all’indirizzo http://www.cnrtl.fr/etymologie/v%C3%A9lin
2 Va perciò retrodatato di quasi due secoli il 1415 che si legge sul sito dell’Accademia della Crusca (http://www.accademiadellacrusca.it/faq/faq_risp.php?id=5278&ctg_id=93), data, peraltro, tratta, come si dichiara, da altri testi.
Ricordo di Pitrìna, contadina copertinese d’altri tempi
G.Livraghi V. Zain, “Ricordo di Pitrìna”
(Terracotta bronzata, 40×20)
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
Due prati increspati dal vento erano i tuoi occhi all’alba, testimonianza di un mondo innocente che celava felicità inconsce.
Crepe di un campo riarso erano i tuoi occhi a sera, due feritoie oltre le quali s’indovinava una galleria sotterranea dove il dolore era uno stratificarsi di rocce.
Al mattino, prima del Mattutino, al crepuscolo, dopo i Vespri.
Nelle altre ore del giorno no, non ne trovava il tempo.
Due volte dunque, s’incamminava piano lungo il sentiero che perimetrava le Saline, al lato del canale che porta l’acqua del mare nel laghetto, fino ad arrivare alla spiaggia, poi tornava indietro al suo convento.
Al mattino era così presto che tutta la natura era ancora irretita nel sonno della notte, come la sua anima, ancora preda del sogno.
Rugiada o nebbia o brina, a seconda della stagione, s’attardava sui cespugli, sulle pianticelle, sulla rena delle dune, vapori stazionavano sulle acque del lago, ferme come specchi appannati, in quell’ora antelucana.
Non c’erano animali in giro ma si sentiva il gracidar delle rane, qualche ultimo grido di allocco e sulla rena correvano le piste di animaletti senza nome, bava di lumaca inargentava la via e tele di ragno eran pronte fra un ramo e l’altro dei cespugli al lato del sentiero, pronte a ingannare irrequiete creature.
Passo dopo passo, ricacciava via il sonno dagli occhi, dalla mente, l’aria fresca gli riempiva i polmoni e le idee si facevano più chiare, ringraziava Iddio di averlo fatto svegliare, di aver creato tutte le cose belle, era contento di essere giunto in quell’angolo di paradiso, dopo tanto peregrinare.
Lui veniva da altre contrade, altro clima, altri orizzonti, altro idioma…ma ora si sentiva a casa, gli piaceva l’odor di quella terra, il suo respiro.
La passeggiata pomeridiana era cosa diversa, il sole aveva cambiato un bel po’ la situazione, uccelli migratori, fenicotteri, folaghe, cavalieri, affollavano lo specchio d’acqua, alla ricerca di prede nella melma salmastra, alcuni
Il grembiule, elemento insopprimibile nell’abbigliamento contadino
Elemento insopprimibile nell’abbigliamento contadino, il grembiule assolveva a delle funzioni precise, che andavano oltre quelle semplicistiche di tutela del vestito o quelle vanitose di un ornamento, pur tenendo conto della bellezza di alcuni grembiuli da festa, tessuti in casa con fantasiose greche a più colori o addirittura ricamati.
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
(…) Il grembiule aveva un suo significato simbolico, sicché quello che una donna non voleva o non poteva dire a voce, lo esprimeva attraverso i suoi movimenti, le sue pieghe, il modo di indossarlo o sventolarlo. Se una ragazza, sotto lo sguardo insistente di un giovanotto, fingeva di dare un’assestatina al suo grembiule spostandolo sia pure leggermente verso destra, era segno che il giovanotto le era simpatico e che quindi putìa mannàre (poteva mandare), cioè rivolgersi tranquillamente ai genitori per chiedere la sua mano. Lo stesso gesto però, se compito da una donna sposata, o all’indirizzo di un uomo sposato, veniva giudicato indice di lascivia, impudica mossa di adescamento, e come tale capace di suscitare risentimenti e liti. Non per nulla il grembiule veniva chiamato “mmùccia irgògne” (“coprivergogne”) e “pignu t’onestàte” (“pegno d’onestà”): spiombando dalla cintola in giù, fin sotto il ginocchio, lo si considerava idealmente uno scudo posto a difesa delle parti intime, e una contadina onesta, che ci teneva a conservarsi e ad apparire tale, non si permetteva mai di circolare per le strade senza grembiule, poiché sarebbe equivalso a mostrarsi quasi nuda.
Pure se oggettivamente il corpo era già nascosto fino ai piedi dalla voluminosa arricciatura di più gonne sovrapposte, era infatti sempre e solo al grembiule che si affidava l’ufficiale dissimulazione delle forme, ritenendolo una schermatura quasi magica, una specie di cintura di castità capace di rintuzzare ogni eventuale tentazione di sguardo. Indossarlo era come infilarsi le mutande (indumento a quell’epoca pressoché sconosciuto alle donne popolari e totalmente assente dalle liste di corredo) e acquisire, per processo psicologico, una certa libertà di comportamento, in quanto già in partenza si era salve nella pudicizia. E dell’obiettività di questa interpretazione, che potrebbe apparire anche esagerata, si ha la prova rifacendosi a particolari circostanze, in occasione delle quali il grembiule assurgeva a sintesi di vestitura.
D’estate – tanto per fare un esempio -, trovandosi le famiglie accampate in campagna, nei pagliai, private dell’intimità della casa, capitava spesso, nel clima di quella sana allegria che autorizzava a un brioso cameratismo fra gli abitanti dei vari pagliai, di essere svegliati nel colmo della notte perché fatti oggetto di un’improvvisa serenata o di un altrettanto improvvisato scherzo. Svegliati di soprassalto occorreva uscire in fretta all’aperto, senza avere il tempo materiale di infilare pantaloni, allacciare gonne o indossare corpetti, anche perché nei pagliai lo spazio a disposizione era così esiguo da non concedere libertà di movimenti. Per fortuna ciò non creava problemi alle donne: sulla scia degli uomini, che balzavano lesti presentandosi come fantasmi nel biancore dei lunghi carzunètti spicàti (mutandoni confezionati con pesante tela tessuta a spina di pesce), anche loro non trovavano nulla di strano a mostrarsi solo protette dalle ampie e lunghe camìse barbarèsche (camicie avana tessute con cotone barbaresco) purché su queste (che in fatto di copertura erano più di un vestito) avessero avuto modo e accortezza di indossare il grembiule, tenuto, per previggenza, a portata di mano vicino al pagliericcio. A criterio loro, e di chi le stava guardando, erano perfettamente a posto e, se si dava l’occasione, potevano anche ballare la pìzzica pìzzica (la tarantella), tanto lu mantìle nc’era (il grembiule c’era) e un eventuale occhio peccaminoso no llu putìa caurtàre (non lo poteva – allusivamente – bucare). Usbergo da vive e usbergo da morte: essere seppellite senza grembiule era la più temuta delle ipotesi, poiché equivaleva a doversi presentare a Dio in abbigliamento impudico e di conseguenza macchiate d’impurità. Ciò spiega come nel profilarsi di un pericolo – uragano, temporale o scossa tellurica – si aveva premura a indossarlo, nel timore che il fenomeno naturale degenerasse in vera calamità e arrivasse a determinare non soltanto la morte, ma anche, per necessità contingenti, una sepoltura affrettata delle eventuali vittime. “Arménu l’àngilu ti Ddiu cu nni ttròa cu llu mantìle” (“Almeno che l’angelo di Dio ci trovi col grembiule”), dicevano annodandolo in fretta, e aggiungevano: “… e Ccristu cu nni éscia la ‘ntesiòne” (“… e Cristo che ne apprezzi l’intenzione”).
Questo elevare il grembiule a simbolo di santa morte raggiungeva il suo acme nelle morti di parto, più specificamente quando madre e figlio soccombevano insieme prima che quest’ultimo potesse ricevere il battesimo. In questi casi si usava comporre le due salme in un’unica bara, posando il neonato sul ventre della madre e coprendolo con il di lei grembiule, quasi fosse ancora nel grembo. Anche alle mani della morta si dava una sistemazione originale: non si intrecciavano sul petto come quelle di tutti i cadaveri, ma si stendevano diritte lungo i fianchi affinché potessero simbolicamente reggere le due cocche estreme del grembiule, che venivano fermate passandole fra dito e dito. E ciò come supplica, come indicazione specifica al Padreterno che – si credeva – in grazia dell’onestà della madre, rappresentata appunto dal grembiule, non avrebbe condannato al limbo l’anima non battezzata. Una raccomandazione in extremis, tesa a imporre una valenza di meriti indiretti e che, vista nel contesto di un patteggiare fra terra e cielo, poteva suonare arbitraria; al contrario, non deve sorprendere, poiché il suo azzardo era soltanto apparente, in quanto non nasceva come presuntuoso accampare diritti, bensì come richiesta di misericordia. Oltretutto, affidandone il messaggio al grembiule, si attuava, sia pure inconsciamente, uno scavalco del momento, poiché ciò che era strumento a livello oggettivo finiva con l’assurgere a riferimento di una realtà collettiva, tracciando l’identità di un popolo, ossia una condizione di vita (e di morte) che era situazione sociale.
Nel grembiule simbolicamente veniva a raffigurarsi lo spazio agreste, habitat di una classe subalterna abituata fin dalla nascita a mendicare tutto, non escluso il lavoro, visto alternativamente o come dovere da compiere, o come grazia da ricevere. Dovere che, per le donne, si configurava nella sostanza di sfibranti giornate trascorse, dall’alba al tramonto, nel folto degli oliveti a raccogliere, mantilàta rretu mantilàta (grembiulata dietro grembiulata), le olive del padrone sotto lo sguardo severo del fattore, sempre avaro nel concedere soste allo spezzarsi delle schiene. Grazia che, nel suo colmo, tornava ad accendere l’immagine di un grembiule più o meno gonfio di spighe sfuggite alla falce e per contratto vantaggioso concesse all’industriosa spigolatura delle donne, che fra le stoppie, sfidando le punture delle tarantole, le contendevano alla fame delle capre.
Da queste grazie strappate ai padroni alle grazie da impetrare dal cielo il passo era breve, e non occorreva, sia pure in allusivo, mutare recipiente di raccolta. Nessuna meraviglia se in chiesa, durante la recita delle litanie Lauretane, giunte all’invocazione
“Mater divinae gratiae” le mani correvano all’orlo inferiore del grembiule per poterlo tempestivamente sollevare in sincronia con il collettivo espandersi dell’”Ora pro nobis”. Oltretutto il gesto nasceva dalla volontà di mutare in liturgia il quotidiano affanno, affinché si stabilisse una propiziatoria omologia fra attese contadine e speranze cristiane, fra grano che sbuca e Cristo che risorge, fra madre terrena che suda e Madre celeste che dona.
Tendere il proprio grembiule, molleggiandolo a mo’ di coppa, significava porsi in attesa della provvidenza, avere fiducia nella provvidenza, e nello stesso tempo propiziarsela con un atto di umiltà: con tale gesto non ci si uniformava forse al comportamento delle pezzenti, che bussando alle porte o sostando ai crocicchi, più che tendere la mano, preferivano tendere il grembiule? “Mantìle cerca a ssuffraggiu pi’ lli muérti” (“Grembiule chiede a suffragio dei morti”), era la loro formula d’uso; una frase che veniva mutata soltanto durante la settimana santa, quando protendendo il grembiule dicevano: “Mantu ti la Nduliràta pi’ lli pene ti Cristu”. Presentare il grembiule come “Mantello della Vergine Addolorata (che chiede) per le pene di Cristo” conferiva, allo stesso, simbolo di sacralità, tanto da indurre gli offerenti più religiosi a tributargli un segno di bacio prima di deporvi l’obolo. Gesto significativo che toccava financo il cuore dei nobili, i quali, pur essendo refrattari a ogni commistione con gli usi popolari, non esitavano a suggerirlo alle loro donzelle come fioretto quaresimale.
Tutto ciò non deve però far credere che il grembiule fosse esentato dall’esprimere sentimenti meno pii o addirittura intenzioni bellicose. La castigatezza o sboccataggine del suo linguaggio dipendevano, oltre che dalle circostanze, dalla personalità di chi lo indossava, ché lo muoveva a sua misura e costume: come c’era la donna mite che a un rimprovero, magari immeritato, lo segnava di croce a fare intendere che era l’emblema della sua prudenza, il sigillo del suo silenzio, così c’era la donna superstiziosa che, credendo di essere oggetto di uno sguardo malevolo, non ci pensava due volte a raccoglierne l’ampiezza in due cocche e protenderle in avanti a mo’ di corna; o quella ancora più volgare che non si peritava, in occasione di un acceso diverbio, a sollevarlo stizzosamente, intendendo con ciò gratificare la parte avversa di una mossa sconcia, equivalente al “Toh, prenditi questa!” o, più chiaramente, al torcersi sgarbatamente e presentare il posteriore. Altrettanto irriguardoso era il gesto di sventolarlo, sia che lo si facesse ondeggiare in linea orizzontale, sia che lo si scuotesse in senso verticale, cioè dall’alto in basso. Ferma restando la sostanza, cioè il disprezzo, i due movimenti avevano significati diversi: col primo s’intendeva scacciare la persona antipatica o importuna, declassandola al rango di mosca, insetto ritenuto il più molesto e usualmente allontanato, appunto, sventolando il grembiule. Il secondo movimento, al contrario, risultava indiretto, cioè destinato non all’interlocutrice del momento, ma a una persona assente, della quale si stava pettegolando e alla quale si voleva far pervenire, in cifrato mimico, un acidulo “Di te me ne sbatto!”.
Contestualizzato nei significati tipici della cultura contadina, il grembiule si avvaleva infatti di un suo preciso codice, e nello scambio fra emissione e ricezione riusciva a creare la situazione, relazionando meglio e più in fretta delle parole. Un padrone che, arrivando sul fondo, si vedeva venire incontro la contadina con il grembiule arrotolato sui fianchi e fermato alla cintola, capiva subito che la stessa gli si era rivoltata contro e, da ribelle, diciamo pure da maschio a maschio, era pronta a sfidarlo. Punta massima di sfida, atto di estrema sfrontatezza solo paragonabile all’indicibile malacriànza (maleducazione) ti nnu illànu (di un villano [contadino]) che avesse avuto l’ardire di presentarsi a parlare a llu patrùnu (al padrone) tenendo ‘nchiuàta an capu la còppula (inchiodata in testa la coppola). Tanto coraggio, però, i poveri contadini raramente lo avevano, e per far valere le loro misere rivendicazioni trovavano più conveniente far parlare le mogli, le madri, le sorelle, anche perché la frattura generata dal comportamento di una donna risultava sempre accomodabile.
Se la faccenda avesse preso una brutta piega, generando magari lo sfratto dal fondo, si poteva sempre fingersi sdegnato contro la scrianzàta (screanzata) che aveva provocato lu jastimàtu sgarru (il maledetto errore) e convincere il padrone a non tenere conto ti nna cuccuàscia ca canta a mmenzatìa (di una civetta che canta a mezzogiorno, cioè a sproposito), facendo presente che, sia in casa sia sul fondo, li càusi àlinu e nno lli stiàni mmappisciàti (i pantaloni valgono e non le gonne fruste, cioè è da tenere in considerazione la parola dei maschi, non quella delle donnette), giacché la fémmina tene lu capìddhru luéngu, ma lu sensu éte curtu! (la donna tiene lungo il capello, ma corta l’intelligenza!). Che se poi il padrone si fosse mostrato irremovibile, ci avrebbe pensato la stessa donna a sanare il conflitto, buttando con insuperabile maestria acqua sul fuoco.
Le donne salentine avevano nelle vene sangue greco, per trasmissione atavica erano predisposte alla finzione scenica, specie se la stessa comportava ruoli tragici, basati sulla potenza magica della parola e del gesto. La loro vena recitativa istintivamente si scaldava al fiato delle occasioni, e con la stessa efficacia con la quale sapevano farsi valere nel ruolo di vespe arrabbiate, sapevano calarsi nei panni della mortificazione, del pentimento, della sottomissione. Sicché lo screzio, che aveva avuto inizio nella spavalderia di un grembiule arrotolato sui fianchi, si concludeva nel silenzioso spiombo di un grembiule scuro che, in quel caso, oltre a velare il corpo, nascondeva anche le mani.
Nascondere le mani sotto il grembiule equivaleva infatti a una dichiarazione di disarmo, oltre che di umiltà e afflizione; un metaforico regredire negli anni e quasi annientarsi nell’immagine di un’infanzia povera, per la quale il grembiule della madre, e più ancora quello della nonna, rappresentava uno spazio sacro, una specie di marsupio, una provvidenziale tenda sotto la quale rifugiarsi nei momenti di paura, di vergogna, o anche semplicemente di freddo. Sedimentazioni sopravanzate a tempi d’innocenza, per necessità convertite in mediazione dialettica nei rapporti sociali, ma non per questo meno incisive nel loro riproporsi, poiché spesso si innescavano e si configuravano come amari rigurgiti nelle situazioni più scardinanti dell’esistenza, prime fra tutte quelle di lutto. Allora sì che il gesto di nascondere le mani sotto il grembiule nasceva istintivo, poiché a determinarlo non era tanto la convenzionalità di una formula di rispetto, quanto il gelo stesso del trapasso, assorbito come brivido di sconfitta, di totale impotenza di fronte all’ineluttabile transitorietà della vita. E questo sia che la morte fosse cicòra ‘ngnuttùta (cicoria inghiottita), cioè assaporata direttamente attraverso la scomparsa di un proprio caro, sia che si proponesse come fiézzu ti cipòddhra nnanti ll’uécchi (puzza di cipolla davanti agli occhi), cioè avvenimento che portava al pianto per condivisione di pena. Unica differenza fra i due casi, la posizione delle mani: le donne direttamente interessate al triste evento se le adagiavano sul grembo, piuttosto in basso, appaiate come ali e in posa di abbandono, quasi fossero inerti. Le altre le intrecciavano a simbolo di preghiera, mantenendole alte, subito dopo la cintola, e protendendole in avanti, il che le faceva emergere da sotto la velatura del grembiule a guisa di misteriose pigne.
Posizione quest’ultima assunta non soltanto durante le veglie funebri o in occasione di visita nelle case in lutto, ma anche al passaggio di un funerale, a meno che non si trattasse del transito di un uomo ritenuto indegno di rispetto o, peggio ancora, delle esequie di una donna giudicata leggera, nna svirgugnàta insomma, per la quale non c’era condivisione di pena e all’indirizzo della quale impietosamente si diceva “No tti tocca salùtu ti mantìle” (“Non ti spetta saluto di grembiule”). Giudizio sommario che il più delle volte era stato pronunciato in occasione della veglia funebre o addirittura durante la vestizione della morta, alla quale era stato contestato e magari negato il privilegio di presentarsi all’altro mondo con il grembiule, ché in quel caso – si diceva – sarebbe stato no ggiustu mpellu (non giusto appello) alla misericordia divina, ma ‘nfamitàte ti buscìa (bugia infame).
Vissuta nella pietà o nell’astio, nel cordoglio o nel pettegolezzo, la morte era cronaca di ogni giorno, trafiletto paesano delineato dal suono delle campane, la cui voce, oltre a conferire spessore al rito di sepoltura, concorreva a richiamare l’attenzione sull’accadimento.
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Questo contributo è tratto dal volume “Tre Santi e una Campagna, Culti magico-religiosi nel Salento fine Ottocento”, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, 1994 (Capitolo “Li fronne ti Santu Cristòfuru”, pagg. 294-300).
ACCORDO PER UNA TRATTORIA NEI GIARDINI DI PALAZZO COMI.
IL SIGILLO E’ DELLA PROVINCIA DI LECCE
di Giacomo Cazzato
La prima volta che entrai a casa Comi fu una frase di Alfonso Gatto ad accogliermi: “In questa casa, anche le ombre sono amiche”. Con queste parole di un poeta salernitano ha avuto inizio la mia storia d’amore con questo palazzo, il luogo in cui il barone-poeta Girolamo diede spazio al più grande esperimento di condivisione culturale che il Salento abbia mai potuto vivere, un luogo magico dove gli arredi e le librerie parlano ancora oggi, dove si respira ancora la poesia che trasuda da ogni dove, dagli arazzi, dalle camere da letto spartane e al tempo stesso gentili, adibite numerose, con l’unico scopo di ospitare qualche gigante della cultura italiana, che sarebbe passato in compagnia da Lucugnano. Lì puoi incontrare Alfonso Gatto, o Bodini, la Corti, o Vincenzo Ciardo, Pagano o il duo mistico Pierri-Merini. Solo lì.
Sono stati tanti gli incontri in questo ultimo anno, tanti gli universitari più brillanti che si sono avvicendati in quel nido fecondo che fu e che è, tanti i
A trent’anni esatti dal percorso di ricerca sul De rerum natura di Lucrezio, Romano Sambati presenta l’ultimo risultato della sua attività pittorica e scultorea. Il nuovo ciclo, che trae il nome da un celebre verso dell’Eneide di Virgilio, Lacrimae rerum, comprende dipinti e sculture realizzati negli ultimi sei anni, dopo che nel 2006 una mostra nella chiesa leccese di San Francesco della Scarpa aveva offerto alla riflessione del pubblico le facce essenzializzate del paesaggio salentino.
Lacrimae rerum, in allestimento presso il Palazzo Andrioli di Lequile, è una discesa nel profondo di uno spazio in cui è bandito qualsiasi elemento di riconoscibilità geografica e in cui appaiono tracce di presenze umane, figure di argilla, in una resa estremamente estenuata, spoglia, che frustra sistematicamente ogni tentativo di lettura familiarizzante.
Due temi ricevono un particolare spicco: gli Angeli senza Dio e gli Angeli senza cielo, che si inseriscono con una cifra stilistica ben caratterizzata all’interno dell’angelografia occidentale, accanto ai discendenti contemporanei degli angeli moderni di Paul Klee. Pitture e sculture che annunciano allo sguardo tracce di una trascendenza metafisica, ‘religiosa’ in senso lato, ma in contrasto essenziale con i modi consueti e codificati di vivere il sacro. “Pittore dell’ombra”, lo definisce Lorenzo Mango: “[…] Sambati sa, come il pittore Wladimir di Rilke, che si può dare corpo sensibile solo al tentativo di figurare l’assoluto, si può guardare dentro l’abisso ma solo vederne l’ombra. Quell’ombra, il riflesso originario e fondativo del mondo, il suo mistero, è tutto ciò che possiamo aspirare di vedere, restando lì, come Wladimir, la faccia sulle mani, nel silenzio della notte, ad ascoltarne il suono lontano”.
Nel saggio che accompagna il catalogo, Emanuele Coppola illustra la novità del linguaggio pittorico di Sambati, tracciando un’analogia con la teologia apofatica: “Apofatica è la pittura che ambisce a inverare una contraddizione: far rifluire nei limiti precisi di un luogo fisico ciò che è oltre il fisico, negando parimenti le soluzioni positivo-costruttive e quelle negativo-distruttive; cosicché, se appare palese la sua differenza rispetto ai vari stili che hanno contrassegnato l’epoca d’oro della figurazione classica, meno scontato ma altrettanto netto è lo scarto rispetto a quella semantica della negazione del mondo, che fiorisce con l’Espressionismo astratto e l’Informale”.
Sulla produzione scultorea Antonio Del Guercio ha parole convincenti: “se considero le sculture […] devo prendere atto del prezioso ‘far della mano’, per dirla con linguaggio settecentesco, che in esse si incorpora. Questa straordinaria sapienza artigianale, quasi all’incontro tra l’esattezza del gesto dell’ebanista e la materialità erotica del gesto del pastaio, appare a servizio di tutti quei dati psicologici e culturali che sono nelle pitture: quasi fossero, queste preziose sculture, anche una sottile elegia sulla scomparsa del fare artigianale popolano. Sospese tra amoroso rispetto di tradizioni popolaresche, memoria struggente della plastica antica e crudele senso d’una perdita irreversibile, le sculture di Sambati aggiungono la loro voce non marginale a quella d’una persuasiva storia di pittura”.
Accompagna la mostra una pubblicazione a metà strada fra il tradizionale catalogo d’arte e lo studio monografico: il volume, edito da Degli Alami, ospita gli interventi di Antonio Del Guercio e Lorenzo Mango, autori di altri contributi critici su Sambati negli anni Ottanta e Novanta, e un saggio di Emanuele Coppola, che ripercorre ampia parte della carriera artistica di Sambati, impostandone un’interpretazione generale. Sono riprodotti ventotto dipinti, ventidue sculture e sei disegni; seguono, infine, una parte antologica (1981-2006), una breve biografia dell’artista ed i consueti apparati bibliografici.
A cura di Emanuele Coppola
Allestimento Andrea Rollo
Ufficio stampa DamageGood
Vernissage sabato 7, ore 18.30
Intervengono Antonio Caiaffa (sindaco)
Emidio Buttazzo (assessore alla Cultura)
Emanuele Coppola (curatore e autore di alcuni testi in catalogo)
Patrocini Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Museo Provinciale “Sigismondo Castromediano” (Lecce)
Regione Puglia
Provincia di Lecce
Università del Salento
Catalogo Romano Sambati. Lacrimae rerum, a cura di Emanuele Coppola, Degli Alami, Lecce 2012
Romano Sambati nasce a Lequile (LE) nel 1938. Diplomatosi all’Accademia di Belle Arti di Napoli, presso maestri come Emilio Greco e Augusto Perez, ha insegnato discipline pittoriche nel liceo artistico di Lecce fin dai primi anni Sessanta. Ha cercato la sua via personale all’arte utilizzando mezzi poveri e mirando alla resa massima di un’espressione ridotta all’essenziale; il suo percorso ha un culmine nel 1981, con una mostra sul De rerum natura di Lucrezio e una monografia del 1982 curata da Antonio Del Guercio. Negli anni successivi la ricerca si incentra sui fenomeni del buio e della luce, colti nella loro dimensione metafisica (notevole è il ciclo delle Males lunes, con tele esposte in una mostra a Grenoble); nel 1998 presenta le sue prime opere di scultura (Mal d’argilla); da ricordare, fra le esposizioni importanti, Il dolore nel mito (2003, Ex Conservatorio di Sant’Anna, Lecce) e Geografie. Paesaggi a sud del sud (2006, Chiesa di San Francesco della Scarpa, Lecce).
“Conquistatevi un’anima nuova, la vostra non basta neanche per un cane. Conquistatevi un’anima nuova!”, disse il giudice al Ministro prima di essere considerato completamente pazzo e dover lasciare la propria carriera. Così, Basil Grant affittò una mansarda a Lambeth a si ritirò a vita privata. Da quel momento, si divertiva a risolvere curiosi casi che gli venivano affidati dal cosiddetto “Club dei mestieri stravaganti”, di cui egli era socio affezionato. Ma qualcosa di veramente stravagante doveva ancora capitargli. Un giorno nella sua soffitta piccola ma ben arredata doveva fare l’incontro più assurdo di tutta la sua vita. Venne a trovarlo un distinto signore dall’aria molto inglese ma con una gran pena nel cuore, che necessariamente si manifestava all’esterno attraverso la concitazione dei suoi movimenti e il rossore che cerchiava i suoi occhi intelligenti. Anch’egli era socio del “Club dei mestieri stravaganti”.
Si trattava del famoso Gilbert Keith Chesterton, un giornalista e scrittore, originario di Kensington, dalla vita molto piena e travagliata. Chesterton, di vaghe idee liberali, era stato anche in politica per un certo periodo ma se ne era allontanato, disgustato dal clima di corruzione che regnava in quell’ambiente e dalla assoluta impossibilità di attuare quelle riforme sociali delle quali egli era intimamente convinto che vi fosse bisogno dell’Inghilterra dell’epoca. Aveva viaggiato molto: in Irlanda, in Francia e soprattutto in
Suona il tamburo nella banda del paese, precede clarinetti e trombe, a passo di marcia avanza nelle strade e percuote con disciplina lo strumento nei giorni della festa del patrono.
A volte la banda si sposta nei paesi vicini, c’è sempre un san Vito, un san Giuseppe, un’Assunta da festeggiare. Un sant’ Antonio sempre.
Il ragazzo allora si alza presto allegramente, si acconcia con scrupolo nella divisa da bandista, saluta la madre e il cane e a passo svelto raggiunge gli altri nella vicina piazza del paese. Il viaggio in corriera lo riempie d’eccitazione… la campagna è bella e nel paese in festa ci sono senz’altro nuove ragazze da vedere. Alla fiera poi potrà comprare un berretto per il sole.
Prende in cura il suo tamburo, lo ripulisce e lo prova e intanto ascolta scherzi e lazzi dei compagni d’avventura. Mangia con appetito il panino con la mortadella insieme agli altri suonatori all’ombra del muro della chiesa prima dell’inizio delle funzioni. Beve alla fontana. Poi prende posto nella formazione. Avanti, insieme a due altri tamburini.
Vengono poi le cornette, i piatti, i clarinetti, le trombe ed i tamburi. Quando tutti son schierati è lui che dà il via battendo i primi colpi.
Iniziano così a sfilare gli ottoni lungo la via principale del villaggio mentre accorrono a curiosare i ragazzetti. Lui percuote con impegno sul tamburo attento a non sbagliar battuta ed ormai procede per le vie con pretenziosa andatura. Gli capita di dare a volte qualche colpo in più ma è perché s’ispira a delle gonne che svolazzano da un balcone insieme a maliziosi sorrisetti di ragazzine.
Più in là una vecchierella allunga il capo fuor dall’uscio quale tartaruga lasciando il resto nel guscio d’ombra della sua stanzuccia, lo guarda bonaria e balbetta “ bravu fiju miu , sona sona”.
Il tamburino, pieno di missione, interpreta Verdi e Rossini, Mascagni e pure Bellini, muovendo i muscoli delle mani con passione.
Certo gli piacerebbe suonar la tromba o il clarinetto, la sua anima avrebbe così più sfumature per inneggiare, ma ha il fiato corto e il canto ne verrebbe un po’ strozzato.
La pelle del tamburo invece risponde tonante alle sue sollecitazioni, il suono sembra uscire dalle viscere della terra e fa rintronare le vetrate sul sagrato della chiesa.
Quando la banda tace lui si sgrava del peso del tamburo e lo mette a cuccia lì ai suoi piedi e poi s’incanta a guardare i piccioni che sul cornicione della chiesa prendono il sole, oppure gioca a lanciare messaggi silenziosi ai bandisti che durante la celebrazione se ne stanno oziosi. Quando il maestro richiama l’attenzione, lui dà il via al concerto e non perde un sol colpo, felice di creare la tensione necessaria ad ascoltare, poi, col fiato sospeso, le romanze.
L’odore delle noccioline abbrustolite gli solletica le narici, l’odore del torrone lo fa sognare e il suo tamburo diventa la pelle del cielo che rintrona tutta da occidente a oriente. All’ intervallo compra un palloncino colorato, lo lega al manico del tamburo e si mette a guardar le ragazzette in festa che, intorno alla banda, fanno mulinello scioccamente.
Le cosiddette cozze piccinne o cuzzeddhre (Euparipha pisana), sono le più piccole fra le chiocciole eduli salentine, ma anche le più visibili. Infatti nel periodo estivo questi gasteropodi non si nascondono tra le pietre, né si sotterrano come le altre specie, ma si sigillano saldamente con un sottile epiframma vitreo ad un sostegno qualunque, generalmente vegetazione secca. Quindi sono le stoppie i luoghi dove queste bestiole eleggono il proprio habitat preferito, sfidando il solleone, ed è lì che le potrete ricercare e raccogliere, dato che non è molto comune trovarle in vendita.
Lavatele accuratamente, accertandovi che siano tutte vive, e ponetele sul fuoco in una pentola coperte d’acqua fredda. Una decina di minuti di cottura, da quando l’acqua comincerà a bollire, saranno sufficienti. Durante la cottura dovete schiumarle ripetutamente, quindi scolatele, salatele abbondantemente e cospargerle con una buona presa di origano selvatico salentino (Origanum heracleonticum). Mescolatele bene lasciandole
Minervino di Lecce, circa 3800 abitanti, situato nel Salento orientale, nell’entroterra idruntino, comprende le frazioni di Cocumola e Specchia Gallone. Da qualche anno aderisce all’associazione Borghi Autentici d’Italia.
Si estende in gran parte sul bassopiano delle Serre di Poggiardo e di Giuggianello e risulta compreso tra gli 82 e i 127 metri sul livello el mare. Confina a nord con i comuni di Giurdignano e Giuggianello, a est con il comune di Uggiano la Chiesa, a sud con il comune di Santa Cesarea, a ovest con il comune di Poggiardo. Dista circa 40 km da Lecce.
I motivi per una visita sono svariati e non si resterà delusi dalla visita del suo grazioso centro storico con le numerose chiese e alcuni palazzi nobiliari. Una sufficiente scheda è consultabile su Wikipedia, ma ci piace riproporre una originale iscrizione posta sulla chiesetta di San Pietro, sull’architrave del portale laterale, che così recita: “Comu lu lione et lo re della nimali cu si Menerbino et lo re de li casali. A.D.M.CCCCLXXIII”, tradotta in italiano: “Come il leone è il re degli animali così Minervino è il re dei casali. A.D.M.CCCCLXXIII”.
Basti questo a giustificare, pur con esaltazione del campanilismo da parte dell’anonimo autore, che la cittadina è stata sempre riferimento per i numerosi borghi vicini, che fino al 1650 erano ben 16, ognuno dei quali abitato dalle 50 alle 100 persone, dei quali il più importante quello detto “Borgo Minervino”.
Aldilà dell’occasione dei festeggiamenti che hanno inizio da oggi, non si può non spendere qualche rigo per trattare dell’importante chiesa Matrice, che ebbi occasione di visitare un paio d’anni fa e che consiglio vivamente, per l’inedita architettura interna, che ne fa uno dei luoghi sacri più graziosi del Salento. Gli appassionati di architettura, specie di quella cinquecentesca, resteranno certamente soddisfatti, sebbene delusi dalla triste mutilazione praticata nel secolo scorso, dopo il Concilio, quando con i lavori di restauro furono rimossi l’antico organo, molti dei decori cinque-secenteschi e, particolarmente, l’altare maggiore. Fatto non insolito, purtroppo, essendo in quegli anni pratica comune liberarsi da orpelli e architetture che tanto sapevano di antico, per favorire un incalzante “moderno” che tante privazioni procurò alla storia dell’architettura, e non solo (messali, arredi sacri, corali, pontificali, battisteri, ecc.).
La chiesa è dedicata a San Michele Arcangelo, la cui statua lapidea ancora si vede sul portale laterale. Un bel rosone ingentilisce la facciata in pietra leccese che ospita anche un grazioso ma comune portale su cui poggia un’ interessante trabeazione. Il tutto in pietra leccese, del 1573, e si ritiene opera del leccese Gabriele Riccardi. Qualcuno, con cui mi trovo assolutamente in accordo, ritiene che vi sia stato anche l’intervento del neritino Giovan Maria Tarantino, del quale in più occasione ci siamo occupati, che nello stesso periodo stava lavorando alla chiesa di San Giovanni Elemosiniere a Morciano (1576).
Ma la bellezza è da cogliere nell’interno dell’edificio, che è a navata unica, con un transetto in cui si trovano i due originari altari, con coperture davvero particolari. Le eleganti decorazioni e arcate intervallate da lesene sulle pareti laterali, in molti punti incomplete o danneggiate, trovano la maggior compiutezza nell’abside della chiesa, sulla cui parete divisa in due piani sono allocate nicchie e colonne corinzie, anche queste notevolmente deturpate per essere state quelle inferiori di supporto ad un coro ligneo, fissato con chiodi in corrispondenza dei fusti e dei capitelli. La bellezza del presbiterio è accentuata dall’arco trionfale e dalle due cantorie.
Ma veniamo dunque al motivo per cui ci siamo impegnati ad accennare a Minervino. Dall’1 al 3 luglio nella cittadina si tiene la II edizione de “La Fiera delle Messi”, che si collega al particolare periodo dell’anno in cui nel Salento si miete il grano.
Il ricco programma è visionabile nel sito dell’associazione che organizza l’originale evento
Si comincia Venerdì 1 luglio con un convegno e con la manifestazione in cui si rievoca l’antica e tradizionale trebbiatura, con sistemi e attrezzature che per ovvi motivi sono stati superati dalle moderne tecnologie. Gli agricoltori locali faranno rivivere uno dei momenti più importanti della cultura contadina, effettuando la mietitura del grano.
Le piante del fondamentale cereale verranno tagliate e legate manualmente, ottenendosene dei fasci, noti in tutto il Salento come “mannucchi”, che poi verranno trasportati con traini e scialabbà (antichi carretti in legno con grandi ruote trainati da cavalli), per scaricarli sull’aia, su cui avverrà la pisatura-battitura e la ientulatura, che consentirà di separare il grano dalle piante e dalle spighe.
Durante la manifestazione ci sarà la mostra mercato, con stands espositori dei prodotti tipici e agricoli e dei mestieri antichi di Minervino di Lecce e zone limitrofe e del Salento. Altri stands gastronomici consentiranno la degustazione di prodotti tipici, in un’atmosfera vivacizzata da coinvolgente musica tradizionale salentina.
Sabato si terrà la maratona cittadina, cui seguirà, alle 19:30, una dimostrazione della legatura dei mannucchi, che saranno poi soggetti alla trebbiatura, praticata per l’occasione con una trebbia d’epoca.
La Domenica in serata si ripeterà la dimostrazione, mentre al mattino avrà luogo la fiera.
L’invidia cede alla virtù. Lettura dell’iscrizione di una corte a Francavilla Fontana
Qualche giorno fa, curiosando in Facebook, ho digitato il nome del nostro comune amico titolare di questo sito e tra le sue foto mi ha colpito quella sotto riprodotta. Gli ho subito chiesto dove fosse collocata l’iscrizione riprodotta e, avutane puntuale notizia, ho pensato di scrivere queste righe per non perdere l’occasione di trasformare un impulso probabilmente voyeuristico (comunque, chi è senza peccato scagli la prima pietra…) in un’occasione di arricchimento culturale, per quanto modesto.
Come testimonia la data incisa ANNO D.(OMINI) MDCCLXXXX, essa risale al 1790.
Soffermeremo ora la nostra attenzione sul resto: VIRTUTI INVIDIA CEDIT (L’invidia cede alla virtù).
Risparmio al lettore il mio commento sul contenuto della massima, che sospetto fosse anacronistica pure al tempo in cui fu incisa, anche perché oggi, in tempi in cui la competenza, il merito, l’onestà, la lealtà (insomma quello che poteva essere riassunto nella parola virtù) sono soltanto difetti, mi riesce difficile non dico cogliere ma addirittura immaginare uno spirito “sportivo” che riconosca il valore dell’altro in ogni campo. La mia indagine
Stamattina nel mio paese in Puglia c’erano oltre trenta gradi. Al semaforo uno si accosta e mi chiede: “Ehi, sto scrivendo un romanzo. Quando scrivo mi sento proprio bene! Secondo te è meglio scriverlo in prima o in terza persona?”.
La mia auto non ha l’aria condizionata, ma una vecchia ventola che per combattere il caldo svolge supporto psicologico. Indeciso su quale risposta dare a cotanto inter…rogativo (è la tipica domanda che vi fanno al semaforo, no?), ho finto di pensarci su. Ricordavo di aver letto da qualche parte di certe pratiche zen per non innervosirti.
Il romanziere pensava che io stessi riflettendo sulla sua opera, che ovviamente non leggerò nemmeno se la scrive in quarta persona. Nel frattempo ha aggiunto che lui la storia da scrivere ce l’ha nella testa. Non so perché abbia sentito il dovere di fare questa precisazione. Evidentemente ritiene che le storie da scrivere possano risiedere anche in altre parti del corpo. Comunque gli ho detto che è impossibile rispondere alla sua domanda.
Non mi andava di dirgli che le sue mi sembravano braccia rubate all’agricoltura. Non mi andava di dirglielo perché considero l’agricoltura una cosa molto seria. È come se un contadino, quando non riesci a seguirlo nella vendemmia, ti dicesse: “Buono a nulla! Due braccia rubate alla letteratura!”. A quel punto è scattato il verde, l’ho salutato e sono partito velocemente come fanno da queste parti i tamarri vintage che vogliono fare colpo sulle passanti. Quello lì era il mio primo vaffa della giornata.
In prima persona.
Uno sparo nella notte, nella sua stanza fatta a specchi, in cui si riflettevano le tante donne della vita di Dorian Gray. Predizione di morte. Nomen omen: che tragico presagio in quello pseudonimo. Rotto ormai il patto con Venere e passata per sempre la stagione dell’amore, la stagione della belle vie, finito il tempo dell’incanto, quando lei, la malafemmina, entrava ogni notte nei bei sogni degli italiani, diavolo e acqua santa, angelo e tentazione, la dimenticata giovinezza di soprassalto, ecco, le gioca un macabro scherzo… e si rompono gli specchi che rimandano un’immagine sempre troppo deformata, sempre molto diversa da quella cercata, l’immagine di quell’unica donna mai trovata.. un grido nelle “notti di Cabiria” rompe l’incanto, manda in frantumi quell’illusione di ieri, il sogno dell’eterna bellezza e la perduta giovinezza di soprassalto, ecco, le gioca l’ultimo scherzo. Nella sua casa arredata per piacere, Dorian Gray muore, e con lei se ne va l’ultima testimone di una dolce età, quella delle vacanze romane, del boom economico, miracolo italiano e prosperità, quella delle procaci bellezze mediterranee e delle irresistibili tentazioni, delle decappottabili sulla strada per il mare.. nella sua vita arredata per piacere, Dorian Gray muore… “ahhh dolce vita che se ne va.. sul lungotevere in festa…
Liberamente ispirata alla vita di Maria Luisa Mangini (in arte Dorian Gray)
Saverio Lillo e i dipinti di San Paolo “te le tarante” di Galatina
Uno l’ho visto io camminare col capo in giù sul soffitto, altri bevevano a un pozzo di scorpioni e di serpi, non senza gridi, nel viola acido e sporco d’una cappella, mentre fuori era il chiaro giorno steso coi piedi avanti come il Cristo del Mantegna.V. Bodini
Già dalle prime luci dell’alba del 29 giugno, giorno in cui ricorre la solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, per le vie e nella piazza grande del centro storico di Galatina, si avvertiva nell’aria, fino a qualche anno addietro, quell’agitazione che prendeva tutti: era l’arrivo dei tarantati da tutto il Salento per recarsi alla piccola cappella di S. Paolo “te le tarante”, chiesa
Eccolo. Puntuale. Passo lento e meditato su rughe di muri a grattarsi il ventre con le zanzare intorno. Si lascia osservare. Non sfugge. Si confonde con il bianco della luce. Chissà cosa penserà. Poi un leggero avanzare e una sosta su una piega più consistente. Immobile. Sonnambulo? Riparte! Avrà fiutato qualcosa? Prediligo la nudità di questo silenzio che si è fatto attivo. Questo luogo, dimora dei miei affanni, incanta. Non so cosa gli passa per la testa al geco. Siamo diversi. Lui educato e modesto, mai un atteggiamento di posa. Io in misteri di poesia, anche nelle ore febbrili.
Geco, quale verità adombri?
Immerso nei pensieri della filosofia ravvedo una speranza di salvezza, ma non comprendo la magnificenza della ragione.
Tornerai a trovarmi, lo so.
La serenità delle linee dell’orizzonte tacitano normali tristezze che negli istanti superflui di tempo concepiscono opere di volontà.
Geco, qualche altra volta saziami della tua presenza affinché possa concludere questa mia opera di poesia.
E’ stata inaugurata ieri sera a Lecce, in Piazzetta Raimondello Orsini, la restaurata statua del Fanfulla, opera di Antonio Bortone (1844-1938), scultore originario di Ruffano. L’intervento di restauro, voluto dall’Amministrazione Comunale di Lecce, è stato effettuato grazie ad un finanziamento del Lions Club Lecce.
Questo monumento, modellato in gesso a Firenze dall’illustre scultore salentino nel 1877, venne fuso in bronzo nel 1921 e inaugurato l’anno seguente. Inizialmente collocata a ridosso di Palazzo Carafa, questa statua venne poi trasportata nella collocazione attuale.
Scrive Aldo de Bernart: “Antonio Bortone è scolpito sul plinto, che regge quella famosa statua, nel testo epigrafico del prof. Brizio De Santis: Sono/ Tito da Lodi /detto il Fanfulla/ un mago di queste contrade /Antonio Bortone/ mi tramutò in bronzo/ Lecce ospitale mi volle qui/ ma qui e dovunque/ Dio e l’Italia nel cuore/ affiliamo la spada/ contro ogni prepotenza/ contro ogni viltà/ MCMXXII.
La statua raffigura il Fanfulla, uno dei tredici cavalieri della “Disfida di Barletta”, ritratto ormai avanti negli anni quando orbo di un occhio e col saio domenicano faceva penitenza nel fiorentino convento di S. Marco, mentre affila la misericordia,un acuminato spadino che all’inquieto lodigiano era servito in tante battaglie.
Modellata a Firenze nel 1877, l’opera è figlia della tensione tra i circoli artistici fiorentini e il Bortone, che si era prodotto, e bene, nel nudo, con il Gladiatore morente, ma non aveva ancora dato prova di sé nel drappeggio. Tale prova il
Ore 21:00, stazione di Lecce. L’Intercity Notte 752 aspetta placido la partenza, con i suoi vagoni afosi già illuminati. L’aria condizionata ancora non va.
Lo stato d’animo è il solito di chi parte e deve lasciare ragazza, famiglia e amici per tornare “su”. Questa sera però c’è qualcos’altro…uno strano sentimento.
Non so quanti di voi abbiano mai visto il secondo tragico Fantozzi: in particolare la scena in cui il vessato ragioniere, pronto a gustarsi Italia – Inghilterra con “calze, mutande, vestaglione di flanella, tavolinetto di fronte al televisore, frittatona di cipolla per la quale andava pazzo, familiare di Peroni gelata, tifo indiavolato e rutto libero”, riceve il triste annuncio di una convocazione per il terribile cineforum del dottor Riccardelli, suo superiore. Ecco, il mio stato d’animo alle 21 di domenica 24 giugno è questo e proprio per un’altra Italia – Inghilterra.
Non ho auricolari, né lettori mp3: li ho dimenticati a Bologna. La partita è cominciata da pochi minuti e io ho giusto sentito gli inni alla radio della macchina. Ora, sul marciapiede non molto affollato del binario tre, alcuni passeggeri camminano indifferenti, con l’auricolare ben pressato nell’orecchio, altri si avvicinano distratti porgendo le solite domande: “Come stiamo?” “Palo? Chi ha fatto palo?” (anche questo di fantozziana memoria). Cerco di leggere un libro di storia moderna, un interessante mattone da seicento pagine, ma non riesco a concentrarmi. Mi avvicino anch’io ad un tizio con l’auricolare e gli chiedo:
“Come va la partita?”
“Veramente sono al telefono con mia madre” risponde un po’ piccato
“Scusi tanto”
Torno a leggere, ma ormai è ora di partire. Salgo sul treno. L’aria condizionata inizia ad emettere un lieve sospiro, ma il calore è ancora intenso. Mentre raggiungo il mio posto lancio occhiate interessate negli altri scompartimenti e finalmente trovo quel che cerco: a due scompartimenti dal mio, un passeggero sta innestando con lenti movimenti una chiavetta per la connessione nel proprio pc portatile. Ci siamo, può essere la svolta: Italia – Inghilterra in streaming sull’Intercity notte può avere un suo fascino.
Mi metto a sedere, faccio passare alcuni minuti e torno, con la solita aria indifferente, dalle parti del passeggero munito di pc. Lo vedo fissare con attenzione un sito, non capisco bene di cosa, ma sicuramente non calcistico. Aspetto alcuni minuti, ma nulla. Lo osservo speranzoso, cerco di studiarlo: dev’essere uno di quei soggetti del tipo: “Figurati se posso seguire ventidue cretini che corrono in mutande dietro un pallone”. Un modo di ragionare che
I salentini a Civita Castellana / Ritorno alla Tenuta Terrano: le foto di ieri e di oggi.
Nel 1965 la mia famiglia emigrò da Collemeto nel Salento a Civita Castellana per la coltivazione del tabacco. Si calcola che almeno cinque mila salentini a quel tempo siano emigrati nell’arco di 15 anni nel Viterbese. I primi due anni furono durissimi, l’alloggio cui ci aveva destinato il primo proprietario terriero era malsano, privo di servizi, praticamente una stalla. Dopo due anni ci trasferimmo nella Tenuta Terrano dove il nuovo proprietario ci fece alloggiare in una casa da cristiani. Nella Tenuta c’era un concentramento di almeno 500 salentini. Coltivammo tabacco per altri otto anni, fino al 1975, quando i miei genitori decisero di tornare a Collemeto. Noi figli restammo perché nel frattempo avevamo trovato un lavoro. Per tanti anni non sono più passato dalla Tenuta Terrano e questo benché dalla mia finestra scorgo ogni giorno in lontananza la torretta della villa dell’allora proprietario terriero. Negli anni Sessanta ero munito di un’irrisoria macchina fotografica in b/n grazie alla quale, però, ritrassi i miei e lo scenario che si presentava alle loro spalle che documenta la vita ordinaria nella Tenuta e alcune fasi della lavorazione del tabacco. Ma ecco che uno di questi giorni, munito di buona fotocamera stavolta, mi sono messo in cammino per arrivare alla tenuta. Il cuore mi batteva forte quando ho fatto ingresso nel viale che portava ai tanti caseggiati, compreso il mio: vi alloggiavano in ordine sparso tante famiglie salentine e alcune calabresi. Dall’ingresso della Tenuta la mia vecchia casa distava un chilometro. Non ero sicuro di riuscire a dirigermi
Il Galateo afferma che per lui essere greco è motivo d’orgoglio:
“Graeci sumus et hoc nobis gloriae accedit”, ed inoltre: “mio padre studiò le lettere greche e latine, mio nonno ed i miei antenati furono sacerdoti greci, quindi non ignorarono punto la cultura greca, la Sacra Scrittura e la Teologia e furono famosi non per le imprese militari, vale a dire per la violenza, per stragi e saccheggi, ma… per la dirittura morale e l’integrità della loro vita”.
Per molti secoli dopo la fine del dominio dell’Impero Romano d’Oriente, il Salento rimase fedele alla cultura greca, avvertendola come sua propria.
24 giugno, festività di San Giovanni Battista. Il solstizio estivo e le erbe di San Giovanni
Giugno, il solstizio estivo e le erbe di San Giovanni
di Elvino Politi
Azzate San Giuanni e nu durmire
ca sta bisciu tre nuvole venire,
una te acqua una te jentu una te triste mmaletiempu.
A mare a mare
a ddu nu canta jaddru a ddu nu luce luna
a ddu nu se sente nisciuna criatura.
Tra le antiche tradizioni salentine legate alla terra e all’uso delle erbe c’è in primo piano la tradizione della Notte di S. Giovanni, festa di mezza estate, che ricorre pochi giorni dopo il solstizio d’estate.
Tale giorno era considerato sacro nelle tradizioni precristiane ed ancora oggi viene celebrato dalla religiosità popolare con una festa che cade qualche giorno dopo il solstizio, il 24 giugno, quando nel calendario liturgico della Chiesa latina si ricorda la natività di San Giovanni Battista.
Tutte le leggende si basano su di un evento che accade nel cielo: il 24 giugno il sole, che ha appena superato il punto del solstizio, comincia a decrescere, sia pure impercettibilmente, sull’orizzonte: insomma, noi crediamo che cominci l’estate, ma in realtà , da quel momento in poi, il sole comincia a calare, per dissolversi, alla fine della sua corsa verso il basso, nelle brume invernali.
Sarà all’altro solstizio, quello invernale, che in realtà l’inverno, raggiunta la più lunga delle sue notti, comincerà a decrescere, per lasciar posto all’estate. E’ così che avviene, da millenni, la corsa delle stagioni.
Nella festa di San Giovanni convergono i riti indoeuropei e celtici esaltanti i poteri della luce e del fuoco, delle acque e della terra feconda di erbe, di messi e di fiori. Tali riti antichi permangono, differenziandosi in varie forme, nell’arco di duemila anni, benchè la Chiesa ostinatamente abbia tentato di sradicarli, o perlomeno di renderli meno incompatibili con la solennità.
Molte sono le usanze legate alla Notte di S. Giovanni: nelle campagne l’attesa del sorgere del sole era propiziata dai falò accesi sulle colline e sui monti, poichè da sempre, con il fuoco, si mettono in fuga le tenebre e con esse gli spiriti maligni, le streghe e i demoni vaganti nel cielo. Attorno ai fuochi si danzava e si cantava,
ASSOCIAZIONE ‘NGRACALATI, SPECIMEN TEATRO E SALENTO IN CAMPO
presentano
LA CENA DELLA NOTTE DI SAN GIOVANNI
Banchetto Medievale nel cuore di Borgagne
Sabato 23 giugno
Ore 20:30
Piazza Sant’Antonio – Borgagne (Melendugno – Le)
Dopo il successo dell’ottava edizione di Borgoinfesta, l’Associazione ‘Ngracalati replica per il secondo anno consecutivo “la cena della notte di San Giovanni”, un viaggio alla riscoperta di riti e usanze legate al solstizio d’estate, l’antica “porta di Dio”, proposto dalle associazioni “Specimen Teatro” e “Salento in Campo”.
La rinnovata Piazza Sant’Antonio di Borgagne (Melendugno-LE) accoglierà uno spettacolare banchetto medievale animato da giullari, acrobati, giocolieri, attori, mangiafuoco, musici e danzatori. Gli ospiti potranno gustare i buoni piatti della tradizione salentina e mediterranea, i vini, i nuovi liquori d’erbe, bacche e frutta serviti per tutta la durata della cena da damigelle e garzoni in costume.
Durante la notte, gli ospiti saranno invitati a raccogliere i malli delle noci per preparare il nocino, confezionare in trecce l’aglio, camminare a piedi nudi sulla rugiada magica. Nel frattempo si preparerà “l’acqua di San Giovanni”, si raccoglieranno le nuove essenze aromatiche per la casa, si confezioneranno i mazzetti delle erbe bagnate dalla rugiada che, per tradizione, acquisiscono il potere di scacciare ogni malattia.
La Nottedi San Giovanni è anche motivo per riscoprire la musica della tradizione salentinae del Sud Italia, quella colta e quella popolare, per valorizzare i dialetti, per presentare le erbe e le loro caratteristiche, per provare il piacere di ascoltare i cunti e le tiritere del solstizio d’estate.
LABORATORIO RITMI E RITI
21-23 giugno 2012
Borgagne (Melendugno –Le)
L’Associazione Specimen Teatro organizza dal 21 giugno il laboratorio ”Ritmi e Riti”, occasione per vivere passo passo la preparazione della festa di San Giovanni. Sarà possibile partecipare a tutte le attività tra cui: escursioni, prove teatrali e musicali, danze popolari, raccolta delle erbe di San Giovanni, preparazione di oleoliti, mazzetti di erbe e piante aromatiche.
Ingresso: euro 20,00
Info 328 54 73 087; Prenotazioni 389 55 49 520
Prevendita: Borgagne – Caffè Petraroli; Lecce – BAR300 mila
Però a volte si va ugualmente al mare, anche se c’è tramontana. Il Salento è magico perché puoi scegliere in base al vento dove andare. Allora perché andiamo verso San Foca quando c’è lei? Bisognerebbe andare sullo Ionio, perbacco!
Non fa nulla, forse ci andiamo per vedere le onde che arrivano lunghe. Forse per cercare quella caletta che ci ripara, forse solo per pigrizia.
Parole, parole, parole… Costruiamo parole di carta che pochi leggeranno. Durante il viaggio verso il mare (piccolo percorso) a volte si tace, significa che ognuno pensa agli affaracci suoi, che poi non siano proprio affaracci ma affari, poco importa. Però è bello esserci anche in quei momenti, avere accanto qualcuno. C’è corrispondenza di presenze a prescindere dal detto e dal taciuto. “Forse non lo sai ma pure questo è amore” cantava Vecchioni. Lui significava altro, però il bello delle parole dette, scritte o cantate (da altri) è che le fai tue e le plasmi. Come le poesie. Diverso per la prosa, i prosatori sono meno prosaici in fondo. Dicono le cose utilizzando tutto il vocabolario a disposizione. A volte rompono i maroni per il profluvio di parole che escono fuori dalle tastiere, spesso a loro insaputa. C’è chi scrive come già nell’800 insinuando un misto di tenerezza e sconcerto per quelle parole in disuso come le locomotive a vapore, “le vecchie cose di pessimo gusto” chiamava Fogazzaro alcuni oggetti sparsi nelle case. Spesso le leggi comunque, per una solidarietà non detta, anche se non condividi, come diceva un amico del secolo scorso, un’emerita cippa.
C’è poi chi scrive come parla, così, per caso, a volte senza la mediazione del cervello fra le dita e lo schermo, come mi succede spesso. Non mi dilungo su interpretazioni psicoanalitiche, anche perché me ne mancano le cognizioni e poi, diciamolo, sono affaracci miei. Quasi nessuno però scrive più a penna su un foglio bianco. Grande liberazione per chi, come me, non ha mai coltivato la bella calligrafia. E si che un tempo si facevano a scuola lezioni anche di quello. Imparai a scrivere con la matita, poi passai alla penna con pennino e calamaio al quale erano indissolubilmente sposate le macchie sul foglio bianco che tentavo di asciugare con l’angolo della carta assorbente. Tralascio il fatto che ne aveva solo quattro, di angoli. Detestavo i pennini fatti come la mole Antonelliana, mi piacevano quelli panciuti. Lo so che tutti hanno un nome, ma non li conosco. Inoltre sono perfettamente cosciente che questa roba qui denuncia spudoratamente la mia età.
Oggi comunque debbo chiedere aiuto per decifrare l’indecifrabile di appunti che mi capita di prendere sulla Moleskine. Ecco, la Moleskine che porto sempre con me perché era il quaderno degli artisti. Solo che loro erano artisti. E’ un po’ come avere una bicicletta azzurra e spacciarsi per Fausto Coppi. Poi ci sono quelli che scrivono di filosofia e fanno i pensatori. Tutto il mio rispetto, però in estate, forse forse, sarebbe bello un ghiacciolo stravaccati davanti alla Jannara a vedere il mare che le passa sotto e pensare ai ricci o a un piatto di fagiolini, invece di arrovellarsi per capire dove va l’uomo e se Dio esiste o è una proiezione della nostra incapacità di capire le cose del mondo. E qui potremmo aprire una parentesi, le cose che non si comprendono aumentano proporzionalmente al “progresso”. Per dirne una, un tempo democrazia era quella cosa che consentiva ad ognuno di crescere, oggi è quella cosa stramba che permette ad un sottosegretario di dire ai disoccupati che dovrebbero rinunciare ad una settimana di ferie per produrre di più. Mah!
Parlavo di fagiolini prima, la cosa non è assolutamente casuale, anzi. Da un po’ di tempo si diffondono attorno a me, come il blob del vecchio film, personaggi inquietanti, fieri nella loro decisione. Sono uomini e donne, giovani e meno giovani, filosofi e studentesse che dichiarano il loro essere vegetariani! Se capita di trovarti a cena con qualcuno di loro, e succede spesso, mi sento a disagio. Se non ci si conosce bene, mentre passano salsicce, costate, salami e salumi, ordino “verdurine grigliate”. Vabbè, si risparmia. Salvo poi un invito a cena a casa di un vegetariano, che ti propone il ragù… Di tofu. Ed io a chiedermi come ho potuto passare attraverso metà del secolo scorso senza conoscere il tofu. “Contiene proteine come la carne” “perbacco che trovata geniale, è come le sigarette finte che ti somministrano, pagando, su Ryan air”. Ammicco, mangio con sussiegoso distacco mentre parliamo delle amministrative, piuttosto che del tempo o del mare o ascolto filosofeggiare. Segretamente penso alle tagliatelle alla bolognese. Saranno senza tofu ma mi piacciono. Devo dire però che sono corretti tutti quanti i vegetariani che frequento. Una sola volta, anni fa successe l’irreparabile. Lei era carina, mi sentii dire mentre azzannavo cannibalescamente una cotoletta “sai, io non mangio animali morti”. “E che (bip bip)”, pensai. Inutile dire che l’approccio fu disastroso. Ripensandoci posso dire di sapere come si sentì Schettino mentre la sua nave si appoggiava sul fondale. Comunque la cotoletta era dura!
Scrittori… La nave dei folli… Pensatori che mettono su carta con mezzi meccanici il loro sapere. I poeti che fanno versi e a volte scrivono parolacce che, dette da un poeta, diventano versi ispirati e se le dice un bambino viene ammonito, redarguito. Inutile dire che sto dalla parte dei poeti e dei bimbi che a volte dicono parolacce sentite (toh il caso) dai grandi.
E qui mi fermo, aspettando il primo luglio, quando si potranno mangiare ricci.
P.s. – Questa chiusa è un sordido tentativo di chiudere il cerchio, non ricordo assolutamente perché avevo iniziato parlando di ricci.
Antenato del baseball? il basticallòi, un antico gioco salentino
Riflessioni filologiche sul nome neritino di un antichissimo gioco: il basticallòi
di Armando Polito
Il gioco, forse lontano antenato del baseball, consisteva nel far saltare un pezzo di legno di forma cilindrica, lungo circa 12 cm, spesso 3 e appuntito alle due estremità, collocato a terra, battendolo ad un’estremità con una specie di paletta lunga circa 60 cm., larga 10 cm. (più stretta ad un’estremità che costituiva l’impugnatura) e spessa 1 cm. con un colpo assestato di taglio, facendolo saltare in aria all’altezza di circa 1 m. e con un secondo colpo, questa volta di piatto, scagliandolo il più lontano possibile.
Per ogni concorrente la distanza raggiunta dal punto di battuta veniva misurata con la stessa mazza e ad ogni segmento misurato corrispondeva un punto. Era dichiarato vincitore colui che, avendo partecipato alle manches che erano state preventivamente concordate, aveva realizzato il maggior numero di punti. Veniva stabilito preventivamente pure il numero di volte che colui che aveva conseguito il punteggio più basso avrebbe dovuto portare sulle spalle, per un tragitto anch’esso preventivamente stabilito, il vincitore: questo premio si chiamava ddhozzu1. Il nome italiano di questo gioco è lippa, di origine infantile, forse onomatopeica.
Di seguito sono riportate, dopo quella di Nardò (per la cui etimologia si rimanda alle conclusioni finali), le varianti salentine con le relative considerazioni:
1) A Nardò bbasticallòi designa il gioco.
2) A San Cesario di Lecce e a San Pietro in Lama bàzzica indica il gioco e il legnetto; con riferimento a quest’ultimo la voce potrebbe essere collegata con l’italiano bàzzica, che è forse da bazza=mento appuntito.
3) A Gagliano mazzae ccìrculu indica il gioco; sono evidenti le due prime componenti: mazza ed e; per la terza vien da pensare subito a circolo, ma molto probabilmente si tratta di una deformazione di zzìppuru/zzìcculu, diminutivi di zzippu, che in alcuni territori del Leccese e del Brindisino (vedi i nn. 22 e 23) indicano anche il legnetto di questo gioco.
4) A Martano, Muro Leccese, Salve e Tricase mazza–zìcculu indica il gioco; vale quanto detto per la voce precedente.
5) A Soleto mazzalòi indica il gioco; forma sincopata della n. 14?
6 A Castro mazza-mazzìrculu indica il gioco; da mazza replicato e zzìrculu, per cui vedi l’ultimo componente del n. 3.
7) A Otranto mazzangìrculu indica il gioco; probabilmente forma dissimilata da *mazzaggìrculu, da mazza e ccìrculu, per cui vedi il n. 3.
8) A Castrignano dei Greci mazzarùna indica il gioco; accrescitivo dell’obsoleto italiano màttero=bastone, da un latino *màttare(m), variante di màtaris=giavellotto?
9) A Maglie mazza-ttìppiti indica il gioco; da mazza+tìppiti (vedi il n. 21).
10 A Ceglie Messapica mazzaiùne indica il gioco; vedi il n. 8.
11 A Sava mazza–unu indica il gioco; stessa origine di 8 con lenizione di –r– e cambio di genere?
12) A Gallipoli mazzenguzze indica il gioco; da mazze e nguzze per cui vedi il n. 13.
13 A Guagnano ed a Novoli nguzza indica il legnetto; deformazione di aguzzo?
14) A Galatina mazzicalòi indica il gioco; in rapporto con mazzalòi (vedi il n. 5)?; da màzzicu (vedi il n. 20)?; per la seconda parte vedi le conclusioni.
15 A Brindisi mazzicaùnu indica tanto il gioco quanto il bastone; forma aggettivale accrescitiva da màzzicu (vedi il n. 20 ) con lenizione della –r– come nel n. 11??
16 A Poggiardo mazzicanzìrculu indica il gioco; da màzzicu (vedi il n. 20) e per il secondo componente vedi il n. 3.
17 A Presicce pastilò indica il gioco e il bastone; forma sincopata di basticallòi? (vedi il n. 1).
18) A Castrì di Lecce pizzicaùnu indica il gioco e il bastone; forma aggettivale accrescitiva da pizzica con lenizione di –r– come nei nn. 11 e 15?
19 A Pisignano, Salice Salentino e Vernole pizzicarièddhu indica il legnetto; diminutivo da pizzicàre.
20 A San Pietro Vernotico màzzicu indica il bastone; forma aggettivale da mazza (italiano obsoleto mazzicare=colpire con la mazza)?.
21) Ad Alessano, Cursi e Ugento tìppiti indica il legnetto; da una serie onomatopica t…p…t.
22 Ad Alezio, Taviano e Mesagne zippu indica il legnetto; il corrispondente italiano è la voce romanesca zeppo, da zeppa, secondo alcuni dal longobardo *zippa=estremità appuntita, secondo altri dal latino cippu(m)=cippo.
23 A Muro Leccese e a Tricase zìcculu indica il legnetto; probabile deformazione di *zìppulu, diminutivo del precedente.
24 A Tricase zìpparu indica il legnetto; forms sggettivale diminutiva di zippu (vedi il n. 22).
Sembra che una trama misteriosa colleghi tra loro le varianti riportate, ma soffermiamo la nostra attenzione sul fatto che la stragrande maggioranza reca come primo componente mazza o il suo derivato màzzicu. Farebbero eccezione bbasticallòi, bbàzzica, pastilò e pizzicaùnu, mentre sembrerebbero collegati fra loro per l’esito finale mazzicalòi, bbasticallòi e pastilò. C’è anzitutto da dire che il Rohlfs nel I° volume della suo opera citata nell’introduzione, a pag. 328, a proposito di mazzicalòi propone la derivazione da mazza e (ma in forma dubitativa) il greco kalòs=bello. E’ intuitivo che il dubbio dell’illustre studioso nasce, al di là della presunta composizione ibrida, dalla difficoltà di collegare il concetto di bello con la voce in questione; a questo proposito io proporrei di prendere in considerazione come secondo componente il greco kalon=legna (connesso col verbo kàio=bruciare), che continua nel latino cala attestato da Lucilio (II° secolo a. C.). La terminazione in –òi (per la quale, al limite, si potrebbe ipotizzare un influsso brindisino) non pone alcuna difficoltà, se si pensa a fiddhòi=tappo che è dal greco fellòs=sughero; per quanto riguarda, poi, la –i– di mazzicalòi (mi sarei aspettato mazzacalòi) non è da escludere un influsso della –i– di màzzicu.
Passando ora al neritino bbasticallòi, dopo aver detto che il raddoppiamento di –l– può essere di natura espressiva [ma è da ricordare anche che il raddoppiamento del lambda (-l-) di kalòs è presente già in greco nei composti, per esempio kallìpolis, nome comune in Platone e poi proprio per indicare diverse città, fra cui la Gallipoli salentina; tuttavia ritengo che tale raddoppiamento nel nostro caso sia posteriore, cioè di natura espressiva, altrimenti da –ll– mi sarei aspettato –ddh-, quindi bbasticaddhòi], ci troviamo ad affrontare il problema del primo componente; se bbasti– non nasce per dissimilazione da bbatti– (proprio il Rohlfs a pag. 75 dello stesso volume prima citato registra per Nardò, accanto a bbasticalòi, la variante batticalòi), confisso derivato da battere, è lecito pensare al verbo greco bastàzo=sollevare. Anche qui, com’era successo per mazzicalòi, mi sarei aspettato bbastacallòi, ma non escluderei che il passaggio –a>-i– sia dovuto ad influsso di bbatti-. Un’ultima riflessione di carattere generale: gli incroci e le paretimologie (figli, per lo più della lingua popolare) sono un fenomeno abbastanza ricorrente; non c’è da meravigliarsi se nelle varianti della voce che ho appena finito (con tanti dubbi superstiti!) di analizzare esse sembrano avere un ruolo determinante; trattandosi, poi, di un gioco infantile, il rischio di deformazioni più o meno arbitrarie è ancora più spinto.
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1 Per aferesi da *caddhùzzu, inusitato diminutivo di caddhu (cavallo), corrispondente all’italiano cavalluccio.
La fratellanza sallentina ieri e oggi, i Messapi e il meridionalismo moderno.
Tutela dell’ambiente e amore del territorio
Giovanni D’Elia
Ambiente, ecosistema, tradizioni popolari, artigianato tipico ed artistico, storia e cultura dei Messapi. Queste parole, questi concetti hanno un filo comune che li lega indissolubilmente.
A volte l’errore che noi commettiamo è quello di ragionare per compartimenti stagni, abituati come siamo ad attribuire ad ogni concetto un significato univoco. Dunque Ambientalismo lo traduciamo con mera difesa dell’ecosistema e spesso viene visto dai più come un ostacolo allo sviluppo, nell’ottica per cui lo sviluppo di una società si misura in termini di maggior numero di infrastrutture, di strade, porti, strutture ricettive, centrali e quant’altro rappresenta il segno della modernità, il tappabuchi per le esigenze cogenti e attuali.
Analogamente pensiamo alla tutela delle tradizioni locali come ad un tentativo di porre in una teca da museo il nostro passato, forse in termini un po’ romantici e nostalgici, e anche qui non mancano le accezioni negative, in quanto per decenni il folklore è stato considerato come un’espressione pittoresca e rudimentale degli usi e costumi di popoli che non hanno avuto la possibilità di civilizzarsi. E la civiltà non è altro che quella che dapprima Gramsci e oggi l’UNESCO, nelle sue diverse Convenzioni per la salvaguardia della cultura e del folklore, chiamano Cultura dominante.
Anche questa concezione, di stampo illuministico, è passata nelle nostre coscienze come un assioma, per cui la cultura non è altro che un’attività intellettuale superiore, frutto, appunto dell’educazione di Stato. Gli studi antropologici, per fortuna, ci dimostrano che cultura è l’espressione dell’arte e della scienza vista non in termini qualitativi ed evoluzionistici, ma come fenomenologia materiale e immateriale di ogni singola comunità stanziata su un certo territorio, che cambia e si sviluppa sia autonomamente sia in contatto con altre comunità.
Infine, allo stesso modo guardiamo alla storia come ad un mero ricordo di ciò che è stato e non è più, come una serie di nozioni scolastiche ormai prive di senso, perché superate dal progresso. In tale contesto la storia locale non passa una vita migliore, perché la sua conoscenza non è frutto dell’insegnamento pubblico, ma della volontà individuale (spesso ostacolata dalla scarsità di fonti) di conoscere il proprio territorio e la sua storia.
Ecco che, in quest’accezione, un Dolmen, un Menhir o una Specchia sono semplici pietre, e quando qualcuno ne distrugge l’esistenza, come è accaduto pochi giorni fa a Giurdignano e a Surbo, alcuni, anche pubblicamente, ne sminuiscono la portata, riducendo il valore culturale, storico ed identitario di siffatte opere all’espressione di una storia che non ci appartiene più.
Da qui parte questa riflessione che giovedì 21 giugno vorremo condividere con voi, lettori ed appassionati di cose locali, parte dai termini che vi ho citato all’inizio: Ambiente, ecosistema, tradizioni popolari, artigianato tipico ed artistico, storia e cultura dei Messapi, e il filo comune, il collante che tiene uniti questi termini è un concetto molto elementare e allo stesso tempo complesso: identità.
E’ il senso d’identità che ci contraddistingue, ci rende in un certo senso testimoni e allo stesso tempo attori di una storia attuale che sotto certi versi stupisce e fa discutere chi si trova, a vario titolo, a parlare del Salento e del fermento culturale che lo contraddistingue.
Spesso si sente dire che la Pugliaè la Regione meno meridionale del Sud, perché i sistemi mafiosi sono meno penetranti che nelle altre regioni, perché il PIL è di poco superiore rispetto alle regioni contermini, e per altre e variegate ragioni. Beh, non credo sia così. La Puglia è una regione meridionale, forse la più meridionale, perché in Puglia si sta sviluppando sempre più un meridionalismomoderno, il cui vocabolario è composto proprio dai termini che vi ho appena citato e che rappresentano la base da cui partire per costruire una coscienza meridionale fatta non di scontro e separazione, in una becera visione conflittuale, ma di inclusione, dialogo e amore del territorio, nonché della sua storia, colta e popolare, materiale e immateriale, antica e recente, scritta e non scritta.
Ecco perché oggi abbiamo voluto parlare di Messapi, un popolo che per secoli ha coltivato, adornato, venerato e difeso la propria terra nonché ha dato origine ad un artigianato tipico, come espressione materiale della propria cultura.
Infatti non a caso abbiamo scelto la Mostra Permanentedell’Artigianato come contenitore culturale per questa prima iniziativa. L’arte è l’espressione materiale della cultura di un popolo. Da ciò ne discende che l’artigianato locale tipico è un elemento di memoria, un prodotto che ci identifica e che non può scomparire sotto i colpi martellanti del modello cinese. Ma c’è di più. C’è un artigianato artistico, frutto della memoria unita all’evoluzione stilistica, alla continua ricerca del bello, un bello spesso legato ai temi della natura, del paesaggio, dell’ambiente circostante. Quale migliore ispirazione per gli artigiani del Consorzio che l’ambiente che li circonda? E quale migliore collante che il senso di identità?
Dunque il filo comune che lega la storia dei Messapi alle tradizioni popolari, all’ambiente e alla tutela e valorizzazione dell’artigianato è proprio il senso d’identità, grazie al quale possiamo tracciare un percorso che – forte della memoria e dell’attaccamento alla terra – si sviluppi in armonia con la natura, in lentezza, e in alternativa all’ossessione competitiva, per cui tutto ha un valore economico, continuamente al ribasso, e ciò che non è suscettibile di valutazione economica diviene preda di interventi modernizzanti o di scempi della memoria.
Non a caso – c’è da dirlo a conclusione di questo umile scritto – l’ossessione competitiva, che colpisce soprattutto gli amministratori della cosa pubblica, lontani dalle esigenze reali dei cittadini e dei visitatori di questo splendido lembo di terra, li porta ad inseguire continuamente un modello di sviluppo che proprio non ci appartiene, progettando strade inutili e decontestualizzate dal territorio, sognando un Grande Salento collegato dalla testa ai piedi in cui il turista può raggiungere Leuca da Taranto o da Bari nel minor tempo possibile. Ma se il visitatore volesse perdersi tra gli ulivi e la macchia mediterranea? Si perderebbe tra gli svincoli e le uscite (magari con le mappe del navigatore non aggiornate…). E se andasse alla ricerca di strade sterrate e piccole piccole, per disintossicarsi da 11 mesi e passa di autostrade e grandi arterie che percorre ogni giorno? Ritroverebbe lo stesso paesaggio di casa sua…E se mentre percorre le strade che da Taranto portano a Leuca volesse cacciare la testa fuori dal finestrino per sentire gli odori del timo, del lentisco, del rosmarino o del mirto? Sarebbe invaso dagli odori delle marmitte dei TIR che portano i tamburelli cinesi da destinare alle bancarelle locali… E se ad un certo punto, colpito da una pajara che troneggia al centro di una campagna, volesse fermarsi per fotografarla? Dovrebbe attendere l’uscita successiva o fermarsi in una piazzola di sosta e respirare gli odori dell’asfalto fresco fresco…
Dunque storia, memoria, amore del territorio…sono la bussola che ci dovrebbero guidare alla ricerca della nostra identità, lungi da quell’ossessione competitiva che non dovrebbe far parte del nostro vocabolario.
Vi aspettiamo giovedì 21 giugno p.v. a Lecce, presso la Mostra Permanente dell’Artigianato (via Rubichi, nei pressi del Comune di Lecce, accanto alla Chiesa del Buon Consiglio, a due passi da Piazza S. Oronzo) per discutere di tutto ciò e per gustare insieme i prodotti della terra salentina e godere di un po’ di buona musica popolare. Perché le rivoluzioni (pacifiche) iniziano sempre da una discussione, una frisa e uno stornello…
Non ero mai stato a Cannole. Ne avevo sentito parlare e, chissà poi perché, avevo l’idea di un paese in cui prima o poi sarei andato, giusto per vedere i luoghi in cui erano fuggiti gli otrantini mentre i turchi massacravano. Invece vale la pena andarci, anche se è un sabato sera di giugno. C’è anche il castello, piccolo ma austero, e c’è un’aria da paese, appunto, di tranquillità.
Signori seduti su una panchina che parlano facendosi scivolare addosso la sera d’estate, qualche ragazzo, pochi in verità. “Scusi, dov’è che presentano un libro?” “Un disco presentano, alla Pro Loco” e mi indica la strada. Il salone è grande e tappezzato da manifesti “antichi” della Festa te la Municeddhra. Antichi, parliamo del ‘900, quando chi scrive sapeva già di antico lui pure, ma questo non c’entra.
Ne è valsa la pena veramente ascoltare “Le ragazze del novecento” che cantano. Loro si chiamano Gina, Assuntina, Rosaria, Rosalba, Eva, Ndata, Nzina e cantano a cappella, senza musica come voleva il canto popolare, nei campi mentre si lavorava o nelle sere d’estate. “Al massimo c’era un tamburello e poco più” dice Luigi Chiriatti che ha curato il volume e il doppio CD delle ragazze. E c’è qualcosa di stupefacente scorrendo i titoli ed ascoltandole cantare, molti testi sono in italiano e provengono dal centro sud,
E’ scomparso Giuseppe Bertolucci, sceneggiatore e regista, figura importante del cinema italiano e internazionale. Ciò annuncia un manifesto, listato, nella circostanza, di grigio scuro, fatto affiggere dalla civica amministrazione di un piccolo comune del Basso Salento.
E però, avanti che si affacciasse come sopra dalle locandine sui muri del paesello, la notizia dell’evento, grazie all’immediatezza a livello di tempo reale dei circuiti via internet, aveva ovviamente raggiunto i motori di ricerca e le agenzie di stampa. Cosicché, lo scrivente ha saputo attraverso una delle saltuarie capatine dentro le pareti di Google.
Ad ogni modo, la località di Diso, poco più di mille abitanti, capoluogo di un comune che, considerando anche la frazione di Marittima, supera appena le tremila anime, ameno e tranquillo paese a due passi da un mare d’incanto, meno che una punta di spillo nell’ambito dei confini geografici globali oggi vigenti, c’entra, eccome!
Difatti, qualche anno addietro, l’eminente uomo di cinema e di cultura l’aveva scelta come luogo dei suoi riposi, delle parentesi di distensione, senza pensieri e nello stesso tempo fra meditazioni e riflessioni, quale angolo tranquillo per rivivere un’esistenza piena, intensa e intrisa di successi.
Individuazione, tuttavia, nient’affatto casuale, anzi verosimilmente in linea con la grande semplicità dell’uomo, il suo attaccamento alla natura.
Non è dato sapere se la decisione di rifugiarsi, di tanto in tanto, da queste parti, sia stata antecedente o successiva rispetto ad un problema di salute, al
Detto così sarebbe, se non fosse per la prima immagine certamente meno accattivante, forse, di quella di Manuela Arcuri, una di quelle esternazioni che, anche se fatte da un personaggio famoso, mi lasciano totalmente indifferente; e io famoso non sono, per cui debbo rinunziare a questa forma di autocompiacimento. E lo faccio con grande piacere, anche perché l’affermazione supporrebbe che le bionde e le rosse (se, poi, pensiamo ai colori artificiali e artificiosi la gamma sarebbe pressoché infinita) poco manca che mi facciano schifo. Le donne mi piacciono tutte (e non è questa esternazione da vip?; comunque, giacchè ci sono, è bene che esprima compiutamente il mio pensiero), anche se prediligo le brune. A questo punto mi pare di sentire il lettore scocciato proferire: -Ma questo, con questi discorsi, a quasi settanta anni, non si rende conto di essere grottesco? Non possiamo correre il rischio che per colpa sua (!), nel caso si desse alla politica e diventasse Presidente del Consiglio, lo spread tornasse a salire, come quando c’era Lui-.
Non è per glissare, ma la risposta rischierebbe, lei sì, di prolungare eccessivamente la digressione da tempo in atto. Dico perciò, senza perdere e far perdere ulteriore tempo, che le more alle quali mi riferisco sono quelle che nel dialetto neretino sono chiamate lùmbari (questa è la forma registrata dal Rohlfs che, però, come dirò più avanti, non mi convince), il frutto della scràscia (rovo); perché anche queste mi fanno impazzire, e non solo perché ne sono ghiotto, si capirà a breve.
A distanza di quasi due anni torno sull’argomento e sottopongo alla gentile attenzione degli interessati un’altra ipotesi, totalmente diversa dalla precedente.
Intanto ecco qui tutte le varianti salentine, naturalmente tratte dal vocabolario del Rohlfs:
rùmula (nel Leccese a Novoli, Squinzano, nel Brindisino a San Pietro Vernotico).
rùmmula (a Lecce).
rùmulu (nel Brindisino a Brindisi, Latiano e Mesagne; nel Tarantino ad Avetrana, Manduria e Uggiano Montefusco.
rùmmulu (nel Leccese a Gallipoli e nel Tarantino a Sava).
lumbru (nel Brindisino ad Erchie, Francavilla Fontana, Oria e nel Tarantino a San Giorgio sotto Taranto).
lùmbaru (nel Leccese a Nardò). Debbo, però, dire che la forma corretta dovrebbe essere ùmbaru (anche se nato da lùmbaru per discrezione di l– inteso come componente dell’articolo: lùmbaru, l’ùmbaru>ùmbaru) perché al plurale ho sentiro dire li ùmbari.
lùmmiru e lùmmiru (nel Tarantino a Maruggio).
lumbre (nel Tarantino a San Giorgio sotto Taranto).
alùmbre (nel Tarantino a Ginosa).
umbru (nel Brindisino a Brindisi, Francavilla Fontana, Oria, San Pancrazio, Torre S. Susanna).
cararòmbula (nel Leccese a Corigliano).
cararòmbulu (nel Leccese a Galatina e Sogliano).
caròmbulu (nel Leccese a Neviano e Martignano).
caravòmbulu (nel Leccese a Galatina).
caratròmbulu (nel Leccese ad Aradeo)
scarabòmbulu a Bagnolo, Cutrofiano (localizzazioni presenti nel Rohlfs ma a me imperdonabilmente sfuggite) e a Collemeto in base alla preziosa informazione di Alfredo Romano che integra la prima scrittura in cui la voce era assente. All’amico spigolautore sono particolarmente grato anche perché la raccomandazione di nonna Maria Neve mi consente di ipotizzare che la prima parte sia ciò che rimane di scràscia/scaràscia e bòmbulu trascrizione dell’italiano bòmbolo (uomo piccolo e grassoccio, praticamente una palla…).
A costo di essere considerato pazzo… parto dalla fine affermando che lùmbaru potrebbe corrispondere all’italiano mòrula (stadio della segmentazione dell’uovo fecondato che si presenta come un aggregato di blastomeri, simile a una mora di gelso) che è dal latino scientifico mòrula, diminutivo del classico mora, neutro plurale di morum=frutto del gelso o del rovo.1
L’immagine spesso è più esauriente di mille disquisizioni e per rappresentare un probabile albero genealogico del nostro lùmbaru mi è sembrato che lo strumento più utile fosse il diagramma che segue, nel quale, partendo dalla considerazione che tutte le varianti sembrano sul piano fonetico tradire la stessa origine, ho considerato solo quelle che secondo me sono le tappe fondamentali nell’evoluzione del nome.
Se le cose sono andate veramente così il lummaru avrebbe avuto un’origine banale, meno complicata di quelle fin qui prospettate2, anticipando, addirittura, lo scientifico mòrula nato nel XIX secolo. Ma banalità, linearità e semplicità non sono, purtroppo, garanzia di verità…
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1 Nel latino classico esiste mòrula=piccolo indugio, ma è evidente che si tratta del diminutivo dell’omografo mora=indugio, dal verbo morari=attardarsi (non avente nulla a che fare con la nostra mora).
2 A complicare ulteriormente il quadro mi viene in mente il tedesco brombeere=mora di rovo; si tratta di una parola composta in cui il secondo componente (beere=bacca) è certo, mentre il primo (brom) potrebbe avere connessioni con il latino prunus=pruno.
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